Have a little fairy tale

di Cassie chan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Once upon a time ***
Capitolo 2: *** Walking in a dark forest ***
Capitolo 3: *** Deus ex machina ***
Capitolo 4: *** If you want the frog, then comes the prince! ***
Capitolo 5: *** To end up in the lion's den ***
Capitolo 6: *** Love will tear us apart... do you love somebody now? ***
Capitolo 7: *** Enchanted wood ***
Capitolo 8: *** Land of wonderland ***
Capitolo 9: *** Put a spell on her eyes ***
Capitolo 10: *** Din dong the witch is dead ***
Capitolo 11: *** A cuban fairy godmather ***
Capitolo 12: *** Turquoise&Crimson ***
Capitolo 13: *** Old curse and new charm ***
Capitolo 14: *** Echoes of past ***
Capitolo 15: *** Magic mirror ***
Capitolo 16: *** Artemis and Selen ***
Capitolo 17: *** Rose cherry flavoured ***
Capitolo 18: *** Searching for our dreams ***
Capitolo 19: *** Marvellous Tinkerball ***
Capitolo 20: *** Promissio gemina ***
Capitolo 21: *** Forbidden colours part I - The name of everything ***
Capitolo 22: *** Forbidden colours part II - Cerulean eyed girl ***
Capitolo 23: *** Forbidden colours part III - She's unreachable ***
Capitolo 24: *** A touch of madness in love and a touch of logic in insanity ***
Capitolo 25: *** Strangers since yesterday ***
Capitolo 26: *** Eternal sunshine of a spotless mind ***
Capitolo 27: *** Going toward entropy ***
Capitolo 28: *** Words I've never told you ***
Capitolo 29: *** Sinners purify sin ***
Capitolo 30: *** Love song requiem step one ***
Capitolo 31: *** Love song requiem step two ***
Capitolo 32: *** Love song requiem step three ***
Capitolo 33: *** Rising roses part I ***
Capitolo 34: *** Rising roses part II ***
Capitolo 35: *** Decaying rosebud ***
Capitolo 36: *** The butterfly effect ***
Capitolo 37: *** Red string of fate ***
Capitolo 38: *** Six degrees of separation ***
Capitolo 39: *** Measure for measure ***
Capitolo 40: *** You weren't there part 1 ***
Capitolo 41: *** You weren't there part 2 ***
Capitolo 42: *** Unraveled chains ***
Capitolo 43: *** The ballad of silver linings part 1 ***
Capitolo 44: *** The ballad of silver linings part 2 ***
Capitolo 45: *** No rest for the wicked ***
Capitolo 46: *** Disturbia, step one : about happenstance. ***
Capitolo 47: *** Disturbia, step two: about serendipity (part I) ***
Capitolo 48: *** Disturbia, step two: about serendipity (part II) ***
Capitolo 49: *** Disturbia, step three: about touch ***
Capitolo 50: *** Disturbia, step four: about what we’ve never had (I) ***
Capitolo 51: *** Disturbia, step four: about what we’ve never had (II) ' ***



Capitolo 1
*** Once upon a time ***


 
Le onde battono ritmicamente contro lo scafo, inargentato da una piccola e sorridente falce di luna. L’acqua produce un suono meraviglioso per le orecchie della ragazza, che sorride, sporgendosi per toccare con la punta delle dita la superficie dell’acqua. È fredda, rabbrividisce stringendosi nelle spalle, coperte da un piccolo vestito rosa con delle bretelle sottili di madreperla. Torna a guardare davanti a sé il ragazzo che sta remando con energia. Lui la guarda e le sorride, piegando la testa di lato. Poi le chiede: “Hai freddo?”.
Lei nega energicamente con il capo, è tutto così perfetto che le viene da piangere. Non riesce a distinguere bene nel buio il volto del ragazzo, ma sa benissimo di chi si tratta. Il ragazzo, di cui è innamorata; quello che quella stessa sera l’ha praticamente rapita, per farle una sorpresa. Oggi, tredici maggio… il giorno del suo compleanno. Si mette una mano tra i capelli ricci e castani, agitati da una piccola brezza, tipica di un lago montano nel mese di maggio.
“Avanti, Hermione, lo vedo che stai gelando!” sorride lui, mentre si sporge su di lei e le appoggia la sua giacca di panno azzurra sulle spalle. Lei sorride dolcemente, guardandolo, mentre lui si ritrae, riprendendo i remi tra le mani: “Sei sempre così orgogliosa… non è mica un reato avere freddo…!” prosegue lui, ridendo leggermente. Una risata innamorata, Hermione lo percepisce chiaramente. Una melodia celestiale nelle sue orecchie, una voce sicura e ferma che riesce a piegarsi in quella magnifica maniera, quando parla di lei oppure la guarda. Distoglie forzatamente lo sguardo da lui, mentre vede avvicinarsi la riva opposta del lago, che hanno iniziato ad attraversare una mezz’oretta prima. Un piccolo pontile di legno li sta aspettando. Raccoglie la sua piccola borsetta, e prende con particolare cura una scatoletta avvolta in una luccicante carta da pacchi celeste chiaro, che risplende luminosa nella notte primaverile. La apre con affetto ed accarezza con un dito i regali che lui le ha dato poco prima: una scatola di caramelle all’amarena di una marca particolare che lei adora, un rametto di fiori d’arancio, i suoi fiori preferiti. Lui la conosce così bene, sa tutto a memoria di lei. Sa i suoi gusti, le sue passioni, le sue esigenze; è la migliore cosa che le sia capitata, la tratta come una principessa. Sorride ancora, nelle narici il profumo di lui, muschio bagnato, lo riconoscerebbe tra mille.
Finalmente la piccola barchetta si ferma, e lui scende, attraccando. Lega la cima di una corda al pontile, poi le porge la mano, aiutandola a scendere. Mano nella mano, si incamminano diretti in un luogo che Hermione non conosce.
“Dove mi stai portando?” chiede lei, fiduciosa.
Lui sorride: “Sei troppo curiosa!”, si ferma all’improvviso e si guarda attorno. Hermione lo imita, ma vede solamente un piccolo boschetto, attraversato da un piccolo sentierino sterrato. Piccoli versi di animali notturni rompono la quiete notturna, odorosa di pioggia e profumo dei gelsomini notturni. Lui sorride tra sé e sé, e le lascia per un attimo la mano.
Si fruga nella tasca dei pantaloni ed estrae una sciarpa di seta bianca.
“E quella a che serve?”
“Adesso vedrai…” le risponde, mentre la raggiunge alle spalle e gliela lega attorno agli occhi. La bacia sulla guancia, facendola arrossire, e sussurra: “E’ una sorpresa, tesoro…”.
La trascina, tenendola per mano, attento che lei non inciampi. Salgono per un bel po’, lungo quelli che Hermione riconosce come piccoli sentieri di montagna. Li immagina bui e pieni di insetti, che lei detesta, e si stringe più forte alla mano di lui.
Finalmente lui si ferma. Le lascia la mano, ed Hermione rimane in attesa, attenta ad ogni singolo rumore. Lo sente armeggiare con qualcosa, poi il silenzio viene sostituito da qualcos’altro. Una canzone. La loro canzone. Quasi sobbalza, poi si porta le mani alla bocca, piccole lacrime di gioia negli occhi momentaneamente ciechi.
Lui le si avvicina, e le scioglie la benda. Mentre rimane alle sue spalle, stringendola per la vita con il viso al lato della sua guancia, Hermione vede finalmente dove sono, le note che ancora feriscono di dolcissimo dolore le sue orecchie e i suoi ricordi.
Lontana, nella vallata, si intravedono le luci luccicanti di Hogwarts, accompagnate a breve distanza da quelle di Hogsmeade.
Crede di riconoscere ogni luogo, lo soppesa con affetto, si volta e lo abbraccia forte, baciandolo con foga sulle labbra.
Lui sorride ancora, stringendola, e le sposta con affetto un ricciolo dalla guancia, dicendole: “Ti ho portato qui, perché tutto è cominciato qui… e vorrei che anche la nostra nuova vita cominciasse da qui… Hermione, mi vuoi sposare?”.
Lei scoppia a piangere, stringendolo ancora, mentre annuisce con il capo, incapace di parlare ancora. Le fa male la gola, e le parole non escono. Lo bacia con tutta la forza di cui è capace, abbracciandolo. Lui estrae dalla tasca una scatolina in velluto, che apre con un piccolo suono metallico. Sotto le stelle, nella notte, splende un altro astro, un piccolo diamante a forma di cuore che provvede ad infilarle all’anulare sinistro, mentre lei continua a piangere, le sue lacrime adamantine compagne delle stelle e del suo anello. Lo bacia ancora, mentre, come per magia, sente i piedi sollevarsi da terra e migliaia di lucciole apparire all’improvviso. Balla con lui la loro canzone, e luci di ogni foggia e natura splendono nei suoi occhi innamorati. E’ la sua fiaba. La sua piccola e stupenda fiaba.
“Ti amo Hermione…” le dice lui in un sussurro, mentre ballano sospesi nell’aria.
“Ti amo anche io…” si blocca a disagio, sta per dire il suo nome, ma non se lo ricorda. Terrorizzata, si stacca da lui, cadendo a terra. Prova dolore per la caduta, ma non è niente in confronto al suo sguardo ferito. Cerca di sforzarci, ma non c’è niente da fare. Il nome non le esce dalle labbra.
All’improvviso, tutto sembra distorcersi in un turbinio di colori. Hogwarts, Hogsmeade, la vallata, le montagne, il bosco… ed alla fine anche lui. Hermione piange disperata, poi urla di dolore, mentre anche lei si sente strappare via.
 
“Dean!” urlo, sobbalzando dal letto. Madida di sudore, allungo un braccio accanto a me, tra le lenzuola umide, solo per accorgermi che chiaramente lui non c’è.
“Che c’è?!” urla a sua volta lui dalla cucina.
Sospiro di sollievo, mi ha fatto prendere un colpo! Prima mi alzavo sempre io per prima, e adesso si diverte a fare il galletto che si sveglia alle sei e mezzo. E io mi alzo alle sette, non sono decisamente una dormigliona, anzi… se volessi, mi alzerei anche prima! Ma soltanto se volessi… in fondo, se non devo lavorare, essendo da ben tre mesi una disoccupata cronica, un’aspirante al sussidio mensile, un numero nell’ufficio di collocamento, e chi più ne ha più ne metta, che cavolo mi alzo a fare presto? Per girarmi i pollici, o per studiare?! Questo, prima lo facevo abbondantemente! Ma adesso che studio? L’orario dei treni, il ricettario di Suor Germana, o il catalogo di prodotti per la casa di Nonna Acetosella? E, comunque, nel caso ve lo state chiedendo, sì… non lo faccio perché li so già a memoria tutti e tre.
“Si può sapere che vuoi?! Mi hai fatto rovesciare mezza caraffa di succo di frutta!” sbraita ancora Dean dalla cucina. Mugugno nervosa, vai a vedere che l’aveva rovesciato già prima, ed ora dà la colpa a me! Un attimo, un secondo! Il succo di frutta! Quello all’ananas che, se non bevo alla mattina, mi viene una crisi nervosa?! Quello che centellino con sorsi di un millilitro per farlo durare di più?!!! E che tanto per cambiare, avendo finito i soldi, non potrò comprare fino al prossimo sussidio?! Quello, proprio quello?! L’UNICO VIZIO CHE HERMIONE JANE GRANGER SI CONCEDE NELLA SUA PICCOLA VITA??!!! IL SUO SOLO ED UNICO LUSSO?!!
Mi alzo dal letto che sono la brutta copia della strega di Blair. Quella ammazzava solamentequelli che entravano nella sua stupida foresta e si avvicinavano alla sua stupida casa, ma io, se Dean-Cervello-Spento-Thomas ha fatto quello che penso, ammazzo tutto il genere umano, partendo da quella specie di microcefalo che dovrebbe essere il mio fidanzato! Oddio, fidanzato è una parola grossa; come si chiama uno che di sabato si stravacca in poltrona a vedere il Quidditch, lascia in giro i suoi luridi calzini, e pretende che gli cucini la sera pollo fritto tre sere a settimana, considerandolo “alta cucina”? Questa, è la definizione di maiale, giusto. Aggiungiamoci che, giusto una volta al mese, andiamo al cinema assieme, ci baciamo sulle labbra e, a volte ma sempre per puro caso, andiamo leggermente oltre i bacetti, e troviamo una specie di fidanzato. Al massimo, arriviamo al fidanzato a mezzo servizio, se contiamo che dormiamo assieme nella stessa casa.
Mentre entro in cucina, inciampo in una delle sue maledettissime scarpe appositamente venute dall’inferno, quelle con i tacchetti che usa per il calcio. Che, tanto per dovere di cronaca, dovrebbero essere nel ripostiglio, non davanti alla nostra camera da letto in bella mostra di sé. Mi sfracello il piede, ed impreco, zoppicando, mentre raggiungo la cucina. Calma, Hermione, calma.Per la stizza, con il piede sano, prendo a calci la poltrona del soggiorno e Grattastinchi, che era appollaiato sopra, scappa via, soffiandomi contro. Stupido gatto, ci si mette anche lui. Arrivo in cucina, come un sopravvissuto ad un disastro nucleare o come uno che ha fatto un lunghissimo percorso ad ostacoli. Mi siedo stancamente su una sedia, massaggiandomi il piede che sta rapidamente diventando violaceo. Perfetto, non mi potrò neanche mettere le ballerine beige che mi ha regalato Ginny; oggi che è anche uscito il sole, e si sa che a Londra è un vero miracolo! Maledizione! Con lo sguardo rovente di rabbia, cerco l’artefice della mia rovina; e lo trovo intento ad asciugare poco più in là un enorme lago color giallo canarino, sparso per terra davanti al frigorifero. Un giallo canarino che assomiglia molto al succo d’ananas, al miosucco d’ananas! I miei occhi si stanno rapidamente trasformando in due spade e, se potessero, lo infilzerebbero, lasciandolo stecchito come uno spiedino, mentre io godo della mia vittoria, improvvisando una danza tribale.
“Ciao tesoro! Hai dormito bene?” mi fa lui con quell’aria innocente da piccola peste in colpa, che mi dà tanto ai nervi. Nemmeno Grattastinchi, quando si lima le unghie sulle poltrone del salotto, la sa fare così bene.
“Benissimo…” brontolo, alzandomi ed aprendo la credenza alla disperata ricerca di qualcosa di dolce. Se la mattina non mangio qualcosa che fa venire il diabete e che i dentisti mettono nelle liste nere, mi viene l’ulcera per il nervosismo. Deve essere una sorta di reazione inconscia a quando vivevo con i miei, i più pignoli dentisti dell’Inghilterra, che mi costringevano a lavarmi i denti almeno trenta volte dopo aver ingerito mezzo grammo di glucosio. Ora che vivo da sola, mi è venuto l’istinto di strafogarmi di dolcettini, cioccolato e caramelle, che nella mia dispensa non mancano mai. Mai… batto a terra il piede, come una bambina capricciosa, e chiedo innervosita: “Dean, hai mangiato tu la scatola dei miei biscotti al burro?!”. Se mi dice di sì, quant’è vero Iddio che lo getto da una finestra, pregando un tir di passargli sopra…
Si gratta la testa…
Non ci credo…
…prima il succo e adesso i biscotti!
“E io che mangio?!!” chiedo più a me stessa che a lui. Sto decisamente per avere una crisi nervosa… o mi danno una cosa dolce, fosse anche un chiodo di garofano con un po’ di zucchero spolverato sopra, o vado in escandescenze.
“Ieri sera, è avanzata un po’ di pizza…” dice timidamente, indicando il frigo “Io e Seamus non ce l’abbiamo fatta a finirla tutta…”.
Inarco un sopracciglio, in questi momenti so di fargli venire un attacco di panico perché gli ricordo troppo la McGranitt, che lui vedeva spesso in questa particolare espressione, essendo un Troll in Trasfigurazione. Quindi sa perfettamente che ha detto qualcosa di sbagliato. E la cosa sbagliata è che sa perfettamente che odio la pizza fredda. O meglio dovrebbe saperlo perfettamente; infatti, eccolo lì che si lambicca il cervello per cercare di capire che cosa ha detto di male. Nell’attesa, apro un altro paio di cassetti alla ricerca di qualcosa di edulcorato, tanto non è per adesso che ci arriva.
“Hai ragione, io e Seamus non dovevamo prendere la pizza extra gigante…” tenta, mentre io gli do le spalle infilata nell’ultimo cassetto della credenza.
Sospiro rumorosamente: “Dean… anche se costa ben tre sterline e mezzo, non me ne frega niente della tua stupida pizza…”.
“Anche se io e Seamus ci siamo addormentati davanti al televisore, e non siamo potuti andare alla mostra che volevi vedere?”.
“Neanche” borbotto, scavando nel cassetto come un cane da caccia.
“Anche se quando i Cannoni hanno segnato, abbiamo rotto la lampada del soggiorno…” aggiunge, pigolando.
Questa mi mancava, ora capisco quel fragore con il corollario della voce colma di bestemmie della signora Sanchez al piano di sotto, nostra padrona di casa. Per intenderci quella a cui paghiamo l’affitto, che questo mese dovrà pagare uno che evidentemente non abita in questa casa, dato che entrambi i due coinquilini non hanno mezza sterlina in due.
Sospiro ancora, trattenendo l’istinto omicida di scioglierlo nell’acido solforico. Bofonchio qualcosa che può intendere come un no.
“Anche se è venuto anche Ron a vedere la partita…” sussurra terrorizzato.
Che cosa??!!! Ho sentito bene??!! Ronald Bilius Weasley ha messo piede nella miacasa, ha respirato il mio ossigeno, ha calpestato lamiapolvere?! Mi accascio per terra, in ginocchio, credo che sto per sentirmi male. Non ho mangiato nemmeno un po’ di zucchero, ho per fidanzato una rapa secca, e Ronald Maledetto-al-giorno-che-l’ho-incontrato-su-quel-dannato-treno Weasley è entrato a mia insaputa a casa mia??!! Non è possibile, devono avermi fatto il malocchio.
Mi alzo, respirando a fondo. Espirare, inspirare, espirare, inspirare. Questo diceva il mio maestro di yoga al corso per diventare Auror; ma dopo dieci secondi in cui sembro un mantice, non sono neanche lontanamente calma come vorrei, anzi sto diventando color melanzana matura. Il traning autogeno non funziona per niente, e in fondo uno che faceva il maestro di yoga d’estate e vita ascetica d’inverno, che diamine ne può sapere? Non era nemmeno fidanzato, quindi che ne sa di quando ti capita uno che deve avere il cervello in rottamazione?
“F-fammi capire bene…” chiedo, alzandomi ed incrociando le braccia. Mi avvicino minacciosamente a lui, che indietreggia. Poi finisce contro il frigorifero e la sua corsa si arresta qui.
“Ti ho mai impedito di vedere i tuoi amici?” il tono di minaccia mi esce sempre benissimo. Unito poi a quello recriminatorio, è anche meglio.
Lui nega con il capo, balbettando: “N-no…”.
“Anche quando si parlava di Neville, che sporca dappertutto, o di Anthony Goldstein, che beve Whisky Incendiario come acqua? O ancora meglio di Ernie, che fuma quelle orribili sigarette alle violette che mi fanno venire un cerchio alla testa?!” ripeto, piantandogli un dito nello sterno.
Lui soffoca un gemito e nega ancora, terrorizzato.
“Mi sono mai minimamente lamentata che usciamo una sola volta all’anno, e che sabato quando esci dagli allenamenti, non mi porti mai a ballare, o da qualche altra parte?!” .
Nuovo tremante segno di diniego.
Continuo a brandire il mio indice perforante, alternando come obiettivo sensibile le sue costole, lo sterno e l’addome. Lui si ritorce dal dolore come il verme strisciante che è.
“Ti ho spaccato il cranio, quando hai messo la tua maglia rossa del Manchester United nella lavatrice, facendo diventare il mio bellissimo abito di lino bianco rosa shocking?!”.
“N-no, tesoro…”
“E ti ho per caso ucciso, quando ho trovato la pila di riviste pornografiche che tenevi nascoste sotto al letto?!”.
“Ma non erano mie, erano di Seamus!” tenta di ribellarsi lui timidamente, ancorando la mia mano omicida. Ma pensa che sono cretina?!! Mi stacco bruscamente da lui, riprendendo nella mia estenuante operazione di trivella umana.
“E adesso ti ho trucidato, quando hai versato il mio succo di frutta? Quello che dovrei bere solamente io, perché per me è vitale?!!” blatero, alzando la voce in tono melodrammatico. Sembro Violetta della Traviata poco prima che tiri le cuoia. La signora Sanchez non apprezza, perché ricomincia a battere la sua scopa contro il soffitto di casa sua, intimandoci di fare silenzio che suo marito sta dormendo. Che lei non lo svegli con quella sua voce, mi sembra altamente improbabile.
“Scusami, davvero… me ne ero completamente dimenticato!” fa lui, spalancando gli occhi meravigliato. Per un attimo, resto interdetta e rimango immobile, le mani protese verso di lui, adesso praticamente congelate. Possibile che viviamo assieme da un anno e passa, e lui non si ricorda che bevo tutte le mattine il succo di ananas? O peggio… un’ondata di brividi mi travolge in pieno… non lo sa proprio? Non se n’è mai accorto? No, non è possibile… insomma, che cavolo! Lo compro ogni sabato, prendo un brick da tre litri, e lo bevo tutte le mattine! È solamente cretino! Sarebbe il colmo dei colmi, se non lo sapesse! Lo sanno anche Ginny, Lavanda, Luna, Harry, e persino quel celebroleso di Ron… un attimo! Era di quello che stavamo parlando! Il celebroleso!
“Insomma!” urlo, riprendendolo per il collo della camicia azzurra che porta, quella che gli ho regalato io per il suo compleanno “Nonostante il delicato fatto del succo di frutta, non è quello che mi interessa adesso! Ieri, hai invitato qui Ron?! E come te ne sei uscito?! Non ti ricordi che cosa mi ha fatto?! Che cosa ci ha fatto?!!”.
Lo lascio andare, permettendogli di rispondere; se continuavo a stringerlo così, non avrebbe potuto rispondere mai più a nessuna domanda di nessun genere da parte di alcuno.
Lui si porta, esageratamente a mio dire, la mano attorno al collo diventato solo leggermente rosato. Mi dà le spalle, aprendo lo sportello del frigorifero e prendendo una lattina di cola. La apre, strappando la linguetta, e inizia a berla, dopo essersi seduto sul tavolo della cucina. Assume la sua consueta espressione da James Dean, rimanendo a gambe semidivaricate, e torna a guardarmi. E’ in questi momenti che mi ricordo, anche se abbastanza vagamente, perché mi sono messa con lui; capelli color sabbia, occhi castano chiaro con piccole scintille dorate, fisico asciutto e muscoloso, esaltato dalla camicia azzurra e dai pantaloni stretti neri. Insomma, un David Beckham dei poveri. È proprio un bel ragazzo, e lo sa.  Mi ricordo una frase che diceva sempre Ginny, dopo che si era lasciata con lui… per trovare il suo cervello, devi scavare un po’. Ma in fondo scavi in un bel figo, quindi non è totalmente tempo perso!
Mi viene da sorridere, ma ricaccio la risata indietro. Stavolta l’ha fatta proprio grossa!
“Ascolta, piccola…” mi dice, prendendomi per il polso e trascinandomi di fronte a lui. Mi trattiene con le mani appoggiate sui miei fianchi, mentre io cerco di restare impassibile, le braccia conserte. D’accordo, non sono totalmente impassibile, ma non importa! L’importante è che lui lo pensi, no?
“So che sia Ron che Lavanda ci hanno fatto male…” mi dice, la voce carezzevole, avvicinandomi di più a lui “Ma ormai sono passati tre anni… e tra altri due, sarà tutto finito, Herm. Tu sarai di nuovo la più brava delle Auror, e ci compreremo una bella casa nel centro di Diagon Alley, proprio accanto alla gelateria di Fortebraccio. Così anche nel cuore della notte, mi comprerò tutto il gelato che voglio. Dobbiamo solo avere un po’ di pazienza…”.
Annuisco leggermente, so che ha ragione, ma mi dà enormemente fastidio ammetterlo.
“E’ solo che…” rispondo, guardandolo finalmente in viso. Deglutisco e porto le mie braccia attorno al suo collo, stringendolo a me. Finalmente mi decido a continuare: “Non voglio che venga a casa nostra… non voglio che invada ancora il mio mondo, questo piccolo mondo che ci siamo ricostruiti a fatica. Lavanda passi, ma lui non lo sopporto a casa mia!”.
Dean chiaramente freme per contraddirmi, ma sa benissimo che non può. Glielo ho detto mille volte che Ron non deve mettere piede dove sono io, già da grande ragazza magnanima che sono, gli concedo di vivere sul mio stesso pianeta e nella mia stessa galassia, non gli basta? Che razza di ingrato…
“So che voi continuate a vedervi…” dico, staccandomi da lui.
“E’ Seamus che continua a vederlo, non io! Se lo porta dietro, io che dovrei fare? Scannare prima lui, e poi Ron??!!” mi risponde, sollevandosi dal tavolo e raggiungendo camera nostra, visibilmente stizzito ed irritato.
Lo seguo, attraversando il piccolo salotto del nostro appartamento. Sospiro ancora tra me e me, non ho voglia di litigare, ma mi sa tanto che stamattina non sarà storia. Come sempre, Dean, per mettere le cose a posto in fretta ed in maniera relativamente indolore, inizia a sparare balle in quantità industriale. E’ un campione in materia e, per questo, lui e Lavlav sono stati assieme per cinque anni, prima di farla finita. Giocavano a chi la sparava più grossa. Peccato che io non sono la Brown, la ritardata che pensa solamente ai trucchi e a vestiti e a come abbinarli tra loro. Sono pure troppo intelligente, a volte vorrei essere più stupida.
Mi fermo davanti alla porta del bagno, mentre lui davanti allo specchio si fa la barba. Ovviamente spargendo schiuma su tutto lo specchio, essendo un imbranato cronico. Ed ovviamente lasciando tutto così… già lo so che pensa…tanto Hermione che fa dalla mattina alla sera? Niente! Io lavoro al Ministero, lei almeno qualcosa deve pur farla. Se mi metto anche a pulire, finisce proprio male. Si impigrisce e non fa più niente di niente!
Decido di prendere il discorso alla larga, tessendo una abile tela per farlo capitolare, l’ingenuo. È peggio di una mosca troppo cresciuta e a me piace troppo fare il ragno della situazione. Ragno… mi faccio paura! Ho sempre idee fin troppo perfette.
“E’ davvero una cosa impossibile che Ron e Seamus continuino a vedersi, non credi?” inizio con tono noncurante “A scuola, non si sopportavano… o meglio facevano finta di sopportarsi per te e per Harry… che cavolo hanno in comune, non lo so… a parte la passione per gli insetti, specie i ragni… ma per il resto…”.
Attendo che il mio piccolo pesce abbocchi all’amo. Tre, due, uno…
“Infatti, Herm…” mi dice il merluzzo con cui vivo “Si vedono perché a entrambi piacciono molto i ragni. Pensa che barba, quando esco con loro! Stanno sempre lì a confrontare esemplari in scatola. È una vera noia mortale!”.
Sorrido tra me e me. Il merluzzo ha abboccato fin troppo facilmente. Che pizza, volevo maggiore soddisfazione, magari un po’ di resistenza! Con Dean, è veramente troppo semplice farlo cadere in trappola.
“Dean…” ribatto seria, appoggiandomi allo stipite della porta “Seamus e Ron non si sopportano da anni”, la mia voce diventa quasi quella di una maestra elementare, mentre soggiungo: “E quel che peggio è, che dire che Ron è aracnofobico, è dire poco!”.
Lui chiaramente sbianca, colto sul fatto. Fa finta di essere tranquillo, mentre si asciuga pensosamente il viso con l’asciugamano, ma so che questi fatali secondi gli servono per elaborare un’altra bugia. Sospiro, è così maledettamente prevedibile… ed altrettanto prevedibilmente, non arrivando una soluzione, si gira rosso in viso, nervoso per lo sgambetto che gli ho fatto.
“E allora perché mi hai detto che avevano tutti e due la passione per i ragni?!” mi urla contro, mentre io rimango passivamente a braccia incrociate, ignorando il suo sfogo di ira repressa. Va sempre su di giri, quando scopro le sue chiacchiere.
“Perché volevo che tu mi dicessi la verità… cosa che chiaramente fai molto di rado…” rispondo per nulla intimidita dal suo tono violento di voce “Preferisco che tu mi dica che vedi Ron, piuttosto che menta in maniera disgustosamente intuibile…”.
“Ma se prima stavi per uccidermi quando ti ho detto che vedo Ron? Le mie costole portano ancora i segni… o me li sono fatti da solo?!” grida ancora, venendomi contro e sovrastandomi con la sua altezza certamente superiore alla mia.
Anche questo è uno spettacolo trito e ritrito. Sto quasi per sbadigliare per dare più senso drammatico alla patetica scenetta quotidiana, ma mi trattengo. Mi verrebbe troppo da ridere.
“Non è mica un buon motivo per raccontarmi una balla colossale, Dean!” urlo anche io, fronteggiandolo. Sinceramente non sono poi così tanto arrabbiata, ma per non deluderlo gli do corda. Lo conosco ormai troppo bene, e so perfettamente che mi mentirà sempre. È un discorso fatalistico, lo so, ma è meglio questo che credere in maniera inutile di poter cambiare un uomo. Le donne che lo pensano sono solo delle povere illuse.
Lui mi sorpassa e raggiunge camera nostra, prendendo dall’armadio la sua giacca e la valigetta di cuoio. Essendo di origini babbane, si veste perfettamente da persona normale, non come Ron che si vestiva in una maniera assurda, quando dovevamo andare in giro per Londra. Ma, dovendosi Smaterializzare e lavorando al Ministero della Magia nell’Ufficio per la Cooperazione Internazionale, mi chiedo sempre perché mai lo faccia. In fondo, chi cavolo lo deve vedere? E poi in Ufficio, sono tutti maghi… vestendosi da babbano, non corre il rischio di essere preso in giro come un povero allocco?
“Ed invece sì… è un buonissimo motivo…” prosegue lui. Per un attimo, lo guardo sconcertata, avevo perso il filo del discorso. Spesso quando parlo con lui, la mia mente vaga ed insegue pensieri non molto razionali. Mi piace spesso passare nella mia mente da una cosa all’altra, la mia maestra delle elementari diceva che era un ottimo metodo di apprendimento fare associazioni di idee, e così non mi sono repressa mai, anzi ho incoraggiato la mia tendenziale capacità di evasione. Poi, con Dean la mia mente può tranquillamente farsi un giro di palazzo, saltellare un po’, prendersi un bel gelato, e tornare giusto in tempo per replicargli qualcosa di acido, senza rischio di essermi persa niente di vitale.
Ritorno malvolentieri alla realtà: “E perché mai sarebbe un buon motivo?”, non mi riesce nemmeno più fingere di essere arrabbiata. Sono mortalmente stanca di queste litigate quotidiane e del loro tono. Mi ricordano enormemente quelle che facevo ad Hogwarts con Ron. E ciò mi dà fastidio: 1) perché pensavo di aver decisamente archiviato quel lato di me 2) perché tutto quello che mi ricorda Ron mi fa venire il nervoso.
“Il buon motivo sarebbe che sei capace di farmi paranoie assurde per ogni cosa…” inizia in tono scocciato “Tutto perché ti fissi sulle cose e non molli più… dovresti essere più elastica, Hermione…”.
“CHE COSA?!!” inizio a gridare come un’ossessa; se anche questa fosse una finta rabbia, sarei veramente un’attrice da Oscar, ma io sono sempre stata fin troppo cristallina, e ADESSO sono veramente arrabbiata! Cioè arrabbiata è un pallido eufemismo, sono incazzata nera! Allora, premettiamo che essendo una persona estremamente razionale, non mi arrabbio così tanto di solito. Spesso mugugno e brontolo, ma cerco di reprimere le mie reazioni eccessive. Una sola persona aveva il dono di farmi completamente le staffe, tale Ronald Weasley che ha frequentato Hogwarts nello mio stesso periodo, è stato un Grifondoro come me, è stato il migliore amico con me di Harry Potter ed è stato assieme a me per tre anni e cinque mesi. Quindi, si può dedurre che, se Dean non mi fa mai incavolare tanto, questa frase doveva essere tipica di Ronald Weasley. Poco prima che ci lasciassimo, lui blaterava sempre sul fatto che io ero troppo poco elastica. Potete dirmi che sono brutta, stupida, persino un’asina nello studio di prima categoria, e nel caso, convocare Draco Lucius Malfoy per avere manforte negli insulti contro la mia persona, ed avrete solo un’alzata di spalle. Ditemi che sono poco elastica e vi siete scavati da soli la fossa.
“Sei pocoelastica, te lo ripeto… non scendi mai a compromessi con te stessa…!” ripete Dean, come se stesse parlando ad una bambina deficiente.
“Io scendo fin troppo a compromessi con me stessa!” urlo ancora, agitando i pugni praticamente lividi, poi colta da un’improvvisa ispirazione, soggiungo: “Se non fossi scesa fin troppo a compromessi con me stessa, ora certamente non starei con te…”.
Ho detto troppo, lo so, e infatti vedo Dean girarsi a guardarmi prima incredulo, poi stupito, infine imbestialito. Ma ha sottovalutato il potere della parola Elastica con avverbio Poco; l’orgoglio mi scorre nelle vene a fiotti.
“Che cosa hai detto?!” mi chiede lui, avvicinandosi a me, rosso in viso. Decisamente non sembra il bel ragazzo di prima, in cucina. Ha le nocche bianche a furia di stringerle.
Senza ombra di esitazione, quasi come se da questo dipendesse la mia stessa vita, ripeto le stesse identiche parole di poco prima.
Lui stringe le labbra con rabbia, poi mi afferra per le spalle, scuotendomi: “Significa forse che tu sei evidentemente troppo per uno come me?! La grande Hermione Jane Granger meriterebbe di stare con il principe d’Inghilterra, ed invece sta solo con il povero e deficiente Dean Thomas!! Stiamo assieme da un anno e mi fai questi discorsi…”, la presa delle sue mani si allenta fino a lasciarmi andare. Le braccia ricadono lungo i suoi fianchi, evita il mio sguardo e poi alla fine dice: “Hermione, non sei costretta da nessuno a stare con me. Ma è ben chiaro che ogni giorno ti imponi questa cosa, per chissà che assurda ragione. Sarò anche troppo stupido per capirla, evidentemente, ma non sono così masochista da continuare a viverla ‘sta sceneggiata. Tu non sei innamorata di me, né mai lo sei stata. Quindi lasciamo perdere che è meglio…”.
La sua voce è stranamente cambiata, si è fatta più dolce ed infinitamente malinconica. Mi fa male dentro, come un’assurda nostalgia che mi imporrebbe quasi di fermarlo, di stringerlo e baciarlo. Ma non lo faccio. Invece, resto immobile, mentre lui raccoglie le sue cose, lascia le sue chiavi in cucina, apre la porta e se ne va.
Solo quando sento i suoi passi sulle scale, sento l’orgoglio di poco prima evaporare come aria.
Come una stupida, sussurro tra le mie labbra nella casa vuota: “Vuoi dire che mi stai lasciando, Dean?”.
Mi porto le mani alla bocca, nauseata sia per quello che ho detto, sia perché praticamente sto parlando da sola. Grattastinchi si viene  a strofinare sulle mie ginocchia, ma lo ignoro, sedendosi sul letto, dal lato dove dorme sempre Dean. E, sebbene non me lo aspetti da me stessa, mi porto il viso tra le mani e inizio silenziosamente a piangere.

 

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Capitolo 2
*** Walking in a dark forest ***


Capitolo 2 – Walking in a dark forest

Capitolo 2 – Walking in a dark forest

 

 

Parliamoci chiaro, io non sono mai stata innamorata di Dean Thomas.

Questo sembra essere piuttosto chiaro.

In effetti, è abbastanza strano che io non riesca a smettere di piangere, che mi senta così vuota ed, al contempo, così maledettamente sola. Mi sento come una barchetta in mezzo al mare, abbandonata nei flutti di una tempesta nera e minacciosa di cui non vedo la fine.

E questo è tremendamente strano.

Allora, chiariamo una cosa. Può sembrare enormemente strano che io mi meravigli di essere disperata perché il mio ragazzo se n’è andato di casa, e soprattutto che ammetta candidamente di non amarlo, pur vivendo con lui da un anno e mezzo. Le cose strane, come insegnano tutti gli scienziati e i filosofi, però, hanno sempre una spiegazione, a volte persino più razionale di quella delle questioni su cui esistono fior fior di teoremi e di leggi. Quindi anche questa cosa ha una spiegazione, e la sua spiegazione si comprende facilmente alla luce di quello che mi è successo in questi anni.

Allora, tutto è cominciato l’ultimo anno ad Hogwarts. Silente era morto, ucciso a tradimento da Severus Piton; l’Ordine della Fenice aveva perso il suo capo indiscusso e la figura certamente più potente. Silente era stata l’unica persona di cui effettivamente Voldemort aveva mai avuto paura, ed ormai non c’era più. Quell’estate, Harry aveva deciso di andare da solo a cercare gli Horcrux e anche io e Ron avevamo deciso di aiutarlo. Furono due anni molto difficili, avevamo viaggiato per tutto il mondo magico, ma alla fine ce l’avevamo fatta. Distrutti gli Horcrux, Harry era riuscito con il mio aiuto e quello di Ron a battere definitivamente Voldemort. Era stato difficile, estenuante, e non credo che dimenticherò mai né quel giorno, né quei due anni passati a vagabondare sulle tracce di minimi indizi dei preziosi pezzi d’anima di Voldemort. Se distruggere gli Horcrux era stato qualcosa di nemmeno lontanamente immaginabile come facile, distruggere Voldemort era stata la parte peggiore; nonostante avesse perso gli Horcrux, era sempre uno dei più grandi maghi di tutto il mondo. E io, Ron ed Harry non eravamo null’altro che tre diciottenni che non avevamo neanche finito, con mio sommo orrore al pensiero, l’ultimo anno di istruzione magica. C’è anche da ricordare che per distruggere uno solo di quelli Horcrux, Silente si era indebolito a tal punto da non opporre resistenza, quando lo avevano ucciso. A volte, nel cuore della notte, ricordo ancora le prove terribili che ci sono state imposte, e le loro tracce non se ne andranno mai. Io e Ron, sebbene non avessimo una profezia alle spalle come Harry, cercavamo sempre di dividere equamente le cose con lui, in maniera che rimanessimo sempre tutti e tre vivi e nessuno dovesse sopportare di più rispetto agli altri, perché quel più poteva essere il piccolo passo da compiere nel cammino che ci portava alla morte. Insomma, davvero la nostra unione è stata la forza. Sono stata fino all’anno scorso in cura da una specie di psicologa magica ed ancora adesso ho una ferita magica sullo stomaco, che riprende a sanguinare nelle notti di novilunio, ma sono abbastanza razionale per sapere che poteva andare decisamente molto peggio. Harry deve bere dieci pozioni diverse al giorno per contrastare gli effetti dell’ultima maledizione di Voldemort e Ron ha ferite sparse come me, ma l’ho detto, poteva andarci molto peggio. Nell’ultimo scontro, se non fosse stato per l’Ordine della Fenice, gli Auror, i membri dell’ES e, stranissimo a pensarci, anche per Draco Malfoy, che era passato dalla nostra parte, probabilmente non ce l’avremmo fatta. Ma, proprio come aveva intuito Silente e come al contrario mai aveva capito Voldemort, l’unione delle persone rendeva possibile ogni cosa; quello che una persona tenta di fare da sola, non sarà mai neanche la metà del risultato che si può ottenere, chiedendo aiuto a qualcuno. Se Harry non si fosse lasciato aiutare da me e da Ron, forse sarebbe morto alla distruzione del primo Horcrux. E se tutti e tre fossimo stati troppo tronfi di orgoglio da rifiutare l’aiuto degli altri nell’ultima battaglia, anche quello per noi quasi aberrante di Draco Malfoy, Voldemort ora sarebbe il Signore incontrastato del Mondo magico e no. Comunque, indipendentemente da come erano andate le cose quel giorno, dopo tutte le nostre vite si sono più o meno separate; ognuno, per fortuna nostra, aveva ancora in serbo i suoi sogni e i suoi sentimenti e, dopo un periodo di letargo forzato a causa della guerra e del suo tipico appiattimento nel presente e nella necessità del sopravvivere, tutti siamo tornati a pensare serenamente al futuro. Ci sono persone che non vedo da anni, che ne so, Luna Lovegood, Calì Patil o anche lo stesso Draco Malfoy, anche le persone che vedo sempre sono lontane nelle intenzioni da me; nessuno è più disposto a sacrificare nessuno dei suoi sogni, anche se dovesse costare separarsi da chi si è amato di più. Harry, per esempio, dopo una carriera sfolgorante, è diventato il Ministro della Magia ed ovviamente è sempre carico di impegni, e chi lo vede? Ron è diventato un Portiere famoso di una squadra importante, non so come si chiama, ma fa soldi a palate. Ginny è una Medimaga e, incredibile ma vero, Neville Paciock insegna Erbologia nella rinata Hogwarts. Sembrerebbe strano pensare a tutto questo, soprattutto considerato quello che io sono diventata. Ognuno di noi sembrava perfettamente inserito in un tracciato, in un sentiero preciso, ma poi quello che sembrava dovessimo essere si è trasformato in un ricordo. Infatti, io, quella che forse ci sarebbe stata bene ad essere la sostituta ufficiale della McGranitt, sono invece diventata il capo dell’Ufficio degli Auror. Certo, ci si aspettava che lo fosse Harry, ma credo che dopo una vita passata a barcamenarsi tra le forze oscure, il bambino sopravvissuto ne fosse decisamente stanco. Io, invece, nonostante volessi diventare un insegnante, ho scelto questa strada, dopo gli anni di battaglie che mi hanno sì terrorizzata, ma dato una carica ed una forza che prima certamente non possedevo. Diventare un auror è stato abbastanza semplice, in fin dei conti dalla guerra ero uscita con una sfilza di riconoscimenti ed encomi ed avevo più esperienza di molti altri auror più anziani di me. In poco tempo, poi, sono diventata il capo dell’Ufficio e sono riuscita a sgominare molte azioni dei residui Mangiamorte. Sembra un necrologio, la successione delle azioni meritevoli di lode nella mia esistenza e nella mia carriera, ed effettivamente è proprio così. Ora, io non sono niente di tutto questo; né un Auror, tantomeno il loro capo e, soprattutto, non sono neanche una strega. E non lo sarò per altri due anni.

Mi alzo dal letto e raggiungo la cassettiera della mia scrivania; distrattamente, apro un cassetto e frugo tra le mille cose che ci sono lì, sorrido per una fotografia di me e Dean l’anno scorso, e finalmente trovo quello che cercavo. Una collana d’oro giallo con un ciondolo quadrato, smaltato di un bel rosso acceso. Il gancetto, che serve per chiuderlo, è rotto da anni; cosa perfettamente inutile perché questa collana non l’ho indossata mai. Non perché non mi piaccia, non perché è rotta, ma perché non è mia. La giro tra le mie dita e leggo cosa vi è inciso sul retro del ciondolo… una frase piccola ed apparentemente innocente… una frase d’amore, però anch’essa non per me. Alla mia Eloise... quando non sarai più parte di me, ritaglierò del tuo ricordo tante piccole stelle, e il cielo diventerà così bello che tutto il mondo si innamorerà della notte. La stringo un po’ tra le dita, forte, le mani che mi fanno male, tese a pugno. Per questa collana, per averla, io ho perso tutto. Una volta, la mostrai a Ginny. Lei mi guardò sconvolta e me la strappò dalle mani tra le mie proteste, voleva gettarla via, le sembrava inconcepibile che la conservassi con tanta cura maniacale. Riuscii a riprendermela e le dissi che non era un gesto di follia, era solo un monito per ricordarmi per sempre quello che era successo, in modo da non ripetere gli stessi errori una seconda volta. Ricordo che cosa replicò Ginny drammaticamente. Che errori avresti fatto Hermione? Non hai sbagliato in niente, a parte se si deve considerare l’amare un errore.

Tante volte, tanto tempo, oserei dire infinite volte, infinito tempo io invece avevo pensato il contrario.

Io e Ron ci eravamo messi assieme il giorno successivo al matrimonio di Bill e Fleur e quello precedente alla partenza assieme ad Harry. L’ultimo giorno normale che avremmo vissuto per almeno due anni; ancora adesso, lo ricordo come il giorno più bello della mia vita. Era giugno e faceva ancora fresco, era una serata piena di stelle cadenti ed io, Harry, Ron e Ginny eravamo sul tetto della Tana a guardare le stelle. Nessuno, a parte noi tre e Ginny, sapeva che saremmo partiti il giorno dopo all’alba. Nonostante ci dovessimo alzare presto e fossero già le tre di notte, non andavamo a letto. Restavamo in silenzio, le scie delle meteore negli occhi, esprimendo il solo desiderio che tutti avevano nel cuore. Essere ancora vivi l’anno prossimo per poter guardare ancora le stelle, tutti assieme ovviamente. Non bastava che fossimo in due o in tre, dovevamo esserci tutti. Dal primo all’ultimo. Ginny era accoccolata tra le braccia di Harry e piangeva in silenzio, me lo ricordo come se fosse ieri. Vedevo solo le sue lacrime scendere e lei non parlava, non diceva niente di niente, neanche singhiozzava. Io abbracciavo Ron. Non mi disse niente di speciale per tutta la sera, anche per me e per lui non c’era nessuna parola sufficiente e valente di significato. Solo all’alba, lui mi disse sottovoce, accarezzandomi la testa: “Non sopporterò di morire se prima non ti avrò detto questa cosa. E dato che è molto probabile, è meglio che te lo dica subito”. Per la prima volta nella mia vita, rimasi in silenzio, intimamente credo che sapessi perfettamente che cosa stava per dirmi.  Mi voltai verso di lui, mentre lui sussurrava, la fronte appoggiata sulla mia tempia e il respiro sulle guance: “Sono innamorato di te, Hermione, non so nemmeno io da quanto. Vorrei stare con te, ma se non è possibile, basta che te l’abbia detto stasera… prima che, insomma…”. Sorrisi ai suoi balbettii, mi era già sembrato strano che non avesse tentennato nella sua dichiarazione. Io, che sono sempre così prolissa, non dissi assolutamente nulla, mi appoggiai meglio a lui e rimasi immobile e in silenzio, con un tenue sorriso sulle labbra. Ron capì e mi strinse più forte, baciandomi sulla fronte. Mi decisi a baciarlo veramente solo quando mi accorsi che Harry e Ginny si erano addormentati, la luce dorata che mi faceva piangere, il mio cuore che si librava senza preoccupazione alcuna.

Siamo stati assieme tre anni.

Paradossalmente, al contrario di quello che si possa pensare, il più difficile è stato l’ultimo, non i primi due, quelli del viaggio. Gli anni del terrore, gli anni della paura, gli anni di quella ricerca che alcuni momenti sembrava così vana ed inutile, sono stati per noi due i migliori. Perché? Per paura. Solo per quel timore che mi ingombrava le viscere tutto il giorno, che stringeva il respiro la sera quando andavo a letto e mi chiedevo se la mattina mi sarei svegliata, che mi gelava il sangue quando mi svegliavo la mattina e mi chiedevo ossessivamente se non era forse l’ultima volta che vedevo il sole… per quell’angoscia, ogni volta che constatavo che, nonostante tutto, ero ancora viva, tra me e Ron le cose andavano bene. Non volevo litigare con lui, se poco dopo dovevamo affrontare un nuovo ostacolo; non volevo rispondergli male, se subito prima ci eravamo salvati per miracolo da un gruppo di Mangiamorte; non volevo contraddirlo, se si avvicinava sempre di più la battaglia con Voldemort e sembrava sempre più insormontabile. Mi bastava essere ancora viva, e che lo fossero anche Harry e Ron. Il resto non contava; era istinto di sopravvivenza, era voglia di vivere fino all’ultimo secondo, era terrore, io non lo so. Comunque, nonostante l’inferno che mi circondava, era come essere sospesi in una bolla luminosa, che volteggiava sopra quel delirio. Non veniva scalfita, solo sfiorata. Ho ingoiato dosi per me letali di orgoglio, ho vinto le insicurezze, ho sconfitto le incertezze solo per un attimo ancora di vita con lui. Quando lui mi chiese di fare l’amore con lui, non ci pensai nemmeno mezzo secondo. Stavamo assieme da neanche due settimane, e, quando lui aprì la bocca per farmi quella domanda, non lo feci nemmeno finire. Mi aprii la camicetta, presi tra le mie la sua mano portandola sul mio seno, facendomi baciare da lui, avido della vita che moriva attorno a noi sempre di più, lasciandoti superstiti di un mondo in cancrena. Ogni sera, nonostante fossimo feriti, nonostante alle volte faceva male, nonostante fossimo stanchissimi, nonostante Harry potesse sentirci, ripetevamo il nostro rito, quasi come una danza propiziatoria. Urlavo silenziosamente al cielo, grata che nonostante tutto fossi davvero ancora viva, riconoscente a lui, e lui riconoscente a me. Se la morte non aveva toccato i nostri corpi, non toccava ancora la nostra anima, che non si accartocciava su sé stessa, agghiacciando, ma sapeva ancora infiammarsi di vita.

Lessi una volta una frase su qualche libro; una donna innamorata diceva: “Ci sono solo due giorni a cui non penso: ieri e domani”.

Quando la guerra finì, improvvisamente esistevano sia l’ieri che il domani. Li avevo sempre beatamente ignorati, l’ieri perché non potevo bearmi di quello che avevo già superato, essendoci ancora tanto da fare; il domani, perché non potevo crogiolarmi in esso, se non sapevo nemmeno se sarebbe esistito. A poco a poco, invece, non appena arrivammo faticosamente alla pace, c’erano entrambi ed erano sempre più importanti dell’oggi. Ieri c’era stata la ricorrenza che avevi scordato, la lezione che avevi saltato, la bolletta che non avevi pagato, la parola che non avevi sopportato; domani ci sarebbe stato l’esame per la fine del mio corso, il provino di Ron per la squadra di Nashville, la convivenza, forse il matrimonio con figli annessi e connessi.

Iniziammo a litigare sempre più spesso. Per cose sceme, per cose importanti, per cose sceme per lui ed importanti per me, e viceversa.

Io dicevo che era troppo immaturo, lui che ero troppo rigida, troppo poco elastica.

Proprio come accadeva ad Hogwarts. Ma peggio.

Stavolta non c’era Harry a fare da paciere. Stavolta eravamo anche fidanzati.

Le cose, se possibile, peggiorarono quando andammo a vivere assieme. Vivevamo nello stesso appartamento dove vivo adesso con Dean. Era lontano da dove lavoravo io e lontanissimo da dove lavorava lui; tornavamo a casa tardissimo, stanchi e nervosi, pronti a rimbeccarci in qualsivoglia occasione. Guardavamo un po’ di tv in silenzio, e poi a letto. Ovviamente a dormire.

Ma, davvero, nemmeno per un attimo, smisi di crederci a me e a lui assieme.

Era il mio destino stare con lui. Eravamo sopravvissuti a Voldemort, non potevano spaventarci le liste della spesa, le fatture da pagare e l’affitto. Lui era il mio principe azzurro da tutta la vita, stare con lui era ogni giorno una fiaba.

Questo pensavo, da sciocca allocca quale sono.

Una sera, Ron non tornò a casa. Lo aspettai tutta la sera fino alle tre del mattino, quando mi appisolai su una sedia in salotto. Lui tornò poco dopo, aprendo la porta quatto quatto. Sobbalzai e mi alzai, chiedendogli dove diamine fosse stato. Esattamente come Dean oggi, mi mentì. Mi disse che era uscito con Seamus, Neville e Dean con Lavanda, ed avevano perso la cognizione del tempo; mi baciò mentre andava in camera nostra, e mi raccontò più o meno che cosa si erano detti. A quanto pareva, Seamus aveva fatto richiesta di trasferimento a Eton per finire gli studi dato che il padre voleva che prendesse contemporaneamente un titolo di studi babbano e Lavanda, invece, stava seriamente pensando di iscriversi ad un corso per la Cura delle Creature Magiche, e quindi aveva chiesto aiuto a Bill. Chiese invece a Ron di aiutarla per gli scritti.

Quella notte, non dormii. Pensavo e ripensavo a quello che aveva detto Ron e a come mi sembrasse strano. C’era qualcosa che non tornava, non sapevo se per Seamus o per… Lavanda…

La mattina me ne dimenticai.

La sera, Ron non tornò ancora. Andava a dare ripetizioni a Lavanda.

Per cinque sere, la stessa storia.

Lo aspettavo, ma lui non tornava. La mattina era gentilissimo, mi portava la colazione a letto, contornata di fiori freschi. Era diventata una sfida, ogni giorno un fiore diverso, solo perché non ricordava quale fosse il mio preferito.

Ridevo e finalmente pensavo che le cose andassero meglio.

Fu il giorno che lui mi portò a letto un mazzo enorme di fresie che accadde tutto.

“Vado con Dean all’esame di Lavanda. In fondo, l’ho preparata io!”.

Sorrisi, mentre lui mi baciava e chiudeva la porta. Ma mentre analizzavo una sfilza di documenti sull’omicidio di una famiglia intera da parte dei Mangiamorte, mi ricordai una cosa.

Era sabato.

Il sabato non si fanno esami alla sessione per la Cura delle Creature Magiche.

Lo sapevo perché, per caso, lo avevo letto in bacheca un pomeriggio di qualche giorno prima, mentre aspettavo di vedere il Ministro Potter. Quell’informazione si era infilata come un serpente tra i miei pensieri, tornando a galla nel momento meno opportuno.

Dov’è andato allora Ron?

Chiamai Dean e gli chiesi che giorno c’era l’esame. E lui candidamente ed ingenuamente mi rispose che era la settimana prossima. Anche lui era così innamorato di Lavanda che non riuscii a dirgli nulla. Gli chiesi dove era lei, e mi rispose che era andata con Ginny a fare spese. Ovviamente Ginny era a casa sua, che imprecava per l’esame di Anatomia elfica.

Non feci nulla, fino alla sera successiva. Avevo sentito tutti i nostri amici, e sapevo perfettamente che cosa avrebbero fatto quella sera.

Herm, che fai stasera?”.

“Sono stanca, Ron, credo che andrò a letto presto… ma tu esci pure!”.

“Che pizza, volevo andare al cinema con te, lo sai che Gilderoy Allock si è messo a fare l’attore?”.

“Vagamente…”.

“Vorrà dire che uscirò con Neville… non aveva niente da fare stasera!”.

Errore. Neville era dalla nonna per il weekend.

Mi sono sempre stupita di quanto mi piaccia tendere le trappole alle persone. Che io sia divertita da questo come faccio spesso con Dean o che invece sia sconvolta come quella volta, provo sempre un sottile piacere.

Rimasi immobile, guardando la televisione con gli occhi vuoti e le orecchie tese, mentre Ron si faceva la doccia, si vestiva, mi salutava ed alla fine usciva.  Quando richiuse la porta alle sue spalle, scattai come una molla in piedi.

Mi avvicinai al telefono e composi il numero del capo della mia squadra d’Auror, Troy Beckwith.

Gli dissi di procedere con l’operazione.

Per quello, io non avevo abbastanza coraggio. Strano per un’ex Grifondoro, lo so.

Due sere prima, avevo visto Sliding doors con Gwyneth Paltrow. Una scena del film si era dipinta di colori accesi nel mio cervello.

Nel film, lei si sdoppia. Una sua sé stessa riesce a prendere la metropolitana, l’altra no, e il regista si diverte a seguire questi due destini paralleli. Quella che riesce a prendere il treno, torna prima a casa e trova il fidanzato a letto con un’altra. L’altra vive per troppo tempo nella beata ignoranza della relazione.

Chiaro che io non potevo essere la seconda. Ma nemmeno la prima.

Solo immaginare di vedere una scena del genere… mi avrebbe ucciso… ci speravo, in fondo, che non fosse vero.

E, in caso contrario, gli occhi di Troy e degli altri sarebbero stati altrettanto adatti allo scopo.

Non c’era nessun bisogno che vedessi anch’io.

Mi ero appisolata davanti alla televisione. Erano le undici e mezzo, mi svegliai di soprassalto al suono del telefono. Alla televisione, lo ricordo ancora, davano un vecchio film in bianco e nero.

Beckwith, allora?” chiesi con un filo di voce.

“Esattamente come ci aveva detto lei, Comandante… credo che non abbia niente a che fare con i Mangiamorte…” rispose assonnato Troy. Per lui, infatti, le mie paranoie del suo capo erano relative solo alla convinzione che Lavanda Brown nascondesse il ricercato ed evaso Evan McKay. Certamente non poteva pensare che le mie paranoie fossero invece sul fatto che Lavanda si vedesse con il mio ragazzo. E anche per Troy doveva essere sembrato strano che io chiedessi quel pedinamento. Lavanda, almeno per quel tipo di sospetto, ne era decisamente al di sopra.

“Questo lo lasci decidere a me…” replicai acida “Mi dica per filo e per segno che cosa ha fatto e dove è stata…”.

Sentii Troy sospirare leggermente, trattenendosi a malapena da uno sbuffo di impazienza, mentre mi raccontava tutto.

Non sentii molto, a dirla tutta.

Dopo che mi disse, scandendo perfettamente l’ora 20 e 22, che Lavanda aveva incontrato nel suo appartamento Ronald Weasley, per poi uscirne due ore dopo, non ascoltai più nulla.

I miei sospetti erano perfettamente fondati.

Con voce gelida, dissi che non era sufficiente ed ordinai alla mia squadra di fare un sopralluogo nella sua casa, approfittando del fatto che Lavanda fosse uscita. Con Ron.

Chiusi la conversazione e appoggiai la cornetta sul ricevitore.

Non ricordo di averci pianto, allora.

Rimasi immobile, raggomitolata per terra, le braccia strette attorno alle ginocchia. Appoggiai la fronte sulla gamba ed aspettai. Aspettai la nuova chiamata di Troy che mi disse che aveva requisito del materiale.

Gli dissi di portarmelo immediatamente a casa.

Esaminai le cose prese a Lavanda e le gettai subito via. Non c’era niente di compromettente in quei fogli e in quei documenti. Aprii la sua piccola agenda di cuoio rosso e chiaramente da lì emerse tutto. Date, ricorrenze, compleanni, incontri… tutte cose che esulavano da me e dalla mia conoscenza. Quelle scritte fiammeggiavano nel loro rosso acceso tra i miei pensieri, le scrutavo con ingordigia, le leggevo con insolito masochismo e ad ogni nuovo incontro mi chiedevo dove fossi io in quel momento, che cosa stessi facendo o pensando. Riscontrando che stavo lavorando, o che ero uscita con Ginny, o ancora ero da Harry, un piccolo sorriso mi curvava le labbra, che stringevo a sangue per non piangere.

Non ci volevo piangere, davvero. Strinsi i pugni, spaccai un vaso, mi misi ad urlare, ma le lacrime non scesero dai miei occhi. Tra quelle cose, trovai anche la collana in questione. All’inizio, non capii che cosa volesse dire la dedica “Alla mia Eloisa”, che era, un soprannome di dubbio gusto di Lavanda? Io ne avrei suggeriti degli altri con un rating abbastanza alto… comunque, quando mi ricordai che cosa mi avesse detto Ron solo una settimana prima, davvero realizzai che quella cosa era davvero successa.

Ron mi aveva chiesto di fargli un breve riassunto di un’opera di Jean Jacques Rousseau. Guarda caso, Giulia o la Nuova Eloisa. Protagonista? Un’allieva che si innamora del suo precettore. Che lui facesse il precettore di Lavanda, credo che fosse un debole eufemismo, oppure un’esagerazione presuntuosa, se ci riferiamo alla sua capacità didattica; insomma, l’aveva chiamata così perché si erano… non posso dire, innamorati, mi farebbe schifo… insomma, quella cosa che era successa, ci era stata perché lui le dava ripetizioni.

Gettai le cose di Ron in un cartone e le recapitai all’indirizzo dell’appartamento di Lavanda, assieme alle cose che avevano requisito nella sua casa. Tranne la collana, ovviamente, che ho ancora io. Lavanda non la indossava solo perché aveva il gancetto di chiusura rotto, che ne so, magari sul suo collo taurino non ci stava; per questo, l’aveva lasciata a casa. Poi, chiusi casa mia a chiave, presi le mie cose e salii sul primo aereo che passava.

Non ho mai fatto una cosa del genere, ne sono cosciente, di solito sono molto razionale, ma allora non ci capivo decisamente niente. Se avessi visto Londra anche in cartolina, mi sarei messa ad urlare. Insomma, l’unico posto libero era su un volo per l’Italia, Firenze precisamente, ed è lì che stetti tre settimane, incurante del cellulare, del portatile e del cercapersone pieni di messaggi. Fu anche lì che scialacquai tutti i risparmi che avevo.

Tre settimane dopo, non avevo intenzione di tornare, non avevo ancora pianto e mi rimanevano trentacinque sterline.

Fu Dean a raggiungermi. Fu lui a convincermi a tornare indietro. E fu anche con lui che finalmente piansi.

Era l’unica persona con cui effettivamente me lo sarei concesso, perché era l’unica persona al mondo che provava la stessa cosa che provavo io. Piansi per due ore tra le sue braccia, lui che se ne stava in silenzio, accarezzandomi di tanto in tanto la testa come si fa con un cucciolo di cane.

Le cose peggiorarono quando tornai a Londra.

Troy aveva capito che avevo sfruttato la squadra solo per far pedinare l’amante del mio fidanzato. Non che fosse difficile… insomma, pensare che Lavanda Brown fosse in contatto con i Mangiamorte, cretina come è. Da mesi, Troy ambiva al mio posto, aveva dieci anni più di me, riteneva disdicevole farsi comandare a bacchetta da una ragazzina. Approfittò dell’occasione insperata della mia follia per denunciarmi all’Ufficio sull’Uso Improprio della Magia per abuso di potere. Accolsero la sua richiesta e indissero una causa giudiziale, in cui avrebbero espresso un responso sul mio operato. Peccato che la causa si tenne dieci giorni prima che io decidessi di tornare. Isolata dal mondo, non ne seppi nulla e ovviamente, per la mia assenza, decisero per il massimo della pena.

Non solo mi revocarono l’incarico, ma mi spezzarono la bacchetta, togliendomi i poteri magici per cinque anni. Tre ne sono già passati, ne mancano altri due. Certo per molti altri maghi, questo poteva essere un dramma maggiore; essendo babbana di origine, certamente non mi potevano spaventare un paio di anni da vivere come una normale ragazza. Il problema era che, da babbana, io non sono nulla. Hogwarts non ha mai pensato di convertire il suo titolo di studio in uno babbano, ciò significa che, anche avendo delle competenze magiche decisamente superiori alla media, da babbana sono al pari di un’analfabeta che non è mai andata a scuola. 

Insomma, le cose erano decisamente gravi. I primi tempi mi aiutarono molto Harry e Ginny, che mi ospitarono anche a casa loro. Ma io odio dover dipendere da qualcuno, quindi tornai a casa mia ed inizia tutta una serie di rocamboleschi lavoretti per pagarmi le spese e l’affitto. Ovviamente la situazione non era per niente rosea, anzi… quando non avevo i soldi per prendermi da mangiare, me ne andavo da Ginny, ma per il resto dovevo fare i salti mortali per far quadrare in qualche modo miracoloso i conti.

E, allo stesso modo, mi sembrò un miracolo, quando Dean mi disse che, se ero d’accordo, poteva venire a vivere da me.

Non tutte le donne sono imbecilli come me, che mi ero fatta tradire per chissà quanto tempo dal mio ragazzo e non l’avevo ucciso, rifiutandomi solo di vederlo e sentirlo nominare… Lavanda, che adesso poteva fare coppia fissa con Ron, pensò bene di cacciare Dean di casa. Lui, che non poteva tenere un appartamento da solo, mi fece quella proposta.

“Da amici, ovviamente, Herm! È un accordo non vincolante!” rise lui nel dirmelo una mattina di dicembre di due anni fa.

“E’ un accordo anche molto vantaggioso!” risposi io, accettando.

Questo è il motivo per cui Dean vive, o perlomeno fino a stamattina, viveva con me. Per dividere le spese.

Il motivo per cui stiamo assieme, quello è un po’ più complicato. Un anno fa, la sera di S.Valentino, ci ubriacammo come due spugne; lo so che non è da me, e di solito a me l’alcol fa arricciare il naso anche solo a sentirne il fetido odore. Ma quale donna tradita, fosse anche una Grifondoro di ancestrale memoria ed un’eroina del mondo magico, non si ubriacherebbe la sera di S.Valentino, se ha come sola compagnia un ragazzo che è legato da un accordo non vincolante di divisione delle spese, e un gatto rosso con il muso schiacciato? Bevvi la bellezza di cinque Mojito, tre Cuba Libre, una Pina colada e qualche bicchiere di sangria. Tutto nell’arco di tre ore. Dean bevve, se possibile, più di me.

Il risultato fu un’emicrania da panico la mattina seguente. Quando mi risvegliai nel letto di Dean. Ovviamente con Dean.

Sarebbe stato un episodio isolato e probabilmente ci avremmo anche riso su, se non mi accorsi con terrore che l’esperienza non mi era affatto dispiaciuta. Cominciò il periodo più estenuante della mia vita; io e Dean vivevamo assieme, ma ci ignoravamo per tutto il tempo, salvo ricercare contatti forzati nel ricordo di quello che era successo tra noi per qualche bicchiere di troppo. Arrossivamo e scappavamo via in un circolo vizioso ed infinito.

Cedemmo un mese dopo.

Poi ci prendemmo decisamente gusto E ci mettemmo assieme.

Però, come ho già premesso, io non sono innamorata di lui. Il nostro vivere assieme adesso è un accordo ampiamente vincolante, questo sì, ma per il resto... è esattamente come quando vai in gelateria e chiedi una bella coppa con cioccolato e panna, e il gelataio ti risponde che lo stanno preparando e che ci vuole qualche minuto. Ti siedi ad un tavolino e, nell’attesa, magari ti prendi un ghiacciolo al limone. Dean è il mio ghiacciolo al limone, declassato nell’attesa della coppa dei miei sogni. Sono molto affezionata a lui, gli voglio un bene dell’anima e, devo ammetterlo, mi piace anche parecchio, ma da qui a quello che provavo per Ron… c’è un oceano tra le due cose… spesso Ginny mi dice che, secondo lei, è questione di tempo, che magari sono solo spaventata da quello che mi è successo ed esito a legarmi con qualcuno in via seria. Le posso anche dare ragione, considerando quel bastardo di suo fratello; ed è allora che mi metto mentalmente a battere i piedi in attesa del giorno in cui se ne andrà questo blocco del cavolo, e mi riuscirò ad innamorare davvero di Dean. In fondo che cosa gli manca? Ha un fisico da paura, è carino, è dolce, non sarà il massimo dell’intelligenza, ma quale ragazzo lo è, mi vuole davvero bene e ha un bel lavoro al Ministero.

Sospiro, è esattamente questo il problema, sembra che stia facendo la reclame di un aspirapolvere. O di un ottimo marito, e non so davvero che cosa ci sia di peggio.

Sin da bambina, sognavo l’amore senza aggettivi, quello passionale, intenso e, per una come me, assolutamente illogico. E non importa se mi dovesse mandare in corto circuito il cervello, con mia grande ansia ed angoscia, ma basta che sia così grande, bello e meraviglioso che io non possa rimpiangere nulla di quello che ho fatto o che sto per fare. L’amore di cui si parla nelle fiabe, tanto per intenderci… lo so che è estremamente immaturo, ma una potrà sognare no? Dopo Ronald Weasley, avevo ovviamente interiorizzato l’idea che i principi azzurri fossero una razza in via d’estinzione da questo pianeta, ma adesso ho maturato anche la considerazione che la vita non è una bellissima passerella di occasioni meravigliose e dorate, permeate del tessuto dei sogni e del velluto delle ambizioni. La vita spesso ti dà poco quanto niente, devi sgomitare per avere un po’ di più e soprattutto aggrapparti con le unghie e con i denti a quello che hai. E, al momento, quello che ho è Dean Thomas.

Questo, per ritornare al principio, è la contemporanea spiegazione al fatto che sto piangendo e al fatto che non sono però innamorata di Dean. Ed è anche la spiegazione al fatto che, dopo aver fatto il mio solito giro alla ricerca di un lavoro più redditizio che non comprenda l’idea di spogliarmi, lo chiamerò e gli chiederò scusa.

Alcuni dicono che non possono vivere senza una persona. , io allo stadio attuale non posso decisamente vivere senza Dean. Chiamatelo convenienza, opportunismo o comodità nel non voler rimanere da sola… ma adesso le cose stanno proprio in questa maniera.

 

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Capitolo 3
*** Deus ex machina ***


Non rilasciamo una nuova versione per correggere gli errori

 

Capitolo 3 – Deus ex machina

 

 

Mi alzo decisa dal letto, passandomi la manica della vestaglia rosa sulle guance bagnate. Raggiungo il comodino, costatando che Dean ha lasciato il cellulare a casa. Sorrido, benissimo… almeno sono sicura che tornerà a casa…

Stasera gli preparò una bella cenetta, anzi… sospiro, è meglio che gli faccia quel maledetto pollo fritto che gli piace tanto, accidenti a lui. Mi faccio una doccia, lasciando che l’acqua scrosci sul mio corpo senza fermarsi, poi mi vesto velocemente per andare a fare la spesa; è una giornata calda, quindi mi posso permettere una canotta rossa ed un paio di jeans scuri. Racimolo gli ultimi spiccioli nel barattolo dello zucchero sopra la credenza, saluto Grattastinchi che miagola in risposta, prendo le chiavi e mi chiudo silenziosamente la porta alle spalle.

Se mi sente la signora Sanchez, è la fine…

Mi acquatto sulla parete, scendendo le scale un gradino alla volta ed in punta di piedi. Impreco mentalmente contro la borsa di plastica trasparente rossa che sbatte contro la parete, producendo un piccolo rumore, amplificato dall’eco della tromba delle scale. Rimango in attesa, sospiro di sollievo… meno male che non mi ha sentito…

Supero il suo pianerottolo in completo silenzio, poi inizio a correre per le scale. Apro il portone con aria vittoriosa.

“Signorina Granger!!!!” un urlo da mammut mi trafigge le orecchie. Ecco, era troppo bello per essere vero…

indecisa su che cosa fare, sosto un po’ con la mano sulla maniglia, poi la mando mentalmente a quel paese ed apro la porta, fingendo abilmente di non averla sentita. L’hanno sentita anche in Kosovo a dirla tutta, ma potrò sempre dire che avevo il lettore mp3 nelle orecchie. Tanto che imprechi per quello o per il fatto che non abbia ancora pagato l’affitto, non credo che sia molto differenza… imprecherà lo stesso…

Riesco ad agganciare per l’ultimo secondo utile la metro che mi porterà in centro. Mi siedo nell’unico sedile libero, accanto ad una decina di uomini in giacca e cravatta diretti alla City. Estraggo il lettore dalla borsa e mi metto ad ascoltare in silenzio la musica che ci ho messo solo la sera prima, prevalentemente canzoni struggenti e spezzacuore. Appoggio la testa sul sedile scomodo della metropolitana, chiudendo gli occhi dietro le lenti scure, cercando di ignorare il ballonzolare continuo del treno. Un senso di apatia mi avvolge come sempre, mentre ascolto la mia musica preferita. Una volta, Ginny mi disse che ascolto solo la musica di quelli che sono prossimi al suicidio. Non mi interessa.

Di solito, sono dell’opinione che una canzone d’amore struggente, se ti fa male, è perché hai qualcosa di enorme da nascondere, che la suddetta canzone è andata a toccare. Quindi, quando esco con le mie amiche o facciamo una festa, finisco sempre per attaccare un cd a caso con una che strilla dalla strofa al ritornello sulla fine del suo amore meraviglioso, mentre loro mi dicono di spegnere, urlando come delle invasate.

“Ci vai venire una depressione, Herm!” sbraitano con le mani premute sulle orecchie. E stiamo parlando anche di Ginny Weasley, la famosissima fidanzata del Ministro della Magia, nonché membro del Wizengamot, eroe del mondo magico, paladino del bene e, nel tempo libero, anche validissimo cercatore di Quidditch. In una parola, Harry James Potter.

Al che io mi chiedo… se a lei con un fidanzato come Harry viene la depressione, a me che dovrebbe venire? La faccia a cui nemmeno un obiettore di coscienza negherebbe l’eutanasia?!! Sono quindi giunta alla conclusione che le canzoni d’amore ti fanno effetto in due soli casi: o se ti ritieni troppo felice e quindi pensi che la canzone porti una sfiga pazzesca, oppure se sei infelice forte e quindi arrivi anche a pensare che potrebbe pure andare peggio. Ergo, se a me non fanno effetto… non sono in nessuna delle due condizioni esistenziali. Non è una bella cosa definirsi non-felice e nemmeno propriamente infelice, ma rimando alla spiegazione precedente per credere; nell’attesa e nella pallida gioia di non detestare le canzoni d’amore, le ascolto con soddisfazione, compiacendosi della mia superiorità rispetto ai più comuni sentimenti umani, quali la felicità o l’infelicità. In fondo, che io lo ammetta almeno con me stessa, sono sempre stata abbastanza al di sopra della norma della condotta umana.

Nell’intervallo di due secondi netti tra My heart will go on” di Celine Dion, e I had nothing di Whitney Houston, apro leggermente l’occhio sinistro per vedere se sono finalmente arrivata alla mia fermata. Ovviamente nel buio della metro, non riesco a distinguere niente; sto per chiudere nuovamente l’occhio, quando la metro si ferma nuovamente. Strizzo gli occhi per leggere il nome della fermata sul cartello luminoso. Notting Hill. Notting Hill???!!! Ma sono almeno cinque fermate dopo la mia!! Accidenti a me e a tutte le canzoni d’amore del mondo!

Mi alzo come una furia nel timore di allontanarmi ancora di più da casa mia e raggiungo la porta automatica, che stava già per richiudersi. La fermo, mettendoci un piede in mezzo, poi la spalanco con le mani e le braccia. Il terribile dejavù della mia situazione e di quella del film Sliding doors si fa sgraditamente presente nel mio cervello, appena metto piede fuori dal treno. Scuoto la testa, ci mancava anche questa. Io di solito evito accuratamente di cadere nelle trappole dell’intuizione, ma oggi sembra veramente giornata… arrotolo gli auricolari del dannato lettore mp3, quello che adesso mi farà perdere un casino di tempo per aspettare la metro nella direzione opposta… e, cosa non trascurabile, la sterlina per il nuovo biglietto di andata e ritorno… rabbia! Lo getto con furia nella borsa in mezzo alle mie cose. Percorro in lungo e in largo la banchina alla ricerca del cartellone con gli orari, evitando uomini d’affari scontrosi e maleducati, e giovani mamme nevrasteniche con figli che potrebbero tranquillamente fare concorrenza alle nervose genitrici. Trovato il cartello, scopro ovviamente che il prossimo treno passa dal binario cinque tra due ore e mezzo. Ma si può??!!! E questa è l‘efficiente rete di servizi inglesi?! Maledetti, nell’ordine, Lavanda Barbie Brown, Ronald Ken Weasley, Troy alias LA SPIA, e poi anche Dean con i sensi di colpa annessi e connessi! Se avessi la magia, ci impiegherei mezzo secondo a materializzarmi nell’ufficio di Dean per chiedergli scusa, risparmiando anche i soldi per il maledetto pollo fritto che gli devo pure cucinare… ovviamente dopo provvederei a smaterializzarmi da quei due bambolotti di plastica, brucerei il camper delle meraviglie con cui vanno in vacanza assieme alla casetta rosa stile Nouvelle Cousine, per poi sgonfiare con uno spillo i loro attributi ritoccati al silicone! Questo solo per quello che mi fanno passare ogni giorno, non per l’umiliazione, la rabbia e il dolore, che sono dati trascurabili!

Con il passo di uno yeti di montagna, quando il gruppo di campeggiatori designati riesce a scappare incolume dalle sue grinfie, risalgo le scale della fermata, uscendo all’esterno. L’aria fresca mi sferza il viso e finalmente recupero anche l’ombra di un semi sorriso. Potrò sempre fare la spesa in un negozio di qui, poi magari mi guardo un po’ di vetrine, sognando quello che non mi posso assolutamente comprare.

Cammino un po’, guardandomi avidamente attorno, la folla colorata e multietnica che scorre vicina a me. I negozi sono pieni di merce particolare, soppesata con occhio critico dalla clientela. Se non ricordo male, qui vicino ci dovrebbe essere anche un negozio dell’usato… sì, ci venivo spesso con l’infame… in effetti non vengo a Notting Hill da allora. Di mattina è sempre troppo caotico come quartiere, la sera poi è semplicemente troppo romantico. Insomma dall’infame in poi, ho preferito decisamente non metterci più piede. Poi, figuriamoci, con Dean ogni occasione è buona per rinviare un’uscita e starcene a casa a poltrire… con Ron, invece, ci venivo spesso, specie nei primi tempi di pace. Lui aveva la sede del club per cui giocava qui vicino e io passavo il tempo in quel negozietto di roba usata, giocherellando con chincaglierie varie e comprando i libri usati. Trovai una copia di “Orgoglio e pregiudizio” praticamente intatta. Certo mancavano le ultime cinque pagine, ma tanto la conoscevo a memoria la storia… quasi quasi ci vado… mi riscuoto violentemente, urlandomi un “NO” gigante nel cervello. Dobbiamo risparmiare! Altrimenti non arriviamo alla fine del mese! Poi mi ricordo che stamattina l’unico piacere della mia vita, ossia il succo all’ananas, è caduto rovinosamente per terra… quindi giustifico alla luce di quella incolmabile privazione il mio imboccare la strada per arrivare a quel negozio e poi sciolgo le mie ultime reticenze, dicendomi che, qualora le cose costano troppo, potrò sempre andarmene. L’ultima incertezza se ne vola via al pensiero che devo comunque aspettare due ore e mezzo da perfetta imbecille.

Se non ricordo male… percorro un vialetto principale, dominato da una serie di imponenti alberi di magnolia e una sfilza di bancarelle all’aperto, che vendono cibi di ogni sorta. Incuriosita da una bancarella ricolma di trecce d’aglio e spezie odorose, gestita da un francese dal naso rosso, intravedo il negozio di fiori all’angolo del palazzo, da cui si girava per trovare il famoso negozio vintage. Do l’ennesimo strappo alla finanziaria di casa mia, comprando un piccolo mazzo di fiori d’arancio da mettere sul tavolo stasera, quando mangerò con Dean (e cucinerò lo stramaledettissimo pollo fritto, non ci voglio pensare…), poi imbocco la stradina.

Ecco il negozio di musica celtica, la cartoleria sempre piena di mocciosetti che comprano le penne colorate al sapore di frutta, e poi ci dovrebbe essere… no!!!

Dove pensavo ci fosse il negozio che ricordavo, mi appare invece un’insegna in caratteri luminosi che recita beffarda “Petit peste”. Che delusione, hanno chiuso quel negozio così carino per un altro… già, e che cosa è? Il locale sembra chiuso, la serranda blu scuro con il disegno di una bambina sorridente è abbassata fino a metà. Tipico, deve essere un pub o qualcosa del genere. Sulla saracinesca, sono stati attaccati una sfilza di volantini di colore fucsia. Uno recita che di sabato non si entra senza prenotazione; devo dedurre che deve essere un posto conosciuto. Io non l’ho mai sentito nominare; dimenticavo, con Dean come sarebbe mai possibile?!!! Deve essere anche grande, il negozio che ricordavo io, aveva merce di tutti i tipi ed era enorme; aveva un seminterrato con la roba più vecchia e copriva anche un primo piano nell’edificio. Il secondo volantino informa che sono in vendita i biglietti per il Turquoise Party del mese prossimo, chissà che diamine è… un altro invece dice che sono alla ricerca di una cameriera a tempo pieno per la zona pub. I colloqui si tengono ogni mattina dalle 11,00 alle 14,00; si deve chiedere di un certo Danny Ryan. Deve essere il proprietario… bah… inizio a percorrere il vialetto all’incontrario, ma mentre sto per girare l’angolo e mi chiedo dove diamine potrei andare adesso per perdere tempo, ripenso al contenuto dei volantini. Il ritornello prenotazione-turquoise party-cameriera a tempo pieno, si ripete dodici volte nel mio cervello, prima che lo interiorizzi del tutto. Sto davvero perdendo colpi… cameriera a tempo pieno?! Cameriera=lavoro=paga=soldi=fine di una vita di mortificazione economica=fine delle urla della signora Sanchez e delle fughe mattutine!

Ritorno velocemente indietro, fermandomi davanti alla saracinesca e rileggendo il volantino come per accertarmi di aver capito bene. Guardo l’orologio, le undici spaccate… rimango ferma per un po’, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. Mi torco le mani, imbarazzata, non sapendo che fare, poi decisa raddrizzo la schiena e busso leggermente alla saracinesca. Che me ne frega, magari hanno già preso qualcuna…

Una voce acuta e sottile mi risponde dall’interno: “Sì? Chi è?”.

Deglutisco un paio di volte… e se poi questi per cameriera intendono… insomma, molto più di una semplice cameriera…

“Si può sapere chi cavolo è?!!” la voce urla, avvicinandosi all’entrata.

Avvertendola più vicina, i miei sensi si risvegliano: “Chiedo scusa… sarei qui per il posto da cameriera… è ancora disponibile?”.

Oltre la saracinesca, nella piccola fessura che la separa dal pavimento, emerge una testa castana. Si sporge un ragazzo dai ricci capelli scuri e dagli occhi verde acqua. Mi squadra torvo per un po’ dal basso verso l’alto, mi studia attentamente guardandomi in tutta la mia figura per un paio di volte. Indugia sulle mie gambe, mentre io mi serro nelle spalle.

Finalmente si apre in un largo sorriso, che mostra una fila di piccoli denti bianchissimi. Meglio per lui, lo stavo già per prendere a calci, non prima di essermi maledetta mentalmente per aver bussato.

“Come ti chiami, tesoro?” mi chiede, ancora accovacciato in quella buffa posizione.

Hermione… come vedi, non mi chiamo tesoro…” osservo acida, socchiudendo gli occhi.

Lui si para il viso con le mani: “Chiedo scusa… se non sapevo il tuo nome, come ti dovevo chiamare, eh?”.

Lascio cadere il discorso, non rispondendo alla sua domanda retorica: “Sei tu Danny Ryan?”.

“Spiacente…” risponde e sembra veramente dispiaciuto “Danny è uscito un attimo…”, sembra rianimarsi nel dire: “… ma torna tra poco!”.

“Ah…” mormoro delusa “Quindi devo aspettare lui per il colloquio? Non ho molto tempo…”.

Il ragazzo scrolla il capo: “Non ce n’è bisogno… nel caso, lo chiameremo… prego entra…”.

Solleva di qualche centimetro la serranda, fermandola alla mia altezza, consentendomi di entrare. Le mie pupille si allargano per l’improvvisa mancanza di luce. E’ tutto buio, non vedo niente.

“Sta attenta al gradino…” mi sussurra il ragazzo alle mie spalle.

“Quale, gradino?!” chiedo, voltandosi verso la sua voce, ma non faccio in tempo a dirlo che sono inciampata nel famigerato gradino.

Quel gradino…” sogghigna il tipo.

“Non potresti accendere la luce, prima che mi ammazzi?!” borbotto, massaggiandomi la caviglia dolorante.

Lui annuisce, poi lo sento fare qualche passo, poi un piccolo clic metallico. Una luce soffusa e rosata illumina una stanza ingombra di tavolini circolari, disposti a semicerchio. Le sedie sono poste rovesciate sui tavoli. Solo un tavolo ha le sedie per terra, quello più vicino a noi, dove è accesa una piccola abatjour rosa carico che illumina una pila di fogli bianchi, una tazza piena di caffè e un paio di occhiali da vista.

Il ragazzo fa cenno di seguirlo, si siede ad una delle due sedie e mi fa segno di imitarlo.

Mi siedo, guardandomi le ginocchia a disagio.

Lui inforca gli occhiali e prende un foglio dalla pila davanti a lui. Estrae una biro dalla tasca ed inizia a scribacchiare qualcosa, scordandosi di me. Passano dieci minuti buoni in cui continua a scrivere, mentre io lo osservo nervosa. Mi sta facendo perdere tempo e, tra l’altro, sembra farlo di proposito! Lo guardo con gli occhi socchiusi, indossa una camicia rosa perfettamente mimetizzata con la luce dell’ambiente, sopra un paio di jeans scuri. Sembra jamaicano o una cosa simile; è molto abbronzato e muscoloso, decisamente un tipo carino. Carino sì, ma solo perché a me non piacciono questi tipi così eccessivi, ma sono pronta a scommettere che una come Ginny lo troverebbe, con buona pace di Harry, un figo da paura! Il mio cervello scimmiotta la voce della mia migliore amica, come ho detto, non è certamente il mio di pensiero! A completare il tutto, una collana d’oro bianco a maglia spessa, che si intravede attraverso i primi due bottoni della camicia accuratamente sbottonati, e due brillanti per orecchini, uno per ogni orecchio.

?!” chiedo, battendo nervosamente il piede per terra.

Lui sbatte gli occhi, sollevando lo sguardo, come se si fosse dimenticato di me.

“Scusami… dovevo finire delle cose… allora…” riprende, mettendo a posto il foglio a cui si stava dedicando prima e prendendone un altro dalla pila. Come faccia a raccapezzarsi in quel disordine, non lo so…

“Ti chiami…?” chiede.

Hermione Jane Granger” sospiro.

“Anni?”.

23”.

“Davvero?” osserva sinceramente stupito “Te ne davo di più…”.

“Vorrebbe essere una specie di complimento?” chiedo perplessa, già sul piede di guerra.

“Vorrebbe essere solo una constatazione…” risponde lui pacato “Dio, quanto sei nervosa!”.

Mi mordo inquieta il labbro inferiore, prendendomi mentalmente a calci per non ribattere ancora. Non perché sia corto di argomenti e forse nemmeno perché devo essere carina per ottenere il posto, ma perché è la seconda persona in meno di un’ora che mi dice che sono troppo nervosa. Prima Dean, e poi questo qui… e se fosse vero?

Il ragazzo finalmente prosegue: “Titolo di studio?”.

Eccola là la parte migliore… Hermione, ora prendi, ringrazia, alzati decorosamente e vattene…

“Ho finito le superiori…” inizio balbettante, poi mi assale un’ondata di orgoglio. Ma che ci vorrà la laurea ad honorem per fare la cameriera, cavolo??!!

“Ho iniziato il college, ma ho lasciato dopo qualche mese…” mi invento al momento, poi, colta da un’improvvisa ispirazione, aggiungo: “… per problemi economici…”.

“Capisco…” commenta lui comprensivo “E che cosa studiavi?”.

Benissimo… e adesso? Divento all’istante scarlatta, sudando freddo e caldo assieme. Mi torco le mani in grembo alla ricerca di una risposta plausibile, lontana dalla mia mente anni ed anni luce.

S-studiavo…” mastico imbarazzata, sputando la prima cosa che mi viene in mente: “Archeologia…”. Quello che volevo fare a cinque anni…

“Doveva essere interessante…” risponde lui, soppesandomi con lo sguardo “Io invece studiavo… giusto! Non mi sono nemmeno presentato…”.

Certo che questo ragazzo è strano forte… con tutti quelli che chiedono un posto, racconta la storia della sua vita? Sorrido, però in fondo sembra simpatico…

Mi porge la mano abbronzata con un gesto elegante e leggero: “Il mio nome è Seth Green…”.

“Piacere” concedo, stringendogli la mano “Non sei di qui, vero?”.

“Mia madre era cubana e mio padre è inglese… di solito non se ne accorgono… che sono metà straniero, intendo…sei una brava osservatrice…” mi fa affettuosamente l’occhiolino “Hai mai fatto la cameriera?”. Il suo tono è tornato neutro.

Non potevamo rimanere a parlare della sua multietnicità? Sicuramente avrai avuto più cose da dire rispetto a quest’ultima domanda. Se gli dico che no, non ho mai fatto la cameriera, mi metterà alla porta senza tanti complimenti, ma se poi dico sì, forse mi chiederà delle referenze o cose simili. Bene, meglio di così proprio non può andare… la scelta è epocale: Hermione Jane Granger sarà disgustosamente sincera, come sempre, perdendo di nuovo l’opportunità di avere un lavoro fisso, oppure mentirà brillantemente, assicurandosi l’agognato posto?

Sento persino il rullo di tamburi nelle orecchie. Tempo sprecato.

Era assolutamente prevedibile che cosa avrei fatto.

“No, non ho mai fatto la cameriera…” dico a denti stretti. Sono veramente cretina… sempre e per sempre la retta e nobile Grifondoro… adesso capisco perché tutti quelli di Serpeverde sono ricchi sfondati… la nobiltà d’animo non paga, meglio fingere e dissimulare, così da starsene perennemente a pancia all’aria a spendere miliardi. Il colmo quale è? Che mi sono persino pentita di quest’ultima osservazione. Sono veramente un caso irrecuperabile.

Seth mi guarda ancora comprensivo, poi sospira tra sé e sé. Si sporge leggermente verso il tavolo e mi fa: “Ascolta Hermione… la nostra priorità, al momento, è trovare una cameriera esperta per il Tourquoise Party, non so se ne hai mai sentito parlare… abbiamo bisogno di una ragazza che abbia abbastanza esperienza… è un’occasione mondana molto importante e non possiamo permetterci che niente la possa rovinare, capisci, tesoro? Se mi lasci il tuo numero, magari ti richiamo per un colloquio, non appena sarà passato il party…”.

Sospiro,  eccome se mi chiamerà... lo dicono a tutti quelli che scartano… ti facciamo sapere… ma che diamine è sto party, che hanno bisogno di cameriere con esperienza pluridecennale? Prenderanno la cameriera della vecchietta del Titanic in tal caso…

Per non lasciare nulla di intentato, sillabo lo stesso il mio numero di telefono. Almeno potrò dire di averci provato.

Mi alzo dalla sedia, salutando Seth con un sorriso di circostanza, e ringraziandolo. Raccolgo la mia borsa e rifaccio la strada all’incontrario, attenta al maledetto gradino che prima mi ha fatto inciampare. Così facendo evidentemente non mi chino abbastanza per uscire fuori, dato che la saracinesca è ancora mezza abbassata. Qualcosa mi colpisce violentemente sulla fronte e ricado indietro, seduta sul pavimento, con la testa che mi fa malissimo. Me la massaggio con un gemito appena trattenuto di dolore.

“Seth, perché diamine non l’alzi questa saracinesca?!!” urlo al ragazzo alle mie spalle che se la sta facendo addosso per le risate. Poi il suo volto si fa preoccupato e corre trafelato verso di me. Fa bene a preoccuparsi, potrei avere un trauma cranico, la saracinesca è di metallo e ci sono andata a sbattere contro!

Ma Seth mi sorpassa come se non mi avesse nemmeno visto. Ma è cretino o cosa??!! Lo vedo abbassarsi poco più lontano di me e sussurrare preoccupato: “Danny, ti sei fatto male?”.

Danny? Danny… cavolo, Danny! Danny Ryan! Il proprietario! Non sono andata a sbattere contro la saracinesca, ma contro il proprietario del locale, quello che tanto per intenderci, dovrebbe darmi il lavoro! Ma si può avere più sfiga di me? Mi azzardo a guardare oltre Seth, la figura si sta rialzando. Almeno non l’ho ucciso…

“Seth, perché diamine non l’alzi questa saracinesca?!!” la figura urla, massaggiandosi la fronte. Che strano, mi sembra di conoscerla questa voce… lenta e strascicata…

“Scusami, scusami Danny!” frigna Seth con le mani giunte.

Mi sporgo oltre il vermetto che chiede perdono, per affrettarmi a porre almeno un pallido rimedio alla mia sbadataggine.

“Chiedo scusa, signor Ryan, è stata solo colpa mia… non guardavo mentre stavo uscen…”.

La mia voce si blocca in gola, mentre riconosco la figura davanti a me.

Ecco perché riconoscevo la voce.

Sollevo il braccio tremante, segnalando con l’indice la figura che mi guarda con espressione meravigliata.

“Malfoy!” urlo con tutta la voce che ho in corpo. Forse spero che sia una visione e che, urlando, sparisca dalla mia vista.

Ma quella rimane lì, squadrandomi con aria disgustata.

Non va affatto bene se vedo Malfoy davanti a me.

In questo caso, spero ardentemente di aver battuto la testa più forte del previsto.

Mi vanno bene anche gli estremi di una commozione celebrale, purché questo non sia veramente Malfoy!

 

 

Non è possibile leggere che questa storia è la preferita di sei o sette persone e poi vedere solo una recensione!!! Guardate che non la pubblico più… come sono perfida!! Scherzo!! Comunque davvero se avete un pochino di tempo, lasciatemi un piccolo commento…

Sono cose che fanno davvero piacere… e che aiutano a continuare… intanto ringrazio falalula per la recensione…J

 

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Capitolo 4
*** If you want the frog, then comes the prince! ***


Capitolo 4 – If you want the frog, then comes the prince

Capitolo 4 – If you want the frog, then comes the prince!

 

Continuo a guardare a bocca aperta il ragazzo davanti a me, seduto per terra e che si massaggia la fronte. Certo che assomiglia parecchio a Malfoy… deve essere il suo fratello gemello, nato Magonò, e che quindi hanno abbandonato per il disonore che arrecava alla sua famiglia. Ma lui si è riscattato, diventando proprietario di un famoso locale londinese, sconfiggendo i pregiudizi del suo mondo, dove un giorno tornerà a testa alta. Tutto ciò si mostra perfettamente come una bella telenovela quando il ragazzo biondo che ho di fronte e che avevo escluso categoricamente essere Draco Lucius Malfoy, sibila guardandomi con espressione di sufficienza: “Granger, il tuo testone fa sempre danni… dovresti mozzartelo…”.

La stretta allo stomaco, indicatrice della rabbia caratteristica di sei anni di Hogwarts, tanto per capirci quella da reazione repressa a parole che definire offensive è un pallido eufemismo, mi fa capire che questo è veramente Draco Lucius Malfoy, altro che gemello babbano segreto. Lo guardo ancora, incredula. La gentilezza delle sue parole è inconfondibile… tra l’altro, mi conosce e mi chiama per cognome, quindi…ciò non toglie che, se lo avessi incontrato per strada, non l’avrei minimamente notato. Perché? Perché è vestito da babbano, tra l’altro, un babbano perfetto, elegante e raffinato, insomma non come Ronald che accoppiava i pantaloni viola con le maglie rosse e i calzini verdi. Malfoy, invece, con grande senso dello stile, indossa una camicia bianca su un paio di jeans neri. Pende allentata al suo colletto una cravatta a righe orizzontali bianche e nere. Se non sapessi che Malfoy non indosserebbe mai quelle cose, penserei che ci si trovi persino a suo agio. Nonostante però l’abbigliamento insolito per uno della sua risma, non è umanamente possibile non vedere in lui quel diciannovenne che vidi in occasione della battaglia finale contro Voldemort. Credo effettivamente di non averlo più visto da allora. Il ritratto, però, è sempre lo stesso: capelli biondi e corti con due ciocche ribelli che gli accarezzano la fronte spaziosa, colorito pallido anche se leggermente più rosato, naso arricciato in espressione snob, occhi grigi socchiusi con aria da nobile decaduto, labbra sottili contratte per la rabbia, fisico asciutto e scolpito che risalta sotto la camicia bianca. Al massimo, aggiungo qualche centimetro in più alla sua già notevole altezza ed una punta di maggiore morbidezza nei lineamenti decisi e strafottenti.

“Adesso mi dovranno ricoverare per trauma celebrale…” lo sento mormorare con voce sofferente. In compenso, è sempre irritante. Stringo i pugni, lo shock mi ha fatto rimanere fin troppo in silenzio.

“Non fare tragedie come a tuo solito…” mormoro, sfiorandomi la fronte con le dita e ritraendole coperte da una sottile striatura rossastra. Sbraito isterica: “E io che dovrei dire, che sto anche sanguinando?!”.

“Perfetto, anche il sangue della Granger addosso…” ribatte sarcasticamente, strofinandosi con forza la fronte per levarsi le tracce del mio sangue di dosso rendendo la sua pelle diafana praticamente violacea. Aggiunge poi con pathos drammatico: “Devono avermi lanciato una maledizione, non c’è altra spiegazione…”.

“Se vuoi, te la lancio io una maledizione, Malfoy…” mi sollevo, guardandolo con aria di sfida. Lo so perfettamente che non posso fare magie, non sono cretina, ma tanto lui, il cretino della situazione, non lo sa!

“Giusto per porre fine alla tua vita da patetico furetto rimbalzante… quelle sono cose che segnano per tutta la vita…” completo con la migliore espressione di donna comprensiva dei cosiddetti _ casi umani_ o anche dei _casi clinici_. Malfoy è decisamente sia un caso umano che un caso clinico.

Sorrido soddisfatta, mentre noto che è impallidito più del consueto. Quanto mi mancava, vederlo patire! Quando stavo male per Ron, dovevo chiamarlo ed usarlo come palletta antistress! Peccato che non mi sia venuta prima questa idea illuminante… avrei risparmiato un bel po’ di sofferenze e trappole psicologiche al mio povero fidanzato.

Apre la bocca un paio di volte come un pesce rosso alla ricerca d’ossigeno, per poi dirmi tagliente: “Che diamine ci fai qui, Granger?”.

Mi serro nelle spalle, la presenza silenziosa e scioccata di Seth che ci guarda meravigliato, mi ricorda perfettamente con la lucidità di un fulmine nel cielo, che cosa ero venuta a fare qui. Il posto da cameriera. Certamente non glielo posso dire, per nessuna ragione al mondo. Quello si metterebbe a ridere, tanto da farsi sentire fino all’Indocina meridionale. E poi, tanto per sapere, non sarebbe più corretto che fossi io a fare questa domanda? Che ci fa lui qui, e per di più comportandosi da persona normale, quando lui non è assolutamente una persona normale? Sia nel senso che è un mago, sia in altro senso, ovviamente… ed poi ora che ci penso, Seth non l’ha chiamato Danny?

Sposto a disagio il peso del corpo da un piede all’altro, rimanendomene zitta, lo sguardo fisso sulle travi del soffitto. Interessanti, devono essere di acero bianco… in quel mentre, lui si alza, sopravanzandomi pienamente in altezza e guardandomi con espressione minacciosa.

Fa un passo nella mia direzione, portandosi a poco meno di un metro da me.

“Non voglio ripeterlo una seconda volta… ma visto che sei talmente imbecille, sono costretto a farlo… Granger, che diamine vuoi da me??!!”.

“Per prima cosa, modera la lingua, Malfoy…” il mio sguardo ritorna irato sulla sua persona. Sarò anche dieci centimetri più bassa di lui e soprattutto sono la più grande non-strega della storia, ma posso sempre cavargli gli occhi, attenzione!

“E poi figurati che diamine posso volere da te!!” aggiungo con voce più alta per rendere incisivo il concetto.

“E va bene…” fa lui, una smorfia di nervosismo rende i suoi occhi più inquieti “Ma ricordami che mi ci hai costretto tu…”.

Non ho ancora capito che cosa ha detto che lui mi afferra bruscamente per il gomito, trascinandomi con lui.

“Malfoy, lasciami immediatamente!” urlo, impuntandomi con tutte le scarpe per terra, cercando di resistere. Ma Malfoy potrà anche avere il colorito di un rachitico, ma tutto è tranne che tale… infatti, continua a trascinarmi con sé senza alcun apparente sforzo. Si limita solo a dire a Seth, che è ammutolito e guarda la scena senza fiatare, che deve risolvere una questione e che tra poco finiranno l’inventario. Seth annuisce, sorridendo a trentadue denti, e va verso quelle che dovrebbero essere le cucine, comunque nella direzione opposta a quella che sta prendendo Malfoy.

“Seth, questa è omissione di soccorso! Ci sono gli estremi della denuncia!” urlo, ma lui si è già dileguato.

Non mi rimane perciò che continuare a scalciare, mentre Malfoy mi conduce per delle ripide scale a chiocciola al piano superiore. Quanto vorrei la mia bacchetta! Chissà che diamine ha in mente questo ex-quasi-Mangiamorte! Potrebbe torturarmi e lanciarmi l’Incanto Imber, quello che ti fa rimanere attaccato al bagno per dodici cicli lunari. Anche se quello veniva usato solo dagli stregoni incas per difendersi dai conquistadores spagnoli… ma sono incorreggibile… ma a che diamine sto pensando in un momento drammatico come questo?!!

La corsa di Malfoy si arresta in un corridoio che conduce ad una porta smaltata di rosso acceso. La raggiunge, aprendola e trascinandomi con un ultimo strattone dietro di sé. La richiude, mentre io riesco a liberarmi dalla sua presa.

La stanza è in penombra, la serranda è infatti abbassata e la luce del sole entra dalle minuscole e sottili fessure. Mi massaggio il braccio indolenzito, guardandomi attorno. Sembra una stanza da letto… una stanza da letto?! O mio Dio…

Guardo la porta, vedendo se posso raggiungerla, ma ovviamente Malfoy è stupido, ma non fino a questo punto… infatti, è fermo davanti all’unica via di fuga, il respiro corto. Sento solo il suo ansimare per il passo veloce con zavorra a carico, mentre il suo viso resta avvolto nel buio.

“Malfoy, fammi immediatamente passare…” mormoro, sperando di risultare minacciosa.

Per un po’, lui mi guarda senza parlare, riprendendo fiato. Mi trapassa da parte a parte come se fossi un vetro trasparente. Mi stringo nelle spalle, mi sta facendo venire i brividi. Sia chiaro, io non ho paura!!!! Credo di aver scordato quanto l’odiassi e quanto soprattutto lui odiasse me. Il crepitare dell’aria tra me e lui, il sentire la pelle che brucia, il tremore incontrollabile… bè, erano sensazioni decisamente dimenticate. Ho odiato anche Ron e Lavanda, questo è vero, ma non è mai stato come con Malfoy. Così… originario e naturale…Avete presente il serpente e la mangusta? A loro ha mai detto qualcuno di odiarsi? O hanno mai litigato, ponendo fine alla loro amicizia?… ancora? Ma si può sapere a che sto pensando????

“Hai detto a Seth il mio nome? Intendo a parte ripetere dodici volte Malfoy come una piccola gallina sgozzata?!” la sua voce è carica di rabbia. Sembra reprimerla a fatica. Sbatto le palpebre un paio di volte, non riuscendo a capire.

“Ma se nemmeno sapevo che c’eri tu qui!” rispondo velocemente, sebbene non ci abbia capito niente.

“Diamoci un taglio, Granger” sibila lui, gli occhi che nel buio scintillano ciechi, mentre assottiglia la nostra distanza con un passo “Non sarai qui per il tuo… lavoro, eh?”.

Ma è imbecille?! Ma che diamine dice, adesso?! Il mio lavoro?!! Io lo sto cercando un lavoro! Un attimo… forse non ha saputo che non sono più il capo degli Auror… lo guardo, cercando di capire se sia effettivamente come ho capito io. Non sembra mentire. Deve essere ancora convinto che io sia a capo degli Auror. Sembra quasi spaventato, sebbene tenti di nasconderlo… vuoi vedere che è di nuovo immischiato in faccende oscure? E crede che io sia sulle sue tracce e sia venuta qui per arrestarlo?

“Perché dovrei essere qui per il mio lavoro?” imito il suo tono di voce, accentuando l’ultima parola. Incrocio le braccia, rimandando al mittente la domanda.

“Dimmelo tu…”. Lui inarca elegantemente un sopracciglio, la sua voce sembra annoiata, ma riesco ancora a distinguerne un breve tremore: “Potty si è rimangiato la parola? O vuole togliermi Serenity?”. Nell’ultima frase, distinguo una nota strana… diversa… sofferente dolcezza.

Forse è quella che mi rende più calma e che ammorbidisce la mia voce: “Harry non mi ha mandato qui, Malfoy… e, se questo può consolarti, io non so minimamente chi sia questa Serenity…”.

“E allora che ci fai qui?” le sue parole sono stanche. Mi basta la sua voce, anche se non vedo il suo viso.

Ecco, so perfettamente dove stiamo arrivando… al fatto che non sono più il capo degli Auror… non ci penso neanche a dirglielo! Ne va della mia dignità! Mi mordo inquieta il labbro inferiore,  guardando altrove.

“Si sta facendo notte, Granger… il tuo silenzio non fa che confermare i miei sospetti…”.

Dannazione, mi mette anche fretta! Aspetta, ci sto arrivando alla balla del secolo… ho trovato… eludere il discorso…

“Perché ti fai chiamare come uno schifoso babbano, eh Danny Ryan?” chiedo, la voce beffarda. Lo osservo con l’ombra di un sorriso soddisfatto, convinta di averla avuta vinta.

“Non attacca Granger…”, se la mia risata era soddisfatta, la sua dovrebbe essere multata per eccesso di presunzione “Ecco, la prova di che cosa possa produrre il contatto prolungato con Potty e Lenticchia… la demenza assoluta… e pensare che eri una strega così dotata…  pronuncia l’ultima parola in tono dolciastro, dimostrando che lui al contrario di tutti gli altri, non l’ha mai pensato che fossi dotata. Come se non lo sapessi…

Il suo ghigno giunge fino alle mie orecchie, per poi diventare una bassa nota di sottofondo, mentre dice: “Se il caro ministro Potter non ti mai detto nulla, non vedo perché dovrei farti io una conferenza stampa, Granger… non sono affari tuoi… ormai il danno è bello che fatto… quindi, quello che risulta ancora disgustosamente poco chiaro è perché stai ancora respirando la mia stessa aria e calpestando la mia stessa polvere…”.

Se lo prendessi a pugni, mi denuncerebbe qualcuno? Ma che dico, la farei franca in un batter d’occhio… la giuria più inflessibile del mondo mi assolverebbe per ripetuto comportamento provocatorio contro la mia persona. Non penso che sia ancora nata la persona che mi possa fare più saltare i nervi come Malfoy! E poi… il danno è bello che fatto… se c’è qualcuno che ha fatto un danno, quello è lui! Venendo al mondo!
”Sta tranquillo, non ho intenzione di farlo ancora per molto…” rispondo a tono, le mani che si rilassano dai pugni in cui si erano contratte “Anzi, veramente stavo già per andarmene, prima che a qualcuno venisse una crisi di schizofrenia e mi trascinasse qui…”.

Faccio qualche passo con il mento alzato da donna-sicura-di-sé-che-non-deve-chiedere-niente-a-nessuno-tantomeno-ad-un-malfuretto-rimbalzante. Mi fermo accanto a lui e gli intimo di aprire immediatamente la porta.

“E’ stata una pena rivederti, Granger… speravo di aver dimenticato la tua faccia… ed invece adesso dovrò impiegarci altri quattro anni… “ commenta ironico, facendomi passare.

“Per la tua di faccia ci sarebbe voluto un triplo incantesimo di memoria… ma, sai, non me la sentivo di rischiare la vita… è una cosa pericolosa e non volevo fare la fine di Gilderoy Allock…” ribatto, sorpassandolo “A mai più arrivederci, Malfoy…”.

“A mai più arrivederci anche a te, Granger…” risponde a tono in maniera falsamente educata lui, mentre io scendo le scale. Ripercorro con la schiena dritta la sala piena di tavolini, ringraziando mentalmente che non ci sia Seth nel caso in cui mi chieda perché ho chiamato Malfoy il suo Danny. Anche perché non saprei nemmeno io che dirgli… deve aver pensato che fosse una specie di soprannome… o la parola usata nel vocabolario di tutte le lingue per indicare uno schifoso bastardo di quinta categoria, arrogante, presuntuoso, eccetera, eccetera. In effetti, il nome Malfoy potrebbe essere candidato ad essere il sinonimo universale agli insulti più spregevoli del linguaggio umano.

Mi chino con attenzione sotto la serranda abbassata, e respiro a pieni polmoni l’aria dell’esterno. Mi volgo indietro, guardando l’immagine dipinta sulla saracinesca della bambina sorridente, poi, presa da chissà che istinto, mi allontano velocemente, a passo sempre più sostenuto, finché mi ritrovo a correre per le strade di Notting hill.

Finalmente mi fermo in un parco, incurante del fatto che lì ci venivo sempre con Ron. Chissene… mi siedo su una panchina di legno chiaro, il cuore in gola e la milza che mi punge. Poggio una mano sul petto, tentando di riprendere fiato, il torace che si alza ed abbassa ritmicamente. Attorno a me, la gente colorata riempie l’aria di voci gioiose e vivaci, non prestandomi la benché minima attenzione. Mi appoggio contro lo schienale della panchina, chiudendo gli occhi e cercando di isolarmi dal mondo esterno. Ma niente non funziona, il gomito sembra infuocarsi della presa di Malfoy.

Imbecille… ma se io oggi fossi rimasta a casa!!!

La percezione che ci sia qualcosa di strano, di profondamente strano non se ne va… Malfoy che si fa chiamare Danny Ryan e che si comporta da babbano, cosa per lui assolutamente aberrante. Malfoy che è anche il proprietario di un locale babbano… qualcosa che io non so e che, invece, Harry conosce… una promessa che Harry gli deve aver fatto… e poi… Serenity… chi è? La mia mente rincorre i pezzi di questo puzzle anomalo, come quando ad Hogwarts dovevo scrivere una relazione e andavo a cercare le parole del professore di turno, assieme alle nozioni che io naturalmente conoscevo da tempo immemore. Ma, al contrario di come avveniva quelle volte, stavolta non c’è risoluzione. Le domande restano lì dove sono, così come la mia curiosità innata e il mio sospetto consueto verso Malfoy.

Ma in fondo non me ne importa niente, sarebbe stato importante se Seth mi avesse preso, ma in questo caso… Malfoy può farsi chiamare Danny quanto gli pare e piace, magari a fare il babbano impara a rispettare gli altri…

Mi alzo dalla panchina, estraggo il lettore mp3 e mi incammino verso la stazione, ascoltando la musica.

One of them has got a gun to shoot the other one, and together they were friends to school…

Crazy… Alanis Morissette… anche se poi, in realtà, è una cover di una canzone di Seal del ’94 o giù di lì… adesso il campo musicale è tutto un arraffare le idee degli altri, riciclate fino alla noia. Ogni canzone è uguale alle precedenti. Non ci sono più i grandi artisti di una volta, vedi i Queen o i Guns n’ Roses. Premo il tasto dell’avanzamento veloce per trovare una canzone di questi ultimi che amo alla follia, Sweet Child o’ mine, continuando a camminare e mi faccio assorbire dalla poesia delle sue parole. Finalmente intravedo la stazione e, con mia grande fortuna, un treno in ritardo di un’ora anticipa invece quello che io avrei dovuto prendere tra due ore e mezzo. Con soddisfazione, rimango in piedi accanto alla porta, permettendo ad una signora anziana di prendere l’unico posto libero. Lei mi sorride grata, carica di buste della spesa. Ci vorrebbe decisamente più educazione a questo mondo… invece tra il bullismo e le nulle politiche giovanili, quello che la fa da padrone…

Niente, maledizione! Non ci riesco a distrarmi!!!

Continuo a pensare ossessivamente al grande, pfiù, segreto di Malfoy! È sempre stato così con quel maledetto! Lo incrociavo nei corridoi a scuola, ci insultavamo a vicenda, trattenevo dalla rissa inevitabile Harry e Ron, fingevo che fossi superiore e me ne andavo a testa alta, convinta di averlo sempre battuto. Lui poteva anche essere purosangue, ricco e facoltoso, ma dalla mia io invece avevo la media stratosferica e l’amicizia con l’eroe del mondo magico. Nonostante questo, però, quando me ne tornavo in classe e mi sedevo al mio posto, le sue irritanti parole mi tornavano nel cervello con scadenza regolare, sovrapponendosi a quelle delle varie spiegazioni. E così mi distraevo, mentre fantasticavo di scioglierlo nell’acido solforico oppure di trasformarlo perennemente in un furetto. Chiaramente, mentre discutevo di questi dubbi amletici, Harry mi diceva qualcosa o il professore mi chiamava, beccandomi disattenta. Riuscivo sempre a rimediare ovviamente, ma intanto il fastidio mi faceva torcere le mani dal nervosismo. Volevo fare la superiore e ci riuscivo perfettamente davanti a lui, ma invece dentro macinavo e macinavo fino allo spasmo.

Finita la scuola, almeno per me, al sesto, non lo rividi per moltissimo tempo. Anni, credo. Salvo poi rincontrarlo, quando il viaggio alla ricerca degli Horcrux terminò… contenti, ma ancora terrorizzati per l’inevitabile battaglia finale, tornammo a Grimmuald Place e lui era lì. Aveva i capelli lunghi e l’aria stanca ed affranta, mi fece pena. O meglio, mi fece quasi pena. Perché, nonostante tutto, riprese con le solite battutine del cavolo. Granger di qui, Granger di là, So-tutto-io, castoro… la solita solfa. L’unica eccezione era che non mi chiamava più Mezzosangue e, in effetti, essendo diventato una spia per l’Ordine, non era sensato credere ancora alle baggianate di Voldemort. Non so realmente come accadde che lui passò dalla nostra parte, Lupin parlò con Harry per due ore e mezzo, e, quando ne uscirono, Harry disse che potevamo fidarci di Malfoy. Remus garantiva ampiamente per lui. Né io, né Ron ci fidammo compiutamente, ricordandoci che una cosa simile aveva portato all’omicidio di Silente da parte di Piton. E solo perché Silente si era fidato troppo di Piton. Però, dovemmo ricrederci. Malfoy era effettivamente sincero, veniva una volta alla settimana a portarci i piani dei Mangiamorte e, devo ammetterlo, grazie a lui abbiamo salvato molte vite, oltre che battere Voldemort. Ma non ho mai capito perché lo avesse fatto. Seppi solamente che la guerra si era portata via i suoi genitori, non so né come, né quando e nemmeno ad opera di chi. Lo vidi per l’ultima volta proprio nel giorno della battaglia. Poi niente. Nessuno ne ha più parlato tra i miei amici… anche se, a quanto pare, Harry deve invece sapere qualcosa.

Comunque, avevo sempre logicamente supposto che lui avesse ereditato l’ingente patrimonio della sua famiglia e fosse chissà dove a godersi i suoi miliardi, alla faccia dei poveri disoccupati come me. Ma, queste erano solo supposizioni come ho detto, non sapevo davvero dov’era e che vita facesse. Fino ad ora… Malfoy babbano… fatico ancora a crederci. Quando lo dirò a Dean…

Dean!

Mi batto la mano sulla fronte, me ne ero completamente scordata! Dannato Malfoy!

Alla prima fermata, scendo subito, infilandomi nel primo negozio di alimentari che trovo. Compro velocemente un po’ di pollo, le uova e qualche altra cosa, pescando assurdi centesimi dalle tasche recondite della mia borsa. La mia mente canticchia come una nenia… maledetto furetto, maledetto furetto, maledettissimo furetto!. Esco dal supermercato e torno a casa, sgusciando sempre come una ladra per le scale con il terrore reverenziale che la signora Sanchez mi senta. Infilo silenziosamente la chiave nella toppa, girando lentamente, apro la porta e la riaccosto nel più completo silenzio. Sospiro di sollievo ed entro in casa, cercando di non fare rumore anche con i miei piedi, nel caso in cui mi senta. Grattastinchi viene a strofinarsi affettuosamente sulle mie gambe, lo accarezzo dietro l’orecchio e lui fa le fusa, contento. Appoggio le buste della spesa in cucina, come prevedevo Dean non è tornato. Vorrà sbollire la rabbia e quindi farà gli straordinari, fermandosi a pranzo. Tipico, ma questo ritorna decisamente a mio favore. Avrò tutto il tempo per attuare il mio piano per riprendermi il mio ragazzo. Mangio un panino al volo, poi inizio l’opera di restauro di casa, riordinando, ramazzando, lavando, spolverando, cose di cui se ne sentiva l’estremo bisogno.

Poi inizio i preparativi a me stessa. Doccia, peeling, maschera facciale, pedicure e manicure.

Mentre sono in cucina, però, e mi passo lo smalto rosa sulle unghie delle mani, sento squillare il telefono.

Impreco tra me e me, ma è possibile che non possa mai starmene tranquilla? Conoscono solo questo numero di telefono? Mi alzo con l’accappatoio addosso e l’asciugamano a turbante sui capelli bagnati. Raggiungo il telefono, cercando di sollevare la cornetta, senza scheggiare lo smalto fresco. Inutilmente.

“Chi è?!” rispondo nervosamente “Cioè, volevo dire pronto…”.

“Ma allora è vero che sei sempre nervosa?” una voce trillante ride dall’altra parte della cornetta.

“Seth?”

“Sì… sono indelebile, vero?”.

“No, sei assillante… che c’è?”.

“Ti chiamo per il tuo colloquio…”.

“Per il mio colloquio?!” chiedo sconcertata “Vuoi sapere il mio numero di scarpe e constatare che il 38 è troppo grande, farmi saltellare sul tavolo dei cocktail con una palletta sul naso o vedere se so servire bibite in caso di terremoto? Che altro c’è da dire?!”.

“Che sei perfetta…inizi domani…”.

“CHE COSA?!!” per il contraccolpo, scivolo su una parte del pavimento rimasta bagnata, e cado per terra.

“Ci sei ancora? Herm, tesoro?” Seth mi chiama a gran voce.

Riafferro la cornetta che mi era scivolata e borbotto: “Si può sapere che hai detto?!”.

“Cosa non ti è chiaro, esattamente?” fa lui innocentemente “La parte della perfezione o quella del tuo primo giorno di lavoro?”.

“No, quella dove penso che tu sia un pazzo…” bofonchio sarcastica “Che cavolo è cambiato da stamattina?!”.

“Le tue referenze…”.

“Le mie referenze? Io non ho refer- “, mi blocco un attimo, mentre la comprensione mi avvolge.

Poi sussurro quasi con terrore: “E’ perché conosco Malf-, cioè volevo dire, Danny?!”.

“Indovinato. Non credo che ci siano referenze migliori!”.

“Io non lavorerò mai con lui!” urlo nella cornetta, sperando di rintronarlo.

“E perché?” chiede lui curioso e sornione “Sembrate andare d’accordo…”.

“EH?! In quale assurdo universo parallelo io vado d’accordo con Malf… volevo dire, con Danny?!”. Questa storia del doppio nome sta diventando snervante, quasi quanto il fatto che sto reggendo il gioco a Malfoy nella sua recita.

“Non lo so, dimmelo tu… di che avete parlato?” la voce allusiva di Seth mi fa saltare la mosca al naso.

“DI NIENTE!!!” urlo di nuovo, Grattastinchi scappa via spaventato.

“E va bene…” ride lui al telefono “Comunque, non importa… mi ha detto che andavate a scuola assieme…”.

“Ti ha detto anche che sono terribilmente allergica alla sua personalità? Se sì, capirai perfettamente perché non posso lavorare con lui neanche tra duecento anni…” spiego paziente, cercando di recuperare il controllo di me stessa “Mi viene l’orticaria e le bolle su tutto il corpo… insomma, non sono un bello spettacolo…”.

“Non fare la bambina” il suo tono di voce si fa cavernoso, da persona matura “Non mi dire che non riusciresti ad ignorare Danny per, quanto, sei o sette ore al giorno? E per quattro giorni a settimana?”.

Punta sul vivo, replico velocemente: “Ma certo che ci riuscirei, figurati che mi frega del furetto… cioè, intendo sempre dire Danny…”.

“E allora non c’è problema, no?” è tornato gaio e frizzante come prima.

“Sì, invece… e lui che ha detto?”. Sorrido tra me e me, soddisfatta.

“Che va bene…” mugugna semplicemente.

“Che va bene???!!” chiedo sconcertata. Malfoy non può aver mai messo nella stessa frase il mio nome e l’avverbio “bene”. Mi affretto a chiedere: “Stai scherzando?”.

“Sono serissimo, invece… scusami, ma adesso vado di fretta… allora, che vuoi fare?” termina sbrigativo.

Rimango ferma, Grattastinchi mi osserva pensosamente, mentre io fisso lo sguardo sulla libreria di fronte a me. Che faccio? Mi torturo mentalmente. Mi farebbe comodo avere un lavoro, questo è lampante. Ma alle dipendenze di Malfoy? Con lui come mio capo?! Questa situazione potrebbe facilmente ritorcersi contro di me e poi gli concederei un vantaggio notevole. Quello mi metterebbe in croce dalla mattina alla sera! Però intanto… un lavoro, finalmente. Comprarmi un libro senza sentirmi in colpa, un bel vestito o litri e litri di succo all’ananas! Inoltre, credo che a Dean farebbe piacere, no? Insomma, sapere che collaboro anch’io al menage della casa! Mi dico fino alla noia che lo faccio solo per Dean, prima di pronunciare le fatali parole: “D’accordo, accetto… quando si comincia?”.

“Davvero?” fa lui tutto contento e mi fa tenerezza “Va bene, allora… domani mattina alle 8 al locale… entra dall’ingresso nel retro… è quella l’entrata del pub, dove lavorerai tu… ti presenterò agli altri… anche se penso ci saranno solo Corinne e Lorna, oltre a me…”.

“Perché? Cioè, insomma, ci sarebbero anche degli altri?”.

“Certo, tesoro…” mi spiega lui concitatamente “Il Petite Peste è diviso in tre zone: il pub che gestisco io e dove lavorerai tu, il ristorante, che è la parte che hai visto oggi, e lì ci sono Summer, April, Gail e Lawrence, il cuoco; infine c’è la discoteca, il regno di Trey… comunque, loro non ci saranno… ci sarò solo io e le altre due cameriere…”.

“Va bene… allora ci vediamo domani…”.

Lui mi richiama, dicendomi: “Ed ovviamente, inutile dirti, che ci sarà Danny…”.

“Toh, che strano… me ne ero dimenticata… ed è stato il minuto più meraviglioso della mia vita!” borbotto sarcastica.

“Va bene, va bene… a domani, allora…” commenta, ridendo, per poi riagganciare.

Appoggio la cornetta sul ricevitore, e per un attimo, ripenso a quello che ho appena fatto. Devo essere completamente impazzita! No, non posso, non posso assolutamente farlo! Riafferro il telefono con rabbia, prima di accorgermi che ovviamente io il numero di Seth non ce l’ho. E che sono davvero una pazza isterica. Ormai ho accettato…

Con il passo di una condannata a morte, me ne ritorno in camera da letto, poi vestendomi, mi viene l’illuminazione. Ritorno velocemente sui miei passi, raggiungendo il telefono. Apro il cassetto della mensola panciuta su cui è posto, e ne estraggo una piccola agendina in cuoio rosso. La sfoglio freneticamente, uscendone infine vittoriosa un biglietto da visita con un numero scarabocchiato a penna. Lo compongo febbrilmente e attendo in linea che qualcuno risponda.

 

 

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Capitolo 5
*** To end up in the lion's den ***


Capitolo 5 – To end up in the lion’s den

Capitolo 5 – To end up in the lion’s den

 

 

Dopo molti squilli, una voce maschile profonda risponde con uno stanco: “Pronto?”.

“Harry… sono io, Hermione…” .

“Ciao Herm!” risponde allegro “Da quanto non ci sentiamo! Come stai? E Dean?”.

Ingoio un rospo grande come una casa al nome di Dean e sussurro che stiamo entrambi benissimo.

“Avrei dovuto immaginare che fossi tu… “ mi dice “Porto il cellulare solo per i miei amici babbani… anche se ultimamente lo usano parecchio anche Ron e Neville… i camini del ministero sono un inferno!”.

“Lo immagino” commento piattamente “Come va il lavoro?”.

“Insomma…” mormora lui afflitto, in sottofondo delle voci concitate che si attutiscono all’improvviso “C’è stata una manifestazione dei Medimaghi del San Mungo perché ritengono di essere sottopagati… sai dopo l’incidente all’Emporio di Zonko, hanno avuto un sacco da fare… il peggio qual è? Che hanno imparato cos’è una vertenza sindacale dai babbani… Blair al mio confronto è un tranquillo nullafacente… e tu, invece?”.

Noto subito che la sua voce nel finale si è tinta di una vena di preoccupazione. Sa benissimo la mia situazione, è stato costretto a firmare la mia sanzione disciplinare… però non sa che non ho ancora un lavoro… pensa che me la cavi. Non so perché non gliela abbia fatto sapere, sarà perché sono certa che mi avrebbe aiutato. E io detesto essere aiutata, sono decisamente troppo orgogliosa.

“Va tutto bene… ma volevo chiederti una cosa…”.

“A che proposito?”.

“A proposito di Malfoy…” mugugno controvoglia.

“Di Malfoy?!” chiede lui sinceramente colpito “E cosa vorresti sapere?”.

“Dov’è adesso, per esempio”.

“Tu mi hai chiamato per chiedermi dov’è Malfoy?! Herm, ma sei sicura di stare bene?!” la voce di Harry trasecola leggermente; in effetti, sembra troppo strano, quindi mi sento in obbligo di dover dare una spiegazione qualsiasi.

“L’ho incontrato stamattina…” rispondo brevemente “A Londra. In un locale babbano… mi è sembrato strano, ecco. Chiamala pure ex deformazione professionale, ma non mi ha convinto…”.

Harry sospira di sollievo ed aggiunge: “Quando tornerai a capo degli Auror, saremo tutti più tranquilli… sei decisamente la migliore nel tuo campo… comunque posso assicurarti che ti preoccupi troppo… Malfoy è a posto…”.

“Come fai ad esserne certo? Non è strano che viva da babbano?” chiedo nervosa.

“No, Herm” risponde lui sintetico, poi, presagendo nel mio silenzio, una nota di nervosismo replica: “Lo so perfettamente come vive Malfoy, dato che sono stato io a dargli quello che ha…”.

“Tu?!”.

“Esattamente… alla fine della guerra…” prosegue con tono incerto Harry “Sai che hanno ucciso i suoi genitori? Insomma è stato una specie di risarcimento…”.

“Non capisco”.

“Non ce n’è bisogno…” la voce di Harry è ferma e decisa “Malfoy ha collaborato con noi, ma ha rischiato più di tutti, persino di me, te e Ron, se mai questo fosse possibile. Ha fatto il doppio gioco, rimanendo dalla parte di Voldemort… e per poco non è stato scoperto. Credo che non avremmo vinto, senza il suo aiuto, non ho problemi ad ammetterlo… quando la guerra finì, chiese a Scrimeogeor di sparire, di poter ricominciare una nuova vita e di dimenticare tutto. Ma il Ministro non volle, disse che sarebbe stato meglio che avesse preservato la sua identità e che era al sicuro. Gli fu dato un posto al Ministero…”, la voce di Harry si blocca per qualche secondo, lo sento deglutire a disagio e poi sospirare, prima di continuare, il tono leggermente più roco: “…ma quello che Scrimeogeor non gli aveva detto, era il motivo della sua opposizione. Se Malfoy avesse cambiato identità, sarebbe stato dichiarato morto; l’enorme fortuna dei Black e dei Malfoy sarebbe stata ereditata allora da una loro lontana parente americana. E il ministro non poteva permettere che quelle preziose ricchezze, tanto utili per la ricostruzione, uscissero dal paese. Ne sarebbe derivato un danno economico notevole. Quindi, le cose rimasero come erano, tra mille sospetti cominciò a lavorare al ministero, ma la cosa durò poco, un anno più o meno. Come prevedevamo, Malfoy fu braccato dai pochi Mangiamorte rimasti. Era il traditore per eccellenza, l’artefice della loro sconfitta. Era lampante che gli avrebbero teso una trappola… e così accadde…”.

Ritrovo la voce, persa in chissà che momento di quella conversazione, e chiedo: “E allora?”.

“Non posso dirtelo, Herm…” rispose laconico Harry, la voce, se possibile ancora più bassa e profonda “E’ coperto dal segreto di stato e ci sono ancora delle indagini in corso… posso solo dirti che morirono due persone, ma Malfoy si salvò. Riuscì a scoprire che cosa era stato teso alle sue spalle e denunciò Scrimeogeor. Fu il motivo per cui il ministro perse la carica e potei subentrare io. La prima cosa che ritenni di dover fare era risarcirlo… sia di ciò che aveva subito in guerra, sia della morte dei suoi genitori, sia dell’attentato che aveva subito… e l’ho fatto. Ha voluto lasciare il mondo magico, non appena ho sbloccato parte dei suoi beni. Per questo, vive da babbano, credo si chiami Danny Ryan…”.

Annuisco solo a me stessa, non credevo che Malfoy ne avesse passate tante.

“Non ha più contatti con noi da tempo… non ha più voluto nulla da noi…” riprese Harry malinconico “Avrei voluto fare di più per lui, ma a Malfoy è decisamente bastato quello che ha avuto. Gestisce un pub che è molto rinomato, evita accuratamente di farsi vedere in pubblico… insomma, ha la sua vita. Credo che stia anche abbastanza bene…”.

“Non l’avrei mai immaginato…” mormoro, uno strano groppo in gola che rende la mia voce più bassa del normale “Ci si aspetterebbe una cosa del genere da uno come me e te, ed invece… proprio lui, il principe dei purosangue…”.

“In effetti, è strano… anni fa, non l’avrei mai immaginato… ma, grazie a Dio, con la fine dei Voldemort e il ruolo importantissimo giocato da molti mezzosangue nella guerra, prima tra tutti tu, questi maledetti pregiudizi stanno subendo una battuta d’arresto… c’è molta più tolleranza nel mondo magico…”.

“A parte per gli elfi domestici e le altre creature ritenute inferiori…” commento scettica.

“Non cambierai mai Herm!” ride Harry e ne sono felice. Almeno io sono rimasta la stessa, sempre. Come Harry. Fa quasi paura invece come altre persone possano mutare di fronte ai casi della vita. E chiaramente l’esempio più lampante è lui, Malfoy… so che i pregiudizi e le opinioni che lui aveva non possono essere morte con la fine di Voldemort, ma sicuramente per qualcosa di più grave per lui e che, tra l’altro, era accaduto prima. La morte dei suoi? O quella delle due persone erroneamente uccise, mentre attentavano alla sua vita? Harry è restio a parlarmene. E se ci fossero altri motivi, oltre al segreto di stato e alle indagini ancora in corso?

“Ci sei ancora?” mi richiama Harry.

“Sì, certo… adesso mi sento molto più tranquilla…” rispondo, e lo penso davvero. Almeno adesso sono sicura di non andare a lavorare presso un Mangiamorte impenitente, ma presso uno snob ed arrogante incallito. Magra consolazione, sospiro tra me e me.

“E comunque, tanto per gradire, Beckwith è un autentico idiota… spero che tu torni quanto prima…” mi dice Harry, riferendosi al mio vice che ormai siede stabilmente al mio posto. Evidentemente deve aver frainteso il mio sospiro.

“Grazie Harry… una sera di queste, dobbiamo fare una rimpatriata…” sorrido.

“Guarda che ci conto!” mi risponde Harry, per poi riagganciare.

Mi alzo pigramente dalla sedia, andandomene in camera mia. Scelgo il vestito per stasera, un corto abito di seta nera, e me lo drappeggio addosso davanti allo specchio. Lo poggio sul letto e torno in bagno per asciugarmi i capelli. Ma è inutile, la curiosità non se ne va. Mi rimane sempre ostinatamente attaccata addosso. Mi sono anche dimenticata di chiedere ad Harry di Serenity, della ragazza che Malfoy ha nominato. Va sempre così, dannazione! Quello si attacca sempre ai miei neuroni, sovraccaricandoli, e non posso nemmeno dirmi Chissenefrega, perché domani lo devo anche rivedere… che rabbia!!!! Con un passo marziale, vado a vestirmi e a truccarmi, per poi constatare con angoscia che sono già le sette e mezzo e che Dean tornerà tra poco. Come una scheggia, finisco velocemente di cucinare, poi apparecchio la tavola con candele rosse e fiori d’arancio e mi siedo in attesa.

Accendo la tv dato che Dean non arriva ancora… un film… in bianco e nero… che bello, è la trasposizione cinematografica di Orgoglio e Pregiudizio. Speriamo che Dean arrivi almeno dopo la dichiarazione di Darcy, sono anni che lo voglio vedere questo film e non ne ho mai l’occasione! Mi appoggio con il gomito sul tavolo, tanto chi mi vede, e la testa sul palmo della mano aperto. Il tavolo sembra così vicino… ed anche… comodo… non faccio in tempo a vedere la dichiarazione di Darcy, casco dal sonno alla festa dei Bennet. Esattamente dieci minuti dopo dell’inizio del film.

 

 

Il collo mi fa male da pazzi, mentre mi risollevo dal tavolo, dove mi sono accasciata la sera prima. Il sole rende lucide le tende del soggiorno, quindi intuisco che deve essere mattina. Mi stropiccio freneticamente gli occhi assonnati, ritraendo le dita sporche di rimmel e di ombretto azzurro. Non mi sono nemmeno struccata… anzi, mi sono addormentata di sasso, senza neanche raggiungere il mio comodo letto. E adesso ho tutte le vertebre distrutte! Maledizione…

Mi alzo pigramente dalla sedia, barcollando, mentre ancora semiaddormentata vado in camera mia per gettarmi sul letto e dormire fino alla prossima glaciazione, ma distrattamente lo sguardo cade sulla tavola ancora imbandita della sera prima. Nessuno ha toccato niente. A parte me, ovviamente, che ero nel mondo dei sogni, ma Dean? Non è tornato a casa? Corro in camera nostra e noto che è tutto come l’ha lasciato ieri mattina. Insomma, non è passato. Disordinato com’è, i segni del suo passaggio sarebbero visibilissimi e non credo che si sia fatto ordinato tutto all’improvviso.

E se gli è successo qualcosa?

Mi riaggiusto con una mano il vestito nero spiegazzato, poi corro al telefono, i tacchi che battono sul parquet e che svegliano la signora Sanchez che chiama in causa la mia settima progenie per bestemmiarmi. Con foga, compongo il numero del suo cellulare, che risulta spento. Riaggancio e chiamo immediatamente Alex, un suo collega di origine babbana e di cui ho il numero di cellulare. Gli chiedo se ieri era al lavoro e se è andato via all’orario solito; lui mi conferma di sì e aggiunge che è arrivato un’ora fa. Adesso è in riunione.

“Insomma, non è solamente tornato a casa…” sussurro tra me e me, ancora con la cornetta in mano.

“Cosa?!”.

“Niente, Alex… parlavo tra me e me… quando lo vedi, puoi dirmi di richiamarmi… anzi no… non dirgli nulla, vengo io al Ministero… mi raccomando, non dirgli niente…”.

Appendo e scappo in camera, stavolta mi sente, mi ha fatto morire di spavento! Ma da dove l’ha uscito fuori tutto questo orgoglio? Mi spoglio e mi lavo la faccia, per poi indossare un corto vestito azzurro cielo e un paio di sandali bianchi. Fa ancora caldo oggi, e poi è l’unico vestito decente che mi ha regalato lui, quindi non c’è molta scelta… afferro velocemente la borsa, saluto Grattastinchi e scappo via.

Mi metto a correre per strada come un’invasata per raggiungere il ministero, poi i rintocchi della campana di una chiesa vicina mi fanno sobbalzare. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto. Otto rintocchi. Sono solo le otto…

Le otto???!!!

Dovevo essere al Petite Peste alle otto!

E adesso?

Se solo potessi smaterializzarmi…

Mi fermo in mezzo al marciapiede, il ministero è da una parte, il locale dall’altra. Che faccio?

Se non vado da Dean subito, può darsi che quello non ritorna nemmeno stanotte.

Ma, se non vado al locale, Malfoy mi licenzia.

Ma possibile che mi ci debba sempre trovare io in queste situazioni assurde? Tra l’altro, devo sbrigarmi perché sono già in ritardo, qualora decidessi di andare al mio nuovo lavoro.

Alla fine, opto per andare al locale, sperando che ci sia solamente Seth, sembra un tipo comprensivo e magari posso chiedergli di finire prima, oppure di cominciare direttamente domani. Così, poi, scappo da Dean.

Decisa, ricomincio a correre ed arrivo giusto in tempo alla stazione per prendere la metropolitana che porta a Notting Hill. Il viaggio dura cinque minuti scarsi, appena il treno si ferma riprendo a correre come una forsennata.

Finalmente intravedo la stradina del Petite Peste, giro l’angolo, ricordandomi che Seth mi aveva detto di entrare dal retro.

Mi fermo per riprendere fiato e mi guardo attorno. Alla fine, individuo una piccola porta di metallo con un’ insegna fluorescente che reca il nome del pub. La porta sembra chiusa. E da dove dovrei entrare?

Mi guardo attorno nello spiazzo circondato da magazzini e locali apparentemente vuoti. Scorgo su una scaletta antincendio, a qualche metro dalla porta di metallo, tre figure appollaiate. Una di queste, almeno da lontano, sembra vagamente Seth.

Mi avvicino cautamente, pronta a retrocedere se ho preso un abbaglio e sono degli sfaccendati criminali, poi con sollievo riconosco Seth. E soprattutto vedo che Malfoy non c’è. Un po’ di fortuna, e che diamine!

Mi rendo visibile ai loro occhi, mentre con nonchalance continuano a fumarsi le loro sigarette. Perfetto, io l’odore delle sigarette lo odio, mi fa venire mal di stomaco. Quelle dei maghi sono peggio, ma anche quelle babbane non scherzano.

“Ciao tesoro…” mi saluta affettuosamente Seth, scendendo dalla scala ed avvicinandosi a me. Una nube di tabacco mi avvolge, facendomi tossire ripetutamente.

“Allontanati immediatamente da me…” sibilo, agitando freneticamente la mano per disperdere la nube “Se vuoi uccidermi, preferirei una morte più veloce ed indolore del cancro al polmone…”.

“Ma sentila, la salutista…” una voce bassa e profonda mi interrompe con la mano a mezz’aria. Mi volto verso chi ha parlato, una ragazza ancora seduta a gambe divaricate sulla scala di metallo. Mora con lunghissimi capelli neri, legati in una sola ed unica treccia, mi squadra con i sottili e allungati occhi neri. Aspira il fumo della sua sigaretta, per poi emetterlo bruscamente fuori in una nuova nuvoletta che ovviamente prende in pieno me. L’ha fatto apposta. Sorride beffarda, sfidandomi, mentre si alza in piedi e si pulisce il retro degli short neri, che porta con una canotta dello stesso colore e un paio di anfibi vecchi e consunti. Tanto per gradire, ha un orribile, a mio dire, anello al naso. È piccolo sì, ma io non me lo metterei nemmeno tra mille anni… piccolo, invece, non è assolutamente il tatuaggio d’aquila con le ali spiegate che copre entrambe le clavicole e che è perfettamente evidente a causa della maglia scollata.

“Questa è Lorna, Hermione…” dice sbrigativamente Seth, indicandola con un’alzata di capo.

“Piacere” bofonchio, rimanendo a braccia incrociate. Non ci penso proprio a darle la mano.

“Lei invece è Corinne…”. Seth indica l’altra figura accanto a lui. Si tratta di una ragazza dai corti capelli biondo cenere con delle ciocche rosso acceso. Mi sorride e mi sta immediatamente più simpatica, nonostante anche lei sembri strana forte. Oltre ai capelli bicolori, la cui frangetta copre quasi integralmente i suoi occhi celesti, porta anche lei un brillantino al naso, ma la cosa strana è che da esso pende una catenina d’argento che conduce all’orecchio e alla piccola gemma rossa che splende sul lobo. E comunque, alla catenina, è appeso un ciondolino a forma di croce anch’essa rossa. Tutto questo sopra una salopette di jeans ed una maglia a righe colorate, su un paio di Converse anch’esse rosse.

Insomma, solo io sembro normale.

Ma che razza di posto è questo?
”E’ vero che conosci Danny?” sorride scioccamente Corinne, battendo le mani.

Alzo gli occhi al cielo, ancora con questa storia… ma che è un vanto conoscerlo quel decelebrato? Manco fosse uno dei Backstreet Boys! Bleah, i Backstreet Boys… mi faccio schifo solo a pensarci…

“Sì…” mormoro velocemente, poi mi ricordo di Dean. Mi volto velocemente verso Seth e chiedo: “Malfoy, è arrivato?”.

Lui sbatte le palpebre e mi chiede scioccato: “Malfoy? E chi sarebbe?”.

O Dio santissimo… sta storia del doppio nome mi fa andare di matto… e poi io non lo voglio chiamare per nome quello là, considerando che lui mi chiama Granger. E io ho un così bel nome…Hermione… come una poesia di D’Annunzio… altro che, bleah, Draco… che razza di nome è Draco, poi… non che sia meglio Danny… alla fine, devo decidere come chiamarlo. Ecco, un ragionevole compromesso… Ryan… il cognome babbano. Che genio!

“Stavo pensando ad alta voce…” mi giustifico per il Malfoy, per poi chiedere: “Ryan è già arrivato?”.

“No” rispose Seth “Perché? Devi parlargli?”. La sua voce sembra preoccupata.

“Anzi…” sussurro tra me e me, poi riprendo: “Ascolta, Seth… per che ora prevediamo di finire? Devo fare una cosa importantissima…”.

“Penso tra un’oretta… riapriamo domani sera…” snocciola Seth “Dobbiamo solo finire le ultime cose dell’inventario… in realtà, tu potevi rimanere a casa, ma volevo farti conoscere a tutti… credo che tra poco arriveranno anche gli altri…”.

Un’oretta… bè, tanto Dean non scappa… e poi non voglio che Malfoy abbia una scusa buona per cacciarmi… meglio non rischiare…

“Va bene…” sorrido “E’ perfetto…”.

“Allora che stiamo aspettando, sarà meglio rientrare…” sorride zuccheroso Seth “Gli altri ci aspettano…”.

Annuisco con il capo, mentre lui spalanca la porta di metallo, immettendoci in un ambiente abbastanza grande ed ingombro di tavolini con sedie dalle gambe altissime. Quei tipici tavolini dove si mangia massimo in quattro e su cui devi arrampicarti come una scimmia… nel lato destro, emerge un lungo bancone di lego scuro da cui arriva la luce che illumina malamente la stanza, avvolta da una pallida luminosità argento. Arriva da alcuni faretti posti sulle mensole dietro al bancone, che fanno scintillare delle bottiglie di vetro, pieni di liquidi di vario colore. Non ne ho mai viste così tante. Di fronte a me, invece, c’è una porta che riconosco uguale a quella che nella zona ristorante portava alle cucine, quindi deduco che le cucine siano in comune. Invece alla mia sinistra, intravedo delle scale che portano in un seminterrato. Mi sporgo, ma vedo solo una corallina fatta di lucenti e glitterate strisce di carta rossa ed azzurra.

Corinne si siede su una delle due sedie accanto al bancone, prendendo da una sacca rossa un quaderno su cui comincia malamente a scarabocchiare, mentre Lorna raggiunge il bancone, afferra una bottiglia e ne versa buona parte del contenuto in un bicchiere. Lo beve in una sorsata, strizzando solamente gli occhi, per poi dire: “Seth, è finito il Jack Daniel’s…”.

Seth sospira, mentre io commento a bassa voce con lui: “Ma bisogna essere alcolizzati o avere un buco in qualche parte del corpo per lavorare qui? Non c’era scritto nel mio contratto…”.

“Veramente il requisito base sarebbe che tu non lo fossi…” risponde Seth “Di due come quelle, ne abbiamo abbastanza… e poi tu non sarai fissa, sarai una specie di jolly…”.

“Di jolly?!” chiedo, senza capire ed iniziando decisamente a preoccuparmi.

“Se il ristorante è pieno, vai lì… altrimenti resti qui… dipende da quanta gente c’è da una parte o dall’altra…” risponde Seth, per poi ridere a mezza voce: “Non voglio nemmeno sapere che cosa hai pensato quando ho detto jolly…”.

Colta in flagrante, incrocio le braccia con espressione noncurante: “Io non ho assolutamente pensato nulla…”.

“Sì, sì, va bene…” fa con tono accondiscendente, poi si guarda attorno e mi dice di seguirlo. Lasciamo indietro Corinne e Lorna, la prima totalmente presa dai suoi scarabocchi, la seconda completamente ubriaca, e passiamo dalle cucine, tornando nel ristorante dove sono stata la mattina prima.

Anche lì ci sono delle persone, quattro per l’esattezza, sedute attorno ad un tavolino.

Si voltano non appena ci sentono arrivare, mi fermo alle spalle di Seth, mentre lui mi presenta.

Sono due ragazze più o meno della mia età e due ragazzi che invece sembrano molto più grandi, almeno una trentina d’anni. La prima ragazza che mi porge la mano è una brunetta dagli occhi verdi, taglio scalato con ciuffo ribelle, il taglio che avrei sempre voluto farmi io, se non avessi questi dannati capelli ricci o pseudotali. Si chiama April e mi dice subito di essere iscritta a Giurisprudenza e che il lavoro da cameriera serve a pagarle gli studi. Assomiglia alla Barbie che volevo da bambina, prima di capire che le Barbie sono la peggiore personificazione degli stereotipi sessisti. Ha l’aria di una cheerleader americana, con il naso a patata e le guance piene su un corpo invece magro. Constato con sollievo che non è vestita come quelle altre due tipe strane, porta dei semplici jeans e una maglia verde smeraldo. La seconda, invece, mi stupisce alquanto, si presenta come Abigail, ma Seth sottolinea subito di chiamarla Gail. Lei rotea i grandi occhi sporgenti con espressione meravigliata, ma Seth alza solamente gli occhi al cielo, dicendo di lasciar perdere. Sembra la copia sputata di Luna Lovegood, a parte che ha una massa incolta di ricci rossi sulla testa modello Melanie B delle Spice Girls ed è di colore. Porta due spessi occhiali da sole, rotondi e di colore rosa, ma dice di averne di tutti i colori. I capelli sono malamente trattenuti da una fascia rossa, che non fa altro che far risaltare ancora di più il cespuglio di riccioli. A completare il tutto, un top nero con delle paillettes e un paio di jeans zebrati su sandali con zeppa altissima neri. Insomma, sembra uscita dagli anni ’70. Ma qualcuno le ha detto che sono finiti da secoli?

Poi, si presentano i due ragazzi. Il primo è Lawrence, il cuoco, un omone dal collo taurino e capelli lisci e rossicci sul capo. Mi sovrasta in altezza di almeno venti centimetri buoni e io non sono un tappo! È molto muscoloso e, quando mi stringe la mano, mi fa decisamente male. Ma sembra anche un tipo a posto. È gentile e mi dice che se ho bisogno di qualcosa, posso tranquillamente parlarne con lui. Sorrido ai suoi piccoli ed acquosi occhi celesti, ma che sembrano sinceri. Il secondo invece mi fa subito innervosire. È Trey, il Dj. Lo so che sembra una filastrocca, ma c’è anche di peggio. Quando si presenta, si passa languidamente la mano tra i capelli neri con le punte delle ciocche biondo platino, che sono sparati in ogni direzione. Poi mi stringe la mano decisamente per troppo tempo, facendo finta di nulla e squadrandomi dall’alto in basso, una luce maliziosa negli occhi castano chiaro. E poi, sempre con enorme nonchalance, mette una mano in tasca e ne estrae un cartoncino colorato con su il suo numero di telefono.

Chiamami, bambolina…” la mano ancora attaccata alla mia, accompagna il tutto con un occhiolino seducente.

Mi stacco con un violento strattone e sorrido a denti stretti: “Ne sarei felice! Potrei accompagnarti dal parrucchiere, sai che bello? Tu ti rifai quei tuoi insulsi capelli bicolori da pseudofigo che non riesce a rimediare una fidanzata, mentre io… non so… potrei parlarti del mio ragazzo e delle sue violente crisi di gelosia e del fatto che è già la terza volta che finisce dentro per lesioni aggravate! Non sarebbe meraviglioso?”.

Lui impallidisce e dice solamente: “Non hai un ragazzo, vero? Mi volevi solo far spaventare?”.

“Certo che ce l’ho…” brontolo offesa “Mi dispiace che tu non ne abbia uno…”.

Tutti scoppiano a ridere, dandosi di gomito, tranne Gail che rimane con l’espressione persa nel vuoto. Ora mi ricordo, altro che Luna… questa è identica alla Cooman, quando fingeva di avere le visioni per farci stramazzare di terrore.

“Ehi, dolcezza…” Trey si riprende, dopo che finalmente ha capito perché i suoi amici stavano ridendo “Qui l’unico gay è Seth, non certo io… e se non ci credi, posso sempre portarti nelle cucine e…”.

“Trey!” lo interrompe April, scandalizzata.

“E poi che hai da dire su di me?” chiede Seth innocentemente.

“Perché non è vero che sei gay?” risponde Trey sulle difensive.

“Certo che è vero… non credo che sia un problema… no?”.

Ora mi spiego le movenze femminili… e i tesoro stile vecchia zia, ripetuti continuamente…

“Amico, per me non c’è problema…” blatera Trey, sollevando le palme delle mani in difesa “Fin quando sbavi solo dietro a Danny e lasci stare me…”.

Sei innamorato di Ryan?!” chiedo, scoppiando a ridere ed indicandolo. Sono immediatamente seguita da April e Lawrence, ed alla fine anche da Trey e persino Gail.

“NO!!!” urla Seth, mentre noi continuiamo a ridere e lui nega con energia, paonazzo dalla testa ai piedi.

“NON E’ VERO!!!!” continua ad urlare lui, i pugni chiusi, ma non riesco a smettere di ridere. Non per lui, ovvio, ma per Malfoy. Mi farebbe pena chiunque si prenda una cotta per lui.

“Sii sincero… non lo sogni, quando si fa la doccia?!” ride ancora Trey, la mano che si asciuga delle lacrime invisibili.

“E non scodinzoli come un cagnolino, quando lo vedi?” replica April, ridendo anche lei.

“Allora questo è vero amore!” soggiungo divertita, una mano sulla bocca per trattenere le risate.

Poi improvvisamente le voci si smorzano all’improvviso, sostituite da un rumore di passi lento e cadenzato. Tutti tacciono in silenzio e si guardano pensosamente in viso; non capisco, certo che in questo posto la malattia mentale deve essere un requisito base per essere assunti. In senso lato, sono una persona al di fuori dell’ordinario, ma, se si intende se faccio uso prolungato di psicofarmaci, non sono il soggetto clinico giusto.

Mi sporgo oltre Seth per vedere chi è arrivato, presupponendo che si tratterà del principe di tutti gli animali che strisciano su questa terra. Ed invece non è Malfoy. È una ragazza, credo la più bella ragazza che abbia mai visto.

Avanza verso di noi una giovane donna, altissima, almeno una spanna sopra di me. Ha capelli lunghissimi e biondo platino, legati in una coda alta sul capo. Sembrerebbe quasi una Veela e non me ne stupirei, considerando che le ultime cose che sapevo di Malfoy, era che usciva con la cugina di Fleur Delacour. I presupposti ci sarebbero: il fascino, la bellezza, i capelli biondi, gli occhi blu oltremare, circondati da una selva di ciglia nere e folte ed atteggiati in un espressione di svogliata noncuranza. Insomma, potrebbe essere tranquillamente la nuova ragazza di Malfoy, considerando che quello dovrebbe prendersi una che sia nei suoi canoni di perfezione assoluta. E questa ragazza, sia una Veela, una strega o no, lo è decisamente. Credo che indossi almeno un paio di centinaia di sterline. Occhiali da sole tondi Chanel, con strass a forma di fiore su una delle stanghette, calati sul capo; camicetta smaniata bianca con trine e pizzi carinissimi con il logo della Blumarine su un polsino; pantaloni gessati neri sotto il ginocchio; ballerine panna. Come se non bastasse, una collana extra lunga di perle bianche, annodate in due file attorno al collo, con l’aggiunta di piccoli fiocchi di raso rosa e un bracciale orologio con piccoli ciondoli d’oro bianco. Una modella, insomma, non può essere altrimenti. Cerco di recuperare la mia faccia pseudo-razionale, la sto guardando (ed invidiando, non ho problema ad ammetterlo!) da almeno mezz’ora buona.

“Vedo che ci si diverte…” commenta e la sua voce risuona quasi malevola “Nonostante ci sia da finire l’inventario e domani si riapra… Danny sarà molto contento di saperlo…”.

Vedo Seth irrigidirsi, figuriamoci se desidera che Malfoy sappia della sua negligenza.

“Stavo presentando la nuova ragazza agli altri, Summer…” risponde impacciato Seth, grattandosi con nervosismo il collo “Non stavamo perdendo tempo…”.

“Dove sono Corinne e Lorna?” la voce resta sempre fredda e monocorde. Non pare nemmeno averlo sentito, inarca solamente un sopracciglio.

Seth si limita ad indicare con il capo la porta che conduce al pub.

Summer sorride freddamente, anzi solleva un poco in su gli angoli della bocca. La parola sorridere è decisamente esagerata. Mi ricorda per un attimo Lavanda e Calì, quando lessero sul “Settimanale delle Streghe” che ridere faceva venire le rughe. Se ne andarono un mese a fare le sfingi, immobili, con la paura persino di parlare e di dire qualcosa di minimamente divertente. Per loro, fu uno sforzo enorme, considerando che passavano metà della loro vita a ridacchiare. Forse per questo, quando lessero sul “Cavillo” che ridere invece faceva ringiovanire, ricominciarono beatamente a sghignazzare tra loro. Mai parola di quel giornale spazzatura fu considerata tanto veritiera. Deduco per la scarsa forza di volontà di quelle due oche. Ma magari questa qui… questa… Summer… ne deve avere di più… non sorride nemmeno per sbaglio… e l’aria da sergente maggiore ce l’ha ampiamente…

“Immagino che stanno facendo Corinne e Lorna…” risponde lei “Staranno dando fondo alle riserve etiliche della Gran Bretagna… Seth, se dovesse mancare anche una sola bottiglia, lo sai che succederà. Danny ne detrarrà il costo dal tuo stipendio… come vicedirettore, non dovresti permettere che queste cose accadono… ma puntualmente ogni mese siamo ancora allo stesso punto… la faccenda sta diventando seccante e non vorrei doverla risolvere… personalmente… e credo anche… definitivamente…”.

Questa deve essere assolutamente la ragazza di Malfoy! Che razza di arpia, sorride o perlomeno finge di farlo tutta soddisfatta e tronfia di sé, e so benissimo dove l’ho già vista quella faccia! Malfoy! E pensare che credevo che la regina delle serpi fosse la Parkinson, ma quella è una ragazza angelica in confronto! La regina delle serpi… Malfoy deve aver fatto un’audizione per trovarla… bionda come lui, perfida come lui, presuntuosa come lui. E poi dicono che gli opposti si attraggono…

Sono ancora persa in questi pensieri, quando la donna serpente in questione, mi chiede raggelante: “Sei tu quindi la nuova cameriera?”. La sua smorfia di disappunto e disgusto deve essere geneticamente collegata a quella dei Malfoy, non c’è altra spiegazione. In fondo, i maghi purosangue non si sposavano tra cugini o altri parenti? Questa deve essere la promessa sposa di Malfoy. Summer Malfoy… suona anche bene. Ormai è certo, Malfoy l’ha fatto decisamente apposta.

Annuisco con il capo, limitandomi solo ad aggiungere il mio nome. Sono educata, io.

Lei, come se niente fosse, prosegue ancora: “Quali sono le tue referenze?”.

E dalle con queste referenze… NON NE HO!!!!! Lo devo mimare per farlo capire???!!!

Schiocco la lingua con fastidio e replico a tono, imitando per quanto mi riesca la sua voce polare: “A quanto pare, solo la mia sfortunata conoscenza del signor Ryan… è sufficiente o devo conoscere anche la Regina e mezza Camera dei Lords?”. La guardo con aria di sfida, quanto sono mitica? Da uno a dieci? Undici? Ma dai, siete troppo generosi… nella mia mente, sono in piedi sulla sua testa ed improvviso la mazurca di periferia…

La scena che però mi si para davanti non è quella del Carnevale di Rio de Janeiro, con la mia faccia su ogni bandierina e su un mega poster sopra ogni carro allegorico… decisamente, non è quella. Direi che è maggiormente simile a quando Piton ci annunciava un compito a sorpresa sulla pozione più difficile di tutto il corso. Ed io ero l’unica che ne avevo minimamente sentito il nome. Le mie ultime parole, infatti, sono state accompagnate da una serie di strane scenette. Allora, gli altri si sono stretti nelle spalle e sono impalliditi, lanciandosi sguardi sibillini tra loro, autenticamente pieni di terrore; Seth ha assunto un’espressione compiaciuta e mi guarda come se fossi la sua migliore creazione e contemporaneamente osserva di sottecchi Summer con l’aria di un gatto che si è appena divorato una razione enorme di panna montata. Ma quella che mi lascia decisamente più sconcertata è Summer, la donna bionica. Perché adesso non è affatto bionica, anzi devo averla fatta arrabbiare anche parecchio, qualsiasi cosa io abbia detto. Il bel viso liscio è coperto di sottili chiazze rossastre, ha contratto convulsamente i pugni, e gli occhi oltremare sono stretti in due fessure, oltre ad essere attraversati da scariche elettriche. Un brivido mi passa lungo la schiena, ora capisco perché gli altri erano spaventati, deve essere una sua attività consueta.

“Quindi tu conosci Danny…” constata, vuole essere fredda, ma la sua voce risulta innaturalmente acuta.

Non capisco che ci sia di strano e di eclatante a conoscere Malfoy… come se nel mio curriculum vitae, scrivo sempre Conosco Draco Lucius Malfoy quasi come se avessi scritto Conosco Benedetto XVI ed avete presente la finestra da cui si affaccia al Vaticano? Io abito accanto! Manco fosse il signore del mondo…

Annuisco controvoglia.

“Come lo conosci?” mi incalza Summer, la voce ancora più alta e il volto sempre più nervoso.

“Andavamo a scuola assieme… ma che cos’è questo, un interrogatorio? Perché non lo chiedi a Ryan come lo conosco?!” sbotto seccata. A parte il fastidio, c’è anche il fatto che non so che cosa dire e cosa no. Che diamine avrà detto Malfoy a tutti come Danny Ryan?

Summer mi ignora platealmente e prosegue, avvicinandosi di un passo: “Siete amici? Da quanto tempo non vi vedete? Vi sentite spesso? E siete stati assieme?”.

“STOP!!” urlo nervosa, ponendomi minacciosa davanti a lei “Si può sapere che vuoi?!”.

“Voglio sapere in che circostanze hai conosciuto Danny…” risponde lei, tornata fredda come prima.

“E per quale ragione di grazia?” chiedo falsamente cerimoniosa.

“Perché è il mio ragazzo… e lui non mi ha mai parlato di te…”.

“Ti posso assicurare che nemmeno io parlo volentieri di lui…” mormoro a denti stretti “Quindi, puoi benissimo chiederlo a Ryan di parlarti di me, così gli farai venire la stessa ulcera nervosa che stai facendo venire adesso a me…”.

“Perché lo chiami Ryan?” mi fa gelida, ancora incurante di quello che le ho detto.

“Perché non si chiama cretino, di cognome…”  la mia pazienza se ne sta rapidamente andando ai pesci. Non la sopporto più. Non capisco perché hanno tutti questa assurda curiosità e venerazione per Malfoy? Che siano sotto Imperius? Potrebbe essere… in effetti, è la sola spiegazione plausibile. Guardo di sottecchi Summer per scorgere le pupille dilatate e le narici frementi da Imperius prolungato, i segnali ci sono, ma Malfoy dovrebbe averla incantata per bene per farle una fattura simile. Ne sembra ossessionata, non innamorata. E dubito che Malfoy abbia un simile talento. Né un simile gusto, snobbava la Parkinson se si esibiva nella sua migliore imitazione della piovra gigante, figuriamoci lei… una babbana…

Sono ancora presa dai quei pensieri, quando nuovamente tutti si ritraggono a disagio e si stringono nelle spalle. E stavolta so di non potermi sbagliare… infatti, alle mie spalle, è comparso Malfoy. L’ho capito dallo sguardo di Summer meravigliato e cuoriforme, da quello di Seth di poco dissimile e da quello degli altri, anch’essi adoranti. E se ci sia lo zampino dell’Amortentia? No, non sapeva preparare nemmeno quella! Ma che diamine li ha fatto Malfoy?

“Danny!” cinguetta Summer, esattamente come Seth che la guarda in cagnesco. Sembra una scena da commedia napoletana… le due comari che si scontrano per l’uomo dei loro sogni… incubi, mi correggo… lo guardo in tralice, mentre lui si avvicina con passo lento e misurato, oltrepassando l’ingresso. Una cosa è vera, esattamente come accadeva ad Hogwarts, Malfoy ha l’indiscusso talento di riempire le stanze. Non so come definirlo, è una sensazione particolare, mi ricordo che l’aveva anche Viktor… come se ti schiacciasse contro le pareti per fare posto alla sua persona, strano? Abbastanza… allora cerco di spiegarlo meglio. Quando Malfoy entrava nella Sala Grande, nel bene e nel male ce ne accorgevamo. Ancora prima che aprisse quella sua sgradevole bocca, ancora prima che la Parkinson iniziasse a uggiolare assieme alle altre Serpeverde, ancora prima. Appena varcava il cancello dell’ingresso, sapevi che era entrato. Il passo inconfondibile, le movenze leggere, insomma c’era qualcosa di estremamente… come posso definirlo… elegante, sì, elegante nella sua persona. In fondo, chi potrebbe negare che Lucius Malfoy e Narcissa Black non fossero eleganti, pace all’anima loro? Mangiamorte sì, ma sempre raffinati. Non solo nel vestiario, ma anche nel comportamento, nell’atteggiamento e nei gesti. Credo che ce l’abbiano nella genetica, e da bambini evidentemente hanno mangiato pane ed etichetta. Quella fu la prima cosa che mi colpì di lui, appena lo vidi. Ricordo, non chiedetemi per quale astrusa ragione, il nostro primo incontro, la mattina del 1° settembre di ormai tredici anni fa. Ero nel corridoio del treno, accucciata per terra alla ricerca dello stramaledetto rospo di Neville, scappato per la trecentesima volta. Una ragazza stava per calpestarmi, avrei saputo solamente dopo che era quella serpe di Pansy Parkinson. Qualcuno la trattenne per un braccio, evitando che mi spiaccicasse al suolo. Ed era Malfoy. Incredibile, no? Non tantissimo a pensarci bene, perché in quel momento non sapeva della mia origine mezzosangue, non sapeva nulla di me, neanche il nome. E io nemmeno. Le sciocche chiacchiere sulla purezza della razza erano a miglia e miglia da me e da lui, certo lui già ci credeva, ma quel discorso era invece una delle poche cose che davvero io non sapessi. Sollevai lo sguardo su di lui e, non so, mi colpì. Mi colpì veramente molto, biondo com’era e così elegante ed impettito. Lo guardai senza capire, mentre lui mi scrutava dall’alto in basso. Lo imputo al fatto che fossi solo una bimbetta ingenua, ma mi fece ricordare un’illustrazione che c’era su un mio libro, il Piccolo Principe. Nella mia mente, fu subito accostato ad un principe, anche se non mi chiese né se mi fossi fatta male e nemmeno mi aiutò a sollevarmi. Ma era Malfoy, in fondo. Rimase un principe nella mia mente per ventiquattro ore nette. Alla prima lezione di Trasfigurazione, mi dava fastidio; alla seconda, mi irritava; alla terza, mi stava antipatico; alla quarta, avrei ballato sul suo cadavere. E dalla quarta lezione in poi, non ci furono mutamenti di rilievo. Per tredici anni.

Adesso infatti lo guardo con il medesimo astio di allora, lo stesso identico odio della bambina di undici anni che cancella il principe dalla sua testa, quando lo vede prendere in giro Neville o disturbare la lezione, entrambi crimini passabili della pena capitale per me. L’astio è uguale, e in fondo credo che uguali lo siamo anche io e lui. No, invece. Stavolta siamo entrambi due persone normali e, non lo so perché, mi si accosta anche l’aggettivo inutili. Siamo babbani tutti e due, per costrizione altrui. È la prima vera cosa che ho in comune con Malfoy; non ci avevo ancora pensato. Forse mi fa un po’ ribrezzo o magari mi da solamente una sensazione strana.

Lo guardo ancora, atteggiando il mio viso ad un’espressione indifferente, mentre lui ci raggiunge con un’ultima falcata. Stranamente sfuggo dal suo sguardo, celato da un paio di RayBan dorati. È come se abbia paura che legga i miei ultimi pensieri… non che siano chissà che, ma mi infastidiscono alquanto al pari di lui. Mi dà fastidio quella ciocca di capelli dorati che gli cade sulla fronte, quella piccola ruga d’espressione ai lati delle labbra, la sua giacca di pelle nera stile TopGun, i suoi jeans chiari, insomma mi dà fastidio tutto di lui. Malfoy guarda Summer e gli altri con espressione interrogativa, deve essere strano che se ne stiano lì, fermi ed immobili. Poi mi vede e la sua espressione cambia, si resetta sul mio programma personale. Ovviamente disgusto, fastidio ed odio malcelato.

“Granger…” constata freddamente, togliendosi gli occhiali da sole “Evidentemente devo aver usato involontariamente il serpentese…”.

“Tu non lo parli il serpentese…” mormoro tagliente.

Nessuno parla lingue inesistenti, Granger… hai sempre una fantasia sfrenata…” la sua voce si è fermata sulla parola nessuno con forza. Ho capito. È ovvio che nessuno parli Serpentese. Tra i babbani.

Quant’è idiota… prima lo dice lui e poi rimprovera me.

“Che ci fai qui, allora? Ci speravo a rivederti per la fine del mondo…” risponde, incrociando le braccia e guardandomi in attesa. Come che ci faccio qui?! Ma soffre di amnesie in tempi brevi?

“Come che ci faccio qui, Ryan?!” chiedo, sconcertata e nervosa.

“Ryan?” chiede lui, perplesso, guardandomi come se fossi una povera pazza.

“Certo, Ryan!” accentuo con ironia l’ultima parola “E’il tuo cognome, no?!”. Il tonno non deve aver capito che gli sto praticamente reggendo il gioco da povera imbecille, quale sono. Infatti, mi guarda ancora perplesso, poi un lampo di comprensione gli attraversa il volto ed allora mi guarda sospettoso, sgranando gli occhi grigi. Evidentemente si chiede perché lo stia facendo. Magari se lo stanno chiedendo tutti… d’accordo, d’accordo, Malfoy non mi sta improvvisamente simpatico, ma insomma non lo voglio sulla coscienza. Un Mangiamorte folle lo rintraccia e lo ammazza solo perché l’ho chiamato con il suo vero nome. Magari quel giorno sarà proclamato festa nazionale, ma forse mi sentirei un pochino responsabile, nonostante il clima di festeggiamenti. E ci manca solamente questo nel caos della mia vita. Essere responsabile dell’orribile fine di Malfoy. Non ci voglio nemmeno pensare. E poi, Harry mi ha detto di credergli e lui è il Ministro, e quindi è un po’ anche come… insomma, obbedire a degli ordini… sono l’ex (ancora per due stramaledettissimi anni!) capo degli Auror, se non lo do io il buon esempio e non ascolto il Ministro, non lo farà nessuno! Ne va del futuro del mondo magico e della sua governabilità!

“Granger!” la sgradita voce consueta mi riporta alla realtà concreta dei fatti “Sto aspettando una risposta”.

“A quale domanda?!” chiedo ancora decisamente snervata, incrociando nuovamente le braccia in segno d’impazienza.

“Alla domanda CHE COSA DIAVOLO FAI DI NUOVO, QUI???!!”  pronuncia lui con tono lento e cadenzato, come se fossi una povera deficiente.

“Ryan, guarda che la schizofrenia è una malattia alquanto comune… non devi vergognarti… puoi anche farti curare una buona volta…” concedo in tono accondiscendente e comprensivo “Almeno eviterai di fare una cosa e dimenticartene il giorno dopo…”. Lui inarca elegantemente un sopracciglio biondo e chiede ancora: “Granger, sei impazzita tra le altre cose in questi anni?”. Sbatto le palpebre un paio di volte, guardandolo … o mio Dio… vuoi vedere che…

“SETH!!!” urlo alla figura informe alle mie spalle “Ma Ryan non sapeva nulla del fatto che mi avevi assunta?!”.

Lui si accartoccia su sé stesso come un verme e mugugna un no.

“L’hai assunta?!” chiede a sua volta Malfoy, l’espressione furente “Non ti avevo forse detto che io non avrei mai voluto nel mio locale la Granger?!”.

Il vermetto, mentre si contorce nervosamente le mani, mugugna un sì.

“E allora perché mi hai chiamata? Dicendomi espressamente che Malf… cioè, Ryan… insomma, questo qua…” e lo indico con un gesto insofferente della mano destra e uno sbuffo di nervosismo “… voleva che io lavorassi qui?!”.

“Le hai detto questo?!” alla mia voce si unisce di nuovo quella di Malfoy. È la seconda volta che trovo una somiglianza con Malfoy nella stessa giornata. Ci deve essere un enorme cospirazione governativa alle mie spalle, più una congiunzione astrale decisamente sfavorevole alla mia persona.

“Insomma, è tutto risolto, no?” la voce fredda di Summer mi ferisce le orecchie come lo stridio di un oggetto appuntito su una superficie liscia “Danny non è d’accordo con l’assunzione di Seth ed è il proprietario. Io sono il direttore e non lo sono nemmeno io… quindi…”, si rivolge melensa a me: “Signorina Granger, grazie, ma provvederemo diversamente…”.

La vorrei uccidere, davvero, la vorrei uccidere… guardo alternativamente con la bocca spalancata sia lei che Malfoy, che è rimasto in silenzio. Cioè, fatemi capire bene… sono venuta qui stamattina per niente? Ho dovuto rivedere per la seconda volta in due giorni Malfoy per niente? Non sono corsa da Dean per niente?

“Non ha capito, signorina Granger?” chiede ancora dolce Summer, sorridendo più ampiamente di quanto non abbia mai fatto fino a questo momento. Gli altri se ne stanno in silenzio, ho ben capito come stanno le cose. Malfoy e la regina del male dispongono e loro obbediscono. Che schifo… forse è meglio che sia andata così… ma a chi la do a bere? Ho bisogno di lavorare, ci avevo contato su questo posto, nonostante tutto. Trovandomi un lavoro, sentendomi di nuovo utile, magari le cose tra me e Dean si sarebbero sistemate… l’umiliazione e la rabbia mi fanno offuscare gli occhi di piccole lacrime nervose, ma le trattengo con forza, stringendo i pugni convulsamente.

“Avresti dovuto immaginartelo, no?” sento Malfoy dire con voce scontata. Non sollevo lo sguardo che rimane ostinatamente abbassato, ho abbastanza paura della mia reazione in questo momento “Sei stata abbastanza stupida… non che sia una novità, in fondo… ma andiamo… come hai potuto pensare che io ti avrei assunto? E che avremmo lavorato assieme come due amici di vecchia data?”.

In effetti come ho potuto pensarlo?” chiedo più a me stessa che a lui, poi sollevo orgogliosamente lo sguardo e lo fisso negli occhi, alzando il mento. La mia voce ritorna bassa e meno tremula, saturandosi della rabbia e del disgusto, come sempre.

“Potrei ingannare loro…” dico sadica, rivolgendomi alla platea silenziosa che ci osserva “La tua fidanzata papera o anche Harry… “, un mezzo sorriso cinicamente soddisfatto si dipinge sul mio viso “… ma me no, Malfoy, mai… non sei mai cambiato, né mai cambierai… che c’è? Mi volevi vederti implorare per avere il posto? Hai saputo della mia condanna? Bene, fatti due risate… non mi interessa… mi basta sapere che tutti possono dire quello che vogliono, crederti, ma invece essere sicura sempre e per sempre del contrario. Mi basta questo. Vedere che mi hai fatto richiamare solo per avere la soddisfazione perversa di fingere di non sapere nulla… la cretina sono stata io a tornare…”, sputo fuori le mie ultime parole con ribrezzo: “Sei esattamente come tuo padre…”.

L’espressione apatica con cui mi guardava prima muta velocemente in una di collera pura. La pelle diafana del suo volto si tinge di rosso, mentre contrae le labbra nervosamente, sotto gli occhi assolutamente sconvolti di Summer e gli altri. Non ci devono essere abituati, evidentemente stona con il loro perfettissimo Danny, ma invece questo è solo Malfoy. E io so perfettamente di che cosa è capace.

“Non ti azzardare a nominare mio padre, Granger…” mormora, muovendo minacciosamente un passo nella mia direzione. Gli scoppio a ridere in faccia con disprezzo: “Lo vedi, non sei cambiato di una virgola… non ti permetterò di rifarmi quello che mi hai fatto in sei anni…”, mi volto, dandogli le spalle, per poi rivolgermi ancora a lui, nonostante il mio sguardo sia ancora fisso davanti a me. Aggiungo sibillina, anche se so perfettamente che lui mi intenderà benissimo: “Ringrazia solo Harry… e il fatto che tu abbia fatto quella scelta quattro anni fa… altrimenti sai che ti sarebbe successo… e avrei pregato ogni giorno perché potessi farlo io e non un altro…”.

Sento gli sguardi degli altri addosso, sulla porta scorgo anche Corinne e Lorna, evidentemente attirate dalle urla. Non mi interessa, anche se a loro sembrerò una povera pazza. Sono loro a non capire, sono loro a credere in una persona che non esiste, non io, io che non ho a che vedere né con loro, né tantomeno con lui. Sono l’unica qui dentro che ha la minima idea di che razza di persona sia Malfoy e mi è sufficientemente bastato. Non mi interessa che si sia redento alla fine della guerra, né che adesso sia un babbano, né tutto il resto. Già il fatto che abbia detto a Seth di chiamarmi e poi… che nervi… mentre ripercorro la strada all’incontrario, nel silenzio generale, stringo ancora violentemente le mie mani, le nocche sono livide. Apro la porta, uscendo all’esterno e respirando l’aria fresca (anche se non propriamente pulita… ma sapete quante polveri sottili ci sono in un centimetro quadrato a Londra? Insomma, tante, non ricordo la percentuale… ma, perché non mi faccio ancora ricoverare?). Chiudo gli occhi, cercando di recuperare la calma e il controllo di me stessa, facendo training autogeno. Malfoy è solo un demente, io sono superiore; Malfoy è solo un demente, io sono superiore; Malfoy è solo un demente, io sono superiore; Malfoy è solo un demente, io sono superiore… col cavolo!!! Ci scommetto la patetica scenetta che ha organizzato! Qualcuno dei Serpeverde, perché sempre di serpi si parla, gli avrà detto che sono stata licenziata. Chi può essere stato? Ma certo, quel pettegolo di Zabini, stava nell’ufficio proprio di fronte al mio, alla Cooperazione Internazionale. Dannato! E Malfoy si è fatto una bella risata, per ore, e quindi ha orchestrato questo bel pianetto! Che altro motivo avrebbe avuto Seth in caso contrario, no? E poi è perfettamente nella sua natura di Mangiamorte incallito! Lo so che non è un Mangiamorte, ma chissene… il marcio sempre quello è! Maledetto, tutto solo per umiliarmi!! E poi faceva l’attore, il candido e il puro… di che parli, Granger?! ma quanto vorrei ucciderlo… sarei diventata una Mangiamorte, se Voldemort mi avesse offerto la sua testa su un piatto.

Batto i piedi con foga, irritata per l’ingiustificata perdita di tempo. Poi guardo l’orologio al mio polso, le dieci e mezzo… bene, faccio appena in tempo per la pausa caffè di Dean. Forse è meglio che passi da Ginny, almeno ci smaterializziamo e mi accompagna, così non rischio di arrivare in ritardo. Ci mancherebbe anche questa… tra l’altro, il cielo si è rannuvolato, l’aria si è fatta più fredda e il vento gonfia la gonna larga del mio vestito azzurro, facendomi rabbrividire e chiudere nelle spalle, mentre un brivido di freddo mi scorre lungo la schiena. Incrocio le braccia attorno alle spalle nude ed inizio a camminare per raggiungere la strada principale e dire finalmente addio a questa alcova (alcova? Alcova?! Ma da dove mi è uscito?!) di pazzi.

Faccio qualche passo, ma nemmeno riesco ad uscire dalla strada che qualcosa di pesante mi colpisce sulla testa. Ahia! Ma che cavolo! Oggi è veramente giornata! I piccioni sono diventati stitici o che altro? Mi massaggio dolorante la testa, mentre vedo l’autore del misfatto allontanarsi veloce nel cielo grigio. Le sue ampie ali scure risaltano contro le nuvole temporalesche… ali scure… lo guardo bene, strizzando gli occhi a causa della lontananza. Un gufo! Mi guardo febbrilmente attorno, e vedo ciò che mi aveva colpito prima. Un piccolo pacchetto circondato da una carta scura e tenuto assieme da uno spago. Lo prendo esitante tra le mie mani, guardandomi attorno, ma l’unica strega o pseudotale sono io, quindi deve essere per me… l’ultimo sospetto che potrebbe essere per Malfoy viene fugato dalla piccola etichetta sul pacco, che reca le parole Per Hermione Jane Granger.

 

 

Ed ecco a voi, fresco di giornata, un nuovo aggiornamento!! Sono davvero cattiva, lascio sempre nel momento migliore…!! Ahahahha!!! Sono contenta che le recensioni stanno aumentando, olè!! Forse allora sta storia non fa poi così schifo!! Ehehehe!!! Ringrazio tantissimo giuly94, cy17_love, lunachan62, francy_hurt_16 (non so davvero da dove mi sia uscito l’incanto imber, insomma Hermione pensa alle cose più assurde quindi ci può stare… è facile scrivere di lei, perché praticamente per come l’ho resa sto descrivendo me stessa!) e nefene (Ron è stato davvero moooolto ingenuo!!).

 

 

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Capitolo 6
*** Love will tear us apart... do you love somebody now? ***


Capitolo 6 - Love will tear us apart… do you love somebody now

Capitolo 6 -  Love will tear us apart… do you love somebody now?

 

 

 

Lo soppeso tra le mani, a disagio, non mi dà una bella sensazione e mi sono fin troppo abituata a dar peso al mio istinto. Sono uscita viva da Voldemort grazie ad esso, quindi, nonostante la mia razionalità strabordante, cerco di accondiscenderlo quanto più sia possibile. E, tanto per chiarire, adesso non ho assolutamente una bella sensazione. Chi me lo potrebbe aver mandato? Ginny… no, ci siamo sentite ieri. Harry? Anche lui l’ho sentito ieri… Ron? Lavanda? In questo caso lo getto all’aria… Neville? Seamus? Calì? Luna ? Non mi viene in mente nessun’altro che sia lontano a tal punto da non potermi venire a trovare per consegnarmi qualcosa. Scarto il pacco con foga, la curiosità che vince sull’analisi. Il contenuto si rivela essere un ulteriore scatola rossa. La apro e ne osservo l’interno, restando basita. Mazzetti di banconote. Tantissimi. Per un momento, li guardo avida, Dio solo sa quanto mi farebbero comodo… magari ho vinto una qualche lotteria magica, o quel coupon del Settimanale delle Streghe che ho mandato per un concorso mesi fa… che scema, ma lì si vinceva una piastra Autostirante, non soldi! Non così tanti! Scuoto la testa, ci deve essere un errore. Forse Harry ha scoperto che non ho ancora un lavoro e mi vuole aiutare… che schifo, però, così sembra un’elemosina. No, non è da Harry. Ma allora chi? E se fosse il frutto di qualche traffico illecito? Forse non è per me, ma per una mia omonima, invischiata in qualche losco giro di affari e scommesse. O mio Dio, magari quelle due teste calde di Fred e George si sono messi a scommettere con qualcuno, utilizzando il mio nome come pseudonimo! E questa è la somma pattuita! Prima di immaginare feroci killer e un traffico internazionale di scope da corsa, scavo con le mani nella scatola, cercando qualcos’altro. Ed è allora che ci trovo due chiarissimi indizi sull’identità del mittente. Non ci sono dubbi, è proprio per me. Trovo una piccola busta bianca chiusa con il sigillo del Ministero, oltre che uno spesso braccialetto d’argento. Le mie mani si fanno gelide, mentre lo afferro con le dita, posando incurante la scatola per terra. Tremante, lo volto per osservarne l’altro lato, dove c’è una piccola piastrina di metallo piatto e liscio. H.J.G sospiro, le mie iniziali… se mai avessi avuto il minimo dubbio…

“Ginny, non so che cosa regalare a Dean per Natale! Aiutami, ti prego! Devo anche spendere poco… insomma, sono nella bip fino al collo… hai qualche consiglio?”.

“Il nostro primo Natale assieme, io gli regalai… una bella nottata!”.

“Smettila! Possibile che tu sia sempre così poco originale? Che c’è, Harry non ti soddisfa e, per compensazione, devi sempre ricordare le tue appassionate nottate con il mio ragazzo??!!”.

“Scusa, scusa, quanto sei puritana!”

“- - - - ”.

“E poi quello sarebbe davvero un regalo low cost…!”.

“Ginny, insomma smettila!”.

“Quanto sei suscettibile!”.

 “E comunque sarebbe anche il regalo che gli faccio ogni sera…”.

Ahaha… Hermione Granger esce allo scoperto… dietro quella facciata da mangialibri, si nasconde un’anima caliente… e poi sarei io la perversa!”.

“Comunque, mi sono sopravvalutata… non è ogni sera… cioè, insomma, tre sere no ed una sì… ma che cavolo sto dicendo? Ti sto anche a raccontare queste cose!”.

“Herm, stai facendo tutto tu…”.

“Quindi, posso smetterla da sola… allora… che cosa diamine regalo a Dean?”.

“Fammi pensare… sai che cosa potrebbe essere carino?”.

“No, per questo te l’ho chiesto… a Ron andava bene sempre un ulteriore pezzo della divisa dei Cannoni…”.

“A Main Street, c’è un negozio di bigiotteria. Fa braccialetti d’argento con delle incisioni… sarebbe una bella cosa se ne facessi uno con le tue iniziali, no? O con il giorno che vi siete messi assieme…”.

“E’ vero! E’ una bella idea! Delle iniziali, il giorno non lo so proprio… conterà la prima volta, il primo incontro o quando siamo usciti assieme la prima volta? Insomma è un punto controverso!”.

“Sei tu la controversa, Herm…”.

“L’idea te l’ha data Ronald, vero?”.

“Ron? E lui che c’entra, scusa?”.

“La collana per Lavanda quella con l’incisione… quella che io ho a casa… scommetto che l’aveva fatta lì…”.

“Posso dirti una cosa? Alle volte dovresti essere un po’ più stupida…”.

Stringo forte il braccialetto tra le mani, Dean non se ne è mai separato da quando glielo ho regalato. Quando glielo diedi, commentò ironico che Lavanda gli regalava solamente notti di sesso sfrenato. Sesso a Natale, per il suo compleanno, per il loro anniversario, insomma sempre… mi baciò dolcemente e io lo abbracciai forte. Mi urlai nel cervello il perché non mi riuscissi ad innamorare di lui, era una consuetudine della mia mente nei bei momenti.

Dean non ci avrebbe rinunciato mai… lo teneva anche quando faceva la doccia… il mio bracciale…

Stringendolo sempre tra le dita, apro con le mani tremanti la busta di carta bianca. Contiene un piccolo foglio di colore giallo, poche righe ed una grafia disordinata. La stessa dei post it sul frigorifero. Herm mi sono dimenticato di comprare la carne. Ci pensi tu? Grazie, piccola. La stessa sul contratto della casa, accanto alla mia. Dean Angelus Thomas. E la sensazione mi suggerisce che sarà l’ultima volta che vedrò questa grafia, che la sfiorerò con le mie dita e che riuscirò a decifrarla, nonostante a tutti sembrino geroglifici.

Alex mi ha detto che mi hai cercato e che eri preoccupata. Non volevo farti stare in pensiero, ma avevo bisogno di riflettere da solo. Herm, ci ho rimuginato su tutta la notte. Pensaci sinceramente… mi hai mai amato? In realtà, avevi solo paura di stare sola e io ci ho marciato su. Magari per lo stesso identico motivo, perlomeno all’inizio.

Ho preso già la mia roba da casa… ti sembrerà codardo, ma non avevo voglia di salutarti. Dei due quella forte sei sempre stata tu, se t’avessi vista, non ce l’avrei fatta. Sto andando in Francia… ho avuto una promozione,lo sapevo da giorni, ma volevo rifiutare. Adesso le cose sono cambiate, quindi credo che sia la scelta migliore per entrambi. Tornerò fra tre mesi. I soldi sono per pagare i prossimi cinque affitti della casa. Non ha sbagliato nessuno dei due, almeno singolarmente. Abbiamo sbagliato entrambi, assieme, ognuno a suo modo. La cosa era già sbagliata dall’inizio. Siamo andati a letto assieme per fare dispetto a Ron e Lavanda. Io mi sono innamorato di te e tu no, non ne hai che colpa. Razionalmente mi dico questo, ma al momento ti darei tutte le colpe del mondo, quindi per un po’ è meglio che non ci sentiamo…

Perdonami. Dean.

Assurdamente cerco qualcos’altro nella busta, sicura che il messaggio non possa essere solamente questo. Dopo un anno e più, non può essere solamente questo. Scavo nella busta convulsamente, fino a romperla e strapparla tra le mie dita per la troppa foga. Pezzi di carta volano via nel turbine del vento. Non c’è più niente. In tutti i sensi. Qualcosa mi colpisce sul viso, pioggia. Sta piovendo, l’acqua scende piano dal cielo grigio, per poi diventare un acquazzone. In pochi secondi, mi bagna completamente… la gente corre per strada, riparandosi come meglio riesca, le cartelle e le borse sul capo, ed invece io me ne rimango ferma, incurante persino della scatola piena di soldi che sta prendendo acqua. Le getto uno sguardo distratto, poi le do le spalle, continuando a stringere nella mia mano solo il braccialetto e la lettera. Cammino piano, i piedi zuppi a causa dei sandali aperti, il vestito che adesso aderisce scomodo alla mia pelle, i capelli che fanno scivolare lunghi rivoli gelati lungo le mie spalle ed il mio collo. La scala antincendio… mi ci appollaio sopra, stringendo al petto le mie ginocchia. Arriva meno acqua, qui. La guancia premuta sulla gamba, piegata in due, osservo la scatola rossa inzupparsi d’acqua, il rumore dei tuoni che ingombra le mie orecchie che fischiano. Prego Dio… prego Dio perché mi faccia piangere, urlare, gridare, arrabbiare, ed invece niente, nulla. Solo un fastidioso ronzio nelle orecchie, gli occhi che pizzicano un po’ e la gola che mi fa male. Un buco nero. Possibile che io non senta niente? Poggio la fronte sulle gambe, mi fa male qualcosa dentro, ma che cosa sia non lo so. Il cuore? O lo stomaco? Non lo so, non lo so, è orribile che io non lo sappia. È orribile che mi abbiano lacerato la carne viva e che io veda il sangue, ma che non provi dolore. La mia mano continua solo a stringere il braccialetto e la lettera, che adesso scolora bagnata. L’inchiostro violaceo sporca le mie dita, le pulisco distrattamente sul vestito azzurro, lasciandovi un alone. Impreco tra me e me, accorgendomene.

Fastidio.

Poi…

Questo vestito me l’ha regalato Dean.

Due anni fa. Glielo consigliò Ginny. Macchie di vita nella mia retina. Il maglione rosso a collo alto troppo piccolo. il mio compleanno. L’anello con parti in nichel, a cui sono allergica. Natale. I cioccolatini alla menta che detesto. Il nostro anniversario. Il vestito azzurro. Il mio onomastico. Un anno. Un anno di ricorrenze, un anno di regali. 

Torna persino la margherita gialla che mi portò a Firenze, quando mi venne a prendere.

Nel mare di gocce fredde che mi circonda, nel mare di pioggia che mi sommerge, una minuscola gocciolina calda accarezza la mia guancia, morendo nei miei capelli.

Brucia come l’inferno.

Brucia come la consapevolezza che ora, solo ora, mi sono resa conto che tutte queste cose… io le so.

Le ho sempre sapute. Le conosco. Le ho ignorate, tralasciate, abbandonate, trascurate, lasciate indietro.

Ma c’erano, ci sono sempre state. 

Come Dean.

Tutto ora mi colpisce come la risacca di un mare nero di gennaio.

Mi manca il respiro, ora, mentre quel maremoto mi scardina dalle mie fondamenta.

E il dolore, ospite non richiesto e molesto, arriva e mi colpisce il viso. Dolore… il dolore non arriva mai da solo, ha sempre buona compagnia. Deve essere simpatico, a molti.

Dolcezza. Non volevo farti stare in pensiero… non importa, basta che non ti sia successo niente.

Angoscia. Mi hai amato? … ti voglio bene… enormemente… non è sufficiente questo?

Ammissione. Avevi solo paura di stare da sola e io ci ho marciato su. … lo so, ho sempre il terrore di restare sola…

Rabbia. Ti sembrerà codardo… non sembra, è codardo… dopo un anno assieme, come puoi trattarmi così???!!!

Paura. Sto andando in Francia… te ne vai? In Francia? E per quale ragione? Tu non puoi lasciarmi…

Irritazione. Credo che sia la scelta migliore per entrambi… che diamine ne puoi sapere tu?!

Spavento. Tornerò fra tre mesi… tra tre mesi… novanta giorni… sarai sotto un altro cielo…e io qui…

Umiliazione. I soldi sono per pagare i prossimi cinque affitti della casa… posso farcela, non sono la tua mantenuta…

Senso di colpa. Io mi sono innamorato di te e tu no… lo so quanto ci tieni a me, ma non è stata colpa mia se…

Consenso. Al momento ti darei tutte le colpe del mondo… e credo che ne avresti ragione…

Una nuova lacrima scivola lungo le mie ciglia, rotolando per la guancia fino a bagnare inutilmente la stoffa del mio vestito. Inutilmente, per tutta una serie di ragioni. L’abito è bagnato zuppo, quindi quella goccia non fa nessuna differenza. Inoltre le mie lacrime hanno sempre la precipua caratteristica di essere inutili. Una lacrima non è mai utile in fondo. Sarebbe utile solamente se ora qui ci fosse Dean, se lui mi vedesse piangere, se questo gli facesse cambiare idea. Ma perché, poi? Se lo meriterebbe? Si meriterebbe di rimanere ancora con me? Per la prima volta nella vita, non è perché ritengo di essere superiore a lui e quindi penso che per lui sarebbe un enorme privilegio anche solo toccarmi, non è questo. Assolutamente. Per la prima volta, non lo è. Credo che non se lo meriterebbe, perché nessuno se lo merita.

Soffrire, aspettando che una persona si innamori di lui. Aspettando che io mi innamori di lui, facendolo continuamente sentire, nell’improbabile classifica in cui ho catalogato gli uomini della mia vita, sempre e per sempre agli ultimi posti.

Dopo Ron, ovvio. Dopo Harry, intuibile. E poi dopo Viktor, dopo Neville, e chissà chi altro.

Gli ho fatto male, giorno dopo giorno, e nemmeno me ne sono preoccupata. Come ho trascinato avanti per inerzia la mia vita da quella maledetta condanna, così ho preteso di farlo per la sua. Per la nostra. Soltanto perché, in un minuscolo istante, ci ho creduto davvero a me e a lui assieme ed ho elevato a valore immutabile quella scoperta evanescente.

Un giorno ci ho creduto e questo è stato sufficiente. 

E’ stato sufficiente.

Mi passo le mani tra i capelli bagnati, tirandoli indietro con le dita. Come sempre, merito una bella E per la mia spiegazione razionale. E questo fa più schifo di tutto il resto, io mi faccio più schifo di tutto il resto. Tento ancora di cercare delle scuse al mio comportamento, le confeziono perfette e così perdono me stessa.

Mi perdono…

Stringo forte il bracciale tra le mani, congiungendole nel mio grembo e piegandomi su di esse. Avverto dolore, fortissimo, il petto squarciato. La diagnosi è corretta, è il cuore a fare male. Il mio cuore gelido, il mio cuore fatto di ragionamenti e pensieri, il mio cuore vecchio, come diceva la Cooman. Ma è sempre il mio cuore a fare male. Mi conforta un po’, ma non mi merito sollievo, lo scaccio da me, non ho bisogno di ristoro. Sono io quella con i problemi, quindi il mio ristoro è solo uno stupido placebo che la mia mente crea, ma che in realtà è solo dannoso.

Sono solo io quella con i problemi, nessun’altro ce li ha invece. Né Dean, né Ron e nemmeno Lavanda.

Sono solo io quella con i problemi, nessun’altro.

Come una manna del cielo, finalmente scoppio a piangere, affondando il viso nelle mie braccia incrociate.

 

 

“Hermione?”.

Sollevo il viso dalle braccia, non so nemmeno io quanto tempo sono rimasta così. Guardo distrattamente in alto, continua a piovere, ma i lampioni attorno a me sono accesi. E’ sera. Forse è già notte, chi lo sa.

Mi passo una mano sulle guance ancora bagnate, bruciate dal sale delle lacrime. Il mascara sciolto sporca le mie dita, cerco di pulirmele, ma mi accorgo che stringo ancora il bracciale di Dean. Come se mi risvegliassi da un’anestesia, mi ricordo tutto, di nuovo, fa tutto di nuovo male come una botta in testa. Mi manca il fiato. Da pazza visionaria, cerco i segni che quella cosa sia davvero successa. Il biglietto è affondato in una pozzanghera, ai piedi della scala, l’acqua è diventata colorata e la scrittura è sparita. La sua grafia è sparita. Il labbro inferiore prende a tremarmi e so che non è per il freddo, almeno non solo per questo. Ora ricordo perché ho sempre detestato piangere, faccio fatica a cominciare, ma quando inizio, ci prendo gusto e non la smetto più. Tiro su con il naso, cercando di trattenermi, e volgo il viso altrove.

Ovviamente la scatola è sparita. Come potevo pensare altrimenti? Era gonfia di soldi, io non me ne sono minimente resa conto o preoccupata, come sempre. Come altre milioni di cose. Insomma, il solito. Una lacrima scende ugualmente lungo il mio viso, non riesco a fermarla. Con ostinazione, mi stringo ferocemente il labbro inferiore tra i denti, facendomi male e tentando di fermarla con il dolore. Fermare il dolore con il dolore. Che scema… una forza uguale ma contraria applicata in senso opposto… la fisica dovrebbe darmi ragione, ma mi sa tanto che invece la vita è completamente diversa. Guardo il bracciale ancora nelle mie mani, che ne farò? Lo metterò accanto alla collana sottratta a Lavanda? Un ulteriore monito per un errore nuovo e vecchio, che puntualmente rifarò? Come una gazza ladra, ammonticchio oggetti luccicanti nel mio nido, salvo poi rendermi conto che sono mere patacche da due soldi. Non valgono niente.

“Hermione?”. Allora, la voce non me le ero sognata… sollevo il viso, incontrando due chiari ed intensi occhi verdi che mi scrutano preoccupati.

“Seth?” mormoro, la mia voce suona rotta e roca, nonostante abbia cercato di tenerla ferma.

Lui annuisce e mi guarda ancora preoccupato, è fermo sulla porta che conduce al pub, riparato dalla tettoia che sta proteggendo anche me dalla pioggia, credo ormai da diverse ore. Tiene nelle mani un sacchetto d’immondizia, evidentemente sta uscendo fuori la spazzatura. Ma che ore saranno?

“Tesoro, che ti è successo?” mi chiede dolcemente, abbandonando il sacchetto e chiudendo la porta.

Mi serro nelle spalle, chiudendo repentinamente gli occhi. In quel frangente, lui ne approfitta per sedersi vicino a me.

“Nulla…” sussurro, niente, la mia voce non ne vuole sapere di tornare ferma.

“Ma guardati, sei completamente zuppa…” sorride lui, prendendo tra le sue mani una ciocca dei miei capelli “Ti prenderai una polmonite… vieni dentro…”.

“Non se ne parla nemmeno…” rispondo decisa. La mia voce sembra leggermente più sicura, quindi mi azzardo anche a guardarlo in viso “Dopo quello che è successo stamattina, Malfoy voglio vederlo solamente in cartolina… o in quelle piccole fotografie che danno ai funerali…”. Il sarcasmo sta tornando, almeno sto ritornando me stessa. Non so se sia propriamente un bene, comunque. Accenno ad un debole ed inespressivo sorriso, devo almeno darmi un contegno.

“Danny non c’è… è uscito con Serenity…” risponde Seth, deve aver capito che Malfoy e Danny sono la stessa persona. L’ho chiamato tredici volte così, vorrei vedere…

“Non hai da fare con il locale, scusa?” chiedo ancora, sperando e al contempo quasi temendo che se ne vada.

“Non abbiamo aperto stasera…” mormora Seth mortificato “Danny, si è arrabbiato per quello che ho fatto… e lui e Summer hanno discusso… insomma, alla fine se ne sono andati tutti e due. E io ho pensato bene di non aprire…”.

Sembra un bambino che riporta l’ultima discussione dei genitori… poi, qualcosa mi colpisce delle sue parole.

“Seth, fammi capire una cosa…” inizio, mentre lui si volge a guardarmi. Mi sfioro distrattamente le guance, constatando che non sembrano più bagnate. Almeno esteriormente devo sembrare calma.

“Danny davvero non sapeva nulla della mia assunzione?” chiedo, la voce inespressiva.

Lui sorride in modo imbarazzato, poi nega con il capo, distogliendo lo sguardo da me.

Mi sento talmente apatica da non avere nemmeno la forza di arrabbiarmi, mi limito a mormorare stancamente: “Perché l’hai fatto? Non ti avevo forse detto che io e Danny non ci sopportiamo? Avevi bisogno della conferma scritta?”.

“Qualcosa del genere, sì…” mi risponde, la voce enigmatica, gli occhi ancora rivolti altrove.

“Non penso che lui non te l’avesse anche detto, no?” chiedo ancora, ignorando il suo silenzio. La verità è che voglio parlare, solo parlare, parlare anche di Malfoy, purché riesca a non pensare a Dean.

“Certo che me l’aveva detto…” risponde veloce “Ma, insomma, credevo che fosse solo un’antipatia… non odio puro…”.

Sorrido, per gli altri sembra sempre così strano che esista un odio tanto puro ed ingiustificato: “E’ sempre stato così… non è una cosa nuova… ci siamo cordialmente odiati dal primo momento che ci siamo visti…”.

“Perché?” chiede lui, curioso, voltandosi a guardarmi.

Mi serro nelle spalle, rimanendomene zitta alla ricerca della versione migliore. Opto per una versione soft: “Mi prendeva in giro, spesso, quando eravamo a scuola… a quell’età, quelle cose fanno male. Io avevo cose che lui non aveva e quindi non trovava modo migliore che prendersela con me…”.

“Quali cose?!” Seth mi sembra decisamente troppo curioso. Certo… adesso ricordo… a detta di tutti, sarebbe invaghito di Malfoy…

“Il rispetto degli insegnanti e dei compagni… amici… cose di questo tipo…” bofonchio velocemente. Non so che altro dire di meglio, senza nominare qualcosa che ha a che vedere con il mondo della magia.

“Perché Danny non li aveva? Amici, intendo?!” Seth sgrana gli occhi, guardandomi. Ok, questa conversazione sta decisamente andando nella direzione sbagliata.

“Certo che li aveva…” mormoro titubante, giocherellando con una ciocca bagnata di capelli “Ma, insomma, non erano tutto questo granché…”, poi rendendomi conto della figura pessima che sto facendo, dico sbrigativa: “Non mi va di parlarne, Seth… queste sono cose che riguardano Danny, non me… erano suoi amici… e poi potresti chiedergliele tu stesso queste cose, visto che sei tanto curioso…”.

Lui si ritira a disagio, borbottando qualcosa.

“Ma tu invece queste cose non le hai potute sapere…” mormoro, sorridendo ironica. Finalmente ho capito. Non che ci volesse molto, credo che fossi solamente un po’ annebbiata. Non che ora sia lucida, il dolore strepita come una nota stonata in sottofondo. Ma, se Seth continua a parlare, se io continuo a parlare, se penso a quello che dice, se penso a quello che dico, non penso ad altro. Non ne ho la possibilità. Non ho ancora il dono dell’ubiquità mentale, posso pensare ad una sola cosa per volta. Per fortuna.

“Che cosa?!” chiede confuso Seth. Sa perfettamente che l’ho colto in flagrante, le sue mani tremano leggermente.

“Volevi che lavorassi qui per dirti quanto più possibile su Danny, vero?” chiedo, saccente, schioccando la lingua e sollevando le sopracciglia.

“Non è vero!” urla lui, alzandosi in piedi.

Sorrido: “Certo che è vero, invece… hai cambiato idea solo perché hai scoperto che conoscevo Danny… altrimenti mi avresti messo alla porta… dai Seth, non sono cretina! E poi figurati adesso che cosa importa! Il tuo piano è fallito miseramente…”.

Lui cerca ancora di negare, balbettando qualcosa, poi alla fine stringe le spalle, affondando le mani nelle tasche dei jeans e sospira, prima di lasciarsi andare ad un pallido sorriso.

“E va bene, è la verità!” confessa, sedendosi di nuovo accanto a me. Lo guardo, sorridendo, appoggiando la guancia sulla mia mano, e lo scruto qualche secondo, prima di dire: “Certo che sei proprio perso di lui, eh?”.

“Ancora con questa storia!” replica scocciato, ma le sue orecchie sono arrossite “Quella è una fissazione di April!”.

“Sì, e dell’intera Via Lattea… ma sta tranquillo, credo che Alpha Centauri non lo sappia… ancora…” scoppio a ridere, come una scema. La mia risata è troppo acuta, la sento nelle mie orecchie e mi infastidisce. Eppure non riesco a fermarmi… continuo a ridere, finché Seth non mi urla paonazzo di smetterla. Mi fermo, sebbene ne abbia ancora voglia, di ridere, intendo. Non per gioia, non per divertimento, non per prendere in giro Seth, non perché la cosa è ovviamente buffa. Solo perché così non sento le parole della lettera di Dean nella mente.

“Scusami…” sussurro più a me stessa che a Seth.

Lui mi guarda stranito per un attimo, poi volge lo sguardo altrove e mi chiede: “Si può sapere che ti è successo? Stavi piangendo, vero? Se è per il lavoro, mi dispiace… scusami…”.

Trasalgo e inconsciamente le mie mani stringono a sangue il bracciale di Dean, che ho continuato a tormentare per tutta la conversazione tra le dita. Abbasso lo sguardo, non so che dire. Tra Dean e la doppia vita di Malfoy, non so mai che dire. Seth deve davvero pensare che io sia un’imbecille.

“Non è per il lavoro…” pronuncio alla fine, il labbro che trema incontrollabilmente “Figurati… e poi sono abbondantemente abituata anche a Danny… pensa, mi dispiace anche di avergli detto quelle cose… su suo padre… insomma, non avrei dovuto farlo… conoscendolo, adesso vorrà vedere la mia testa su un’asta…”.

Intravedo il volto di Seth tingersi ancora di curiosità, si vede che sta morendo per sapere qualcosa su Lucius Malfoy, ma si trattiene. Evidentemente aspetta che io gli dica perché sono qui fuori a quest’ora. Apprezzo lo sforzo, ma niente da fare. Quello che è successo tra me e Dean… non voglio che lo sappia nessuno.

Mi alzo di scatto, lasciandolo con un palmo di naso: “Adesso sarà meglio che torni a casa…”. Giro il capo verso la strada buia, guardando la direzione che dovrò prendere. Ha smesso di piovere, per fortuna. Credo che sarà l’ultimo colpo di fortuna della serata… magari la metro non passerà prima di qualche ora…

“Ho capito l’antifona, tesoro…” la voce di Seth sorride alle mie spalle “Non ne vuoi parlare… per me, va bene… in fondo, non mi conosci affatto…”.

“Già…” rispondo distratta, non guardandolo in viso.

“Ma non se ne parla che adesso io ti faccia tornare a casa…”.

“Cosa?” chiedo incerta, voltandomi finalmente verso di lui.

“Resterai qui per stanotte…” risponde lui cristallino, soppesandomi con lo sguardo vagamente divertito.

“Non se ne parla…” ribatto lapidaria “Io ce l’ho una casa, che credi… e poi devo per caso ripeterti il discorsetto dell’odio atavico tra me e Danny?”.

Lui poggia le mani sui fianchi e risponde: “No, no, per favore… tu sarai mia ospite, mica di Danny. E comunque probabilmente tornerà domani mattina… spesso quando esce con Serenity, perde la nozione del tempo e dorme fuori…”. Ancora questa Serenity… mi trattengo dal chiedere che ne pensi Summer, la sua ragazza. Mi rispondo che non me ne frega assolutamente nulla della vita sentimentale di Draco Malfoy.

“E perché, di grazia, dovrei essere tua gradita ospite?” chiedo ironica, incrociando le braccia.

Lui risponde meditabondo: “Bè, per una serie di motivi… sei bagnata dalla testa ai piedi, è quasi mezzanotte, Londra è pericolosa, la metro è in sciopero, non ho la macchina, Trey e Lawrence se ne sono già andati, non ti può accompagnare nessuno a casa, non accetteresti mai un passaggio da Danny, non lo posso nemmeno chiamare perché ha lasciato qui il cellulare… ah già… sei sull’orlo di una crisi di pianto ogni mezzo secondo netto, chiaramente sei a pezzi, ovviamente non vuoi rimanere da sola. Ah, e credo che ti abbia lasciato il tuo ragazzo, ma questa è solo una supposizione…”.

Rimango a bocca spalancata per dieci secondi buoni, poi scrollo il capo e trovo l’assurda forza per qualcosa di più di un falso e sterile sorriso di circostanza.

“Ci hai preso in tutto…” bisbiglio con un mezzo sorriso, le lacrime premono sotto le palpebre, ma cerco di ignorarle “Comprenderai perché non ho alcuna voglia di parlarne, quindi…”.

Seth annuisce con il capo, aggiungendo: “Nella stessa identica maniera, per cui capisco che adesso è meglio che tu rimanga qui con me…”.

La sua proposta mi tenta, alquanto. La sola idea di tornare a casa mi terrorizza, letteralmente… guardare le pareti, il soffitto, i mobili… cercare qualcosa che forse Dean ha dimenticato, non trovarla o, magari no, trovarla... ricordare, rimpiangere, ripensare. Tutto assieme in una catena infinita. Non ne ho la voglia, né tantomeno la forza. E stavolta non c’è un aereo per Firenze, pronto a portarmi dall’altra parte del cielo, pallido farmaco per scordarmi tutto. Non ci sono soldi, stavolta. E poi, stavolta, non ho alcuna certezza che qualcuno mi venga a prendere come allora. Allora ero la povera vittima, ora sono stata la peggiore dei carnefici.

Alla fine, annuisco, egoista come sono sempre stata: “Va bene, Seth… resto qui… ma, davvero, non organizzarmi qualche scherzo idiota per cui, alla fine, vengo chiusa in uno sgabuzzino con Danny…”.

Lui sorride, garantendomi che non ha questo in mente.

Lo seguo all’interno, dove l’aria più calda e paradossalmente vengo investita da una furiosa scarica di brividi freddi. La stanza è esattamente come la mattina prima, evidentemente lo scontro tra Summer e Malfoy deve averli scioccati un po’ tutti… ci sono persino due bicchieri ancora appoggiati e semipieni sul bancone, chiaramente quelli che alla mattina stavano trangugiando Corinne e Lorna. Seguo Seth su per la scala, dove ieri mi ha trascinato Malfoy, e lo vedo aprire la stessa porta rossa che Malfoy ha aperto. Devono vivere assieme, evidentemente… devono vivere assieme??!!

“Seth, scusami…” chiedo, guardandolo in tralice, mentre lui raggiunge l’interruttore della luce “Ma vivi assieme a Danny?”.

“Certo che vivo assieme a Danny, perché?” fa lui con espressione innocente.

“Come, perché?! E allora l’antifona che non lo volevo incontrare dove se ne è andata?!” chiedo con voce stridula. Ma possibile che ultimamente dico A e la gente capisce B, C e D??!!!

“Certo che l’ho capita, tesoro…” mi dice con voce estremamente scocciata, aprendo una porta alla mia sinistra “Ma, come ti ho detto, Danny probabilmente non tornerà stanotte… e poi starai nella mia parte dell’appartamento, no?”.

Dalla porta che ha aperto, intravedo infatti un piccolo ambiente unico, con cucina e salottino. Entro, preceduta da lui, e noto nell’angolo una piccola zona notte, delimitata da una specie di basso muretto. Al lato, una porta che penso porti al bagno. È una specie di loft, arredato in maniera sobria e curata. Spiccano il bianco e il nero dei mobili, oltre che l’acciaio. Insomma, una di quelle case ipertecnologiche che a Dean piacevano tanto, mentre a me piaceva il legno e i mobili antichi… ecco, ci risiamo… stare con le persone non serve, assolutamente, se me lo voglio ricordare, la troverò sempre la maniera per farlo. Gli occhi si annebbiano di nuovo, distolgo lo sguardo e poi chiudo repentinamente gli occhi.

“Adesso vai a farti una bella doccia e poi ti darò qualcosa per cambiarti…” esordisce Seth, indicandomi la porta del bagno. Annuisco, sorridendo falsamente, e scappo via in bagno. Chiudo la porta alle mie spalle, appoggiandomi contro di essa e scivolando lentamente per terra, fino a sedermi sul pavimento di mattonelle rosa scuro. Le lacrime non richieste finalmente portano ristoro mite alle mie guance, mentre con le mani nascondo il mio viso alla vista di chissà che fantasma misterioso che potrebbe vedermi. Odio piangere, come ho già abbondantemente premesso, ma adesso è l’unica cosa che riesco a fare. Mi guardo attorno e quel bagno sconosciuto, quel posto che non è casa mia, casa nostra, mi fa ricordare ogni momento che cosa è successo, anche se cerco di dimenticarmene. La sua vista, però, è quasi confortante, credo che se adesso vedessi casa mia con la coscienza che non sia più casa nostra, starei decisamente peggio. Mi tolgo stancamente i vestiti di dosso, gettandoli disordinatamente all’aria. Una lieve piega increspa le mie labbra, c’è di bello della mia me stessa sconvolta ed addolorata che, all’istante, divento un’altra, un’altra che è anche capace di fregarsene dell’ordine e dell’efficienza, tipiche della mia natura. Il che, a volte, è decisamente riposante, non posso fare la parte della donna perfetta ventiquattro ore su ventiquattro. Mi infilo sotto la doccia, aprendo copiosamente il rubinetto dell’acqua calda, che scorre lungo il mio viso, confondendosi alle lacrime che mi trovo ancora costretta a versare. Scivolano assieme ad esse milioni di ricordi, adesso lontani ed evanescenti, sembra quasi che non li abbia davvero vissuti mai come situazioni concrete e reali. Sembrano stelle di fumo, sembra che non siano mai esistiti. Sembra quasi che non sia stata davvero con Dean per un anno. I ricordi evaporano, come il vapore che mi circonda e che si condensa sul vetro della doccia, e lasciano il posto solamente a rimorsi e rimpianti. Scostandomi distrattamente i capelli bagnati dal viso, passo la mano sul vetro davanti a me, lasciando una traccia umida nel vapore. Incontro i miei occhi, ancora rossi e gonfi, e mi chiedo che cosa starà facendo lui adesso, se mi sta pensando, se sta male anche solo la metà di quanto sto io. Ed è egoista, enormemente, lo so, ma in questo preciso momento vorrei che lui stesse male più di me, anche se so che è impossibile. Non perché io stia talmente male da non poter vedere il mio dolore paragonato con nessun altro, ma perché lui lo sapeva, sapeva che mi avrebbe lasciato. Il suo dolore deriva da una sua scelta, al massimo può rimproverarsi di averla presa troppo tardi. O magari un giorno potrà rimproverarsi di averla presa, perlomeno lo spero. Io invece ho da rimproverarmi il motivo della sua di scelta. Un motivo che ha le fattezze indistinte di un comportamento prolungato per mesi e mesi. Insomma, decisamente sto peggio io di lui, può dirmi quello che vuole. Non mi interessa.

Dovrei chiamare Ginny? Dovrei raccontarle tutto? E perché cavolo poi?! Per farmi rimproverare anche da lei? Adesso non ho proprio voglia di fare niente, non mi interessa nemmeno questo. So che Ginny mi consolerebbe, magari mi farebbe sentire anche meglio, ma credo di non volere nemmeno questo al momento. Credo decisamente che ormai non più che cosa voglio. Forse niente. Forse tutto.

Quando ormai ho le dita aggrinzite dall’acqua calda, mi decido ad uscire dalla doccia. Trovo un accappatoio chiaro appoggiato alla vasca da bagno, che mi affretto ad indossare. Rabbrividendo, mi asciugo velocemente, ci manca solamente che mi venga anche l’influenza. Davvero completerei il quadro delle tragedie. Con il cuore spezzato ed ammalata. E disoccupata, me ne ero dimenticata. La mia vita dovrebbe vincere un Oscar come miglior film tragicomico.

Sospiro, trovando alla fine degli abiti che Seth deve avermi lasciato, mentre mi facevo la doccia. Li indosso senza prestare molta attenzione, finché mio malgrado li guardo, inorridendo. Il motivo? Si tratta di un paio di innocenti short neri e fin qui tutto bene. Bene, mica tanto, non mi piacciono affatto, perché mi lasciano le gambe nude e io ho delle gambe assolutamente inguardabili, nonostante tutti dicano il contrario. Comunque, potrebbe anche andare peggio. Dato che non devo fare la modella, ma il capo degli Auror, e al momento nemmeno questo, chissenefrega… ma per il resto, mi viene quasi voglia di mettermi a gridare. Una maglia da calcio rossa. Del Manchester United. Ma si può, dico io???!!! Fosse anche che sia la più grande st****a della faccia della terra, ma mi merito tutto questo? NO!!!!! Già, mi ero ripromessa che, da quando ad opera di una maglia come questa, il mio vestito preferito è diventato color zucchero filato alla fragola, la prossima che avessi visto, sarebbe finita al rogo assieme a tutti i componenti di quella squadra, se mi giravano. Ma adesso che il proprietario della maglietta succitata veleggia tranquillo e sereno verso i lidi gallici dopo avermi scaricato, potrei perlomeno vivere senza l‘assillo dell’esistenza di queste maledette maglie?! E poi rossa, del Manchester? Ma che è, un richiamo delle tragedie? Non capisco che razza di differenza ci sia con un ragazzo gay, se anche loro si mettono a seguire come degli ossessi queste dannate squadre di calcio rovina-coppie! Insomma, perlomeno i difetti dei ragazzi non dovrebbero averli, no? ed invece io ho trovato l’unico che ce li abbia in pieno, compresa la tendenza a non ascoltare quanto parlo e a collezionare indumenti calcistici. Insomma l’ottavo e il nono peccato capitale della lista di Hermione Jane Granger, assieme al lasciare i calzini per terra e al bere il mio succo di frutta. Certo che Dean ce li aveva proprio tutti, accidenti a lui… sospiro tra me e me, lasciando perdere alla fine il mio delirio. Tanto anche se lo facessi presente a Seth, giustamente lui potrebbe dirmi che sono stata io la demente a bagnarmi fino al midollo sotto la pioggia… in caso contrario, indosserei ancora i miei di vestiti. E, a ripensarci, il mio vestito era quello azzurro celeberrimo, regalatomi da Dean per il compleanno. Forse è davvero meglio la maglia del Manchester United

La indosso per la testa, assieme agli short, rabbrividendo ancora, i capelli sono ancora bagnati e si attaccano al collo in lunghe onde. Li friziono solo un po’ con l’asciugamano, per il resto li lascio come sono. Esco dal bagno, tornando nella stanza principale, Seth sta guardando la televisione al buio, seduto sul letto a gambe divaricate. Mangiucchia un po’ di patatine. Solleva il capo non appena entro, sorridendomi leggermente. Rispondo a malapena, sedendomi accanto a lui e rubandogli un po’ di patatine. Sto decisamente male, di solito non ne sopporto nemmeno la vista, le considero schifezze, invece adesso ne ho la bocca piena. Fantastico; con il cuore a pezzi, ad un passo dall’influenza, disoccupata, con i capelli a pesce palla ed in procinto di diventare piena di brufoli e grasso. Davvero fantastico.

“La maglia non è mia, comunque…” commenta piattamente Seth, lo sguardo fisso sulla televisione, devo avere davvero un’espressione inorridita nell’indossarla, se ha indovinato i miei pensieri “Odio il calcio, non lo posso guardare, è veramente patetico… a parte quando gioca Beckham…”.

La bocca piena, rispondo: “Ecco, mi sembrava strano… sia ringraziato il cielo… fosse per me, dovrebbero chiudere tutti gli stadi e mandare i giocatori a scavare pietre in Cornovaglia…”, sorrido, guardandolo: “A parte Beckham…”.

Seth sorride a sua volta, al che la domanda (e il sospetto connesso ad essa) si affaccia alle mie labbra assieme ad una smorfia di fastidio: “Non mi dire che la maglia è di Malfoy! Perché, davvero, ti prendo a sassate!”.

“Nemmeno a Danny piace il calcio…” mi risponde Seth trasognato, poi abbandona la sua espressione di poco prima di rapimento dei sensi, manco avesse visto Dio in persona davanti agli occhi in una visione mistica. Mi guarda curiosamente per qualche secondo, per poi chiedermi: “Ma si può sapere perché lo chiami sempre Malfoy?!”.

Mi serro nelle spalle, sgranando gli occhi, ci mancava anche la domanda ad effetto sulla maledetta faccenda del nome doppio di quel malfuretto rimbalzante. Non posso certamente dire che è un soprannome, che razza di soprannome sarebbe?! Accidenti a me che me la scordo sempre questa situazione del cavolo! Oddio, potrei anche dire che è il suo cognome, che Danny è solo una squallida copertura, che lui si chiama Draco Malfoy, eccetera, eccetera. Raccontare tutta la storia, per farla breve. Quello stamattina, in fondo, mi ha fatto subire una delle peggiori umiliazioni della mia vita, quindi se la meriterebbe tutta… ma chi prendo in giro, anche volendomi sfogare in questa maniera, finirei solamente per stare peggio. Già non mi sento propriamente a posto per aver fatto quel commento su suo padre, anche se lo meritava, figuriamoci se spiattello tutta la storia.

Mentre sto già per inventarmi un’altra scusa, ad un tratto sentiamo il rumore di una porta che sbatte.

Seth scatta in piedi, correndo alla porta. Non mi dire che…

“Serenity deve essere nata decisamente per rendermi le serate un inferno!”.

Una voce, lenta e strascicata. E Seth che si scioglie come un cioccolatino su un termosifone. Se mai avessi avuto il minimo dubbio… evito anche di arrabbiarmi, considerato che a dire di Seth, Malfoy se ne doveva rimanere fuori di casa. Medito per qualche secondo la fuga, ma senza poteri è chiaramente impossibile. E poi ormai Malfoy mi ha ovviamente visto. Se ne sta fermo sulla porta, con Seth accanto a lui che ci guarda curioso e divertito. Sospiro, alzando gli occhi al cielo. Certo che questa giornata non finisce proprio mai… e con questa siamo a tre visioni non richieste di Malfoy in due giorni. Lo vedevo anche di meno ad Hogwarts, almeno lì facevo finta di non averlo visto.

Mi basta, però, solamente una nuova occhiata a Malfoy per accorgermi che c’è qualcosa di strano, o perlomeno di diverso. Malfoy non deve aver inserito il programma giusto per la mia visione, o, che ne so, non mi ha riconosciuto. Infatti, non mi guarda con il solito sguardo da principe di tutti i serpenti e di tutti i purosangue, pronto a rinchiudermi in un ghetto magico, gettando nel mare la chiave. Lo sguardo solito, tanto per intenderci, quello del disgusto profondo, della repulsione naturale, dell’odio insofferente, e bla, bla, bla. Il suo sguardo, invece, è un piglio che su di lui stona alquanto. Imbarazzo, ecco. È rosso in viso, perlomeno per quanto lo possa diventare lui, e i suoi occhi saettano veloci da me al resto della stanza, come a cercare una via di fuga. Lui?! Quello lo dovrei fare io, non lui che è a casa sua. Quindi, perlomeno nella logica contorta della sua mente malata, avrebbe ogni motivo di cacciarmi a pedate. Lo so che è un atto estremamente maleducato, ma questo è Malfoy, no? E io sono sempre la Mezzosangue Granger, no? E’ tutto come sempre, no?!!! E allora perché non lo fa, anzi sembra volersene scappare lui da questa stanza e da questa situazione?

Il motivo mi viene rivelato tre secondi dopo. Guardo meglio tra le sua braccia. Qualcosa spunta fuori da un qualcos’altro di colore verde bottiglia. All’inizio, non riesco a vederlo bene, strabuzzo gli occhi per metterlo a fuoco. E quando vedo che cosa è, rimango a bocca spalancata.

Ha in braccio una bambina.

La guardo a lungo, senza capire. Deve avere più o meno un anno e credo che sia la bambina più graziosa che abbia mai visto. Minuta, dal viso rotondo e paffuto, leggermente rosso per il freddo dell’esterno, un piccolo nasino a patata. I folti e lisci capelli biondo platino sono legati in due piccole treccine, che scendono a colorare la piccola giacchetta di panno verde. Ha due occhi meravigliosi, azzurro cielo, circondati da ciglia nerissime, occhi vivaci ed allegri che scrutano a turno prima Malfoy, e poi alla fine me. A completare il tutto, una piccola gonna di velluto bianco in tinta con i nastri per i capelli e con le scarpe di vernice. Che carina! Dopo la prima impressione di tenerezza, la guardo ancora meglio. Assomiglia a Malfoy, abbastanza, vuoi vedere che è… no, non è possibile, sarebbe semplicemente ridicolo! Non può essere la figlia di Malfoy, siamo seri! E chi sarebbe la madre? Una poveretta, si capisce, ma a parte questo, non mi sembra che si sia sposato, no? Harry me l’avrebbe detto… a meno che… Summer! Certo! Gli occhi della bambina ricordano vagamente i suoi! Forse è sua figlia! Oddio, mi sta venendo troppo da ridere… non ci riesco… Malfoy padre… solamente a vederlo con in braccio una bambina, così carina poi… mi mordo le labbra per non ridere… ora capisco la sua espressione di poco prima. Deve avere esattamente previsto la mia espressione attuale. Ora più ci penso e più mi viene da ridere, accidenti a me. Malfoy è pure un babbano, adesso… Malfoy che cambia un pannolino puzzolente, Malfoy che dà il biberon, Malfoy che si sveglia nel cuore della notte, imprecando, Malfoy che inciampa in un giocattolo per terra. Sto diventando amaranto, a furia di trattenermi dalle risate.

Ad interrompere il flusso dei miei pensieri, ci pensa proprio la bambina in questione, iniziando a piagnucolare e borbottando qualcosa di vagamente assimilabile alle parole: “Danny! Danny! Fame!!!”. O mamma, adesso scoppio, lo sento. Un attimo… mi metto a riflettere nel vano tentativo di distrarre il mio cervello dalle ilari visioni che sta concependo. L’ha chiamato Danny, non papà. O padre, che ne so se hanno ancora questa usanza antiquata. Padre, padre, il mio stomaco sta producendo enzimi. Denota un bisogno di ingerire sostanza nutrienti!! Devo smetterla! Comunque, l’ha chiamato Danny. Forse non c’entra niente con lui.

“Un attimo, Serenity…” risponde Seth al posto suo, comprendendo che non è aria. 

Un secondo, Serenity? Eccolo lì il mistero! Potty si è rimangiato la parola? O vuole togliermi Serenity?”. “Danny non c’è… è uscito con Serenity…”. Quella che credevo l’amante segreta di Malfoy, è una bambina! Togliergli Serenity… Harry potrebbe togliergli Serenity… e perché? Una cosa è certa, sicuramente non è sua figlia. Chi potrebbe mai togliere una figlia ad un padre? Nessuno, a meno che non sia un padre snaturato, il che con Malfoy non potrebbe essere totalmente escluso. Ma, mi duole riconoscerlo, Serenity sembra vestita bene e sembra anche serena. Insomma, Harry non dovrebbe aver diritto a togliere a Malfoy la sua bambina, anche se stiamo ovviamente sempre parlando di Malfoy. Sapevo di figli sottratti ai Mangiamorte, ma Harry mi ha garantito che Malfoy non ha più niente a che vedere con la magia nera. Con la magia, in generale, a ripensarci. A meno che effettivamente Malfoy non abbia alcun diritto ad avere questa bambina… forse l’ha rapita… la cosa sta iniziando decisamente a puzzarmi…

Di fronte al nostro prolungato silenzio, Seth pensa bene di prendere in braccio la piccola e trascinarsela dietro, chiudendosi la porta alle spalle. Un attimo! Ma che pensa bene?!!! Seth l’ha capito sì o no che non ho molto piacere a rimanere da sola con Malfoy?! Possibile che mi lascia sempre con lui?!! Non dovrebbe essere geloso?!! Maledizione, e adesso che faccio?!! Ma se io me ne tornavo a casa ad ingozzarmi di cioccolata come tutte le donne normali che vengono lasciate dai fidanzati!!!

Malfoy sospira vistosamente, poggiando una busta della spesa sul tavolo della cucina. Oddio, anche le buste della spesa, adesso davvero stramazzo al suolo per le risate. Un attimo… ma perché non dice niente? Mi va bene anche che mi insulti o che mi cacci, ma che non dica niente… è troppo imbarazzante! Raccolgo le ginocchia al petto, riassettandomi sul letto, non sapendo forse per una delle rare volte della mia vita che cosa diavolo fare. Alla fine, decido di alzarmi con uno sbuffo impaziente ed andare a raccogliere le mie cose. L’ho capita l’antifona, me ne devo andare, non mi sta dando nemmeno la soddisfazione di una risposta. In effetti, questa mattina, ho nominato suo padre, insomma dovrei ringraziare di essere ancora in grado di camminare da sola. Quello che non capisco, è perché se ne stia zitto, lui poi! Quello che è capace di andare avanti ore ed ore ad insultarti, non è mai a corto d’argomenti in quel senso… boh, mi sono già scocciata di questa assurda situazione, non avrei dovuto mettere più piede qua dentro ed invece ci sono già tornata due volte. Raccolgo la mia roba, pronta ad andarmene, ma all’improvviso i vari rumori di cose sistemate e riassettate che provenivano dalla cucina, cessano. E, in meno di un nanosecondo, mi trovo Malfoy davanti ai piedi.

“Che c’è?!” replico nervosa, sollevandomi, mentre ero intenta a prendere le mie scarpe.

Lui mi guarda di nuovo con l’espressione consueta, tinta però di una vena di rabbia che prima non c’era, soppesandomi con lo sguardo in tutta la mia figura. Sembra soffermarsi sulla maglia rossa, spero davvero che non sia sua. Poi i suoi grigi tornano al mio viso e le sue labbra si arricciano in una smorfia di repulsione. Roba trita, insomma. Sollevo ancora gli occhi al cielo, maledicendomi per l’ennesima volta, e riprendo a raccogliere le mie scarpe. I miei sandali bianchi, però, non fanno in tempo a staccarsi dal pavimento, che ricadono immediatamente per terra con un piccolo tonfo di legno su marmo. Mentre sono ancora china, sollevo sorpresa i miei occhi, Malfoy mi ha fermato per il polso, stringendomi con forza. Mi sta facendo male, decisamente. Ma non gli darei mai la soddisfazione di farglielo vedere. Le sue dita fredde si artigliano attorno al mio polso, impedendomi qualsiasi movimento. L’insofferenza mi fa venire le lacrime agli occhi per la frustrazione, non per il dolore. Non ce la faccio veramente più, l’unica cosa che vorrei è andarmene a dormire.

“Malfoy, nel caso in cui la tua ristretta scatola cranica non l’abbia immagazzinato come concetto, me ne sto andando…” sussurro tagliente, sebbene la mia voce abbia tremato impercettibilmente. Spero solo che non se ne sia accorto.

A conti fatti, Malfoy né ha visto quelle piccole lacrime, né ha sentito quel tremolio nella voce. Sembra profondamente perso in altre faccende ed in altri pensieri. Continua a tenermi per il polso, finché con un strattone mi solleva violentemente dalla posizione accovacciata in cui ero. Mi ritrovo in piedi davanti a lui, che mi trattiene ancora con il braccio sollevato, guardandomi negli occhi. Cerco di divincolarmi, adesso, mi sta facendo veramente male.

“Lasciami Malfoy! Ho capito, me ne sto andando!” urlo, graffiandogli con le unghie la mano che mi stringe ancora. Ancora, è come se non mi avesse sentito, mi guarda cieco e sordo di qualsiasi cosa, persino della repulsione che dovrebbe avere per il prolungato contatto fisico con me. I suoi occhi sembrano due pezzi di granito freddo, sembrano non guardarmi davvero, sono talmente pieni di odio che mi fanno rabbrividire. Mentirei, se dicessi che ci sono abituata. Non è vero, Malfoy mi guarda così per la prima volta. Sento qualsiasi cosa stia pensando sulla mia pelle, mescolarsi ghiacciata al mio respiro, opprimendo il mio petto. Liquidi e chiari come sono sempre stati, i suoi occhi sono gli specchi  di qualsiasi cosa adesso affolli la sua mente. E non è una bella cosa, sicuramente. Mi sta facendo male, davvero, adesso, in tutti i sensi. Il polso pulsa, bianco, credo che me lo romperà alla fine. Sento persino una ventata di nausea colpirmi la bocca dello stomaco. Cerco di divincolarmi, di distogliere lo sguardo da lui, ma non ci riesco. È inutile, è come se mi tenesse incollata ai suoi occhi. Freud diceva che ci sono due istinti nell’uomo, quello alla vita, Eros, e quello alla morte, Thanatos. Come se fossi convinta che adesso mi ammazzerà e non facessi nulla per impedirlo, anzi ne fossi quasi attratta. Mi ucciderà così, come niente, senza nemmeno un urlo, e io me ne andrò, senza fare assolutamente niente. Non ci posso credere…

Quando ormai sono convinta che stia per farlo, le sue palpebre sbattono con foga, quasi sorprese. La sua stretta sul mio polso diventa più debole, i suoi occhi ritornano trasparenti come sempre. Mi guarda con curiosità, poi con sorpresa, alla fine con sollievo. Alla fine, lascia il mio polso, che debole ricade lungo il mio fianco. Lo massaggio piano, almeno non è rotto. Solo allora mi accorgo delle mie guance bagnate, ho pianto alla fine. Mi asciugo velocemente quella vergogna inconfessabile con le dita, cercando di non farmi vedere da lui. Nascondo il mio viso nelle palme aperte per qualche secondo, un tremore incontrollabile che non ne vuole sapere di lasciare le mie membra.

In quei pochi secondi, lo sento dire: “Davvero non sapevi nulla di Serenity, Granger…”. La sua non è una domanda, è una constatazione. Una constatazione meravigliata, me ne rendo conto. Torno a guardarlo, è immobile davanti a me, mi osserva con espressione indecifrabile.

“Te lo dovevo dire in ebraico antico, Malfoy?” aggiungo, massaggiandomi ancora il polso “Non so nulla di Serenity, né tantomeno mi interessa… “, all’improvviso mi rendo conto di non riuscire più a stare in questa stanza davanti a lui, è come se la mia intera anima tremasse dentro al mio corpo. Non avevo così paura dall’ultima volta che ho visto Lord Voldemort. Mi fa vergognare profondamente di me stessa, mi racconto che era perché non ero preparata, ma so perfettamente che non è così. Ho avuto davvero un terrore allucinante di lui, come mai era successo.

Malfoy distoglie lo sguardo da me, guardando altrove, prima di dire: “Si può sapere perché sei qui allora? Di nuovo, aggiungo…”.

“Non ti devo alcuna spiegazione, Malfoy…” rispondo, cercando di rendere la mia voce meno tremula “Me ne sto andando e comunque è stato Seth a chiedermi di restare…”, guardo ancora il mio polso rosso e butto fuori maligna: “…e poi non mi venire a dire che non sei come tuo padre…”.

Lui t’avrebbe ucciso, Granger… io ho solamente letto i tuoi pensieri…”. La sua voce mi colpisce come una frustata alla schiena, mentre già gli davo le spalle e stavo per uscire. Mi fermo sulla soglia della porta, immobile, voltandomi di nuovo a guardarlo. Il tremore è scomparso all’improvviso. Ma certo… altro che paura e terrore reverenziale di Malfoy… la Legilimanzia, era da tempo che non ne subivo gli effetti. Dall’addestramento da Auror, credo. Per questo, mi ha fatto così male. Il contatto visivo, quello fisico, certo c’è tutto… ha solamente letto i miei pensieri…

“Perché hai letto i miei pensieri?” chiedo, la voce che trema ancora, ma non c’entrano niente gli effetti dell’incantesimo. Come cavolo si è permesso?! A parte lo spavento, il che è una componente trascurabile, vogliamo mettere la violazione della privacy?! Chissà che diamine stavo pensando e che cosa è arrivato a leggere, maledizione! Forse di Dean o della mia condanna! Non ci voglio nemmeno pensare! E tutto perché? Per vedere se sapevo della bambina! Glielo ho detto dodici volte che non lo so! Vuoi vedere che davvero non dovrebbe averla lui, Serenity? E pensa che io gliela voglia portare via? E perché diamine poi? Sta situazione mi sta facendo venire i nervi, è come stare perennemente in un vicolo cieco, senza remissione di uscita. Insomma, uno schifo. E volta che ti rigira la situazione, sempre qui finisco.

“Non sono affari tuoi, Granger…” mi risponde, freddo come sempre, incrociando le braccia “Quello che non capisco è che diamine ci fai ancora qui… devi aver maturato uno strano interesse per la mia persona per esserti stabilita qui in pianta stabile?”, lo vedo aggrottare le sopracciglia in espressione di finta meditazione, prima che aggiunga: “O magari sei solo masochista… vuoi che ti ripeta ancora di andartene? O che non ti assumo? O tutte e due le cose, guarda che lo faccio senza problemi…”.

“Non ho maturato nessun interesse per la tua fetida persona, Malfoy… ci mancherebbe altro…” mastico a denti stretti, prima di spiegare la mia presenza in maniera poco corrispondente al vero “Ho perso la metro e sono rimasta fuori dal locale ad aspettare che mi venissero a prendere. Ma non sono più potuti venire e quindi Seth ha deciso gentilmente di ospitarmi per stasera…”.

“Sei fuori dal locale dalle undici di stamattina?!” commenta lui ironico, evidentemente scettico.

“Perché c’è qualche problema?!” rispondo, la voce più alta, punta sul vivo nella mia bugia “Quello che invece non è ancora chiaro, è perché diamine a me dovrebbe importare di quella bambina… me l’hai detto ieri e me lo ripeti oggi, arrivando anche a leggermi nella mente… hai qualcosa da nascondere, Malfoy?”. Termino il tutto con la mia migliore espressione allusiva ed indagatrice, ma lui non si scompone minimamente, ribattendo con un sorrisino sardonico: “Non te la cavi più tanto bene con la magia, eh? Sono arrivato fino al tuo subconscio e non mi hai fermato… mi ucciderà così, come niente, senza nemmeno un urlo, e io me ne andrò, senza fare assolutamente niente…” scimmiotta, imitando una voce pseudo-femminile, riportando i miei pensieri terrorizzati di poco prima.

Stringo i pugni: “Il giorno in cui ripeterò la grandiosa esperienza di prenderti a schiaffi, sarà la più grande festività riportata a memoria d’uomo…”.

“E il giorno in cui finalmente non ti vedrò più davanti ai miei occhi, passerà una banda con settantasette maledetti tromboni…” risponde lui a tono.

Sospiro a gran voce, prima di dichiarare risoluta: “Dato che non siamo mai stati amici del cuore, non mi sentirò in colpa nel non darti alcuna spiegazione… io smetterò di chiederti di Serenity e tu smetterai di chiedermi qualsiasi cosa su qualsiasi argomento, ok?”. Tento di usare una voce ragionevole, sebbene abbia l’enorme sospetto di star perdendo il mio tempo. Lui fa spallucce, senza darmi la soddisfazione né di un sì, di un no. Meno male, almeno questa è risolta. Non ci speravo, in fondo, ma perlomeno se si impegna, può avvicinarsi al concetto di persona normale.

“Allora, Granger, quand’è che te ne vai?” ecco, mi sembrava strano che se ne stesse in silenzio per più di cinque secondi netti.

“Immediatamente, devo solamente trovare la mia borsa…”. Me ne voglio andare quanto prima da questa casa infernale. Sì, sì, lo so che sta ancora piovendo, che sono già le undici e tutto quanto, ma se resto un solo nanosecondo qua dentro, impazzisco. Già il fatto che Malfoy possa leggere i miei pensieri come niente e che io non possa fare niente per impedirlo, mi mette l’angoscia. Quando finalmente me ne sarò andata, mi dimenticherò di tutta questa storia e addio Malfoy, Danny, Ryan o come cavolo si chiama! Intravedo finalmente la mia borsa appesa alla maniglia della porta d’ingresso. Con un respiro di sollievo, la afferro, pronta ad andarmene, ma nello stesso momento la porta si apre, facendola scivolare a terra. Seth. E Serenity. Fantastico, veramente fantastico.

Seth mi guarda, aggrottando le sopracciglia, con Serenity in braccio che beve dal suo biberon del latte con dei biscotti. Fingo un sorriso, sperando che non mi chieda o dica niente. Lo vedo aprire la bocca, ecco, come volevasi dimostrare…

“Dove stai andando?” mi chiede innocentemente, gettando un’occhiata alla mia borsa e al mio vestito bagnato, che ho in mano.

“A casa…” getto un’occhiata in tralice a Malfoy, che se ne sta fermo a braccia conserte appoggiato allo stipite della porta del bagno. Sospiro: “Lo sai meglio di me che qui non posso restare…”.

“Oh sì, invece che ci resterai…” aggiunge Seth con un tono di voce quasi minaccioso, sposta Serenity da un lato e mi prende per un polso. E dalle, ma allora è un vizio! Mi trascina dietro di sé, riluttante lo seguo, fino a quando si ferma in cucina, mi costringe a sedermi su una sedia, mettendomi Serenity in braccio.

“Aspetta qui, tesoro…” mi dice, mentre la piccola mi guarda con espressione incuriosita. Seth esce dalla stanza, raggiunge Malfoy che lo guarda praticamente nero in viso e gli fa cenno di seguirlo. Malfoy sembra riluttante, ma alla fine lo segue. Si chiudono la porta dell’appartamento alle spalle. Impreco a mezza voce tra me e me, riassettandomi meglio sulla sedia, se Seth spera di convincere Malfoy, ha preso un’enorme cantonata! Ma magari lui è convinto di convincere Danny, e forse questa come impresa per lui è facile. Come no, quello sempre Malfoy è, anche se si chiama Danny. Forse lo scorticherà vivo, se dirà qualcosa… e, alla fine, mi toccherà anche salvare Seth dalle sue grinfie. Che razza di giornata! Appoggio stancamente il gomito sul tavolo, la testa sul palmo della mano, sospirando per la duecentesima volta in un’ora. Gli occhi mi si chiudono, mi sto addormentando in piedi peggio di un cavallo. Che Malfoy mi faccia stare qui o no, è una faccenda di poco conto. Basta che si muova.

Ad un tratto, un piccolo gorgheggio mi fa trasalire. La bambina, me ne ero dimenticata! Sembra che abbia finito il suo biberon… ha perso quindi l’occupazione che la assorbiva fino ad ora, permettendole di ignorarmi completamente. Adesso, infatti mi guarda con gli occhioni spalancati, evidentemente cercando nella sua esigua memoria chi mai io possa essere. Non avendo trovato alcuna faccia corrispondente alla mia, deduce che mi dovrebbe stare alla larga, perché non mi conosce. Ragionamento ineccepibile, è una bambina molto intelligente, avrei fatto anch’io lo stesso alla sua età. I suoi enormi occhi azzurri si riempiono di lacrime, mentre tira su con il naso e il labbro inferiore trema, preannunciando la più grande crisi di pianto mai conosciuta in Inghilterra, dai tempi di Mirtilla Malcontenta.

“No, no, piccola…” cerco di cullarla e farla calmare, mentre getto occhiate furenti a quella maledetta porta che ancora non si apre. La faccio dondolare tra le mie braccia, ma lei niente, continua nella sua progressiva corsa a tappe per l’arrivo al pianto. Mi alzo in piedi, andando avanti ed indietro e ninnandola sempre tra le mie braccia, ma la situazione non sembra cambiare di molto. E’ inutile, io con i bambini non ci so proprio fare. Qualche tempo fa, Kennedy, la sorella venticinquenne di Dean, ci portò a casa sua figlia, Dawn, una bambina carinissima fino a quando la madre rimase nelle vicinanze, ma che si trasformò in un mostro assetato di sangue, non appena lei si fu richiusa la porta alle spalle. Quella piccola peste distrusse completamente una mia gonna di raso azzurro, scarabocchiandoci sopra con dei pennarelli colorati. Urlai come un’ossessa, rimproverandola, e quella prese a piangere come una pazza, emettendo gemiti degni degli Ippogrifi nella stagione degli amori. Alla fine, Dean se la portò via e ne aveva ben ragione. Che cavolo, era sua nipote, mica la mia, no? Lui, invece, è sempre stato bravo con i bambini, ho sempre pensato che sarebbe stato un ottimo padre. Credo perché, in fondo, sia lui stesso ancora un bambino.

Basta un secondo.

Un minimo secondo.

E ci penso. Ancora.

Basta pensare alla possibilità remota di chiamare Dean per aiutarmi, e tutto torna a galla. È un pensiero assurdo, dettato da quella forza chiamata dell’abitudine. Appoggiarmi tanto a lui e pensarlo naturalmente… era questo, amarlo? Inconcepibile ancora che io non sappia la risposta a questa domanda, ora che, se lo chiamassi, non basterebbe poco per venire da me, ma il passaggio di un mare che ci divide. Un mare che mi divide da lui.

Senza volerlo, ancora i miei occhi si eclissano e si riempiono di lacrime. Non riesco a trattenermi, è come una droga, morire poco a poco, sapendo perfettamente che lo si sta facendo. Come prima con Malfoy… non era lui… non era l’effetto della Legilimanzia… ero… io

Non ho più forze. Non ho più voglia. Non ho più niente.

Se cadessi giù, se finisse di provare qualsiasi cosa, probabilmente non ne avrei coscienza.

Una piccola lacrima rotola giù dai miei occhi. Ne sento la frescura sulle ciglia, ma si ferma sulle guance. Apro gli occhi momentaneamente socchiusi, un piccolo palmo paffuto ne ha fermato la discesa. La bambina. Mi guarda con espressione dispiaciuta, forse nella sua mente infantile, crede di avermi fatto piangere lei. I suoi occhi sono ancora lucidi, ma il pianto sembra lontano. Sorrido, almeno l’ho calmata in un maniera alquanto contorta, cioè piangendo io. Mi sfrego bene gli occhi con la mano, incurante dei residui del trucco che si spargono per la mia faccia.

“Non ti preoccupare, piccola… com’ha detto Malfoy che ti chiami? Ah già, Serenity…” mormoro al suo indirizzo, sorridendo debolmente “Hai proprio un bel nome! Scommetto che non te l’ha dato, Malfoy… figurati con la sua enorme inventiva è arrivato al nome Danny…”. Faccio una smorfia disgustata, ripensando sia al soggetto preso in esame, che al suo orrido nome. Evidentemente questa diverte moltissimo Serenity, che scoppia in una grande risata, battendo le manine. Le sorrido a mia volta, ripetendo la performance. In fin dei conti, è l’unica cosa che sembra averla calmata. Ripeto lo show alla divertita spettatrice per una decina di volte, fino a rischiare la slogatura della mascella. Dato che Malfoy e Seth non ne vogliono sapere di tornare, mi vado a sedere nuovamente sul letto, accendendo la televisione con Serenity in braccio. Non credo che a quest’ora ci sia un programma per lei, ammesso e non concesso che i bambini di un anno guardino la televisione. Spero di no! Quanto più tardi, iniziano a guardare quella scatoletta infernale, tanto meglio è! Alla fine, trovo un documentario sul Medioevo (che tanto per gradire ho già visto) e non sapendo che fare, mi metto a spiegarlo come una povera demente alla piccola, condendolo di principesse e fatine varie. In fin dei conti, sono le undici passate, sta bambina deve dormire prima o poi, no? E io di fiabe non ne conosco o perlomeno non me le ricordo. E poi, una volta, sentii che, nel primo anno di vita, i bambini apprendono passivamente un gran numero di informazioni, vai a vedere che faccio pure un piacere a Malfoy. La piccola inizia a chiudere ed aprire i suoi piccoli occhi azzurri, certo che è proprio carina. Evviva, ce la sto facendo! Sono un genio della puericultura! Mi mancava questa alla sfilza infinita delle mie qualifiche! Magari, mi posso mettere a fare la babysitter e diventare un gigante nel campo! Filiali sparse per tutto il mondo con schiere di adolescenti brufolose, pronte a correre in caso d’evenienza ventiquattro ore su ventiquattro! Ma certo, che maga! Cioè, non maga in senso stretto… maga in senso metaforico… ma comunque maga sono! Mentre già cerco lo slogan della mia nuova proficua attività e, nel frattempo, cerco di ricordare il nome del nono cavaliere della Tavola Rotonda che mi sfugge, la porta si apre di nuovo. Seth entra per primo, decisamente soddisfatto. Ha il petto in fuori manco fosse Eisenhower il giorno dopo lo sbarco in Normandia, il 7 giugno 1944… o mio Dio, sono veramente incorreggibile… in compenso, Malfoy è l’Hitler della situazione. Scuro in volto, le braccia conserte, lo segue controvoglia, strascinando i piedi come un bambino capriccioso. Seth si para tronfio di orgoglio, davanti a me, apre la bocca evidentemente per dire qualcosa, poi si blocca, spalancando la bocca in un espressione di meraviglia assoluta. Mi ritraggo a disagio, certo che è questo è proprio strano forte…

“Danny…” lo chiama a denti stretti, prendendolo per una manica della camicia. Lui, sbuffando, si accosta a Seth, poi mi guarda e anche il suo viso si tinge di sorpresa. Ma che cavolo hanno tutti e due?!!

“Che c’è?!!” chiedo nervosa, deve essere il rimmel sparso sulle guance, che ne so! Ma Seth lo sa che, insomma, mi sono appena lasciata con il mio ragazzo, potrò piangere quanto mi pare e piace???!!!

Seth solleva un indice tremante, indicandomi, per poi dirmi sottovoce: “Serenity sta dormendo…”.

Sto quasi per cascare dal letto… tutto qui?!!!

“Bè sì, a volte i bambini dormono… solo poche ore al giorno, ma a volte accade…” commento, sollevando scettica un sopracciglio e non riuscendo ancora a capire. Serenity si adagia meglio sul mio petto, respirando tranquillamente.

“Come hai fatto?” mi chiede ancora Seth, poi vedendo la mia faccia confusa, si affretta a spiegare: “Serenity vuole almeno un’ora per addormentarsi… camomilla, conteggio delle pecore, favole… non funziona niente! E tu ci sei riuscita in un quarto d’ora? Come hai fatto?”.

“Magari con una magia…” la voce tagliente di Malfoy mi trafigge le orecchie. Dio, quanto lo odio! E certo, non vuole darmi soddisfazione! Una piccola voce esitante mi suggerisce che non sa ancora del mio essere una babbana completa, ma la metto rapidamente a tacere. Decisamente non vuole darmi soddisfazione!!

“Non con una magia, Danny…” sputo fuori velenosa “Le stavo solamente raccontando una specie di storia…”.

“Certo che devi essere veramente noiosa, Granger, per aver fatto addormentare persino Serenity…” ride Malfoy in modo malevolo.

Simulo una risata forzata, aggiungendo: “O mio Dio, era una battuta? Perdonami non l’avevo capito… il tuo senso dell’umorismo è così sottile che a volte non riesco ad afferrarlo! Deve essere tipico delle foreste dell’Amazzonia, da cui provieni!”. Malfoy sta decisamente per lanciarmi un’Avada Kedavra all’istante. Mi guarda con gli occhi ridotti a fessure. Forse è meglio che mi stia zitta, altrimenti è la volta buona che ci lascio le penne.

“Adesso basta…” intima Seth, ponendosi significantemente tra me e lui con le palme alzate “Tregua! Siamo tutti stanchi morti… non sarebbe meglio andarsene a dormire?”.

“A dormire?!” chiedo con voce scioccata. Devo essermi persa qualcosa.

Seth si gonfia di nuovo, mentre Malfoy sbuffa, incrociando le braccia al petto: “Ho convinto Danny a farti rimanere qui per stanotte, Herm… insomma, puoi dormire qui…”.

“Davvero?” chiedo, autenticamente colpita all’indirizzo di Malfoy, sporgendomi con il capo oltre Seth.

Lui sbuffa ancora, per poi replicare scocciato: “Ad una sola condizione… che tu apra quella tua bocca soltanto in caso di vita o di morte…”, aggiunge borbottando: “Almeno avrò la dolcissima illusione che tu non sia qui…”, poi illuminato mi guarda e fa: “Anzi, Granger, facciamo una bella cosa… anche in caso di vita o di morte, sarà meglio che tu non parli… sai, per l’inquinamento acustico e tutto il resto…”.

Un giorno, lo ammazzerò, ne brucerò il cadavere e spargerò le ceneri nel Tamigi. Sarà il crimine perfetto, manco Jack lo Squartatore…

“Certo, Danny…” ribatto con voce mielosa, sperando di fargli venire un attacco di disgusto tale da farlo stramazzare al suolo all’istante.

“Allora siamo d’accordo, Hermione…” imita la mia voce con tono effeminato. Che schifo! Mi ha chiamata per nome! La prima volta nella sua vita! L’ha fatto apposta, ci giurerei! Quando si tratta di suscitare disgusto, Malfoy è un maestro! Bleah, il mio nome sembra così strano detto con la sua voce, come se avesse detto chissà che altra cosa. Sorrido leggermente, la sua stessa faccia denota la stranezza della cosa. E’impallidito più del solito e ha fatto una smorfia strana. Ahaha! Vuole strafare e sbaglia! 1 a 0 per me! Seth sospira, evidentemente deve aver capito il sottotesto della nostra conversazione. Non che ci voglia molto, comunque… quando siamo nella stessa stanza, io e Malfoy facciamo crepitare l’aria di elettricità statica. Un atomo di uranio si sarebbe già spaccato in miliardi di pezzi, fornendo l’energia per illuminare a giorno l’intero emisfero boreale; credo che, alla fine, useranno me e Malfoy per risolvere il problema delle risorse energetiche del mondo e troveranno la soluzione più conveniente dai tempi delle ricerche sulla fusione a freddo.

“Hai fame? Vuoi mangiare qualcosa?” mi chiede Seth gentilmente, prendendomi Serenity dalle braccia.

“Pure?! Le dobbiamo dare anche da mangiare?!!” la voce acida di Malfoy mi impedisce di rispondere.

Seth sospira per l’ennesima volta, evitando una risposta, poi riprende gioviale come se niente fosse: “Se vuoi, possiamo ordinare una pizza… sei d’accordo?”.

“Va benissimo…” sorrido a trentadue denti, un po’ perché Seth è veramente dolcissimo, un po’ perché in tal modo tolgo automaticamente ogni potere decisionale a Malfoy. 2 a 0 per me! Hermione Jane Granger rules!

Malfoy continua a borbottare a denti stretti, mentre Seth va a lasciare Serenity in camera sua, consegnandomi il numero di telefono della pizzeria più vicina. Arresosi ormai alla situazione, Malfoy pensa bene di stravaccarsi sul letto a sua volta a guardare la televisione. Getta la sua cravatta allentata su una poltrona, fa una smorfia disgustata al documentario che stavo guardando, agguanta il telecomando e si mette a guardare un canale sportivo.

“Che hai da fissarmi?”.

Sobbalzo, ma che ha gli occhi anche sulla nuca?!

“Sei paranoico, per caso?” chiedo con voce incerta, componendo il numero della pizzeria.

“Se stamattina mi avessero detto che stanotte avrei diviso la casa con la Granger, mi sarei suicidato… davvero…” commenta stancamente, il viso illuminato dalla luce azzurrina della tv.

“Se vuoi, ti chiamo domattina e ti avviso del mio arrivo… siamo sempre in tempo, Danny…” rispondo a mia volta più stanca di lui, mentre una voce metallica mi mette in attesa. Certo che i duelli verbali con Malfoy alle undici di sera, con lo stomaco che brontola, il sonno che mi chiude gli occhi e il cuore a pezzi, sono veramente estenuanti.

“Non c’è bisogno che tu mi regga il gioco, Granger…” la sua voce stavolta più leggera mi fa sobbalzare ancora, la cornetta che trema impercettibilmente nelle mie mani. Mi volto nella sua direzione e lo vedo rivolto verso di me, gli occhi grigi fissi sulla mia persona. Mi chiudo nelle spalle, un brivido freddo che mi attraversa la schiena. La luce della tv gli fa uno strano effetto addosso, sembra quasi… non lo so… insomma, non sembra lui, decisamente. Sembra uno… normale… persino spaurito e spaventato… o mio Dio, mi sta venendo anche da arrossire… ora, non fraintendiamo. Ho sempre avuto gli occhi per vedere che Malfoy è decisamente un bel ragazzo e sono abbastanza obiettiva e razionale da ammetterlo. Quindi, non è che me ne sono accorta adesso… ma, in questo preciso momento, è la prima volta che ne ho la completa percezione. Del fatto che sia un bel ragazzo, intendo. Sarà la sua espressione insolita, sarà la maledetta luce della televisione, sarà che sono fragile psicologicamente… intanto, è la prima volta che mi rendo conto che è così biondo e che ha gli occhi così chiari. Credo che, se solamente volesse, potrebbe obbligare il 99,9% della popolazione femminile ad adorarlo come una divinità. Lo 0,1%, ovviamente, sono io.

“Non ti sto reggendo nessun gioco…” ribatto confusa, sbattendo le palpebre un paio di volte così da snebbiare un po’ il mio cervello.

“Non fare la finta tonta, Granger… sto parlando del mio nome… scommetto che il caro Potterino ti ha raccontato tutto, vero?”. Certo, adesso capisco… l’ho chiamato Danny, anche se non c’era Seth.

Sollevo il mento con espressione noncurante: “Mi ha solamente detto della questione con Scrimeogeor… null’altro… dell’aver cambiato identità, insomma…”.

“Questo, l’avevo capito, Granger…” ribatte quasi annoiato “L’ho visto che non sai niente di Serenity…”, sebbene stia morendo di curiosità su questa maledetta questione, lo faccio continuare con enorme sforzo psicologico “… sto parlando del chiamarmi con il mio nome babbano… non ne sei obbligata… evita di chiamarmi e basta”.

“Non mi sono sentita obbligata in nessuna maniera, figurati se t’avrei dato questa soddisfazione…” ribatto ancora, distogliendo lo sguardo. Non so perché, ma mi sta mettendo a disagio, decisamente. Quella sua maledetta espressione… non può cambiarla, accidenti a lui?!! E’ come se mi passasse attraverso, guardandomi, sfiorandomi la pelle con i suoi occhi. Che stia di nuovo usando la Legilimanzia? No, non c’è contatto né fisico, né visivo. E allora per quale ragione?

“Sei pur sempre sotto un programma di protezione… non potrei infrangere nessuna di quelle regole, anche se si tratta di te…” mi giustifico davanti a me stessa e a lui. Lo vedo con la coda dell’occhio aggrottare leggermente le sopracciglia sottili in espressione di meditazione, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e il mento sulle mani incrociate. Mi sembra persino di intravedere un piccolo sorriso curvargli le labbra, ma forse mi sono sbagliata.

“I segreti dei Grifondoro non saranno mai quelli dei Serpeverde, eh Granger?” la sua voce suona ironica e quasi malinconicamente divertita. Sembra così strana che mi volto a guardarlo, cercando di indovinarne l’espressione. Non riesco a scorgerla, lo vedo solo alzarsi dal letto e stiracchiarsi. Che cosa voleva dire? Lo guardo confusa, mentre lui invece inizia a camminare verso la porta. Impercettibilmente, indietreggio di un passo.

“Sei qui solamente per Seth…” aggiunge ad un passo dalla porta, senza più guardarmi “Domani, te ne andrai e ognuno se ne andrà per i fatti suoi… non voglio la tua disgustosa attenzione per le regole, Granger… se ti viene di chiamarmi con il mio vero nome, fa quello che vuoi… alla fine, non ci sarà nessun ringraziamento per te, comunque mi chiamerai… quindi…”, torna incolore e piatto, mentre dice: “Vado a farmi una doccia… per me, panna e speck…”, vedendomi spalancare gli occhi ancora di più, aggiunge sospirando: “La pizza, Granger… dannazione, mi ero dimenticato com’era parlare con te…”.

La porta si chiude alle sue spalle.

Scopro la vergogna di un sospiro di sollievo, che però non sembra fermare il battito folle del mio cuore contro le mie costole. Mi accascio contro la credenza, gli occhi chiusi e la testa reclinata all’indietro.

Evidentemente anch’io mi ero dimenticata com’era parlare con te.

Perché stavolta, è tutta un’altra cosa. È una cosa completamente diversa.

Perché è lui, stavolta, ad essere completamente diverso.

Che è successo davvero a Draco Malfoy?

 

 

I segreti dei Grifondoro non saranno mai quelli dei Serpeverde, eh Granger?

Chissà come cavolo farò a pagare l’affitto della casa, adesso che non c’è più Dean… 450 sterline non sono poche, assolutamente, inoltre credo che la signora Sanchez mi ammezzerà la prossima volta che mi vede senza soldi. Forse, dovrei trovarmi un appartamento più conveniente. Se Ginny ed Harry non si sposassero, potrei andare a vivere da lei e sarebbe la soluzione migliore.

Non c’è bisogno che tu mi regga il gioco, Granger…

Anche se Ginny finiva sempre tutta l’acqua calda e lo shampoo prima di me, non era certamente una grande compagna di stanza, anzi… si lavava i capelli tre volte al giorno, come è possibile? O comunque tre volte alla settimana, sicuramente…

Lui t’avrebbe ucciso, Granger… io ho solamente letto i tuoi pensieri…

E, adesso che ci penso, che mi metto al matrimonio di Harry e Ginny? Me ne ero scordata! Si sposano tra un mese e io sono anche la testimone di Ginny! Ma si può? Non mi posso mica mettere il tailleur bianco, è diventato corto di maniche. Il vestito rosso, manco a pagare… lo avevo anche al matrimonio di Hannah Abbott, figuriamoci se l’hanno dimenticato quelle pettegole.

Mi rigiro nuovamente nel letto, un pallido raggio di luna che mi trafigge il viso con la potenza di un raggio solare. Mi volto nervosa dall’altra parte, per finire abbagliata dalla luminescenza della lava-lamp sul comodino. Nascondo la testa sotto il cuscino e, se le luci smettono di tormentarmi, le parole no. Va bene, va bene, lo ammetto! Sto continuamente a pensare alle parole di Malfoy, da ore ormai, ossia da quando mi sono messa a letto. Ho cercato di distrarmi, ma niente! Siete contenti adesso? Che poi, se dobbiamo essere precisi, la colpa è tutta di questo letto. Oltre a non essere mio, credo che non sia nemmeno ortopedico. Quindi, è ovvio che, se uno non riesce a dormire, ripensa alle cose più sgradevoli, successe durante la giornata. E cosa c’è di più sgradevole nella mia mente dell’immagine di Draco Lucius Malfoy?

Mi sporgo lentamente oltre il lenzuolo che mi copre, Seth dorme placidamente sul divano, la bocca semiaperta. L’ho preso in giro per tre ore per il suo pigiama azzurro con degli smiles rossi. Malfoy, per mia fortuna, dorme nella sua parte di appartamento assieme a Serenity, e quindi molto lontano da me. Vabbè, molto lontano, una decina di metri, l’ideale sarebbe una quindicina di anni luce, ma non si può avere tutto dalla vita. L’ho imparato a mie spese. E ora sono qui a dimenarmi come una anguilla, mentre l’orologio di chissà che posto batte le tre. Sono andata a letto ben due ore fa, quindi… due ore di sonno perse. E devo anche alzarmi presto, Malfoy ha gentilmente sottolineato che quanto prima me ne vado, meglio è. Non che non l’avessi capito… anche perché anch’io vorrei andarmene di qui il prima possibile, giusto per dimenticarmi tutto quello che è successo in questa assurda serata. Allora, ho partecipato alla cena più paradossale della mia vita; seduta ad un tavolo assieme ad un ragazzo che ho conosciuto solamente ieri, ma che mi tratta già come se fossi la migliore delle sue amiche, e con un altro, che invece conosco da anni, ma che odio in senso sviscerale. Ho mangiucchiato in silenzio la mia pizza, mentre Seth parlava senza nemmeno prendere fiato. Sono arrivata persino a sapere il nome da nubile di sua madre e a quanti anni ha imparato a fare pipì nel vasino. Tutto questo con me e Malfoy completamente in silenzio, da premettersi… mi sono sentita così in imbarazzo, già stavo nella stessa stanza con uno che vorrebbe vedere la mia testa su un palo, ma avevo anche indosso una ridicola maglia da calcio e mi ero persino presa da vera idiota una pizza ai quattro formaggi, che definirla filante era un pallido eufemismo. Filante! Era una cosa assurda, milioni di piccoli filamenti di mozzarella si formavano tra la fetta di pizza e le mie labbra, costringendo le mie dita ad ardite manovre di accompagnamento. Che nervoso! Anche perché poi, non è che Malfoy mi prendesse in giro come sempre, no! Conoscendo per sua viva bocca quello che pensava, avrei potuto difendermi come sempre, invece quello se ne stava in silenzio, così potevo solamente immaginare i suoi pensieri. Mi innervosiva davvero molto, ma non nella maniera di prima, cioè in quella di tutti questi anni. No, era qualcosa di diverso. Mi innervosiva perché era come se la sua presenza mi alitasse sul collo, come se mi sforzassi con tutte le forze di ignorarla e non ci riuscissi. Ci ero sempre riuscita, vivevo tranquilla ad Hogwarts, fregandomene beatamente di lui. Ora non ci riuscivo più. Perché? Mi ritrovavo a guardarlo di sottecchi, cercando di indovinare a che cosa stesse pensando, sebbene fosse abbastanza intuibile che doveva essere qualcosa di decisamente sgradevole ed offensivo. Mi sembrava assurdo che mi concedesse di rimanere nella sua stessa stanza, che lo tollerasse e lo accettasse. Insomma, per tutta la cena, mi ero interrogata come una perfetta idiota sul fatto che Malfoy non solo aveva cambiato nome, sembrava essere cambiato in tutto il resto. Alla fine, mi ero risposta che era ovvio tutto ciò, proprio per la stessa ragione del cambiamento di nome. Quello che avevo davanti agli occhi non era Malfoy, era Danny Ryan, il comunissimo gestore di locale che aveva molto di Malfoy, ma non tutto. Doveva perlomeno fingere di essere un po’ più gentile, altrimenti Seth lo avrebbe preso per pazzo, conoscendo solo Danny. La nostra cena era stata interrotta dal risveglio brusco di Serenity, che aveva cominciato a piangere dalla stanza accanto. Malfoy si era alzato senza una parola, gettandomi un’occhiata alla tipo “Azzardati a ridere e ti ammazzo…” ed era andato a prendere Serenity. Tornato a tavola (mentre Seth parlava ancora!), si era seduto con la piccola in braccio, fino a farla riaddormentare. Incredibile? No! IMPOSSIBILE!!!! Ecco la definizione giusta! Quello non poteva essere Malfoy, no! Uno che faceva una cosa del genere (far addormentare una bambina di un anno e mezzo, ricordiamolo!) con tanta tranquillità e… dolcezza, persino. Mi ero incantata a guardarlo come un merluzzo. Mi sembrava così incredibile… Malfoy si era limitato, quando se ne era accorto, a sillabarmi tra le labbra che, se non l’avessi fatta finita, mi avrebbe gettato per la strada. Ma era davvero ipnotica quella visione, insomma… chi mai ci avrebbe creduto? Nessuno, ve lo dico io. Avrei detto più facilmente che Neville sarebbe diventato il più grande atleta del mondo e contemporaneamente il più grande pozionista mai esistito, invece che una cosa del genere. Malfoy parlava sottovoce a Serenity, non so nemmeno io che cosa le dicesse, ma alla fine la piccola si era addormentata, un’espressione serafica sul volto; non riuscivo a distinguere nemmeno la più piccola parola di quello che Malfoy le aveva detto, la sua voce era così tenue e tranquilla che avevo avuto persino l’impressione che la stesse incantando in qualche maniera. Ma, anche se non mi permetto (mio malgrado!) di confrontarmi con l’enorme conoscenza della magia della famiglia di Malfoy, se si fosse trattato di una cosa del genere, me ne sarei sicuramente accorta. E, aggiungo, me ne sarei anche tranquillizzata; invece no, il fatto che abbia trattato una bambina in quella maniera, è decisamente qualcosa che mi terrorizza. Nemmeno io so dirne il motivo, ma questo mi inquieta molto, come una specie di rivoluzione copernicana, aver messo sempre le cose in una determinata prospettiva e scoprire che era sempre stato tutto sbagliato. E se fosse così anche per Malfoy? Non ci voglio nemmeno pensare. Decisamente, se fossi vissuta nel ‘600 con quella sovversiva scoperta, come minimo mi sarei suicidata. Una cosa per impedirmi ancora di più di tranquillizzarmi, era arrivata dopo. Quando Malfoy aveva preso Serenity per tornarsene nel suo appartamento ed io ero rimasta sola con Seth, prima che lui iniziasse nuovamente con i suoi discorsi assurdi, avevo chiesto chi fosse Serenity. E lui mi aveva candidamente risposto che era la sorellina di Danny. La sorellina??!! Mi ero urlata nel cervello, sapendo che era una bugia grande come una casa. Serenity era troppo piccola per essere sua sorella! Poteva avere massimo diciotto mesi e i genitori di Malfoy erano belli che morti da anni! Avevo pensato ad una sorella adottiva, ma anche in quel caso la storia non reggeva. Per prima cosa, i Malfoy non avrebbero mai adottato una di un’altra famiglia, e per quale motivo, poi? Avevano già un figlio e, nella loro folle e sconsiderata opinione, era anche perfetto. Aveva sì dato le spalle al lato oscuro, ma ciò era successo dopo la morte dei Malfoy. E comunque ritornava sempre il fatto che Serenity era troppo piccola per aver conosciuto in qualsivoglia maniera Narcissa Black e Lucius Malfoy. E allora chi era veramente? Assomigliava a Malfoy, ma vagamente, nemmeno tantissimo. Forse la sola cosa che gli accomunava davvero, erano i capelli biondi, ma non era mica una prova della loro parentela. I loro tratti somatici non erano molto simili; i lineamenti di Malfoy erano molto più spigolosi e non era dovuto al fatto che fosse un ragazzo. Anche Narcissa era così, aveva un viso affilato ed aspro per quello che riesco a ricordare. Serenity, invece, aveva un visino rotondo e paffuto; mi ricordava qualcosa o qualcuno, a cui però non sapevo dare un nome. Comunque, per come era la cosa, Serenity non poteva essere assolutamente la sorella di Malfoy. E nemmeno la sorella di Danny Ryan, nel caso potesse sussistere la minima differenza. Se fosse accaduto qualcosa di particolare inerente alla nascita di Serenity, non so, un’adozione, un affidamento o altre circostanze speciali, che comunque rientrasse nella vita di Danny, Seth me l’avrebbe detto. No, Seth aveva detto in maniera chiara e semplice che Serenity era la sorella naturale di Danny. E Danny non aveva genitori reali, perché lui stesso non era una persona vera, ma solo uno schermo all’identità di Malfoy. No, doveva essere qualcosa accaduto nel nostro mondo, quello della magia. L’accenno alla conoscenza di Harry della situazione, mi faceva capire che il suo avere Serenity non era qualcosa di ovvio ed automatico. Doveva aver lottato per averla, tanto da avere paura che Harry potesse togliergliela. Serenity non era sua sorella, ma lui voleva averla con sé. Perché? Ed allora dov’erano i suoi genitori veri?

Mi stropiccio gli occhi con forza, ho veramente sonno e non riesco ad addormentarmi. Ho troppe domande nella testa.

Per fortuna, domani finirà tutto. In fondo, se Harry lo sa… e poi la tratta bene… le vuole bene…

Mi addormento lentamente, scivolando in un sonno confuso e pieno di sogni disordinati con quelle tre parole che mi frullano nella mente. Tre parole strane e inconsuete per me, che si vanno ad incastrare nella visione nuova di Draco Lucius Malfoy, diventato Danny Ryan. A quanto pare, Danny Ryan sa anche voler sinceramente bene a qualcuno, a differenza di Draco Malfoy. Ed è allora che un’altra domanda fastidiosa mi tiene la mente ancora occupata, impedendole di cadere nell’incoscienza più completa.

Ma a me, in fondo, chi me l’ha mai detto che Malfoy non ha voluto bene a nessuno?

 

 

Un Capitolo enorme, spero vi faccia piacere! Non lo volevo spezzare perché concettualmente è legato, quindi l’ho lasciato unito…spero che non crei problemi… prima di tutto come sempre ringrazio coloro che recensiscono, le mie fedelissime!! Grazie, grazie, è davvero importante per me…sono contentissima di aver ritrovato lunachan 62!!:D… ed ovviamente anche nuovi lettori! Ha riscosso successo Summer, eh? Vi posso assicurare che è un personaggio assolutamente NON inventato…meglio non ripensarci!! In questo chappy brutte notizie per Herm, povera!! Ma le cose andranno meglio in futuro, eheheheeh!!! Allora a presto, sperando che lo studio mi lasci tempo!! Un bacio, Cassie!!

 

 

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Capitolo 7
*** Enchanted wood ***


Stavolta i ringraziamenti e le risposte varie le metto all’inizio così non passano inosservate

Stavolta i ringraziamenti e le risposte varie le metto all’inizio così non passano inosservate!! Allora prima di tutto ringrazio le persone che hanno recensito questa storia, e cioè Lights, Nefene, cy17_love e Francy_hurt_16… per una persona come me, che vorrebbe in un ipotetico futuro, perlomeno tentare di diventare una scrittrice, le recensioni sono molto importanti… e non perché sia affamata di lodi e riconoscimenti, ma perché voglio sapere che c’è che piace nella mia storia e cosa no, per potermi migliorare ogni giorno; accetto quindi serenamente critiche e osservazioni. Perché queste storie per me sono un modo per esercitarmi a quando davvero scriverò qualcosa di solo mio.

Questa premessa è per un’inevitabile osservazione fatta visitando il mio account… questa storia ha 22 recensioni, ma ben 23 persone che la mettono nei loro preferiti, e 14 che la seguono… inevitabilmente molti l’hanno solo letta e non commentata, e questa è una cosa che non mi è mai successa con le mie altre storie, in cui perlomeno le recensioni erano sempre di più dei preferiti, a testimonianza che solo alcune persone, nonostante mi avessero lasciato un commento, considerassero questa o quella storia una delle migliori che avevano letto. Ora dove va a parare questo discorso? Al fatto che mi piacerebbe ricevere anche da queste persone un minuscolo commento che mi spiegasse perché questa storia è tra le vostre preferite… a me serve tanto saperlo, e ripeto non voglio complimenti falsi o lodi… voglio solo che mi dite che ne pensate, visto che per me è così importante.

Ovviamente io non posso obbligare nessuno.

E non posso basarmi su questo. Era solo un appunto.

Ed è anche l’ultima volta che dico una cosa del genere.

Continuerò a scrivere questa storia e a ringraziare sia chi la legge solamente che chi, con mia grande gioia, la recensisce.

Ma non dirlo, se lo pensavo, non sarebbe stato da me…

Quindi ora vi lascio al capitolo 7 di questa storia che ha sempre un nome da fiaba…

Stavolta “Foresta Incantata”…

Grazie a tutti per l’attenzione!!

Cassie…

 

Capitolo 7 – Enchanted wood

 

Sobbalzo nel sonno, rizzandomi immediatamente a sedere, mentre il letto trema dalle sue fondamenta. Un terremoto! O mio Dio! Casa mia è costruita sull’argilla, devo andare a mettermi sotto l’arco di una porta! O era nei pressi di un muro portante? O mio Dio, o mio Dio, non me lo ricordo! Un attimo, non sono a casa mia, ma a casa di Malfoy! Vai a vedere che quello vive in una trappola sismica!!! Mi stropiccio velocemente gli occhi, cercando di tornare lucida dalla fase comatosa di sonno leggero in cui ero, e mi preparo a saltare fuori dal letto come una saetta impazzita. Poi, in quattro secondi netti, realizzo che non c’è nessun terremoto.

“Seth, ma perché diamine stai saltando sul mio letto?!!!” urlo arrabbiata al suo indirizzo. D’accordo, tecnicamente il letto è suo, ma quella che ci sta (anzi stava!) dormendo dentro, sono io!!!

Seth smette all’istante di saltellare da seduto sul materasso, dicendomi con aria infastidita: “Tu non ti svegliavi!”. Sembra un bambino di 5 anni, la mattina di Natale… è abbastanza inquietante come cosa, considerando che sarà alto 1m e 85…

“La prossima volta, mettimi un bomba H sotto il letto… magari farai anche meno danno…” commento scocciata, proprio come una mamma annoiata e che voleva solamente continuare a dormire. Mi liscio con le mani i capelli che hanno preso la tangenziale per la sciatteria, lo avverto passandoci le dita attraverso, sono ispidi ed elettrici come quando ero ad Hogwarts, ed avevo una specie di pagliaio in testa; come facevo ad andarmene in giro così, proprio non lo so... guardo distrattamente la finestra, ancora avvolta dalle mie memorie infantili. Solo allora mi rendo conto che le tende bianche sono piene di luce e che dalla finestra aperta mi giunge anche il frastuono del traffico e della gente che cammina per strada. Un attimo, d’accordo la City e tutto il resto, il traffico a qualsiasi ora del giorno, ma… che cavolo di ore sono??

“Che ore sono, Seth?”.

“Le dieci e mezzo…” mi risponde lui disinvolto, come se mi avesse detto semplicemente che anche stamattina il sole è sorto e che anche il cielo è rimasto azzurro, come il giorno prima.

“Come, le dieci e mezzo??!!” sbraito interdetta, non appena metabolizzo effettivamente l’orario. Mi alzo dal letto e inizio furiosamente a raccogliere la mia roba, cercando al contempo di vestirmi alla bell’e meglio: “Malf, cioè… Danny aveva detto che dovevo andarmene alle sei! Ora capisco perché mi hai svegliata! Se mi trova qui, mi squarta, anche se conoscendolo, sicuramente già mi avrebbe ucciso… forse, liberando qualche mostro da qualche camera segreta… un bel Basilisco, che so… cioè, insomma, un mostro con un nome strano… chissà come mi è venuto questo basi-qualche cosa… ma forse Danny non si è ancora svegliato, eh Seth?! Faccio ancora in tempo ad andarmene! La prossima volta, hai la piena autorizzazione ad usare anche le armi batteriologiche! Dovrebbero essere illegali e tutto il resto, ma forse qualche fornitore iracheno te le fa pagare poco… o iraniano, o siriano, o quello che è… Bin Laden di che paese è?!”.

“Hermione! Ma che cavolo stai dicendo??!! Stoppati!!”. Seth urla, esasperato, slanciandosi su di me e mettendomi una mano sulla bocca. Blocca così il mio fiume di parole, ma anche la mia operazione di vestizione: il mio vestito azzurro, peraltro spiegazzato dalla sera prima, mi rimane infilato solo per la testa, circondando il collo come una specie di buffa collana. Sembro Luna Lovegood il giorno di Halloween, cosa alquanto terrorizzante. Seth rimane con la mano premuta sulle mie labbra, mentre prosegue con voce calma: “Adesso rilassati e soprattutto RESPIRA!… Danny sa perfettamente che sei ancora qui, quindi non c’è di che preoccuparti… allora, non hai fame? Vuoi fare colazione?”.

“… ome olaione…?”.

“Eh? Che hai detto?”.

Roteo gli occhi con aria ovvia, facendo ampiamente intendere che sia il più grande merluzzo della storia, e lui finalmente si decide a farmi recuperare le mie (peraltro, ineccepibili) doti dialettiche, staccando la sua mano dalla mia bocca.

“Ho detto, come colazione??!!” ripeto con le mani poggiate sui fianchi “Guarda che ieri sera ho rischiato la vita anche più di quanto non abbia fatto con Voldem, cioè…” balbetto, accidenti a me e alla mia bocca larga! Ma ancora non ho capito come funzionano queste conversazioni?! Non sono più la babbana perfetta di prima, ahimè!

“Insomma, non pensare che io possa scendere tutta tranquilla e fare colazione con Danny… ieri sera è stato solamente un caso…” mi riprendo in calcio d’angolo. O Dio, adesso penso anche in termini calcistici. Che schifo, che schifo, che schifo!!! Ormai sto definitivamente partendo per la follia!

“Il caso, a quanto pare, si ripeterà spesso…” risponde Seth con espressione gongolante.

Distratta, chiedo: “Che vuoi dire?”.

Lui, tronfio di sé, gonfia il petto e dice: “Per merito mio, Danny ha deciso di assumerti. Sei la nuova cameriera… non è stato facile, ma, senza falsa modestia, ho un grande ascendente su Danny molto più di Summer, checché ne dica lei…”.

Prima che riprenda con le sue ciarle prolisse, riesco a balbettare, pallida come un fantasma: “C-che c-cosa h-hai detto?”.

Lui mi guarda con espressione confusa e ripete, stavolta più calmo: “Danny ha deciso di assumerti, Herm. A quanto pare, non ti odia così tanto…”.

“Sì che mi odia, invece!” inveisco testarda “Non capisci? Deve essere una trappola! Chissà che cosa vuole da me!!!”.

“Ma dai!! Ma sei veramente paranoica!” brontola Seth, dandomi una piccola spallata “Forse sei tu che lo odi ancora, ma per Danny deve essere una cosa superata… è così nobile di cuore!”.

“Sì, nobile di cuore come un’anaconda… ti stritolano, ma almeno non ti fanno agonizzare sotto l’effetto di un veleno… sì, nobile e misericordioso come un’anaconda…” dico, soddisfatta del mio calzante paragone e del fatto che l’espressione cuoriforme di Seth si è dissolta all’istante.

“Pensala come ti pare… ma, intanto, Danny ti ha assunta…” ribatte lui, meno fiero di sé, ma convinto comunque che con l’ultima battuta, l’abbia avuta vinta. In effetti, la situazione gli darebbe ragione… ma non ha mai avuto a che fare con Hermione Jane Granger! E nemmeno con Draco Lucius Malfoy, dicendola tutta. Insomma, io solamente so che cosa posso aspettarmi da quel sadico. Tutti sono indifesi contro di lui, tranne me! E’ una missione vera e propria la mia, salvare il mondo da Malfoy e dalle sue trovate! Vabbé, non proprio salvare il mondo, ma insomma almeno l’Inghilterra… sicuramente i membri di questo pub! Devo assolutamente smascherare la sua trovata di infimo livello strategico… infimo sì, perché scommetto che smascherarlo sarà di una facilità impressionante. Non sto sempre parlando del furetto rimbalzante?! E io, con lui, l’ho sempre avuta vinta… in un modo alquanto contorto e poco evidente, ma sono sicurissima di questo! Ci manca anche scoprire che Malfoy, una sola e singola volta, mi abbia battuto in qualcosa… nella guerra, è anche passato dalla nostra parte, dalla mia parte! Ho vinto anche allora, no?!! Io, da quella parte, ci sono sempre stata.

Mi calmo, respirando profondamente, per poi chiedere, ostentando indifferenza: “Mi spieghi come sarebbe andata la cosa?”.

Seth abbandona la sua espressione delusa di poco prima, causata dalla mia mancanza assoluta di gratitudine per lui, e sorride a trentadue denti. Credo che, se potesse, inizierebbe di nuovo a saltellare. Mi viene da sorridere, ma mi trattengo. Devo essere lucida per cogliere ogni particolare, solo così potrò incastrare Malfoy e il suo piano da quattro soldi. Anzi, da due soldi! Quattro sono troppi!

“Ieri sera… ricordi quando siamo usciti?” inizia Seth, sedendosi sul letto.

Lo imito ed annuisco.

“Gli ho chiesto di farti restare per la notte… come puoi immaginare, non era assolutamente d’accordo. Gli ho chiesto se era perché non ti sopportava, e lui mi ha risposto che non erano fatti miei… insomma, come sempre. Al che, gli detto che era un problema suo, se non si sapeva trattenere in tua presenza… gli ho detto che era una cosa molto infantile, che comunque ormai i tempi della scuola erano belli che passati, e che, in ogni caso, tu eri mia ospite… quindi, con o senza il suo consenso, saresti rimasta… era solo educazione il mio chiedergli se gli andasse bene…”.

“Bravo Seth!” commento, sinceramente colpita. Ci vuole fegato per parlare così a Malfoy, indossasse anche le vesti del più mite Danny Ryan.

“Lo so, lo so…” riprende lui orgoglioso “A quel punto, stavo tornando dentro, ma lui mi ha richiamato indietro. Mi ha chiesto se sapevo perché eri rimasta lì fuori dal locale per tutta la mattinata…”.

“E a lui che gliene importa?!” sbotto “Non dirmi che gli hai detto tutto!”.

“Certo che no, tesoro…” mi rassicura lui, poggiandomi fraternamente una mano sul ginocchio “Anche perché formalmente io no dovrei nemmeno sapere che ti sei lasciata con il tuo ragazzo… non me l’hai mica detto, no?”, mi strizza l’occhio e io, mio malgrado, mi ritrovo a sorridere, mentre lui continua:  “Quindi mi ha chiesto se era vero che cercassi un lavoro… e gli ho risposto di sì. Gli ho ribadito che prendere te sarebbe stata la scelta migliore, visto che ti conosceva. So che, odiandovi così tanto, la questione poteva diventare controproducente, ma alla fine si tratta solo di lavoro… e la tua situazione, da quello che mi è sembrato di intuire, non è tanto rosea da permetterti di buttare all’aria un’occasione del genere… insomma, ce l’avresti messa tutta, questo gli ho detto. Inoltre, ma questa è solamente una mia impressione, sembri una ragazza scrupolosa ed attenta, forse un po’ troppo nervosa, ma comunque credo che faresti un ottimo lavoro…”.

“E lui, Danny intendo, che cosa ha detto?” chiedo con un filo di voce. So perfettamente come è finita questa conversazione, Malfoy ha detto di sì, ma non voglio perdermi alcuna piccola sfumatura. Come se fosse talmente incredibile da non sembrare vero… un autentico miracolo capita una volta ogni mille anni, quindi chi se lo perderebbe?!

“Mi ha detto che ci avrebbe pensato e mi avrebbe risposto stamattina…” mi risponde Seth “… e mi ha pregato, intanto, di non dirti niente fin quando non avesse deciso che cosa fare… poi, stamani, appena mi sono alzato, mi ha detto che andava bene…”.

“Solo questo? Che andava… bene?!” chiedo un po’ perplessa. Non è solo perplessità, me ne rendo conto io stessa mentre sto parlando. E’ anche altro… delusione quasi, anche se sembra incredibile. Sono delusa che Malfoy non abbia detto altro, che semmai non abbia assentito sul fatto che io sia scrupolosa ed attenta, per esempio. O che per lui sia una cosa normale, scontata ed ovvia, come invece non è per me. Sono delusa sì, delusa di sembrare solamente io quella attaccata al passato, mentre a lui basta dire un: “Va bene…”. Forse sono più delusa da me stessa che da lui. Delusa dal mio continuare a cercare una trappola, un qualcosa che non va. E se davvero fosse tutto a posto? Un brivido di freddo mi attraversa la schiena. No, semplicemente non può essere così facile. Né per me, né tantomeno per lui.

“Che altro avrebbe dovuto dire, scusa?!” risponde Seth, un po’ stizzito. Comprendo che alla fine ha perfettamente ragione, perlomeno dal suo punto di vista: “Non ti puoi mica aspettare i tappeti rossi e i petali di rosa per aria, no?”.

“Certo che no, lo so perfettamente… ma la situazione non mi quadra…” medito tra me e me, più che con Seth.

“Ti quadri o no, hai bisogno di questo lavoro…” mi dice sinceramente lui, appoggiando la schiena alla spalliera del letto e sedendosi a gambe incrociate “Come ti ho detto, sarebbe solamente lavoro… non devi essere amica di Danny, né fartelo piacere per forza. E poi ci sarei sempre io, April e gli altri… togli Corinne e Lorna, sono tutti a posto… ti troveresti bene…”.

Resto in silenzio, mordicchiandomi l’unghia del pollice e cercando di schiarirmi per quanto possibile la mente. Non può essere vero… insomma, andiamo! quello arriverebbe ad assumere un troll piuttosto che me! No, no… deve essere una trappola… chissà che cosa ha in mente… schiavizzarmi, vendermi come bottino di guerra alla Lega dei Purosangue sopravvissuti… e chi lo sa! E’ una mente così perversa e deviata! Forse quelli della sua risma vogliono utilizzarci al posto degli Elfi domestici! Sì, e viene a rompere proprio a me! E comunque, mi dimentico sempre, per quanto sia assurdo, che Malfoy è un babbano, adesso. E i babbani non sanno nemmeno che significa la parola “mezzosangue”. Come giustificherebbe la mia condanna alla schiavitù nel suo pub? E poi… trappola… a che razza di trappola potrebbe destinarmi? Almeno per il momento, mi sembra che non voglia niente di particolare da me, era solo preoccupato che io sapessi di Serenity, cosa, ancora non lo so. Sì, tutto questo va bene… ma accettare?! Capisco la forza della disperazione e tutto il resto, ma questa sarebbe la forza della depravazione! Non so forse le infinite vessazioni che sarò costretta a subire, se lavorerò per lui?!! Certo che le so, e quelle che non so, le posso facilmente immaginare! Insomma, accettare equivarrebbe a mettersi a braccia spalancate davanti ad un serpente ed implorarlo di morderti, pezzo dopo pezzo. Fossi matta! Una volta, ci avevo pensato, ma due! Uno impara sempre dai propri errori, no? Quindi, non se ne parla proprio! A costo di finire sotto i ponti e di fare l’elemosina, o anche tutte e due le cose assieme! No, no, e poi no! Però, intanto, un lavoro finalmente… soldi… affitto pagato… e poi adesso che non c’è neanche Dean…

Prima che mi ritornino le lacrime agli occhi, pensando a lui, distolgo la mia mente con la prima domanda che mi viene in mente: “Quanto sarebbe la paga?”, sperando inconsciamente che sia talmente bassa da farmi desistere.

Seth mi guarda con una luce tenue entusiasta, prima di mormorare in risposta alla mia domanda: “La paga della cameriera normale sarebbe di 700 sterline… “.

700 sterline?! Conoscendo Malfoy, pensavo una sterlina e mezzo ogni venticinque anni. Non è tantissimo, ma comunque è una discreta cifra… e comunque passare dal nulla assoluto ad una qualunque somma di denaro, è comunque un bel risultato. Certo, devo cambiare casa, ma non è mica una cosa negativa… addio, signora Sanchez!!!

“Ma per te diventerebbero di più… diciamo sulle 900…” aggiunge titubante Seth, guardandomi di sottecchi.

“900?! E perché?!” chiedo interessata. Magari, in questo, sta la trappola… perché, in caso contrario, se Malfoy si è anche messo a fare beneficenza, è la volta buona che chiamo un esorcista.

“Danny ha da tempo un… progetto, chiamiamolo così…” mi spiega Seth “La clientela del Petite Peste è una clientela giovane… ragazzi tra i venti e i trenta, perlopiù… il ristorante è frequentato, ma non tantissimo… dobbiamo cercare di attrarre le persone over40, quelle che di solito non mettono piede qui perché terrorizzate dal fracasso della discoteca… fracasso che nemmeno esiste…”.

Immagino perché… farà anche la parte del babbano, ma con mezzi normali, non si sarebbero mai potuti mettere assieme un pub, un ristorante ed una discoteca senza l’ovvietà del frastuono di quest’ultima. Me l’ero già chiesta la prima volta che avevo messo piede qui. Ma poi, vedendo Malfoy, avevo trovato la risposta: un incantesimo Insonorizzante. Ne avevo persino avvertito qualche debole traccia, entrando. Doveva essere molto forte. In fondo, Malfoy non doveva essere stato completamente idiota da lasciare completamente la magia. Al posto suo, credo che avrei fatto la stessa cosa, altrimenti questo locale non avrebbe mai fatto fortuna. In fondo, mantengono parecchio personale… a cui potrei aggiungermi anch’io… a quest’ultima considerazione, ripresto attenzione alle parole di Seth.

“L’idea di Danny è quella di inaugurare almeno per qualche giorno alla settimana, un servizio di colazione e di brunch, in modo da tenere aperto il locale più a lungo durante la mattinata. Attirare riunioni d’affari, pranzi veloci, studenti e cose simili… “.

“E me ne dovrei occupare io?”.

“Io e te… il problema è uno solo…”. Seth sta diventando ancora più titubante di prima, e questo mi sembra abbastanza sospetto. Che cosa può esserci di peggio dell’offerta di lavoro in sé? Vuoi vedere che c’ho visto giusto? Altro che chiacchiere… la trappola c’è e deve essere qui…

“Quale sarebbe il problema?” chiedo con innocenza. Fintissima, ovviamente.

Seth, incoraggiato dalla mia docilità, prosegue con un profondo sospiro: “Per essere funzionale, il servizio dovrebbe cominciare presto… verso le sette e mezzo, le otto… insomma, considera che la sera qui si finisce tardi… almeno alle due… e tu abiti dall’altra parte della città. Dovresti alzarti presto, alle quattro, almeno. Non andare nemmeno a dormire, quindi…”.

“Arriva al punto, Seth…” sibilo con un atroce sospetto nella testa. Il sospetto è talmente atroce da non sembrare vero. e quindi automaticamente, diventa talmente reale da farmi raggelare.

Lui tentenna ancora per un po’, guarda fuori dalla finestra, si mette ad osservare una mosca che lotta inutilmente contro il vetro della stessa finestra, poi si decide a dire con voce incerta: “Per rendere la cosa fattibile, noi due dovremmo essere entrambi qui… iniziare ad aprire già verso le sette… per fartela breve…”, un nuovo sospiro, oddio deve essere proprio come ho capito… se è così, lo ammazzo, davvero. Lo ammazzo…

“Dovresti dormire qui… da me e da Danny… per almeno tre - quattro sere alla settimana… staccheresti prima, verso mezzanotte… e alle sei ti alzeresti…” sputa alla fine fuori.

Lo ammazzerò. E’esattamente come avevo pensato… ma che cavolo si è messo in testa quel malato di mente?!!! Questa me la deve spiegare quella specie di furetto contorto! Prima mi caccia, poi mi ospita, poi mi offre anche un lavoro, ma con la condizione che io debba vivere per metà di una settimana con lui! Ma siamo pazzi?!! Tre o persino quattro giorni interi con lui, mattina, pomeriggio, sera e notte con lui!!! Non se ne parla proprio! Ma comunque mi deve spiegare il suo scatto cervellotico! Come se ne è uscito???!!! Ormai ne sono certa: Malfoy deve volere qualcosa da me, qualcosa di veramente assurdo, ma sicuramente qualcosa. E, conoscendolo, non può essere né il piacere della mia presenza, né la mia efficienza lavorativa, tantomeno la mia inesistente esperienza nel campo. Quello vuole qualcosa e, conoscendolo, sarà sicuramente qualcosa per cui rischierò la vita, la dignità o l’orgoglio. Oppure no… credo tutte e tre le cose assieme in ordine differenziato. 

“Non ci penso neanche!” replico lapidaria a seguito delle mie riflessioni “Già, l’idea di lavorare qui con lui, mi alletta come una carie ai denti! Ora dovrei anche vivere con lui! L’hai avuta tu questa meravigliosa idea?!”. La mia domanda è chiaramente sottointesa ad avere una risposta positiva; se è stato Seth ad avere questa idea, magari Malfoy lo prenderà a pedate… in caso contrario… non ci voglio nemmeno pensare… sarà qualcun altro ad essere preso a pedate.

Seth evidentemente si spaventa per la mia espressione decisamente truce e si ritrae, spaventato. Meno male… se si è spaventato, evidentemente l’ha pensata lui sta panzana. Comunque, fa bene a spaventarsi! Se è stato davvero lui, lo appendo al soffitto per le caviglie, era una tortura di voga nelle prigioni medioevali della Provenza. E faceva un male cane, insomma è perfetta allo scopo. Ma anche quelle moderne in stile Abu Ghraib, mi tentano alquanto…

“Non sono stato io…” piagnucola lui, allontanandosi ancora di più da me “E’ stato Danny… l’idea è stata sua… mi ha anche detto che, se non avresti accettato questa clausola, non ti avrebbe assunto…”.

“CHE COSA HA DETTO, QUELLA SPECIE DI MENTECATTO??!!!” urlo, gettando all’aria il vestito che ho ancora attorno al collo e alzandomi con passo marziale dal letto. Adesso mi sente!!! Oh sì che mi sente! Io non mi faccio prendere in giro da un borioso arrogante come lui, che si diverte a giocare con le vite e con il tempo delle persone per suo personale ed anche discutibile divertimento. Se qui nessuno gli dice quello che pensa, ha trovato pane per i suoi denti! Mi aveva detto in maniera alquanto chiara e limpida che stamattina ognuno sarebbe tornato alla sua vita, lasciando in pace quella dell’altro. Che cosa, non si è accorto che il sole è sorto? Che aspetta a lasciarmi in pace?!

Apro la porta di scatto, ripercorrendo le scale all’indietro rispetto alla sera prima. Sono infatti abbastanza convinta che, a quest’ora, Malfoy sia già di sotto a sistemare i suoi affari (molto probabilmente loschi!); da quando eravamo ad Hogwarts infatti, si alza molto presto di mattina. Lo so che stona con la sua immagine di principe dei lussi e dei agi, ma è proprio così. Mi fu confermato anche una notte a Grimmuald Place, quando ormai alle luci dell’alba, mi alzai da letto dopo una notte insonne. E lo trovai in cucina che mangiucchiava dei cornflakes. Inutile dire come finì quell’incontro, come sempre talaltro, ci prendemmo ad insulti e io finii per mangiarmi una mela in giardino, con un’ulcera nervosa di quinto grado e con le orecchie che fumavano, da sola poi, in barba ai Mangiamorte in piena libertà. Alle dieci e mezzo passate, deve essere sicuramente sveglio, a meno che nella sua vita da Danny Ryan, non abbia cambiato anche questa abitudine. Male che vada, me ne ritorno di sopra, spalanco la porta di casa sua e gli conficco degli spilli negli occhi. No, troppo cruento. Sono una ragazza delicata, in fondo, e quello che ho visto in guerra mi è bastato. Badile in fronte? Troppo stancante. Decapitazione? Bleah, troppo sangue. Topicida? E che faccio fin quando fa effetto? Ma certo! La soluzione è sempre davanti agli occhi e uno non se ne accorge… acido solforico! Risolvo anche il problema delle tracce da nascondere! Se Voldemort mi avesse preso come Mangiamorte, minimo sarebbe durato dodici secoli in più.

Appena scesa di sotto, mi guardo attorno nella sala ristorante deserta. Deve essere nella zona pub. Con l’eleganza di un facocero nella giungla amazzonica, mi incammino in quella direzione. E finalmente lo vedo. Seduto dietro al bancone del pub, con una pila di fogli davanti agli occhi, già vestito di tutto punto con una felpa azzurra che fa risaltare i suoi capelli chiari ed un paio di jeans scuri. Stranamente, porta anche un paio di occhiali dalla montatura di metallo, evidentemente gli servono per leggere. Ma chissenefrega della vista dei Malfoy! Se si fossero sposati con dei Mezzosangue, avrebbero perfezionato il loro Dna, come si fa con i cani! I bastardini sono più intelligenti e resistenti dei cani di razza! Tié! Non sembra essersi accorto del mio arrivo, sembra preso dalle sue cose. Meglio, posso sorprenderlo alle spalle! Vabbé gli arriverò di fronte, ma  questi sono dettagli. Lo sorprenderò lo stesso!

“Malfoy!” inveisco contro di lui, avvicinandomi al bancone con aria omicida e battendo le mani su di esso “Si può sapere che diamine ti è saltato in mente?! Che cosa vuoi da me, eh? Dillo almeno! Ti ho già detto che di Serenity non so niente, che c’è mi vuoi controllare a vista?! Come ti è venuta questa brillante idea del vivere assieme, eh?!! E non mi dire che è stato Seth! Lui non c’entra niente! E’ una cosa tra me e te, no? E allora, affrontiamola noi due, dannazione!”.

Fermo il vomito di parole, respirando a fatica, una mano sul torace che si abbassa e si rialza velocemente. Resto qualche secondo ad aspettare, pronta ad essere sommersa da una sfilza di insulti sottilmente sussurrati. Che, però, non arrivano. Mi arrischio a sollevare lo sguardo, che era rimasto basso, come a proteggermi dalla sua probabile aggressività. Ma, invece, Malfoy non mi risponde per niente. Rimane immobile a fissarmi, come se non mi vedesse neppure e stesse guardando qualcosa alle sue spalle. Qualcosa che, per inciso, lo terrorizza. E’ infatti impallidito, per quanto lui possa impallidire, biancastro com’è, e sembra persino sudare freddo. Possibile che io l’abbia terrorizzato così tanto? Sarebbe una cosa stupenda, ovviamente, ma sono abbastanza realistica da capire che non è una cosa tanto facile e che non sono in uno dei miei meravigliosi sogni. Quelli, per esempio, dove sono ancora il Capo degli Auror e contemporaneamente la Preside di Hogwarts e il Primo Ministro Inglese; nemmeno quelli dove, da qualche notte, sono tornata ad essere la fidanzata di Dean Thomas. E neanche quelli dove appendo la testa di Malfoy sul mio caminetto come un trofeo di caccia (questo l’ho sognato stanotte)… questa è la realtà, quindi… non sono più il Capo degli Auror, non voglio più essere la Preside di Hogwarts, non sarò mai il Primo Ministro inglese e molto probabilmente nemmeno più la fidanzata di Dean Thomas. E, se la mia vista non mi inganna, qui non c’è nemmeno un caminetto, quindi nemmeno la terza opzione è corretta. Essendo questa davvero la realtà, l’unica cosa che può aver terrorizzato Malfoy non sono io. E sarà dietro di me… mi giro lentamente su me stessa ed assumo in un nanosecondo la stessa espressione di Malfoy. Ci sono troppe somiglianze tra me e lui, ultimamente. L’unica differenza è che, non avendo io un colorito cadaverico come il suo, divento al contrario rosso pomodoro maturo, ritraendomi su me stessa. E non sono nemmeno terrorizzata, piuttosto… imbarazzata come mai in vita mia!!! Ecco, l’aggettivo corretto! La mia faccia raggiunge la gradazione cromatica del cianotico, quando mi ricordo dei capelli a nido di vespa e della maglia da calcio rossa. Magra consolazione, il vestito azzurro appeso al mio collo perlomeno l’ho gettato all’aria poco prima. Rimango immobile, cosciente dei tre paia d’occhi che mi stanno fissando, sperando nella mia mente che spariscano e che me li sia solamente immaginati. Ma Malfoy ha avuto la stessa reazione, quindi…

A rompere il silenzio di tomba che si è creato, come è prevedibile, è Summer, battendo sul tempo sia me che Malfoy, oltre che Trey ed April, gli altri due spettatori della scena.

“Che diamine ci fa lei ancora qui?!!” erompe con voce acuta e stridula. La vedo anche stringere i pugni e fare qualche passo. Oddio, questa adesso mi picchia! Quelle più raffinate e composte, sono sempre le più represse e, quindi, quelle che fanno più male. Ma perché diamine non ho aspettato prima di scendere?! Nella maggior parte della mia vita, ho il difetto di pensare troppo ed, invece, quando c’è di mezzo Malfoy, faccio sempre tutto il contrario, diventando totalmente illogica ed irrazionale. Che strano… un dejà vu, qualcuno mi ha parlato di qualcosa del genere… ma chissene… sto rischiando la vita e penso ai mie cortocircuiti mentali?!!

“Smettila, Summer… non è come pensi…” la voce leggera e quasi casuale di Malfoy genera un involontario ed inatteso brivido di freddo sulla mia schiena. Non è come pensi… le sue ultime parole sono come un fuoco d’artificio nel cielo, una sorta di messaggio subliminale diretto alla mia persona. Che potrebbe pensare Summer? Certo, una cosa sola. Che ho dormito da Malfoy, cosa vera… ma, soprattutto, che potrei aver dormito con Malfoy, cosa falsissima, ma che lei potrebbe invece considerare ampiamente. Siamo stati compagni di scuola, no? Sono qui alle dieci di mattina, no? Con una maglia da calcio addosso e con i capelli spettinati, no? Ho appena detto a Malfoy che è una cosa tra me e lui e di affrontarla noi due assieme, NO???!!!! Insomma, è cristallino cosa lei pensa… ed, alla fine, non me ne sto anche con lo sguardo basso, come se mi sentissi in colpa??? Sollevo il viso, riassumendo un’espressione dignitosa e guardandola dall’alto in basso come mi riesce tanto bene. Ignoro le bocche ad “o” di April e Trey, le cui mascelle stanno per incontrare il pavimento, e mi concentro su Summer. Penso a cosa dire prima di aprire bocca e modulo la voce in un accento naturale e scontato: “Non è come pensi… sarà possibile come cosa, nella stessa giornata in cui i dinosauri andranno al centro commerciale e le auto funzioneranno grazie allo zucchero di canna, quindi, come puoi intuire, non è decisamente come pensi… a meno che uno stegosauro non ti abbia appena fatto il pieno di zucchero alla macchina…”.

“Non fare la spiritosa del cavolo… e comunque non stavo parlando con te…” replica lei, gelida, guardando oltre di me, chiaramente verso Malfoy.

Prima che apra bocca, un piccolo spostamento d’aria mi avverte del fatto che Malfoy si è alzato ed è alle mie spalle. Un duello verbale e lui sembra quasi coprirmi le spalle, che strana coincidenza…

“Sarei il primo a dire alla Granger di non aprire bocca con gioia e giubilo del mio apparato uditivo…” commenta lui, lo vedo con la coda dell’occhio incrociare le braccia “Ma ha ragione… non è mia gradita ospite, ma di Seth…”.

“Volesse il cielo…” mugugno io in risposta, incrociando a mia volta le braccia.

“Di Seth?!” chiede Summer quasi istupidita “E che c’entra lui adesso?”.

Ecco, e che c’entra Seth adesso, infatti?! E Danny che io conosco, non Seth…

“In una assurda e contorta maniera, Seth la trova simpatica…” risponde Malfoy velocemente, sorprendendomi con la sua prontezza di riflessi, quanto si tratta di mentire è un vero maestro “Sono usciti assieme ieri sera e si è fatto tardi… quindi lui l’ha ospitata a casa…”, di fronte alla mia faccia inebetita, mugugna a denti stretti: “… non è vero, Hermione?”.

“Ma certo…” simulo un forzato sorriso al suo secondo chiamarmi per nome in due giorni.

Guardo Summer con la coda dell’occhio e, perlomeno apparentemente, sembra essersi calmata. Le narici smettono di fremere e, allo stesso modo, il suo volto torna limpido e sereno, dopo che le chiazze rosse che lo avevano ricoperto per la rabbia se ne sono andate così come erano venute. April e Trey, alle sue spalle, dopo aver ragionevolmente supposto che non ci sia nient’altro sotto, se ne tornano alle loro faccende, la prima riprende a ramazzare per terra, mentre il secondo continua a compilare la sua scaletta di canzoni per la serata. Rilascio un sospiro di sollievo, nello stesso momento in cui sento Malfoy alle mie spalle respirare a sua volta. Per questa volta, è andata bene.

Trasalgo, mentre una presa d’acciaio mi stringe violentemente il braccio. L’ho conosciuta fin troppe volte in questi giorni e ne sto avendo abbastanza. Mi metterei ad urlare come una pazza di nuovo, ma temo più Summer che Malfoy allo stadio attuale delle cose. E, dato che lei adesso è occupata con Trey, non voglio attirare nuovamente la sua attenzione. Quindi, me ne sto zitta e mi faccio trascinare per l’ennesima volta da Malfoy. Il primo giorno che l’ho rivisto, era camera sua, e adesso le cucine deserte, il copione è leggermente cambiato, almeno in quanto ad ambientazione. Evidentemente Lawrence non è ancora arrivato, è tutto in ordine, dalle pentole perfettamente lucide alle stoviglie pulite e poste in fila. Sospiro, ritrovandomi Malfoy di fronte.

“Ma che c’è, Granger, hai qualche problema?! Vuoi forse rovinarmi la vita?!” inveisce lui contro di me, sbattendomi decisamente poco gentilmente contro il muro di fronte a lui. Il piccolo ma comunque percettibile, dolore alla schiena mi fa ritornare in me dallo stato di passività indotto dal terrore reverenziale per Summer.

“Io ho qualche problema?! IO?!! E tu?!! Che cos’è questa storia dell’assumermi, eh? E del farmi vivere qui, poi? Che c’è, ti sei impazzito?!” gli rispondo a muso duro, ma sottovoce esattamente come lui. E’ quasi comico fare discussione in questa maniera, senza urlare. Mi ricorda le lezioni della McGranitt, quando gli ringhiavo insulti su insulti, cercando di non farmi beccare dalla professoressa.

“Lo sapevo! Come sempre, su una cosa hai costruito sopra un intero film giallo… l’ho detto a Seth, ma lui… niente! Figuriamoci, se mi dà retta…  adesso doveva anche venirgli la mania di aiutare la Granger…” commenta a denti stretti, malevolo.

“Andiamo Malfoy… io e te lo sappiamo perfettamente che non sei così… arrendevole…” borbotto accondiscendente con l’ombra di un piccolo sorriso sul volto, conscia di avere ogni ragione di questo mondo “Non avresti mai fatto una cosa solamente perché te l’ha chiesto Seth… quindi, mi darai ragione quando penso che c’è qualcos’altro sotto, no?”, vedendo che mi guarda ancora insofferente, aggiungo sbuffando: “Insomma, Malfoy al posto mio, tu ti fideresti se ti offrissi un lavoro?”.

“Assolutamente no…” mi dice lui sfacciatamente, incrociando di nuovo le braccia e riducendo gli occhi a due fessure, come se davvero gli stessi facendo una proposta del genere, assolutamente abominevole per le sue orecchie.

“E allora perché dovrei farlo io, scusa?!” gli rispondo interdetta, aggrottando un sopracciglio.

“Granger, la cosa che ti sfugge è che io non ti ho chiesto di fidarti di me… e nemmeno mi sembra di averti implorato di accettare questo lavoro… di cameriere, ne potrei trovare a decine…”.

“E allora perché l’hai proposto a me?!” sbotto insofferente. E’assurda tutta questa situazione, come sempre quando sono con lui. Lancia il sasso e poi tira indietro la mano. E’davvero snervante, specie appena svegli e senza una goccia di succo d’ananas nelle vene.

Lo vedo sospirare e ritrarsi leggermente, incrocio le braccia aspettando la sua risposta. La quale, tarda ad arrivare per parecchi secondi, cosa che mi fa innervosire ancora di più, se mai possibile. E, inoltre, conferma perlomeno alle mie orecchie che ci sia qualcosa sotto.

Dopo aver studiato completamente l’arredo della cucina e la sua planimetria, lo sguardo plumbeo di Malfoy si decide a ritornare su di me. E’ calmo, imperturbabile, come sempre. E’ perfettamente capace di non lasciare trasparire alcun tipo di emozione, non so come, ma lo fa. Eppure, io lo conosco. Da anni, anche se in una maniera alquanto contorta. Da sua nemica naturale, ma alla fine credo che i nemici siano quelli che ti conoscono meglio. Un nemico ti studia a fondo per scorgere ogni tua debolezza; invece un amico è intimamente terrorizzato dall’idea di trovarne una in te, tale da farlo desistere dallo starti vicino. Quindi, credo di conoscerlo bene Malfoy, le sue espressioni, i suoi gesti e i suoi sguardi. Solo quelli di ieri sera erano un po’ diversi dal solito, ma li imputo al fatto che non sono propriamente suoi, ma di Danny Ryan, del personaggio che si è costruito in questi anni. Ora, infatti, so perfettamente che sta per dire qualcosa che gli costa molto. Le sue mani impercettibilmente sono affondate nelle tasche dei pantaloni, intravedo solo i pollici sul orlo delle tasche stesse, che martellano sulla stoffa. E’ nervoso, quindi. Lo sguardo si è fatto più terso, meno nebbioso del solito; evidentemente sta cercando di essere sincero, o di darmi comunque questa impressione. A non darmela, però, totalmente a bere, è la giugulare che vedo pulsare sotto la sua pelle. Per un attimo, mi distraggo, incantata quasi dal premere della vena contro la barriera della pelle. Una vena che pulsa, il cuore che batte… forte, il cuore che batte forte.

E’ così strano associare la parola cuore a Malfoy, come dire, che so, inferno e angelo. So perfettamente che, almeno anatomicamente, Malfoy un cuore deve averlo. Eppure, mi sembra strano. E rimango immobile a fissare il suo collo, manco fossi un vampiro affamato di sangue umano. Lo stesso sangue, che rende le sue guance un po’ più rosee. Forse sta anche arrossendo… Malfoy che arrossisce, sì come no. Starà solo per scoppiare dalla rabbia, anche la tachicardia ne è un chiaro segnale. Che scema che sono, e mi ci metto anche a fantasticare. Malfoy può essere cambiato, ma non così tanto… e bisogna dire che io sono decisamente paranoica…

Lo vedo deglutire nervosamente un paio di volte, arricciando le labbra sottili in una smorfia, quasi come se le stesse parole che sta per dire fossero assenzio nella sua bocca. Dio, e poi quella che non si lascia alle spalle i conflitti, sarei io a dire di Seth… mentre lui… com’era? il nobile di cuore, già, me ne ero scordata. Bleah…!

“Non credevo che tu veramente cercassi un lavoro…” inizia con tono di voce quasi sommesso, non decidendosi ancora a guardarmi in faccia, deve essere davvero tremendo per lui dirmi delle cose civili! Sto letteralmente andando in brodo di giuggiole! Devo godermi al meglio questo momento, e poi proiettarmelo nel cervello a scadenze regolari! Credo che sarà un efficacissimo antidepressivo! Inclino la testa di lato, continuando attentamente ad ascoltarlo.

“Credevo che fossi qui per chissà quale indagine su di me e su Serenity… ma, come ho potuto constatare, di lei non sai niente, quindi… al contempo, però, mi sembrava abbastanza improbabile che la perfettina signorina Granger fosse stata destituita dal suo perfettissimo impiego…”, finalmente si decide a guardarmi, scrutandomi con espressione indagatrice, ma io tento di mantenere il mio viso pulito e tranquillo, non gli dirò nulla nemmeno sotto tortura. Compresolo, continua:  “… ma, se effettivamente stanno così le cose, se effettivamente sei senza lavoro, sarei uno stupido a non assumerti. Per prima cosa, se sei veramente così disperata, prenderai a cuore il lavoro, cosa di cui ho bisogno in questo periodo. Seconda cosa, sei comunque un’ex Auror, qualcosa la sai fare, no? E la cameriera, anche per una come te, non può essere una cosa più difficile…”.

“Troppi complimenti tutti assieme, Malfoy…” dico caustica. Mi sembrava strano il suo scatto troppo longevo di civiltà, è pur sempre fermo cerebralmente all’età del bronzo.

“Terza cosa, assumendoti, Seth la smetterà di darmi il tormento, anche perché ho il serio sospetto che licenzierà ogni cameriera che metterà piede qui dopo di te, solamente per farmi dispetto…” continua, come se non mi avesse sentito, il suo viso si inarca in un’espressione gongolante “… quarta cosa, essere il tuo capo, darti degli ordini con te che sei costretta a rispettarli… è una cosa che non è nemmeno lontanamente immaginabile come piacevole…”. Ride trasognato tra sé e sé per un po’. Ora capisco perché tutti quei Mangiamorte appaiano sempre così soddisfatti… se uno gli sta sulle scatole, lo uccidono, esattamente come vorrei fare adesso io con Malfoy, ma poi penso alla legge, alla prigione, a Seth che si impicca, al rimorso perpetuo...certo che la rettitudine è decisamente sfiancante. E frustrante, aggiungo. L’avete mai visto un Mangiamorte depresso? E invece mi ci incammino a grandi passi verso la depressione… anche perché so quasi perfettamente che sto per accettare, come una povera idiota. Se la necessità fa l’uomo ladro, credo che la disperazione e il fatto di essere stata lasciata dal proprio ragazzo, fa una donna decisamente tendente al suicidio.

Cerco di allontanare dalla conversazione il momento in cui dovrò dargli la mia risposta, chiedendogli: “Mi fai capire una cosa? Come mai ti è venuta questa geniale idea del servizio di colazione e di brunch con l’altrettanto geniale clausola che, se non accetto questa condizione, non mi assumi proprio?”.

“Granger, non mi spingo al punto che tu possa capire le complicate dinamiche manageriali…” mi dice, guardandomi con insopportabile e falsissima aria di comprensione frammista a pietà “Ma, dovendo assumere un’altra cameriera, devo ammortizzare i costi… e, avendone bisogno per quel dannato party, devo comunque rimanere in attivo, no? Se questo posto non è ancora fallito, qualche motivo ci sarà… non mi piace vantarmi…”, al mio sollevare gli occhi al cielo, corregge il tiro: “…d’accordo, mi piace alquanto vantarmi… ma comunque questo posto sta in piedi grazie a me…”.

“E grazie, suppongo, ai vari Incantesimi sparsi per il locale… oltre a quello Insonorizzante, ce ne sono altri?” commento noncurante, cercando così di assorbire la sua ammissione di presunzione. Adesso, si rende anche conto dei suoi difetti… dove arriveremo di questo passo?

“No che non ce sono…” mi risponde, irritato evidentemente che la sua grande trovata sia stata così miseramente smascherata “E’ l’unica traccia di magia ed era vitalmente necessaria…dunque l’eroico capo degli Auror se n’è immediatamente accorto? Era alquanto prevedibile…”.

Soprassiedo sul tono disgustato ed, assieme, ironico con cui ha pronunciato l’aggettivo eroico, e mi limito ad annuire con il capo, evitando qualsiasi genere di commento malevolo. In fondo, voglio spicciarmi ad uscire da questa situazione assurda, sono pur sempre in piedi davanti a lui con questa maledetta maglia da calcio addosso. E scommetto anche che i miei capelli sono ormai talmente crespi ed elettrici da assomigliare a Melanie B delle Spice Girls. Insomma, devo riassumere in tempi brevi un aspetto decente, ho fatto il pieno di figuracce per almeno quattro o cinque reincarnazioni. Ciò, però, implica necessariamente velocizzare i tempi sulla mia risposta alla sua offerta di lavoro. E questo momento sarà da sottoporre ad un potente Incantesimo di memoria, non appena avrò di nuovo i miei poteri. Tanto, per non correre il rischio di traumi permanenti ed incubi continui…

“D’accordo, Malfoy…” pronuncio a denti stretti, guardando altrove.

“D’accordo, che?!”.

E certo! Non potevo dirlo una volta sola, no! Fosse per lui, lo dovrei ripetere a vita come un carillon rotto. Lo spio con la coda dell’occhio e lo vedo con la faccia sadicamente soddisfatta. Sono quasi tentata di dire di no, salvando il mio orgoglio ed andandomene a testa alta, ma ho già ampiamente notato che l’orgoglio non è un buon sostentamento alimentare. Quindi, avanti con la crocifissione di me stessa e della mia dignità, abbondantemente iniziata con il supplizio della mia sanità mentale e con la flagellazione della mia intelligenza, quando avevo già deciso di accettare nel momento in cui Seth me l’aveva detto.

Arrossisco da testa a piedi ed abbasso lo sguardo, mugugnando: “D’accordo, lavorerò qui…”.

“Che cosa hai detto, Granger? Un raffica di vento mi ha impedito di sentire…” dice lui con faccia da finto santarellino, mettendosi una mano dietro l’orecchio e sporgendosi verso di me con aria da vecchio attore compassato.

Ah, è così! Adesso, ti faccio vedere io che significa scherzare con Hermione Jane Granger!

Mi sporgo a mia volta verso di lui, precisamente verso il suo orecchio destro inarcato nella mia direzione, e, in meno di un secondo netto, gli urlo nell’orecchio con tutto il fiato che ho in gola: “Ho deciso di accettare Malfoy!!!!!”.

Nemmeno la Callas al vertice della sua carriera avrebbe sparato un acuto del genere. Sono veramente fenomenale! Incrocio soddisfatta le braccia al petto, mentre osservo soddisfatta Malfoy che, per il contraccolpo, è finito dall’altra parte della stanza, la schiena contro un tavolo di metallo e una mano premuta contro l’orecchio frastornato.

“Ma che ti sei impazzita, Granger?!” mi urla Malfoy, guardandomi storto e stringendo gli occhi in due fessure malevole.

Mi trattengo dallo scoppiare a ridere, concedendo alle mie labbra solo una lieve piega ironica in stile “Te la sei cercata, sottospecie di malfuretto rimbalzante!”. La soddisfazione soffia leggera nel mio umore, fino a rendermi del tutto appagata e contenta, nonostante stia sempre indossando una maledetta maglia da calcio ed abbia sempre i capelli a riccio. Non mi accadeva da tempo di essere così soddisfatta, certo in una maniera contorta ed alquanto perversa, ma chissene… è decisamente bello sentirsi così. Avevo scordato come ci si sentiva. E mi sembra contraddittorio per la mia stessa indole e per quella che è stata la mia vita fino a questo momento, che questa sensazione benefica mi derivi da Malfoy. Anni fa, da lui ho avuto paradossalmente la distruzione proprio di quei momenti, e adesso è stato lui a crearne uno del genere. Sento sulla schiena un brivido caldo travolgermi e mi stringo nelle spalle, decisamente a disagio con me stessa. Mi sorprendo del pensiero che io stessa ho avuto e che non avrei creduto mai di poter avere… non sarà poi tanto male lavorare qui…  scuoto il capo violentemente, suscitando la sorpresa malcelata di Malfoy, che mi osserva aggrottando le sopracciglia. Mi ripeto nella mente che l’essere contenta di lavorare qui, è solo un deviazione perversa della mia mente che gode a maltrattare Malfoy, in modo da riprendersi delle sue sciagure presenti. E poi c’è sempre la delicata questione che ho bisogno di questo lavoro, no? In tal modo, mi convinco della totale innocenza nel mio stato d’animo attuale e il mio passo ritorna fermo, mentre esco dalla cucina.

“Sarà sempre così da questo momento in poi, vero?” la voce di Malfoy raggiunge le mie orecchie in modo quasi carezzevole. Deglutisco rumorosamente senza guardarlo, dandogli ancora le spalle, mentre un inquietante rossore raggiunge le mie gote. Che cavolo mi prende?! La sua voce, accidenti… la sua voce… nostalgia che, come un’onda, sbatte sulle pareti della mia anima, sulle stanze del mio cuore, sui muri della mia mente, logorandoli e rendendomi inerme. Basta, basta, basta!! Com’era? Ecco, deviazione perversa e sadica della mia mente e bisogno estremo di lavorare, eccola qua… perfetta ed ineccepibile giustificazione…

La sua forza logica spinge il mio volto, ormai sereno, a girarsi verso Malfoy e a pronunciare con la voce ferma e tranquilla: “Sarà anche peggio, Malfoy…”. Trovo dentro di me persino l’ombra di un sorriso. Sorriso gemello al suo, velato come il mio. Mi chiudo la porta alle spalle, un magone dentro.

Sarà peggio per tutti e due, vero? Perché nessuno dei due sa cosa aspettarsi dall’altro.

O meglio, lo sappiamo perfettamente cosa aspettarci l’uno dall’altra.

E questo la rende la cosa peggiore del mondo.

Quello che, però, non sappiamo è per quale assurda ragione entrambi abbiamo accettato la cosa peggiore del mondo.

 

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Capitolo 8
*** Land of wonderland ***


Capitolo 8 – Land of wonderland

Capitolo 8 – Land of wonderland

 

“Esisterà mai qualcosa di peggio al mondo che questo??!!” commento per l’ennesima volta, asciugandomi la fronte sudata con il dorso della mano.

“Certo che esiste, tesoro…” mi risponde piattamente annoiata la voce di Seth dal basso “Sei sempre troppo tragica…”.

“Sì, certo che esiste…” rispondo malevola ed ironica “Potrei essere investita in pieno da un Cayenne… o contrarre il virus Ebola in un modo ancora sconosciuto alla scienza occidentale… oppure essere colpita in pieno da un meteorite sfuggito al controllo della Nasa… in effetti, ci sono delle cose peggiori… dovrei decisamente sentirmi meglio…”, simulo un sorriso forzato, canticchiando: “Trallalà, trallalà, nella mia vita va tutto benissimissimo…”.

“Non intendevo tragica fino a questo punto…” spiega ancora Seth con uno sbadiglio “E non voglio nemmeno dire che questa sia la massima aspirazione per una ragazza che voleva fare l’archeologa…”.

“Eh?! Ma che cavolo stai dicendo? Io, l’archeologa?!” blatero soprappensiero, completamente presa dalle mie faccende.

“Come, che sto dicendo?! Me l’hai detto tu, al colloquio! Sono parole tue!”.

“Ah sì, sì, lo stramaledettissimo colloquio, a me e quando l’ho fatto!” rispondo annoiata ed ancora più nervosa, procedendo nella mia mente ad una serie di maledizioni mentali a quel flashback. Poi mi ricordo di Seth e chiedo più per educazione che per reale interesse: “E che cos’è che avrei detto?!”.

“Che volevi fare l’archeologa… perché non è vero?” mi chiede Seth sospettoso, guardandomi dal basso verso l’alto.

“No che non è vero… me lo sono inventata Seth!” sbotto infastidita, mentre mi scappa uno starnuto.

“E perché mi hai detto una bugia? Mica ti ho chiesto delle referenze in paleontologia o in cose simili… mentire per mentire mi dicevi che avevi fatto la cameriera al Ritz e t’avrei assunto pure prima…!” borbotta Seth con tono indagatorio e solamente allora mi rendo conto dell’enorme cavolata che ho detto. Presa del nervoso, mi sono dimenticata di quello che avevo detto a Seth e l’ho smentito con leggerezza. E adesso che gli dico?! Quanto mi rompe questa situazione, come babbana ho praticamente un’intera vita da inventarmi, come diamine avrà fatto Malfoy?! Stasera mi chiudo in camera e mi scrivo una serie di note sui primi dieci anni della mia vita... almeno mi ricordo le cavolate che sparo alla velocità di quindici al secondo…

Intanto, cerco di rimediare alla patacca attuale: “Tecnicamente, ti ho detto che studiavo archeologia, non che volevo fare l’archeologa…”, la faccia di Seth sfuma nella confusione totale, quindi mi affretto ad aggiungere il resto della patetica storiella appena inventata: “I miei volevano che studiassi archeologia… insomma, mi ci hanno obbligato loro. Io avrei voluto fare altro… appena ho deciso di cambiare facoltà, ecco che mi hanno tagliato i viveri… capisci adesso?”. Il volto di Seth si rischiara e torna sereno, stavolta l’ho scampata bella. Poveri mamma e papà, se sapessero come parlo di loro… meno male che, dalla pensione di papà, vivono in Italia, nella vecchia casa siciliana di mia nonna. Almeno tante cose sulla loro figlia, le loro orecchie se le sono decisamente risparmiate. Comprese le bugie attuali su una vita che non ha mai vissuto e che si inventa a fatica giorno dopo giorno.

“Capisco… i genitori sono una brutta bestia…” mi dice comprensivo Seth, per poi rabbuiarsi nuovamente e chiedermi: “E scusa, allora perché mi hai detto che mi avevi mentito?”. Lo guardo dall’alto, bianca in volto. Cavolo, questo non si scorda niente! Accidenti, e adesso che mi invento?! Pensa, Hermione, pensa! Se stasera non scrivo la storia fasulla della mia vita… per adesso, in fondo, ho detto pochissime cose: aspirante archeologa fallita con famiglia autoritaria, appena mollata dal fidanzato. Che quadretto penoso… la cosa diventa anche peggiore, se mai era possibile, quando penso alla più importante qualifica che ho agli occhi di Seth e degli altri: compagna di scuola di Danny Ryan.

E’ quest’ultima cosa a farmi innervosire oltre misura e a farmi esplodere, dicendo: “Insomma, Seth! Mi prendi sempre troppo alla lettera! Volevo dire che era una balla che volevo fare l’archeologa… che mi ci hanno costretto…”.

Ritorno, sbuffando alle mie faccende, dandogli le spalle, mentre lui si affanna a reggere la scala dove mi sono arrampicata ben mezz’ora fa.

 “Tu e Danny siete uguali…” mormora alla fine lui, la voce quasi rotta e il labbro inferiore che trema.

Sto quasi per cadere dalla scala, quindi mi reggo convulsamente all’architrave della porta del locale, che sta proprio di fronte a me. Avendo scampato la morte certa, mi volto furiosa verso il colpevole del mio tentato omicidio: “Potresti ripetere, Seth?!”.

“Che tu e Danny siete uguali…” ripete lui con il medesimo tono e con più coraggio, sollevando gli occhi verde giada verso di me. E dalle! Sì, siamo uguali come un cerchio ed un quadrato… sì, sì, siamo molto simili… procedendo ad una fantomatica quadratura del cerchio… traduzione: facendomi il lavaggio del cervello, della personalità e del carattere. Una bella centrifuga di neuroni, dei miei ovviamente, dato che i suoi non esistono, e allora sì che siamo uguali!

“Ed in che cosa saremo uguali?” chiedo, cercando di stare calma e ridandogli nuovamente le spalle “Nel fatto che apparteniamo tutti e due alla razza umana? Ed anche in quel caso ci sono seri dubbi riguardo a Danny ed alla sua evoluzione biologica dubbia…”.

Seth sbuffa rumorosamente e quindi alla fine lo lascio parlare: “Intendo che siete simili, perché tutti e due fate sempre un sacco di storie per raccontare le vostre faccende personali… la vostra vita privata…”.

“Se vuoi, ti racconto tutta la mia vita fino ad ora… dammi solo il tempo…”, di inventarmela! “… di prendere fiato…”. Se adesso dice sì, è veramente il colmo dei colmi…

“No, non importa…” mi dice inconsolabile, con l’aria di un bambino che rifiuta un giocattolo perché quello dei suoi sogni è stato appena venduto. Ecco, meno male… questa faccenda, comunque, è decisamente da risolvere. In effetti, ho detto veramente poco di me e questo non sta bene. Passare solo per una compagna di classe di Malfoy, bleah! Stasera mi ci metto davvero d’impegno, almeno evito inutili imbarazzi… certo che è difficile trasformare una vita di magia in una vita normale… come faccio? Comunque, se ce l’ha fatta Malfoy, ce la posso fare anche io. Un attimo… Malfoy! Ma certo! Devo parlarne con lui! Non perché non ne sia capace da sola, ma perché molte delle mie reticenze sono dovute al fatto che non so mai che dire, perché ho troppa paura di contraddire la sua versione dei fatti come Danny Ryan! Gli chiederò bene che cosa ha detto della sua vita, in modo da: 1- smetterla di sembrare una latitante che ha cambiato metà della sua vita; 2- smetterla di fare la figura della cretina e scapicollarmi in una serie di capriole mentali per uscire dai casini in cui mi metto; 3- sapere di più su Malfoy e sulla delicata faccenda di Serenity. Che genio, appena finisco lo prendo e lo metto sotto torchio… sono sempre il capo degli Auror in fondo. Ok, adesso non lo sono, ma sono dettagli di nessun valore… gli caverò fuori la verità con le tenaglie!

Ricordandomi della presenza di Seth, cerco di imbastire un discorso minimamente decente: “Scusami Seth… è solo che in questo periodo sono veramente tanto nervosa e non mi piace molto parlare di me… mi sembra di essere passata da un errore all’altro in questi anni…”, bè, questo è vero “… ma se vuoi, stasera, mi siedo e mi fai tutte le domande che vuoi…”, gli sorrido dolcemente, tanto fino a stasera ho già torturato Malfoy…

Seth, alla fine, sorride ed annuisce con il capo, quindi continuo più tranquilla: “E comunque Danny è sempre stato così… anche io so veramente poco della sua vita prima del liceo…”, che enorme panzana, è proprio di quella che so quasi tutto. È di quella presente che ho un’enorme voragine. “E poi io e lui non siamo per niente uguali… io, per esempio, non avrei lasciato una mia dipendente a crepare di freddo su una scala malferma per appendere delle maledettissime luci sulla porta del locale… tra l’altro, ad un gancio che dovrebbe esistere, ma che poi non c’è… se non è perfidia questa…”.

“Ma dai, non essere esagerata…” mormora Seth, contrariato come ogni volta che oso toccare il suo idolo.

“Sì, esagerata…” sbuffo con un nuovo starnuto, mentre Seth si sposta per l’ennesima volta da sotto alla scala con fastidio “Questa è violazione di ogni norma dello Statuto dei Lavoratori… e comunque almeno dell’articolo 15 bis comma 3…”.

“Sei assurda!” ride Seth di gusto, guardandomi divertito “Ti ricordi persino una cosa del genere? A volte, non sembri nemmeno vera…”.

Imbarazzata, mi mordicchio il pollice e mugugno: “Mi piace interessarmi a molte cose…”, poi scaccio il rossore sulle mie guance e dico: ”… soprattutto a quelle che riguardano i miei diritti… soprattutto se quelli stessi diritti vengono lesi da Ryan… Dio, non ci posso pensare!!!”. Frugo ancora per qualche minuto alla ricerca del gancio desaparecido, ma dopo un altro starnuto, deduco che il gancio doveva essere lì dai tempi della Thatcher ed evidentemente la ruggine l’ha fatto finire all’altro mondo. Pace all’anima sua… ma siccome alla mia pelle ci tengo ancora, scendo velocemente dalla scala, dicendo a Seth che mi sono stancata e che comunque ho da finire delle altre faccende, quindi se vuole, al prezioso gancio ci pensasse lui. Nella mia mente, spero che il gelido vento della tundra che soffia stamattina su Londra e gli accenni di pioggia lo facciano desistere così che Malfoy sarà costretto ad appendere da solo le sue luci, ma invece, come prevedevo, Seth sospira, borbotta qualcosa e si arrampica sulla scala al mio posto. Figuriamoci se non fa qualcosa che gli ha ordinato il suo prezioso Danny… bleah triplo!!!

Con un ultimo sospiro di autentica compassione verso la sudditanza psicologica di Seth verso Malfoy, rientro nel locale, abbassando il capo di fronte alla serranda mezza tirata giù. Per stamattina, la Regina dei Ghiacci ha deciso che sarebbe stato meglio non aprire, in modo da mettere a posto le ultime cose in vista del Tourquoise party. Insomma, in breve, trovare la trecentesima tovaglia di quel colore, il milionesimo festone turchese o un nuovo servizio di flute nella medesima tonalità di azzurro. Credo di provare una profonda avversione al momento per questo colore… e non odiavo così tanto un colore dai tempi in cui Lavanda e Calì indissero la settimana del rosa. Da quello che mi è sembrato di capire dalle scarne parole di Summer e di Malfoy, l’idea di questa festa l’ha avuta lei. O meglio, ogni anno a Londra la Camera di Commercio, o qualcosa di simile, indice una festa a tema in una data ricorrenza con le medesime caratteristiche, che sarà organizzata dai locali della città. Seth per esempio mi ha parlato di alcune feste degli anni precedenti, quando lavorava in un altro locale a Carnaby Street: ha partecipato ad una festa in stile greco, ad una con tema marino e ad un’altra con tematica polare. Quella sera, poi, i critici di costume di alcuni grossi settimanali cittadini si dividono i locali allo scopo di vedere chi ha organizzato la festa più riuscita ed originale. Chi vince, ottiene una speciale menzione sulle medesime riviste, a cui consegue un’enorme pubblicità. Da quello che mi ha raccontato Seth, l’anno scorso Malfoy si è rifiutato categoricamente di prendere parte ad una cosa del genere, perché la considerava una cosa assolutamente ridicola. Ma Seth ha aggiunto con una punta di nervosismo che allora non c’era ancora Summer. Sembra che lei sia entrata nello staff e nella vita di Danny Ryan solo da qualche mese, e l’ha rivoluzionata completamente. Almeno dal punto di vista lavorativo, questo dice Seth. Perché, da allora, Summer ha fatto di tutto per rendere il Petite Peste un locale alla moda ed in vista. E, persino Seth l’ha riconosciuto, ci è abbondantemente riuscita, anche se per Seth solamente perché è una spietata arrivista ed arrampicatrice sociale che mira solamente alla fortuna economica di Danny. Mentre sono presa da queste riflessioni, mi rendo conto che sono entrata casualmente in possesso di un’altra informazione sulla vita di Malfoy-Danny. Anche in questa vita babbana, Malfoy è ricco da fare schifo. Ovvio. Avrà venduto tutte le sue proprietà magiche e le avrà convertite in sterline. Non ci vuole certamente un genio per capirlo… non poteva mica aprire il locale dal nulla…

Starnutendo, entro finalmente nel locale, vuoto ed al buio. Summer, infatti, si è portata dietro nella sua crociata fashion tutto il personale, ad eccezione di me, Seth ed ovviamente di Malfoy. Che cosa voglia comprare da avere bisogno di tanta gente, lo sa solamente lei… comunque, questa è la buona volta che parlo con Malfoy da sola. Seth è impegnato, così non mi lancia sguardi curiosamente assassini… Malfoy dovrebbe essere libero, quindi…

Percorro la sala in silenzio, guardando in ogni anfratto alla ricerca di Malfoy, ma non lo trovo. Entro nella zona pub e persino nella discoteca, ma non lo trovo ancora. Ma che diamine di fine ha fatto quella specie di essere?!! Quando non lo voglio tra i piedi, è sempre presente; una maledetta volta che lo cerco ed è andato in Mongolia… salgo di sopra, pensando legittimamente che sia in camera sua. Educatamente, decido di bussare alla porta rossa che è quella della sua parte d’appartamento. La mia mano si blocca a mezz’aria, mentre rifletto che in effetti non l’ho mai vista. In questi primi tre giorni di lavoro, in realtà, ho visto Malfoy molto poco. A lavoro, la mattina, si è fatto vedere pochissime volte e soprattutto non per parlare con me, grazie a Dio… mi avrà detto solamente: “Oggi tocca a te lavare i piatti”, “Vai a comprare del latte, Lawrence non può andarci” ed infine la frase migliore, quella che mi ha detto appena stamattina: “Il gancio per le luci c’è, Granger… sei tu che non lo vedi…”. Insomma, una conversazione di alto livello. Non che la volessi, anzi… meno mi parla, meglio è. In effetti, non mi aspettavo nemmeno che fosse così docile ed arrendevole. Forse sta covando l’influenza… chissà… comunque, in questi giorni, se ne è quasi sempre stato per i fatti suoi, specie  con Serenity, ignorandoci tutti palesemente. Di dividere nuovamente l’appartamento con me e con Seth, non se ne è parlato minimamente da quella celeberrima prima sera. Seth sbuffa un po’, dice che vorrebbe che lui ci venisse a trovare, io roteo gli occhi benedicendo invece che se ne stia dove sta. Ma dubito che lo stia facendo per darmi soddisfazione, assolutamente. Evidentemente ha davvero da fare. Cosa, lo sa solamente lui. In fondo, della festa se ne sta occupando totalmente Summer. Boh… chi lo capisce, è bravo. La mia mano esita ancora, ricade pigramente lungo il fianco, bloccandosi di nuovo, mentre inconsciamente mi ritrovo a spalancare gli occhi, sorpresa.

Sono qui da tre giorni.

Chissà perché solo adesso l’ho metabolizzato completamente. Sono qui da tre giorni.

Appoggio la fronte alla porta, chiudendo gli occhi. Tre giorni lunghissimi, in realtà.

Non mi sono mai sentita così sola in vita mia.

Quel pensiero si insinua freddo come una lama nella carne viva, spezzandomi qualcosa dentro. Boccheggio, come se non riuscissi a respirare, le mani che si reggono convulsamente alla porta, come se avessi paura di cadere.

E’ la prima volta da tre giorni a questa parte che riesco a dare forma a questo pensiero, il pensiero che ho dentro sempre, il pensiero che non smette di tormentarmi. Lavorare fino a notte fonda e svegliarmi presto la mattina, parlare e scherzare con Seth ed April, sbuffare palesemente di fronte a Summer, inveire contro Malfoy… mi distrae, ma alla fine non cancella niente. Quello, lo stesso rimane in me, cresce a dismisura, dandomi la sensazione di essere sulle montagne russe ogni volta che lo rendo più reale nella mente.

Pareti sconosciute, facce sconosciute, abitudini sconosciute… una vita da inventare, come se non fossi mai esistita veramente… mi infilo nel letto alla sera e vorrei solamente piangere, ma poi non ce la faccio. Respiro a fondo, guardando il soffitto, e mi dico che devo essere forte. Ma perché, maledizione?! Perché devo essere sempre forte?!! Perché, eh?! E’ da tutta la vita che sono forte, avrò diritto ad essere debole un po’ anch’io, o no?! Ogni giorno, mi alzo con l’infinita e sterminata consapevolezza che mi manca la mia casa, mi manca la mia vita, mi manca Grattastinchi che adesso è da Ginny, mi manca lei, a cui ho detto solamente che ho trovato un lavoro che mi impedisce di tenere il mio gatto e che devo trasferirmi fuori città… Dio, mi manca anche la signora Sanchez…

… e mi manca Dean. Mi manca soprattutto Dean. Mi manca solamente Dean.

Mentre lo penso, gli occhi mi pizzicano un po’, tiro su con il naso e tengo fermo il labbro inferiore che prende a tremare. Lo tento di scacciare questo pensiero, ad ogni minuto e ad ogni momento del giorno, ma non ci riesco. Adesso me ne rendo conto davvero. Vorrei urlare a tutti quella che è la mia vita, ed è stupido, è insensato, è sciocco. Vorrei smettere di essere una patetica cameriera e tornare ad essere Hermione, il capo degli Auror, l’amica del cuore del Ministro Potter, e tutto il resto. Vorrei guardare queste persone con la forza che mi viene dai miei amici e da me stessa, da quello che sono stata e che sarò per sempre. Ed invece non posso. Ed invece sono solamente una che finge di essere ciò che non è.

Come sono arrivata a tutto questo?

E’ la sola domanda che ho la forza di farmi nel silenzio della mia stanza. Io che non volevo dipendere nemmeno dai miei genitori, o da Harry e Ginny, o da Dean… adesso dipendo da… adesso dipendo completamente da Malfoy.

Come sono arrivata a tutto questo?

Scintillante come diamante, una lacrima solca il mio viso, morendo sulle mie labbra.

Nello stesso momento, sento all’improvviso mancarmi qualcosa e mi sento cadere per terra. Che diamine succede?!! Accidenti, la porta! Si è aperta! E io ci stavo appoggiata sopra! Ma quanto sono cretina da uno ad un miliardo?! Un miliardo, vero?! Adesso, come minimo, mi rompo anche il naso…

La mia caduta si interrompe su qualcosa di compatto e caldo. Inconsciamente, mi ci aggrappo sopra per riacquistare l’equilibrio. Ho gli occhi chiusi, conseguenza dell’impatto con il pavimento che preannunciavo già vicino. Quindi non vedo, ma… sento… sotto i polpastrelli, la consistenza fresca e morbida di un tessuto estivo, forse lino, l’anulare che invece ne supera i confini e trova qualcosa di liscio, sorprendentemente bruciante sotto le mie dita, incredibilmente pulsante di vita e forza. Sento scorrermi dentro un fiume in piena, incandescente, distrugge tutto quello che trova sulla sua strada, incendiando e rendendo cenere i miei pensieri, aprendo porte chiuse e illuminando a giorno tutto quello che era in ombra. Spaventata, terrorizzata persino, stacco la mia mano come se bruciasse, traducendo però il mio goffo gesto in una frettolosa e esitante carezza. Arrossisco da capo a piedi, gli occhi ancora serrati, mentre sotto la mia pelle sento battere qualcosa… un… cuore… una persona, e chi è? Non riesco a pensare nitidamente, come carta bruciata tutto mi sfugge e si spezzetta tra le mie mani. Mi allontano velocemente e la schiena urta contro lo stipite della porta, il profumo dello sconosciuto che mi entra dentro, spalancando le finestre della mia anima, lasciando passare un alito di vita a cui non ero più abituata. Sento fremere i miei tessuti, la mia pelle, il mio cuore, la mia mente, e non so che cosa mi stia prendendo. E’ orribile, è come essere lanciati in una macchina che va a velocità folle, aggrapparsi disperatamente a qualcosa con lo stomaco che fa mille capriole. Dio, non mi è mai successa una cosa del genere…

Apro a fatica gli occhi, restando a bocca aperta quando vedo chi ho di fronte. La risposta più banale e scontata, in fondo.

E quella che adesso stranamente fa quasi male.

Immaginavo un angelo, un alieno, uno di un altro mondo, di un altro tempo e di un’altra vita.

Ed invece costui è terribilmente reale. E non è niente di quello che avevo immaginato.

“Che cavolo fai qui, eh, Granger?!” mi urla scandalizzato Malfoy “Stavi… origliando, o cosa?!”.

“Come diamine ti viene in mente una cosa del genere?!!” ribatto ancora rossa in viso.

“Ed allora che facevi, eh, me lo spieghi?! Stavi pure per cadere! E mi stavi anche finendo addosso! Se non è origliare questo ed essere anche beccati…” spiega lui brevemente, appoggiandosi con la spalla allo stipite della porta.

O mio Dio, o mio Dio… o mio Dio!!!! Non adesso, non qui!!! Non riesco a guardarlo in faccia, accidenti! Non ci riesco, mi vergogno troppo! Credo che tra poco si abbronzerà con il calore che irradia la mia faccia, maledizione! E per abbronzarsi lui, ce ne vuole… non riesco nemmeno ad alzare la faccia, ma sarò idiota?? Mammamiamammamiamammamia!!! E adesso che faccio???? Calma, calma, Hermione, calmati… ricordati che lui può anche leggerti nella mente! Certo, fantastico, come meditatrice zen ho davvero un futuro… così mi agito ancora di più!

“Granger?” mi chiama ancora Malfoy, la voce più leggera.

Sì, evviva! Adesso si mette anche a fare il gentile! Non basta la mia di crisi, ora lo perde pure lui il cervello! Che non ha, vabbè, quei tre neuroni in vertenza sindacale per il sovraccarico di lavoro mal ripartito… respiro profondamente, prima di tentare nuovamente di sollevare il viso scarlatto. Tutto questo, mentre mi stampo nel cervello l’immagine di Malfoy undicenne con il pigiama con i boccini e i capelli spettinati, cioè come lo vidi durante una rappresaglia notturna dei Grifondoro… bene, sta quasi funzionando, il respiro si regolarizza, il sangue torna alla pressione normale, il cuore smette di fare il pazzo… il cuore… il cuore di Malfoy. Sotto i polpastrelli delle mie dita, sembra tornare a battere quel ritmo sconosciuto. Ritraggo la mano dietro la mia schiena, come se recasse l’onta di una colpa inconfessabile. L’immagine di Malfoy che mi sono creata ad arte nella mente viene bruscamente sostituita da quella della persona che ho adesso di fronte e che ho sbirciato poco fa. Arrossisco ancora, mentre mi sovviene nella mente il ricordo del parte del petto che la sua camicia bianca lasciava scoperta e su cui io mi sono artigliata poco fa. Ci conosciamo da tredici anni ed è la prima volta che ho un contatto del genere con lui, la prima volta che la mia pelle sfiora la sua senza violenza, che la sfiora e basta, che percepisco quasi quello che pulsa sotto di essa. Ed è la sensazione più orribile del mondo.

 “Granger, insomma!” mi chiama ancora, la voce insofferente.

Il suo tono di voce tradizionalmente dedicato a me mi fa spazientire, sollevo il viso rapidamente, trascinandomi dietro la mia vergogna che soccombe sotto il mio orgoglio. Nascondo bene nelle pieghe del mio cuore quello che ho provato in questo momento, seppellendolo a fondo assieme ai miei pensieri di poco fa. Sentirmi sola. Avere paura. Essere confusa.

Nascondo tutto a fondo in me, celandolo alla vista di qualsivoglia persona. E torno me. O perlomeno ci provo, prendendomi a morsi mentalmente per nascondere la mia debolezza.

“Che diamine vuoi, Malfoy, eh?!” urlo come una pazza, la frustrazione che diventa rabbia.

“Come, che voglio? Voglio sapere che cosa ci facevi dietro la porta della mia camera, mi sembra ovvio!”.

“Stavo organizzando un attentato…” mormoro acida “Un’autobomba… poi mi sono accorta che per le scale non sarebbe passata e stavo valutando le dimensioni della porta per piazzare una mina anti-uomo… o anti-furetto, vedila come vuoi…”. Malfoy mi guarda ancora più irritato di prima, quindi alla fine mi decido a dire, sbuffando: “Secondo te, che cosa potrei volere da te?! Ti devo parlare…”.

“Di cosa?” mi chiede lui scocciato, incrociando le braccia.

Con terrore, mi accorgo che tra le parole che cosa e parlare, nella mia mente si è creato un vuoto pari come dimensioni solamente alla fossa delle Marianne. Che cosa ero venuta a chiedere a Malfoy??!!! La tempesta emozionale di poco prima ha ridotto ad una pappetta informe tutti i miei ragionamenti. Balbettando, cerco di trovare una scusa nel tempo utile che serva per ricordarmi che cosa volevo da Malfoy: “Il gancio… il maledetto gancio non c’è…”.

Non ascolto minimamente la replica di Malfoy, tanto già so che sta per dire… il gancio c’è, sei tu che non lo vedi… eccetera, eccetera… e intanto macino alla velocità della luce che cosa ero venuta a fare qui… Dio, perché non lo riesco a ricordare?!! Accidenti, accidenti, la vicinanza di Malfoy mi sta rendendo deficiente! E Seth non è che aiuta, poi… mi sto esercitando solamente a diventare la funambola delle bugie con lui… ogni volta mi devo inventare qualcosa di diverso con lui per nascondere che sono una strega, e che…

Ecco! Ho trovato! Grazie cervello!!!

“In realtà non ero venuta solamente per questo…” mormoro a bassa voce “Veramente ero venuta a parlarti di un’altra cosa…”.

“Granger, mi stai facendo impazzire… ti potresti decidere una santa volta?!” inveisce lui, incrociando rabbiosamente le braccia.

Ignorandolo, replico con voce seria e ferma: “Ero venuta a parlarti di una cosa importante… ero venuta a parlarti di Danny Ryan…”.

“Non capisco, Granger…” mi guarda Malfoy, inclinando la testa di lato e fissandomi come se fossi una povera scema. Dio, quanto mi dà fastidio! Inghiottisco chili e chili di orgoglio, sforzandomi di continuare: “Seth mi chiede spesso di parlargli di me, della mia vita, di quello che ho fatto… e io non so che dire. Devo inventarmi storie continue per nascondere che sono una strega e tutto il resto. Ma soprattutto le poche volte che mi riesce qualcosa, rischio di mandare tutto a monte, se quello che ho inventato contraddice quello che tu hai detto di te stesso… di Danny Ryan, insomma. Quindi voglio sapere che cosa hai detto come Danny… per regolarmi di conseguenza…”.

Malfoy mi guarda per qualche istante, negli occhi cinerei passano come scie di luce tutti i suoi pensieri, veloci come saette e fugaci come meteore, tanto che, nemmeno volendo, potrei interpretarne la loro corretta natura. Mi innervosisce essere sempre un passo dietro di lui, anche perché invece, per quanto riguarda me stessa, sono convinta che i miei pensieri si leggano perfettamente sulla mia faccia. Resto a guardarlo come incantata, sentendomi una stupida completa, ma non potendo impedirmelo. Mi incuriosisce come nessun altro al mondo, è sempre stato così, ma adesso me ne sono accorta compiutamente. Cerco di mantenere la mia faccia su un assetto normale, mentre una smorfia sulle sue labbra sottili mi avverte che ha finito di riflettere. È pronto a rispondermi, possibilmente nella maniera più sgradita possibile.

“Non se ne parla, Granger…” sibila con un tono che non ammette repliche.

“Come, non se ne parla?!! E io come faccio?” mi infurio, stringendo i pugni.

Lui si passa stancamente una mano nei capelli biondi, per poi dirmi con tono di voce estremamente annoiato: “Si dà il caso, Granger, che io non sia propriamente nato ieri… pensi che questo stupido piano possa funzionare?”.

“Quale stupido piano?”.

“Il piano che evidentemente hai architettato per sapere qualcosa della mia vita… di Serenity e tutto il resto, no?” risponde ancora con tono ovvio “Potter ti ha messo la pulce nell’orecchio e, come sempre, da perfetta Grifondoro impicciona quale sei, stai cercando di venire a capo della vicenda… in effetti, mi sembrava strano che non fossi più al tuo posto… che c’è? Adesso fai le missioni segrete, indagando sugli ex Mangiamorte?”.

Mi serro violentemente nelle spalle, mentre lui mi fissa malevolo. Distolgo lo sguardo da lui e guardo con interesse la tromba delle scale, accanto a me. Ci vorrebbe così poco per prendere ed andarmene… eppure, so di non poterlo fare, se non altro perché attualmente a causa delle avverse circostanze, Malfoy è il mio capo e contemporaneamente anche il mio padrone di casa. Una cosa davvero fantastica. Al contempo, la mia intelligenza mi suggerisce che Malfoy non mi dirà mai niente, se non capirà, nei suoi canoni tarati di giudizio, di potersi fidare un poco di me o comunque di avere bisogno di me per qualcosa. So che il secondo caso è alquanto difficile, quindi devo guadagnarmi un poco della sua fiducia. Esattamente come quando interrogavo coloro che si proponevano come collaboratori di giustizia. Dovevo cercare di convincerli a fidarsi di me, altrimenti non avrebbero mai collaborato. Malfoy deve fidarsi di me. E purtroppo c’è una sola maniera. La peggiore delle maniere. Mi chiedo se ne valga davvero la pena, se vale la pena fare questo sacrificio solamente per conoscere qualche cavolata sulla vita di Malfoy. In fondo, che mi interessa? Harry diceva che mi posso fidare, che non è più un Mangiamorte… eppure, so che la curiosità continuerà a divorarmi se non saprò qualcosa in più su questa maledetta questione, specialmente su Serenity. Quindi… la soluzione è una sola.

Sospiro leggermente, prendendo fiato e forza dagli anfratti di me stessa.

“Malfoy” inizio, la voce mi trema un po’ e tento senza successo di mantenerla ferma “Non potrei mai fare delle indagini sul tuo conto… semplicemente perché non sono più né il Capo degli Auror, né tantomeno un’Auror comune…”, sospiro ancora, eccola la parte difficile “… a dirla tutta, non sono più nemmeno una strega…”.

“Che cosa?!” mi chiede Malfoy, visibilmente scioccato. Non ha fatto nemmeno in tempo a scoppiare a ridere, tanto forte è stata la sorpresa.

“Non sono una strega…” ripeto pazientemente e per prevenire domande sgradite, aggiungo lapidaria: “Una condanna di interdizione all’uso della magia per abuso di potere… cinque anni… ne ho scontati già tre, me ne restano altri due…”.

“Non ci credo…” sbotta sinceramente, passandosi una mano sulla fronte “Se me l’avessero detto qualche anno fa, credo che avrei dato fondo alle riserve pirotecniche per il Capodanno cinese… la perfettina Granger… condannata… assurdo…”. Eccola lì, la risata. Lentamente parte dai suoi occhi, fino a prendere tutto il viso. Non credo di averlo mai visto ridere così tanto… maledetto… è praticamente piegato in due dalle risate e si regge convulsamente allo stipite della porta per non cadere riverso per terra. Magari perde l’equilibrio e si spacca l’osso del collo, accidenti a lui ed alla mia bocca larga! Ma come mi è saltato in mente di dirglielo??!!! Come se potessi aspettarmi una qualsiasi reazione diversa da questa… batto un piede per terra con impazienza, inducendogli silenziosamente di muoversi.

Lui si risolleva a fatica, continuando a sghignazzare ed asciugandosi invisibili lacrime dalle ciglia. La voce ancora piena di ilarità mi chiede: “Per favore, dimmi come è successo… non ci credo…” e giù ancora a ridere.

Gonfio le guance come tutte le volte che mi arrabbio enormemente. A questo segnale estremamente infantile, ma inevitabile almeno per la mia psiche, Dean scappava a gambe levate. Ma ovviamente Malfoy non lo sa. Ed anche se lo sapesse, dubito che si farebbe minimamente impensierire dalla mia reazione da pesce palla in posizione di combattimento.

“La smetti?!!” urlo, rossa in volto per la rabbia e per la vergogna “Basta, mi sono stancata… dirò a Seth quello che mi pare e piace!”. Mi giro bruscamente su me stessa per scendere le scale, ma, come era prevedibile, vengo fermata da Malfoy. Mi afferra per il polso, costringendomi a girarmi di nuovo. Sta ancora ridendo, riduco gli occhi a due fessure, volendo fulminarlo sul colpo. Non lo guardo in volto, mi farebbe innervosire troppo, i miei occhi trovano la mano che stringe ancora il mio polso. Non mi sta facendo male, non mi dà fastidio, è solamente…appoggiata… lui sembra accorgersi del mio sguardo e si stacca da me, sbattendo per un paio di volte le palpebre.

“D’accordo…” mi dice in un soffio “Ma solo qualcosa… e niente su Serenity, soprattutto… è solo per Seth, può diventare davvero asfissiante… ci manca che gli dici qualcosa che non ho detto e quello fa scoppiare un caso nazionale… e se lo dice a Summer… aspettami alla caffetteria all’angolo della strada… è meglio stare lontani da tutti e due…”.

Annuisco con il capo, voltandomi e prendendo a scendere le scale. Evviva! Ce l’ho fatta!!! Non so come, ma ce l’ho fatta… Malfoy sembrava aver cambiato espressione all’improvviso, quando mi ha lasciato andare… accidenti, mi fa talmente innervosire il fatto di non capire che pensa! Si sarà fatto un suo ragionamento mentale, da cui ovviamente sono esclusa, concludendo che in fondo potrebbe dirmi qualcosa. Che nervoso… afferro da un tavolino la mia borsa e la mia giacca di pelle, indossandola. Quando esco, Seth è ancora lì fuori, intento a sistemare le luci.

“Non hai ancora finito?” chiedo, sorridendo, mentre libero i capelli dal collo della giacca.

Lui sbuffa e non risponde, è evidentemente combattuto tra il desiderio di mandare tutto all’aria e quello di compiacere Malfoy. Poveretto, mi fa tanta pena…

“E tu? Dove vai?” mi chiede, guardandomi dall’alto della scala con espressione indagatrice.

“Chi?! Io?”.

“No, l’elefante rosa che sta passando adesso… certo che sto parlando di te, Herm!”.

“Ti ricordi la mia amica Ginevra…” balbetto senza molta convinzione “…quella che si sta per sposare? Ha bisogno di me per scegliere la stampa degli inviti… è veramente nevrotica…”.

“Quasi quasi vengo con te… mi annoio a morte…” mi dice Seth, sbuffando.

Sì, ci manca solamente questa! Adesso che ho incastrato Malfoy!!!

“Ma forse n-non hai capito quanto è nevrotica! Insomma non sarebbe un bello spettacolo…” aggiungo annoiata e con una punta di isteria nella voce “Tu magari immagini fiori d’arancio ed archi romantici, ma non è così… credo che quel matrimonio sarà più simile alla notte di San Bartolomeo…”.

“La notte di che?!”.

“Come di che?!! Di san Bartolomeo! La strage di ugonotti a Parigi nel 1572… Dio, ma quanto sei ignorante!” sbotto, veramente colpita, lo sanno tutti cos’è la strage di San Bartolomeo, o no? “Bè, comunque ciao… non farò tardi…”.

In capo a pochi minuti, raggiungo la caffetteria che mi ha indicato Malfoy. Lui chiaramente non è ancora arrivato, sarebbe potuto uscire dal retro o perlomeno pensavo che l’avrebbe fatto ed invece è in ritardo. Cerco un tavolo libero nella grande sala bianca ed azzurra ed una cameriera seccata mi indica un posto accanto alle enormi vetrate che danno sulla strada. Declino l’offerta, ci manca anche che mi vedano con Malfoy. La cameriera, pensando a chissà che tresca o relazione extraconiugale, mi squadra dalla testa ai piedi con un’attenzione che ha molto di un raggio X. Mi fa un cenno d’assenso, ammiccando con l’occhio destro ed indicandomi un tavolo nella parte più remota del locale. Estremamente imbarazzata, ordino un cappuccino ed una fetta di torta alle mele, le prime due cose che mi vengono in mente, per poi sedermi al tavolo e nascondermi dietro al menù per la vergogna. Lo so, lo so maledettamente che ho già ordinato, ed anche la cameriera lo sa, l’ho fatta a lei l’ordinazione! Per questo, non esita a guardare verso la porta per inquadrare con sguardo lussurioso Malfoy che fa la sua entrata trionfante proprio in quel momento. Cielo, quella donna sta praticamente sbavando! D’accordo, è un bel ragazzo, riempie la stanza, ha ancora quella camicia bianca che… insomma… quella che… quella che aveva, quando io… cioè… basta! Quella di prima, meglio rimuovere quell’immagine dalla mia mente, prima che divento di nuovo la perfetta riproduzione di un pomodoro maturo… ma comunque la reazione di quella pervertita non è giustificata. Anche perché, poi, Malfoy in questo momento ha anche in braccio quell’angelo di Serenity. Insomma, potrebbe essere benissimo scambiato per un giovane padre che porta a spasso la sua piccola, anche se a me fa ancora strano vederlo in questi panni, nonostante sono tre giorni che lo vedo sempre con quella che dice essere sua sorella. Chissà, se oggi scoprirò qualcosa sulla piccola… d’accordo, ho sempre il veto di Malfoy, ma devo cercare di intortarlo in qualche modo. Sono sempre l’ex Capo degli Auror, in fondo, ne ho fatti di interrogatori, compreso quello a Nick detto il Facocero. Indovinate il motivo del suo soprannome? Esattamente quello che avete capito… non lo voglio nemmeno ricordare…

La cameriera risponde alla domanda di Malfoy con un cenno stizzito del capo nella mia direzione, smettendo immediatamente di scodinzolare come una vecchia cagnetta in calore. Ha anche i capelli come le orecchie di un cocker… evidentemente deve aver pensato che io sia la fidanzata di Malfoy o sua moglie o chissà che altro. Mi guarda infatti schifata con la tipica faccia alla Ti sei messo con una cozza del genere, quando c’era in giro una bella pollastra come me??!! Socchiudo gli occhi, guardandola, mentre Malfoy si avvicina e si siede di fronte a me, dando le spalle all’arpia. Sta mostra… perché io non potrei stare con un tipo del genere, l’ha capito solamente lei! Mica sono da buttare, no? E Malfoy non è mica Apollo, no? Potremmo benissimo stare assieme e Serenity potrebbe essere la nostra bambina, no? Che cavolo! Quella insiste! Continua a fissarmi con sguardo di sfida! Se avessi la mia bacchetta, le avrei già lanciato una fattura stile Marietta Norton ai tempi dell’ES…

“Le cameriere di questo posto devono avere dei gravi scompensi ormonali…” borbotta Malfoy sottovoce, aprendo con stizza il menù e sistemando meglio Serenity sulla sedia accanto a lui.

Coccolo un po’ la piccola, mentre quella donna maledetta continua a fissarci… adesso ti faccio vedere io… mai sfidare Hermione Jane Granger…

“Hai proprio ragione, tesoro…” urlo con voce acuta in perfetto immatricolazione Patil&Brown production, in modo che metà della sala si volti verso di me, compresa la cameriera ninfomane.

“Granger, ma che cavolo ti prende?!! Sei diventata schizofrenica in questi anni?” mi sibila Malfoy, appiattendosi sul tavolo e guardandomi storto. Sbuffo, mi ha rovinato tutto l’aspetto drammatico della vicenda… non ci crederebbe mai nessuno che stiamo assieme, non dopo la sua occhiata alla Freddy Kruger. Ma almeno la cameriera si è volatilizzata, non fosse altro per il fatto che sembro una scappata da un manicomio criminale. Non è quello che volevo, ma ho capito abbondantemente che nella vita non si può mai avere quello che si vuole. Specialmente se c’è di mezzo Draco Malfoy.

“Non fare quella faccia da tonno” borbotto impietrita, mentre Malfoy mi squadra ancora malevolo come se si aspetti da un momento all’altro che cominci a vomitare succhi gastrici verdi come nell’Esorcista “Era per la cameriera… mi stava dando sui nervi come mi stava fissando…”.

“Forse fissava me, non te…” commenta lui presuntuoso.

“Fissava anche me, credo perché fosse convinta che stessi con te…” aggiungo, manifestando disgusto alla sola idea.

“Che schifo!”.

“Per te… immagina per me… assomigliava a quando calpesti una cacca di cane a piedi nudi…” sbotto nervosa, aprendo nervosamente il menù, Serenity scoppia a ridere alla parola cacca. Le sorrido, almeno un raggio di sole in questa giornata orribile. Come le tre giornate prima di questa e quella prima ancora. Quattro giornate orribili. Sì, sono proprio quattro giorni da quando ho rivisto Malfoy.

“Granger, sei veramente rivoltante…” aggiunge lui gentilmente con una smorfia “Capirai il perché non voglia passare tutto il tempo qui con te… muoviti… che vuoi sapere?!”.

Poggio il menù sul tavolo, tornando seria, e chiedo con un filo di voce: “La vita di Danny… dov’è nato, che ha fatto, dove ha studiato, la sua famiglia… insomma, quello che ti sei inventato…”.

Il suo volto cambia radicalmente espressione alle mie parole, sembra rabbuiarsi, sembra quasi che un lampo azzurro sia passato nei suoi occhi, provocandogli un piccolo moto di… sofferenza… sì, sofferenza, io credo. Forse sto iniziando lentamente a capire le sue espressioni, il suo viso, i suoi occhi e i pensieri che si celano dietro di essi. Sofferenza… sofferenza per qualcosa che ho detto. Cosa? Non ho detto niente di strano o di offensivo… con tutto quello che di solito gli dico, abbondantemente ricambiata… ma certo… quello che ti sei inventato… che stupida… è pur sempre la sua vita, fittizia sì, ma sempre la sua vita. Faccio la sensibile e pretendo considerazione e rispetto dagli altri, e poi sono la prima che prendo a calci i sentimenti altrui. D’accordo, i sentimenti di Malfoy non possono essere molto complessi, ma qualcosa la prova anche lui, no? La bambina bionda che ride accanto a me, pasticciando in un budino al cioccolato, ne è la dimostrazione. E Serenity non è qualcosa di inventato.

“Volevo dire…” cerco di correggere il tiro, affondando nervosamente i canini nel labbro inferiore “Come hai fatto a cancellare completamente la tua vita precedente e a costruirtene una nuova?”.

Malfoy mi guarda fisso per qualche secondo, come se cercasse di leggere sulla mia anima nuda. Poi distoglie lo sguardo da me, guarda Serenity e poi i suoi occhi tornano a me. E tornano a me sereni.

“Non è stato difficile…” inizia, la voce volutamente bassa “Nel nostro mondo, parlo di quello a cui davvero apparteniamo entrambi, se chiedi di Draco Lucius Malfoy, ti dicono che è morto. Potty ha inscenato la mia morte…”.

“Come?”.

“Un incidente con un Ungaro Spinato…” replica lui con semplicità, sorseggiando piano il suo caffè bollente “L’avrei comprato per il mio castello, da un ricco eccentrico se lo potevano anche aspettare tutti, no? Polverizzato dalle fiamme, nemmeno un cadavere da tumulare… meglio così… meno spese inutili…”.

Un brivido mi passa sulla schiena. Come fa ad essere così cinico, parlando della fine della sua stessa vita? E’ una contraddizione vivente, sembra avere mille anime nel suo corpo, tra cui una capace di sorridere dolcemente ad una bambina ed una che ti fa pensare che arriverebbe a ridere di gusto davanti ad una lapide.

“Ma lasciamo perdere…” continua con leggerezza, come se non stesse parlando di sé “In pochi sanno che sono ancora vivo… Blaise, Pansy… alcuni miei parenti… e sono tutti legati da incantesimi simili a quello che impediva di rivelare il nascondiglio dell’Ordine della Fenice… e poi Potty…”, solleva lo sguardo plumbeo, guardandomi come se mi trapassasse da parte a parte, aggiungendo: “… e adesso tu, Granger… và da sé che non voglio pubblicità…”.

“L’avevo capito…” sussurro con un magone in gola.

“Veniamo a Danny, allora… e di lui che vuoi sapere, no?”.

Annuisco con il capo e lui prosegue: “Il Ministero mi ha fornito e continua a fornirmi tutto quello di cui ho bisogno per supportare la mia falsa identità… documenti, attestati, persino fotografie ed altro, oltre che ad una somma di denaro periodico proveniente dai miei beni e convertita in sterline… è tutto regolare… ci sono anche babbani che in caso di emergenza testimonierebbero una mia assolutamente falsa conoscenza…

“Il mio nome attuale è Daniel Christopher Ryan… sono nato ventitre anni fa da Laura Bennet e Christopher Ryan senior a Providence, nel Rhode Island. Mio padre era il direttore di una fabbrica di armi…”.

“Una fabbrica di armi?! Ed in America, poi?!” chiedo sconcertata. Certo che Malfoy se l’è inventata grossa la bugia… e poi… armi… mi si accappona la pelle solamente a pensarci. Non avrebbe dovuto volere cambiare radicalmente la sua vita? E si è scelto un destino pari a quello che aveva da Draco Lucius Malfoy?

Lo vedo sorridere qualche istante, perso nei suoi pensieri, prima di spiegare: “Sono stati quelli del Ministero a consigliarmi di scegliere una vita che avesse qualche attinenza con la mia vera esistenza… un corrispondente babbano di un Mangiamorte potrebbe essere un fabbricante di armi, no, Granger? Per loro, non avrei dovuto scegliere una vita completamente diversa da quella che avevo realmente vissuto. Il mio carattere, il mio modo di fare, tutto quello che mi appartiene… il mio essere in un determinato modo piuttosto che in altro, è proprio per quello che sono stato e che ho vissuto… sarei stato più credibile nella parte, mettiamola semplicisticamente in questa maniera. Per quanto riguarda la scelta dell’America e del Rhode Island, è dovuta ai documenti che potrebbero richiedermi a Londra, e simili… essendo la mia fittizia terra d’origine lontana abbastanza da Londra, si spiegherebbero i ritardi nelle varie consegne, oltre che eventualmente il mio non conoscere determinate cose comuni ai miei coetanei londinesi…”, la sua bocca si atteggia in una sorta di risata amara e sarcastica, mentre aggiunge, la voce più cupa: “Capisci, Granger? Sarò anche babbano ed americano, avrò anche un altro nome…”.

“… ma è sempre tutto uguale…” completo con un filo di voce. Lui annuisce con il capo, distogliendo ancora lo sguardo, non prima di avermi nuovamente squadrato con l’espressione indagatrice che ho imparato tipica di lui. Mi sembra tutto così assurdo, come possono imporre ad una persona di vivere esattamente la stessa vita, da cui è scappato? E’ incredibile… è come quando una falena sbatte continuamente contro il vetro di una finestra nel tentativo di uscire. Pensavo che come Danny, Malfoy avesse finalmente tutto quello che non aveva mai avuto, ed invece… punto e a capo. Tanto valeva restare com’era…

Dopo qualche attimo di silenzio, lo sento continuare: “Ho vissuto a Providence per tutta la mia vita… nel caso te lo stia chiedendo, ho frequentato lì anche il liceo, una scuola privata per ricchi o roba simile… la Queen Elizabeth’s Academy… ho una specie di attestato… avendo detto che sei una mia compagna di scuola, credo che dovrai inventarti che eri a Providence almeno negli anni di liceo…”.

Questa è bella… mi dovrò inventare una vita da Golden Globe…

“Sono rimasto in America fino al primo anno di college…” prosegue, dopo aver finito il suo caffè “Avevo iniziato a frequentare Harvard, a Boston… volevo diventare medico, ma le cose andarono male. Mio padre fu incriminato per un caso di blood diamonds, sai che cosa sono?”.

“Non sono i diamanti scambiati con le armi in Africa e con cui si proseguono le guerre?” chiedo con un filo di voce, mi fa paura questa storia e questa vita, ma mi fa paura soprattutto la tranquillità con cui ne parla Malfoy. Lucido e cinico, sembra che sta raccontando la cronaca di un telegiornale tipo.

“Il processo è stato lunghissimo…” continua ancora, dopo aver preso in braccio Serenity “Tanto da permettere a mio padre di concepire mia sorella… ma un anno e mezzo fa è stato finalmente arrestato. Io avevo già lasciato l’America per Londra, dove vivevo da alcuni miei amici e dove poi ho aperto il Petite Peste con l’aiuto di mia madre… un anno fa, mia madre è morta, distrutta dal dolore e dalla vergogna, lasciando Serenity completamente sola. Sono tornato a Providence solo per prendere mia sorella e per partecipare al funerale di mia madre. Poi sono subito ripartito per Londra… qualche mese fa, anche mio padre è morto… suicidato… in galera…”.

Le sue ultime parole mi prendono in pieno, come un auto a fari spenti nella nebbia. E’ stato telegrafico, rapido, scarno, come se cercasse con precisione chirurgica di rendere indolori le sue stesse parole alle sue orecchie. Che razza di vita, le armi erano solo il primo passo… ha ragione, è praticamente la vita di un Draco Malfoy babbano. Le pratiche illegali, la galera, la morte di tutti e due i suoi genitori, il tradimento del figlio. La sola cosa diversa è Serenity, la sorella che, perlomeno su questo sono certa, Draco non ha mai avuto. Ma che è la sola cosa bella di questa storia. Non ho capito come l’ha avuta, ma sono contenta che ce l’abbia. E, almeno adesso, non mi interessa sapere da dove sia venuta.

Basta che ce l’abbia, basta che sia una cosa colorata nel grigiore della sua vita.

“Che c’è, Granger, ti si è mozzata la lingua?” mi dice arrogante, soppesandomi con lo sguardo. Me ne accorgo anche se ho gli occhi bassi. “Non volevi sapere la vita di Danny Ryan? Eccola qua, te l’ho servita su un piatto d’argento… non sei contenta? Vuoi forse che ti racconto per filo e per segno come si è ammazzato il mio pseudo-padre? Non è molto diverso da com’è morto il mio vero padre… solo che allora non l’ha voluto lui…”.

“Smettila!” urlo, premendo le mani sulle orecchie ed agitando il capo, non interessandomi che le persone in sala si voltino a guardarmi. Sollevo gli occhi, resi lucidi da un peso che mi si è fermato sullo stomaco: “Come diamine fai ad essere così, me lo spieghi?! A raccontare queste cose come se non te ne fregasse niente?!! Stai parlando di tua madre e di tuo padre, maledizione!!”.

Lo vedo ridere ancora, mentre aggiunge tagliente: “Ironico che sia tu a dirlo, Granger… non sei stata forse una delle prime a considerare i miei null’altro che schifosi assassini? Non mi sembra di essermi comportato in maniera molto diversa da te e dai tuoi amici, o sbaglio?”.

“Questo non c’entra niente…” sussurro, il sudore freddo che mi inzuppa la schiena “Tu sei il loro unico figlio, quindi…”.

“Quindi, cosa? Cosa, Granger?” mi interrompe freddamente, la voce che non si alza di mezzo tono, la rabbia e il dolore visibili solo nel luccichio cieco dei suoi occhi e nel rossore livido del suo viso “Quindi, che cosa?!! Dovrei difenderli, dovrei giustificarli, dovrei onorare la loro memoria?! Hanno cambiato nome, ma sono sempre quello che erano, assassini, nulla di diverso da questo… e io non sono nulla di diverso da questo, figlio di assassini, figlio del sangue che hanno versato per sopravvivere, del sangue che ho fatto versare anch’io per sopravvivere… è tutto qui. Cosa dovrei fare, raccontare di quando mio padre mi portava a cavalcioni sulla schiena o di quando mia madre mi cantava le ninnananna, ammesso che l’abbiano fatto?! Potrebbero anche averlo fatto, ma cinque secondi prima avevano ordinato la fine di bambini della mia stessa età, della stessa età di Serenity…”, i suoi occhi vagano inquieti per la stanza, ostaggi di purpurei ricordi lontani, prima di ritornare a me e di guardarmi con una sorta di ironia quasi cattiva: “…ma certo, per voi, la forma è tutto… l’ipocrisia dei vostri ragionamenti è rivoltante… siete stati i primi a volermi dalla vostra parte. A mettermi contro di loro… e adesso che sono… sincero… nemmeno questo vi va bene… mi vorreste ipocrita esattamente come voi, no?! Mi dispiace, ma questo non posso davvero farlo…”.

“Voi, chi? Voi, chi? Si può sapere di che diamine stai parlando, Malfoy?!” dico a voce bassa, trattenendomi per quanto sia possibile e sporgendomi sul tavolo, adesso non più spaventata, ma quasi furiosa.

“Certo, lei non sta di che cosa sto parlando…” sorride lui, ancora, l’espressione malevola come prima. Continuo a guardarlo in attesa e qualcosa del mio viso evidentemente lo induce a parlare. Ma non a credere che io effettivamente non sappia di che sta parlando. Se prima cercava di mantenere un certo distacco e di non ostentare la sua rabbia, adesso invece sembra perdere il controllo. Lo vedo appoggiare delicatamente Serenity sulla sedia accanto a lui e poi guardarmi con odio puro, gli occhi socchiusi e il viso paonazzo. Rabbrividisco, pentendomi della mia domanda e della mia sciocca ostinazione, arrivando anche a temere che da un momento all’altro mi ammazzerà su due piedi.

“Non sai di che cosa sto parlando, certo…” soggiunge, la risatina luciferina ancora intatta, poi mi si avvicina e, con tono confabulatorio, prosegue, facendomi tremare dalla testa ai piedi, sebbene cerchi di ostentare un controllo che non ho: “Tu sei più intelligente di me, eh, Granger? Non diceva sempre così quella vecchia megera della Mc Granitt o il bacucco Silente?! Certo che dicevano così, no? La Mezzosangue Granger era la migliore tra noi, la più intelligente, la più dotata… eppure adesso non capisce le più piccole cose… è una piccola cosa l’ipocrisia, no? Una piccola cosa, di cui hai una grandissima esperienza quotidiana e lo stesso non la capisci… non capisci di che voi sto parlando… quelli come te, gli Auror, i bravi ragazzi, quelli che si immolano per la causa… per l’onore, per il bene, per la salvezza degli innocenti. Certo… proprio loro… gli eroi…

“E adesso dimmi, Granger… chiameresti eroe uno che ammazza senza pietà, che uccide chi gli pare e piace? D’accordo, si percuote il petto per cinque secondi, dolendosi dell’anima prava che ha destinato al Creatore, ma comunque l’ha fatto o no? Ma l’ideale fa la differenza, quello giusto e quello sbagliato, quello buono e quello malvagio… e così continuate, celando dietro lo splendore delle vostre vesti nivee, dietro il luccichio dell’oro delle armi, dietro lo sfavillio dell’avorio dei templi, il nero del sangue che vi sporca le mani esattamente come per i Mangiamorte… non c’è nessuna differenza… un niente di differenza… una linea talmente sottile… ma voi continuate a chiamare le cose con nomi diversi e così vi scaricate la coscienza… vi fate un segno sulla fronte e siete a posto… ci sarà sempre un paradiso per voi ed un inferno per quelli che non sono come voi… eppure, sai che c’è, Granger? La linea per me nemmeno esiste. Non la vedo. E forse sarà per sempre questa la mia colpa. Ma tu non capisci ancora, vero? Ok, d’accordo, cercherò di essere più chiaro…

“I Paciock… sono stati resi folli dalla tortura… pazzi… chiusi dentro il San Mungo a delirare e a parlare con i morti… nella mia mente, le sento ancora le loro grida. Ero piccolo, avevo qualche mese e mio padre mi portò al loro martirio. Mia zia Bella rideva come una pazza, una povera pazza… un Pensatoio mi ha fatto rivivere tutta la scena… tirava capelli, strappava unghie, lanciava fatture… fu quello a non farmi essere un Mangiamorte, quel ricordo. Le urla che sentivo quando chiudevo gli occhi… non volevo essere uno di quelli che facevano quelle cose. E venni dalla vostra parte…

“Un giorno, a guerra finita, dopo che erano passati anni dalla morte dei miei, strappai un ricordo da uno che avevo assistito alla loro morte. Un Auror, Anthony Goldstein. Mi avevano detto che erano morti, combattendo contro l’Ordine, ma io non ci credevo. Li conoscevo bene, non avrebbero mai lottato se questo avrebbe comportato il rischio serio di perdere la vita… quando vidi quel ricordo, ebbi un enorme dejà vu. Sì, Granger, erano cambiati i colori, sostituite le maschere, modificate le armi… ma era la stessa cosa. Uccisero i miei, torturandoli fino alla morte, e solo per sapere dov’era Voldemort. Violentarono mia madre, massacrarono mio padre, ma era lo stesso. La stessa fottuta cosa. C’erano solo due differenze… i Mangiamorte si fermarono, quando i Paciock impazzirono. Gli Auror, no. Non lo so, forse perché sono loro gli eroi e loro sanno sempre che cosa fare. Mia madre e mio padre erano solo assassini in fondo, come mia zia. E forse queste cose non le capivano…

“La vostra ipocrisia fa chiamare i Paciock eroi, fa piangere a sentire il loro nome, fa ergere statue e fa affiggere medaglie. E poi fa chiamare mia madre puttana e mio padre bastardo, fa ridere a sentire il loro nome, fa scoperchiare tombe e profanare reliquie… e riserva il primo trattamento agli Auror.

“Ma forse, proprio come i miei, non le capisco queste differenze. E per me sono assassini e mostri i miei genitori, anche se mi hanno dato la vita; ed assassini e mostri sono quelli come te, anche se siete i buoni…ora, spiegamela tu la differenza, Granger, se ci riesci… spiegamela… riempila di parole bellissime e vuote e spiegamela tu… sicuramente, avrai ragione tu, non io…”.

Non so esattamente in che punto esatto del suo discorso, ho iniziato a piangere. Adesso l’unica cosa di cui sono cosciente sono le lacrime che cadono lungo il mio viso e la voragine che mi si è aperta al posto del cuore. Non può essere vero… non ci credo… gli Auror, quelli che comandavo fino a qualche anno fa… hanno ucciso i genitori di Malfoy… se c’era Anthony Goldstein, molti di loro dovevano essere ancora al mio servizio. Nella mia mente, scorrono veloci i mille visi amichevoli e sereni degli uomini e delle donne che ho guidato e che ho diretto nelle varie azioni, cercando una minima traccia che mi possa mostrare in uno di loro le tracce di quell’abominevole assassinio. Ma non ne trovo, nemmeno in Anthony che Malfoy ha nominato direttamente. Un ragazzo allegro e tranquillo, così lo ricordo, che si spaventava al minimo accenno di rissa e che correva a nascondersi dietro il capo della sua squadra. Fu uno dei pochi a dispiacersi, quando fui mandata via, e lui sarebbe… no, non è possibile… Malfoy mente, sta mentendo, è solamente per ferirmi che dice queste cose… in fondo, è sempre di lui che stiamo parlando… no, gli Auror non sarebbero mai capaci di una cosa del genere… se loro facessero delle cose del genere, loro… i… buoni… i Mangiamorte che cosa dovrebbero fare, allora? Non avrebbe senso che io abbia scelto di stare da una parte piuttosto che dall’altra… non avrebbe senso essere diventata un’Auror… non avrebbe senso più nulla…

“Non è vero…” balbetto sottovoce, singhiozzando senza ritegno.

Malfoy mi guarda per qualche secondo, per poi dire quasi sgomento: “Non mi dire che non sapevi nemmeno questo? Ma che razza di capo degli Auror sei?!”.

“Non è vero…” ripeto, sollevando gli occhi rossi e guardandolo con odio. In pochi secondi, ha praticamente distrutto quel poco che rimaneva della mia vita.

Il momento di smarrimento di Malfoy passa rapidamente, ritornando alla rabbia: “Certo, lei non sa nulla di dove lavora, non sa un cavolo di quello che fa, di quello che fanno quelli che lavorano per lei, e sono io quello che mente?!! Se non ci credi, se pensi che sia una bugia, perché non lo chiedi a Potty? Perché non lo chiedi al Ministro? A lui, ci crederai, no? Chiedilo a lui, Granger!”.

“E’ esattamente quello che farò…” urlo, alzandomi in piedi e continuando a singhiozzare “E lui mi dirà che è una schifosa bugia! E allora, Malfoy, ti giuro che ti farò passare tutto quello che sto passando io adesso per colpa delle tue orribili bugie!”.

Lui ride ancora: “Sei ancora qui, Granger? Guarda che il Ministro riceve fino alle 3…”.

Come tanti anni prima, mi scaglio con violenza su di lui, schiaffeggiandolo in pieno viso. Lui barcolla, quasi cadendo dalla sedia, mentre tutte le persone attorno a noi ci guardano attoniti, compresa la cameriera di prima che finalmente metabolizza che non stiamo assolutamente assieme. Al momento, credo che non vorrei più nemmeno stare nella stessa stanza dove c’è lui, una schifosissima serpe come lui. Resto immobile, la mano che mi brucia orribilmente, lo sguardo di sfida negli occhi, pronta a qualsiasi reazione da parte sua, le lacrime che non ne vogliono sapere di smettere di cadere. Lui si limita a rimettersi dritto, a lanciarmi uno sguardo di traverso, per poi dire tagliente: “Non ci sarà una terza volta, Granger… fai quello che vuoi, parla con Potter, non farlo, pensa che ti abbia mentito… non mi interessa… ma stasera ti voglio fuori dalla mia vita… sono stato abbastanza chiaro? Nel caso tu non abbia capito, come per molte altre cose, te lo rispiego: sei licenziata…”.

“Benissimo…” soggiungo, raccogliendo la mia borsa e mettendomela sulla spalla “Finalmente questa pagliacciata è finita…”. Esco, praticamente correndo, non prima di aver lanciato uno sguardo a Serenity. Povera piccola, non la rivedrò mai più… e nemmeno Seth… ma ormai è dannatamente chiaro che non posso più rimanere in questo posto, assieme a Malfoy. E’ crudele, cattivo, perfido… è giunto ad inventarsi una cosa del genere sui suoi genitori, solamente per ferirmi. E come parlava di loro, Dio mio… come se fossero delle persone come altre, come se non fossero i suoi genitori… fosse anche che i miei fossero stati delle persone del genere, non avrei mai smesso di amarli e, se non proprio di difenderli, di intimare a chiunque di non parlare male di loro in mia presenza. Ma lui invece è il primo ad offenderli gratuitamente… e poi la storia che sarebbero stati gli Auror ad ucciderli… assurdo… come se fosse successa una cosa così, il Ministero li avrebbe tranquillamente lasciati al loro posto. Sarebbero stati destituiti, puniti, forse anche imprigionati. Hanno punito me per abuso di potere, e in quel caso che avrebbero dovuto fare? Condannarli a morte? E’ solamente una orribile ed infamante bugia…

L’impatto con l’aria dell’esterno, mi spinge curiosamente a piangere ancora di più. Mi fermo sul marciapiede, gettando un’occhiata al Petite Peste, dove posso ancora intravedere la scala e Seth arrampicato inutilmente sopra. Sorrido, mi mancherà… quando tornerò a prendere le mie cose, li spiegherò tutto. Inizio pigramente a camminare per strada, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano, non sapendo dove andare. Mi fermo a guardare le vetrine con aria annoiata, la vista resa cieca e disinteressata dalla miriade di pensieri che affollano la mia mente. Dopo essere rimasta mezz’ora davanti ad un’agenzia d’assicurazione, dove non c’è proprio niente da guardare, cerco di fare mente locale su dove andare. A casa mia? O da Ginny? Ma i miei pensieri mi scivolano dalle mani come l’acqua di un ruscello, contaminati dalle irragionevoli parole di Malfoy e dal volantino dell’assicurazione che pubblicizzava la nuova polizza contro gli incendi.

Assassini e mostri sono quelli come te, anche se siete i buoni…

Risarcimento completo anche di mobili antichi danneggiati!!

All’improvviso, una voce tenue e flebile si insinua tra queste parole sconnesse. Cerco di afferrarla nella mia mente, mentre anch’essa scappa via, e cinque secondi dopo, vorrei già averla cancellata dalla mia testa.

La voce di Harry.

La telefonata di quattro giorni fa.

La mia domanda. Non è strano che viva da babbano?

La sua risposta. Il tono di voce prudente ed esitante. No, Herm. L’esitazione che, di fronte alla mia insistenza, diventava nervosismo. Lo so perfettamente come vive Malfoy, dato che sono stato io a dargli quello che ha…

Il mio sconcerto. E l’incertezza della sua risposta. Esattamente… alla fine della guerra… sai che hanno ucciso i suoi genitori?

E quella risposta… quella parola sfuggita per caso… è stato una specie di risarcimento…

Le lacrime ricominciano a cadere dai miei occhi, mentre quella singola parola rimbalza nella mia testa.

“Insomma, è stato una specie di risarcimento…”.

“Non capisco”.

“Non ce n’è bisogno…”.

Il Ministero ha risarcito Draco Malfoy, facendogli cambiare identità, sbloccando i suoi beni, dandogli quello che ha. È stato Harry a dargli quello che ha. Per risarcirlo, risarcirlo della morte dei suoi genitori. Decine di Mangiamorte sono morti, ma nessuno dei loro figli è stato risarcito. Il Ministero sarebbe andato in fallimento in quel caso. E poi c’era sempre la guerra… nessuno sarebbe stato così folle da chiedere un risarcimento, se il proprio congiunto aveva deciso di essere un Mangiamorte, al massimo era proprio il Ministero a dover chiedere un risarcimento. Non il contrario. Ed invece Harry ha risarcito Draco Malfoy… per la morte dei suoi genitori…

L’ha risarcito perché gli Auror hanno ucciso volontariamente e con deliberata crudeltà i suoi genitori.

Quella frase nel cervello, inizio a correre per strada, urtando persone, facendomi mancare il fiato, il vento che gela le lacrime sul mio viso. Non so quanti metri o forse chilometri ho percorso, quando vedo un palazzo dalla forma vagamente circolare con un portone di colore azzurro. Lo spalanco con forza, suscitando le ire del portiere. Non gli rispondo, urlando solamente se Ginny Weasley è in casa. Intimorito dalle mie lacrime e dal mio viso stravolto, mi dice di no. Salgo le scale a due a due, incurante che mi richiami indietro, arrivo al terzo piano, scorgo la sua porta, alzo lo zerbino e prendo la chiave d’ingresso. Apro la porta, sbatte con un tonfo sordo contro la parete del corridoio, il frastuono rimbalza per la tromba delle scale con un eco prolungato. Il portiere continua a gridare, mi insegue, chiudo la porta, la sbatto alle mie spalle. L’appartamento è in penombra, le persiane sono chiuse, a tastoni trovo il salotto. Accendo il camino, usando la bacchetta di Ginny che lei ha lasciato sul tavolo. Sarà andata a fare spese per il matrimonio, dice che preferisce gli atelier babbani. Accendo anche le luci della stanza con un secco colpo di bacchetta, non fregandomene niente della condanna. Non risaliranno mai a me, la magia risulta fatta nell’appartamento di Ginny Weasley, mica nel mio. Folle, mi metto a cercare il vaso da fiori con il disegno rosso, dove Ginny nasconde la Polvere Volante. Lo trovo e ne prendo una manciata. Mi manca il respiro, ormai, mi duole la milza e mi sento morire. Le mie ultime forze credo di perderle, mentre urlo nel camino: “Ministero della Magia. Ufficio di Harry Potter”.

 

 

 

Taddadà, ecco a voi un nuovo capitoletto!!

Il titolo significa IL PAESE DELLE MERAVIGLIE, anche se non siano state propriamente delle belle meraviglie, anzi… è iniziato comico il capitolo, ma è finito tragico! Eheheh… ed anche stavolta ho interrotto il capitolo nella parte migliore!!

Passo subito ai ringraziamenti:

Feffe_Cullen_Blast: evviva, una nuova lettrice!! Grazie dei tuoi complimenti… Seth insomma prende vita da solo, è po’ una sommatoria di tanti miei amici… chissà che risate allora con il tuo amico Luca! Summer anche lei purtroppo per la mia salute mentale esiste!! Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto!! Un bacio!!

elly 91: grazie!! Certo che Seth è davvero amato!! Mi fa piacere…!! Purtroppo per lui il suo amore per Danny dovrà essere immolato alla nobile causa di questa fic!! Eheheh!!

Lunachan62 : ma quanti complimenti!! Ma me li merito davvero??!! O_O!!!

Francy_hurt_16 : ebbene sì, nella mia fic Herm è una psicopatica, insomma ho cercato di far uscire tutte le caratteristiche che secondo me la Rowling non ha messo in luce!! Sono presuntuosa, lo so… parlare di lei è facile perché praticamente sono identica a lei, insomma alla fine sto descrivendo me stessa!!:D grazie dei tuoi complimenti!!

Lights: grazie grazie grazie!!! Sono davvero contenta, perché solo ora mi sono resa conto che hai recensito capitolo per capitolo!! Sei il sogno di ogni scrittrice!! Un mega bacione e grazie dei tuoi complimenti!! Spero che anche oggi Herm ti abbia sfiancato!!

Un saluto anche a tutti coloro che leggono soltanto!!

Cassie…

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Capitolo 9
*** Put a spell on her eyes ***


Capitolo 9 – Put a spell on her eyes

Capitolo 9 – Put a spell on her eyes

 

Che non sono abituata più alla Polvere Volante, credo di averlo capito subito.

Negli anni, ero riuscita a mettere a punto un’uscita perfetta dai camini che dovevo passare. Atterravo in piedi, come un’acrobata che aveva appena finito una complicata evoluzione e tutto questo senza nessuna sensazione sgradevole successiva allo spostamento. Al corso per Auror, mi avevano insegnato una tecnica che riducesse al minimo i disagi di quegli spostamenti, soprattutto nel caso si doveva affrontare una battaglia immediatamente dopo. Bisognava affrontare il viaggio ad occhi chiusi, concentrando la propria mente su un’immagine predefinita, possibilmente del posto dove ci si stava recando. E io ero stata la prima a capire la cosa e ad impadronirmi della tecnica. Ma sono tre anni che non viaggio più in questo modo; nelle mie rare visite al Ministero, ho sempre usato la cabina telefonica a Londra e mai i camini. E poi credo che in questo momento, con la mente così in subbuglio, qualsiasi cosa abbia imparato nella mia vita, mi giungerebbe a fatica. Specialmente se sia qualcosa che ho imparato per il mio essere un’Auror.

Crollo per terra, un dolore sordo su per le ginocchia, il viso che rovina giù coperto dai miei capelli. Incrocio il mio riflesso sul marmo del pavimento, gli occhi rossi che grondano ancora lacrime, il viso pallido coperto di cenere vagamente lavata via dal mio pianto inesauribile, i capelli in disordine ed arruffati. Mi viene quasi da sorridere, sono veramente spaventosa. Sembro un uccellino caduto da un nido in una giornata di vento. E dentro… bè, la situazione non è molto differente. Sono a pezzi.

“Hermione?” una voce dolcissima mi raggiunge le orecchie, il tono soffice della sorpresa e della domanda. Dio, quanto mi è mancata questa voce, o comunque una voce come questa… la voce di una persona che mi ama. Seth forse già mi vuole bene, April e Trey sono simpatici, ma… una persona che mi ama… è tutta un’altra cosa… per un attimo, sollevando il viso, dimentico il dubbio atroce che sono venuta a sciogliere qui. 

“Harry…” sussurro, scoppiando ancora a piangere. Lui mi guarda preoccupato, alzandosi velocemente dalla sedia ed inginocchiandosi vicino a me. Mi accarezza il viso, chiedendomi che cosa sia successo e perché sia lì. Il labbro che mi trema incontrollabilmente, mi getto tra le sue braccia, piangendo senza ritegno come una bambina.

Lui mi fa sfogare, accarezzandomi piano la schiena, evidentemente non riuscendo a capire che cosa mi sia preso. Alla fine, controvoglia, mi stacco da lui per non fare la figura di una povera pazza e mi faccio portare sul divano nel suo studio. Mi siedo, respirando a fondo e cercando di calmarmi, mi sembra quasi che tutto quello che sia successo negli ultimi giorni, abbia rotto adesso gli argini e mi stia facendo soffrire adesso a distanza di così tanto tempo.

Harry si siede accanto a me, stringendomi la mano e dicendomi teneramente: “Non ci vediamo per mesi e poi piombi qui in lacrime… è una bella consolazione…”.

Mio malgrado, sorrido per poi prendere dalle sue mani una tazza di tè fumante che ha fatto apparire con la magia. Lo ringrazio e lo sorseggio lentamente. La calda bevanda e la vicinanza di Harry mi fanno calmare all’istante. Cerco di recuperare il filo dei miei pensieri e, sebbene le prime immagini che mi vengono in mente sono quelle che hanno creato le parole di Malfoy, mi impongo di rimanere zitta almeno per il momento.

“Scusami…” sussurro, la mia voce che trema ancora, ma almeno le mie lacrime si sono finalmente fermate.

“Non dirlo nemmeno per scherzo…” sorride lui, lasciando la mia mano ed appoggiandosi allo schienale del divano “Una pausa ci vuole sempre… speravo solamente in una pausa un pochino più allegra…”.

“Stavi lavorando? Allora scusami anche per questo…” chiedo ancora, finendo il mio tè.

“Non ti preoccupare… stranamente, oggi non c’è molto da fare…” mi risponde lui, chiaramente stanchissimo “Stavo per staccare… dovevo incontrare il rappresentante dei Lepricani della Cornovaglia occidentale, ma ha detto che oggi non ce la faceva. Insomma, mi si è liberato il pomeriggio… o meglio, mi si era liberato prima che Ginny decidesse che oggi è il giorno perfetto per scegliere i fiori per la cerimonia. Ma devo vederla solo tra tre ore… per adesso, sono libero… allora, mi dici che cosa ti è successo?”.

Mi serro nelle spalle, all’improvviso non ho più tanta voglia di parlare. Forse avrei dovuto aspettare che Harry tornasse a casa… il suo ufficio è il posto peggiore dove parlare di questa cosa. Era qui che, una volta alla settimana, facevo la relazione delle attività oscure al Ministro. Venivo qui di sabato mattina, verso le undici, con un vassoio pieno di cornetti e io ed Harry ci mettevamo a mangiarli, voraci come pochi. Io borbottavo qualcosa sul lavoro tra un morso e l’altro, parlando dei problemi che mi davano le reclute, o delle attrezzature sempre troppo scarse o troppo costose; giusto per parlare di qualcosa che avesse una minima attinenza con il lavoro. Tutto sembrava andare ottimamente. Ed allora, dopo qualche minuto di formalità, io ed Harry ci mettevamo a discutere sul programma per la serata, scambiandoci le opinioni assurde che avevano Ron e Ginny. Risate su risate, alla fine decidevamo qualcosa, e puntualmente la sera andavamo in un posto che con quello programmato non c’entrava assolutamente nulla.

Mi guardo attorno, gli occhi che si velano ancora. Vorrei disperatamente ritornare a quel tempo, a quei giorni, alla me stessa che ero, quella che non era stata ancora tradita da Ron, quella che non era stata ancora lasciata da Dean, quella che non aveva ancora lavorato come cameriera per Malfoy. Guardo l’enorme finestra che dà sulla strada, la libreria di frassino, il dipinto con l’effige di un’enorme fenice fiammeggiante che Harry fece realizzare per onorare Silente, la foto sulla scrivania dei vecchi membri dell’Ordine ai tempi della Prima Guerra, quella accanto ad essa con la cornice dello stesso colore e con la foto dei nuovi membri ai tempi della Seconda Guerra. Qualcosa mi fa male dentro ogni volta che le vedo accostate l’una all’altra, mentre rifletto che ci sono morti nella prima e morti nella seconda. Quanti morti… sempre troppi… e quanti morti, invece, non sono in nessuna foto. Perché non si sa che fine abbiano fatto, persi nel vortice del sangue e della violenza. Perché non sono mai stati trovati come cadaveri e vengono onorati nell’attesa di un ritorno che non si compirà mai. O perché, invece, nessuno gli onorerà mai. Tutti spereranno nella mancanza di un forma qualsiasi di ritorno, fosse anche il ritorno solo della memoria.

Nessuno si ricorderà di loro, se non per disprezzarli ed odiarli.

Nemmeno il loro unico figlio.   

Gli occhi mi pizzicano, mentre le parole di Malfoy mi ritornano nella mente. Sollevo lo sguardo verso Harry che mi guarda in attesa, ancora preoccupato. La sua immagine attuale si sovrappone a quella del ragazzino ai tempi della scuola, quello che soffriva in silenzio, quello che veniva tormentato da incubi, quello che seppe di dover essere il solo ad uccidere Voldemort. E’ rimasto molto di lui nella persona che ho davanti oggi, gli occhi verdi sempre coperti dalle lenti sono sempre così maledettamente tristi. Mi chiedo se sia giusto parlargli di quello che mi ha detto Malfoy. Se non fosse vero, perché dovrei farlo soffrire inutilmente? Ma… se lo fosse…?

“Quattro giorni fa, ho iniziato a lavorare come cameriera in un locale di Londra… il Petite peste” sputo fuori come veleno dalla mia bocca, tentando di estirpare il dolore da me stessa “E’ difficile da spiegare come le cose siano andate di preciso… ma è comunque lì che vivo adesso, dopo che Dean se ne è andato di casa… mi ha lasciato, Harry…”.

“Non lo sapevo…” soggiunge lui triste, stringendomi forte la mano “Dov’è adesso, lo sai? L’hai più sentito?”.

“E’ in Francia… ha avuto una promozione…” proseguo, asciugandomi una lacrima solitaria che mi sfiora la guancia “E comunque, no, non l’ho più sentito da allora… ma credo che, in fondo, sia giusto così. Meritava di meglio di una persona che non lo amasse totalmente… è un ragazzo meraviglioso e credo che non resterà solo a lungo… a parte questo, non ti ho detto una cosa importante… il locale… il locale dove ho trovato lavoro… è quello di Danny Ryan… insomma, è Malfoy che mi ha assunto…”.

“Malfoy ti ha assunto?!” mi chiede Harry, autenticamente scioccato, lasciando la mia mano come se scottasse.

Annuisco con il capo: “Non so perché l’abbia fatto… ma credo che sia stato solamente per un suo amico che mi ha preso in simpatia… ha fatto pressione su di lui ed alla fine ha accettato. È lì che lavoro e dove vivo, divido l’appartamento con Malfoy, Seth, il ragazzo di cui ti ho parlato… e Serenity, quella che Malfoy dice essere sua sorella…”.

Sollevo lo sguardo su Harry che per tutto il tempo per cui ho parlato ha ripetuto “Non ci credo…”, e che adesso al nome di Serenity si serra nelle spalle, distogliendo lo sguardo da me. Sorrido tra me e me, ogni volta che Harry mi doveva dire una bugia non mi guardava in faccia, temeva che io lo smascherassi.

“Non c’è bisogno che tu mi parli di lei, se non puoi… di Serenity, intendo…” gli dico, rassicurandolo “Al momento, quella bambina è l’ultimo dei miei pensieri… mi basta sapere che Malfoy ha diritto ad averla e che non l’ha sottratta ai suoi veri genitori…”, alle mie parole, Harry si gira ed annuisce in silenzio, così da indurmi a continuare: “… allora, è tutto a posto… le vuole bene, la tratta bene e Serenity è una bambina sana e bellissima, oltre che allegra e vivace…”.

“Se non è questo che ti preoccupa…” mi interrompe Harry pensieroso “… se non ti crea problemi lavorare per lui… che cosa c’è che non va?”.

“Stamattina ho chiesto a Malfoy di parlarmi della sua vita come Danny Ryan…” sospiro, decidendo di lasciar perdere i dettagli e di arrivare subito al dunque prima che mi manchi di nuovo il coraggio “Mi ha detto qualcosa… ma, nella conversazione, ha aggiunto qualcosa… mi ha detto che sono stati gli Auror ad uccidere i suoi genitori… a torturarli fino ad ucciderli, solo per avere informazioni su Voldemort… mi ha anche detto che tu lo sai benissimo… e ho ricollegato questa cosa alle parole che mi hai detto al telefono un paio di giorni fa… che il Ministero l’avrebbe risarcito. Gli ho detto che non gli credo, lui sa persino chi sono stati… mi ha fatto il nome di Goldstein… e lui è un Auror ancora adesso…”, riprendo fiato e proseguo, senza guardarlo in viso: “… non mi interessa se è un segreto di stato o simile, Harry. Voglio sapere se è vero… voglio sapere se gli uomini e le donne che erano al mio servizio c’entrano con questa storia…”.

Torno a guardarlo, sperando di cogliere un minimo segnale di incredulità o di sconcerto.

Un suo levare di sopracciglio, una sua risata nervosa, un suo sbottare assolutamente sconvolto.

Ci spero con tutte le mie forze.

Ed invece lo vedo alzarsi e fermarsi davanti alla finestra, dandomi le spalle.

L’unica cosa che riesco a fare è chiudere gli occhi.

 

 

Appoggio stancamente la fronte sulle ginocchia, raggomitolandomi su me stessa per non sentire freddo. Non che lo senta, ma si sa… le notti di primavera a Londra sono insidiose, sembra non fare freddo ed invece la temperatura è scesa anche di parecchio. Tu te ne rimani fuori, tranquillo e contento, e poi alla mattina hai una faringite assurda. Se non una polmonite assurda… per questo, mi stringo ancora meglio addosso il piumone, cercando di coprirmi completamente.

Ho scoperto questo posto per caso, un giorno che Summer era particolarmente nervosa perché non avevo messo correttamente in ordine le sedie nella sala ristorante. Scappai di sopra, oltre l’appartamento di Seth fino sul tetto, e mi accucciai in un piccolo spazio tra la caldaia e la ringhiera del tetto. Se qualcuno entra, non vede dove sono nascosta, ma io lo vedo perfettamente e quindi ho il tempo di uscire allo scoperto, di prepararmi psicologicamente o di rimanere al mio posto. Da allora, è diventato il mio rifugio segreto. Quando non dormivo la notte, quando Summer inveiva contro di me, quando mi sentivo sola, sono sempre venuta qui, restando muta a guardare le case lontane di Londra e i parchi di Notting Hill, fin quando le luci e i suoni mi affollavano dentro l’anima e il vuoto nel petto se ne andava.

So che non dovrei essere qui.

Malfoy è stato chiaro.

Sono stata licenziata.

Eppure, appena ho lasciato Harry, sono corsa qui. Erano le cinque del pomeriggio, sapevo che oggi sarebbero stati tutti fuori, perché giorno di chiusura, e mi sono ritrovata qui. Summer voleva trascinare Malfoy ad una mostra e Seth avrebbe approfittato della giornata libera per andare a trovare sua madre, mi aveva chiesto anche di andare con lui ed io avevo accettato, chissà se se l’è presa perché non ci sono più andata… sono sgattaiolata dentro come una ladra, ho raccolto le mie cose in un borsone e mi stavo preparando ad uscire. Poi ho cambiato idea, ho preso un piumone dall’armadio e sono salita sul tetto con il mio borsone. Mi sono detta che avrei visto solamente il tramonto ed invece no… è calata la sera e adesso si avvicina la notte, eppure non riesco a muovere un passo. Ho pianto, molto, ma adesso non ce la faccio nemmeno a piangere. Quindi mi crogiolo nella non urgenza di dover fare qualcosa. Quando mi capita, ed è davvero molto raro, è meglio che me lo goda fino in fondo. Mi aspettano parecchie giornate così.

Distrattamente, afferro il cellulare dalla tasca, aprendo lo sportello e guardando il display per vedere che ore sono. Le 22,57… ci sono dei messaggi, ci sono parecchi messaggi, ma non li leggo. So di chi sono. Harry. Ginny. Forse persino Ron, Lavanda e magari anche Dean. Ma non mi interessa. Ormai non mi interessa davvero più niente.

Avrebbero dovuto mandarmi un messaggio il giorno in cui dicevo di voler sacrificare tutto per diventare un’Auror.

Il giorno in cui ho creduto in qualcosa più grande di me, estremamente eroico e giusto.

Il giorno in cui dicevo che volevo fare la cosa giusta, che volevo ripulire il mondo. Il giorno in cui facevo spedizioni contro i mulini a vento, tanto per fare qualcosa, ed avevo i peggiori mostri proprio accanto a me.

Poche righe, non chiedevo molto… Herm, pensaci bene. Le cose non sono proprio come sembrano. Anche quelli che sembrano buoni ne combinano di grosse. Mi raccomando, facci sapere.

Non è esattamente molto, no?

“Hai parlato con Potter, quindi…”.

Riconosco immediatamente la voce, ovvio. La conosco da tutta la vita o perlomeno così sembra. So che è un’impressione, generata dal fatto che questa voce mi perseguita con le sue scarne e crudeli parole da stamattina. Non alzo la testa, il torpore che ha preso i miei pensieri sembra aver contagiato anche le mie membra. Resto con la testa china sulle ginocchia.

“Perché farebbe qualche differenza?” chiedo più per rompere questo odioso silenzio che per reale interesse.

“Credo che sia rilevante per me sapere se sono ancora il più grande bugiardo della storia del mondo magico… ho appena liberato uno spazio per la targa sul camino… Potter me la deve da tempo…”.

“Non credi di sopravvalutarti troppo?” aggiungo scettica, rimanendo con il viso sulle ginocchia “In fondo, c’è sempre Peter Minus in lizza… Zabini, la Parkinson e mezza casata Serpeverde… un sacco di Mangiamorte… la concorrenza è notevole, non sono affatto certa che tu sia il migliore…”.

“Invece io ne sono sicurissimo… sarebbe un duro colpo per la mia immagine… e comunque non c’è nessuno abbastanza abile come me… la targa la vincerei più e più volte… il sangue conterà qualcosa, no? Sono sempre il figlio di Lucius Malfoy e quella è una polizza sulla vita…bè, ripensandoci, non è esattamente una polizza sulla vita, credo più su un’orribile morte e su tormenti eterni, ma nel multiforme mondo della menzogna è indubbiamente una garanzia…”.

“Questo si chiama nepotismo, Malfoy…” obietto, contrariata.

“Questo veramente si chiama DNA, Granger…” mi risponde convinta la sua voce, mentre sembra farsi più vicina.

“Credo di essermi persa nel sottotesto della conversazione…” chiedo sconcertata, un’ombra di sorriso mentre finalmente sollevo gli occhi, anche se sfuggo dal guardarlo “Stiamo per caso parlando in maniera civile? Anche se comunque in un modo alquanto contorto?”.

Malfoy si siede accanto a me, gli occhi grigi che guardano di fronte a lui. Scrolla le spalle, per poi dire: “Assolutamente no, Granger, sarà una tua impressione… stiamo parlando solo in modo contorto…”.

“Credo che questo sia al massimo che ci possiamo aspettare l’uno dall’altra, no?” mi ritrovo a sorridere ancora, qualcosa che mi si scioglie dentro, scivolando nella mia gola come latte caldo. Mi stringo nelle spalle, a disagio, una strana sensazione che mi prende lo stomaco. Lui inarca un sopracciglio, mormorando quasi offeso: “Sicuramente è il massimo possibile… e ti informo che è già stato un enorme sforzo… ne potrebbe andare della mia salute fisica e mentale…”.

“Lo capisco…” sospiro, guardando a mia volta davanti a me, fingendo un’espressione seriamente preoccupata. Preoccupazione che ovviamente non provo, sia per il fatto che sta decisamente scherzando, sia per il fatto che non mi preoccuperei mai per Malfoy. Ci manca anche questo, oggi. Ma credo che qualsiasi cosa sia buona, pur di avere una minima scusa per non guardarlo. E’ diventato troppo difficile guardarlo in faccia adesso. Non so perché. Forse perché ormai non posso più guardarlo dall’alto in basso, con la forza che solo la mia nobile missione riusciva a darmi. Ma davvero non lo so… non ci riesco… mi sembra di trovarmi su una rupe scoscesa, a picco sul mare. Sul mare in tempesta dei suoi occhi. E sapere che, se mi faccio catturare dal ritmo ipnotico delle onde, non saprò più tornare a casa. Non saprò più tornare indietro. Accettando anche di farmi trascinare via dalla tempesta, dalla tempesta che ha scagliato con violenza sulla mia intera esistenza. Eppure… nemmeno lui riesce a guardarmi. Lo vedo che cerca anche lui di guardare davanti a sé, e non me, nemmeno di sfuggita. Perché? Solamente io ho qualcosa di cui vergognarmi, lui no. Stavolta, no. Ed allora perché? Che cosa è cambiato?

“Deduco che adesso sia al momento per me di fare l’enorme sforzo…” sussurro, stringendomi ancora nel piumone, cercando di rimandare al mittente le mie domande. Mi ritrovo a bisbigliare piano: “Scordati la targa per quest’anno, Malfoy… penso che la vincerà il Ministro Potter…sì, Harry Potter… il Ministro della Magia e il più grande bugiardo del mondo…”.

“Il Ministro?!!! No, non è possibile!” mormora autenticamente scioccato, anche se so benissimo che sta solamente recitando. Mi fa sorridere ancora e Dio solo lo sa quanto ne abbia bisogno, dopo questa giornata orribile. Ma mi mordo le labbra, cercando di essere seria. Deve capirlo anche lui a suo modo perché lo intravedo con la coda dell’occhio cambiare espressione, mentre poggia il braccio piegato sul ginocchio. Un sospiro gli sfugge dalle labbra, lo odo distintamente nelle mie orecchie… è così vicino, se allungassi una mano potrei sfiorargli la guancia… non è mai stato così vicino a me… so che non è vero, so che è stato anche più vicino di così… non so spiegarlo… ecco, magari il suo corpo è stato anche più vicino di così a me, ma la sua… anima… no, quella mai. Ed ho anche l’inspiegabile certezza che non sia stata mai davvero vicina a qualcuno. Una certezza assurda ed ancestrale.

“Nel suo caso, si dovrebbe parlare di omissione, non di bugia vera e propria…” mi dice, la voce leggera, quasi noncurante. Dopo qualche attimo di silenzio, la sua voce sembra curvarsi in accenti diversi, quasi più dolci e soffici nelle mie orecchie, mentre dice piano: “Non pensavo davvero che non lo sapessi… ero convinto, insomma, che il Capo degli Auror le sapesse queste cose…”.

“Teoricamente sì…” rispondo senza esitazione, decisa a restituire la sua apertura nei miei confronti “Ma Harry mi ha spiegato che Scrimeogeor ne ha combinate molte per mettere tutto a tacere. Nessuno ne ha mai parlato, nonostante alla fine della guerra di cose simili ne venivano fuori ogni giorno. Abusi di potere, violenze, razzie. Ma mai sugli Auror… soprattutto per quanto riguardava loro, il Ministro fu molto prudente. Seppellì ogni cosa, voleva che la gente avesse fiducia negli Auror e nella loro rettitudine. Una cosa del genere avrebbe tolto anche questo alla gente, anche quella residua fiducia. Quando Harry l’ha scoperto, ha deciso che sarebbe stato meglio lasciare le cose com’erano per evitare ulteriori scandali… ormai era passato del tempo ed alla fine Harry la pensava come Scrimeogeor. Mi ha detto che c’era la guerra e, se dovessimo condannare ogni persona per ogni tipo di crimine, bè non la finiremmo più… tutti sanno che gli Auror hanno ucciso i tuoi, non è accusare qualcun altro, questo ha detto… e ha aggiunto che non è propriamente utile in questo momento che tutti sappiano come li hanno uccisi… quindi, gli Auror sono rimasti al loro posto e nessuno ha più parlato di questa storia. Quando sono subentrata io nella carica di Capo degli Auror, hanno logicamente supposto che non sarei stata d’accordo con la decisione del Ministero, quindi non mi hanno detto nulla in modo da impedire che creassi problemi o avessi remore verso i responsabili…”.

“E’ quello che avresti fatto?” mi chiede, finalmente voltandosi verso di me, gli occhi fissi nei miei. Mi sento morire, mentre mi rendo conto con terrore che non riesco a smettere di guardarlo, come se un filo mi tenesse unita ai suoi occhi. Mi sento l’anima sferzata dal vento, come se fossi davvero su una rupe sospesa sul mare. Mi ero sempre detta di non riuscire mai a capire che cosa passasse per la mente a Malfoy, che i suoi occhi mi sembravano specchi opachi che mi rimandavano eternamente la mia immagine. Sbagliavo. Enormemente. La verità non è che lui cela le sue emozioni, non lasciandole trasparire mai, a meno che lui stesso non lo voglia. La verità è che nei suoi occhi passano talmente tanti sentimenti che non fai in tempo ad afferrarne uno che ne è già comparso un altro più intenso e sconvolgente del primo. E l’unica cosa che ti rimane da fare è restare attonito a cercare di fermare un secondo di lui, mentre sei completamente travolto da quell’incessante turbinio che è Draco Malfoy. E improvvisamente è come essere febbricitante, è come essere ubriaco e non avere più il controllo di sé stessi, essere terrorizzati al punto di essere estasiati. Esattamente quello che sta accadendo a me in questo momento.

Che diamine mi stai facendo, Draco Malfoy?

Deglutisco, per poi dire seria, reggendo il suo insopportabile sguardo: “Non sarei nemmeno diventata un’Auror, se avessi saputo una cosa del genere…”.

“Non è vero…” mi risponde lui, distogliendo di nuovo lo sguardo da me. Il sollievo mi travolge ad ondate, sento quasi l’aria tornare nei miei polmoni, libera da quelle due lame d’acciaio puntate sul mio viso. Finalmente… un solo secondo e non so come avrei fatto a reggere ancora, non sarei più tornata indietro… da cosa, poi, non lo so… ancora…

“E’ verissimo, invece…” mi acciglio severa, ritornando a lui e alle sue parole precedenti “Ho deciso di essere un’Auror per impedire che tutto quello che avevo passato durante la Guerra capitasse a qualcun altro… volevo disperatamente che tutto quello che Voldemort e i Mangiamorte hanno fatto, fosse solamente un ricordo. Se un Auror è capace di fare cose del genere, se è tenuto al suo posto perché in fondo non ha fatto niente di così grave, se tutti hanno pensato che si poteva chiudere un occhio, se persino Harry ha concluso che a creare problemi potevo essere solamente io e non tutti gli altri… bè, allora vuol dire che non era decisamente la mia strada…”.

“Anche se hanno ucciso due persone che, se ne avessero avuto la possibilità, ti avrebbero fatto fuori senza tanti complimenti?” replica lui quasi arrogante, guardandomi ancora. Stavolta il suo sguardo è odio puro, ma per la prima volta non per me.

Attraverso di me, passa l’odio per i suoi genitori…

“Soprattutto in quel caso…” mormoro, qualcosa che mi fa male dentro “Volevo dimostrare che non sono come loro… ed invece alla fine non c’è nessuna differenza… uccidere una persona fa parte del pacchetto. E sembra quasi che non ci si possa tirare indietro, nemmeno volendolo… quindi, se è così, è chiaro che non è più quello che posso fare… non voglio uccidere nessuno, né ora né mai… chiunque egli sia…”.

“E adesso? Che cosa farai?” mi chiede lui, ancora, tornando a guardarmi in viso.

Inarco un sopracciglio, guardandolo con espressione assolutamente sconvolta: “Ma stai bene, Malfoy? Non è che hai contratto qualche rarissima malattia infettiva? Ti stai davvero interessando a che cosa ho intenzione di fare?”.

“Non mi sto assolutamente interessando a te, Granger…” dice calmo e freddo, incrociando le braccia e distogliendo ancora lo sguardo da me “Mi sto interessando alla mia cameriera, non ad altro… e alla mia salute, se Seth dovesse scoprire che ti ho licenziato di nuovo…”.

“Vuol dire che lavoro ancora qui?” chiedo meravigliata, spalancando gli occhi “Ma non avevi detto che…”.

“Ricordo perfettamente che cosa ho detto…” mi interrompe lui, quasi imbarazzato. Certo, non vuole ammettere che sta ritrattando quello che aveva deciso. Ma, solo per stavolta, gliela faccio passare. Sono troppo sollevata per tendergli un tranello di qualsiasi tipo o natura.

“Almeno per il momento, la decisione è sospesa, Granger… è solo per il party, sia chiaro… è tra pochi giorni e non farei mai in tempo a trovare un’altra cameriera, ammesso che Seth non mi ammazzi prima…” aggiunge risoluto e deciso con la tipica voce da uomo-che-non-deve-chiedere-mai.

“Non avevo pensato a nulla di diverso da questo” sorrido più a me stessa che a lui. Stranamente è la prima volta che vorrei davvero sorridere a lui, sorridere e basta. Senza nulla dietro, solo sorridere.

“Ecco, appunto…” ribatte, prima di alzarsi in piedi ed incamminarsi verso la porta della terrazza. Poco prima di girarsi, mi sembra quasi di distinguere una piega diversa sulle sue labbra, un… sorriso. Non un ghigno, un vero e proprio sorriso. Sì come no. Deve essere un inizio di retinite pigmentosa… starò diventando cieca. E’ più probabile che Malfoy, all’improvviso, si metta a sorridere. E a me, tra l’altro.

“E comunque, Granger…” mi chiama a mezza voce, dandomi le spalle. Sollevo ancora il viso: “Cosa?”.

“Ero davvero convinto che tu lo sapessi…” lo sento dirmi, la voce talmente flebile e sottile che sembra perdersi nel vento.

Non so perché, ma mi viene ancora da arrossire. Ringrazio il Cielo che sia di spalle.

“Non importa…” sussurro.

“Smetterai di essere un’Auror?”.

“Non lo so… in fondo, ho due anni per decidere… la condanna finirà allora… finalmente qualcosa di positivo in questa storia…”.

“Fai come vuoi, sei libera di farlo, ma…” la sua voce esita, lo sento prendere profondamente fiato, prima di continuare: “… ma non farlo per questa storia… non se lo meritano…”. Con una fitta allo stomaco, mi rendo conto che sta parlando dei suoi genitori.

“Sarò io a giudicarlo questo, Malfoy…” replico fredda, la mia voce riflesso della sua “So solamente una cosa… se dovessi tornare, non avrò pace finché non avrò gettato ad Azkaban i responsabili della fine dei tuoi… e questa è una promessa…”.

“Non è necessario…” mi dice, per poi voltarsi nella mia direzione, sibilando gelido come il vento che gli scompiglia i capelli biondi: “A me non interessa che siano morti, non mi interessa come sia successo, né chi sia stato a farli fuori… meritavano quello che gli è successo ed è giusto che sia finita così… non me ne frega nulla di questa storia… e tu non mi devi niente… come non mi doveva nulla il Ministero… ho accettato quello che mi stavano dando perché mi conveniva, non per altro… non voglio essere risarcito per qualcosa che forse avrei finito per fare io stesso se le cose fossero andate avanti… e comunque non voglio essere in debito con nessuno, tantomeno con te… spero che questo sia chiaro…”.

“Cristallino, Malfoy…” ribadisco a mia volta, guardandolo dal basso “Con una sola obiezione… anche a me non interessa nulla, ma di quello che potrai dirne tu… lo farò per me, non per te. Tu non mi dovrai nulla, mai… perché lo farò soltanto per me e per quello che dovrebbero essere gli Auror… non per te. Questo, scordatelo, Malfoy…”.

“Fai come ti pare…” mi risponde acido, prima di voltarmi le spalle e sparire.

Chiudo gli occhi, appoggiandomi alla ringhiera della terrazza. La conversazione più assurda e nervosa della mia vita. Dio, mi sento tremare le gambe e non so nemmeno il perché. Sì, decisamente la conversazione più assurda e nervosa della mia vita. E l’ho anche terminata con un’enorme bugia…

Lo farò, se mai lo farò, per me, certo. Perché ne va della mia vita e di tutto ciò che sono.

Lo farò, se mai lo farò, per i tuoi genitori, probabile. Perché mi fa star male che siano morti in quella maniera tra gli sberleffi generali. E perché meritano la giustizia che non hanno mai pensato di dare e perseguire in vita.

Ma poi… ed mi odierà ancora di più, per questo… lo farò anche per lui.

Per l’arroganza e la rabbia che mette ogni volta che parla di loro. Perché gli tremano le mani ogni volta che lo fa. E perché nei suoi occhi, anche se solamente per un istante, per un istante minuscolo ed evanescente, passa dolore… tanto dolore.

 

 

Ed ecco a voi un altro capitolo!! Uao!! Lo scorso capitolo vi è piaciuto tanto tanto!! Sono commossa!!! Spero che molte delle domande che erano emerse nello scorso capitolo siano state chiarite, ovviamente se qualcosa non vi risulta chiaro non avete che da chiedere, sono a disposizione!! Questo è sicuramente uno dei capitoli che preferisco, poi ovviamente mi direte voi che ne pensate, ma a me piace perché è il primo passo che porterà Draco ed Hermione ad avvicinarsi… ehehehe!! Purtroppo la strada è lunga ma siamo iniziando a muoverci vero? Oggi purtroppo ho pochissimo tempo, e se voglio aggiornare, non posso ringraziarvi uno per uno!! Rimando al prossimo capitolo!! Grazie tantissimo, davvero, mi state dando la forza per continuare!! Grazie soprattutto a chi leggendo sta commentando capitolo per capitolo, sono davvero commossa!!

Prometto al prossimo chappy ringraziamenti più esaurienti!!!

Un bacio… Cassie chan!!

 

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Capitolo 10
*** Din dong the witch is dead ***


Capitolo 10 – Ding dong the witch is dead

Capitolo 10 – Ding dong the witch is dead

 

 

(Una piccola precisazione, il titolo del capitolo è preso da “IL MAGO DI OZ”… leggendo capirete il perché… J

Buona lettura…Cassie…)

 

 

Mi chino, imprecando tra me e me a mezza voce, mentre il temperino scivola via, finendo sotto il lavandino e dietro il tappeto celeste del bagno. Appoggio le palme sul pavimento, cercandolo freneticamente finché lo trovo e lo afferro con la punta delle dita. Starnutisco per un po’ di polvere, dannati acari e dannato riscaldamento acceso ad ogni ora del giorno e della notte che li fa proliferare!!!!, e ritorno su, riprendendo a temperare la matita nera stemperata che ho appena uscito dal mio borsellino del trucco. Termino l’opera, compresa quella sul mio viso, descrivendo sotto l’occhio una lunga e spessa linea nera che renda i miei occhi più allungati di quello che in realtà sono. Il trucco, in fondo, serve a questo, a rendere le persone diverse da quello che in realtà sono. Oggi sono alquanto filosofica, me ne sono già resa conto… deve essere il nervosismo per la festa di stasera, o l’esasperazione di vivere con Seth, cosa che non immaginavo assolutamente come tale. Dio, è stato capace di riprendermi perché avevo aperto la finestra per far cambiare l’aria e lui dice di non poter restare alla luce diretta del sole per più di quindici minuti e trenta secondi al giorno. Non ci sono motivi del tipo che il sole fa male, che c’è l’effetto serra e il buco dell’ozono, no. Magari fosse stato così, l’avrei appoggiato, intonando slogan ambientalisti! Ed invece no! Essendo già scuro di carnagione, trova abbronzarsi ulteriormente dannoso per la sua pelle e volgare per la sua estetica. Quindi, ha fatto un rapido calcolo del tempo che gli consente di non abbronzarsi troppo… deve essere il terzo figlio segreto della famiglia Patil, stupidaggini del genere sono uscite solamente dai membri di quella schiera… e da Lavanda Brown, come potevo dimenticare l’oca che mi ha fregato il ragazzo?!! Ma se fosse così… Seth si ritroverebbe morto nell’arco di un nanosecondo… un parente della Brown… che orrore…

Mi riavvio con le dita i capelli, lisciando invisibili pieghe sulla mia uniforme da cameriera, camicia bianca e gonna stretta nera, quella che per fortuna, sarà la mia stessa mise per la festa di stasera. Le cameriere si limitano ad indossare un farfallino di raso turchese sulla camicia e basta, meno male… ci mancava anche dover mettermi un vestito costoso, che avrei poi gettato nell’armadio e non mi sarei più messa, e delle scarpe con il tacco scomodissime che avrebbero peggiorato la condizione fisica dei miei piedi, vessati dalle lunghe ore di lavoro… meno male che almeno stamattina non si apre, ma ci limitiamo a sistemare tutto per stasera. Credo di non sopportare più la clientela di questo pub… o, meglio, credo di non sopportare più la gente in generale. Specie quando è troppa. Come succede sempre, qui. Prima di uscire, mi lego i capelli in una coda alta, non li sopporto, oggi sono insopportabilmente ispidi e, se Summer se ne accorge, non la smette più di rompere. Che gliene freghi a lei dei miei capelli, resta un enorme mistero, ma nella sua ottica malata di perfezione della festa, per qualche assurdo e contorto piano rientrano anch’essi. Quindi, è meglio che mi veda perfetta stamattina, ad ore ed ore dalla festa, in modo che anche se trova qualcosa di cui lamentarsi, avrò tutto il tempo di porvi rimedio.

“Granger, sei affogata?!” la voce irritante di Malfoy mi raggiunge, nonostante la porta chiusa.

“Sì, è il mio spirito che parla! Ma quant’è idiota…” mormoro acidamente, mettendomi il lucidalabbra. Che, tanto per intenderci, avevo deciso di non mettere, ma che adesso, dopo l’elegante e gentile interloquire di Malfoy, ho ritenuto invece vitalmente necessario.

“Muoviti! Mi devo ancora fare la doccia e Dio solo sa Seth che cosa deve fare!” lo sento sbuffare ancora, mentre martella sulla porta. Seth, da lontano, urla che deve depilarsi le sopracciglia. Rabbrividisco, guardandomi ancora allo specchio. Se vi hanno detto che vivendo con due ragazzi, non avrete mai problemi con il bagno, mandatelo a quel paese… è una gigantesca bugia. Ho più problemi adesso a stare due minuti in bagno, che quando abitavo con Ginny. Ed è sempre di Ginny Weasley che stiamo parlando. A quanto pare, invece, Seth Green e Draco Lucius Malfoy la battono ampiamente.

Alla fine, non trovando più nulla da fare a meno che non rifarmi di nuovo la doccia con il serio rischio che Malfoy mi scortichi viva, esco sbuffando dal bagno, trovandomelo davanti che se ne sta appoggiato allo stipite della porta.

“Spostati…” gli ingiungo immediatamente, scansandolo.

“Dio, Granger, se sei nervosa a quest’ora, non voglio immaginare stasera… alla festa… con così tanta gente…” ghigna lui, chiudendo la porta del bagno, dopo una lunga occhiata di traverso, colma di perfidia. A volte, penso seriamente che mi legga nel pensiero… se almeno avessi la mia bella bacchetta… me la sogno ancora la notte… dodici pollici, legno di vite con l'anima di corda di cuore di drago… quanto mi manca la magia, uffa!! Specialmente da quando vivo qui… a casa, Dean aveva l’accortezza di non usarla mai davanti a me, ma qui la vicinanza continua di Malfoy me la ricorda sempre… nemmeno lui la usa, questo lo so, ma… vederlo me la fa sempre ricordare… cosa non darei per fare un piccolissimo incantesimo, un Evanesco o persino un banalissimo Incantesimo di Appello… e da ex-e-forse-mai-più-in-carica Capo degli Auror ne conoscevo di Incantesimi… Malfoy sarebbe già a pancia all’aria, rimpiangendo un Maledizione senza Perdono…

Mi getto stancamente sul letto, chiudendo gli occhi e continuando a fantasticare sui mille modi di tortura di Draco Malfoy, mentre Seth sbraita, correndo da una stanza all’altra, cercando i suoi boxer di Dolce&Gabbana. Dio, meno male che stasera facciamo quella maledetta festa, almeno finisce questa isteria collettiva…

Mione…” una piccola vocina soffice mi fa trasalire. Sollevo la testa, incrociando gli occhi azzurro oltremare di Serenity. Povera piccolina, ieri non stava molto bene e il medico ha detto che ha preso la varicella. Infatti, ieri sera le è salita la febbre molto alta e il suo visino tenero si è ricoperto di tante piccole bolle rosse. Meno male che sia io che Seth che Malfoy l’avevamo già presa. Corinne e Lorna sono fuggite a gambe levate, appena l’hanno saputo. Evidentemente, Malfoy deve averla lasciata sul letto quando è andato in bagno e io, gettandomi di esso, non mi sono accorta di lei. Meno male che non l’ho spiaccicata…

Mi sollevo, gattonando sul letto ed avvicinandomi a lei, che mi guarda avvolta nella sua copertina rosa con il ditino in bocca e le guance rosse. Le metto una mano sulla fronte, ha ancora la febbre, ma almeno sembra che la temperatura sia calata da ieri sera. Stanotte, avrei voluto starle vicina, ma ovviamente il fatto che le fosse vicino anche Malfoy, ha pregiudicato la mia intenzione. Non sarei mai rimasta da sola con lui in una stanza, per di più in una stanza da letto. Non che lui abbia intenzioni nei miei confronti e viceversa… insomma ce l’ha una fidanzata, no? Dovrebbe essere abbastanza soddisfatto da quel punto di vista… specie con una come Summer che, praticamente, gli fa da geisha.

Ma a che cavolo sto pensando???!!!

Alla vita sessuale di Malfoy!!!

Sto davvero impazzendo… scuoto violentemente il capo, tornando a concentrarmi su Serenity. Sorrido piano, accarezzandole il capo; però mi è davvero dispiaciuto non poter stare con lei, mi sono molto affezionata a questa bambina, la cui origine resta ancora un mistero, e lei sembra essersi molto legata a me. Ci credo, sono l’unica figura femminile in questa casa! Summer, nonostante sia la fidanzata di Malfoy, la tiene alla larga, cercando di essere scostante solamente quando il suo Danny non c’è. Insomma, credo che alla fine Serenity mi veda quasi come una sorella maggiore o una mamma… lo so, ho già chiarito che i bambini piccoli non mi fanno impazzire, ma Serenity sì. Quindi, accetto anche di farle da pseudo-mamma, se questo la rende felice.

La vedo allungare le braccia verso di me, gli occhioni lucidi per la febbre, e sorrido. Vuole che la prenda in braccio, povera piccolina… la prendo per i fianchi, facendola sedere sulle mie ginocchia e lei ride contenta. Le accarezzo la testa, baciandole i riccioli biondi, mentre afferro la sua bambola preferita, pensando a che gioco mi posso inventare.

“Ha ancora la febbre?”. Sobbalzo, spaventandomi a morte per la voce giunta all’improvviso, mentre ero distratta.

Una mano sul petto, bofonchio: “Un giorno di questi, mi farai morire, Danny… “.

Deo Gratias ogni giorno, ci sono sempre più vicino…” mormora annoiato, sedendosi sul letto di fronte a me ed abbottonandosi con nonchalance il polsino della camicia azzurra che indossa “Allora, come sta Serenity?”.

“Non mi sembra che abbia la febbre… ma fino a stasera potrebbe anche salirle di nuovo…” rispondo preoccupata, accarezzando la testa della piccola che sorride, battendo le mani. Sorrido a mia volta, almeno la sua allegria non la perde mai. È una bambina meravigliosa, se dovessi avere una figlia, la vorrei del tutto uguale a lei. Credo di aver inquadrato che i bambini non mi fanno impazzire perché sono troppo lacrimevoli… mi mandano nel panico! Ma con una bambina così… accetterei di diventare madre anche domani… vabbè, forse dopodomani…

Sollevo lo sguardo, ancora sorridente, ritrovandomi improvvisamente lo sguardo di Malfoy addosso. Che diamine vuole adesso?! Il suo volto è serio, ma sereno, e la sua espressione, come sempre, è indecifrabile. Mi guarda e basta, senza dire nulla, né fare nulla. Che ho fatto adesso? La sua espressione mi mette mortalmente a disagio, mi fa sentire in imbarazzo e, con il protrarsi dei secondi, mi rendo conto di avere il cuore in gola. Rimango immobile a fissare una goccia d’acqua che, dai suoi capelli bagnati, scivola lentamente lungo la sua guancia fino al suo collo, come l’eco di mille lacrime mai versate. Ma insomma che diamine vuole?!! Fantastico, sto anche arrossendo e quel che è peggio, se mai ci fosse, è che mi rendo conto che non riesco nemmeno a parlare, ho la bocca impastata dalla mancanza di salivazione. È orribile, ma perché diamine mi sento così? Così, come poi? Non lo so dire… forse… persa, eccolo di nuovo l’aggettivo giusto.

Persa, come la strada di casa in una foresta… persa, come la rotta in una tempesta in mezzo al mare… persa, come la direzione del nord, cercando la stella polare… ecco come… mi sento… persa… ed è una cosa odiosa. Non mi sono sentita mai in questo modo. E non so nemmeno il perché, come tantomeno non lo so perché non la smetta di guardarmi con quella strana espressione. Mi ritrovo solamente a fluttuare nel oceano plumbeo dei suoi occhi, l’anima delle dimensioni di una noce e il cuore che si allarga e mi frastorna con il suo battito.

“Ma a volte te ne ricordi almeno?” la sua voce spezza la malia letale dei suoi occhi, come uno specchio che va in frantumi. Ne sento il rimbombo nella mia testa, come un tuono nel cielo silenzioso di una notte d’estate. Il tremore che aveva preso le mie membra cessa anch’esso, lasciandomi vuota dentro, vuota di questo strano terrore, ma vuota anche di tutto il resto. Respiro come se uscissi fuori dall’acqua, in uno spasmo che assieme è di vita e di morte. Ed ancora mi chiedo… ma che diamine mi stai facendo, Draco Malfoy?

C-che cosa mi dovrei ricordare?” balbetto incerta, distogliendo lo sguardo da lui e facendolo tornare sulla piccola tra le mie braccia, unica e silente testimone del palpitare convulso del mio cuore.

Da qualche parte di sé stesso, lui sembra recuperare un sorriso che non ho mai visto, perlomeno su di lui. Un sorriso che riempie di calore i suoi occhi, che scioglie quelle fredde lame argentate come acqua sorgiva. L’ho visto sì… non tante volte, ma l’ho visto. E non è mai stato per me, mai. Un sorriso così bello non è mai stato per me.

Era il sorriso di Harry, quando parlava dell’acconciatura di Ginny per il matrimonio.

Era il sorriso di Arthur Weasley, quando parlava della dieta assurda della moglie.

Era il sorriso di Fleur Delacour, quando medicava le ferite di Bill.

Ed era il sorriso di James e Lily Potter in una fotografia bruciata.

Ed era il sorriso che accomunava anche i miei di genitori, che di magico non avevano nulla.

Il sorriso di chi ama incondizionatamente. Un sorriso così bello non è mai stato per me, mai.

Ed anche adesso non era per me.

Era per Serenity.

“Che Serenity è mia sorella… te lo ricordi qualche volta?” mi chiede con tono solo lievemente sarcastico.

“Certo che me lo ricordo…” borbotto, senza capire, ancora mezza sconvolta. Sotto la mia pelle, sento scoppiare fiori di fuoco sotto l’acciaio dei suoi occhi.

“Eppure non sembrerebbe…” sussurra lui noncurante, quasi offeso “Le vuoi bene, persino… no?”.

Annuisco ancora senza capire.

“E invece odi me… è un controsenso… Serenity è sempre mia sorella…”.

Lo guardo ancora, senza capire.

E, per la prima volta nella mia vita, la mia bocca si apre senza che io abbia pensato a che cosa stavo per dire.

“A parte il fatto che non ho mai detto di odiarti… e poi comunque Serenity è un’altra persona, mica sei tu…”.

La sua espressione cambia ancora, all’improvviso, un arco di luce che sembra passare rapido e fugace sul suo viso. Sbatte le palpebre un paio di volte, guardandomi frastornato e confuso. O perlomeno questo è quel poco che riesco a cogliere nel succedersi rapido delle sue espressioni. Alla fine, quasi mi dedica un altro sorriso, diverso ancora da quello precedente. Mi odio per averne colto la differenza, per non aver pensato che un sorriso sia solamente un sorriso. Per averne trovati mille sul suo viso, per averne trovato uno che non fosse solo un ghigno, per aver trovato questo che era solamente per me. Per conservarlo adesso dentro, guardandolo da ogni angolatura.

Un sorriso come una contraddizione vivente. Ombra di piacere, sotto il velo di ironia. Stupore sfumato dall’arroganza.

Un sorriso che sembra dolce ed è solo amaro. Come tutto ciò che lo riguarda. Ribalta costantemente il modo comune di comportarsi.

Quello che con gli altri è dolcezza, con lui è prepotenza.

E la sua arroganza, invece, per chi lo ama, come per magia, è la più piacevole e delicata delle carezze.

“Tu non mi odi… Granger?” mi dice lieve, ignorando palesemente la seconda parte della mia risposta. Avverto stranamente la sua presenza farsi quasi più vicina, come un’aura che non è solamente il suo profumo che conosco a memoria, ma qualcos’altro che si allarga inglobando anche me. Eppure non si è spostato di un centimetro…

Arrossisco ancora, distogliendo rapidamente il volto da lui, mentre mormoro: “Non vedo questo che cosa c’entri adesso…”.

“L’hai detto tu, non io… per quanto mi riguarda, non l’avrei minimamente concepito come una cosa possibile…”.

“Cosa? Che io non ti odi?” chiedo, guardandolo di sottecchi, il cuore che va giù e su nel petto.

“Dipende se è vero o no…” mi chiede ancora, sorridendo, un braccio sul ginocchio e gli occhi liquidi su tutta la mia persona.

Come una mosca nella tela di un ragno.

Mi concentro su me stessa, sul mio cuore, su quello che c’è dentro, alla ricerca di quella piccola macchiolina nera che è sempre stato il mio odio per Malfoy. Il mio cuore è cambiato molto, non trovo più il senso di colpa per Dean che era immenso fino a poco fa, al suo posto c’è frustrazione e rabbia per quello che mi ha nascosto Harry. C’è sempre la mia consueta paura per ogni cosa, nascosta dietro il coraggio, ed il nervoso malcelato per Lavanda e Ron. C’è il nuovo affetto per Seth e Serenity, c’è la simpatia per April, Trey e Lawrence, l’avversione per Summer, la diffidenza per Corinne e Lorna… ma la macchiolina, nera come pece a sporcare la mia anima, non c’è più.

Dio, non odio più Draco Malfoy…

Che diavolo mi sta succedendo?!! Ecco, puff, che all’improvviso non odio più Malfoy… certo, non lo amo, ma intanto NON LO ODIO!!!!

Sto male, sto veramente male, sì, sì, deve essere un cancro al cervello in stadio terminale, sì non può essere altrimenti… una rarissima malattia infettiva forse, ma certo! La varicella! Ho il sistema immunitario andato e mi sono presa di nuovo la varicella da Serenity! Lo so che accade solo in tre casi su 10000 di averla due volte nella vita, ma io DEVO essere in questi… è molto più razionale che tutto il resto… soprattutto l’opinione contorta e bacata che io non odi più Malfoy… il mio nemico, la mia nemesi, la mia eclissi, la mia negazione…o meglio il mio ex nemico, la mia ex nemesi, la mia ex eclissi, la mia ex negazione… perché, come la metto e la metto la cosa, sempre lì torniamo… al momento, io non odio più Draco Malfoy…

Sospiro, non vorrei dargli questa risposta per nulla al mondo.

“Allora, Granger?” mi incalza ancora lui, sporgendosi quasi verso di me, complice e divertito come se stessi per dirgli chissà che segreto.

“C’è troppo interesse in te, Malfoy… decisamente troppo interesse…” commento, cercando disperatamente di eludere la risposta.

“Non c’è interesse in me, Granger…” mi dice lui in un soffio leggero “C’è… curiosità… l’interesse presupporrebbe che io non sappia la risposta a questa domanda, ma la conosco… me l’hai appena detto. Sto solo cercando di capire come sia accaduto…”.

Mi serro nelle spalle, restando in silenzio, la mente piena della sua domanda. Non lo so nemmeno io come sia successo.

Stringo forte Serenity a me, chiedendomi il motivo astruso per cui mi sta mettendo così in imbarazzo. Perché è perfido, è la risposta più ovvia, accompagnata dal corollario del teorema… lui mi odia. Hermione, stupida… ho permesso a me stessa di liberarmi di quella difesa, dell’odio che provavo per lui, lasciandomi scoperta contro il suo di odio.

“Basta, lasciami in pace…” commento a bassa voce, lasciando Serenity sul letto e sollevandomi in piedi “Se questo ti fa piacere, adesso credo di odiarti più che in tutti gli altri giorni della mia vita…”.

Gli do le spalle, sfuggendogli e spostandomi quel che basta a non essere nemmeno a tiro della sua mano che possa tirarmi indietro. Per non guardarlo, concentro i miei occhi su Serenity che ci guarda alternativamente, come se stesse per scoppiare a piangere. Tira su con il nasino rosso e si mordicchia il pugnetto. Deve aver capito che c’è qualcosa che non va… i bambini sono sempre così intuitivi… il problema è che sono io a non esserlo… mi sento qualcosa dentro che frana e le membra che si sono fatte d’argilla. Potrei cadere a pezzi anche solo se qualcuno mi guardasse un po’ più intensamente.

Una leggera inflessione strana nella voce più acuta, e poi, alle mie spalle, lui che si alza in piedi: “Non mi interessa, Granger… volevo solamente prenderti un po’ in giro… figurati che mi frega se mi odi oppure no… e comunque…”.

Evidentemente deve essere qualcosa di troppo strano a livello cosmico se, nell’arco di poco tempo, io e Malfoy parliamo civilmente senza venire ad insultarci. Infatti non riesco a sentire che cosa avrebbe detto dopo il comunque, perché improvvisamente entrambi sobbalziamo per un frastuono proveniente dal piano di sotto, dal locale insomma. Un grido acuto, quasi come quello di una bestia ferita, e poi qualcosa che è stato rovesciato pesantemente. Serenity inizia a piagnucolare, la prendo in braccio, ninnandola leggermente, mentre Seth arriva dall’angolo della cucina, ancora vestito a metà e reggendo un calzino spaiato. Le sue condizioni mi inducono tranquillamente a pensare che stesse origliando cosa stessimo facendo io e Malfoy fino a cinque secondi prima; mi sembrava strano che non fosse passato casualmente facendo commenti e battute maliziose…

“Ci deve essere qualcuno al piano di sotto…” commenta Seth, avvicinandosi furtivamente a me e a Malfoy.

“Saranno April e gli altri, no?” rispondo, cercando di calmare Serenity che piange ancora.

“Non è possibile… loro arriveranno tardi stamattina… non era necessario che venissero presto…” sussurra Seth.

“La porta d’ingresso è chiusa, vero?” sento la voce di Malfoy alle mie spalle, per poi affiancarmi, parlando con Seth.

“Certo, Danny” cinguetta Seth, quasi saltellando.

“Allora, deve essere qualcun altro…” mormora Malfoy, la voce più bassa di tono e lo sguardo che raggiunge me. Mi volto verso di lui, sentendo che mi sta fissando, e la mia reazione mentale è ancora quella di pensare che cosa diamine voglia ancora, mentre il cuore si scapicolla in un volo folle contro le mie costole. Ma poi noto che il suo sguardo è diverso da prima… non l’ho mai visto così preoccupato, il viso è pallido, gli occhi scrigni di luce morta. Gli tiene alti, puntati verso i miei occhi, e sembra che stia cercando di dirmi qualcosa.

Impercettibilmente il suo sguardo va a Serenity, colmandosi di terrore fugace, poi ritorna a me, l’espressione un po’ più calma ma ancora preoccupata e nervosa. La sua espressione non mi piace, affatto… ma certo… sgrano gli occhi, guardandolo, e lui annuisce leggermente con il capo. Teme che sia qualcuno venuto a cercare lui… un Mangiamorte…

Abbraccio Serenity, cercando di calmarla e di farla smettere di piangere, se è davvero un Mangiamorte… bè, sarebbe la fine… un babbano effeminato, una bambina di un anno, un ex mago che vive da babbano da anni ed, ovviamente, la più grande non-strega della storia… la strage più semplice della storia della Magia… deglutisco, cercando di controllare il tremore che mi prende repentinamente le gambe.

“Allora…” dice Malfoy sottovoce, passandosi nervosamente una mano sulla fronte e sorpassandomi “Seth, prendi Serenity e chiudetevi dentro… se non ci vedi tornare, preparati a chiamare la polizia, ok?”,  si volta verso di me, alzando leggermente il capo nella mia direzione, così mi affretto a passare Serenity a Seth.

“E voi due, invece?” geme Seth terrorizzato, prendendo la bambina in braccio.

“Io ed Hermione scendiamo di sotto…” fa lui, continuando a guardarmi come se cercasse conferma nel mio viso. Annuisco con il capo grevemente. Lo so, non vorrei, ma siamo gli unici che possiamo fare qualcosa… e poi, se Malfoy si mette spontaneamente a chiamarmi Hermione, la cosa è veramente seria. Spero solo non così seria da contemplare la mia prematura fine…

“Ma non sarebbe meglio che scendessi io con te?” obietta Seth, mettendo il muso.

“No” risponde secco e crudele Malfoy, al che io cerco di restringere il tiro con più tatto:  “Io mi so difendere da sola, Seth… non ricordi che ho fatto quel corso al liceo di difesa personale? So badare a me stessa…”. Gli sorrido ed alla fine Seth si convince. Ovviamente. Per spiegare nella mia vita babbana le mie conoscenze belliche e la mia perizia nelle arti marziali elementari, ho inventato un fantomatico corso al liceo di difesa personale che poi ho perfezionato negli anni. Questa è solo una delle enormi balle su cui reggo la mia vita, ma tralasciamo… Malfoy capisce la cosa e lo vedo sorridere leggermente, nonostante sia ancora pallido e con lo sguardo perso. Mi invita a seguirlo, mentre Seth chiude la porta a chiave.

Fermi sul pianerottolo, mi volto bruscamente verso Malfoy, incrociando le braccia: “Che cosa hai in mente? Ti ricordo che sono più inutile di Seth in questo momento…”. Le parole escono dalla mia bocca flebili e leggere, perdendosi nell’aria. Non mi ha nemmeno ascoltato, deve essere autenticamente terrorizzato. Una sola volta l’ho visto così… quella notte a Grimmuald Place, quando mi svegliai e lo trovai in cucina. Tremava dalla testa ai piedi, sudava freddo ed era pallido. Piangeva anche, se non ricordo male. Dubito che il Malfoy attuale sappia ancora piangere, non lo so, è una sensazione… mi sembra che non ne sia più capace. Come se il dolore gli abbia tolto anche quest’ultimo di conforto. Mi serro nelle spalle, non sapendo bene né che dire né che cosa fare. Alla fine, non vedendolo reagire, mi avvicino a lui, chiamandolo. Lui solleva il viso, cerca di simulare un’espressione serena, ma non gli riesce bene. Per niente.

Non me lo devi. Non mi devi una calma che non hai. Non mi devi una sicurezza che non possiedi. Nemmeno io la ho.

Solo due che non hanno visto quello che abbiamo visto noi fingerebbero ancora la calma e la sicurezza.

“Hai solamente una bacchetta?” chiedo velocemente, prendendolo per il braccio e scrollandolo leggermente.

“Ho quella che usavo a scuola… e la mia…”.

“Prendile entrambe… qualcosa ci inventeremo…”. Lui annuisce e rientra in casa. Torna dopo un po’, portando due bacchette in mano. L’espressione sconvolta si è leggermente rischiarata, forse valuta adesso quasi nella dimensione dell’utilità avere un’ex Auror per casa.

“E adesso?” mi chiede, quasi come un bambino spaventato.

“Ce la caveremo…” soggiungo con voce quasi tenera”…ricordati che abbiamo passato di peggio… e ne siamo usciti… entrambi…”.

Lo sento sospirare profondamente, prima di aggiungere con un tono di voce velato di ironia e di residua preoccupazione: “E’ proprio vero che non mi odi, Granger, allora… eviteresti persino la mia morte… è quasi commovente…”.

“Di commovente, c’è solo il fatto che sono sempre io la prima della lista dei tuoi assassini… non mi farei soffiare il posto da nessuno…”.

“La cosa è reciproca”.

“Una maniera contorta per dire che non mi odi più nemmeno tu?” sorrido, incrociando le braccia con espressione saputa, quasi dimentica della situazione pericolosa in cui potremmo trovarci da lì a poco.

“Una maniera contorta per dire che l’unico che può farti fuori sono io ed io solamente…” ripete lui con voce atona, quasi rassegnata.

Una maniera contorta per dire che non mi odia più nemmeno lui…

“Andiamo, adesso…” mi dice, simulando una sicurezza solo apparente e friabile. Iniziamo a scendere lentamente le scale, cercando di non fare nessun rumore e di procedere con lentezza silenziosa. Lui procede davanti a me, la bacchetta sguainata e l’aria guardinga, io lo seguo, attenta a qualsiasi rumore venga dal basso. Perlomeno per il momento, non si sente nulla, solo silenzio. Arriviamo nella sala ristorante, rimango sempre alle spalle di Malfoy, la mano che regge la bacchetta che mi trema tra le dita. La sala è al buio, l’unica luce flebile ed incerta proviene dalle cucine. Malfoy me le indica con il capo, annuisco e ci incamminiamo in quella direzione. Evito i tavolini, contorcendomi di lato, fino ad arrivare davanti alla porta delle cucine dove Malfoy mi sta aspettando.

“Nel bagno” mi sento nel dire nel cervello. Sta usando la telepatia per non fare ulteriore rumore. Come sempre, provo la solita sensazione di intromissione nei miei pensieri e tento, per quanto sia possibile, di chiudere il resto della mia mente a lui.

“Che diamine ci farà nel bagno?”.

“Non lo so… comunque, la porta del bagno è stretta… lo possiamo bloccare facilmente…”.

“Se è uno solo…”.

“E’ anche abbastanza stretto perché sia una persona sola…”.

Non del tutto convinta, lo seguo fino nelle cucine, anch’esse al buio. La luce proviene dalla porta del bagno, da cui giungono suoni soffocati, oltre a dei lamenti. Ma chi diamine può essere?! Ormai sono quasi del tutto certa che non si tratti di un Mangiamorte… che avrebbe da lamentarsi? Ci avrebbe già fatto fuori da ore… un ladro comune sarebbe già scappato… ed allora chi? L’adrenalina accumulata però nel frattempo, mi suggerisce di non abbassare lo stesso la guardia. Ce n’è di gente strana a Londra… potrebbe essere uno qualsiasi dei criminali sparsi nelle strade della città…

Ci fermiamo ad un metro dalla porta del bagno, Malfoy mi ferma ponendosi davanti a me e dicendo di aspettare.

“Al tre, ci sporgiamo e lo sorprendiamo… sei pronta?” mi dice, persino nella mia mente colgo il suo terrore.

Annuisco, ancora non del tutto convinta.

“Uno…”.

Deglutisco e chiudo gli occhi.

“Due…”.

Li riapro e stringo forte la bacchetta, cercando di ricordarmi un Incantesimo potente.

“Tre…”.

Mi scaglio fuori, seguendo Malfoy che mi ha preceduto di pochi secondi, ma non riesco a fare nulla di quello che avevo programmato, avevo pensato ad una bella maledizione di Disarmo unita ad una Immobilizzante, ma evidentemente era destino che le mie infinite competenze di Auror non venissero sfruttate. Non riesco bene a capire che cosa sia successo, mi sembra solo di aver sentito un urlo poderoso ed acuto che mi ha ucciso entrambi i timpani. Poi un rumore secco e netto, come di qualcosa di sottile che cadeva per terra. La bacchetta di Malfoy che cadeva per terra. Ed infine lo stesso Malfoy che mi afferrava per la vita, mentre io lo avevo già sorpassato, mi tirava indietro, costringendomi ad un assurdo balletto, e mi spingeva fuori dal bagno, oltre il cono di luce del bagno stesso.

Mi appoggio al muro, non capendo che diamine sia successo e cercando di ricostruirlo nella mia testa, la sola cosa che mi dice che non ci fosse niente di grave, è che è stato Malfoy a spingermi fuori dal bagno. Volente o nolente, ormai il suo profumo lo riconosco anche ad occhi chiusi, l’erba bagnata nel mese di settembre, e adesso lo sento addosso a me. Sto quasi per sporgermi nel bagno per capire che cosa sia successo, quando sento la voce trafelata ed incerta di Malfoy dire: “Summer, si può sapere che diamine stai facendo?!”.

Summer! Era Summer, altro che Mangiamorte assettato di vendetta o serial killer psicotico… comunque, siamo vicini a tutti e due i concetti…o mio Dio, Summer! Summer = babbana = fine della copertura di Danny Ryan = fine della carriera da cameriera di Hermione Granger!!

Prendo la bacchetta e la getto distrattamente in una pentola, chiudendola poi con un coperchio per celarla alla vista di tutti. Spero dopo di ricordarmi di venirla a prendere… con angoscia, mi accorgo di quella di Malfoy a qualche passo da me, anche se nella luce del bagno. Come faccio?! Come faccio?! Come faccio?! Come faccio?!

“Ciao Summer!” allungo il piede, pestandola sotto di esso e la calcio fuori dall’angolo visivo di Summer. Malfoy osserva la mia manovra e finalmente riprende a respirare normalmente.

Non la vedo in viso, dato che è seduta per terra, la testa abbandonata ed i lunghissimi capelli biondi che le coprono il viso. La voce chiaramente colma di pianto le fa dire in tono acuto e nervoso: “Tu che diamine chi fai qua?!”. Ovviamente sta parlando con me.

“Come che ci faccio qua?! Ci lavoro, lo ricordi? E, grazie al tuo fidanzato, ci vivo anche…” commento stizzita, gettando un’occhiata in tralice a Malfoy. L’angoscia accumulata mi fa tremare ancora, ma inizio a sentire il mio respiro calmarsi e il cuore tornare a battere in maniera regolare. Anche Malfoy sembra essersi calmato, ma credo che sia abbastanza curioso di sapere che cosa abbia spinto la sua fidanzata a fargli indirettamente ricordare l’incubo peggiore della sua breve vita. Summer non sta decisamente bene; a parte la voce innaturalmente acuta anche per un’aquila reale come lei, ha i vestiti stropicciati e i capelli spettinati, tenuti malamente fermi in una treccia scomposta. Inoltre, sembra anche respirare a fatica, il petto sotto una polo azzurra si abbassa e si rialza velocemente, mentre piccole gocce di sudore le cadono lungo il collo.

“Cos’era quel rumore?” le chiedo, sporgendomi verso di lei per guardarla in faccia. Ma lei si ritrae velocemente, spingendosi con i piedi verso il muro e coprendosi la faccia con la mano destra. Sbuffo, non si sarà truccata stamattina… capirai, che dramma…

“Non era un rumore… era un fracasso infernale…” soffia rabbiosamente Malfoy. Non è gentile nemmeno con la sua ragazza, che razza di personaggio… certo deve essere un bel colpo pensare di avere i Mangiamorte per casa, ma può anche essere più delicato! In fondo, è chiaro che a Summer sia successo qualcosa!

“La tua è davvero un’interessante, ma soprattutto inutile precisazione, Danny…” borbotto con tono di sufficienza.

“La mia è una necessaria precisazione…” blatera lui nervosamente, guardandomi fisso negli occhi “Necessaria a far capire a Summer che la prossima volta che osa rifarlo, si ritroverà alla porta…”.

Un piccolo singulto giunge dal fagotto per terra.

“Non essere melodrammatico…” mormoro, alzando gli occhi al cielo “Hai visto che non era nessuno?”.

“Ma poteva essere qualcuno, Granger…” sussurra lui con tono quasi sofferto “E questo rende la mia precisazione ancora più calzante…”.

Non lo capirò mai, è questa la verità. Io temo i Mangiamorte, temo la guerra, ne temo il suo violento soffiare sulla mia pelle. Eppure, so di potercela fare, so di poterne uscire. Ma Malfoy, no. Lui si sente un miracolato per avercela fatta una volta. Crede quasi che sia stato un errore che sia rimasto in vita… e teme il giorno in cui verranno a chiedergli il conto di quello che non ha pagato.

“D’accordo, lasciamo perdere…” dico accondiscendente, cercando di calmarmi a mia volta, ce lo si aspetta dalla sola persona normale in questa stanza. Mi inginocchio per terra, mormorando: “Summer, si può sapere che cosa è successo? Non dovevi essere qui alle undici, tra l’altro?”.

“Io sono la socia di Danny e vengo qui quando mi pare e piace…” risponde lei presuntuosa, ma sempre senza alzare il capo “Il fatto che tu viva qui, non significa che sei alla mia altezza… sei una cameriera come le altre…”.

Dio, dammi la forza!!!

“Decisamente non sono alla tua altezza… tanto per cominciare non sono seduta per terra come una povera pazza delirante…” borbotto acida. E pensare che avevo iniziato così bene, così gentile, e già me ne sono pentita!

“Ed arrivò anche il giorno in cui diedi ragione alla Granger…” sento Malfoy mormorare afflitto “Deve essere il primo dei sette sigilli che si apre… tra poco ci sarà l’Apocalisse…”.

“Decisamente…” rispondo, roteando nervosa gli occhi per poi alzare la voce: “Insomma, Summer! Se te ne vuoi stare seduta per terra, sei libera di farlo, non me ne frega niente! Ma se almeno devi farlo, non fare quel… insomma, quel fracasso infernale!”.

“E la Granger diede ragione a me… secondo sigillo andato… -5 all’Apocalisse…”.

“Ryan, la smetti?!” urlo, sollevandomi da terra. Mi tolgo la polvere dalla mia gonna, prima di dire a Malfoy: “Basta, mi sono stancata…è la tua fidanzata, non la mia… e, se la sua è una malattia mentale ereditaria, interesserà i tuoi figli, non i miei…”.

“Questo per dire…?” mi interrompe Malfoy, guardandomi dalla testa ai piedi.

“Veditela tu…” dico e faccio per uscire. Malfoy, per nulla turbato, risponde: “Se la vede da sola… fidanzato sì, ma non balia, tantomeno psicanalista… ci sono troppe cose a cui pensare oggi…”.

“Aspettate!” sento la voce di Summer richiamarci indietro, mentre già io e Malfoy eravamo fuori dal bagno.

Mi fermo, come Malfoy, prima di indietreggiare di qualche passo, esattamente come fa lui, non appena Summer si alza da terra e ci volge il viso. Lo stesso viso che, fino alla sera prima, era perfettamente liscio e roseo e che adesso invece è pieno di macchie e bolle rosse, alcune persino grattate, così da grondare anche un po’ di sangue. Io e Malfoy restiamo immobili, a bocca spalancata, mentre Summer regge il nostro sguardo fieramente, gli occhi blu pieni di lacrime di stizza.

“Hai preso la varicella…” commento stupidamente.

“Ma non mi dire!” urla lei come un’invasata, la voce come quella di una sirena. Non la leggiadra creatura marina… assolutamente no! Sto parlando del leggiadro suono dell’antifurto di un auto nel cuore della notte! Di quella sirena!

La vedo con il labbro inferiore tremante, mentre volge il viso verso Malfoy con espressione terrorizzata. “Danny…” lo chiama piano.

Malfoy è ancora impassibile, non proferisce parola, né tantomeno grugnisce. Cosa strana per lui.

“Danny…” lo chiamo, scuotendolo per il braccio.

“Non lo toccare…” intima Summer, recuperando un po’ della sua voce solita.

E poi, alla fine, succede l’incredibile. Malfoy scoppia a ridere come un autentico imbecille, piegandosi in due dalle risate, e reggendosi allo stipite della porta. Questo è pazzo! penso preoccupata, guardandolo storta. Draco Malfoy non rideva mai, se non per ghignare. Ma piangeva, sapeva piangere in una maniera assurda e disperata. Ed invece, da quando conosco Danny Ryan, sembra aver completamente rimosso come si faccia a piangere, anche nel momento in cui il dolore e la paura minacciano di ucciderti per overdose. In compenso, l’ho visto ridere in questa maniera già due volte. Insomma, in una maniera sincera ed autentica. Come se si stesse davvero divertendo…

… o come uno che sta solamente cercando di allentare il nervosismo di aver pensato di morire…

“Insomma, Malfoy!” lo riprendo con rabbia “Smettila di ridere come un’imbecille! Ti ho dato uno schiaffo al terzo anno e posso rifarlo!!”.

Lui non accenna a smettere, continua a ridere come un folle, mentre cerca invano di parlare. L’unica che invece dovrebbe starsene zitta che è Summer, colpita nell’orgoglio di ragazza decisamente sopra la media nei canoni estetici comuni per essere oggetto di tanta ilarità da parte del suo ragazzo, pensa bene di sfogare adesso la sua ira repressa, urlando come un’aquila frasi sconnesse del tipo: “Come ti sei permessa di picchiare il mio Danny?!”, o “Danny, ti prego, dimmi che mi vuoi ancora!”, oppure “L’avevo detto a Seth di tenermi lontana quella pustola ambulante!”.

Insomma, l’inferno. Quasi preferivo che ci fosse stato davvero un Mangiamorte al posto di Summer… due secondi di terrore, un’Avada Kedavra sparato all’istante e via verso l’alto dei cieli. Invece, con questi ho anche la tortura mentale…

“Basta!!!!” urlo con tutto il fiato che ho in gola, aggiungendomi all’allegro coretto, ma suscitando talmente tanto sgomento nei due psicolabili da farli tacere all’istante.

“Che c’è?!” urlo ancora a Malfoy che mi chiama, grugnendo come al solito, mentre cerca di ricomporsi.

“Tra poco ti farai anche tu quattro risate, Granger…” aggiunge con tono sibillino, prima di dire: “Summer è quella che parla con i giornalisti… Seth si blocca… gli altri non sanno gli aspetti dirigenziali… e, come puoi immaginare, io con i giornalisti non parlo… o meglio io non posso vedere i giornalisti…”, sbianco mentre aggiunge queste ultime parole.

Malfoy non si fa vedere in pubblico per non farsi riconoscere come Danny Ryan.

Seth, a quanto pare, si blocca.

Gli altri… e Summer sta così…

E adesso?? Stasera c’è il party… e nessuno di noi sa la metà delle cose che sa Summer… e soprattutto nessuno di noi è Summer, l’aspetto visibile del Petite Peste.

Rischio di svenire e di cadere riversa per terra, ma per fortuna lo evito alle parole di Malfoy. Come sempre, mi dà la rabbia giusta per non lasciarmi andare mai.

“Non ti viene enormemente da ridere?!!” . Ecco che dice l’idiota. Per sapere quello che dico io… bè, l’età di 55 anni non dovrebbe essere ancora sufficiente a non scioccare nessun giovane cervello…

 

 

 

Capitolo scritto a velocità super come potete vedere, non è lunghissimo, ma è un capitolo di transizione, quindi forse non è granchèL; anche se a me piace particolarmente specie nella parte con Summer. Come avete potuto capire, non è che mi piaccia particolarmente quindi ci godo a maltrattarla! Poi le ho fatto venire anche la varicella, insomma sono davvero perfida… che dire? Ci avviciniamo al party che sarà MOLTO IMPORTANTE per lo svolgimento di questa storia, sotto molteplici punti di vista. Draco ed Hermione si stanno avvicinando piano, piano, credo che così sia naturale, ma nei prossimi capitoli già ne succederanno parecchie tra tutti e due!! Ora come sempre passo ai ringraziamenti!!

Falalula: grazie dei complimenti, specie dello struggevolmente coinvolgente, mi ha fatto quasi commuovere!! Un bacio!

Marygenoana: benvenuta alla mia storia! Grazie dei tuoi complimenti e grazie anche della recensione, come avrai avuto modo di capire, sono una donna affamata di recensioni! Spero che anche questo chappy ti sia piaciuto! Un bacio!

Seven: ciao!!! Come sempre grazie dei tuoi complimenti; allora la vicenda di Harry era abbastanza necessaria, nel senso che credo che Hermione sia una persona molto inquadrata, per come la intendo io, quindi so che solo facendole capitare un vero e proprio terremoto emotivo e ideale, la si può smuovere dalle sue considerazioni. Come vedi, solo così, solo levandole le certezze dietro cui si nasconde, potrà capire che Draco effettivamente non è la persona che pensa… o perlomeno io la vedo così…J; Harry comunque avrà modo di rifarsi, credo che uno con le sue responsabilità debba scegliere di sacrificare qualcosa per il “bene comune”, mettiamola così. Sono contenta che ti sia piaciuta la parte sulla terrazza, in fondo Draco si sentiva abbastanza in colpa, e ci mancherebbe!! Spero che anche questo chappy ti sia piaciuto!! Un bacione!

Whitney: mamma mia, quanti complimenti!! Addirittura è la tua fic preferita!! Me commossa!!! Finalmente le acque si smuovono anche se sarà ancora una cosa lunga, considerando il carattere di Hermione, ma piano arriveremo alla meta!! Grazie ancora, un bacio!!

Nefene: la mia cara Chiara!! Ancora una volta grazie dei complimenti e grazie del contatto che ho prontamente aggiunto!! Eheheh!!! Ma me li meriterò tutti? Speriamo che anche questo chappy sia stato all’altezza delle aspettative!! Sono felice che il personaggio di Hermione ti piaccia, ho cercato di mantenere inalterato il suo senso di lealtà made in Rowling, ed insomma è piuttosto semplice, perché come ti ho detto, è abbastanza simile a me in questo; spesso proprio per seguire le mie idee, mi sono messa contro tante persone, quindi è facile vedere Hermione che si contrappone ad Harry per questo. Harry avrà modo di riscattarsi, anche se credo che più che nelle apparenze, lui voglia la pace e la tranquillità ad ogni costo, dopo quello che ha vissuto da ragazzo, quindi abbia scelto questo sacrificio. Effettivamente questo è il primo avvicinamento tra Draco ed Herm, e sono contenta che ti piaccia come li ho descritti. Sempre così me li sono immaginati… in questo chappy siamo tornati alla commedia, anche se nei prossimi ritorneremo a toni un po’ più tristi! Piccola anticipazione, eheheheh!! Summer sta mezza morta quindi sei stata quasi esaudita, e per Serenity è ancora presto, saprete qualcosa di lei molto in là… grazie ancora dei tuoi complimenti!! Se poi vuoi dirmi altro, contattami tranquillamente!! Un Bacione!!!

Cygnus Malfoy: grazie grazie grazie!! Mmm, primo bacio? È ancora un po’ presto… diciamo che manca qualche capitolo, perlomeno lì, mentalmente ci son arrivata!! Un bacione!!

FraFri95: grazie del WOW, mi ha fatto sorridere, spero di avertelo strappato anche con questo capitolo!! Un bacio!

Saluti anche a chi legge e non recensisce…J

Un enorme abbraccio, Cassie…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 11
*** A cuban fairy godmather ***


Capitolo 11 – A cuban fairy godmather

 

Capitolo 11 – A cuban fairy godmather

 

 

“Scusatemi, ho una colica renale improvvisa…”.

“Una colica renale?!”.

Non ho fatto in tempo a finire questa frase che Seth è già sgusciato fuori dalla stanza, chiudendosi in bagno. Nonostante la porta chiusa, lo sento lo stesso ridere come un folle, accompagnando tutto ciò con sordi e secchi rumori. Sospiro, sta battendo persino il pugno sul muro per la grande ilarità. Ritorno a guardare Summer che se ne sta distesa con faccia scura (o meglio a pois rossi) sul letto della stanza di Malfoy, dove siamo riuniti con Seth, Serenity e gli altri (ovviamente ad eccezione di Corinne e Lorna, credo che siano in partenza per Timbuctu, pur di evitare il doppio pericolo congiunto di Summer e Serenity e delle loro letali bolle). Stiamo cercando di decidere che cosa fare per stasera, considerando l’enorme emergenza che dobbiamo affrontare in tempi così brevi, ma oltre la difficoltà intrinseca, ci si mette anche Seth che scoppia a ridere ogni secondo, quando per caso incrocia la vista di Summer. Deve essere la realizzazione delle sue più perverse e malefiche fantasie vedere la sua più acerrima rivale conciata in quella maniera… vivo in una casa di pazzi…

“C’è solamente una soluzione…” sospira alla fine Summer con perfetta aria melodrammatica, allontanando dalla fronte un fazzoletto bagnato che vorrebbe ovviare alla febbre che le sta salendo. Mamma mia, sembra un’attrice tragica in procinto di morire nella maniera più orribile possibile…

“Quale?” chiede Malfoy, che se ne sta in disparte, tenendo in braccio Serenity che giocherella con un sonaglio.

“Cancellare la festa…”.

Sale un silenzio strano, come se effettivamente tutti stessero contemplando l’ipotesi.

“E perché non organizziamo un suicidio collettivo?!” aggiungo malevola ed assolutamente incredula “Avremo persino la prima pagina su metà dei quotidiani di Londra, senza il minimo sforzo… è decisamente un’opzione da considerare… ovviamente se rimaniamo sull’assetto tragico andante…”.

Una piccola risata trattenuta aleggia sui volti di tutti, tranne su quelli di Summer e Malfoy.

Sospiro tra me e me… quelli sul tragico andante…

“Perché che cosa avresti in mente tu, Granger?!” mi chiede nervosamente Malfoy, come se avessi pronunciato la più grande delle eresie mai sentite al mondo.

Mi stringo nelle spalle: “Tutto… e niente… ma comunque non se ne parla che, dopo la faticaccia che abbiamo fatto, cancelliamo tutto… e solo perché Summer sta male…”, distolgo lo sguardo da lei, puntandolo sugli altri: “… in fondo, Summer è sempre una sola persona…”.

“Ma indispensabile!” blatera la sola persona con tono di voce accorato e tragico.

“Mi dispiace contraddirti, ma credo che tu sia… utile, necessaria, fondamentale… e potrei continuare per ore con i sinonimi, date le mie infinite capacità dialettiche, ma tra questi non ci sarà mai indispensabile…”.

“E dovrebbe esserci, invece…” aggiunge sconsolato Malfoy. Sbuffo ancora, sembra la fiera del cataclisma… voglio proprio vedere se una di noi si fosse rotta una gamba, mentre portavamo a termine uno degli assurdi lavori che ci ha sempre dato Summer in questi giorni! Figurati se avrebbero cancellato la festa, ma quando mai! Avrebbero chiamato una povera scema da qualche parte ed avanti tutta! Ed invece solo perché la perfetta e sublime Summer sta male, va tutto per aria! Che nervi, questa situazione mi innervosisce fino al paradossale! Mi innervosisce l’aria compunta ed affranta di Malfoy e quella iper-soddisfatta di Summer a vederlo così… sono davvero fatti per stare assieme, due egocentrici del genere non li ho ancora conosciuti! Che cavolo ci vorrà a parlare con i giornalisti, dico io! A presentare la festa, ad accogliere gli ospiti, a fare quello che fa Summer, in fondo?!! Io lo farei mille volte meglio…

“Potrebbe farlo Hermione…e mille volte meglio…”.

Che cavolo?!! L’ho pensato e l’ho detto! Ma sono cretina?!! Adesso quella mi squarta! Un attimo… ma, a parte che io non mi do del lei, non ho una voce da ragazzo… ci manca anche questa alla serie di tragedie presenti… chi cavolo ha parlato? Sgrano gli occhi colpita, guardando la persona accanto a me. Seth assume la posizione da dittatore cileno, mentre fa un discorso alla patria, inarcando la schiena in avanti ed incrociando le braccia. Lo guardo con gli occhi sbarrati, si può sapere che diamine ha in mente?!! I suoi schemi mentali sono ancora un fitto mistero per me…

La Granger?” blatera Malfoy, assolutamente sconvolto, riaggiustandosi sulla sedia su cui è stravaccato.

“Io, Seth?! Ma non ho assolutamente esperienza di quel tipo! Lo potrebbe fare April… o, che ne so…”, analizzo con la mia mente le altre figure femminili del Petite peste, e la mia frase si blocca in gola per mancanza di alternative. Decisamente le uniche ragazze normali siamo io ed April, ovviamente esclusa Summer. Lorna è decisamente inaffidabile, Corinne è decisamente stupida e Gail è decisamente strana. Non a caso, in questo momento, le prime due sono disperse, si spera che arrivino per l’inizio della festa, mentre Gail è seduta dietro la finestra e guarda una mosca che lotta contro il vetro con uno stupido sorriso assente, apparentemente disinteressata a tutto quello che le accade intorno. Guardo April, che è in piedi davanti a me, appoggiata alla porta del bagno, con espressione rassegnata, a cui lei risponde nella stessa maniera, emettendo persino un debole sospiro. Sembriamo le uniche due donne sopravvissute ad un disastro nucleare ed investite dell’esclusiva responsabilità di proseguire la specie umana... la specie umana, o meglio la specie animale, guardando i soggetti presenti… Summer sembra meditare di portarmi al rogo solo per non averla ritenuta indispensabile, Malfoy ninna distrattamente Serenity, scoccando ogni tanto delle occhiate truci a Seth, mentre quest’ultimo continua nella sua posa plastica, cercando ogni tanto il suo riflesso nello specchio. Trey si mangia le unghie e Lawrence… bè, Lawrence continua a leggere il suo ricettario. Sorrido, che mito… non perde mai la calma, nemmeno se fossimo in piena Terza Guerra Mondiale…

“Non se ne parla proprio che due come voi gestiscano questa cosa da sole…” tossisce Summer con tono lugubre, guardandoci storto ed accentuando con disgusto le parole due come voi. Incrocio lo sguardo di April e sembro intuire i miei stessi pensieri. Certo, la principessa dei Ghiacci pensa che noi siamo troppo poco per le cose che lei fa di solito… e certo, siamo due povere cretine, due povere cameriere fallite… mai sfidare una donna, specialmente se la sfida viene lanciata da un’altra donna… nel 90% dei casi, lo spirito di contraddizione renderà un banale conflitto, una guerra senza quartiere ed all’ultimo sangue. Fino a cinque secondi prima, sarei morta all’idea di fare una cosa del genere, certo l’avevo pensato, ma solo per non rendere Summer così disgustosamente sicura di sé. E per togliere quell’espressione afflitta da cane bastonato sul volto di Malfoy… eppure, mi conosce e sa che perfezionista nata sono… ma adesso è diventata una cosa seria… è la battaglia di tutte le cameriere del mondo contro tutte le datrici di lavoro stronze! I libri di storia ricorderanno questo momento, accanto alle rivendicazioni delle suffragette e alle vittorie di Giovanna d’Arco, sì!

“Io ed Hermione ce la possiamo fare benissimo da sole, invece…” accentua con ironia April, guardando me per l’assenso definitivo e Summer per la stoccata finale “In fondo, non è poi così difficile, no, Herm?”.

“Già” commento a mia volta con leggerezza “Di che dobbiamo parlare? Delle decorazioni, della stoffa delle tovaglie o della ditta che ha fornito i fiori? E che ci vuole una specializzazione in Scienze della superficialità applicate alle feste per ricchi annoiati al punto di perdere il tempo in cose imbecilli come una festa totalmente in colore turchese?!!!”.

Il viso di Summer, mentre pronuncio queste parole, cambia gradualmente tonalità, passando dal rosso febbre al viola melanzana. Sì, credo proprio che mi voglia uccidere… me ne frego! Certo, la sua espressione mi ricorda vagamente una Banshee che ipnotizzava la gente con lo sguardo e che ho dovuto catturare circa cinque volte, prima di gettarla ad Azkaban, dato che incantava e terrorizzava persino i miei uomini. Ed anche me, se dobbiamo essere onesti… ma Summer non può essere una Banshee, insomma me ne sarei accorta! È abbastanza inquietante, ma deve essere solamente umana, perlomeno che io sappia. Serrandomi nelle spalle, guardo di sottecchi Malfoy con una punta di terrore e un sospiro di rassegnazione… quello è perfettamente il tipo da stare con una Banshee e tenersela appresso, come se niente fosse…

April mi guarda leggermente spaventata, in fondo non si aspettava le mie parole, piene di livore. Si aspettava una reazione più soft, cosa che magari avevo già pianificato nella mia testa, ma che al momento di uscire dalle labbra si è fermata e si è dissolta misteriosamente. Mi è venuta fuori una rabbia che non mi aspettavo da me stessa… e perché, poi? Certo che Summer mi irrita davvero tanto, se me la prendo così tanto… non me ne ero accorta prima… pazienza, ormai il danno è fatto. Mi sono ficcata in questa situazione assurda e adesso ne devo uscire da sola! Che cavolo ci vorrà ad organizzare una festa stupida come questa? Ho guidato intere legioni di Auror e non posso fare questo?! Che stupidaggine…

Dopo qualche minuto (che sembra qualche secolo…) di silenzio, finalmente qualcuno rompe quest’opprimente cappa di tensione sui nostri respiri.  

“D’accordo…” sento Malfoy dire, mentre si alza in piedi, dando Serenity in braccio a Seth.

“Come, d’accordo?!” chiede Summer, assolutamente sconvolta, sporgendosi oltre il letto per fissare in viso Malfoy “Non puoi davvero pensare di voler affidare tutto a…”, una piccola pausa utilizzata per guardare me ed April come se fossimo due Schiopodi Sparacoda, e lei è babbana e non li conosce… e non mi viene nessuna creatura babbana altrettanto rivoltante… tutto questo solo per concludere con un: “… voler affidare tutto a… queste due…”.

Lo sguardo di Malfoy supera Summer, fermandosi contro il mio viso, dritto nei miei occhi. Esattamente come stamattina, mi sento persa e vorrei solamente che la smettesse di guardarmi. Mi manda al manicomio, quando fa così, mi fa persino male lo stomaco e mi sento la testa vuota e leggera, come se non avesse peso. E stiamo sempre parlando di un cervello come il mio, insomma dimenticarsi che esiste, è oggettivamente difficile, data la sua mole… continua a fissarmi e so che sono pochi secondi tra questo e quando si decide a parlare, ma sembrano vite intere che si sono srotolate e trascorse nel mio respiro caldo ed affannoso.

“Ed invece voglio fare proprio così, Summer…” dice Malfoy sereno, distogliendo il viso da me e tornando a guardare in volto la contrariata fidanzata “… l’ho notato che… usiamo un piccolo eufemismo… non vi trovate simpatiche…”.

“E allora?” chiede scocciata Summer, dandone un’implicita conferma.

“Infatti, Danny…” aggiungo io, quando sono più che certa che la mia voce funzioni di nuovo a dovere “Non mi sembra che nel mio contratto ci fosse una clausola inespressa di amore e simpatia per la mia datrice di lavoro… anzi, ti dirò, la più grande fantasia dell’impiegato medio è di ammazzare il suo diretto superiore… insomma, sono nella norma… forse un po’ eccessiva, dato che voglio ammazzare entrambi i miei datori di lavoro, ma non è colpa mia se ne ho due…”.

“E di questo che parlo, Granger…” commenta Malfoy con un tono di ovvietà che mi irrita “Non la darai mai vinta a Summer, no?”.

“In che senso?”. Mi sta parlando come se ci fossimo solamente due in questa stanza. Sta palesemente ignorando tutti gli altri.

“Nel senso…” spiega pazientemente, chiudendo gli occhi e riaprendogli qualche attimo dopo “Che non rischieresti mai che la festa andasse a rotoli, se questo significasse dare ragione a Summer che si riteneva indispensabile per la sua buona riuscita. Soprattutto dopo averla definita… com’era? ah già… pressappoco festa imbecille per ricchi annoiati…”.

Cavolo, ha ragione! Mi sta quasi cadendo la mascella a terra per la sorpresa… senza volerlo, sono caduta in trappola… il mio orgoglio mi impedirebbe di lasciare le cose andare male, perché saprei di essermi assunta un impegno di fronte a quella supponente… senza contare che qualsiasi impegno io mi assuma, difficilmente lo lascerei andare a rotoli. Perché ne andrebbe della mia persona e della mia perfezione, che vado sbandierando ai quattro venti. Sono troppo orgogliosa per dare ragione a chi diceva che non ce l’avrei fatta. Malfoy ha ragione… mi conosce, come ogni nemico conosce il suo avversario… cioè, fino all’ultima parte di me… conosce il mio orgoglio e il mio perfezionismo… lo conosce e ci ha fatto leva per ottenere quello che voleva… è bastato lasciarmi a scannare con Summer per ottenere che mi gettassi da sola in questo macello…

Notando la sua espressione soddisfatta e sorniona, capisco davvero di essere caduta nella sua trappola come una cretina.

Non ha mai davvero pensato di cancellare la festa. Aspettava solo che mi proponessi da sola.

Che grandissimo bastardo…

Stringo gli occhi per la rabbia, mentre lui continua a sogghignare tra sé e sé, rendendomi evidenti i suoi pensieri e le sue intenzioni, se mai avessi avuto il minimo dubbio. È ovvio, è tipico di lui, si sta compiacendo di sé stesso… quanto vorrei ucciderlo…

È inutile che indossiamo altri panni ed altri nomi.

Per sempre, saremo quello che siamo.

Hermione Granger e Draco Malfoy. Una Grifondoro ed un Serpeverde.

Per sempre, saranno il mio essere orgogliosa e il suo essere infido le cause alterne della nostra rovina.

 

 

 

Come componente della razza femminile, sono sempre stata un elemento decisamente particolare.

Come posso spiegarlo in termini semplici?

Avere sempre dato la priorità allo sviluppo delle mie capacità intellettive, mi ha fatto considerare la mia femminilità un dato abbastanza trascurabile, a volte persino invalidante. Insomma, spesso proprio per il fatto di essere una donna, alcune cariche mi erano precluse o dovevo faticare il doppio per arrivarci, specie nel mondo magico, dove perlomeno nei primi tempi dovevo remare contro anche il fatto di essere una Mezzosangue. Ora, la mancanza della sbandierata purezza di sangue non mi impedisce più di fare quello che voglio, ma intanto sono ancora una donna e questo spesso porta a dei pregiudizi difficilmente eliminabili.

Quante professioni chiedono ancora la bella presenza? Tante, troppe, ve lo dico io.

Ma, tralasciando questi discorsi, alla fine credo che, se fossi nata maschio e mi fossi chiamata Robert, per me sarebbe stata la stessa cosa. Anzi, forse c’avrei messo la metà del tempo a diventare Capo degli Auror o a farmi riconoscere come una componente attiva e pienamente efficiente dell’Ordine della Fenice.

Non sono mai stata vanitosa, né ci ho messo troppa attenzione nel vestirmi o nell’acconciarmi i capelli, come la maggior parte delle mie coetanee. Per me, era una perdita di tempo.

Certo, le cose sono cambiate quando hanno iniziato a piacermi i ragazzi. E allora per farmi notare, inghiottivo un magone di irritazione e fastidio, e accettavo di mettermi quella gonna un po’ più corta, quel vestito un po’ più appariscente, quella camicia un po’ più aderente.

Non sono una brutta ragazza, questo lo so, non sono nemmeno bellissima, ma, se mi ci metto, sono decisamente carina.

Ma, perlomeno in questo, sono pigra. Odio vestirmi elegante. Odio i ferri caldi tra i capelli a renderli ricci. Odio le scarpe alte che sono cinque numeri più piccoli del tuo solo perché erano praticamente perfette per quel vestito. Odio restare congelata per paura che un boccolo cada dall’acconciatura o che una piega si formi sul mio vestito. Il Ballo del Ceppo, per esempio, fu veramente una tortura. Insomma, detesto profondamente tutte quelle pratiche femminili, fatte per rendersi più belle di quello che si è, e che invece i maschi non conoscono.

Non fraintendetemi! Mi trucco, mi acconcio i capelli, scelgo i vestiti anche con una certa cura ed attenzione. Ma non sono una maniaca dell’aspetto e dell’estetica, specialmente adesso che non sono fidanzata e che vivo con due ragazzi, di cui uno gay e l’altro che non si farebbe un pensiero romantico e/o sessuale su di me nemmeno se lo pagassi…

Quindi, potete ben capire come sia sentita quando, deciso che saremmo state io e April ad occuparci della festa, stranamente Malfoy, Lawrence e Gail hanno lasciato la stanza e ci siamo rimasti nella stanza solo io, la Regina dei Ghiacci, April e Seth. Nemmeno tre secondi dopo, Summer e Seth hanno iniziato a blaterare in modo strano, sicuramente utilizzavano un codice criptico della CIA. Io ed April ci siamo guardate in faccia con espressione confusa, cercando di decodificare le loro urla starnazzanti, ma nemmeno lei riusciva a capirne una parola.

Alla fine, credo che abbia vinto Seth nel loro diverbio incomprensibile. Infatti, Summer ha taciuto all’improvviso, scura in volto, mentre Seth si è voltato trionfante verso di me, mugugnando qualcosa.

“Eh? Che diamine dici, Seth?! Scandisci le parole!” sussurro.

“La 42, vero?” mi chiede ancora, tutto rosso in viso e felice come un bambino davanti ad una coppa super size di gelato.

“Seth, sento che stai cercando di dirmi qualcosa, ma ti ripeto… non capisco che cosa diamine tu voglia da me…”.

Seth sbuffa con il naso, perdendo un po’ della sua espressione orgogliosa, e mi guarda come se fossi una povera deficiente. Tutto questo, prima di chiedermi ironico: “La tua taglia, Herm… gli abiti… sai, quei numerini che mettono sui cartellini, proprio accanto al prezzo? Quella si chiama taglia… serve a farti capire se il vestito ti va o meno…”.

“La mia taglia?” chiedo scioccata “E a che diamine ti servirebbe, scusa?”.

“A mettere il mio costosissimo e pertanto preziosissimo vestito…” borbotta Summer con tono di voce funereo.

“A mettere, che cosa?!!” chiedo, gli occhi decisamente fuori dalle orbite, so perfettamente come si veste Summer e so altrettanto perfettamente che un suo calzino deve costare svariate decine di sterline. Ossia, io una cosa sua non la metterò mai nemmeno morta.

“Non vorrai andare alla festa, in qualità di mia sostituta, vestita in quella assurda maniera??!!” tossisce Summer nella sua febbre, ma incutendomi lo stesso il terrore giusto.

“Perché che cosa c’è che non va?!” chiedo nervosa, guardando la mia camicia bianca e la gonna nera.

“Prima di tutto, non sei vestita di turchese…” risponde ovvio Seth, soppesandomi con lo sguardo come se fossi un pezzo di carne da esaminare prima di mandare in tavola.

Lo guardo con gli occhi ridotti a fessure, sibilando come un serpente in procinto di attaccare: “Sottospecie di Giuda Iscariota, non ti ci metterai anche tu, vero? Guarda che so esattamente come fartela pagare, poi…”.

Lui si ritrae leggermente terrorizzato ed allora la tiritera la continua Summer. Se non sapessi che quei due si odiano a morte, penserei automaticamente che abbiano programmato ogni momento di questa conversazione per giocare alla parte del poliziotto buono e di quello cattivo.

“Ascolta, Granger…” inizia Summer con quell’aria da Vergine dei Ghiacci che le riesce tanto bene “Non voglio nemmeno soffermarmi troppo sulla spiegazione per cui non puoi indossare quella…”, e qui scocca la sua altrettanto collaudata espressione di disgusto profondo per tutto quello che costa meno di cento sterline “… mise, mettiamola così… sarai la rappresentante del locale, quella che dovrà parlare con i giornalisti ed illustrare al meglio il nostro lavoro… pertanto, dovresti essere al meglio…e possibilmente non sembrare la pubblicità di un rimedio contro lo stress… insomma, i tuoi capelli… sono alquanto… da persona stressata…”. Chiude queste sue gentili paroline con un sorriso melenso e fintamente comprensivo. Uno che non conosce bene Summer la troverebbe una persona gradevole e ammodo, che ha dolcemente sottolineato che la condizione dei miei capelli riflette la mia situazione psichica di grande agitazione.

NON FATEVI TRARRE IN INGANNO!!!!!

Il messaggio subliminale della conversazione è un altro! Ed esattamente che ho i capelli come una che ha appena preso la scossa e che da essi, come dal mio look di stasera, dipenderà tutta la buona riuscita della serata, oltre al destino del locale, alla vita lavorativa di tutti loro e alla possibilità che si mantenga un tenore di vita soddisfacente per mandare Serenity in un college privato.

Sospiro, sapendo che la mia sarà una battaglia persa. Potrò farmi schiumare la bocca ed improvvisare l’arrivo del dono delle lingue, parlando in aramaico antico e contorcendomi per terra, e mi infilerebbero a forza in un involto di tessuto azzurro e mi butterebbero tra i giornalisti, giustificando la mia reazione come la manifestazione di gioia degli Aborigeni australiani che considerano il turchese il simbolo dell’amore universale. Cosa che, so perfettamente, sarebbe una panzana colossale.

Mai però capitolare senza conservare l’onore!

Incrocio le braccia con nervosismo e pronuncio con voce perentoria: “D’accordo… ma niente scarpe con il tacco, vestiti troppo scollati e capelli che mi si brucino per la messa in piega…!”.

Inutile dire che il mio decalogo crolla nell’acro di trenta minuti netti. Che abbia precisato quei limiti fondamentali, è assolutamente influente per quelle due specie di piovre acconcia-capelli-prova-vestiti. Con le loro scuse da atelier della moda parigina, “I tacchi slanciano e ti danno un’andatura più sinuosa”… oppure, “I capelli così ti starebbero praticamente perfetti…!”, o anche il ben poco ortodosso “Se non mostri un po’ di mercanzia, da qua non se ne esce!”, alla fine fanno di me quello che vogliono. Cosa che, tanto per intenderci, non è nemmeno facile da ostacolare se, nello stesso momento in cui io cerco di togliermi le scarpe da tortura medievale che mi stanno calzando a forza, sono contemporaneamente impegnata ad imparare, sotto la voce agitata e nervosa di April, ogni informazione esistente sugli invitati alla festa, il loro cognome da nubile e celibe e sordide relazioni extraconiugali che dovrebbero impedirmi di chiamare “la sua deliziosa moglie” quella che in realtà è una sgualdrina di quinta categoria. Del tutto ignara chiaramente che il suo uomo abbia una moglie e ben tre pargoli. E tutto questo, poi, sono costretta a farlo con un’assillante domanda nella testa… continuando a leggere sui fogli che April mi sventola davanti agli occhi la data di oggi, prende a tornarmi in testa l’atroce sospetto di essermi dimenticata una cosa importante che doveva accadere oggi. Forse un compleanno… una ricorrenza… non lo so, ma alla fine lascio perdere. Non ho bisogno di ulteriori pensieri, se è qualcosa di importante sicuramente fino alla fine della giornata me ne ricorderò… sempre se non sarò morta prima… e su questo non posso essere abbastanza convinta…

In capo a due lunghissime ore, mi ritrovo finalmente pronta per quella che sarà una delle serate storiche della mia vita. Nel senso che, alla fine di questa serata, se tutto sarà andato al meglio, avrò ancora un decoroso stile di vita… altrimenti probabilmente inizierò a mangiare residui di mozzarella sui cartoni di pizza vecchi dai bidoni della spazzatura. Quando hanno finito di acconciarmi e prepararmi, Summer fa una strana smorfia, borbottando qualcosa, per poi andarsene dalla stanza, barcollando sulle ginocchia a causa della febbre. Seth batte le mani entusiasta ed April mi riempie di complimenti. Sorrido a mia volta, a disagio, anche perché non mi sono ancora guardata allo specchio. Finalmente riesco a raggiungerlo e mi guardo a lungo, stentando a riconoscermi. Summer aveva comprato cinque vestiti per sé, indecisa su quale fosse il più adatto; inutile dire che ho fatto una serie di cenni disgustati a sentire questa cosa… per la serie, uno schiaffo alla povertà. Di questi cinque vestiti, ne aveva presi tre decisamente assurdi, uno di lurex turchese, uno di raso cortissimo che sembrava una sottoveste ed un altro con la gonna a palloncino che mi faceva sembrare un enorme meringa. Il quarto non mi piaceva lo stesso e nemmeno mi andava bene, quindi la scelta si era rivelata abbastanza semplice e si era diretta verso quello che indosso adesso. Con lo scollo all’americana, sul modello dei pepli greci, si chiude con una fibbia gioiello dietro al mio collo per poi scendere morbido in una lunga gonna plissettata. Il tutto di un tessuto leggerissimo, tulle di organza. Per completare, una meravigliosa parure di collana, bracciale e fermaglio per capelli di gocce d’opali, che Summer mi ha fatto gentilmente notare essere veri… quindi, se ne perdo anche mezzo, gli dovrò lo stipendio per quindicimila anni. Mi tocco stupefatta i capelli, Seth li ha resi morbidi e lucenti e soprattutto ordinati!!! Scendono come oro colato in eleganti boccoli, trattenuti lievemente da un sottile nastro turchese a mo di fascia.

Lo guardo commossa, considerando che ci ha messo solo due ore a pensarci bene, mentre per il Ballo del Ceppo io ci misi quasi sette ore di Pozione Lisciariccio.  A volte i babbani ne conoscono molto di più di noi maghi!! O meglio le babbane… basta vedere mia madre che ha sempre avuto un aspetto perfetto, nonostante non fosse una strega. Sorrido a quel ricordo, mia mamma che si spazzolava i capelli lunghi e lucidi davanti allo specchio, sorridendo, e io appoggiata al lavandino che la guardavo, quasi ipnotizzata. Ad ogni tocco di mascara, ad ogni ombreggiatura di rossetto e ad ogni colpo di spazzola, lei diventava sempre più bella, quasi come una principessa. E io la guardavo fissa fissa, cercando di capire come facesse, quale fosse il suo segreto. Lei rideva e mi sussurrava qualcosa, poi si avvicinava a me e furtivamente mi spruzzava con un goccio del suo profumo, che sapeva di buono e di fresco, come quello di una bambina. Io mi sentivo fiera ed orgogliosa di me stessa, grande nei pochi anni, e camminavo impettita nelle mie scarpette lucide color confetto.

Mia mamma… solo ora mi rendo conto di quanto mi manchi…

Da quando sono diventata una strega, ho trascorso pochissimo tempo con i miei; e da quando c’è stata quella condanna, ancora meno. Intimamente mi ricordavano il mondo dal quale ero fuggita che, allora, in assenza assoluta di magia, mi sembrava piccolo e stupido… perso in ragionamenti mentali e problemi che i maghi non avrebbero mai avuto. E che ora avrei dovuto avere anche io.

Oggi, invece, con queste persone… Seth, April… Serenity e, perché no, anche Malfoy… mi sento di nuovo vicina a quel mondo.

Vicina come se lo toccassi con mano, e intanto mi sembra assurdo non sentire mia madre da tanto tempo.

Sorrido tra me e me, magari perché questo è il germe di una famiglia, babbana stavolta. E quindi rivoglio la mia, vicina.

O magari perché sento, per la prima volta da mesi, di avere un posto. Un posto nel mondo. Piccolo e incasinato. Ma un posto tutto mio. Mi sembra un miracolo; la calma e la serenità che percepisco dentro, mentre guardo Seth ridere dell’acconciatura di April e lei arrabbiarsi come una pazza. Gli occhi si annebbiano un po’, una nebbia confusa di lacrime, e le ricaccio indietro, orgogliosa.

Le odio comunque le lacrime, anche se sono di gioia.

“Allora, tesoro, credi di essere pronta?” mi dice Seth, guardandomi di sbieco.

Sollevo il capo e annuisco, le parole bloccate in gola. Ho la bocca impastata da quanto mi sento nervosa, mamma mia!! L’ultima volta che mi sono sentita così, ero sotto Pietrificus Totalus.

“Ricordi tutto?” mi incalza April, preoccupata “Anche il nome dell’adorato cane dell’avvocato Piers?”.

Mugugno: “Archimbald…”.

“Che c’è?” mi chiede Seth, preoccupato, guardandomi in tralice.

“Bah, giusto un pochino di ansia..” balbetto nervosa. Incredibile, mi sentivo più tranquilla la settimana prima dei GUFO… eppure si tratta solamente di una stupida festa, in fondo ne ho passate di cose peggiori. Voldemort, per esempio. E ne sono uscita viva. Ed invece ora sono paralizzata dalla paura…

“Dimmi una cosa, Seth…” sussurro, balbettando “Ma se qualcosa va storto stasera, esattamente che succede?”.

April si volta a guardarmi, mentre era intenta a sistemarsi le scarpe, e così fa Seth che invece osservava il suo riflesso nello specchio, alla ricerca di minuscole imperfezioni da debellare. Resto con il capo basso, mentre lo vedo avvicinarsi e mettermi la mano sotto il mento, fino a sollevarmi il viso. Mi guarda negli occhi e poi sorride, dolcemente, e dopo tanto tempo, forse dopo una vita, mi sento… al sicuro, anche in mezzo all’inferno.

Come in un ricordo, lontano lontano

Perché negli occhi verdi di questo ragazzo… questo pazzo ragazzo cubano ed inglese… anche solo per un attimo, ne ho visto un altro…

Sempre con gli occhi verdi, solo leggermente più scuri…

Harry

Quando mi guardava ancora con quella luce dolce e spensierata che lo rendeva così grato per ogni secondo della vita che stava vivendo… e che, ora, chissà, se torna qualche volta a lambire il suo sguardo…

“Non succede niente di che, Herm…” mi dice, con voce calma e serafica “Domani apriamo come sempre il locale, e riprendiamo il nostro lavoro…”. Gli sorrido grata, calma che mi riempie il cuore, come l’onda lunga di un mare al tramonto, immerso nel silenzio del mondo.

Anche April si avvicina e mi fa l’occhiolino, prima di dire: “Non devi sentirti responsabile di tutto… e lascia decisamente perdere quello che dice Summer… se la festa va male, sarà colpa di tutti… e non solo tua… fai quello che puoi… e andrà bene…”.

Sorrido anche a lei e annuisco con il capo.

“Mi preoccupo solo per Summer domani mattina…” mormora April, quasi affranta “Se stasera non ce la facciamo, domani dovremmo fare un travaso del suo ego al piano terra per evitare di morire soffocati…”.

Scoppiamo tutti e tre a ridere nello stesso momento, piegandoci in due all’idea di una Summer enorme come una mongolfiera.

Un’enorme ondata di sollievo mi travolge e con quella risata forte e contagiosa, mi sento scivolare via di dosso come gocce di pioggia su una finestra tutte le tensioni di questi giorni.

Come andrà e andrà stasera… il più bel regalo che potessi avere, l’ho avuto ora, in questo momento.

Questa sensazione… questo sollievo… la consapevolezza che ho qualcuno con cui ridere e scherzare, e che mi sosterrà anche se le cose andranno male… vale come la cosa più preziosa fra tutte…

E non riesco ad impedirmi di pensare, mentre continuo a ridere.

Senza accorgermene e senza volerlo… sono diventata parte di un nuovo Trio dei Miracoli…

 

 

I primi miei minuti al Tourquoise Party, credo che siano stati i peggiori e più imbarazzanti della mia vita. Credo che vengano dopo solo al giorno in cui uno stramaledetto Serpeverde mi trasformò in una specie di castoro. Ovviamente Draco Lucius Malfoy, lo stesso che oggi ha pensato bene di farmi rivivere la sensazione dell’imbarazzo più totale in cui si possa mettere un essere umano. Con la differenza che stavolta non avevo il pubblico abbastanza limitato del quarto anno di Hogwarts, ma una folla sterminata.

Perché a questo maledetto party, che io consideravo la più grande cavolata della storia, è venuta un sacco di gente.

Dai giornalisti alle varie starlette, da gente comune desiderosa solo di divertirsi, fino ai nostri clienti più affezionati, curiosi di vederci magari in una veste diversa dalle nostre solite uniformi. E quella che ovviamente ha fatto più scalpore in questo, sono stata io.

Dalla mia solita divisa da cameriera, stasera io sono la vice Principessa dei Ghiacci.

Cosa talmente schifosa da farmi arricciare il naso ad ogni passo, quando sono certa che un fotografo non mi abbia puntato.

Insomma, l’imbarazzo è questo… centinaia di occhi puntati addosso.

E tutti intenti a squadrare ogni centimetro quadrato della mia pelle con malcelata approvazione, oltre che il sorriso asettico e formale che sono costretta ad indossare, peggio di un costoso pezzo di stoffa. Il bilancio alla fine sembra positivo; o perlomeno così credo. Seth, l’esperto mondiale delle pubbliche relazioni e dei rapporti umani, ha giustamente detto in perfetto stile Ginny Weasley: “Herm, se gli uomini hanno la faccia da licantropi in calore… e le donne da arpie frustrate sessualmente… vuol dire che abbiamo fatto centro…”. Ho fatto una smorfia, disgustata, chiedendogli se sta faccia l’avessero, dato che io non la riuscivo a decifrare. Lui ha semplicemente sospirato, chiedendosi come facevamo io e il mio ex a comunicare i nostri reciproci desideri fisici, data la mia ottusaggine.

Bah, ottusa io… perverso e pettegolo lui, piuttosto. Vabbè basta che lui dica che ste facce strane sono presenti… anche se, ovviamente al pensiero, il mio imbarazzo si è triplicato.

Mi accascio per un momento contro una colonna, dato che i piedi mi fanno male da matti, ma ovviamente non posso pensare di sfilarmi le scarpe nemmeno per un attimo. Accidenti alla miseria… la parte peggiore, che mi sembrava parlare con i giornalisti e le varie autorità, oltre che con il rappresentante della Camera di Commercio per illustrare il nostro lavoro, si era rivelata semplicissima. Cavolo, alla fine io sono sempre l’ex Capo degli Auror, l’unico nella storia che abbia costretto i suoi sottoposti a compilare giornalmente un resoconto di tutte le loro azioni e movimenti, in maniera da essere sempre aggiornata! Me ne frego che non volevano scrivere il nome della loro amante segreta o rivelare al mondo che soffrivano di stitichezza cronica, tanto da dover svaligiare un fruttivendolo ogni mattina, alla ricerca di prugne… chissene, dovevano fare come dicevo io! Sono io il capo… o meglio lo ero… ma stasera, qui, il mio ruolo era questo, coordinare il lavoro degli altri e parlare con gli ospiti. E ripeto, in questo nessuna difficoltà, nonostante le mie paure. Tutti erano pronti a fare il loro lavoro, da April alle altre che corrono da una parte all’altra del locale con le parrucche azzurre che alla fine Summer, nel suo ultimo rigurgito di potere, li ha costrette ad indossare. Ero un po’ preoccupata per Corinne, Lorna e Gail, ma anche loro si stanno comportando bene… vabbè, ho scoperto Gail a parlare con una delle piante dell’ingresso del disboscamento della foresta amazzonica, ma l’ho trascinata via in tempo, prima che qualcuno la vedesse. Già, Corinne ci stava provando con uno che se aveva sedici anni, era anche assai… ma anche lei l’ho strigliata di testa e ricondotta al lavoro… e ovviamente Lorna ha cercato più volte di imboscarsi per fumare, ma pure lei l’ho riportata al lavoro, sottolineando gentilmente che la prossima volta che desidera così ardentemente morire per aneurisma polmonare causa fumo, l’ammazzo io prima, risparmiandole tanto tempo. Seth naturalmente è irrecuperabile, ogni mezzo secondo mi prende a gomitate nelle costole, indicandomi ora il sosia perfetto di Tom Cruise o di Richard Gere o di George Clooney. Poco importa se in quel momento sto parlando con qualcuno, specie se di molto importante. Gli unici che non mi danno preoccupazione, sono Lawrence, rintanato in cucina, e Trey, che mette musica in un angolo della stanza. Ora che non siamo ancora nella fase di ballare, ha messo musica soft. E quando attacca con Sagi rei e le sue dolci note ipnotiche, al limite tra la dance e il jazz, che mi concedo una pausa, sedendomi al bancone del pub, dopo aver controllato che nessuno abbia bisogno di me nell’immediato.

“Vuoi qualcosa da bere?” mi chiede in un accesso di gentilezza Lorna, dopo aver servito un altro cliente accanto a me.

Annuisco con il capo, con un inespressivo sorriso, e lei mi serve un Bellini. Lo guardo con sospetto, prima di mandarmi mentalmente a quel paese. Cavolo un po’ di prosecco e di succo di frutta, non mi faranno crollare a terra ubriaca…

Il tipo accanto a me continua a guardarmi ossessivamente, mentre sorseggio la mia bevanda, facendomi arrossire e distogliere il capo dall’altra parte. Ecco, la sensazione imbarazzante dei primi minuti che si ripresenta con tutta la sua forza… detesto essere guardata e dare troppo nell’occhio, specie quello maschile… cosa non darei per svicolare e mettermi in un angolino.

Cercando di apparire disinvolta, mi guardo attorno. Certo che Summer ha fatto un lavoro meraviglioso con le decorazioni… difficile negarlo, anche se mi costa parecchio ammetterlo. La sala del ristorante è un sogno turchese, cosa che mi sta facendo persino apprezzare questo colore. Tutto coordinato perfettamente nella gradazione giusta, dai bicchieri alle tovaglie, alle ortensie negli angoli fino alle rose azzurre che si arrampicano lungo le colonne. Come abbia fatto ad ottenerle così azzurre, è un mistero. Ma la parte migliore, e quella che sicuramente le deve essere costata di più, è l’enorme lampadario decorato di cristalli trasparenti e turchesi veri, che avvolgono la sala in un turbinio di riflessi iridescenti. E chissà per quale strano effetto speciale, la stanza spesso è invasa da bolle di sapone che compaiono improvvisamente, volteggiando tra gli abiti degli invitati che hanno declinato il turchese in ogni gradazione possibile, toccando spesso il ceruleo e il ciano (colori ben diversi come direbbe Summer, che credo avrebbe un infarto se fosse qui, per la mancanza di stile che sarebbero costretti a subire i suoi occhi). Le bolle di sapone azzurre, quando scoppiano, liberano una sottile polvere luccicante che inebria l’aria dell’odore del dolce profumo del nontiscordardime. Come cavolo ha fatto a creare un effetto simile? E da dove vengono le bolle? Non vedo nessuna macchina in giro. Boh, certo che questo odore è proprio forte… mamma mia, sembra dare alla testa. È questo che mi fa sentire confusa, più che l’alcol di uno stupido Bellini. Eppure Seth dice che non è poi così forte… tipico di Summer, fare na cosa che a me dà fastidio!! Ovviamente con la collaborazione di quel furetto maledetto…a proposito del furetto, ma che fine ha fatto??

Presa dalle mie faccende, non ci ho badato. Possibile che non sia manco sceso? D’accordo che non volesse farsi vedere, ma nemmeno controllare la situazione? Boh… vabbè, ora che ci penso, sia Serenity che Summer stavano ancora male, quindi può darsi che stia con loro. E poi non è mai stato tipo da feste… anche se… mi stringo nelle spalle, a disagio, per il pensiero che inconsapevolmente la mia mente ha formulato. Volevo che ci fosse. Poi mi calmo mentalmente; ovviamente non per godere della sua esimia compagnia, ci mancherebbe, quanto più lontano sta da me, meglio è. Ma perché si doveva mangiare le mani a pensare a come ero stata brava e a come lui fosse sempre il solito maledetto idiota! Ah, aha! Avrei imitato l’incidere elegante della principessa Grace di Monaco, dirigendomi verso di lui con passo felpato. Lui con quella sua aria malaticcia mi avrebbe guardato con odio, non trovando alcun insulto da potermi rivolgere visto il mio schiacciante successo. Al che, lo avrei guardato dall’altro in basso, come si guarda una macchia sul tappeto, e gli avrei detto con tono di sufficienza: “Malfoy, con il tuo colorito da morto vivente, stai rovinando la mia scenografia… ti prego di sparire, per il bene di tutti noi…”.

Alla facciaccia sua!!

Ed invece no, quello non c’è. Ma quanto lo odio!! Una volta che potevo fare la superiore, lui non c’è.

Non mi ha nemmeno visto con questo vestito addosso…

Ma a che cavolo penso???!!! Se mi avesse vista, si sarebbe fatto quattro risate, già me lo sento nelle orecchie, quella sottospecie di iena ridens… odioso… forse è davvero meglio che se ne stia di sopra, almeno non rischio di ucciderlo e macchiare il vestito di sangue.

Summer chi se la sente, poi…

Afferro il mio bicchiere, ingurgitandone il contenuto in pochi sorsi, pronta a ritornare al lavoro. Corinne sta di nuovo flirtando con un tipo, stavolta over65… certo che non si butta nulla… e Lorna è troppo vicina alla finestra per i miei gusti…

Mi alzo dalla sedia, quando mi sento chiamare leggermente. È il tipo che era accanto a me, che mi stava squadrando dalla testa ai piedi. Che diamine vuole? Sospiro imbarazzata, stringendomi nelle spalle.

“Mi dica... ha bisogno di qualcosa?” mormoro professionalmente.

“Posso offrirle qualcosa da bere?” sussurra lui suadente, cercando di superare il volume della musica. Lo guardo, inarcando un sopracciglio; carino è carino, alto, capelli nerissimi ed occhi chiari, un corpo atletico coperto da una camicia, ovviamente turchese, ed un paio di jeans neri. Ma io sono al lavoro, per prima cosa. Seconda cosa, non mi piace l’espressione che hanno i suoi occhi, del tipo Questa me la faccio quando voglio. E terzo… bè, dopo Dean e Ron, gli unici due ragazzi che abbia mai avuto e i più grossi fallimenti della mia vita, voglio sentire parlare di ragazzi solo il giorno in cui avrò deciso di volere per casa uno scimmione ammaestrato come compagno. E conoscendo la mia psiche e la mia intelligenza, non penso che questo accadrà mai.

“La ringrazio…” rispondo educatamente. In fin dei conti, è sempre un nostro cliente “Ma non credo che sia il caso…” e faccio per andarmene. Ma lui mi ferma ancora, trattenendomi per il braccio. Brivido. La pelle fresca della sua mano sul calore convulso del mio polso. Una sottile e sinuosa memoria tattile piano si rivela nella mia mente.

Mi volto leggermente, e lui è ancora seduto sulla sua sedia, un lieve sorriso di scherno sulle labbra sottili e un braccio appoggiato sul bancone del bar, come se non facesse alcuno sforzo a trattenermi con una mano sola. I suoi occhi si spalancano appena, quando mi volto, mentre passano mille lampi di luce che poi muoiono nelle profondità del suo sguardo, per poi restringersi nuovamente e fissarmi con aria ilare.

“Cosa c’è? E’ fidanzata?” mi dice ancora, guardandomi con aria strafottente.

“Non potrebbe essere semplicemente che non mi piace?” rispondo malevola e, con uno strattone, mi libero della sua stretta “O è così pieno di sé da credere che tutte le donne dovrebbero caderle ai piedi?”.

Ok, lo so che è un cliente e che dovrei sforzarmi di essere più gentile, ma che ne so? Mi dà fastidio solo guardarlo in faccia… mi tocco il polso con l’altra mano, stringendolo al petto. Un fastidio assurdo, ecco che mi dà.

Lui mi guarda, piccato nell’orgoglio, poi preso da un’improvvisa ispirazione, replica a tono, guardandomi di sottecchi: “La conosce la massima del cliente che ha sempre ragione? Potrei rivolgermi al suo capo per la sua mancanza di gentilezza…”. Socchiudo gli occhi, mentre sghignazza senza ritegno… sto tipo mi ha definitivamente rotto le scatole! Adesso è la volta buona che lo sbatto fuori a calci, oppure lo getto nelle grinfie di Corinne che è una cosa ancora peggiore. Riscriverebbe con lui il Kamasutra ed anche il Diario di una Ninfomane, ve lo dico io, lasciando anche abbastanza materiale per l’edizione riveduta e corretta di Madame Bovary.

Un attimo, taddadà! Ecco la soluzione…

“Mi spiace informarla che, al momento, il mio capo sono io…” affermo decisa, con un enorme sorriso sulla faccia, la mia coscienza a posto nel formulare il pensiero che stasera la Principessa dei Ghiacci sono io. Ci sarà qualcosa di buono in questa vicenda o no?

Simulando una faccia comprensiva e melensa, soggiungo: “… quindi, se vorrà porgere delle lamentele, dovrà farle alla sottoscritta.. che sarà lieta di ignorarle…”. Aggiungo un sorriso gentile alla sua faccia rabbiosa, mentre mi allontano con la canzone Do the conga di Gloria Estefan nel cervello, una piccola Hermione vestita di rosso luccicante che balla tra i miei neuroni con un paio di maracas in mano.

“Chiedo umilmente scusa…” fa lui con tono mellifluo che vagamente nasconde l’irritazione, mentre io gli do le spalle “Ma sapevo che il capo fosse un uomo… tale Danny Ryan… non è lui il padrone, qui?”.

Che palle, ma lo conoscono tutti a quel demente?

“Si sarà sbagliato…” mormoro velocemente, per non dargli ulteriore soddisfazione, anche perché ho abbastanza fretta di ritornare al lavoro. Ci manca solo che il vero Danny Ryan si degna di scendere dalle sue stanze e mi becca in piena conversazione. Come minimo, mi licenzia… e come massimo… bè, semplice. Dimentica le sue migliori intenzioni di babbano redento e si trasforma di nuovo in Mangiamorte.

Meglio non rischiare.

“Capita anche alle menti migliori di sbagliare” aggiungo indulgente, un lieve sorriso che vorrebbe essere dolce, poi alla faccia perplessa del tipo, cancello subito la mia faccia buona e mostro nuovamente quella irritata: “…dubito che la sua entri nel novero, ma forse sono solamente molto superficiale…”. Io, superficiale… sì come no. Sono superficiale come le relazioni che Piton chiedeva per pozioni.

“Credo anche di averlo conosciuto…” insiste lui, con tono quasi sognante “Un uomo di un gusto ed intelligenza superiori alla norma…”.

Un altro Seth, o mio Dio… non ne bastava uno, no due! Vai a vedere che ora si sdilinquisce nel ricordo del platino dei capelli di Malfoy e del plumbeo dei suoi occhi. Addio, davvero che mi metto a vomitare. E ripeto, ho sempre un abito da migliaia di sterline addosso. Non me lo posso permettere… o meglio non se lo possono permettere le mie tasche di risarcire Summer…

Mi giro con espressione sarcastica, per poi tagliare corto: “Se le somiglia anche solo la metà, dubito che sia un soggetto dotato di molta intelligenza…”. Quello sbianca ancora di più, poi diventa rosso e mi guarda con odio puro che passa negli occhi chiari. Memoria visiva, stavolta. Occhi chiari… occhi chiari… che credo di aver già visto…

Li guardo attentamente per qualche secondo, seguendo il filo rosso della matassa che si srotola lenta davanti ai miei occhi.

I miei occhi… che non saranno mai come i suoi… in cui passano mille emozioni al secondo, come meteore di luce…

È un attimo tra il distinguere meglio il colore chiaro di quegli occhi e… capire.

“Mi sembrava strano che ci fosse un soggetto capace di riconoscere gusto ed intelligenza in Danny Ryan…” dico con un sorriso tirato, per poi affermare sicura: “Malfoy, liberami subito dal Confundus prima che ti spacchi la faccia…”.

Il ragazzo moro davanti a me, sbatte per qualche secondo le ciglia, guardandomi profondamente, ma poi, vedendo la mia espressione, quella tanto per intenderci che riservo ai propositi di genocidio degli ultimi membri rimasti in vita delle storiche casate dei Black e dei Malfoy, sorride leggermente e mormora qualcosa, sicuramente un incantesimo. Vedo i suoi lineamenti sparire leggermente, tremuli davanti ai miei occhi, come immagini nell’acqua. Sento un distinto pop nella mia testa, e improvvisamente vedo persino in modo più nitido, l’odore dei nontiscordardime che diventa più lieve, come l’eco di un ricordo nella mia mente. Ovvio. Ha usato l’effetto scenico delle bolle di sapone profumate per incantare la gente qui presente; ecco perché non vedevo nessuna macchina e sentivo il profumo più forte. Evidentemente era diretto solo ai maghi e alle streghe che fossero entrati; in fondo Seth non era poi così preoccupato di non vedere il suo Danny.

E ciò conoscendo Seth, può significare solo una cosa. Lui vedeva distintamente il suo Danny.

Come se non bastasse, Seth mi aveva detto che il profumo dei fiori non era così forte come dicevo io.

Ovvio.

Lo sentivo solo io, come strega.

Quando mi volto, terminate le mie riflessioni, ovviamente Malfoy è lì davanti ai miei occhi, vestito esattamente come lo sconosciuto di poco fa. Distinguo una nota di divertimento nei suoi occhi… tipico. Mi ha preso in giro per mezz’ora con il falso spasimante.

Stringo le mani a pugno, sussurrando: “Incantesimo raffinato, Malfoy… dovevi vedere se funzionava ed avevi bisogno di me?”.

Lui fa la faccia da povero ragazzo innocente, assolutamente ignaro delle trame di un mondo crudele e spietato, abitato da donne perfide e maligne come me. E stiamo sempre parlando di un ex Mangiamorte, non quindi di un’anima pura ed eletta della Rosa dei beati.

“Ma cosa vai a pensare, Granger…” sussurra dolcemente con aria autenticamente scioccata, poi recupera la sua solita espressione di disgusto, prima di dire: “Non avrai davvero pensato che un essere umano ti stesse facendo il filo, Granger, eh? Ormai alla tua veneranda età dovresti aver perso le tue illusioni adolescenziali…”, beve un sorso della sua bibita, prima di dire malevolo, con tono di rimprovero: “E poi, era pur sempre un cliente, Granger… non è da offendere un cliente… fosse anche uno che avesse il cattivo gusto di pensare a te in termini minimamente somiglianti al concetto di genere femminile…”. Sghignazza tra sé e sé, sicuramente fiero della sua battuta, e riprende a bere come se niente fosse. Che nervoso…mi torco le mani nervosamente in grembo, pensando alla tecnica giusta per farlo sparire dalla faccia della terra, ponendo fine a metà dell’inquinamento acustico del globo. Magari avrò anche una medaglia e simili… sospiro, pensando che stasera la mia prima priorità è essere professionale. Quindi, decido di lasciar perdere, almeno per stasera, considerando che stiamo sempre in mezzo ad un centinaio e passa di persone. Insomma se lo sgozzassi, iniziando a decantare i versetti del Corano, millantando il mio omicidio premeditato come bislacca applicazione della shari’a islamica, credo che darei un pochino nell’occhio.

Sospiro per la decima volta e mi riavvicino al bancone, appoggiandomi con la schiena ad esso, Malfoy che mi guarda per qualche secondo, forse colpito dal mio silenzio, ma che poi torna a pensare ai fatti suoi, lo sguardo fisso sulla gente che ora inizia a ballare. Senza accorgermene, infatti, Trey ha cambiato musica. È diventata più veloce e ritmata, mi sembra che sia Ne-yo. Anche le luci si sono abbassate, diventando fasci di luce azzurra che splendono ad intermittenza. Tulle e raso di microabiti si sposano con il panno dei completi eleganti, tutti impegnati nella danza. Meno male che, almeno, posso evitare di ballare. Ci mancherebbe anche questa…

Chiedo a Lorna un bicchiere di succo di frutta, che prendo a sorseggiare piano, rapita dalla visione dei ballerini.

Malfoy è ancora accanto a me, il braccio indolentemente appoggiato sul bancone del bar, seduto in maniera elegantemente scomposta sul suo sgabello. Lo guardo di sottecchi, per poi riscuotermi mentalmente alla visione di altre decine di ragazze che stanno facendo lo stesso. Con annessa lingua fuori dalla bocca, bava grondante e occhi saettanti di desiderio, tipico dei satiri dell’antica Grecia. E siccome non sono come quelle assatanate, mi volto dall’altra parte in maniera indifferente, continuando nella mia supervisione visiva della sala.

È strano, però, che se ne stia zitto. Strano, sì. Quando ci si mette con gli insulti, è davvero logorroico. Ed invece ora se ne sta zitto? Lo spio con la coda dell’occhio, mentre è ancora nella medesima posa, gli occhi grigi resi color acquamarina ad ogni fascio di luce colorata. Sembra… assente, profondamente perso nei suoi pensieri.

Chissà a che sta pensando… forse è preoccupato per Serenity. Ma mi sembra che stesse bene, quando l’abbiamo lasciata. E comunque c’è Summer con lei. Ok, non è proprio la migliore delle puericultrici, ma almeno impedirà che Serenity infili le dita nella presa della corrente, e soprattutto credo che, dovendosi misurare ogni tanto lei la febbre, per pura cortesia lo farà anche con la bambina.

Distrattamente si scompiglia i capelli biondi con una mano, per poi sospirare vigorosamente.

Boh, ripeto, strano è strano.

Continuo a bere il mio succo, forse dovrei dire io qualcosa. Sì, e cosa? Insultarlo? Ho deciso di lasciar perdere, almeno per oggi.

Parlare del più e del meno? Non me lo vedo intento a dire ovvietà.

Ricordare i bei tempi andati, tipo il Ballo del Ceppo? Ancora peggio. Primo, non erano bei tempi, specie per me e per lui, considerati in un assioma unico. Secondo, aveva come dama Pansy Parkinson… decisamente, vorrà dimenticare alla svelta l’esperienza.

Con uno strano brivido sulla schiena, mentre sento il gelo di questo silenzio addosso, come il respiro di un animale malato sulla nuca, mi rendo conto che io non ho argomenti di conversazione con Draco Malfoy.

Abbiamo avuto, e intimamente abbiamo ancora, una vita così diversa che non servirebbe alcuna parola a colmare questo vuoto tra me e lui. Che io non lo odi, e che probabilmente lui faccia lo stesso, questo non cambia la cosa fondamentale: tra me e lui c’è ancora la distanza di mille e mille anni luce. Un qualcosa di così enorme e sterminato, che nessun discorso o chiarimento potrebbe sanare.

Io, che con i discorsi e le parole, ho messo le fondamenta a tutta me stessa. Lui, che me le scardina passo dopo passo.

Intimamente, credo che sia questo… a farmi sentire sempre… così… con lui.

Confusa, disorientata… ripeto, persa. Con lui, ogni trucco ed ogni strategia che ho adottato nella mia vita per avere un minimo di rapporti umani, non vale. Assolutamente. Come, credo, ogni regola del mondo civile che con lui se ne va all’aria.

Lo guardo ancora di nascosto, nascondendomi quasi dietro il mio bicchiere.

Eppure ha una fidanzata… di che parla con Summer? Non li vedo mai parlare molto, né tantomeno in atteggiamenti troppo affettuosi. Eppure, stanno assieme… e qualcosa in comune devono averla, no?

Mi stringo nelle spalle, avvertendo una vaga sensazione di imbarazzo, ad averlo vicino, senza niente che rompa questo insopportabile silenzio. Che poi silenzio non è, con Ne-yo che gorgheggia le note di Miss Independent. In fondo, che mi interessa?

Il fatto che Malfoy sia il mio capo e il mio padrone di casa, non è sintomo automatico di un rapporto di qualsiasi natura con lui. Come desideravo, in ultima analisi, quando ho accettato questo lavoro. Volevo indifferenza e la rassicurante certezza di poterlo ignorare bellamente per tutto il mio tempo lavorativo, in modo da non dovermi rammentare ogni minuto che ero una dipendente di Draco Lucius Malfoy.

E lui mi ha pienamente accontentato.

Dovrei essere contenta… godere dell’amicizia di Seth e degli altri… ed invece…

Un senso quasi di insoddisfazione. Dentro, in un angolino della mia anima. Come un cucciolo in castigo in un cantone.

E un vago terrore… che cosa voglio io da Draco Malfoy?

Abbasso lo sguardo, sentendo un magone dentro, forte e pesante come un macigno. Mi causa un nodo in gola, una nebbia nei miei occhi. E come sempre, la mia mente me ne dà spiegazione… mi sono liberata dell’odio per Malfoy, sono priva di qualsiasi difesa davanti ad una persona che di me non se ne frega assolutamente nulla… e quel che è peggio, è che vorrei con tutte le mie forze che a lui importasse qualcosa di me. Qualcosa… qualsiasi cosa…

Improvvisamente, quell’enorme stanza mi sta stretta. Sulla pelle, come un abito stretto di tre taglie. E non c’entra niente l’abito di Summer, il mio ruolo di Principessa dei Ghiacci e i gioielli che devo toccare ogni minuto con paura.

Claustrofobia. Vorrei solo andare via…

Il labbro inferiore che mi trema, mi stacco dal bancone come se fosse incandescente. Sento il suo sguardo liquido su di me, ma lo ignoro. Ricaccio le lacrime che minacciano di premere sotto i miei occhi, un senso acuto di oppressione dentro, e lo guardo fingendo un sorriso: “Vado a vedere se c’è bisogno di me…”. Lui mi guarda fisso, evidentemente insospettendosi del mio sorriso. Me ne frego, basta… devo imparare a fregarmene di tutto quello che fa, cosa che effettivamente nella vita io non ho mai fatto. Prima l’odio, ora questo interesse…non so come altro definirlo. Basta, davvero. Da questo momento in avanti, basta qualsiasi tipi di curiosità o pensiero su Draco Lucius Malfoy o Danny Ryan o come cavolo si chiama. Sarò professionale come vuole lui, e lo ignorerò.

Ed ignorerò prima di tutto me stessa… e questa mia ansia continua di analizzare ogni suo comportamento.

Non sono la sua psicanalista. E non lo risolverò io il mistero di Draco Malfoy.

Non voglio, sono finiti i tempi delle indagini di Hogwarts. E ne sono così stanca…ora, basta.

Mi volto su me stessa, pronta ad andarmene, ma evidentemente stasera non è destino che io lo faccia.

Mentre mi volto su me stessa, i boccoli dei miei capelli che April e Seth hanno pazientemente acconciato per ore, mi sbattono in faccia e mi chiedo stupidamente se sono a prova di shock. La mia barbara consolazione è che il tumulto precedente si seda all’improvviso; e capisco quanto me ne frego in realtà di Draco Malfoy.

Perché ci sono invece cose che riescono a lasciarmi senza fiato… o meglio, persone.

Cosa che Malfoy non fa, per fortuna. Lui mi rende solo…persa, ecco.

Devo solo recuperare me stessa dai reconditi della mia anima, darmi un paio di colpetti sul viso e tornerò normale.

Con loro, no. Loro che sono stati la mia più grande forza, e che ora mi hanno sradicato da tutto e da tutti.

Come una pianta con le radici nude, che, dopo una tempesta, giace abbandonata e morta sul ciglio di una strada polverosa e vuota.

Ognuno, a suo modo, l’ha fatto.

Hanno scavato il terreno attorno ai miei piedi, così piano e subdolamente che, quando mi sono trovata priva di qualsiasi sostegno, me ne sono persino meravigliata. Non me l’aspettavo, da stupida che sono. Ed invece galleggiavo sul vuoto da anni.

E ora…le persone che mi sono mancate di più, quelle che sentivo dentro come una spina nella carne, quelle che qui ero certa non sarebbero mai venute, che non avrei mai incontrato… chiudo gli occhi, piano, un senso di terribile spossatezza che mi prende le membra.

Ora… sono davanti a me. A guardarmi nel mio stupido vestito azzurro. Ad osservarmi nel mio ruolo da Principessa dei Ghiacci.

E sembra ancora più assurda la mia situazione, ora, guardando i loro visi che ricordo a memoria.

E dopo che mi ero convinta a non chiedermelo più, la domanda sgradita sul cosa ci faccia qui, mi colpisce con la forza di una stilettata precisa dentro. Un colpo sordo che rimbomba nelle mie orecchie. Sento una vertigine colpirmi sleale e farmi fare un passo indietro.

Il mio piccolo mancamento viene subito assorbito da qualcosa alle mie spalle.

Mi volto leggermente con il viso, fino ad incontrare inaspettatamente gli occhi di Draco Malfoy.

Quando si è avvicinato? Mi chiedo con sgomento, lo sguardo fisso sulla distanza quasi nulla che esiste tra me e lui al momento. Ed è quasi naturale, come l’onda del mare al richiamo della marea, abbandonarmi piano con la schiena contro di lui, stanca, esausta come dopo una lunga camminata che mi ha succhiato via ogni energia. E credo che sia naturale anche per lui, semplicemente lasciarmi lì, a sentire contro le mie spalle il suo respiro che accelera sempre di più ad ogni secondo.

Ovvio. Naturale.

Se possono mettere sottosopra la mia vita, figuriamoci cosa possono fare per la tua…

È solo un secondo in cui entrambi distogliamo lo sguardo da loro, e troviamo gli occhi dell’altro. È solo un attimo, ma vale come mille anni.

Non lo permetterò questo… Draco…

E mentre ritorno a guardare Ginny, Harry, Ron e Lavanda, in questo infinito gioco di specchi e di parti capovolte, capisco che davvero tutto è cambiato.

 

 

Un capitolo enorme, spero di non avervi annoiato…!! Ma spesso io me li divido mentalmente a livello concettuale, quindi possono uscire lunghissimi o cortissimi, spero che non sia un problema… J in questo capitolo ne sono successe di cose, anche se alcune abbastanza sottintese, e nel prossimo ne succederanno ancora di più… specie considerando il ritorno dei nostri amici magici…!!! Si prevedono scintille… eheheh!!! Ma come vedete, piano piano si avvicinano i nostri eroi… !!!

Piccoli chiarimenti: il titolo significa “UNA FATA MADRINA CUBANA” e avrete capito a chi si riferisce!! Ovviamente a Seth…!!! Mi diverte troppo scrivere di lui, è una persona troppo particolare!! E soprattutto come avrete modo di vedere ci vede lungo!! J Fata madrina perché ovviamente se non era per lui, Hermione ci andava in tuta alla festa!!

Altro chiarimento, mai come in questo capitolo mi ha aiutato molto la musica a scrivere… insomma per ricreare l’atmosfera della festa, specie Sagi rei! Quindi grazie Sagi!! Eheheh… nel caso vorreste sentire la canzone che mi ha ispirato per la scena tra Draco ed Hermione, quella dove lui indossa i panni dello sconosciuto, è questa… http://www.youtube.com/watch?v=D6iyglKWh1k...

Oggi purtroppo ho i minuti contati, e rivedere il capitolo è stato qualcosa di ENORME… quindi ringrazio tutti coloro che hanno letto e recensito la mia storia, siete la mia forza, non continuerei senza di voi!!

Un bacio!! CASSIE

 

 

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Capitolo 12
*** Turquoise&Crimson ***


Capitolo 12 – Turquoise&Crimson

 

Capitolo 12 – Turquoise&Crimson

 

 

Non so esattamente quanto tempo sono rimasta immobile, ferma. Quanti secondi esattamente sono trascorsi tra l’essermi accorta dell’arrivo dei miei amici e l’aver parlato. Non lo so, forse pochissimo, o forse tantissimo. Quale che sia stato il tempo preciso, ho sentito ogni secondo ed ogni momento cadenzato leggero dal respiro di Draco contro la mia schiena. Respiri sempre più veloci, e poi lenti e tranquilli.

Lui si è calmato, io no.

Assolutamente, anzi va sempre peggio.

Quando cavolo ho iniziato a chiamare Malfoy, Draco?

È quel nervoso malcelato a farmi staccare bruscamente da lui, insicurezza alla mancanza di appoggio, e a farmi aprire finalmente bocca.

“Si può sapere che diamine ci fate qui?” chiedo nervosa, le braccia conserte in petto.

Tutti e quattro sbattono gli occhi, riprendendosi anche loro dallo shock. Brillano in modo innaturale i loro occhi di scintille azzurre.

“Sono sotto Confundus…” sussurro a mezza bocca, voltandomi verso Malfoy “Il tuo incantesimo funziona… puoi stare tranquillo…”.

Lui mi guarda dritto negli occhi, un’espressione confusa che sparisce immediatamente, traducendosi in uno sguardo quasi offeso: “Lo so perfettamente, Granger…” bisbiglia anche lui “Non sono poi del tutto arrugginito a compiere incantesimi, contrariamente a quanto pensi Miss So-tutto-io…”.

“E allora che diamine stai a fare qui??!” chiedo irritata. Già ora devo affrontare sta situazione del tutto imprevista, ci manca anche lui che sghignazza ad ogni piè sospinto, fiero di aver condotto la Regina dei Grifondoro dalla sua parte. Cosa non vera, ovviamente, non credo che esistano ormai ruoli così definiti nelle nostre vite. Ma intanto, se devo riflettere in modo estremamente oggettivo, Malfoy al momento tra queste cinque persone, è quella che ho più vicina. Ed è il paradosso più fastidioso della mia esistenza.

Lui mi guarda con odio puro, prima di allontanarsi dicendo: “Veditela tu, allora, con i tuoi amichetti… una cosa, ovviamente che sia chiara… se la tua lingua disgustosamente lunga, dovesse iniziare a dilungarsi sulla nostra, assolutamente non voluta e non richiesta, frequentazione… bè, insomma, fattela passare come idea…”.

“Ci mancherebbe…” borbotto sarcastica, inarcando un sopracciglio “Non credo ancora di essere così idiota… e poi non è tantomeno una qualifica meritevole di attenzione ed invidia… né tantomeno uno dei classici spunti alla conversazione…anzi, credo che la chiudano definitivamente con una persona dotata di buon senso…”.

“Divertente come un enfisema, Granger…” mormora lui, allontanandosi “Fai alla svelta… tra poco, ci dovrebbero essere le foto dello staff…”.

Annuisco, mentre si allontana, fendendo elegantemente la folla, una sola domanda nel cervello. Chissà che cavolo voleva…

Ma che cavolo me ne frega? Ho problemi più seri, al momento!

Torno a guardare i miei amici, che sono rimasti in silenzio ad assistere al mio parlottato scambio di gentilezze con Malfoy, anche se ovviamente non sanno che si tratta del principe delle serpi. Incrocio di nuovo le braccia, inarcando un sopracciglio e battendo un piede per terra, nella mia nota imitazione perfetta della Mc Granitt, che ha sempre suscitato timore reverenziale in tutti i Grifondoro.

Infatti, al ricordo i quattro si riscuotono, e finalmente si degnano di aprire la bocca.
“Che grande pezzo di figo!” la prima ovviamente a parlare è Ginny, seguendo con sguardo affamato la traiettoria di Malfoy. Se sapesse di chi si tratta… Harry la guarda di sbieco, tossicchiando leggermente e richiamando la sua attenzione sul trascurabile dato che lui sarebbe perlomeno presente al momento.

Ma Ginny, completamente indifferente, mi chiede con la bava alla bocca di chi si tratta.

Con un sorriso a mezza bocca, replico, guardando Harry dritto negli occhi: “Si tratta del mio capo… che io adoro enormemente… ma è molto timido e riservato… quindi comprenderai che non si vorrà far vedere…”.

Harry sgrana gli occhi, in fondo è l’unico che dovrebbe sapere che lavoro per Malfoy. E infatti la cosa che mi si conferma mentalmente allo sguardo che Harry lancia alle bolle che circondano la sala, evidentemente comprendendo dell’esistenza di un Incantesimo di Confundus, e alla completa inerzia degli altri.

Sospiro di sollievo, almeno questo lo sa solo lui, ci mancava solo dover anche spiegare perché ho accettato di lavorare per Malfoy. Alle volte, quella domanda ritorna nella mia mente, risuona enorme e mi rimbalza contro, e sembra davvero gigantesca … e io, come sempre, non so rispondere. Alla fine dei fatti, la necessità ha fatto molto, ma non tutto. Il resto, che cosa l’ha fatto? Io non lo so, è la prima… la sola, forse… domanda della mia vita a cui non riesco a rispondere. E so che per loro, sembrerebbe ancora più enorme di quanto già non sia. Per loro anche la necessità non giustificherebbe quello che sto facendo, e l’Hermione di Hogwarts avrebbe detto lo stesso, preferendo la strada dell’accattonaggio a questo. Credo che allora avrei anche preferito diventare la segretaria personale delle gemelle Patil e segnare sulla mia agenda ogni possibile probabilità di sconto nei negozi dell’intera City londinese, pur di non lavorare per Malfoy.

Eppure, ora le cose stanno così.

E, in una quasi tiepida morsa sulla bocca dello stomaco, mi va bene così… quasi… ma ancora, se penso a che parole usare per spiegare questo, non ne trovo. Volano via nel cielo della mia mente come pipistrelli neri, annebbiando la luce sottile e perlacea della luna.

Io, questa risposta non la ho. E ciò mi lacera dentro, dal primo giorno che ho messo piede qui.

Ma non ho bisogno di alcuno che lo sottolinei e salga in cattedra a giudicarmi. Oramai, allo stadio attuale delle cose, non accetto alcun genere di consiglio sulla mia vita. Non dopo la storia di Dean, non dopo le bugie sul mio lavoro, non dopo aver arrancato per mesi da sola. E non dopo la storia di questi due idioti che ho di fronte e che solo ora mi rendo conto, non ho ancora guardato in faccia.

Con orgoglio, sollevo il mento con espressione insofferente, guardandoli dall’alto in basso, come mi può essere tipico in tanti momenti. Ron sbianca nel guardarmi, evidentemente se la ricorda ancora quella mia particolare espressione; vedo persino oltre la pelle sottile della fronte splendere l’allarme rosso Granger sul piede di guerra. Altrettanto ovviamente, le sue orecchie diventano rosse.

Non è cambiato per niente. E, se un giorno non ci fosse stato sesso ed amore tra me e lui, questo lo commenterei con un sorriso sollevato.

Invece no, mi dà insofferenza fino alla punta dei piedi, scariche elettriche che corrono lungo i miei arti, caricandomi di rabbia e fastidio. Una risacca di ricordi e sofferenza che si infrange sul mio cuore fragile e malconcio da ere innumerabili ormai.

Perché questa è la prima volta che lo rivedo da anni.

E fa ancora un male cane.

Perché contrariamente a quel piccolo gesto dettato da un’abitudine radicata, avere paura di me ed arrossire, tra noi non c’è più niente di uguale a prima. In questo silenzio rotto da mille voci e note musicali, ma che è più pesante ed indigesto di qualsiasi cosa abbia mai provato prima, scorre il tempo che è appassito, giorno per giorno, separandoci. Io sto per difendere un mondo che non mi apparteneva e che forse ancora non mi appartiene, ma che adesso è la sola cosa che ho.

E lui… e lui, a guardarlo meglio, non è più nemmeno lui. Perché, in realtà, nonostante abbia affogato la mia testa in narcotici pensieri, alla fine l’avevo guardato attentamente tanto da stamparmi ogni suo dettaglio nella mente.

La faccia che ha fatto appena mi ha visto, sicuramente incuriosito dal mio abbigliamento.

L’espressione corrucciata che ha assunto quando parlavo con Malfoy.

La smorfia alla gomitata che gli ha rifilato Lavanda nello sterno.

E poi il suo aspetto che prosciuga il fiume di rabbia che mi scorreva dentro, rendendolo un rigagnolo maleodorante e sporco.

Il suo aspetto che mi stringe il cuore, e che mi suggerisce quanto sia sempre stato debole Ronald Bilius Weasley.

Mi stringo nelle spalle, debolmente, una foschia che prende la mia vista, rendendola annebbiata. Il mio Ron effettivamente non c’è più.

Come se fosse morto.

Si è lasciato plagiare da Lavanda fino a diventare la perfetta copia di un Ken dai capelli rossi.

Abbigliamento curato ed ovviamente turchese, sopracciglia perfettamente depilate e scolpite, mani fresche di manicure.

Peggio di Seth, sospiro. E non mi viene per niente da ridere.

Del ragazzo che ho amato tanti anni fa, non c’è traccia. E lei, Lavanda, sembra esserne perfettamente conscia, come se avesse compiuto un prodigio da mostrare quasi in una fiera di stato. Gli tiene il braccio possessivamente attorno alla vita, una mano a sfiorare nemmeno tanto delicatamente il fondoschiena. Scrollo il capo tra me e me, lei ovviamente mi guarda con fastidio e posso immaginare che l’idea di venire qui non è stata sua. Mi squadra dalla testa ai piedi, analizzando il mio abbigliamento e non trattenendo un’espressione di sorpresa.

Ovvio, indosso centinaia di migliaia di sterline. Non posso crederci di stare ringraziando mentalmente Summer e la sua varicella.

Decisamente meglio questo che l’abbigliamento da cameriera. Dio, la parrucca turchina… me ne ero scordata. Mi sarei nascosta dietro una pianta se li avessi visti, in quel caso.

È forse il mio ruolo che mi fa recuperare un po’ della mia forza e della mia tenacia, stasera la padrona qua sono io, e Malfoy è lontano abbastanza da non potermi contraddire.

“Sono felice di rivedervi…” commento con una smorfia, guardando con disgusto i due coniugi Mattel, per poi tornare ai futuri coniugi Potter “… ma sapete com’è? Quando si è babbana, si fanno anche cose tipo… faticare per guadagnarsi il pane senza magia…e attualmente ero dedita a questa pratica anacronistica…”.

“Quindi, alla fine, è qui che lavori?” mi chiede Ron, forse in un impeto di coraggio e con un tono accusatorio che non mi piace affatto. Lo guardo di sbieco, non degnandolo di risposta, manco avesse parlato un insetto stercorario della Cornovaglia. Un essere orribile, puzzolente e dedito a lauti pasti a base di letame…insomma, nel caso non sappiate che sia, credo di aver reso perfettamente l’idea.

“Eh, Herm?? Quindi… fai la cameriera??!!” ripete con insistenza Ginny, superando con il suo piglio severo persino il volume della musica, tanto per persino Seth dall’altra parte della stanza si gira incuriosito nella nostra direzione. Sorrido a lui, cercando di sembrare tranquillizzante, quando invece il cameriera sputato fuori da Ginny mi fa sentire ancora più cretina di quando già non mi senta.

È solo una frase quella che mi si forma nel cervello, una steppa bruciata della mia calma di poco fa.

Non hanno nessun diritto di parlarmi così.

“Che io sappia l’Inquisizione spagnola l’hanno abolita nel 1834…” biascico nervosamente, le guance che mi bruciano e le mani strette a pugno “Quindi, non ho intenzione di rispondere a questo interrogatorio… in fondo, ma solamente in fondo, si tratta della mia di vita, non della vostra…”.

“Ma Herm…” inizia subito Ginny, ma l’interrompo subito, la voce che scende di un tono: “Ginny, sei la mia migliore amica e tutto il resto… ti voglio bene, e questo lo sai…ma questa è la mia vita, ho deciso io come viverla… e sì, faccio la cameriera, ma al momento va bene così… lo so, magari per te, o meglio per voi, può sembrare una qualifica non proprio esaltante per il Capo degli Auror. Ma ora io non sono questo…”, la mia voce si abbassa ancora mentre aggiungo con una patina di tristezza: “… e probabilmente non lo sarò più…”.

Tutti e quattro sobbalzano e mi guardano preoccupati ed intimoriti, so che nelle loro menti qualcosa irrimediabilmente si è incrinato a queste mie ultime parole. Immaginare Hermione Granger e il Capo degli Auror come due persone distinte, per loro, deve essere stato oggettivamente difficile. Specie per Ron, che ha vissuto con me. Specie per Harry, che era il mio referente lavorativo privilegiato. E infatti sono loro due a guardarmi nel modo più scioccato e, al contempo, triste. Sì, triste… perché un enorme fossato si sta scavando tra me e loro due, e nessuno può fare niente per impedirlo. Come rovi acuminati, i giorni che stanno passando in questa maniera così peculiare e strana per me, mi feriscono le mani e mi fermano mentre cerco di arrivare a loro. Si avviluppano attorno alle mie membra, facendomi sanguinare, eppure… io non sento dolore. Forse per rassegnazione… o per stanchezza… o magari è solo fatalismo.

La verità è che il giorno stesso in cui io ho accettato di lavorare qui, ho scritto sulla pietra la sequela ordinata di passi che stavo facendo nell’allontanarmi da loro. Perché lavoravo per Malfoy, certo. Ma soprattutto perché finalmente ho accettato un modo che mi facesse ritornare a vivere. Un modo per sentirmi utile. Un modo per riprendere quella esistenza che avevo condotto per inerzia, trascinandomi lungo le giornate con svogliatezza e stanchezza, appoggiandomi come un’ameba sulle spalle di Dean e sospirando instancabilmente il dissidio di essere stata strappata dalla mia vera vita. Essere di nuovo babbana, era non essere più io, non essere più me stessa.

Perché io sono la magia.

Se non posso fare magie, io non servo a nulla. Questo mi dicevo.

E l’ho pensato per due anni.

Vedevo me stessa come una bambola di pezza, poggiata su una libreria impolverata, da una bambina diventata donna. Ero come… un ricordo, ecco. Bello, semmai, e anche divertente. Ma sempre come una stella di fumo che si dirada alla luce di un mattino pigro.

Ero… inutile.

I miei amici erano sempre tali, ma erano lontani, perché la loro quotidianità non era più la mia. Ed anche Dean era terribilmente lontano…

Per questo, io non mi ero innamorata di lui. Dean apparteneva a quel mondo, da cui ero stata cacciata.

Dean, senza volerlo chiaramente, mi faceva sentire inutile.

Il giorno in cui ci siamo lasciati, il giorno in cui ho accettato questo lavoro… e non c’entra Malfoy, perché poteva essere qualsiasi tipo di lavoro, purché fosse più dell’occupazione di una mezza giornata in modo da proiettarmi davvero nel mondo dei babbani… io ho ricominciato a vivere. E a sentirmi utile.

Il posto nel mondo, è la coscienza che ciò che fai serve a qualcosa o a qualcuno.

Preoccuparmi per il Tourquoise Party, essere attenta che tutto andasse bene al Petite peste, fare il mio lavoro al meglio possibile… e poi intenerirmi per Serenity, ridere con April e Seth, arrabbiarmi con Summer e Malfoy… mi avevano ridato una dimensione. Un tempo e uno spazio mio, solo e soltanto mio.

E che non aveva nulla a che fare con la magia.

E con loro, fa male ammetterlo ma è così.

Posso ora dire loro che sono preoccupata che gli ospiti non si divertano? O che facciano una foto a Malfoy? O che Serenity peggiori improvvisamente? No, è la secca risposta. Loro mi risponderebbero scrollando le spalle, perché hanno problemi diversi. E questi per loro sono piccoli e stupidi. Piccoli e stupidi, come i babbani. Perché, dentro, questo è quello che pensano.

E ora, con i loro visi sconvolti, con la domanda tacita che leggo sulle loro fronti, sul perché io preferisca questo piuttosto che essere il Capo degli Auror, loro continuano a portare quei due aggettivi attaccati a questa situazione.

Solo che faticosamente, ora, si rendono conto di dover attaccare anche a me le parole piccola e stupida.

Cosa perfettamente leggibile in faccia, mentre Harry mi dice, la voce assolutamente sgomenta: “E’ per la vicenda di Malfoy, vero?”.

“Cosa è, la vicenda di Malfoy?” chiede arrogante Ron, guardando Harry in cagnesco. Se sapesse che Malfoy è persino in questa stanza adesso…

“Nulla che ti riguardi…” mormoro tagliente, orgogliosa di non dover spiattellare tutta la storia, poi proseguo soddisfatta dalla faccia piccata di Ronald: “… e comunque, Egregio Ministro, la risposta è sì…”.

“Non ci credo che stai facendo tutto questo per… lui…”. La voce di Harry accentua con disgusto l’ultima parola, il suo volto che si gira ostinato da una parte all’altra della sala quasi lo stesse cercando nella folla sterminata di persone che ci circondano e che ballano allegre. E persino nel buio illuminato a tratti dai fasci di luce azzurra, vedo i suoi occhi fiammeggiare e, solo per un attimo, sto per dargli ragione, riavverto l’odio atavico per Malfoy nelle sue iridi e quella molla più forte del sangue che mi spingeva a volerlo vedere soffrire in modo lancinante ogni volta che lo incontravo. Ma, strano a dirsi, mi si spacca dentro qualcosa a ripensare così di Malfoy, e mi provoca nausea al cuore, l’immagine di lui che culla piano Serenity nella mia testa che stride con quell’odio. Che ormai non è più mio.

“Non lo faccio per lui…” sussurro piano, il volto basso e le lacrime che mi offuscano la vista, mentre ancora mi sento miglia e miglia da loro. Non condivido più nemmeno i loro sentimenti.

Cosa resta allora?

Sollevo di nuovo il viso: “… lo faccio solo per me… e semmai un giorno tornerò, gli assassini di Narcissa e Lucius Malfoy saranno i primi a fare i conti con me…”.

“Auror, come te… stai parlando forse anche di tuoi amici, lo sai?” mi chiede Harry furibondo, le mani che si stringono convulsamente, un’espressione cattiva. Ginny ammutolita li preme un mano sull’avambraccio, guardandomi scioccata ed inorridita. Ron tace e Lavanda ovviamente annoiata, guarda i ballerini nella sala, forse smaniosa di unirsi a loro.

“Lo so perfettamente e non mi interessa…” la mia voce mi sembra quella di un’altra persona. Mai è stata così dura e lapidaria nel parlare con Harry… mai… la mia voce si addolciva senza che lo volessi, anche quando lo rimproveravo per i compiti non fatti oppure per la sua imprudenza. Guardavo i suoi occhi e mi si stringeva il cuore, e la mia voce calava di tono e diventava più soffusa e calda, meno fredda e arrabbiata. Qualsiasi cosa avesse fatto, io lo perdonavo sempre. Ma ora… no… perché stavolta lui mi ha tradito… davvero… e stavolta mi ha portato via la sola cosa che, nonostante tutto, quando ero nulla, polvere che reclamava l’universo da cui era bandita, mi aiutava a non perdermi nel vento…

Soggiungo velenosa: “Forse per alcuni sarà anche un bene che io non ritorni mai… perché se dovessi farlo, quella sarebbe davvero la prima cosa che farei…”.

“Non ci credo che stai dicendo cose del genere…” commenta alla fine Harry, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi con aria rassegnata “Non sembri più tu… ma alla fine, la vita è tua… e se vuoi rovinartela, sei liberissima di farlo…”.

Trattenendo le lacrime alla durezza delle sue parole, annuisco con un: “Infatti… lieta che tu l’abbia capito…”, i miei occhi vagano anche sugli altri, escludendo ovviamente Lavanda che tutto sta facendo tranne che badare a me, e bisbiglio leggermente, tentando di tenere la mia voce ferma e immobile: “E la cosa vale anche per voi…”.

Fa male… un male atroce… i loro visi che mi guardano come se fossi un’estranea. E mi sento sola, terribilmente.

Ma la mia forza è sempre stata questa, andare contro tutto e tutti pur di seguire le mie idee e i miei pensieri.

E questa non sarà sicuramente l’ultima volta.

Soffrirò, starò male, piangerò sulle cose perdute, ma almeno i conti con me stessa torneranno sempre. Per una persona come me, affamata di coerenza, verità e giustizia, questa è sempre la cosa più importante. Scrollate le spalle, andrò avanti lo stesso.

Anche se stavolta sarà maledettamente difficile, anche se stavolta sarò più sola delle altre volte… e ripensandoci, quasi vorrei tornare indietro, chiedere davvero che ci fanno qui, che cosa hanno fatto in questi mesi, quante volte hanno riso senza di me e hanno pianto lacrime fuggevoli e rapide. Perché stare con sé stessi non è poi mai una grande compagnia.

E so che mi mancheranno come l’aria, in questo momento che ora ha solo l’aria e il sapore dell’addio.

O dell’arrivederci.

Ma di un qualcosa così logorante e straziante che darei di tutto per non viverlo… ma lo vivrò, e purtroppo so già che non dipende da me.

Perché Harry è già andato via, prendendo a spallate la folla e aprendosi un varco. Perché Ron ovviamente l’ha seguito con una sollevata Lavanda. L’unica che resta di fronte a me, come sempre, è Ginny. Si stringe nelle spalle e si mordicchia incerta il labbro inferiore, lei che è sempre stata la più forte di tutti noi. Tra i due aneliti che la spingono in direzioni opposte, per ora sceglie me.

E le sono eternamente grata.

Mi si avvicina e mi abbraccia di slancio, il mio cuore che si fa piccolo piccolo mentre mi dice: “Spero che tu sia felice, Herm… non volevo intromettermi…davvero… siamo solo venuti per vedere come stavi, e per dirti che forse esisteva una possibilità di lavoro anche senza magia, al Ministero…”. Non ribatto, perché chiederle di che cosa si tratti sarebbe molto incoerente al momento, nonostante sia molto curiosa. Ma alla fine non mi interessa… un’altra mia precipua caratteristica è che se decido una cosa, quella è.

Si stacca da me con un sorriso triste, per poi dirmi: “Non ti capisco fino in fondo…e lo sai… ma mi sforzerò… so che alla fine lo farà anche Harry… se questo ti rende serena, segui il tuo cuore… io ti appoggerò sempre…”.

“Grazie Ginny…” riesco a mormorare, una lacrima solitaria che mi scende dagli occhi, imbevendosi di mascara.

Lei sospira e sorride, per poi dirmi con un occhiolino: “Non piangere… altrimenti, tutti gli ospiti penseranno che sei una pessima padrona di casa…”.

Rido leggermente, asciugandomi gli occhi, sospirando: “Magari fossi io la padrona di casa…”.

“In effetti, le decorazioni non mi sembravano molto da te…”.

“Troppo raffinate?” chiedo con un sorriso, inarcando un sopracciglio.

“No, credo che le decorazioni in generale non siano da te…” ride lei, trascinandomi nella sua allegria e costringendomi a ridere a mia volta “Hermione Jane Granger… e le feste… sono due assiomi ben distinti…”, la sua risata si spegne repentina assieme alla mia, mentre soggiunge triste: “… ma alla fine sembra che tutto sia destinato a cambiare…”.

Annuisco con il capo, non riuscendo a dire altro. Le parole mi si sono impastate in bocca, un sapore così sgradito e dolceamaro da lasciarmi stordita. Un sapore che sa solo di rimpianto e di ricordi perlacei, che splendono baluginanti nel buio della mia mente. Quando ogni cosa è conclusa, quando tutto sembra essere finito, ti resta sempre un minimo istinto di sopravvivenza quasi… e non vorresti aver detto quello che hai detto, fatto quello che hai fatto, pensato quello che hai pensato. Ti dici che non interessa nulla, basta che tutto torni come prima, basta poter tornare indietro, basta questo… e, nonostante tra le dita, vedi il tempo passato che ti scivola come sabbia scura, davvero tenti di riafferrarlo.

Ma se liberi certe parole e certi pensieri, essi non ritorneranno mai indietro.

Anelata la libertà per millenni, non si faranno mai più catturare da te.

Mentre abbraccio ancora Ginny e la vedo andare via tra la folla, una pesante sensazione di freddo tra le membra, mi chiedo davvero lo scotto di ogni mia azione nel corso degli anni. Forse, se talvolta fossi stata zitta, se avessi fatto buon viso a cattivo gioco, forse…

Ora sarei più felice.

Non lavorerei qui, per dirne una. Non è una tragedia, alla fine, ma averlo evitato sarebbe stato meglio.

Starei ancora con Dean e, che lo amassi o no, ora questo mi sembrerebbe un miracolo… Dio, quanto ancora mi manca… alla fine, due anni uno non li scorda così, ed è uno stillicidio continuo di ricordi, gesti, sensazioni, particolari che, senza nemmeno accorgermene, sono diventati miei ma che in origine erano suoi… anche se, qualora fossi stata diversa, forse ora starei ancora con Ron, altro che Dean.

Non ci sarebbe stata Lavanda accanto a lui, a toccargli il sedere con prepotenza… ma io, forse a ridere e a scherzare come non ho più fatto in vita mia… sarebbe bastato chiudere gli occhi alla sua scappatella, fare finta di nulla, oppure perdonarlo… e magari quella storia sarebbe finita com’era nata, e lui sarebbe rimasto con me.

Sarei ancora una strega, lo stimato ed integerrimo capo degli Auror, e io e Draco Lucius Malfoy saremmo ancora due illustri sconosciuti.

Sospiro, e Ron non sarebbe quella sottospecie di caricatura di Men’s Health che ho appena visto…

Chissà come sarebbero andate le cose, allora… forse la parte migliore, alla fine, è che io non lo saprò mai.

Senza nemmeno accorgermene, ho attraversato la sala piena, intenta a ballare in modo convulso, almeno qualcuno si diverte stasera… bah, alla fine non era una clausola espressa che io mi divertissi, anzi… mi sembra che vada tutto bene, quindi posso eclissarmi per qualche istante. In fondo, Malfoy non lo vedo, Seth sta ballando come un pazzo con April, Lorna e Corinne sono a loro posto… e Gail, bè, sembra perlomeno intenta a servire un cliente. Preferisco non sapere che sta pensando quel pover’uomo.

Devo solo prendere un po’ d’aria e mi sentirò meglio, effettivamente fa troppo caldo qui…

Attraverso la sala a lunghi passi, fino alla terrazza, la cui porta finestra è coperta da una tenda leggera di tulle azzurro, mossa come una medusa dal vento di questa sera fresca di inizio estate. L’impatto con l’aria fresca mi fa rinsavire subito, come acqua ghiacciata sul viso, e chiudendomi alla fine la porta alle spalle, faccio qualche passo incerto, prima di appoggiarmi con sollievo alla ringhiera. Chiudo gli occhi, la carezza del vento sulla pelle, concentrando ogni fibra del mio essere per trattenere il pianto che mi sta già venendo fuori a singhiozzi. Mi mordo il labbro inferiore con ferocia, come facevo durante gli addestramenti contro il Cruciatus, anche se quel dolore mi sembra persino piacevole al confronto con questo. Sento il petto squarciato, come se avessi una ferita che mi dilania la carne viva e vulnerabile, lasciandola esposta alla caduta di migliaia di cristalli di sale che l’infettano e imputridiscono costantemente.

Respiro ancora, cercando di calmarmi, ma la mia operazione si rivela perfettamente inutile alle parole che giungono alle mie orecchie dopo nemmeno cinque secondi scarsi. Il travaso di bile riprende esattamente dove l’avevo lasciato.

“Granger, che c’è? Batti la fiacca?” mi dice Malfoy con la sua solita voce delicata ed affabile. Lo squadro con aria truce, è appoggiato con la schiena  alla balaustra, e mi fissa con un sorriso di scherno. Ovvio, deve avermi visto parlare con i miei amici, per lui deve essere stato come Natale, San Patrizio e Guy Fawkes arrotolati in una serie di pochi minuti. Quanto non lo sopporto, vorrei ucciderlo davvero con le mie mani, scommetto che mi ha seguito apposta. Oddio, la mia mente mi soggiunge timida che la sua posa è evidentemente di una persona che ci stava qui prima di me e che non ho sentito nessuno riaprire la porta, ma me ne frego!! Ci manca solo che anche il mio cervello si metta a fare l’avvocato del diavolo! E Malfoy con quel personaggio c’ha molto in comune; un paio di corna, un forcone e odore di uova marce, e siamo a posto!

Non mi dò pena di rispondere, cavolo una pausa me la posso prendere da questa vita di schiavismo appresso a lui! Ma nemmeno lui insiste, e ciò mi sorprende parecchio, lo guardo con la coda dell’occhio, mentre si volta e continua a guardare fisso lo scenario di Londra illuminata dalle luci artificiali di quella notte chiara e trasparente. Una notte buia, le stelle che splendono luminose, e la luna che invece non c’è. Forse non è ancora sorta.

Un brivido.

Ancora… mi stringo nelle spalle, eppure non è che faccia freddissimo, ma sto praticamente tremando.

“Granger, se ti ammali, io la malattia non te la pago…” mi soffia contro, anche se stranamente non mi sembra malevolo come sempre, ma quasi… gentile… bah, chi lo capisce è bravo… deve davvero servirgli una cameriera, altrimenti non si preoccuperebbe mai per la mia salute… odio ammetterlo, ma credo che alla fine seguirò persino il suo consiglio. Forse sarà meglio rientrare, ho un gelo dannato… i denti mi battono furiosamente in bocca, e mi strofino le mani sulle braccia, cercando di riscaldarmi. Ma che diamine, d’accordo che il vestito è leggero, ma tutto sto freddo…?!

A Malfoy le mie manovre ovviamente non sfuggono, e mi guarda incuriosito, inarcando un sopracciglio in chiara espressione di disappunto, per poi dirmi con voce insofferente: “Cavolo, Granger… non è dicembre… vattene dentro, no?”, poi guarda casualmente in basso e ribatte, sghignazzando: “… ma forse non è freddo, è per… loro, no?”. Indica con il capo in basso, dove si intravedono ancora nel buio di questa notte le sagome dei miei amici.

Le parole di Malfoy mi feriscono mortalmente.

È un attimo, come un cascata gelida che mi cade addosso.

Sgrano gli occhi, autenticamente terrorizzata, risentendo sensazioni che ormai non sentivo da anni. Guardo il cielo con terrore, lo scruto attentamente, mentre il dolore aumenta ad ogni minuto sempre di più. Lancinante mi fa gemere ed iniziare a piangere, le lacrime che scorrono veloci sul mio viso ghiacciato di sudore. Malfoy mi guarda, senza capire, ma non osa ancora fare un passo nella mia direzione.

È inutile che cerchi… la luna non c’è.

È una notte di luna nuova.

Continuo a tremare sotto lo sguardo esterrefatto di Malfoy, mentre la vista inizia ad annebbiarsi, come era prevedibile. Piangendo mi porto la mano sul ventre, le ginocchia che mi cedono e mi fanno cadere per terra.

Nella notte scura, il sangue che tinge il mio vestito e la mia mano sembra nero.

Come ho potuto…dimenticare… il novilunio?

I capelli zuppi mi ricadono a ciocche dalla mia acconciatura elaborata, finendomi in faccia, mentre continuo ad osservare immobile il sangue che continua a scorrere per terra. Forse Malfoy ora s’è n’è accorto, non lo so.

Sento l’eco di un “Granger?” nelle mie orecchie, ma viene coperto da un ronzio indistinto. E non so se è stato Malfoy o… lui

Quando sento un dito innaturalmente lungo e freddo sollevarmi il mento, e mi ritrovo gli occhi rossi di Voldemort addosso, capisco che è ricominciata ed è tutta colpa mia.

La mia maledizione…

Piango senza ritegno, mentre Voldemort mi squadra, leccandosi le labbra con la lingua da serpente.

“Ti sono mancato, eh, Mezzosangue?”.

 

Taddadà, ecco a voi un nuovo capitoletto… come vedete, è rimasto in sospeso in un punto assolutamente tragico… infatti il titolo che ho dato a questo capitolo, significa proprio “Turchese&Cremisi” ed è preso dal titolo di un album del gruppo Vast…insomma, giusto per specificare che non è un accostamento mio originale, ma che con la mia storia ci stava a pennello, come avete visto!!… Che sarà successo? Ebbene la risposta l’avrete nel prossimo capitolo!! In realtà, forse potreste sapere che è successo, perché l’ho accennato… vi lascio alle vostre deduzioni!!! J

Il prossimo capitolo sarà davvero importante, ve lo anticipo da ora… in quanto accadrà qualcosa che tutti stavate aspettando… chissà che cosa???!!! Anche in questo sono una tomba, quindi resto zitta!! Potrebbe essere qualsiasi cosa… lallalà, come mi piace essere perfida!!!

Prima dei ringraziamenti, ci tengo a fare un ANNUNCIO MOLTO IMPORTANTE!!!

Qualche giorno fa una delle mie fedeli lettrici, Cygnus Malfoy, ha creato un forum su questa storia, cosa che ovviamente mi ha fatto un enorme piacere e mi ha inorgoglito parecchio…!! Il suo indirizzo è http: // havealittlefairytale.forumcommunity.net ; siamo ancora agli inizi, ma ce la metteremo tutta; ovviamente tutti i lettori di questa storia, compresi coloro che non hanno mai recensito, sono invitati, anche solo per dirmi che ne pensano della storia oppure per formulare ipotesi sullo svolgimento della stessa, o ancora solo per chiacchierare un pochino!! Sarebbe anche gradito un aiuto nella gestione dello stesso, soprattutto per l’aspetto grafico! Mettete la mano sul vostro cuore… informatico!! :-)

Chiedo scusa di aver usufruito di questo spazio per parlarne, ma non sapevo come altro fare!!

Passo ai ringraziamenti:

Giuly 94 : ciao carissima!! Grazie dei tuoi complimenti!! Riguardo al motivo per cui Draco ci ha “provato” con la nostra streghetta, credo che la motivazione sia una somma di cose; Hermione, a mio dire, lo diverte con le sue reazioni assurde quindi ci ha provato gusto a provocarla un pochino, ma per come me lo sono immaginato io, lui nasconde gli interessi più puri dietro delle cose estremamente utilitaristiche. Quindi credo che, anche se ci godeva non poco a stuzzicare Hermione, si sarà detto che lo faceva per vedere se svolgeva al meglio il suo lavoro anche con un cliente molesto!! La canzone di Sagi è la mia preferita al momento…!! Quindi dovevo inserirla per forza… i nostri maghetti dovevano essere presenti!! Anche se come avrai letto, spero, questa volta, non è stato proprio un incontro idilliaco!! Un Bacio!!!

Nefene: la mia cara Chiara!! Non ti ho più trovato su msn, quindi spero che il tuo esame sia andato bene!! J Seth è un personaggio vitale in questa storia e nei prossimi capitoli, lo vedrai ancora di più, specie nel prossimo… eheheh!!! Come avrai letto, Hermione fa un passo avanti ed uno indietro, ammette che è legata a Draco e poi lo nega… così sta più tranquilla!! Ma ben presto finirà di scappare!! Davvero ti sono venuta in mente per un concorso di racconti? Me felice!!! J ne sono molto onorata…!!! Vorrà dire che mi dirai meglio i particolari!! Anche se ho qualche problema con le storie originali… eheheh!!! Un Bacio!!

Baby_san: grazie dei complimenti, ne sono davvero felice!! Il pensiero di Draco è sempre abbastanza cervellotico, ma un giorno saprete anche lui che ne pensa di tutto quello che sta succedendo!! Un bacio!!

Fra fri 95: wow, wow e super wow!!!!!grazie dei tuoi complimenti… !! il primo bacio, dici??? Chissà… J Hermione è facile da affrontare, perché davvero è simile a me per come l’ho concepita!! Quindi parlo di me e il gioco è fatto!! Un bacio!!

Seven: ciao carissima!!addirittura un capolavoro?? Me onorata!! Hermione effettivamente si scava spesso la fossa da sola e ci si getta allegramente dentro…! Nonostante tutto, è un periodo molto difficile per lei, quindi è normale che senta la mancanza di una persona importante come la mamma!! Chissà a chi stava pensando Draco??!! Ma ovviamente non lo avrebbe mai detto!! Seth è il mio eroe, anche perché è un personaggio solo mio, quindi gli voglio proprio bene!!! Per un giorno l’ho pubblicata a luglio! Spero che tu lo possa leggere!!! Un bacio!!

Cygnus Malfoy: ovviamente un bacio enorme alla mia amministratrice preferita!!! Grazie dei complimenti!! E grazie del duro lavoro che stai facendo con il forum!! :-D

Un bacio anche a Liven che mi ha lasciato un commento via mail!!

A prestissimo…

Cassie chan!!

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 13
*** Old curse and new charm ***


Capitolo 13 – Old curse e new charm

Capitolo 13 – Old curse e new charm

 

Dedico questo capitolo alle amministratrici del mio forum!! Grazie davvero di tutto il lavoro che state facendo!! Siete uniche!!

 

(nota dell’autrice: la parte iniziale, in corsivo, sono ricordi)

 

 

“La ferita è sicuramente grave, Hermione… non è una cosa da sottovalutare…”.

“L’avevo capito  quando non ha smesso di sanguinare, Ginny…”.

“Mamma mia, come sei suscettibile!”.

“Non sono suscettibile… sto semplicemente sottolineando una cosa…”.

“Allora visto che sei in vena di sottolineare… mi sottolinei come te la sei fatta?”.

“Ancora? Ma che palle!”.

“Quante più informazioni mi dai, meglio sarà…”.

“Ok… anche se mi sembra di avertelo già detto mille volte… stavamo distruggendo un Horcrux, si trovava sulla sommità di una statua enorme a forma di serpente… era uno dei rubini che facevano da occhi al serpente… non ricordo bene tutto, ma mi offrii di farlo io… perlomeno cercare di prenderlo. Harry e Ron chiaramente non volevano, si trattava di arrampicarsi lungo le spire di questa statua che alla fine credo che fosse alta una decina di metri, e riempiva tutta una caverna. Ma io fui irremovibile e dissi che lo volevo fare io… insomma, Harry ne aveva passate troppe ultimamente e Ron era stato appena ferito da un Mangiamorte… io ero quella che stava meglio…”.

“Ok, fino a qui ci siamo…”.

“Mi arrampico e arrivo alla testa, non so nemmeno io come, visto che sono sempre stata una schiappa in ginnastica… intanto ci arrivo… allungo la mano verso gli occhi, considerando che sono in equilibrio sulla bocca aperta del serpente non è un’operazione facile… appena li tocco, il serpente si anima e si scuote… non so effettivamente come mi venne in mente di non usare la magia per arrivarci, ma non so… pensai che Voldemort era uno dei più grandi maghi al mondo, sicuramente aveva previsto una serie di contro incantesimi… ma forse, come sempre, aveva ignorato i sistemi più semplici, quelli dei babbani… ma, evidentemente mi sbagliavo…”.

“Sei stata molto imprudente…”.

“Lo so, Ginny… ma che ci vuoi fare? Le avevamo provate tutte per far schizzare via quel rubino, stanchi come eravamo, non sembrava l’idea stupida che sembra adesso… e poi, fossi stata un pochino prudente, forse quel viaggio nemmeno l’avrei intrapreso…”.

“Vero… quindi il serpente si anima, e poi?”.

“Ovviamente credo di precipitare, e forse sarebbe stato anche meglio… ero in equilibrio sulla bocca, e mi artigliai ad una delle narici piatte del mostro. Continuava ad essere di gelida pietra, ma rantolava e era scosso da tremori. Harry e Ron cercarono di tirarmi giù con degli incantesimi, ma erano troppo lontani, e io non riuscivo a prendere la mia bacchetta. Furono solo pochi secondi e il mostro divenne un autentico serpente. Sotto le mie dita, la pelle era diventata ancora più gelida, ma squamosa e ruvida. Il suo respiro maleodorante e umido mi fece mollare la presa… stavo per cadere, ma…”.

“Ti afferrò con la bocca?”.

“Già… decisamente non un’esperienza piacevole… nemmeno fossi stata un topo…”.

“E allora?”.

“Riuscii ad evitare che mi facesse troppo male, lanciandogli una fattura agli occhi, ora che avevo le mani libere… ma mentre cercavo di saltare giù, nella follia dell’accecamento, mi colpì allo stomaco con uno dei suoi denti, pieni sicuramente di qualche veleno… mi colpì di striscio. Persi lo stesso molto sangue,, ma credo che così uscì anche la maggior parte del veleno… e da lì questa ferita. Sono stata fortunata, lo so… con il Signore Oscuro non si scherza. Dubito che, se  mi avesse preso più profondamente, sarei ancora qui a raccontarlo… riuscimmo a scappare, ma la ferita era grave. Non smetteva di sanguinare, e quel che peggio è che avevo terribili visioni…”.

“Cosa, vedevi? Voldemort?”.

“Sì… cercava di ferirmi o di… insomma, di farmi cose non belle … e il peggio era che ero sempre presente a me stessa… diceva che dovevo arrivare a maledire la mia mente, quella che aveva sempre fatto fallire i suoi piani contro Harry… quindi ero sempre cosciente e sentivo il dolore triplicato…”.

“Non piangere, su…”.

“…”.

“Quando smise di sanguinare, poi?”.

“Non ha mai smesso… si attenuò leggermente, grazie alle cure di Lupin… ma continuava sempre… come le visioni… ora, le visioni sono quasi passate, solo qualche residuo nei sogni… ma perdo sempre sangue…”.

“Capito… allora ne ho parlato con Lupin… è una maledizione potentissima, fatta con il veleno modificato del Basilisco… l’effetto è quello di provocare una ferita perenne e di scatenare delle tossine nell’organismo che mandano in cortocircuito il sistema nervoso, aumentando l’adrenalina e la sensazione di paura…”.

“Consolante”.

“Il problema è che non ha cura… nel senso, tu dovresti essere già bella che morta…”.

“Consolante, di nuovo…”.

“La tua fortuna è stata che il veleno non è penetrato troppo profondamente, quindi la portata dell’emorragia non è letale come sarebbe dovuta essere. E le visioni sono ridotte per lo stesso motivo… ovviamente l’andamento sarebbe sempre ciclico… e alla fine dopo anni e anni, avrebbe sempre lo stesso effetto… indebolirebbe il tuo fisico e la tua mente al punto di ucciderti…”.

“Ginny, una delle tue migliori qualità è quella di essere sempre molto consolante…”.

“Smettila… se sto così tranquilla, è perché abbiamo trovato una soluzione…!”.

“Grande…! Sei una Medimaga eccellente!”.

“Con tutte le ferite che in guerra ho dovuto curare, sarebbe diventata tale anche Calì Patil…”.

Calì? Sì come no… avrebbe messo delle bende rosa fluorescenti a tutti i pazienti…”.

“Possiamo tornare alle cose serie?!!”.

“Con molto piacere… Calì che cura le ferite non è una visione affascinante per la mia psiche…”.

“Lasciamo perdere… allora con delle analisi abbiamo scoperto che questa maledizione non funziona con i lupi mannari… il meccanismo di trasformazione di questi esseri arresta il veleno e le tossine, basandosi sulla produzione di una proteina che blocca la produzione eccessiva di adrenalina dalla midollare del surrene... questa proteina, per fartela breve insomma, blocca l’eccesso di adrenalina nella trasformazione in lupi mannari, impedendo che l’organismo ne sia intossicato e danneggiato; in tal modo, ferma anche il veleno del Basilisco o di tutte quelle tossine che producono un incremento adrenalinico… mi segui?”.

“Sì, sì…”.

“Questa proteina reagisce alla luce della luna, cioè alla causa della trasformazione in lupo mannaro… assumendola costantemente, tu dovresti riuscire a bloccare quel meccanismo… non sarà necessario assumerla sempre, ma farai solo un trattamento per qualche settimana in modo che il tuo corpo la produca da sola…”.

“Che bello, anche mezza lupo mannara devo diventare…”.

“Ma non dire sciocchezze… è una proteina che nel corpo umano esiste già, ma che non è prodotta in così grandi quantità… noi ne indurremmo solo una produzione maggiore… c’è solo un incognita… è dipendente dalla luna, quindi può darsi che nel novilunio tu abbia un calo notevole di questa… e quindi il veleno riprenderebbe tutta la sua pericolosità…”.

“Muoio di luna nuova, quindi?”.

“No che non muori di luna nuova… ma dovrai assumere una pozione con quella proteina…in funzione preventiva, la dovrai prendere di mattina nel primo giorno del novilunio, altrimenti il veleno riprende ad agire… è molto importante, Herm… se ci fosse un calo troppo importante, il veleno agirebbe in maniera troppo potente da poterlo fermare… ci sarebbe un’emorragia tale da farti morire in pochissimo tempo, probabilmente riprenderebbero le visioni… ed anche darti la pozione allora, sarebbe inutile… l’organismo non farebbe in tempo ad arginare la recrudescenza improvvisa del veleno… dispererei di salvarti, allora…”.

“Capisco…”.

“Nessun altra battutina?”.

“Pensavo ad una cosa…”.

“Cosa?”.

“Esisterà qualcosa a questo mondo che Voldemort non ha avvelenato con la sua sola esistenza?”.

Oggi c’è il novilunio. E la ferita ha ripreso a sanguinare.

Ma in maniera maggiore, perché chiaramente io oggi non ho difese.

La luna non c’è… come ho fatto a dimenticarlo?

La data che vedevo su quei fogli, la sensazione di stare dimenticando qualcosa… era la pozione. Possibile che, per la prima volta da anni, avessi la mente occupata al punto tale da scordare l’unica cosa da cui dipende la mia stessa vita?

No, non è così. E io lo so.

È che mi ero scordata di essere pur sempre una strega, nelle profondità di me stessa.

Di avere una ferita magica sull’addome.

Di poter avere delle visioni dove un mostro dalle fattezze serpentine tenta di farmi il peggio possibile.

Mi sono sentita, per pochi e leggerissimi istanti, una babbana.

E ciò esulava quindi da qualsiasi connessione logica con la magia e quello che di negativo ha portato nella mia vita.

Sono inginocchiata per terra, tentando di tenere questi pensieri razionali nella mia mente, per impedire che le visioni prendano il sopravvento. Accasciata come sono, però, già mi rendo conto che non sento più le voci concitate degli invitati, né la musica, né tantomeno la voce di Malfoy, che dovrebbe essere nelle vicinanze. Non sento nulla, se non un respiro affannoso. So che è solo un’allucinazione, ma è più reale di ogni altra cosa mai esistita. Attorno a me, un manto buio di silenzio e tenebra.

Solo il baluginare sinistro di occhi rossi… ed un respiro affannoso.

Non ho mai detto a nessuno che mi faceva Voldemort, in quelle visioni. Non era necessario.

Erano visioni orribili causate dal veleno, ma non erano reali. E tanto bastava.

Solo io so che cosa accadeva, e il terrore che provavo, perché, anche se non erano reali, la tangibilità delle stesse era inquietante. Il cuore che mi batteva feroce in petto, il dolore che non andava più solo dalla ferita, ma mi prendeva i capelli, le dita, le unghie. Come se tutto il corpo bruciasse, e la mia mente, sempre presente, aveva tutto il tempo di capire che stavo per morire. Avvertivo l’agonia e il futuro che marciva con me. Ma fosse stato solo questo… sarebbe andato anche bene…

Voldemort, con quel veleno, materializzava le tue peggiori paure. Ti metteva in balia delle stesse, lasciando che fossi tu da solo ad impazzire.

Io temevo di restare sola. Quindi, il silenzio.

Io avevo paura di non avere più alcuna certezza. Quindi, il buio.

Io temevo che Voldemort non mi lasciasse mai in pace. Quindi, lui c’era.

Ma io temevo, sopra ogni cosa, il giorno in cui mi avrebbe potuto catturare. Mi avrebbe ucciso? Certamente… ma stranamente, a me la morte mi ha fatto sempre paura sì, ma mai come altro.

Come…come… la mancanza di amore.

Strano a dirsi, per me, che sembro così cinica, disillusa e assolutamente indifferente all’amore.

Ma io di esso ci vivo, dell’amore per la mia famiglia, per i miei amici e per il mondo tutto. Io, nonostante tutto, ho sempre fiducia nell’uomo e nella vita.

E nell’amore, in quell’amore che è una legge universale, più grande di qualunque altra…L’amore che impietosisce e che muove il mondo.

L’assoluta mancanza dello stesso, della passione che muoveva i miei piedi e le braccia, della molla a fare qualsiasi cosa… io la temevo sopra ogni cosa. Temevo la mancanza dell’amore nella mia vita.

Temevo il giorno in cui i miei occhi sarebbero stati a contatto con quelli dell’essere che non ha mai amato nessuno nella sua vita. Che non sa cosa sia quel sentimento. E la sola cosa che in quella concezione lui avrebbe potuto farmi, peggio della morte, era solo una.

Singhiozzando, sento le sue dita lunghe afferrarmi i polsi e spingerli indietro, artigliandomi al pavimento. Non di nuovo, non di nuovo…!

Ride, ma io non lo vedo, solo occhi rossi affamati come di belve che si scagliano su di me.

Il suo peso addosso mi leva il fiato, e la ferita brucia ancora più forte; piango ostinatamente, cercando di divincolarmi, mentre la sua lingua raschia sul mio collo. Sento un morso ledermi la pelle della spalla, e so che è un’illusione, ma sento la testa spaccata a metà dal dolore.

Tremo con tutte le mie forze, mentre mi solleva con foga la gonna di tulle, continuando a leccarmi ovunque.

La paura mi uccide peggio del dolore.

Non posso sopportarlo un’altra volta.

I pensieri mi sfuggono come carta bruciata dalle mani, solo se li tenessi fermi, forse, potrei escludere almeno le visioni. Ma sono anni che non sono colpita da questa… cosa… e non ci riesco, non ci riesco. La disperazione mi fa solo piangere, e alla fine abbandonare alla violenza che quella bestia sta per usare su di me… ancora una volta… e, con una punta quasi di allegria, penso che tra poco sarò morta… quindi sarà tutto finito… perlomeno, questo… dovrebbe finire…

Un lampo.

Squarcia le tenebre attorno a me, assieme al silenzio ovattato che non mi faceva sentire nemmeno i miei singhiozzi, ma solo l’ansimare di Voldemort. Sparisce anche lui, il mostro, in una nuvola di fumo iraconda. Sento di nuovo freddo sul viso, e il bruciare del sangue sulla mia pelle.

Il lampo illumina a giorno la mia testa, quasi con dolore, e mi sento ritornare alla vita, e fa male, terribilmente.

Poi la luce si dissolve, e sono di nuovo nella notte buia di Londra. Il dolore all’addome non ha mai smesso, e sento la debolezza chiudermi gli occhi. Qualcosa mi solleva dai fianchi… mani…calde… mani calde e salde, che mi sollevano senza sforzo alcuno.

In un lampo di lucidità, mi rendo conto che non mi è mai successa una cosa simile.

Che qualcuno… o qualcosa… mi salvasse… cosa è?

Apro gli occhi piano, e penso un angelo?

“Granger?” la voce di Malfoy suona dolcissima nelle mie orecchie, dopo il sibilo affannoso di Voldemort.

È lui che mi tiene tra le braccia. Le sue mani le sento sulla mia schiena nuda, mi tiene ferma e salda, le braccia che mi cingono dolcemente sui fianchi. Sento che potrei cadere all’indietro, ma lui mi tiene ferma… e non mi sento più persa…

“Come hai fatto?” chiedo con un sussurro, non sapendo bene che sto dicendo. I suoi occhi nei miei scintillano per un attimo, poi li vedo più calmi, una tempesta che si placa all’improvviso.

Sento qualcosa impadronirsi delle mie membra, pesantezza che minaccia di farmi schiantare al suolo, e gli occhi…non riesco a tenerli aperti.

Posso riposarmi un po’, adesso?

Sento la sua mano calda sul mio viso gelido darmi un colpetto: “Granger, cavolo, svegliati…! Questo sangue… da dove viene? Guardami, dannazione! Granger, mi devi guardare, adesso, chiaro?”.

Non rispondo, sono così stanca…

La sua mano risale dietro la mia nuca, tenendomi più vicina al suo volto, o perlomeno io, con gli occhi chiusi, sento il suo respiro bollente sul mio viso. È mai stato così vicino a me? Un sospiro, un solo minuscolo sospiro, per lui che mi regge con una forza che non sapevo potesse esistere.

Un sospiro… prima di dire…

“Hermione…” ed è un brivido lunghissimo, incandescente, che sembra quasi svegliarmi. Hermione.... il mio nome… mi hai chiamata per nome… sto morendo, davvero, allora?

Spalanco gli occhi, e lui è ancora lì, e mi chiedo se sia una visione o se sia vero, ma so che Voldemort non mi punirebbe mai con questo.

Perché è… bello, il suo viso che è così vicino al mio, il mio naso che quasi sfiora il suo. Il suo viso è… bellissimo, cielo, Draco è bellissimo.

Siamo qui in una terrazza, e se non fosse per il sangue che continua a gocciolare, sembrerebbe che stiamo ballando e ora siamo impegnati in un complicato casquè, lui che mi cinge tra le braccia e io che scivolo indietro, i nostri visi che si toccano quasi.

E vedo per la prima volta tutti i particolari che il nostro odio mi ha impedito sempre di mettere a fuoco.

Una cicatrice sul sopracciglio sinistro. Una fossetta quasi buffa sul mento. L’attaccatura dei capelli alta. Il ciuffo di capelli biondi che costantemente gli copre la fronte. Gli occhi grigi, che sono sempre un po’ tristi, e che guardano sempre con un velo di malinconia ciò che lo circonda, come se temesse sempre di perderlo. E ora la sua espressione è preoccupata e triste, e non so perché mi stringe il cuore in una morsa più dolorosa di quella che questa dannata ferita mi sta provocando.

Sei preoccupato per me?

“Hermione…” ripete ancora, guardandomi fisso negli occhi, argento fuso che mi avvolge in una malia senza sosta “Cos’è questo sangue? Perché chiamavi Colui che non deve essere nominato? Guardami… rispondimi… per favore…”. Una preghiera, ecco cos’è.

Nei suoi occhi, eco di morti che ha già visto… non so come faccio a saperlo, da dove mi viene questa consapevolezza, come distinguo la tempesta del suo sguardo imperversare furiosa di una sinistra abitudine.

Ha visto tanta gente morire… chi hai tenuto tra le braccia, mentre moriva? Chi ancora muore ogni giorno nelle tenebre dei tuoi occhi?

Apro la bocca e la mia voce suona come un pigolio incerto: “Una ferita di guerra… non ho preso la pozione… Ginny, devi chiamare Ginny…”, uno spasmo mi fa trasalire e tremare, e mi sento svenire. Lui mi stringe più forte.

“Dannazione…” mormora, stringendomi e tenendomi in piedi per quanto ci riesca “Dov’è cavolo è la Weasley?!”.

Senza forze, appoggio la fronte sulla sua spalla e mi sento calma, nonostante so che sto per morire. Il suo profumo è così dolce e intenso che mi sento ubriaca, oltre che moribonda.

Mi stacca bruscamente il viso da lui, tenendolo tra le mani, e mi dice, un’onda di panico nella voce: “Hermione, devi restare sveglia, capito? Non ti addormentare…”.

“Sono stanca… tanto…” sospiro distrutta, poi soggiungo con un sorriso “Sarà che tu mi tratti come una serva…”.

Sorride tristemente, sussurrando con un filo di voce: “Esagerata come sempre… ora cerca di stare sveglia, ok? Trovo quella piattola e ti sistemo…”.

“Non sono una bambola rotta, Malfoy…” sorrido quasi arrabbiata. Ad un passo dall’inferno, ne ho ancora la forza.

Non ha nemmeno il tempo di fare un passo che sento un tramestio di passi alle nostre spalle. Malfoy mi stringe stretta a sé, e capisco che sta cercando di nascondere il davanti del mio vestito, completamente ricoperto di sangue. Il tremore negli occhi mi impedisce di vedere chi si tratta, e nemmeno potrei dato che Malfoy è più alto di me e non riesco a vedere oltre la sua spalla. Vedo solamente la tenda muoversi piano, e la portafinestra restare aperta. Le voci e la musica, nelle mie orecchie, mi sembrano innaturalmente forti, serro gli occhi per il fastidio.

“Danny! Sai dov’è Herm?”. Eccolo là, dovevo immaginarlo…Seth… se mi vede, è la fine… nessun medico babbano può guarire questa ferita e a questo punto dubito anche che possa un mago. Ma si scatenerebbe il panico, penserebbero ad un omicidio o a chissà che cosa… alzo lentamente lo sguardo sul viso di Malfoy, leggermente pallido, e che dà volutamente di spalle alla porta.

Non mi interessa cosa penserebbero di me. Se mi scoprissero. Ma… lui…

Lui… lui sarebbe finito… attirerei troppo l’attenzione su di lui…

Chiudo ancora gli occhi con un gemito, cercando di nascondermi.

La sto facendo a pezzi la tua vita… giorno per giorno… perché sono venuta qui?

E perché sono rimasta?

Scende piano una lacrima dai miei occhi, mentre mi sento tremendamente in colpa; Malfoy ovviamente non risponde, sento solo la presa sulle mie braccia farsi più stretta, quasi violenta.

“Maledizione…” mormora a bassa voce, guardando dritto davanti a sé, quasi con cautela “Mai che capisce che sono occupato…”. Sorrido, nonostante tutto, e stranamente in pochi secondi vedo passare nelle sue iridi chiare un fascio di luce, come di consapevolezza e risoluzione. Abbassa lo sguardo su di me, tento di tenere ancora gli occhi aperti, sonno incombente che mi grava le palpebre.

Mi guarda quasi con curiosità, come se mi vedesse dentro, peggio di un foglio di carta bianca messo in controluce. Il suo sguardo lo sento fin dentro alla testa, intento a scrutare ogni mio pensiero.

Sto per chiedergli che ha, improvvisamente la presa delle sue mani si fa feroce sulla mia schiena.

Mi fa male, ma gli sono quasi grata perché mi distrae dal dolore della ferita, che ogni tanto mi assale e mi tramortisce.

Ormai dispero di potercela fare. Stiamo perdendo troppo tempo.

Ma è consolante stare in questo abbraccio che non è un abbraccio, che non ha amore o affetto… ma che almeno non mi spezzerà il cuore quando finirà… vorrei solo non causargli troppo, ecco, fastidio…

Bisbiglio piano, recuperando forze dagli anfratti di me stessa, il dolore che minaccia di farmi perdere ogni capacità cognitiva… darei tutto perché finisse…quindi questa domanda non è per me, ma è solo per lui, per difendere quella vita finta e spensierata che si costruisce passo dopo passo.

“Che facciamo?”.

Mi stringe ancora più forte, se possibile, la voce di Seth che lo chiama ancora.

Una luce quasi cattiva negli occhi, aggiunge: “Semplice… fingo di essere occupato…”.

Non capisco che cosa vuole dire, evidentemente sto davvero morendo… ma credo che non l’avrei capito nemmeno in possesso di tutte le mie facoltà celebrali. È difficile capire che cosa passi nella sua testa, e questo l’abbiamo bello che appurato…

Quello che so, è che sento le sue braccia attirarmi forte a sé, tirarmi con una violenza tale che per il contraccolpo la fascia di raso che mi teneva i capelli, scivola via. Gli opali che ho per orecchini, mi sbattono sulle guance con forza, e per un attimo temo che si siano rotti.

Ma… subito… la mia mente si svuota.

Perché Draco Lucius Malfoy mi sta baciando.

E non come si bacia una vecchia zia in visita o una nipotina diligente… no… anche allora mi sarei decisamente scioccata, ma non sarebbe mai come adesso. Perché mi sta baciando come un uomo bacia una donna, ed è così assurdo che sento ogni mio pensiero scivolarmi via da sotto il naso. Se qualcuno me l’avesse detto anni fa, probabilmente sarei corsa nel bagno più vicino a rimettere tutto il porridge mangiato a cena. Mi avrebbe fatto schifo… e ora che mi fa provare? Che sento?

La vista annebbiata, vedo i suoi occhi chiusi, le unghie che affondano nel tulle del mio vestito in quello che è un bacio senza amore e senza senso. Un bacio violento, fatto solo per difendere sé stesso. Un bacio muto e doloroso.

Sto piangendo. Ogni lacrima è uno sforzo enorme per il mio fisico debilitato, ma non posso impedirmelo. Questo bacio che sa solo di lacrime e basta, il sapore del sale in bocca che copre quello di Malfoy che non riesco nemmeno a sentire, le labbra premute sulle mie con una prepotenza tale da farmi solamente male. Vorrei correre, piangere e gridare, ma non ci riesco, la sua forza è mille volte maggiore della mia, sono pur sempre una ragazza, senza bacchetta e con uno squarcio sanguinante nell’addome.

Mi sento debole, ed è orribile.

Non ho più alcun potere su me stessa e sulla mia vita.

Lo odio come non mai adesso, vorrei scansarlo e non ci riesco; lo odio come tutte le cose che mi vengono imposte e che non scelgo. Lo odio come questa ferita che continua a sanguinare, lo odio come il tradimento di Ron, lo odio come la partenza di Dean, lo odio come l’immagine di Voldemort nel mio cervello che si ostina a non andare via. Ed è un odio diverso da quello che ho sempre provato per lui… un odio strano, irrazionale, come io non sono mai.

Razionale, era odiarlo perché lui mi chiamava Mezzosangue.

Irrazionale, è odiarlo perché mi sta baciando e perché così vuole allontanare Seth.

Ma Malfoy ha la capacità di rendermi molto irrazionale. Tocca parti di me stessa così sepolte che non sapevo nemmeno che esistessero, come un doppio fondo di un cassetto che scopri quando possiedi quel mobile da anni.

Ti chiedi se è sempre stato lì… e sai che è così… oppure se è stato qualcuno a crearlo all’improvviso… ora io ho scoperto, senza ombra di dubbio, che nonostante il suo abbraccio mi andasse bene, il suo bacio invece mi spezza il cuore.

Il bacio per me è amore.

E ora amore non c’è. C’è solo uno squallido mezzuccio pieno di tracotanza. E che non ho nemmeno scelto.

Dopo quello che stava facendo per me… se avesse pensato di baciarmi… probabilmente gli avrei anche detto di sì…

Draco Malfoy è abituato a prendersi le cose che vuole o che mira ad ottenere, con la forza, non se ne fa scrupoli.

E anche con le donne deve essere lo stesso.

Summer alla fine fa tutto quello che lui desidera…

Ma non con me… dannazione, non con me…

Cerco di liberarmi della sua stretta, senza risultato, intravedo ancora la presenza di Seth sulla soglia. Vattene via, accidenti a te… l’unico risultato che riesco ad ottenere è che Malfoy apra gli occhi. È sorpreso nel vedermi con le mani premute contro il suo petto, mentre tento di staccarlo da me. I suoi occhi si allargano con espressione colpita, poi li socchiude fissando attentamente il mio viso.

Inconsciamente serro gli occhi, mentre, continuando a premere insistentemente le labbra contro le mie, allunga una mano verso di me e sfiora piano la mia guancia bagnata con il dorso della mano. Nelle sue iridi così inaspettatamente vicine ai miei occhi, vedo stupore e sorpresa, e alla fine ancora malinconia. O forse è solo una mia impressione… non so…

All’improvviso, la pressione ostinata contro la mia bocca termina. Non perché si stacca da me, no…

Il bacio cambia, diventa... diverso…

Ora le nostre labbra sono solo appoggiate le une sulle altre, si accarezzano piano quasi con dolcezza e la mano di lui affonda nei miei capelli sciolti e liberi da qualsiasi acconciatura. L’altro mano è solamente posata sul mio fianco sinistro a trattenermi leggermente.

Ora potrei scacciarlo se volessi…

Le mie mani serrate sul suo torace si rilasciano piano dalla tensione precedente, si aprono e restano lì a sentire sotto le mie dita il battito del suo cuore. Qualcosa mi punge dentro con un vago senso di insoddisfazione e di sconfitta, ora; ogni fibra del mio corpo, persino questa maledetta ferita, è concentrata sulle mia bocca e su questo bacio a stampo. Un desiderio convulso mi sconquassa dentro, ogni cellula del mio corpo brucia e ne sono sconvolta. Possibile che sia diventata così volubile? Possibile che lui renda polvere ogni mio desiderio e volizione? Un secondo voglio una cosa, un secondo un’altra… come avere il cuore trafitto da un raggio di sole, come aspettare in una giornata afosa la prossima onda che venga dal mare e che ti sorprenda sul bagnasciuga… attesa inesausta ed inesauribile, snervante e poi appagante, e poi ancora, ed ancora. Questo mi fa Malfoy… mi fa desiderare che la sua bocca si schiuda tra le mie labbra, mi fa volere il suo sapore che sento solo accennato, mi fa desiderare le sue dita sulla pelle fresca e tenera della mia nuca, mi fa desiderare un sorriso soffocato sotto le mie labbra. E mi fa disperare perché lui non mi vuole, invece.

E subito dopo, come un lampo, mi fa rendere conto di che cosa sto pensando.

Sono a brandelli, raccolgo frammenti di quella che ero, lungo una strada che non conosco e che non volevo intraprendere. Ma che adesso sono costretta a percorrere fino alla fine… che cosa resterà di me al termine di questo viaggio?

La sua mano tra i miei capelli si muove in una carezza affrettata, scorrendo leggera e provocandomi un brivido lungo la schiena, l’altra mano invece lentamente sfiora la mia schiena, di secondo in secondo che mi attira più vicina. Le sue labbra sanno del sale delle mie lacrime, eppure… è il bacio più dolce della mia vita…

Con impacciata timidezza, incurante oramai di Seth e della ferita, mi sollevo in punta di piedi nelle mie scarpette che non sono di cristallo, ma che adesso mi fanno sentire davvero la principessa che ha conquistato il principe azzurro.

Diamine, in fondo sto morendo…

Allungo le braccia cingendolo alle spalle e lo sento sussultare, evidentemente non se l’aspettava.

Riapre gli occhi, a tiro ormai dei miei, le pupille dilatate, l’espressione quasi spaventata, e sento la mia mente andare in frantumi.

Si stacca bruscamente da me, respirando a fatica, mentre io ritorno alla mia altezza solita. Mi cinge ancora con il braccio, la fronte appoggiata sulla mia, lui che non credevo si potesse mai piegare a qualcuno.

Le mie labbra si aprono senza che io lo voglia, e sento l’ultimo mio soffio di vita che ne sta per uscire, diretto unicamente a dirgli una cosa sicuramente stupida, probabilmente pericolosa, ma che non mi posso evitare.

Per la prima volta nella vita, non so che sto seguendo… se il mio corpo, il mio sangue, o il mio… cuore… fatto sta che non sto seguendo la mia ragione, e so già che questa cosa mi porterà dei guai.

Ma mentre lo guardo, so ancora che è come un anelito indispensabile, che non mi posso evitare, anche se mi ammazzerà peggio della ferita fisica che mi fa barcollare. Non so nemmeno che sto per dire, ma so che sto per dire qualcosa che non tornerà più indietro.

Ed invece lui a parlare, a battermi sul tempo…

Un sorriso sulle labbra sottili di cui ora so perfettamente il contorno, e che sento come una linea incandescente sulle mie. Guizzano lontani gli occhi, saettano alle sue spalle. Un sospiro appena trattenuto.

E poi…

“Seth, è andato via vero?”.

La ferita vecchia fa malissimo tutto ad un tratto. Una ferita nuova mi si apre nel petto, lacerandomi. Una ferita che non perde sangue, ma che mi uccide l’anima. Come se si fosse rotto uno specchio che rifletteva un’immagine illusoria di me stessa, ma che mi aveva fatto sentire per pochi leggerissimi attimi… libera da me stessa.

“Stavi solo recitando?” mormoro con le lacrime agli occhi, l’orgoglio che riprende il suo vecchio posto e mi fa sperare che non mi abbia sentito. Quella nuova magia che non ha nulla a che fare con l’uso di una bacchetta, abbandona come la risacca di un mare di gennaio le mie membra.

Non vedo che fanno i suoi occhi. Non sento che fa la sua voce. Non tocco che fanno le sue mani.

Ricado all’indietro, abbandonandomi alla morte.

 

Decisamente il mio capitolo preferito!! Chissà per quale motivo…J Ammetto che è stato un capitolo di una difficoltà assurda, perché volevo che fosse perfetto e poi perché allo stadio attuale, Hermione non è che prova ancora nulla di fortissimo per Draco, quindi doveva essere particolare come bacio… insomma all’inizio Hermione lo rifiuta pure, è solo perché è senza forza che non ci riesce… ma dopo… eheheh!! E vi anticipo che è da qui che le cose inizieranno decisamente a cambiare!!! Anche se ne succederanno ancora molte…

Passo subito ai ringraziamenti e alle risposte di rito:

Cygnus Malfoy: la mia cara Helder che ovviamente meriterebbe una sfilza di ringraziamenti!! Considerando quanto sono imbranata con il computer e quanto mi aiuta! Tu questo capitolo l’hai letto in esclusiva quindi so che ne pensi e già ti ringrazio!! Draco più gentile di così non lo si può immaginare e certamente non sarà mai un ragazzo dolce e gentile, anzi!! Ma è per questo che ci piace tanto!! Un bacio, tesoro!!

Liven: ciao!! Non ti preoccupare del tuo errore, capita a tutti e poi ti sei rifatta con questa bellissima recensione!! Grazie dei tuoi meravigliosi complimenti!! Sono contenta che le mie riflessioni ti sono piaciute, sinceramente erano delle riflessioni mie attuali quindi è stato facile scriverle!! Non voglio che la mia storia sia troppo “veloce”, ecco… quindi cerco sempre di fare evolvere le cose piano! Insomma sono sempre due che per anni si sono odiati!! Sei stata una delle poche che si è ricordata del mio accenno al novilunio, brava!!

Nefene: la mia carissima Chiara!! Grazie, grazie dei tuoi complimenti, sono contentissima che i miei capitoli non ti deludano! Cerco sempre di essere all’altezza delle vostre aspettative…J che dire di più che già non sai? Un bacio!!

Ginsan89: una nuova lettrice!! Evviva!! Grazie tantissimo, Ginny è sempre la migliore amica di Herm, quindi ci stava che rimanesse dalla sua parte, anche se non la capisce fino in fondo; Harry si rifarà, ma ora è un pochino cieco di fronte alle responsabilità che ha come Ministro… la tua tesi del mezzo licantropo alla fine non era del tutto sbagliata, visto che la pozione che prende Herm è a base lupo mannaro!! Un bacio!!

Seven: grazie grazie, non so che altro dire!! Le tue recensioni sono sempre le mie preferite perché svisceri tutto il capitolo e mi dici esattamente che ne pensi di ogni parte!! Il ravvedimento di Harry ci sarà, sicuramente, e Ginny avrà un ruolo importante, anche se un po’ meno di Seth come hai potuto leggere in questo chappy!! Un bacio!!

Lights: ebbene sì, sono una donna perfida e una scrittrice implacabile!! E scommetto che questa volta mi vorrai uccidere ancora più di prima!! Baci!

Baby_San: il Turquoise Party è stato un successo, perlomeno nella parte in cui Herm non stava morendo dissanguata, ma è stato anche un successo per i nostri due eroi! Un bacio!

Un saluto anche a coloro che leggono e non recensiscono, anche se un commento sarebbe sempre gradito :p!! ai 52 lettori che mettono questa storia tra i preferiti e ai 37 che la seguono!! Oltre a chi ha visitato il forum, specie Anna 96!! È grazie a voi che questa storia esiste!! Approfitto anche per ringraziare Piccola_star che ha recensito THE BLOWER’s Daughter!!!

A presto Cassie!!!

 

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Capitolo 14
*** Echoes of past ***


Capitolo 14 - Echoes of past

Capitolo 14 -  Echoes of past

 

Voci… tante voci… acqua salata sul mio viso e vento che mi accarezza delicatamente i capelli.

Qualcosa che mi solleva e mi attira a sé.

Erba bagnata nel mese di settembre.

Sensazione di oggetto duro contro la mia fronte, oggetto duro e sottile, dalla punta vagamente tonda.

Una bacchetta.

Luce fiorita dietro le mie palpebre chiuse. Una lacerazione nel tessuto della mia mente.

Poi più nulla…

“Herm, Herm!!, rispondi!!”.

“Il mio nome è Danny Ryan… sono il proprietario del locale dove lavora Hermione…”.

“Spostatevi!! Le togliete ossigeno!!”.

“Speriamo che questo funzioni…”.

Parole come gabbiani nel cielo… frecce bianche in un mare di azzurro che non riesco ad afferrare.

Qualcosa di morbido sotto la mia schiena, calore liquido che mi sfiora la pelle.

“E’ sperimentale, ma è la sola soluzione…

“Non ci credo che sia accaduto…”.

Calore ovunque, fuoco sottile che mi avvolge, bruciandomi piano fino alle ossa.

 “Mi dispiace come sono andate le cose, davvero, Herm… ed è assurdo dirtelo così… non riesco ancora a perdonarmi il male che ti ho fatto… per favore, ritorna…”.

Una mano fresca sulla mia fronte, un’ombra di ricordo sulle mie labbra.

“Speravo che fosse passata, amore mio… ma niente passa davvero… e mettere chilometri tra me e te, non cambia nulla. So che devi  sentirti di vivere come meglio preferisci… ma per favore, prenditi cura di te stessa, ora che io non posso più farlo…”.

Emergere dalle acque nere, respirando a fatica. Un soffio di brezza sulla mia pelle.

“Adesso, bisogna solo cancellare i ricordi dei Babbani…”.

“Inizio con Danny Ryan… dovrebbe essere fuori da qualche parte…”.

“A Danny Ryan penso io…”.

 

Mi fanno male gli occhi, tantissimo. Mamma mia, sono pesanti come lastre di cemento. Perché non riesco ad aprirli?

Ma in fondo che mi interessa, potrò dormire un po’ di più per una miserrima volta, cavolo!

Fa fresco, però, sento il soffiare di un vento freddo sulla pelle. Sotto le mie palpebre chiuse intravedo una luce tenue ma decisa, e capto delle voci lontane giungere da chissà dove. Mi rigiro meglio, cercando di riaddormentarmi, raggomitolandomi a riccio nel tessuto leggero e liscio che indosso. Non faccio in tempo, però, a riaddormentarmi che vengo colpita da una scossa di pensieri.

Vedere una luce? Sentire delle voci? Avvertire un vento freddo?

Ma non dovevo essere morta? E per quel poco che so, la morte è la mancanza delle sensazioni… questo significa…

Che sono viva… oppure che la morte è davvero strana… come faccio a capirlo?

Accidenti, accidenti!!

Faticosamente riapro gli occhi, le pupille che si richiudono subito per la troppa luce che c’è nella stanza. Mi guardo distrattamente attorno, dopo aver sollevato il busto ed essere scivolata ancora indietro a causa di un giramento di testa. Serro gli occhi repentinamente, non c’è dubbio, sono nella mia stanza al Petite Peste.

Ma come ci sono finita qui?

Ricordo solo che la ferita si era riaperta, ho chiesto aiuto a Malfoy… e lui… boh, lui ha fatto qualcosa… ma cosa?? Ricordo solo il suo viso vicino al mio, e poi??? Che diamine ha fatto?? E che ci faccio qui??? Maledizione… ma sono trapassata o no, poi?

Allungo la mia mano verso il soffitto e mi sembra sempre quella solita, anche se il braccio è coperto dalla manica di qualcosa di bianco e lucido. Mi guardo meglio addosso, e distinguo nettamente che indosso qualcosa di diverso dal vestito azzurro.

Un pigiama di raso bianco, completo di casacca e pantaloni.

Devo essere morta… decisamente… figuriamoci se io mi metto un pigiama del genere, specialmente considerando che non me lo posso permettere. E considerando che il raso mi ha sempre dato l’impressione di essere adatto solo alle escort impenitenti.

No, no… decisamente sono morta…

Anche se… aggrotto le sopracciglia in posa riflessiva… in quale paradiso, gli angeli se ne vanno in giro in pigiama di raso??? Non ho mai visto una tale immagine in giro, d’accordo l’escatologia non è una scelta esatta, e magari il raso è un tessuto paradisiaco, che ne so… io non l’ho mai indossato… magari provoca meno allergie… ma figuriamoci se gli angeli hanno allergie, non me li vedo che starnutiscono per la presenza dei cumulonembi… e poi chi me l’ha detto che sono un angelo?? Magari questo è inferno, e il fatto che sia al Petite Peste ne può essere una chiara prova!! Sicuramente ora vedo Malfoy che attorciglia una coda enorme e mi spedisce al mio girone, e poi…

Un attimo…

Stop!

Lo sproloquiare è tipico di me. Tipico della mia mente. Che c’è ancora, quindi…

Sospiro, mi sa che sono viva.

Ma se sono viva, esattamente… come faccio ad esserlo?

Ricordo distintamente di essere stata abbastanza vicina alla morte… e allora, come? Tra l’altro, non vedo maghi o streghe nelle vicinanze, e sono ancora al Petite Peste. Sicuramente nessun babbano poteva salvarmi… accidenti!!

Cerco ancora di sollevarmi seduta, ma la testa riprende a vorticarmi, quindi trovo più intuitivo guardarmi l’addome alla ricerca della ferita piuttosto che alzarmi per capire qualcosa. Scosto la maglia del pigiama, ma incontro solo la pelle perfettamente rimarginata e integra.

Cosa ancora più strana, non c’è nemmeno la cicatrice che avevo prima, un piccolo segno rosso abbastanza lungo.

Questo depone per la tesi che sono decisamente morta.

La mia tesi si smonta quattro secondi dopo, quando la porta si apre e vedo entrare due persone. Con la vista annebbiata, dapprima, non riesco a riconoscerle, poi metto a fuoco nella luce del sole e distinguo le sagome di Ginny ed Harry.

Lo sguardo di Ginny, da triste e preoccupato che era, incontrando il mio, si riempie di lacrime e diventa radioso. La guardo, senza capire, per poi fissare Harry, che anche lui mi guarda abbastanza commosso.

Evidentemente mi davano abbastanza morta…

Ginny, in capo ad un secondo, mi corre incontro, abbracciandomi forte e lasciandomi senza fiato, dice qualcosa ma non riesco a sentirla, la testa che ancora mi pulsa da matti. Harry si ferma a breve distanza, sorridendo anche lui e guardandomi dolcemente.

Quando apro la bocca, sento la mia voce quasi metallica, non ero più abituata a sentirla.

“Ginny, non capisco… per favore, potresti parlare un po’ più piano…e soprattutto non urlarmi nelle orecchie??!!” chiedo gentilmente innervosita.

Lei si stacca da me e si asciuga le lacrime con il palmo della mano, per poi dirmi duramente: “Ci è mancato poco… la prossima volta, cerca di non avvicinarti così tanto al concetto di defunta… perlomeno, fino a quando io non sarò la signora Potter… dopo di te come testimone, ho Lavanda in lizza… e non vorrei doverla scorticare sull’altare, insomma, il viaggio di nozze è già prenotato…sarebbe un peccato passarlo ad Azkaban per lesioni aggravate!”.

Sorrido leggermente alle sue parole, con un enorme sforzo mi sollevo seduta e freno il giramento di testa, appoggiando la schiena contro la sponda del letto.

“Mi dispiace…” rispondo contrita, accarezzandole leggermente la testa “Non so come sia potuto succedere…”.

“E’ quello che ci chiediamo anche noi…” sorride sollevato Harry, sedendosi accanto a Ginny. Se penso che potevo morire, rimanendo così arrabbiata con lui, mi viene da piangere… abbasso lo sguardo e pigolo: “Credo che vivere qui… insomma, tra i babbani…”.

“… l’avevi rimosso?” completa Ginny, comprensiva, venendomi in aiuto.

Distolgo lo sguardo umido da lei, guardando la finestra, il cielo azzurro che mi risponde infondendomi un vago senso di pace, e poi torno cautamente a guardarli: “Qualcosa del genere, credo… ecco, brava… non dimenticato, rimosso… mi vedevo troppo babbana per ricordarmi una cosa così…”, sospiro, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio: “Ma non lo sono… e questo ormai mi sembra evidente… “.

“Ed è un peccato?” mi chiede Harry a bruciapelo, guardandomi quasi severamente.

Resto basita dalla schiettezza della sua domanda, ma poi sorrido piano: “Sì e no… e tu, Harry, lo sai meglio di me. Hai vissuto con i babbani, no? Ed è una vita completamente diversa… non migliore, non peggiore… solo diversa, ecco…”.

Harry annuisce, per poi sussurrare: “E vorresti tornare a quella vita? Intendo a quella babbana?”.

“Vuoi la verità?” bisbiglio piano, chiudendo gli occhi “A volte sarebbe bello… sarebbe bello pensare ad un mondo dove Voldemort non è mai esistito… dove ogni cosa non è da ricostruire… dove la mia vita, nel bene e nel male, è da inventare… non da ricomporre, come tutto il resto… non è decisamente da me dirlo e lo capisco… ma è la verità… sarebbe bello fuggire, ma è dannatamente evidente che non posso farlo, in nessuna ragionevole maniera… la mia vita, il mio passato, la mia me stessa più intima… mi verrebbero dietro senza pace…”.

Non ci credo di essere stata così sincera con loro, la morte imminente mi ha fatto bene, decisamente. Era da tempo che volevo dire queste cose, specie ad Harry, volevo che capissero ma non trovavo né la forza né le parole. Ora sono uscite e vedo i loro visi sconvolti quasi, mi scrutano con curiosità come a cercare nel mio viso le tracce di quel tormento celato e nascosto.

So che probabilmente li sto facendo del male, ma non è che prima, mentendo, gliene facessi di meno… a questo punto meglio essere sincera. L’ho metabolizzato nell’agonia? Probabilmente sì… che senso ha fingere di essere perfetta, se non lo sono? E che senso ha non dare mai alle cose il loro nome? E perché non dire quanto ho sofferto, almeno a loro due? Solo così, potrebbero capirmi… e se non lo dicessi, non vedo perché dovrei aggiungere a quel dolore la sofferenza di non essere compresa e di essere malgiudicata.

Ora che ci penso… è davvero idiota…

“Davvero, Herm? Davvero sei stata così male?” mi chiede sgomento Harry, avvicinandosi a me.

Annuisco senza allegria per poi aggiungere: “Non è colpa vostra, davvero… non sono la tipica persona che se sta male chiede aiuto… o anche se ne fa accorgere… quindi credo che sia normale che non ve ne siate accorti…”, sorrido alle loro espressioni colpevoli: “… davvero, ragazzi su! Non ce l’ho con voi…”.

“Immagino che quindi la storia di Malfoy sia stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso?” mi chiede Harry preoccupato, sotto lo sguardo curioso ma comunque silente di Ginny.

“Esattamente…” mormoro piano, un nodo che mi impedisce di parlare normalmente “Aggiungi questo al resto… Ron che si mette con Lavanda, la condanna, la disoccupazione… e poi Dean che se ne va… non voglio autocommiserarmi, diciamo solo che non era decisamente un buon momento per saperlo…”.

Sorrido, mentre Ginny si stringe nelle spalle, poi mi dice timorosa: “Sono stati entrambi qui, lo sai?”.

“Chi?” .

“Ron… e Dean”.

La guardo autenticamente scioccata, qualcosa che mi si spezza dentro con il fragore di un maremoto… la prendo per un braccio, stringendola forte, la mia voce che diventa più acuta mentre chiedo quasi disperata: “Anche Dean?”.

Lei mi sorride e annuisce con il capo: “E’ stato qui, fino a quando ha saputo che eri fuori pericolo… poi se n’è andato…”.

“L’avevi avvisato tu?”.

Ginny annuisce piano, poi dice: “Ce la siamo visti brutta… diciamo che volevo che ti vedesse prima che…”, la sua voce si spezza e non continua, mentre abbassa lo sguardo. Intuisco che sta per dire, prima che morissi… Harry le mette una mano sulla spalla, sussurrando che adesso è tutto finito. Mi dispiace averli fatto stare così male, mi ritrovo ancora ad abbassare gli occhi.  Dean, lui… era venuto a dirmi addio…

Di tutte le voci che ho sentito nel dormiveglia dell’agonia, una mi raggiunge soffice e morbida le orecchie, assieme al ricordo di un bacio leggero sulle mie labbra. Era… lui… la mano che stringe la maglia del pigiama convulsamente, mi ricordo che cosa mi ha detto, e fa un male atroce. Che mi ama ancora. Che non mi ha dimenticato… e mi ha chiesto di prendermi cura di me.

Una lacrima solitaria, scende lungo la mia guancia, morendo contro il mio collo; me la asciugo piano, smetterò mai di piangere per lui?

D’un tratto, ho l’impulso di alzarmi dal letto, di correre per le strade e di arrivare da lui… abbracciarlo forte e promettergli quel ti amo che non gli ho mai detto. E che non so nemmeno adesso se lo penso, davvero. È la domanda da migliaia di dollari che non riesco mai a sciogliere.

E le mie membra, che tremavano dalla voglia di correre da lui, fremono per un po’ e poi si rilassano contro quella consapevolezza.

Ancora non si merita questo da me, un contratto sentimento a cui non so dare un nome.

E non devo andare da lui, solo perché mi manca da morire. O solo perché nelle labbra l’ombra lieve del suo calore mi ha raggiunto anche attraverso il miasma oscuro della morte. Dovrei andare da lui, perché lo amo. E io non lo so, se è così.

Anzi… se devo essere sincera, mi spezza il cuore che lui mi ami ancora.

Una nuova lacrima, che fa compagnia alla prima e poi ad un paio di seguenti.

Dimenticati di me, Dean, piccolo amore mio… vivi la tua vita come preferisci… e trova l’amore che io non ti ho saputo dare.

Ginny mi abbraccia forte, sussurrandomi di non piangere, per poi dirmi: “Lo sai che ti ama ancora, no? Potresti tornare da lui se lo volessi…”.

Annuisco contro la sua spalla, asciugandomi velocemente le lacrime, e poi fingo un sorriso: “Lo so, Gin… ma davvero, credimi… va bene così…”, non riesco a dire altro, le parole che mi muoiono in gola, soffocandomi i pensieri. Vorrei spiegarmi, dire che penso sul serio, che non voglio più farlo soffrire. Ma non ne ho la forza, davvero… e poi credo che Ginny capisca, infatti acconsente solidale, e mi accarezza piano la schiena, mentre Harry guarda altrove, evidentemente in imbarazzo dalle nostre chiacchiere femminili. Mi viene da ridere, poi mi ricordo che mi ha detto che anche Ron è stato qui.

“Quindi anche Ronald è stato qui?” chiedo senza allegria, cercando di cambiare pensieri con un tono di voce neutro… la voce resta ancora astiosa, nonostante tutto, nonostante la morte che ancora mi alita addosso, rabbiosa per esserle sfuggita. È davvero più forte di me.

Stavolta è Harry a rispondere, mentre Ginny ride alla mia faccia: “Sì, è stato qui fin quando ha potuto… o meglio fin quando Lavanda l’ha voluto… ti stava vicino nel sonno, e credo che ti abbia anche fatto delle scuse, o roba simile. L’ho sentito da dietro la porta…”.

“Bravo, origli!!” lo riprende Ginny.

Lui si gratta la nuca timidamente, e mi ricorda il ragazzo di tanti anni fa di Hogwarts.

“Tipico di lui…” commento acidamente “Per chiedermi scusa, doveva aspettare che fossi quasi morta…”.

Harry ride di cuore, forse rincuorato dalla mia espressione… la morte ha il vantaggio di rendere il rancore polvere bruciata sul tuo respiro. E al momento, non riesco nemmeno a pensare perché ce l’avessi tanto con Ron. Cioè me lo ricordo, ovvio… e mi dà fastidio. Ma mi fa sorridere stranamente… come se non avesse più importanza. Certo, resto acida e nervosa, ma ormai è come se lo facessi per abitudine e per gioco.

Mi diverte denigrarlo verbalmente, o sbuffare al pensiero di Lavanda.

Ma, dentro… non so, sembra tutto evaporato. Oramai non mi interessa davvero più nulla.

Ed è doloroso, perché so che vuol dire che non mi importa più nemmeno della sua felicità. In ogni caso, credo di preferirlo all’odio paralizzante che avevo fino a qualche tempo fa.

Perlomeno… è più riposante, ecco. Ci mettevo più energia ad odiarlo.  

“Inutile dirti che anche nel suo caso, se volessi, te lo potresti riprendere…” aggiunge Ginny con aria saputa, guardandomi di sottecchi, ovviamente fregandosene altamente della seconda testimone in linea di successione. Ossia la cara LavLav.

Mi stringo nelle spalle, ancora, poi le rispondo con voce dura, anche se non vorrei: “Gin, la cosa con Dean è diversa… io non posso permettere più al mio egoismo di farlo soffrire. Al contempo non posso permettere più a me stessa di soffrire per Ron… ora basta…”.

Ginny stavolta non annuisce, in fondo sto sempre parlando di suo fratello, e so anche che senza troppe allusioni velate, lei ci ha sempre sperato che tornassimo assieme. La vedo solo sospirare, ed ancora sono contenta di aver finalmente detto anche questa verità. Piano, sento le barriere che avevo messo tra me e loro due, crollare grazie alla mia ritrovata sincerità. Ed è bellissimo, perché mi accoglie un dolce senso di serenità che non provavo da tempo. Se deve andare così, sempre, allora anche il mese prossimo non prendo la pozione… un attimo, presa dai miei soliti deliri romantici, mi sono dimenticata la cosa più importante!! Ma io come faccio ad essere ancora viva??!!!

Alla mia domanda assolutamente scioccata, Ginny cambia faccia di colpo. Oddio, mi sa di aver capito… perché non me ne sono stata zitta? In pochi fuggevoli secondi, Ginny Weasley diventa la personificazione umana di una Strillettera, recuperando dagli anfratti del suo corredo cromosomico i geni della madre Molly. Harry si appiattisce contro la parete, presagendo lo scoppio del fortunale diretto nella mia direzione.

Evito di riferire la sequela di urla e bestemmie che Ginny mi vomita addosso per non aver preso la pozione, brandendo persino una spazzola presa dal mio comodino come un’arma. Nell’ordine sono un’incosciente, una pazza criminale, una ragazza con gravi disturbi comportamentali ed una che dovrebbe pensare di più alla sua vita piuttosto che organizzare feste.

“Capito, mamma!!” urlo quando mi consente di nuovo di aprire bocca e si adagia contro la sua sedia, respirando affannosamente “Ma tanto per sapere, come ho fatto a sopravvivere? Mi avevi detto che sarei morta se non avessi preso la pozione…”.

“Ed era così, razza di testa di rapa…!”, dopo gli altri gentili appellativi mi spiega che hanno usato una pozione sperimentale, di sua invenzione, che non sapeva che effetti poteva avere. Era stato un grosso rischio, ma era la sola maniera per provare a salvarmi. La cura aveva funzionato, addirittura eliminando del tutto la ferita. Il problema era che, essendo ricavata dal veleno del Basilisco stesso, aveva avuto una recrudescenza che aveva rischiato seriamente di uccidermi; insomma, ero stata in coma per quindici giorni.

Per fortuna, il mio fisico aveva reagito adeguatamente e mi ero ripresa. Adesso non avrei avuto nemmeno più la ferita.

Insomma, avevo finito di assumere pozioni mensili e di preoccuparmi. Ero stata decisamente fortunata.

Finalmente, anche l’ultima traccia di Voldemort sparisce da me…

Non mi farà più del male…

Piango ancora, piegandomi su me stessa, la fronte sulle mie ginocchia, grata al cielo che, oltre a salvarmi, mi ha concesso di dimenticare finalmente questo incubo. Dopo anni, davvero, per me… Tom Riddle è morto.

Il sollievo che si impadronisce di me, evapora in un attimo al ricordo vago e confuso della serata che, adesso so, è lontana da me quindici giorni. Una fitta al cuore, forte, intensa, da spaccare il fiato. Nel contorno di stelle di quella notte, nel dolore diffuso che si spandeva come nebbia attorno a me, nella disperazione della fine dei miei giorni che immaginavo vicina… in quel ricordo straziante e straziato che adesso è alle mie spalle, pregno delle albe e dei tramonti che vedrò ancora, una cosa si staglia nel velluto nero e cremisi di quella notte.

Malfoy.

Ed è urgenza sapere dov’è, quanto sappiano Seth e gli altri della mia condizione, come mi abbiano coperto e se davvero l’abbiano fatto.

Io non ricordo bene che sia successo, anzi… ricordo davvero poco. Ma una cosa ricordo per certo… erba bagnata nel mese di settembre… vicinissima a me, come se la potessi sfiorare ed inebriarmi di essa…

Sono certa che mi abbia aiutato. E sono certa che si poteva mettere nei casini per questo.

Afferro la manica della giacca di Ginny e sussurro: “Gli altri… i miei amici babbani… che sanno di questa storia?”.

“Tranquilla, Herm… sanno solo che hai avuto una forte febbre…” mi calma Ginny, sorridendo “Abbiamo dovuto usare degli Incantesimi, ovviamente… ma purtroppo è stato necessario…”.

“Capisco…” mi mordo le labbra, per poi chiedere dispiaciuta: “E chi avete dovuto incantare?”.

Ginny conta sulle dita i nomi di Seth, quello che non sta zitto un attimo, Summer, l’oca giuliva che sbraitava sullo stato del suo vestito azzurro e Trey, quello che ci proverebbe anche con un palo della luce, se fosse disponibile.

Sospiro, non ha risposto alla mia domanda.

E come potrebbe se non ho il coraggio di farla?

Abbasso gli occhi, torcendomi le mani in grembo, poi mi dò mentalmente della stupida e sollevo gli occhi, decisa, puntandoli in quelli di Harry.

Basta finzioni…

“Harry, come sta il mio capo? Come sta Danny?” chiedo senza preamboli, una sensazione oscura di calore che si irradia per il mio viso. Oddio, sto arrossendo… ma perché, poi?? Cerco di mantenere il mio sguardo limpido, guardando Harry ed ignorando l’espressione curiosa di Ginny.

“Ci tieni molto a lui, vero?” mi chiede Harry con un sorriso tra il triste e il preoccupato, che poi si stempera quasi in divertimento.

Aggrotto le sopracciglia con espressione confusa: “Io ci tengo al mio lavoro, mica a lui…”.

“A ok…” fa Harry perplesso, con voce atona, mentre Ginny interviene: “Io ho nominato quelli che ho incantato io… al tuo capo, con mio sommo dispiacere, ci ha pensato Harry… è proprio un tipo interessante…” conclude trasognata.

“Interessante?!!” scoppio a ridere, piegandomi letteralmente in due alla faccia nervosa di Harry. Bè credo che dopo anni abbia capito che l’aggettivo interessante usato da Ginny nel descrivere soggetti maschili, sia un palliativo giustificato dalla sua presenza. Nel vocabolario Ginny Weasley- Inglese, l’aggettivo interessante trova la seguente nomenclatura agg. che desta interesse. Utilizzato nei confronti di soggetti maschili, in presenza di Harry James Potter. Sinonimi: affascinante, attraente, seducente, sexy, erotico, provocante, eccitante, irresistibile, bonazzo, figo, etc

Smetto di ridere, ripensando che lo avrebbe incantato Harry. Sì, come no… come se Malfoy subisce docilmente un Incantesimo di Memoria, o simili… specie se comunque lui di me sa tutto…

Guardo ancora Harry, preoccupata, e lui sorride: “Sta bene, Herm… basta sguardi corrucciati…”. Il fatto che non mi fornisca altri particolari, invece, mi inquieta ancora di più. Non me li immagino proprio quei due che parlano tranquillamente in una stanza, disquisendo sul clima in continuo mutamento o sulla teoria dell’anello mancante tra uomo e scimmia. Anzi, essendo due ragazzi e soprattutto essendo sempre Draco Malfoy ed Harry Potter, è più probabile che abbiano fatto i babbuini in crisi evolutiva e se ne siano date di santa ragione. Ginny non mi sembra allarmata, quindi deduco che non sappia niente ed Harry non sembra tumefatto… forse è stato Malfoy a prenderle? Sì, certo… come se quello le prendesse davvero. Bah, nonostante tutto, nonostante che Harry sia mio amico da anni e lo leggo in faccia, credo che sarà molto più sensato osservare lo stato emotivo di Malfoy per intuire qualcosa. Tipo, non so… intuirò che è successo qualcosa se lo vedo imprecare a ripetizione, spaccare la tazza del caffè a furia di mescolare lo zucchero con il cucchiaino oppure menare calci alle sedie di mezza casa.

Sì, decisamente meglio andare da Malfoy. Da qua, non tirerò fuori un ragno dal buco.

Giusto!! Avevo dimenticato qualcun altro… Seth e figuriamoci!! Il gazzettino del Petite Peste… se è successo qualcosa a Danny, figuriamoci se lui non lo ha magicamente captato con le sue antenne. Dopo, chiederò a lui… e chiederò anche come è finita la festa, non vorrei averli lasciati nei guai. Ma soprattutto farò bene a chiedere se Danny brama la mia morte per aver rischiato di smascherarlo con la mia dimenticanza suicida.

Decisamente meglio andare da Seth, prima.

Insomma sono appena scampata alla morte, non ho voglia di incontrare ancora la Vecchia Signora con la falce, la veste nera e tutto il resto. Si annoierebbe a rivedermi e stavolta mi prenderebbe davvero. In fondo, le scappo dalle dita da anni… che poi dita, falangi… o come si chiamano le ossa della mano… quelle del piede sono diverse? O sono uguali?

Ma a che diamine penso!!! Accidenti a me!!

“HERM!!” mi urla Ginny nell’orecchio, strappandomi dalle mie riflessioni metafisiche.

“EH!!!” urlo a mia volta, rintronandole le orecchie a mia volta, mentre Harry ride come un pazzo.

“Hai capito cosa ho detto???!!” mi tramortisce ancora lei localmente, mi gratto il mento, negando con il capo.

“Ecco, appunto… allora, noi andiamo dato che sei fuori pericolo… quindi pensi di restare qui?”.

“Penso di sì…”.

“Non sei per nulla interessata a quel lavoro di cui ti dicevo allora?” mi chiede affranta e speranzosa.

Al momento, non so che rispondere. Tornare nel mio mondo… in fondo, lo so che questo… il Petite Peste è solo una “vacanza” dalla mia vera vita… mi sono detta che mi andava bene lavorare qui, perché, in fondo, c’era sempre la condanna e io dovevo comunque trovarmi da mangiare in qualche modo. Poi che la storia di Malfoy mi aveva messo in crisi e volevo tempo per pensare.

Ma, alle parole di Ginny su questo tipo di lavoro, capisco che queste due scuse non reggono più.

Le ho chiesto delucidazioni e lei entusiasta mi spiega che si tratta di un concorso per uditore giudiziario al Wizengamot. Che come premesso non c’entra nulla con gli Auror, anzi se facessi carriera, potrei persino arrivare ad intraprendere delle cause nei loro confronti. Non sono vitali, perlomeno nei primi tempi, delle competenze magiche, sarebbero necessarie solo se facessi carriera. L’uditore, alla fine, è alla stregua di un segretario e quindi molti Magonò tentano questa strada e io, al momento, sono loro pari. Nei due anni della condanna, potrei assolvere a queste funzioni, facendomi conoscere e apprezzare; terminata la pena, poi, è altamente probabile che io diventi un membro effettivo.

Inoltre, essendo stato proprio il Wizengamot ad aver pronunciato la mia condanna, probabilmente essa sarebbe ridotta in virtù del fatto che io lavoro per loro. Riprenderei i contatti con i miei amici, lavorerei ancora con Harry, dato che lui è membro permanente del tribunale essendo il Ministro della Magia, potrei punire gli assassini dei Malfoy senza tornare ad essere un’Auror. E come loro, anche altri.

L’unico problema, se mai per me lo fosse, commenta ridendo Ginny, è che l’esame è molto difficile e dovrò studiare praticamente ogni legge del mondo magico. E che ci sarà molta concorrenza.

Sorrido, mentre lei ne parla ed Harry annuisce vigorosamente con il capo. Harry ovviamente controbatte un po’ mentre dico che potrei punire anche gli assassini di Lucius e Narcissa, ma poi aggiunge che a questo punto sa che non mi farà cambiare idea, e che allora, se sarà ancora così importante per me, lui mi sosterrà. Lo guardo con gli occhi umidi e annuisco, dicendo che ci penserò.

Con un bacio per ognuna delle mie guance, i gesti e le parole cariche di speranza, si congedano alla fine da me.

Harry deve tornare al lavoro, che ha profondamente trascurato in questi quindici giorni, ed è in ritardo per l’incontro con il nuovo direttore della Gringott. Ginny deve ancora fare le valigie per andare a tenere una conferenza a Beauxbatons sulle tecnologie babbane applicate nel mondo della Magia. Li saluto con un gesto pigro della mano, che poi ricade sul lenzuolo bianco, non appena la porta si richiude alle loro spalle.

Hanno detto che andranno ad avvisare Seth, che dorme in camera sua, che finalmente mi sono svegliata.

Quindi, in definitiva, ho solo pochissimi secondi per pensare…

La mia mente, allo stadio attuale, è un mare in repentino moto ondoso. Penso a questa proposta e capisco che effettivamente sarei una stupida a non provare questo esame, penso ad Harry e Ginny e sono contenta di averli ritrovati, penso a Ron e mi chiedo se sarò capace di accettare le sue scuse, penso a Dean e mi chiedo che farò se dovessi capire che lo amo davvero, penso ai miei amici babbani e mi chiedo come stiano, penso al mio futuro che al momento oscilla in due direzioni opposte…

… e poi l’onda lunga che sbatte contro la mia anima e la mia resistenza…

L’onda lunga che si chiama Draco Malfoy.

Anche se come sempre censuro i miei pensieri, essi si liberano dalle loro catene per suggerirmi solo una cosa, ricorrente come la nenia di un carillon rotto. Voglio andare da lui… voglio vedere come sta…

Anche se probabilmente mi odia, perché ho messo in pericolo lui e Serenity. Voglio andare da lui… voglio vedere come sta…

Anche se probabilmente accetterò di fare questo concorso e non lo vedrò più. Voglio andare da lui… voglio vedere come sta…

Anche se, nonostante tutto, io non capisco perché ho questa voglia di vederlo. Voglio andare da lui… voglio vedere come sta…

Anche se so che non sarà una passeggiata parlare con lui. Voglio andare da lui… voglio vedere come sta…

… perché, in questo mare pieno di parole a cui non so trovare un nome, brilla qualcosa di tremulo ed incerto.

Un ricordo strappato alla mia agonia. A quella sera di cui non ricordo ormai quasi più nulla.

Voglio andare da lui… voglio vedere come sta… perché l’unica cosa che ricordo, a parte il suo profumo, è una sola.

Hermione...

… ed è lui che chiama il mio nome…

 

Ed ecco a voi il 14 capitolo…!! Oggi purtroppo sono di corsa quindi ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso chappy, ben 11 persone!! Un record e prometto ringraziamenti più profusi nel prossimo!! Scusate… un grazie particolare va alla mamma di Fra Fri 95, incredibile che sia appassionata anche lei alla mia storia, ne sono onorata!!! J E come sempre un grazie speciale al mio forum e ai suoi utenti registrati che leggono in anteprima il nuovo chappy!! Grazie davvero… mi raccomando se volete anche voi darmi suggerimenti prima che pubblichi il capitolo, leggendolo in esclusiva, oppure vedere le schede dei personaggi e discutere sulla mia storia, registratevi nel mio forum http://havealittlefairytale.forumcommunity.net Siete tutti invitati!! Un bacio… Cassie

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Capitolo 15
*** Magic mirror ***


 

 

Capitolo 15 – Magic mirror

 

Dedico questo capitolo a due persone che, ovviamente a loro modo, mi hanno aiutato a scriverlo.

La prima è la mia carissima Helder che con la sua frase sull’ispirazione mi ha aiutato a proseguire, quando mi ero bloccata.

La seconda è Mia Martini, strano a dirsi. Ero bloccata sulla parte finale di questo chappy ed abbastanza in crisi. Poi ho ascoltato la canzone “Notturno” di Mia Martini e le parole sono sgorgate da sole, riempiendomi di serenità e calma.

Al di là della mia storia e del suo valore abbastanza piccolo, questa cantante è sempre in grado di dare emozione a chi la ascolta.

Grazie, Mia.

Per chi volesse sentire la canzone… http://www.youtube.com/watch?v=W851tHVRTrk

 

 

Avevo detto di avere pochissimi secondi?

Niente di più errato! Di secondi, ne avevo soltanto uno… infatti passa un secondo netto da quando Harry e Ginny chiudono la porta, io faccio un minuscolo respiro e Seth entra, correndo nella mia stanza, con Serenity in braccio.

“Piccolina!” chiamo la bimba che cerca di arrampicarsi sulle gambe del mio letto per raggiungermi. Sorridendo, mi sporgo verso di lei e la prendo in braccio, facendola sedere sulle mie ginocchia. Le accarezzo i capelli biondi, annodati in due codini alti, e lei batte le manine contenta, mugugnando il mio nome. La osservo attentamente, baciandole il visino tondo, e noto che ogni traccia di varicella è scomparsa. Effettivamente sono passati quindici giorni, quindi è normale che ora stia bene… lei ride contenta delle mie coccole, e mi sento tranquilla nel vederla serena. Ero preoccupata per lei, ma sembra che sia tornata la stessa. Non ha nemmeno cicatrici, quindi dovrebbero averle impedito di grattarsi, per fortuna. Come sempre, è la solita bimba felice e stilosa, nel suo vestito bianco con piccoli nastrini blu. Stesso blu anche per le scarpette di vernice e i nastri nei capelli. Quant’è tenera!! Forse la stavano portando da qualche parte…

Non faccio in tempo a sollevare lo sguardo che vengo travolta dal solito fiume di parole e squittii vari che risponde al nome di Seth Green.

Ovviamente non ci capisco nulla, e chiudo gli occhi rassegnata, poi mi rendo orrendamente conto di una cosa, quindi riapro gli occhi e li spalanco contro la sua figura.

“Seth! CAVOLO! Hai il mio stesso pigiama??!!!” urlo, indicandolo con l’indice.

Lui finalmente smette di biascicare qualsiasi cosa stesse dicendo, e si tronfia di sé stesso, spingendo il petto in avanti e mostrandomi la sua veste notturna, un pigiama di raso identico al mio, solo di colore nero.

“Le 120 sterline meglio spese della mia vita…” dice sorridendo, facendo una piccola piroetta.

“Quindi, anche… questo… “ blatero disgustata, afferrando con due dita un lembo del mio pigiama “… viene dalle centoventi sterline in questione?!”. Lui annuisce entusiasta, chiedendomi con aria da cucciolo bisognoso di coccole: “Ti piace? Era una mega offerta, insomma… due pigiami di raso a così poco! Uno da donna e uno da uomo… ma come sai, io la fidanzata non ce l’ho, quindi potevo darlo solo a te… che tra l’altro hai passato tanto tempo a letto! Con tanti ospiti, poi…il tuo ex, quello che se ne è andato in Francia, quello ancora prima, che ti ha cornificato, l’amante del tuo ex, insomma, eri imbarazzante con quel pigiama con i coniglietti rosa… dovevi essere presentabile…e poi April non lo voleva, che ci potevo fare??!! Lo dovevo buttare, darlo ad un barbone? Che diamine! Sarebbe stato un enorme spreco! E non mi devi niente, tranquilla! È un regalo!! Sono troppo contento per chiederti una sola sterlina!!”.

Fiaccata dal suo fiume di parole incomprensibili, gli rispondo solo con un cenno del capo, massaggiandomi le tempie con le dita, mentre Serenity gioca sulle mie ginocchia. In tre secondi, mi ha fornito un minimo pressoché infinito di informazioni, di cui quelle più o meno importanti sono che ha incontrato Dean, Ron e Lavanda.  

Spero che si sentano in colpa, vedendo che pazzi sono costretta a frequentare per merito loro.

“E’ bello che tu sia così elettrizzato per la mia guarigione, ma…” inizio ma vengo subito interrotta dalla sua voce gracchiante.

Chissenefrega che sei guarita!! Io sono felice perché adesso sei la donna di Danny!!”  sorride lui, prendendomi le mani con gli occhi lucidi di lacrime.

Le cinque parole Sei la donna di Danny mi perforano il cervello come una trivella alla ricerca di petrolio, mentre lui continua a blaterare che certo che è contento che mi sono ripresa ma che in fondo avevo solo la febbre, non è che stessi morendo… poi dice qualcosa di incomprensibile a proposito dell’armadietto di Summer che è grande il doppio di quello degli altri e che lui è il primo nella lista per averlo.

Io… la donna di Danny!! Ma che diamine sta dicendo??!!!

Divento color melanzana matura e gli stringo convulsamente la manica del pigiama; forse ho sentito male, quindi gli chiedo educatamente di ripetere che cosa ha appena detto. In fondo sono stata in coma per quindici giorni, può darsi che sono diventata sorda… ok, va bene, so di aver perfettamente sentito tutto fino a questo momento, ma può darsi che la pozione di Ginny abbia avuto un’altra reazione strana… o, che ne so, si è creata una distorsione temporale che mi ha impedito di sentire bene che cosa stesse dicendo, che doveva essere una cosa sicuramente diversa da… insomma, da quella che ha appena detto.

Tutto può essere, tranne che abbia effettivamente detto quelle inconcepibili cinque paroline.

Ma è quando lui ripete esattamente le stesse identiche parole di prima che salto in piedi sul letto, gettandogli contro un cuscino e poi afferrando la lampada del comodino.

“Ma che cavolo dici??!!! Ti sei impazzito del tutto??!!” continuo a ripetere per circa dieci minuti, tentando contemporaneamente di prenderlo a calci, spaccargli il cranio con la lampada e prenderlo a pizzichi con l’altra mano. Ogni parte del mio corpo è occupata a tentare di inferirgli più male possibile, ed è quando sto considerando l’idea di utilizzare anche i miei denti che April apre la porta, spaventata dalle nostre urla e poi terrorizzata dalla scena che si ritrova davanti. Seth, supino sul letto, che piange implorando pietà e blaterando che, altro che febbre, dovrei essere curata per la schizofrenia, io seduta sopra di lui con la lampada in mano e le gambe artigliate attorno al suo bacino, che lo minaccio di morte se non smette di dire cose inammissibili per una mente logica e razionale come la mia, per scopi poi che solamente lui sa, e Serenity che contenta mi aiuta nella mia opera di distruzione dell’essere vermiforme ai miei piedi, accecandoli gli occhi con i ditini. Piccola bimba geniale!! Mi ha dato un’idea fantastica!! Devo solo procurarmi degli spilli appuntiti, un braciere incandescente e dell’urtica dioica… e poi gli farò passare definitivamente la voglia di dire cose simili!!! Come senso di irritazione, questa frase orribile si colloca a pari merito nella mia hit parade con le frasi Sei poco elastica e Assomigli molto a Lavanda Brown… anzi, ora che ci penso, diamine!!! Il primo posto incontrastato se lo prende altroché!! Che schifo, la donna di Malfoy!!! Mamma mia… come se mi chiedessero se voglio accoppiarmi con una tigre con i denti a sciabola, ammesso che riescano a riesumarne qualche fossile ammuffito. E pure allora, magari ci penserei, per amore della scienza! Ma Malfoy, diamine!! Se si estingue fa un favore alla società umana e anche quelle marziane, venusiane, eccetera, eccetera…

“Si può sapere che sta succedendo??!” chiede sconcertata April, guardandoci interrogativa.

Ecco, vediamo che ne pensa lei… un po’ più normale è, no?

“Questa sottospecie di essere umano… “inizio con il fiatone, continuando a pestare Seth con il peso del mio gentile e leggero corpicino, per poi indicarlo con il mio indice accusatore “… ha appena detto che io sono la donna di Ryan!!”.

Ecco, adesso anche April vomita! D’accordo, magari non vomita, perché lei almeno Malfoy lo vede… bellissimo, cielo, Draco è bellissimo…

… e questo cosa era? È la mia voce… cioè nel senso… è un mio pensiero, lo sento, un… ricordo... ma quando l’ho pensato??!! No, no, devo essere impazzita… quando mai ho detto o solo pensato una cosa simile??!! Deve essere stato Seth… o April che lo vede abbastanza accettabile… ma io, io no… non è possibile…

Un attimo… solo io so che Danny Ryan si chiama Draco Malfoy…

Ma che cosa sta succedendo, maledizione??!!!

Il fatto che sia successo qualcosa di strano, trova conferma cinque secondi dopo.

Ed inizio decisamente a preoccuparmi. Forse sono ancora in coma…

April non vomita, non scoppia a ridere e nemmeno guarda Seth con aria interrogativa, sorpresa o perlomeno colpita.

Guarda me con espressione interrogativa, sorpresa o perlomeno colpita!!

E poi dice con estrema naturalezza: “Ma perché, scusa, non è vero?”.

“Visto??!” mugugna Seth, cercando di liberarsi, e ci riesce data la mia espressione da tonno in salmì e il fatto che sono diventata un pezzo di ghiaccio. Guardo ad occhi sbarrati prima Seth stesso, che si massaggia con aria sofferta la schiena, e poi April, che mi fissa preoccupata appoggiata alla porta. Qua, decisamente c’è qualcosa che non va… calmiamoci… ora con un po’ di sano raziocinio ne verremo fuori…

“SETH!!! CHE DIAMINE E’ SUCCESSO!!!!!!” grido con tutto il fiato che ho in corpo. Il sano raziocinio, con gli occhioni lucidi per il dolore, si carica il suo bel fagottino sulle spalle e parte alla ricerca di forme di vita nella galassia di Andromeda.

Serenity si spaventa ed inizia a piagnucolare, quindi cerco di calmarmi un pochino e di respirare profondamente. Accarezzo il viso della piccola e poi sibilo con un finto sorriso: “Ora, o mi spiegate che diamine è successo, oppure faccio una strage degli innocenti…”.

Seth, spaventato dalla mia espressione, si affretta a rimettersi seduto con April accanto che mi guarda a sua volta sconvolta, forse aspettandosi che la mia testa inizi a ruotare di 360° come nei film dell’orrore.

“Herm…” inizia Seth con aria accondiscendente e cospiratrice “Insomma… io, vi ho visti… alla festa… non so, magari lo volevate tenere nascosto, in fondo Summer c’è sempre, ma adesso che ti sei svegliata, magari…”.

“Ci hai visti fare cosa, Seth??!” chiedo, quasi terrorizzata con un filo di voce. Più mi sforzo e più non ricordo niente di quella sera. Cerchiamo di mettere ordine: sono uscita in terrazza e c’era Malfoy, mi sono accorta che la luna non c’era e la ferita ha iniziato a sanguinare, ho visto Voldemort… non so come, la visione è finita, c’era Malfoy, ma da quel momento in poi sono solo frammenti confusi. Il dolore, l’odore del sangue, il vento freddo… il profumo dell’erba bagnata… e vabbè, d’accordo, il dannato profumo di Malfoy! E poi basta…

Seth prende fiato con terrore, prima di aprire bocca, lapidario, con il tono di chi teme lo scoppio di una bombola di gas.

“Herm… io vi ho visto sulla terrazza… e vi stavate baciando…”.

Guardo Seth come se fosse una specie di animale strano che se ne stesse in piedi su tre zampe.

“Baciarci?!” chiedo sconcertata, aggrottando la fronte “Avrai sognato, no? Ti sarai abbioccato alla festa… può succedere…”. Sorrido con aria comprensiva, mettendogli una mano sulla spalla.

“Non mi sono addormentato!!” mi contraddice lui con cipiglio ostinato “E se anche avessi sognato, avrei sognato me che baciavo Danny, non te… senza offesa, ma non sei una mia fantasia erotica ricorrente…”.

Respingo il conato di vomito che mi è uscito a pensare a quei due che si baciano e continuo imperterrita: “E allora avrai visto male… forse eravamo vicini e ti sei sbagliato… perché non ricordo nulla del genere…”.

“Davvero, Herm? Non ricordi nulla?” mi fa April, forse iniziando a capire che non sono pazza del tutto, e guardando con tale faccia invece Seth, che continua stoico: “Io so che cosa ho visto… ed era voi due che facevate fare alle vostre lingue stretching…”.

“Ma che schifo!!” urlo inorridita, tappando le orecchie a Serenity.

dai a me così schifo non farebbe…” ride April, appoggiandosi al muro accanto al mio letto con espressione sognante.

“A me sì… da morire…” borbotto facendo una smorfia “Dopo che vedi un ragazzo ad undici anni con i capelli impomatati di gel, ti passa qualsiasi pensiero su di lui da adulto!!”.

“Lo conoscevi così piccolo? Ma non avevate fatto solo il liceo assieme?!” chiede colpita April, guardandomi con curiosità.

Sono peggio della rana dalla bocca larga, accidenti a me!

“Una fotografia…” spiego sinteticamente, sperando di cavarmela.

Per fortuna Seth riprende con i suoi deliri, distogliendo l’attenzione di April: “Io vi ho visti baciarvi, ne sono sicuro!”.

Finalmente April guarda lui come un pazzo malato di mente, e gli dice con tono di voce ovvio: “Ma, scusa Seth, non credi che Hermione se ne ricorderebbe?”.

“E non credi che Hermione si sarebbe già suicidata?” completo io, roteando gli occhi. Baciare Malfoy, sì come no… come baciare un boa costrinctor, ma non diciamo idiozie. Chissà che idea si è fatto Seth per cui gli converrebbe mettere in giro una voce del genere… forse vuole liberarsi definitivamente di Summer, o chissà cosa… e poi dubito fortemente che a Malfoy venga qualsiasi pensiero di quel tipo nei miei confronti. Lui non mi vuole, invece. Trasalgo, mentre Seth continua ad inveire contro le argomentazioni di April; mi stringo ferocemente la mano in petto, ancora il ricordo di un pensiero che non so quando ho avuto. Indubbiamente, sento nella mia mente i residui di un mare feroce di pensieri e di sensazioni che devo aver provato la sera della festa; ma sono sepolti, come braci ardenti sotto la cenere. Non riesco a ricordare nulla, per quanto mi sforzi… e se davvero…? Naaah, figuriamoci, Malfoy mi avrebbe già sbattuto fuori a calci.

“E questa brillante storiella a chi l’avresti raccontata?” chiedo, con un sospiro, a Seth.

“Questa verità! Non storiella!” piagnucola lui, afferrandomi il braccio e stringendolo forte.

“D’accordo… questa brillante verità a quante persone l’avresti raccontata?!” concedo con un sospiro, presagendo il resto.

Lui conta sulle dita April, ovviamente; Trey, che secondo lui si sarebbe messo a piangere; Lawrence, che avrebbe alzato le spalle in modo insensibile, dicendo che doveva spinare il salmone; Gail, che ha iniziato a fornirgli le statistiche di distruzione delle spore dei funghi ad opera di baci troppo appassionati; Corinne che è esplosa in gridolini invidiosi e Lorna che ha subito chiesto se poteva avere l’armadietto di Summer.

Prima che mi dica che razza di battibecco ha avuto con quest’ultima per sto stramaledetto armadietto, erompo nervosa: “Insomma, l’hai detto a tutti?! E con che razza di faccia io dovrei scendere, dopo?!”.

Lui fa spallucce e risponde: “Non è che hai baciato Freddy la Pustola umana…!”.

“E chi è?” chiede curiosa April.

“Uno che veniva con me alle medie… orribile… un ragazzino lebbroso, secondo me… pensa che alla festa di Sharon Tingle, quella della 3° A, ebbe il coraggio di…”.
“Stavamo parlando della mia vita??!! O mi sbaglio??!” interrompo educatamente, menandogli uno scappellotto nelle costole.

“Ahia!” piagnucola lui, per poi riprendere ostinato: “E dalle! Hai baciato Danny Ryan, metà della popolazione mondiale vorrebbe essere al tuo posto, e tu te la prendi! Sei assurda! Magari c’ero io al tuo posto! L’esemplare maschile più attizzante della Terra e ti lamenti!”.

“Mi lamento perché non è vero che l’ho baciato!! E poi che diamine, attizzante…” rispondo disgustata, lasciando cadere le braccia “E poi, scusa, se ti piacerebbe così tanto baciarlo, che interesse hai a fare tanta pubblicità al fatto che lui avrebbe baciato me? Ammesso e non concesso che sia vero…”.

L’espressione di Seth cambia all’improvviso, da scanzonata e piena di luce com’era prima, diventa malinconica e triste, e lo vedo stringersi nelle spalle con impaccio, quasi come si vergognasse tutt’un tratto. Mi sento in colpa per quello che ho detto, e mi porto la mano alla bocca, abbassando lo sguardo. April mi lancia uno sguardo d’intesa, evidentemente ho passato il limite. In fondo, lo so che Seth è innamorato di Malfoy… non deve essere bello essere logorati dal desiderio per una persona che non ti vorrà mai. Deve essere terribile… ma allora perché vuole così tanto che io stia con lui? È un controsenso, no? L’amore alla fine diventa possesso, e tu vuoi tutta per te una determinata persona. Perché lui invece, no?

“Scusami Seth…” mormoro alla fine “Ho esagerato…”.

Lui scuote il capo con un sorriso, poi mi poggia una mano sul ginocchio e mi guarda intensamente, prima di dire: “Non hai esagerato, hai detto solo la verità… sai cosa, Hermione? Credo che, quando vuoi davvero bene a qualcuno, vuoi solo che lui sia felice… anche se non dovesse essere con te. Io voglio molto bene a Danny… e so che non è felice. Lo vedo, lo percepisco nei suoi silenzi, nelle sue parole mozzicate, nei suoi gesti affrettati. Danny non è felice, non è felice con Summer… lo è solo con Serenity…”.

Getta uno sguardo alla bambina tra le mie braccia, e sorride con malinconia, prima di continuare. Io stringo più forte la piccola, incapace anche solo di respirare, mentre lui parla ancora: “Ma Serenity è una bambina… non può dargli quello che cerca. Ed un giorno, nemmeno tanto lontano, avrà bisogno di una mamma… e Summer non può esserlo. Lo sai meglio di me, no? Ma al di là di Serenity… Danny ha bisogno di qualcuno che curi il suo cuore; credi che non veda quanto dolore porta dentro? Quanta rabbia? Quanto rancore? Che non racconti la sua vita, non cambia nulla… il suo dolore è tangibile, quando lo guardi negli occhi ti sembra di toccarlo… e ne resti travolto, sembra che prenda in pieno anche te…”.

Annuisco senza volere, stringendomi nelle spalle. Gli occhi di Danny… gli occhi di Draco… la malinconia di perdere qualcuno che amano, il dolore per chi ha già perso, l’odio per sé stesso… come scordarli? Restano nei tuoi, incastonati come diamanti morti.

“E io sogno solo il momento in cui il suo sguardo torni leggero, Herm…” sorride lui “Anche se non fosse con me… per me… plaudirei a quel miracolo e sarei solo felice…”.

“E io che c’entro con tutto questo?” bisbiglio sottovoce “Io non ho questo potere…”.

Lui sorride con aria saputa, e mi accarezza i capelli come se fossi un cucciolo spaventato.

E lo sono… spaventata…

Terrorizzata, le mie membra tremano di una paura che non so spiegarmi e che non so controllare. E che discende dall’arcano segreto ancora sigillato nella mia mente. Improvvisamente, non so come, so che Seth non stava scherzando. Sul bacio.

Non poteva star scherzando.

Non poteva star scherzando, mentre mi guarda e mi bacia dolcemente la guancia. Quando torna a guardarmi, sento distintamente oltre lo schermo della sua pelle il fragore cristallino del suo cuore che si è spezzato. Quel cuore che continua ad amare, non corrisposto, il suo Danny.

Quel cuore, che ora, non so come e non so perché, affida la salvezza dell’anima di Danny a me.

Quel cuore che apre la sua bocca in un bisbiglio doloroso e, nonostante tutto, luminoso di calore.

Quel cuore che fa sgorgare un sorriso che finge la felicità che vorrebbe avesse Danny.

Quel cuore puro che gli fa dire con semplicità delle parole che mi sconvolgono. Delle parole che sono persino peggio de La donna di Danny.

“Hermione, piccola… se ti ricordassi quel bacio, sapresti che quel meraviglioso potere ti è stato destinato da tutta la vita…

 

Mi sporgo oltre il comodino per guardare l’orologio, appeso al muro della mia camera. Nella penombra della notte, distinguo con fatica le lancette segnare le due e un quarto del mattino. Mi accascio nuovamente sul letto, un braccio piegato sugli occhi insonni, e mi volto sul fianco, gettando lo sguardo alla finestra, da cui filtra la tenue luce ambrata dei lampioni in strada. Un piccolo soffio di vento fresco mi raggiunge il viso e rabbrividisco nel mio pigiama di raso, allungo una mano alla ricerca del lenzuolo; sospiro e alla fine lo lascio dove sta. Se non riesco a prendere sonno, a che cosa mi serve la coperta come se stessi placidamente per rimettermi a dormire?

Mi stendo ancora, stiracchiandomi.

In fin dei conti, sono giorni che dormo ed è normale che ora io non abbia sonno. E Ginny comunque mi ha detto che come effetto collaterale della sua pozione, per i primi giorni, avrei avuto difficoltà a dormire. Niente di preoccupante e nemmeno di così invalidante, poi; ho il forte sospetto che, se dormissi, potrei avere degli incubi. Voldemort, le cose che mi faceva, insomma… è da parecchio che non mi accadeva ed è chiaro adesso che mi tengano sveglia…  all’allerta, insomma.

Sospiro.

Balle… colossali…

Almeno posso essere sincera con me stessa.

Queste motivazioni saranno anche vere ed incontrovertibili, ma non è per questo che mi rigiro nel letto da ore.

Non dormo perché sto pensando alle parole di Seth.

“Hermione, piccola… se ti ricordassi quel bacio, sapresti che quel meraviglioso potere ti è stato destinato da tutta la vita…

Si sono incastrate nella mia testa e non vanno più via, ripetendosi a ciclo continuo come un disco rotto. Il potere di far sorridere Danny… il potere di rendere il suo sguardo leggero… un potere a cui, inconsciamente, forse ho anche pensato, ma che vedevo come un qualcosa di talmente lontano da non apparirmi nemmeno per un momento nella mia sfera di riflessione.

Quando Malfoy mi ha raccontato la sua storia, quando mi ha detto dei suoi… io ero stata contenta che almeno avesse Serenity.

E magari, vedendolo nei giorni successivi, mi ero sempre ritrovata senza accorgermene a chiedermi se mai, un giorno, si sarebbe liberato da quei fantasmi che lo circondavano, se mai avesse avuto di nuovo una voglia di vivere diversa dall’inerzia che sembrava contraddistinguerlo.

Seth ha ragione.

Malfoy non è felice, ed è evidente in ogni cosa che fa.

Non fa mai programmi oltre i due giorni. Si chiude nella sua stanza per ore. Non dedica mai attenzione a nulla di nuovo.

Vive solo per Serenity.

E Summer… non è d’aiuto. Qualche volta, la bacia, ma mai con eccessiva attenzione… come se lo dovesse fare per un qualche dovere che si è imposto.

Naturalmente, posso aver pensato al potere di renderlo felice, se non altro per pura comprensione umana. Credo, o spero, che sia normale… ma sicuramente esso non è nelle mie mani. Io posso rendere Malfoy irritato, arrabbiato, smanioso di innescare una strage, ma non…

Felice…

Insomma, lui con me tutto è tranne che tale.

Ma Seth, invece, dice il contrario. E su che basi, poi?

Un bacio. Un dannato bacio che io non ricordo. E che chissà se c’è stato.

Seth non è nuovo ad inventare piani del genere. Se si è convinto che io ho questa capacità, potrebbe anche essersi inventato di sana pianta della faccenda per darmi una prova concreta.

Ma era così serio… possibile che si sia inventato questa storia perché vuole convincermi che sono io ad avere questo potere di cui parla?

Non lo so, ormai non so più nulla.

Non appena Seth ha lasciato la mia camera, mio malgrado, non ho più smesso di pensare a questa storia.

La mia mente si è completamente paralizzata in questa riflessione continua, lasciandomi assente alle parole di Lorna, Corinne e Gail che sono venute a trovarmi. Non riuscivo a sentire che cosa avessero da dirmi, specie dopo aver negato che il famoso bacio con Danny ci fosse stato.

Ammesso e non concesso che ci sia stato, non voglio certamente che lo sappia mezzo mondo.

Anche perché dubito che sia stato così romantico e tenero… forse mi hanno sedata… o comunque io stavo morendo, cosa difficile da spiegare a Seth, qualora la cosa si rivelasse vera.

Ovviamente le ragazze, vista la mia smentita, hanno perso interesse per me e hanno continuato a ripetere le loro lamentele lavorative; ho annuito con il capo di tanto in tanto, fingendo che stessi ascoltando. Ma non ho ascoltato nulla in realtà… mi sono persa nel seguire il mosaico che la mia memoria faticosamente ricostruiva.

Andate via loro, chiusi gli occhi, migliaia di particolari vividi sono fioriti sotto le mie palpebre chiuse a ingarbugliare ulteriormente la mia mente.

E tutti riguardano Malfoy.

Una cicatrice sul sopracciglio sinistro.

Una fossetta quasi buffa sul mento.

L’attaccatura dei capelli alta.

Il ciuffo di capelli biondi che costantemente gli copre la fronte.

Gli occhi grigi…quegli occhi… che sono sempre un po’ tristi, e che guardano sempre con un velo di malinconia ciò che lo circonda, come se temesse sempre di perderlo.

Ogni particolare è netto, distinto, chiaro. Come qualcosa vista da vicino. Come il viso di qualcuno che effettivamente mi stava baciando.

Sospiro, non ho nemmeno la forza di negare mentalmente. Anche perché, al di là del bacio, se ci sia stato o no, esso sarebbe facilmente liquidabile:

1.    Malfoy mi ha preso in giro.

2.    Era ubriaco.

3.    Ero ubriaca, io.

4.    L’ho scambiato per Dean.

5.    Ero in agonia.

6.    eccetera, eccetera…

Sì, insomma… un bacio non è necessariamente un atto d’amore. Può essere fatto per migliaia di motivi, anche se è difficile attribuirne uno a me e Malfoy. La cosa mi sconvolgerebbe, certo, ma sicuramente avrebbe una spiegazione logica.

Non deve essere stata nemmeno un’esperienza piacevole, tant’è che l’ho rimossa. Eppure… Seth… che cosa avrà potuto equivocare? Al punto di dire una frase simile? Una frase così forte, poi… pensa addirittura che io sia la donna giusta per Malfoy e che lo sia da tutta la vita… così potente è stato sto bacio, se mai c’è stato? E allora perché io non lo ricordo?

Sospiro, come mezz’ora fa, un’ora prima e le dodici ore precedenti, non c’è risposta a queste domande. So solo che, nel silenzio della mia stanza, io continuo a vedere gli occhi di Malfoy che si avvicinano a me e nelle mie orecchie passa il solo frammento che la mia mente mi ha lasciato… lui che mi chiama per nome… Hermione…ancora nella mia schiena passa un brivido freddo, e poi caldo, a quel pensiero.

Mi alzo dal letto, decidendo di andarmi a preparare qualcosa che mi aiuti a dormire. Ginny mi ha lasciato un po’ di valeriana in gocce, per contrastare gli effetti collaterali della pozione; se la prendo con un po’ di latte caldo, sicuramente non dovrò più avere problemi ad addormentarmi. E in quanto a Malfoy… non ci cavo un ragno dal buco, continuando a ripensarci. Domani mattina si vedrà. Non appena lo vedrò, capirò immediatamente che cosa è successo sia con Harry, che tra me e lui; se mi ha baciato, la sua faccia sarà inequivocabile. Forse sarà anche coperto di piaghe… rido mentalmente a quel pensiero, respirando profondamente, anche se il fremito del mio cuore continua a frastornarmi le orecchie e a darmi le vertigini.

Attraverso la mia camera e apro cautamente la porta, il salotto è avvolto nel più profondo silenzio. Dalla porta socchiusa della camera di Seth, mi giunge il suo elegante russare. Sorrido e mi incammino verso la porta silenziosamente, ci manca solo che si svegli e che inizi a blaterare altre teorie assurde, tipo che Serenity in realtà è figlia mia e di Malfoy e che non ne sono cosciente.

Apro la porta d’ingresso al nostro appartamento, accostandola subito dopo. Faccio solo un passo, prima di fermarmi immobile sul pianerottolo, una mano artigliata sul pomello della porta. Nell’oscurità, stringo gli occhi a guardare la porta dell’appartamento di Malfoy. Per un attimo, lo immagino oltre quella soglia; in quella stanza che io non ho mai visto. Lo immagino dormire... e già un attimo dopo, quella visione cambia. Il ricordo dei suoi occhi, me lo fa immaginare sveglio, lo sguardo perso su Serenity addormentata oppure fisso nelle luci della notte, il silenzioso buio che lo avvolge e cattura.

Da quello che mi è sembrato di capire dalle parole di Seth e di April, non permette a nessuno di entrare nella sua camera, tranne ovviamente a Serenity. Nemmeno Summer può entrarvi… chissà perché…

Come in ogni cosa della sua vita, non permette a nessuno di entrare.

Non l’ho ancora visto, da quando mi sono svegliata… magari è arrabbiato con me e aspetta solo di licenziarmi. Non che mi importi molto, in fondo… probabilmente tornerò a lavorare nel mondo della Magia, no?

Già, chissene… però, avrei voluto perlomeno scusarmi, se l’ho messo nei guai.

Seth mi ha detto che non lo vede da giorni, ha passato qualche giorno fuori città per lavoro ed è tornato solo ieri sera.

Grande considerazione… io stavo lì a morire e lui se n’è andato… ma di che mi sorprendo in fondo? Sempre di Malfoy stiamo parlando…

Ora che ci penso, quanto prima me ne vado da qua, meglio è… Seth ed April posso vederli anche indipendentemente da questo lavoro, e la presenza di Malfoy è diventata decisamente tossica. Alzo il mento altezzosa rivolta alla porta chiusa, figuriamoci, scusarmi con Malfoy, ma andasse a quel paese… mi incammino verso le scale, scendendole cautamente, appoggiandomi al corrimano. Attraverso la sala ristorante che è vuota, ovviamente, e buia, e riesco a tentoni a raggiungere la cucina. Trovo l’interruttore e accendo la luce, preparandomi un po’ di latte e sciogliendoci dopo qualche goccia di valeriana. La sorseggio piano, appoggiata allo stipite della porta; così vuota la stanza mi fa quasi paura, sono abituata a vederla sempre piena di gente affaccendata, con Lawrence che impartisce ordini a destra e sinistra, ed ora mi fa quasi impressione. Inoltre fa un caldo qui dentro… mamma mia… mi asciugo la fronte con fastidio, poi penso che posso sempre andare sul tetto. Almeno prendo un po’ di fresco… persuasa dalla mia decisione, spengo la luce e risalgo la scala all’incontrario, superando il piano dei nostri appartamenti per arrivare sul tetto.

Apro la porta piano e la socchiudo subito dopo; lo spettacolo delle luci di Londra mi accoglie meraviglioso come lo ricordavo, assieme ad un fresco venticello notturno che mi dà ristoro. La luna è tornata piena dall’oblio dei miei giorni, sembra il viso di una bambina felice, e ricopre d’argento tutta la città; a me la luna piena mi ha sempre dato una sensazione di calma e di serenità meravigliosa.

Mi sento tranquilla, nella certezza che non possa accadermi nulla.

Era con la luna piena che i Mangiamorte non ci attaccavano perché erano troppo visibili.

Era con la luna piena che Ron restava accanto a me di notte, perché temeva che qualcuno lo vedesse, mentre andava da Lavanda.

Era con la luna piena che Dean si metteva sulla terrazza a guardare il cielo e cianciava sul fatto che fosse imparentato con Neil Armstrong, facendomi sbellicare dalle risate.

Era con la luna piena che io guardavo il cielo e mi tranquillizzavo, perché la ferita non avrebbe sanguinato.

Socchiudo gli occhi, pregustandomi quel piacere e quei ricordi lontani. Oggi, sotto questa luna chiara, improvvisamente fanno anche meno male. Danno solo uno strazio dolce nel cuore, ovattato dalla luce bianca e nebulosa, dolore di sottofondo che vibra della vita che comunque sono grata di avere, dopo aver rischiato seriamente di aver perso ricordi e sogni futuri.

Il silenzio assoluto è rotto solo dal frinire delle cicale e dall’eco della musica dance di qualche locale lontano, portato dal vento. Un aereo notturno scivola nel velluto nero, e penso a quante vite sono su questa terra, correndo e affaccendandosi per dare un senso a sé stessi. Vite che amano, sognano, odiano e ridono, e piangono, e si arrabbiano, e mi dà una sensazione sconfinata di piacevole tristezza.

Sempre con gli occhi chiusi, faccio qualche passo, poi mi fermo immobile nel centro della terrazza, rabbrividendo per il fresco nel mio pigiama leggero; tengo stretta la tazza calda tra le mani ed essa mi dà un piacevole calore.

Mi ritrovo a sorridere come una scema, sempre con gli occhi chiusi, la meraviglia di questo sogno.

Apparentemente stasera è tutto a posto.

Riapro lentamente gli occhi, sempre sorridendo, incapace di farne a meno.

E gelo su me stessa, interrogativa.

Occhi di ghiaccio nei miei.

Draco.

Quando cavolo è arrivato????

È fermo immobile davanti a me, ad un solo minuscolo passo da me. Ha l’aria stanca, i capelli biondi spettinati dal vento e la camicia bianca che si gonfia un po’. Mi scruta il viso alla ricerca di chissà che cosa.  È… diverso… il suo sguardo è diverso. Non so in cosa, ma lo è… mi stringo le spalle, a disagio, cosciente di non riuscire ad aprire bocca e dire qualsiasi cosa. Mi guarda e basta, le labbra semisocchiuse, in attesa. In attesa, di cosa? Persino la sua mano è leggermente tesa, come se la stesse sollevando, ma poi si fosse fermato ed essa si fosse congelata. La seguo con gli occhi ricadere lungo il suo fianco, come il vessillo di una nave che batte bandiera bianca.

Che si arrende.

Lo guardo, senza capire. Che cosa vuole? Brividi come cascate di gocce minuscole e roventi sfuggono sulla mia schiena.

E ciò che è più grave, se mai ce fosse bisogno, è che non riesco a smettere di guardarlo.

Sono immobile su questa terrazza, la tazza che diventa bollente nelle mie dita ghiacciate, il vento che mi agita il viso e un calore assurdo che mi travolge come un’onda calda; e la sola cosa che so fare è non smettere di guardarlo.

Perché?

E lui… e lui, lo stesso. Perché?

Distogliere lo sguardo dai suoi occhi, che mi guardano quasi curiosi, mi sembra al momento il peggiore peccato di cui si può macchiare un essere umano.

Resto anche io nell’attesa che qualcosa si compia, anche se non so che cosa.

Saranno pochi secondi, lo so, ma sembrano eterni. Dannatamente eterni.

Basta, mi devo riprendere! Non posso lasciare che sia lui per primo a parlare, dannazione! Farei la figura della scema!

Che posso dire?! L’ho già chiarito mentalmente che non ho grandi argomenti di conversazione con lui…

Bah… devo dire qualcosa, accidenti! Quanto tempo sarà passato??! Forse troppo… e ora magari mi prende in giro e scoppia a ridere!!

Non posso permetterlo, no, no!!!

Fatemi pensare, maledetti occhi grigi, se davvero devo parlare, vorrà dire che gli dirò naturalmente qualcosa di cattivo e sgradevole.

Come consuetudine, no? No? NO???!!!!

Gli dirò qualcosa tipo…

Non smettere di baciarmi… mai… Draco…

Ti prego… non farlo…

Sgrano gli occhi, terrorizzata, ed istintivamente faccio un passo indietro, e poi un altro ancora, ed un altro. Mi allontano, incespicando, le mani che fanno tremare innaturalmente la tazza che ho tra le dita.

“Granger che hai?” mi chiama lui, piano, riscuotendosi e guardandomi con la testa inclinata di lato.

Ad ogni passo indietro, ad ogni centimetro che metto tra me e lui in questa mia ritirata assurda, qualcosa mi colpisce al cuore come un calcio bel calibrato. Ogni cosa perde definizione, come i contorni di un quadro bagnati dalla pioggia, e non so se sono io che sto piangendo, o è il mondo che se ne va assieme a me.

Non sono qui.

Sono a giorni fa, sotto un cielo nero come la pece, preparandomi a morire.

Sono il sangue che impregna il mio vestito. Sono la lacrima che scende dalla mia guancia e muore lungo il mio collo. Sono il grido che fende l’aria mentre Voldemort cerca di violentarmi.

Sono la luce che mi porta indietro.

Un altro passo indietro, mentre mi ritrovo a piangere, schiacciata sotto un’emozione che ogni secondo diventa più intensa e mozzafiato.

Come una scarica elettrica, ad ogni passo indietro, ricordo qualcosa.

Seth sulla porta.

Il terrore per lui… per Draco…

Lui che si finge… che si finge…occupato.

Il bacio…

Il bacio…ora ricordo il bacio. La violenza che vi sentivo, il senso di impotenza… io che cerco di liberarmi…

Un altro passo indietro, mentre lo guardo carica di rabbia, le lacrime che scintillano nei miei occhi.

Mi ha costretto a baciarlo… e dove cavolo la vedeva Seth quella… cosa?

Lui mi guarda, senza capire, le sopracciglia sottili aggrottate, forse pensando che sono impazzita.

So che sto per dirgli.

Ti odio Malfoy.

Un altro passo.

Un altro ricordo.

Una lacrima che scende.

Come il guizzo di un pesce argenteo nell’acqua trasparente, scompaiono e ricompaiono come la marea i suoi occhi che mi guardano tristi. La sua mano che sfiora la mia guancia bagnata, come adesso.

Lui che diventa triste… e non c’è bisogno di un manuale d’istruzioni per capirlo. È l’espressione che ha sempre quando, per un secondo, si incanta a guardare Serenity. Scuote il capo, poi, e torna ad indossare la sua maschera.

Quel giorno… lui mi guarda meravigliato di tristezza. Capisce che sto piangendo.

E poi… mi si spezza il cuore, ne sento il vuoto espandersi nel mio petto. Sono di nuovo lì, nel nostro bacio che cambia…

Le sue mani su di me, le labbra calde e posate leggermente sulle mie… ed io che lo voglio, da impazzire.

Un altro passo, e sono in trappola. Trovo la porta della terrazza sulla mia schiena.

Ho finito di scappare.

Sotto i suoi occhi che ancora mi fissano sconcertati, ogni pezzo torna a posto. Per così dire. Assieme ad ogni ricordo.

Io che lo voglio… io che mi ritrovo a desiderarlo come non ho mai desiderato niente nella mia vita.

Essere Auror. Tornare con Ron. Amare Dean. Tornare una strega.

Non valgono niente, sono tutte paccottiglie di poco valore. Sono tutta disciolta nel senso di averlo ancora tra le mie braccia.

Tutta la mia anima è avviluppata come un nastro rosso attorno a questo desiderio.

Tutta la mia mente brucia come carta, disperdendosi nel vento, nel fuoco di questo pensiero.

La tazza cade rovinosamente dalle mie mani, frantumandosi in mille pezzi.

Voglio che continui a baciarmi per tutta l’esistenza, che finisca il tempo e lo spazio, ma che lui non smetta. Che bruci la città ed anneghi il mondo, ma che lui non smetta. Nelle mie vene, il ricordo del fuoco, un’arsura che lui rinfresca per un attimo, illudendomi di essermi assetata ma che mi uccide poco a poco, lasciandomi riarsa e svuotata.

Lo sento qui, dentro di me, come se avessimo fatto l’amore e ora sapessi ogni particolare di lui, a memoria. E ci siamo solo dati un bacio a stampo… tremo, mentre brucia come carta Malfoy, il piccolo principe che incontro nel treno per Hogwarts, il ragazzino arrogante che disturba la lezione, il purosangue che mi insulta sul campo da Quidditch, l’individuo insensibile e maleducato che schiaffeggio al terzo anno, il ragazzo elegante che balla con Pansy Parkinson, l’aspirante assassino che geme sulla Torre d’Astronomia, il Mangiamorte che passa dalla nostra parte, il pentito che piange nella nostra cucina a Grimmuald Place.

Come una lingua di fiamma sottile, penetra nei miei ricordi, incenerendoli passo dopo passo.

Non resta più nulla.

Perché… io… ormai… se lo guardo, vedo solo Draco. E non vedo più Malfoy. Non riuscirò nemmeno più a pronunciare a voce alta il nome Malfoy, mi sembrerà sempre così maledettamente strano nelle mie labbra, mentre lo associo al suo viso, alle sue labbra… e ai suoi occhi. Anche ora che lo guardo in questi suoi occhi quasi spaventati, io so pensare solo… Draco.

E io… che cosa sono, oggi?

Sono una donna babbana come tante, come quelle che volano nel cielo su un aereo, dando un senso alla propria vita.

Non so nemmeno se sono ancora Hermione Jane Granger.

Non so che cosa sia rimasto di me stessa mentre l’ultimo segreto si scioglie, l’ultimo che la mia mente aveva celato.

Io… io stavo per dirgli di baciarmi ancora, quella sera, quando lui si è fermato.

Come un qualsiasi donna stupida che implora un amante.

Questo, io stavo per dirgli.

Singhiozzo, cadendo in ginocchio, sotto il suo sguardo, sotto questo mistero profondo che sono i suoi occhi che continuano solo a poggiarsi su di me, tristi e meravigliati. 

Io stavo per dirgli… Non smettere di baciarmi… mai… Draco… ti prego… non farlo…

E sollevando piano lo sguardo, sotto questa sera, dove la luna è ricomparsa piena dall’oscurità dei giorni che mi hanno sedato la memoria altrimenti arroventata, mi rendo conto che… io lo voglio ancora.

Che ora direi solamente… se non avessi il mio orgoglio che mi chiude la bocca…

Gli direi solamente che ha lasciato tutto sé stesso dentro di me, riempiendomi al punto tale che io non so più dove sono finita. Come se mi schiacciasse contro le pareti con la sua sola presenza.

Ancora aprirei la bocca solo per dirgli quanto lo voglio.

Quando mai, io, proprio io, ho pensato una cosa del genere? Quando mai sono stata presa da una passione così forte che prendesse ed imbavagliasse la mia mente? Quando? Viktor, Ron, Dean? Chi, dannazione?

Mai.

Nessuno.

Mai… nessuno… e mai nemmeno lui…

Per salvare me stessa… se sarà necessario… io andrò via questa sera stessa.

 

Rieccomi, dopo un periodo di assenza forzata causa studio!

Che ne dite di questo capitolo? Vi piace? Ovviamente non avete che da farmelo sapere!! Una piccola precisazione per coloro che abbiano eventualmente frequentato il mio forum; non sono riuscita a postarlo in anteprima lì causa difficoltà del mio nuovo computer, ma riprenderò al più presto. Per coloro che volessero avere accesso alla sezione protetta delle anteprime, ricordo che è necessario presentarsi nella sezione BENVENUTI e magari indicare perché vi piace la storia e simili… chiedo venia per aver ancora usufruito di questo spazio…J

Passo ai ringraziamenti:

Sabbry: grazie tantissimo della recensione, specie se la prima, mi fa molto piacere! Stai tranquilla, questa, nonostante momenti di alterna follia, è sempre una Draco/Herm, quindi il lieto fine è sempre dietro l’angolo! Continua a seguirmi! Baci!

Nyappy: grazie tantissimo dei tuoi complimenti, è sempre bello avere nuovi lettori! Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto e sia stato anche lungo a sufficienza!:P Baci!!

Seven: la mia carissima Seven! Le tue recensioni mi fanno sempre impazzire, perché sono sempre lunghe ed accurate, proprio come piacciono a me! L’assenza di Draco purtroppo era inevitabile, ma come vedi ho già rimediato e rimedierò ancora meglio nel prossimo capitolo! La riappacificazione con Harry e Ginny era già nei patti, diciamo che era necessario un evento drammatico per farla avvenire a cui ho prontamente rimediato; e credo anche io che comunque Hermione sia molto legata a loro e che comunque bisognava recuperare… Ron invece si stesse dove sta! :D Hermione e Draco sicuramente un giorno torneranno nel loro mondo, non si sa come, ma avverrà! Grazie dei tuoi complimenti e non mi annoi affatto, anzi!! Baci!!

FraFri95: la mia lettrice che vale per due!! Eheheh!! Grazie della recensione e come sempre saluti alla mamma... ! A Dean sono particolarmente affezionata, mentre Ron seeeh, lo ammazzerei sotto i piedi per questo non lo faccio comparire mai, mi scuso con le sue fan!! Un bacio!!

Baby_San: ciao tesoro!! L’assenza di Draco sarà spiegata, tranquilla, un giorno tutto avrà risposta! E poi davvero te lo vedi Draco stile crocerossina??!! Baci!!

Nefene: la mia tesora!! Ma come farei senza di te che recensisci due capitoli alla volta!! E che mi dedichi i capitoli della tua storia e mi fai gli auguri!!! Sei unica!!:D Grazie come sempre dei tuoi complimenti, non so se me li merito tutti!! Sono sempre molto contenta perché ci tengo che a te piaccia la mia storia più che a tutti gli altri, senza offesa!! Sei la mia prima vera lettrice!! Quindi grazie, grazie ancora!!!

Ne approfitto per fare un’operazione pubblicitaria!! Da qualche giorno è on line una bellissima storia, tradotta dalla mia cara Nefene!!

Si chiama “DELICATE” ed è una Rose/Scorpius carina e fresca, oltre che originale e ben scritta!! L’antefatto è semplice, la nostra Rose è incinta!! Vi ho incuriosito??!! E allora correte a leggere!! ecco il link…http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=404211

UN saluto a tutti coloro anche che leggono e non recensiscono!!!

Baci!!! Cassie!!!

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 16
*** Artemis and Selen ***


Capitolo 16 – Artemis and Selen

Capitolo 16 – Artemis and Selen

 

“Voldemort…” sussurro, piano, il labbro inferiore che trema senza sosta.

“Che cosa?”.

“Voldemort…” ripeto pazientemente, asciugandomi le lacrime che mi bagnano il viso e impegnando ogni fibra di me stessa nel tenere ferma e salda la mia voce. Prendo fiato e riprendo: “Scusami… è solo che ho avuto una visione di Voldemort, insomma… mi sono spaventata… Ginny, però, ha detto che è normale… passerà…”.

Nella mia enorme bugia, invento persino un sorriso di circostanza che vorrebbe rendere il mio volto una maschera di placida rassegnazione. Dentro, sento un enorme incendio che mi distrugge passo passo, ma cerco di metterlo a tacere.

Adesso, è necessario che faccia finta di niente.

Draco mi guarda, annuendo, avvicinandosi a me per aiutarmi ad alzarmi. La mano che si allunga verso il mio gomito, mi fa ritrarre terrorizzata verso il muro. Per favore, non sfiorarmi più… sorrido lievemente, puntellandomi sulle mani e alzandomi in piedi: “Tranquillo, ce la faccio…”.

Lui guarda stranito la mia manovra, evidentemente intuendo che c’è qualcosa che non va. La testa leggermente piegata di lato, mi osserva per qualche secondo, cercando di capire, ma dopo qualche secondo lascia perdere. Credo che etichetti la mia espressione sconvolta come una conseguenza della visione frottola che mi sono inventata. Quindi non si pone troppi problemi.

“Certo, Granger che, da quando vivi qui, ho bisogno di un elettrocardiogramma una volta all’ora…” borbotta lui, incrociando le braccia.

“Scusami…”. Questa è la mia voce?! Possibile che io invece di parlare, pigoli semplicemente, peggio di un pulcino in gabbia?? Calma, calma… devo cercare di calmarmi e di essere tranquilla. Il fatto che improvvisamente e inopportunamente io abbia scoperto di essere attratta fisicamente da Draco Malfoy, non significa che questo mi si sia stampato in faccia, come la lettera scarlatta del romanzo di Hawthorne. D’accordo, a me al momento sembra di essere investita di una colpa enorme, di essere diventata una donna indegna di continuare ad esistere e che davvero ho un segno incandescente che brucia sul mio viso… ma in realtà, io esteriormente sono uguale a prima, no? Insomma non è che Malfoy improvvisamente mi legge in testa, quindi posso perlomeno fingere che tutto sia come sempre. Quando poi tornerò sola, rifletterò bene sulle cose, ci macinerò su, troverò una soluzione, dopo innumerevoli percosse, testate al muro e una tentata lobotomia.

Ma adesso… io devo essere sempre la stessa…

“Intendevo…” dico, sollevando orgogliosamente la testa e fissando attentamente il suo naso, l’unica parte poco interessante del suo viso. Non ci posso pensare che trovo meravigliosi i suoi occhi e irresistibili le sue labbra!! Com’era? Com’era, accidenti!! Ah già… fuori io per lui sono sempre la stessa, fuori io per lui sono sempre la stessa… ok, ci sono… proseguo con voce ferma, fissando sempre l’appendice nasale: “Intendevo dire, scusami… per Serenity, capisco che, insomma, ho messo a rischio lei e… te…”, deglutisco rumorosamente prima di continuare: “… è stata un’imprudenza… ingiustificabile… e capirei se volessi licenziarmi, insomma io mi licenzierei per molto meno. Cioè se fossi te, io avrei licenziato me per molto meno… me, nel senso Hermione, quella che non prende la pozione e rischia di morire e di svelare la tua identità… quindi capisco se mi vuoi licenziare, anzi sai che c’è? Mi dimetto… si dirà così? Vabbè, prendila per buona… il party è passato, tutti siamo sani e vivi, nessuno è stato scoperto e io me ne torno alla mia vita, eh? Che ne pensi? Una bella idea… una bella idea corroborante…corroborante, come mi è uscito!”, mentre ridacchio scioccamente della scelta della mia ultima parola che non so che nesso abbia con il resto, mi sento incredibilmente stupida e mi rendo tremendamente conto di aver sproloquiato per tipo un’ora.

Draco mi guarda con gli occhi annacquati, evidentemente cercando di rimettere assieme i pezzi dell’assurda conversazione, e io mi stringo nelle spalle in imbarazzo; devo dire qualcosa, accidenti, questo silenzio non lo sopporto.

È come uno specchio che mi mostra per come sono; nervosa, agitata ed imbarazzata. Le parole sono sempre la calda coperta dietro cui nascondo me stessa. Apro la bocca, ma vengo subito interrotta da Draco che inizia a parlare al posto mio.
“Allora, Granger…ora ti dai una bella calmata…” inizia con tono di voce ovvio, passandosi una mano nei capelli pensosamente, poi torna a guardarmi, riprendendo: “… ti siedi, parli come una persona civile, come presupporrebbe che tu sia, e, se non è troppo fastidio, la smetti anche di fissarmi il naso…”.

Colpita nel vivo, arrossisco: “Io non ti stavo per niente fissando il naso! Ma che sei scemo?! Non sono mica feticista!”.

Lui sospira, alzando gli occhi al cielo: “Non sei feticista e io sono pazzo… anzi sono iper-orgoglioso del mio naso e penso che tutti me lo guardino, avidi… adesso ti siedi?!”.

Sospiro a mia volta e mi siedo per terra, subito imitata da lui, la schiena appoggiata alla ringhiera della terrazza. Stringo le ginocchia al petto, rabbrividendo, e guardo dritta davanti a me, cercando di non incontrare i suoi occhi. Ovviamente metto anche quanta più distanza possibile tra me e lui per impedirmi anche solo di sentire lievemente il calore del suo corpo. Lui ancora osserva le mie manovre, sento i suoi occhi su di me, ma non dice nulla. Siccome continua a non dire nulla, cosa che mi dà i nervi, penso bene di iniziare di nuovo io.

“Mi dispiace…” sussurro, il mento appoggiato sulle ginocchia “Quello che volevo dire, prima, era questo… non mi sarei mai perdonata, se per colpa mia, avessero scoperto di te… o di Serenity… mi dispiace molto…”.

Lo sento ridacchiare e me ne chiedo il motivo, ma non oso aprire bocca.

“Granger, lo sai che non è Serenity il problema…” sorride lui, guardando lontano “Serenity non ha colpa… io sono il problema… ma siccome non hai mai avuto lo spirito alla Bellatrix, i tuoi amici sono bietoloni insipidamente buoni… anche se mi avessero riconosciuto, per me i problemi vengono dai Mangiamorte… non dai tuoi amici…”, lo guardo di sottecchi mentre lui si distende meglio: “Certo, Potter, Lenticchia… la Piattola… e la Brown, santo cielo, la Brown… mi danno acidità di stomaco, ma un digestivo e tutto passa…”.

Sorrido leggermente, scuotendo il capo quasi incredula, poi mi azzardo a chiedere: “Hai parlato con Harry, quindi?”.

“Hai mai provato ad evitare Potter? È impossibile…” sospira lui, chiudendo gli occhi “E’ come le tasse… o come la morte… se decide di avere a che fare con te, trova il modo di arrivare…”, si volta nella mia direzione e mi fissa dritto negli occhi, mentre trattengo il fiato: “E… no… Granger… risparmiati la domanda su che cosa ci siamo detti, sono fatti miei e di Potty… ti basti sapere che siamo vivi entrambi…”.

Distolgo lo sguardo da lui, il viso in fiamme, e pensosamente non mi trattengo dal dire: “Un giorno lo capirò che diamine avete da dirvi tu e lui… non avete niente in comune, alla fine… e state sempre lì a bisbigliare come due vecchie comari…”.

Lo sento sorridere, piano, ed è ancora un’onda di tristezza mista a divertimento che vela la sua voce. Un’onda lunga che si propaga da lui e che, alla fine, ingloba anche me, lui che è tutto e io che sono niente. Un brivido lungo la schiena, mentre lui bisbiglia: “Al momento, per la prima volta nella vita, io e Potter una cosa in comune ce l’abbiamo… te…”.

Per un attimo, mi sembra quasi di non aver capito, lo guardo scioccamente sbattendo le ciglia. Subito dopo, è un carezzevole pensiero nella mia mente sentirmi il ponte tra due persone così diverse e che, nel bene e nel male, ora contano così tanto per me. Ricordo le parole di Seth sul potere misterioso che, per lui, io dovrei avere su Draco e per un attimo me ne sento quasi investita, indorata come una sacerdotessa su un altare di pietra inaccessibile e irraggiungibile. Mi sento superiore a Summer e a chiunque altro sia entrato anche solo per un istante nella vita di Draco Malfoy e Danny Ryan. Poi, mi rendo conto che è un’illusione, alquanto stupida, e mi affretto a tornare in me, ancora l’anelito oscuro della sopravvivenza di me stessa che mi fa desiderare e al contempo temere la fine di questa conversazione.

Respiro piano, cercando di darmi coraggio, per poi chiedere: “Quindi, è di me che avete parlato?”.

Lui sogghigna in un modo diverso, semplicemente diverso. Non è mai stato così, con me, perlomeno. L’eco di quel bacio lontano prende anche lui?  

“No, piccola presuntuosa…”.

“E scommetto che, anche se fosse, non me lo diresti, vero?”.

“Bingo!”.

“Quindi farti queste domande, alla fine, è inutile?!” borbotto, mettendo il broncio.

“Brava” sorride lui, guardandomi di sbieco “Alla fine l’hai capita…”.

“Bah… allora mi chiedo che ci sto a fare a parlare con te…” biascico, appoggiando la testa sulla mia mano.

“Non che io abbia un estremo bisogno di interloquire con te, Granger… ma credo che sia perché sono la sola persona sveglia alle due e mezzo del mattino? Potrebbe essere?” fa lui sarcastico, appoggiando le mani dietro di sé. Annuisco con il capo per non dargli troppa soddisfazione.

Un bisbiglio appena accennato.

“Perché sei sveglia?”. Abbasso il capo fissandomi i piedi, coperti da un paio di sciocche ciabatte rosa con la stampa di due cani abbracciati. Ridicole e penose, davvero. Mi avevano fatto tenerezza, però… le avevo viste mesi prima, quando stavo ancora con Dean. Occhieggiavano in una vetrina e le avevo comprate, senza riflettere; morbide e imbottite, quando le mettevo, mi facevano sentire a casa. Ed era stata l’unica cosa che avevo avuto il coraggio di portarmi dietro da casa mia. Casa mia… chissà se ci dovrò tornare, se accetto la proposta di Ginny…

Casa mia… già, ora è un posto come tanti altri… stranamente ora è questa casa mia, questa terrazza, questo cielo…

Basta questi pensieri, mi dico, scuotendo il capo. Ho deciso di andarmene, e basta. A stare qui, non ci sto capendo più niente di quella che sono. Improvvisamente in un poco più di un mese, sono talmente cambiata da credere che ci sia un'altra ad indossare la mia pelle e a muoversi nei miei pensieri. Spesso la vecchia Hermione la guarda dall’esterno, come se fosse uno strano fenomeno da baraccone, un cane equilibrista oppure un funambolo della peggiore specie, e fatica a riconoscersi in essa.

Io la guardo e mi chiedo chi sia.

Ama fare la cameriera.

Si prende cura con affetto di una bambina piccola.

Ha per amico un pazzo scatenato.

… ed è attratta quasi da svenire da Draco Malfoy…

Dio, nonostante la mia mente ancora mi scolpisce a caratteri di fuoco i ricordi di quella sera, tutto questo mi sembra sempre assurdo. Come se fossi posseduta da un’altra. Un’altra donna che smania per avere il giovane uomo che ha accanto, e che lo ricorda solo con desiderio.

Sebbene sono lontana da lui e lo guardo solo lo stretto indispensabile, io saprei disegnare su una tela il profilo dei suoi occhi e il loro colore preciso. Che non è né grigio né azzurro, ma una sfumatura intermedia, come il cielo di primavera che ancora non è pronto per diventare estate.

Le sue labbra sottili che sono sempre arricciate in una smorfia di fastidio elegante. Il biondo preciso dei suoi capelli, così chiaro da sembrare bianco, ma che poi si illumina d’argento alla luce della luna. La luna che sembra stargli così bene addosso nella sua luce… sorrido tristemente, saprei persino disegnare quel suo stramaledetto naso…

Non c’è dubbio che sto impazzendo, come non c’è dubbio che ogni secondo io mi perdo in questi pensieri. E non c’è dubbio che imbarcarsi in un amore tormentato e non corrisposto, non è una cosa che si addice ad una come me, specie ora che ho ventitre anni. Specie ora che le cose sono così confuse e strane, dopo la rottura con Dean.

Non c’è dubbio che questa…cosa… deve finire.

“Pensieri…” rispondo malinconica alla sua domanda sul perché sono sveglia.

“Pensieri? Non pensi abbastanza di giorno?” ghigna lui, guardandomi divertito.

Sorrido sarcastica, inarcando un sopracciglio: “Hai ragione… quasi… l’attività celebrale umana non puoi comprenderla, da bravo furetto che sei… quindi non mi stupisce che non comprendi il pensare notturno. Sei molto legato al tramontare del sole… come tutte le bestioline, vai in letargo…”.

“Mamma mia, Granger… sei divertentissima! Un vero animale da palcoscenico!” fa lui con voce sarcastica, portandosi melodrammaticamente le mani al petto “Effettivamente il tuo talento non va sprecato… dovrei metterti sul bancone e farti esibire… che ne pensi?”.

La sua risata echeggia nelle mie orecchie, una risata allegra. Mi spezza il cuore.

Adesso… o mai più…

Con tutta la forza che credo di possedere, volto il capo verso di lui. Vorrei fingere un sorriso, ma non ci riesco. Sfioro con gli occhi i suoi e avverto anche la sua allegria disperdersi nel vento, gli occhi che si velano di preoccupata curiosità al mio sguardo serio. Cerca di capire che sia successo, perché sia cambiata all’improvviso, io lo guardo e basta, stampandomi nella mente la sua immagine. Parte di me che vuole che ancora mi stringa, parte di me che sta per dirgli che fuggo da lui. E il cuore, in mezzo, che si spezza a metà…

Tiro su con il naso e sospiro, abbassando lo sguardo; lo rialzo indossando decisione e risolutezza, velandomi gli occhi di un sorriso. Le parole sfuggono dalle mie labbra, leggere e veloci, per fare meno male. Sfugge assieme a loro anche il suo nome.

Io non riesco più a dire Malfoy.

“Non mi avrai più né come fenomeno da circo né come cameriera… Harry mi ha offerto un lavoro e penso che accetterò, Draco...”.

“Che cosa hai detto?”.

Sbatto le palpebre un paio di volte, guardandolo. Il suo viso è così…strano… il suo sguardo si perde nel vuoto, mentre mi guarda. Di solito, i suoi occhi sono sempre presenti a stesso, ora sembra che sia stato trasportato via da qui, da questo momento, da questo luogo. Gli serra piano, in uno spasmo che non capisco. Sembra… dolore…

Perché? Diamine, perché sta soffrendo? Che cosa ho detto?

Al momento darei tutta la mia anima per leggere anche parte dei suoi pensieri.

Il viso contratto, l’aria triste, la mano serrata in un pugno poggiato sul pavimento sul quale ancora siamo seduti, la luna che lascia il suo viso in una penombra profonda. Oramai so leggere il suo sguardo, so leggere i suoi gesti e non sono così stupida da pensare che questa reazione sia per me, sia per la notizia che sto per andare via. Lo so e basta. Mi dispiace ma è così.

Non è vero.

Non è che mi dispiace… mi uccide dentro, come sapere che non ho argomenti di conversazione con lui, come sapere che per lui sono meno di niente… come volerlo quando lui invece non mi vuole.

Ma è così. Ed ogni secondo che scorre, è consapevolezza come veleno che avvolge i miei pensieri. Razionalità omicida della mia fantasia.

Quando non si trattiene, quando lascia uscire i suoi sentimenti… quando soffre…

È sempre per il passato, mai per il presente. Un passato avvolto ancora nelle tenebre e che io non conoscerò mai.

I suoi occhi si aprono piano, ricordandosi di me, saturandosi di mille immagini veloci come saette che scorrono le une sulle altre, riempiendosi di ricordi da cui sono esclusa. Li ricaccia indietro con un respiro profondo, e torna a guardarmi, la voce piena di affanno doloroso.

“Erano due anni che qualcuno non mi chiamava Draco…” sussurra, una mano nei capelli. Sotto il mio sguardo sconvolto, stringe forte i capelli biondi tra le dita, come a strapparli via, come a darsi un dolore che superi quello che ancora alberga nei suoi occhi.

Mi porto velocemente le mani alla bocca, scioccata da me stessa, nella mia gola brucia ancora il suo vero nome che, ora, mi sembra quasi di aver urlato alle stelle fino a pochi secondi fa. Oddio, il suo vero nome… come mi è saltato in mente? Potevo solo pensarlo… perché l’ho anche detto? Ogni freno inibitore di me stessa, ogni paletto che dovrebbe difendermi, si sgretola come niente.

Sc-scusami…” balbetto imbarazzata “L’ho fatto senza pensare… mi dispiace…”.

Lui non risponde nulla, resta con il viso basso, una mano sul petto, gli occhi ancora ostaggi di un tempo lontano.

Le lacrime che si formano nei miei occhi a quella vista, sono quanto di più doloroso sia mai esistito in me. E ormai quella maledetta consapevolezza mi fa desiderare solo di andare via. Andarmene via da quel potere che ho su di lui… non di rendere il suo sguardo leggero, come diceva Seth, ma di dargli sempre e solo sofferenza.

Fargli ricordare cose che gli fanno male.

Forse io e lui… siamo come la rana e lo scorpione… che, quando cercano di rinnegare la loro natura, che vorrebbe che si odino, finiscono solo per farsi del male a vicenda… e per morirne… evidentemente, per sempre, io e Draco Malfoy ci causeremo dolore a vicenda.

Non c’è spazio per altro.

Mi alzo velocemente, le palme sul pavimento, il desiderio di correre via che lo sento fino nelle ossa.

Un solo passo, prima che mi fermi. E dentro… oltre la mia mente, non so dove… nel cuoresapevo che mi avresti fermata la speranza si confonde con il saperlo. Speravo che mi fermasse, ma come sempre non osavo esprimerlo a me stessa.

Le sue dita si stringono come mille altre volte attorno al mio polso e mi costringono dolcemente a girarmi su me stessa, il vento che gela le lacrime che scorrono sul mio viso. Si è alzato in un secondo in piedi e mi ha afferrata per fermarmi.

Lo guardo piangendo, incapace anche solo per orgoglio di fermarmi. Ogni colpa del mondo la sento in me, la sento nelle mille caratteristiche che mi rendono come sono. L’essere così tremendamente sbagliata davanti a lui. Sbagliata sì… perché ogni cosa di me stona accanto a lui.

Donna, babbana, mezzosangue, povera, castana... Lui è il contrario di tutto questo.

La nebbia negli occhi è andata via, me ne accorgo subito. Ora sono di nuovo trasparenti come prima.

“Granger…” un sussurro, poi sospira e sorride: “Hermione…”.

Sgrano gli occhi e resto immobile, il suono del mio nome nelle orecchie che si ripete come una dolce canzone.

“Non mi dà fastidio…” prosegue, la mano che si stringe piano attorno al mio polso per poi scendere lungo la mia mano. La stringe e mi manca il fiato, rifuggo i suoi occhi.

“Non ci sono abituato… ma non mi dà fastidio…” la voce più serena per un secondo, poi si colma di tristezza: “Dopo la morte dei miei, pochi mi hanno chiamato così… anzi, forse… nessuno…con gli altri, poi… sono Danny… però io sono Draco, alla fine, dentro sono Draco, non Danny…”, lo sento sorridere piano: “Ogni tanto fa piacere ricordarmi che sono sempre me stesso… mi fa anche bene, credo… non è bello nascondersi per sempre dietro una persona che non si è… e che nemmeno esiste…”.

Sollevo gli occhi: “Ma… prima… sembravi… soffrire…”.

Sorride piano, lasciando la mia mano: “Sei disgustosamente buona, Hermione… ripeto… è solo che non ci sono abituato…”.

Apro la bocca per obiettare, lui nega con il capo: “Abitudine… o mancanza della stessa… basta così…”.

Mi asciugo le lacrime con la manica del pigiama, annuendo, oramai convinta che non potrò più chiedergli nulla, anche se sono certa che non era solo la mancanza dell’utilizzo del suo nome a dargli quella reazione, ma… altro…

“E non piangere, per piacere…” aggiunge, sedendosi daccapo “Cavolo, un’Auror che piange come una mocciosa…”.

Lo imito, sedendomi di nuovo, stringendo le ginocchia al petto. Ripercorro gli ultimi momenti nella mente e sorrido, le sue dita che ancora la mia mano riconosce sulla mia pelle, il calore che si irradia lungo il braccio.

“Da quando mi chiami per nome?” sorrido, guardandolo di lato.

“Credo da quando mi chiami tu per nome…”, la sua voce si tinge di malizia mentre aggiunge, avvicinandosi al mio viso: “O forse da quando ti ho baciato… non sono abituato a chiamare per cognome le donne che bacio…”.

Arrossisco violentemente, allontanandomi con il sedere per quanto sia possibile, urlando: “Se è questo il motivo, da questo momento in poi voglio essere chiamata signorina Hermione Jane Granger! Se non fosse che stavo per morire, t’avrei castrato! Come diamine ti è saltato in mente…??!”.

“Avanti, non fare come sempre la novizia in crisi mistica…” fa lui noncurante, le braccia incrociate dietro la nuca “Non è stata un’esperienza piacevole, te lo assicuro… ma era per Seth… se non stessi sanguinando come un agnello il giorno di Pasqua, figurati se ti avessi baciato…”.

“Potevi trovare un’altra scusa…” obietto.

“Con Seth…? Sì come no…” bercia rassegnato “Potevo anche fingere che mi fosse venuta una qualche malattia fulminante, e avanti tutta… solo, baciandoti, non si sarebbe avvicinato… nonostante tutto, è discreto… e comunque, in qualche logica perversa, gli farebbe anche piacere se stessi con te…”.

Arrossisco ancora al ricordo della conversazione che ho avuto con Seth questo pomeriggio e ringrazio il buio che mi avvolge: “Logica perversa e illogica…”.

“Ecco, appunto… e allora stattene tranquilla e ringrazia che nessuno si è accorto che stavi morendo dissanguata…” termina con espressione ovvia, gli occhi socchiusi.

Una domanda che non so fermare: “Non hai pensato a Summer? Se ti avesse visto?”.

Sussulta leggermente, colpito sicuramente dalla mia domanda diretta, e abbassa lo sguardo pensieroso. Sospira piano per poi dire in tono sofferto: “No… non ci ho pensato…”.

“Non è un’esperienza edificante essere traditi…”.

“Weasley ti ha tradito?” mi chiede a bruciapelo, guardandomi. Distolgo lo sguardo, interdetta. Come cavolo ha fatto a capirlo?

“Non c’entra adesso… non stavo parlando di me… ma io la parte dell’amante non la avrei fatta, nemmeno per salvarmi la vita… o per proteggere te e Serenity… spero che questo sia chiaro…

Lui resta in silenzio, non rispondendo più, mentre dico: “E anche se si tratta Summer, che non è la persona più adorabile del mondo nella mia modesta opinione, non l’avrei tollerato…”.

Lo sento sospirare piano, la sua voce decisa che raggiunge le mie orecchie, velata di malcelato fastidio: “Se Summer ci avesse visto, le avrei dato una spiegazione, probabilmente sarebbe stata una bugia, ma sarebbe stato affare mio… la parte dell’amante non l’avresti mai fatta… credo che esuli dai tuoi desideri come dalle mie ambizioni… quindi non ti parare dietro queste cose…”.

Mi avvolge un gelo che solo quello dell’inferno potrebbe essere minimamente somigliante: “Che significa, pararsi dietro a queste cose? Non mi sto nascondendo proprio dietro a niente…”, ed è già una bugia mentre la frase ancora non ha lasciato le mie labbra.

I suoi occhi ritornano bruscamente nei miei, senza allegria o ironia, freddi come il ghiaccio. Sembra il Malfoy di tanti anni fa… mi terrorizza… nello sguardo come di un serpente, leggo un rancore che come sempre passa attraverso me, ma di cui non sono l’originale destinatario. Come se la prendesse con Dio, con il destino o chissà con che cosa, e veicolasse tale odio tramite me.

Le labbra sottili, arricciate in tracce solo di sentimenti negativi, si aprono per dirmi: “Non rendere immorale una cosa che ti è piaciuta, Granger… rendere un bacio sbagliato non lo fa diventare improvvisamente disgustoso… se ti è piaciuto baciarmi, non usare Summer come schermo per farlo diventare una colpa. È tipico di te… di voi…”.

Prima del terrore di essere scoperta, prima che senta il segno della mia passione trafiggermi il viso rendendosi evidente, mi colpisce solo la rabbia. Ancora quel voi… lo odio… odio che per lui io sia solamente una dei rappresentanti dell’altra barricata. Di quegli ideali schieramenti in cui ha diviso la sua vita. Dove io sono sempre una dei suoi nemici.

Mentire se si è furibondi, è tremendamente facile.

“Penso sinceramente quello che ho detto, Malfoy…” sibilo gelida “E non sono qui a strapparmi i capelli perché tu mi baci ancora… ma puoi pensarla come vuoi, credo che non sarà né la prima né l’ultima volta in cui saremo ai due lati opposti di un’argomentazione…”, mi alzo in piedi e gli le spalle, calcolando già la distanza che mi separa dalla porta.

Nel mio ultimo sussurro, gli dico, non guardandolo in viso: “Ma questo voi… questo voi che ripeti sempre… come tu sei lieto di essere Draco, io sono lieta di essere Hermione. Me stessa con le mie idee e i miei pensieri... e sono davvero stanca che tu sconti su di me colpe altrui…”.

Lo sento distintamente trasalire e alzarsi in piedi, un passo solo a separarlo da me.

“Hermione…” sussurra, meraviglia e dolore nella voce “Aspetta…”. Mi fermo ad un passo da lui, ancora di spalle, trattenendo le lacrime che minacciano di scorrere subito sul mio viso. Incerto mentre mi chiede con un filo di voce: “Va via perché ti ho baciato, vero?”.

“No” dico solamente, dandogli ancora le spalle.

“E per che cosa?”.

“E’ una grande occasione per me…” replico asettica e fredda, cosciente solo del vento freddo che mi percuote il viso senza sosta, svuotata di tutto il resto.

“Guardami in faccia, maledizione!” sento distante come in un altro mondo la sua voce dire irata e in un rapido spostamento d’aria la sua mano giungere ad afferrarmi per il fianco, facendomi girare verso di lui. Lo guardo negli occhi, senza alcuna emozione, fredda come ghiaccio. È già come l’eco di una era passata il lieve incedere del mio cuore che accelera a sentire la pressione calda della sua mano sul mio fianco, il raso del pigiama che diventa tiepido. Ma già… io non sento più nulla… come se improvvisamente quel tumulto si fosse gelato su stesso, così come era nato. Sapevo che era tutto impossibile tra me e lui, sapevo tutto… ma credevo che almeno per lui, io ora fossi qualcosa di diverso da quel maledetto voi. Ed invece lui me lo vede ancora dannatamente stampato in fronte.

Non lo sopporto. Non credo di poterlo più sopportare.

La sua mano indugia sul mio fianco, lieve scorre sulla mia schiena, aprendosi e fermandosi su di essa. Mi sta solo trattenendo lì, non mi abbraccia, tra me e lui c’è ancora la distanza di tutto il suo braccio teso. Questa distanza fa male più di tutto il resto.

“Rispondimi…” mi chiede quasi implorante “Perché vai via?”.

Con decisione, sposto la sua mano dal mio fianco, la tengo stretta per un solo secondo per poi lasciarla andare. I suoi occhi si socchiudono appena, uno spasmo che gli prende qualcosa sul viso, lo fa contrarre in una smorfia dolorosa.

Mi complimento con me stessa per sapere resistere. Plaudo al mio raziocinio, al mio sangue freddo, alla mia intelligenza, alla mia forza di volontà. Come faccio sempre. Ma è la prima volta che non provo gioia per questo.

È la prima volta nella mia vita che il mio istinto fa più male del essere coerente.

I suoi occhi… dannazione, ai suoi occhi da angelo maledetto… resta lì, immobile a guardarmi, la mano che ha lasciato il mio fianco contratta in un pugno inutile e silenzioso.

La vecchia Hermione applaude soddisfatta. La nuova donna in me geme nel buio di quegli occhi. Ma credo che entrambe, nonostante tutto, vogliano solo andare via da qui… e, ad entrambe manca un battito, mentre di nuovo apro bocca.

La prima per orgoglio. La seconda per dolore.

L’ultima frase che chiude questa conversazione la pronuncio io, andando via.

Senza che stavolta lui mi fermi.

I passi mi riportano indietro alla porta della terrazza, la trovano e se la chiudono alle spalle. Lo lascio lì attonito, gli occhi spalancati come quelli di un cucciolo sorpreso sull’autostrada dai fari di un auto assassina.

Lo lascio, sicuramente con l’eco delle mie parole nella testa.

“Non hai risposte da chiedermi, Draco… ce l’hai tu la risposta al perché vado via. Ed è la risposta ad un’altra domanda…”.

Mi sono concessa solo un sospiro, per guardarlo un’ultima volta in viso.

Perché, nonostante tutto, lo trovo sempre così maledettamente bello da svenire. E questo non lo cambia nemmeno il fatto che la rana e lo scorpione non dovrebbero nemmeno guardarsi in viso, troppo a lungo.

Ma tu, Draco, sei troppo bello per non chiedere a qualsiasi luna di guardarti solo un’altra volta…

La mia voce crudele poi aveva finito il lavoro. Con lui. E con il mio cuore.

Dicendo solamente a lui che non avrebbe risposto: “Domandati perché dopo tutto quello che sta accadendo tra me e te, io sono sempre una di quei voi… e perché lo sarò per sempre…”.

 

 

Taddadà, ecco pronto il nuovo capitoletto!! Anche questo mi è costato na faticaccia che non avete idea: se per me risulta abbastanza facile calarmi nei pensieri e nelle sensazioni di Hermione, infatti non a caso la storia è in prima persona, quando si tratta di Draco, addio! Entro in crisi, davvero! Il mio Draco, poi, credo che sia una persona molto particolare, insomma per ogni cosa che accade si capisce bene che, nella sua testa, accade altro. Come in questo caso. Ricorda cose, persone. Ben presto i misteri inizieranno a svelarsi tranquilli!

Alcune piccole precisazioni!

Il titolo di questo chappy è, tradotto, Artemide e Selene.

Il motivo è semplice ma credo debba essere spiegato. Artemide è la dea greca della luna nuova, Selene di quella piena; le ho volutamente accostate perché, sotto la prima, la luna nuova, Hermione e Draco si sono baciati. Sotto quella piena, Hermione sembra dire addio a Draco stesso.

Sempre la luna diciamo che è coinvolta! J

Seconda cosa; in questo, come nel capitolo precedente, Hermione non ha scoperto di essere innamorata di Draco!

Hermione ha solamente capito che, a seguito di quel bacio, è attratta da Draco, lo trova un bel ragazzo e così via. Mettiamola così, in maniera abbastanza semplicistica, se Hermione non avesse la sua tempra morale e Draco le facesse una “proposta” di segno evidentemente solo fisico, lei ci starebbe, ecco!

Nella mia opinione, personale quindi anche discutibile, l’amore è una cosa ben più complessa e tra due persone che si odiano da tutta una vita, è difficile che sorga, specie poi all’improvviso. Ha bisogno di tempo, delle occasioni giuste, passa per il recupero della stima, per l’attrazione fisica certamente, per un certo grado di fiducia e complicità. Quindi Hermione non è assolutamente innamorata; anche perché pensateci bene, la vera Hermione, quella della Rowling, rivela qualcosa dei suoi sentimenti per Ron (bleah!) dopo molti anni. Se la mia deve restare come voglio assolutamente IC, è chiaro che anche lei seguirà le stesse tappe, per Draco, considerando poi che lo odiava, che lui nasconde evidentemente qualcosa e che la mia Hermione è rimasta scottata dalle esperienze con Ron e con Dean.

Era una precisazione che ho mancato fare l’altra volta, ma ci tenevo!

Capirete subito quando Hermione è innamorata, tranquilli!! J

Diciamo che, per come è lei, già scoprirsi attratta dal furetto, è qualcosa di aberrante. Quindi, penso che in questo, lei scelga di andare via. Per rifuggire ad un sentimento che insomma non tollera. Con questo, spero, di aver risposto a tutte le vostre domande. Purtroppo mi mancava davvero il tempo di rispondere uno per uno, quindi ho fatto questa premessa!!

Ringrazio ovviamente tutti coloro che recensiscono e i loro meravigliosi complimenti che mi riempiono d’orgoglio, quindi Rorothejoy, Baby_san, Nyappy, Seven, Nefene, Lights, FraFri95 (con la sua mitica mamma!).

Ringrazio anche coloro che hanno solo letto, messo la loro storia tra i preferiti e le seguite! Spero che un giorno portino HALFT nelle storie scelte! J

Un bacio a tutti!!

Cassie!!

 

 

 

 

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Capitolo 17
*** Rose cherry flavoured ***


Capitolo 17 – Rose cherry flavoured

Capitolo 17 – Rose cherry flavoured

 

“Cioè, alla fine, se davvero ci pensi... è proprio assurdo…”.

Silenzio prevedibile dall’altra parte, socchiudo gli occhi appoggiando la testa al muro. Riaprendoli, trovo la forza di continuare.

“Insomma, una settimana… è passata una settimana buona… ma niente…”.

Sospiro, allontanando con uno sbuffo la ciocca di capelli bagnata che mi è caduta sugli occhi.

“Non che mi aspettassi qualcosa…” proseguo, la mia mano che compie lenti movimenti circolari nell’acqua “Mi ci sono anche rassegnata… e il senso del mio discorso era anche abbastanza chiaro… ma non credi che qualcosa avrebbe dovuto dirmela?”.

Solo un gorgheggio di risposta.

“Già, lo penso anche io…” borbotto sconsolata “Volevo proprio che non mi dicesse più niente… di che mi lamento? E poi tra qualche settimana nemmeno lo vedrò più… eppure…”, mi sistemo meglio e continuo: “Eppure, comunque mi sembra sempre che ci sia qualcosa di strano sotto…”.

Sospiro nuovamente, abbandonando la testa all’indietro, per poi implorare: “Tu che ne pensi?”.

Serenity solleva leggermente il capo e mi guarda, sorridendo. Batte le mani paffute nell’acqua della vasca da bagno, ridendo gioiosa della schiuma che le accarezza il naso, facendole il solletico. Sorrido a mia volta, spostandomi indietro e stringendola più forte. La piccola si adagia contro il mio seno, i capelli bagnati che mi sfiorano piano. Non pensavo che fosse così bello e rilassante fare il bagno con una bambina piccola; vabbè, rilassante… ho sempre paura che se mi sfugge, affoga, ma la tengo stretta mentre gioca, quindi insomma non dovrebbe esserci questo pericolo, spero… e poi cavolo! Se Seth non le voleva fare il bagno e io ero in ritardo, come diamine dovevo fare?! Almeno ho accorpato la sua pulizia alla mia…

E poi il bagnoschiuma dei bambini è proprio buono… ciliegia… fa quasi venire fame…

Dolcemente, inizio a frizionare i capelli di Serenity, cercando di distrarre la mia mente dai miei inevitabili pensieri. Sospiro nuovamente, certo che essermi ridotta a confidarmi con una bambina di un anno… santo cielo, sono proprio da ricoverare.

Non che io non abbia confidenti, ma credo che a nessuno di essi parlerei in maniera agevole ed indolore della mia colpevole e assolutamente sgradita nuova attrazione per Draco Lucius Malfoy.

Insomma, andiamo… Ginny? Mi caverebbe gli occhi. Ron? Lavanda? Luna? Il centauro Fiorenzo???!!

Decisamente ogni componente del mondo magico è escluso: a parte l’assurdità della mia situazione, ci si metterebbe anche dover spiegare come sia diventata improvvisamente necrofila. Cavolo, per loro, Draco è morto.

E se anche mi improvvisassi kamikaze e facessi harakiri parlandone con Harry… diciamo che avrei anche la vita di un valente Ministro della Magia sulla coscienza… Harry avrebbe quattro infarti contemporaneamente… già non credo che abbia accettato che lavori qui e ci sia rimasta in attesa dell’esame, figuriamoci questo…

Se, poi, vado ad enumerare nella mia mente i personaggi che compongono il mio mondo babbano… le cose procedono diversamente, ma non meglio. Danny Ryan è vivo e vegeto e per molti non sarebbe il peccato originale, considerarlo un bel ragazzo. Anzi, per uno come Seth, sarebbe l’ammissione tardiva che ho gli occhi in faccia e gli ormoni a posto.

Ma anche parlarne con Seth non risolverebbe molto… probabilmente mi direbbe anche di provarci, in barba a Summer, che comunque esiste ed è un fatto. Sorrido tra me e me, probabilmente mi ipnotizzerebbe anche… ma, a parte la presenza di Summer, non saprei come spiegarli come questa mia scoperta sia così negativa per me.

Dovrei raccontare degli Auror, di Voldemort e di come la vita mia e di Draco siano così indiscutibilmente divise da un fossato, scavato dalla storia di parti opposte, decise da centinaia di persone prima di noi. Dovrei dire di come certe cose non cambiano mai. E di come sarebbe stato meglio che io e lui non ci fossimo mai rincontrati… e, solo a quel punto, con una punta di disperazione nella voce, potrei chiedere se esiste una maniera miracolosa, sia essa magica o babbana, per smettere di provare determinate cose per una persona.

Non è amore. E questo lo so… non ne sono innamorata… ma, per me, è già sufficiente aver sentito dentro quella dolorosa insoddisfazione prettamente fisica del non averlo più. Mi è bastata… mi basta, insomma… eppure, la continuo a sentire, folle la mente e pazzo il cuore.

Tiro su con il naso quasi in modo feroce per evitarmi di piangere, non ci sto proprio a piangere per Draco Malfoy.

Che diamine… un po’ di dignità ce l’ho ancora…

Ed, in fondo, chissenefrega che non mi parla da una settimana… si chiudesse pure nel suo silenzio, popolato di fantasmi, e gettasse anche la chiave in fondo all’oceano. Ci può anche affogare, per quello che mi importa. 

Non credo di avergli detto niente di così offensivo o assurdo, no?

Gli ho semplicemente detto la verità. Che me ne vado perché non ho motivi sufficienti per restare. La sintesi del mio discorso era questa… non ho con lui un rapporto così fatale ed esclusivo da rinunciare a tutto, per lui, fosse anche per amicizia. Specie se, per lui, io continuo sempre ad essere la solita Hermione di sempre, asservita a quel voi di cui parla sempre… quindi, anche se tornassi nel mondo della magia, non mi farebbe poi così male troncare ogni contatto con lui, visto che comunque lui nel nostro ambiente originario, non ci può mettere più piede.

Per gli altri, poi, il caso depone nella stessa direzione.

Seth lo posso continuare a vedere, ed anzi in questa ultima settimana, l’ho presentato con April ad Harry e Ginny come garanzia che diventassimo un gruppo unico, quando io avessi smesso di lavorare al Petite Peste.

L’esperienza è stata piacevole e i miei amici si sono integrati perfettamente: Ginny ha trovato una nuova alleata in April nell’organizzazione del matrimonio perfetto, con buona pace del mio apparato uditivo. Seth ed Harry vanno molto d’accordo, ridendosela di me e delle mie assurdità. E, se mettiamo assieme che qualche volta sono riuscita a trascinarmi dietro anche Trey e Corinne, gli unici che mi erano sembrati interessati all’idea, il quadro risulta del tutto positivo.

Seth, all’inizio, mi ha messo il muso per due giorni, sapendo che me ne sarei andata da casa, in quanto ho deciso anche di tornare nel mio appartamento, trascorse queste quattro settimane prima dell’esame. Decisione che ho preso indipendentemente da come andrà l’esame; qualora non sarò ammessa, Harry mi ha già detto che si impegnerà personalmente per darmi un altro posto, fosse anche solo quello della sua segretaria.

Un’altra cosa decisamente positiva, ma che ovviamente a Seth non andava giù.

Poi ne ho parlato con lui, un pomeriggio, esponendo tutte le mie ragioni: il fatto che fare la cameriera a vita non fa per me, che ho bisogno di rinsaldare i rapporti con i miei vecchi amici e che li devo questo tentativo, oltre che comunque la mia vita, prima o poi, finirà inevitabilmente per portarmi in una direzione diversa. Potrei anche lavorare qui per altri due anni, ma a che pro? Non appena la condanna finirà e sarò tornata una strega, che farò? I miei amici, intendo quelli magici, mi accetteranno ancora, dopo che avrò rifiutato deliberatamente ed ingiustificatamente ogni loro sforzo per farmi tornare alla mia solita vita?

Sono nata per essere una strega. Non per essere una babbana in incognito.

Insomma, a conti fatti, ogni cosa depone in quella direzione, inutile negarlo.

Ogni cosa comporta solamente conseguenze positive.

Quando Seth ha capito che per me era una grande occasione (ovviamente celata in termini babbani), si è rassegnato, e mi ha detto che devo seguire la mia strada. Non appena poi ha visto che, comunque, io ero intenzionata a continuare a frequentare sia lui che April che gli altri del Petite Peste, non si è fatto più problemi e ha continuato a trattarmi come sempre.

Seth non ha più parlato con me di Draco.

Ed ho capito che le parole di quel giorno gli erano costate tanto, nonostante non ne recasse traccia nei gesti e nelle parole.

Forse è anche per questo che non gli parlo di lui. Seth è la tipica persona che fodera la sua anima di colori sgargianti e di frivolezze, pur di non mostrare a nessuno che dentro… dentro è tutto diverso.

Lui ci crede a quello che mi ha detto, lo vedo negli occhi che seguono me e Draco evitarci in ogni stanza, in quegli occhi che si abbassano repentinamente quando ho bisogno che Draco sappia qualcosa e la grido a voce alta, rivolgendomi a lui, in modo che anche l’altro senta.

Ma non mi ha chiesto il motivo di questo silenzio.

Credo… perché gli faccia male… forse immagina che sia successo qualcosa tra me e lui… non so… e pensare che io sia la persona giusta per Draco, anche se non so davvero come faccia, non esula comunque dal avvertire questa sua consapevolezza come dolorosa.

Magari pensa che, dopo quel bacio, continuiamo una meravigliosa quanto proibita relazione clandestina e, davanti a loro, facciamo finta di non guardarci in faccia per celarla.

Vorrei smentirlo, ma non credo che, allo stadio attuale delle cose, riuscirei a parlare serenamente di Draco, senza vomitare tutto quello che sento dentro. Quindi mi glorio della normalità con cui Seth, nonostante tutto, mi tratti.

E dentro, come lui, come Seth, sotto le risate indifferenti e il gioioso menefreghismo… come quadratini di celluloide, rivivo la serata del mio bacio con Draco e quella in cui gli ho detto intimamente addio.

Perché, nonostante tutto il senso di questo discorso, il fatto che io sia qui, a mollo, a parlare a Serenity di lui, è una prova più che sufficiente.

Una prova che va anche oltre il fatto di aver capito che, per lui, io sono rimasta quella della scuola, quella che faceva parte dell’Ordine della Fenice, quella che è stata il capo della gente che si è macchiata dell’omicidio dei suoi.

Quella che gli ricorda ogni giorno la gente che odia e la gente che ha amato e perso.

E questa prova che va oltre tutto… è che non riesco a smettere di pensare a lui.

Sospiro rumorosamente, accarezzando il capo di Serenity. Non ci siamo più parlati da quella sera, ci evitiamo come la peste, lui cerca di uscire sempre quando io sono in casa e io faccio lo stesso.

Il solo contatto che abbiamo avuto, è stato quando mi ha consegnato la mia richiesta di dimissioni, dicendomi solamente: “Non avevo ancora avuto il tempo di fare il contratto… non ce n’è bisogno…”. Ed anche allora ha evitato accuratamente di guardarmi in viso.

Non mi aspettavo che reagisse così, assolutamente.

Certo mi sono adeguata al suo silenzio, intimamente contenta che le mie ultime settimane qui non sarebbero state così meravigliose da farmelo rimpiangere in seguito. Non che tra me e Draco, l’aggettivo meraviglioso aggiunto a convivenza si potesse mai aggiungere, anzi… ma comunque io non lo capisco.

“Domandati perché dopo tutto quello che sta accadendo tra me e te, io sono sempre una di quei voi… e perché lo sarò per sempre…”.

Cosa c’è stato di così assurdo in questa frase? Per lui, intendo, da non potermi nemmeno più guardare in faccia? Ed anche se avessi detto qualcosa di così terribile, perché allora non mi ha contraddetto?

Come sempre, non ho risposte a queste domande e, come sempre, anche oggi mi dico che spero che queste quattro settimane passino in fretta. E come sempre mi dico che devo pensare a studiare e che ci sono un sacco di leggi da memorizzare per il concorso, anche se molte di esse già le conoscessi per sommi capi.

Ma come sempre… io so che, tra qualche ora, starò ancora qui a pensarci.

“Herm, devo entrare! Se sapevo che ci avresti messo tanto a fare il bagno a Serenity, glielo avrei fatto io!!” la voce di Seth mi raggiunge attraverso la porta chiusa.

“Ok, adesso esco!” urlo al suo indirizzo. Con attenzione, prendo in braccio la piccola che sta giocherellando con una papera di gomma e la poggio sul fasciatoio, attaccato alla vasca. Esco a mia volta io, avvolgendo Serenity in un asciugamano e indossando io l’accappatoio.

La asciugo piano, lei che ride contenta, facendo sorridere anche me. Quanto mi mancherà, quando sarò andata via… dubito che riuscirò a vederla, contrariamente agli altri. Specie se le cose tra me e Draco restassero così… lui è sempre con Serenity, in fondo. Se ora non c’è, è solo perché è uscito con Summer; quando me ne andrò, difficilmente potrò vederla.

Accarezzo piano la guancia paffuta della piccola, che prende tra le sue la mia mano, stringendola forte. Mi mordo il labbro inferiore per impedirmi di piangere, chi l’avrebbe mai detto che mi sarei affezionata tanto a questa bambina?

E chi l’avrebbe detto che mi sarei affezionata tanto anche a suo fratello, in fondo…

“Tranquilla piccola mia…” dico con un sorriso, stringendo il pugno “Scoprirò la maniera per venirti a trovare… non me lo potrà impedire, stanne certa!”. Lei quasi come se mi avesse capito, scoppia a ridere allungando le braccia, volendomi venire in braccio.

La prendo e stringo forte, l’odore di ciliegia che mi avvolge come una carezza calda.

Accidenti, i vestiti di Serenity… li ho dimenticati fuori… vabbè tanto in ogni caso devo uscire, sennò Seth sfonda la porta. E poi è una giornata calda, non si raffredderà per pochi secondi fuori.

Allaccio la cintura dell’accappatoio e prendo la piccola in braccio, per poi aprire la porta.

L’ombra di Seth davanti a me mi fa spazientire: “Sono uscita, dannazione! Cinque secondi in meno per depilarti l’addome non saranno na tragedia! Ormai potresti battere tutti i record per come sei efficiente… dovresti fare decisamente l’estetista…”.

“Veramente mi sto depilando di là!” urla Seth dalla cucina.

Non c’entrano niente i capelli bagnati con la sensazione di gelo che avverto dietro il collo.

Sollevo timidamente gli occhi, sperando con tutto il cuore che sia April, Trey, Corinne o chiunque altro. Mi andrebbe bene anche Ron, Dean, Lavanda o Calì. Ma che dico, mi andrebbe bene anche Lord Voldemort in persona.

Non sono stata mai fortunata con le preghiere.

I suoi occhi mi scrutano freddamente, soggiunge solamente un: “Granger…”.

Sussulto, rabbrividendo, ed impercettibilmente stringo Serenity per ricavarne il calore che ora mi manca e che mi scivola dal corpo, disperdendosi come in una rovinosa entropia. Gli occhi mi si annebbiano in un secondo, il mio cognome che rimbomba nelle orecchie, permeato dell’odio che ci ha calcato sopra con decisione.

Non è la prima volta, no? Già, ma è la prima volta che fa male.

Alzo il mento, guardandolo fisso negli occhi. Il suo volto cambia espressione solo per un secondo, bruma confusa negli occhi, poi ritorna una maschera indurita dal risentimento.

“Draco…” sussurro, superandolo.

Con la coda dell’occhio, lo vedo restare immobile per qualche attimo, la mano incerta poggiata sulla maniglia della porta del bagno. Io mi siedo sul letto, pronta a vestire Serenity, silenzio ovattato dai miei pensieri. 

Qualsiasi cosa accada, io, mio malgrado, non saprò dire più null’altro che… Draco…

Guardo la sua schiena, mentre mi dà ancora le spalle, ancora immobile.

Ti prego, dimmi qualcosa… qualsiasi cosa, Draco… io non voglio andarmene così. Quattro settimane sono così lunghe… ma in realtà saranno brevissime. Passeranno come un soffio, e non ci vedremo mai più.

Mi eviterai ancora se verrò a vedere Serenity?

Ti eviterò ancora se passerò a prendere Seth?

Ci eviteremo per sempre? Codardi, non sapremo mai risolvere questo nodo tra di noi? Io non voglio amore, non lo voglio.

Voglio solo che ti giri e mi chiami Hermione. È la sola cosa che desidero al mondo. È la sola cosa che ho davvero desiderato nella vita.

Ti prego, girati… e chiama il mio nome… è così… bello… quando lo dici tu…

La sua mano indugia sulla maniglia, poi la spinge con risolutezza, entrando.

Abbasso gli occhi.

Non sono stata mai fortunata con le preghiere.

 

 

“Wonderland?” chiedo con una punta di disappunto, arricciando il naso “Originale come nome per un parco divertimenti…”.

Poggio l’evidenziatore giallo con cui stavo studiando il paragrafo del giorno, la Legge contro lo sfruttamento delle creature marine a scopo di lucro, e guardo Seth con nervosismo. Ho un sacco di pagine da studiare oggi, e lui ciancia su giostre e montagne russe.

“Non è che lo devi pubblicizzare e lanciare oltreoceano…” mugugna Seth “Dovremmo solo andarci… oggi, per precisione…”.

“Fossi matta, ho un macello da studiare…”.

“EDDAI!!”.

“Ma non sarai un po’ cresciutello per i parchi divertimento?!” borbotto innervosita, guardandolo storto.

“E tu non sarai un po’ troppo acida per avere solo ventitre anni?!” mi risponde a tono Seth, incrociando le braccia.

“Andiamo Seth…” imploro con un sospiro “Ho già ringraziato mentalmente Dio che oggi non abbiamo tanto da fare…” e getto un’occhiata eloquente alla sala deserta.

“Ma dai, studierai domani! E poi è per Serenity, mica per me!” mugugna quella sottospecie di animale lamentoso “Si annoia, povera piccola…”. Ed ovviamente mi lancia uno di quegli sguardi tipici di un cucciolo abbandonato sotto la pioggia che ti fissa mentre stai mangiando un succulento hamburger.

Già so di essere pronta a cedere, in fondo non ci stavo comunque capendo nulla del paragrafo in questione. E so che domani, essendo mercoledì, il giorno di chiusura, ho tempo per rifarmi.

Va bene tutto… ma ci sarebbe un punto da chiarire…

“Seth…” esordisco, guardandolo fisso negli occhi “C’è una cosa che mi preme chiarire…”.

Lui, incuriosito dal mio tono, si avvicina, sedendosi accanto a me e sporgendosi verso il mio viso: “Dimmi”.

Respiro profondamente per poi dire tutto d’un fiato: “Io non posso venire se c’è Danny… ti prego, Seth, non mentirmi, dicendomi che non c’è per poi farmelo trovare…”.

Seth sgrana gli occhi, colpito, per poi distogliere bruscamente gli occhi da me. È la prima volta, da quella volta in camera mia, che parlo di Draco con lui.

Quando Seth torna a guardarmi, come sempre, ha nascosto sotto mari di luce opalina la tristezza che solo per un attimo gli aveva velato lo sguardo. Con un sorriso, mi chiede in un sussurro: “Che è successo, Herm? Ne vuoi parlare?”.

Sorrido, so quanto gli costa chiedermi di parlarne. Ma mi vuole bene e l’ha fatto lo stesso… grazie Seth…

“Non tantissimo…” dico sinceramente, anche perché sarei davvero una sadica bastarda. Lo vedo rilassare la tensione che gli aveva preso le spalle, e guardarmi intensamente.

Gli occhi bassi, ho solo la forza di aggiungere: “Tra me e Danny le cose vanno male… molto… e dubito che miglioreranno. Forse peggioreranno ancora… quindi, preferisco non restare con lui più del dovuto… spero che tu capisca…”.

“Certo, tesoro… figurati…” mi dice comprensivo, accarezzandomi la schiena “Danny e Summer sono fuori… non so dove siano andati, ma non torneranno mai in tempo per accompagnarci… saremo solo io, te e Serenity… ti va?”.

Annuisco con il capo, sollevata. Se si tratta solo di loro due, allora non ci sono problemi.

“Ok, allora nessun problema…” sorride Seth, poi il suo sguardo si rannuvola per un attimo, giada grigia. Abbassando lo sguardo, mi chiede se può chiedermi una cosa. Annuisco sospettosa.

“Non voglio spiegazioni… e dopo questa domanda, non ce ne saranno altre, Herm…” mi dice, guardandomi seriamente. Stona così tanto quell’espressione con il suo viso che mi costringo al silenzio, acconsentendo solo con il capo.

Poggia la sua mano sulla mia, sospirando: “E’ per questa cosa con Danny che vai via?”.

Sgrano gli occhi, colpita dalla schiettezza della sua domanda, ed immediatamente il mio cuore manca un battito. Certo che è per questo, vorrei rispondere… l’odio era così maledettamente rassicurante, Seth. Odiavo Draco e tutto mi sembrava facile, anche lavorare con lui. Allora probabilmente non mi sembrava così… ma ora so che vivevo in uno stato di grazia… ora che invece non solo non lo odio, ma addirittura sento qualcosa per lui… qualsiasi cosa sia… io… non posso permettermela…

Questo vorrei dire.

Confessare come sulle pagine di un diario il mio tormento nascosto, riversare lacrime che non verso e spasmi che non ammetto.

Ma Seth non è un foglio di quaderno, non ha l’anima di carta stampata a caratteri in rilievo.

Seth è un ragazzo. Seth è un mio amico. Seth è innamorato del ragazzo che io, a mio modo, disperatamente vorrei. Anche solo per uno stupido bacio. Ed urlare il mio dolore a lui, sarebbe come prendere il suo cuore e calpestarlo.

Strano a dirsi, ma tra noi la fortunata sono io.

Di questo strano sentimento, io almeno un bacio l’ho avuto. Un bacio maledetto che mi ha strappato l’anima in mille coriandoli di velluto.

Ma l’ho avuto.

Mentre Seth… quella dolceamara soddisfazione non l’avrà mai…

Quindi, come quasi sempre quando c’è di mezzo l’amore e tutto quello che c’è attorno, una bugia vale più di mille verità.

“Certo che no…” sbotto scandalizzata, guardandolo storto “Ti pare che gli darei questa vittoria a quell’idiota?!”.

Lui mi guarda con un sorriso tra il rassegnato ed il sollevato, e so di aver detto la cosa giusta. In fondo, tra poco, questa maledetta storia sarà terminata e con Seth non ci saranno più segreti o cose non dette.

Seth mi dice che dobbiamo prendere la navetta per Wonderland alle undici precise alla fermata della metropolitana e quindi mi ingiunge di andare immediatamente a prepararmi, penserà lui a vestire Serenity. Poi, mentre mi sto per alzare, dice una frase strana che mi fa voltare, storcendo le labbra: “Che hai detto?”.

“Ho detto solamente…” esordisce lui alzando gli occhi al cielo “… che è meglio che mi prenda io i rimproveri di Danny per la cura di Serenity che tu… con la situazione tra voi, un nonnulla può far rimpiangere un bel fungo atomico su tutto il Petite Peste…”.

“Perché, scusa, mi avrebbe rimproverato per come curo Serenity?!” urlo arrabbiata, quest’altra ci manca e lo prendo a testate!

Seth si gratta la testa interdetto e mi chiede se non avessi sentito nulla stamattina.

Nego con il capo, incrociando le braccia, e lui mi spiega che Draco ha iniziato ad urlare per l’orribile odore del bagnoschiuma che avevo usato per Serenity, dicendo che faceva vomitare e che solo abbracciare la piccola gli faceva venire mal di testa.

Sospiro disgustata: “Cavolo un bagnoschiuma alla ciliegia era! Mamma mia… che idiota… d’accordo, vestila tu Serenity!”.

Ringrazio Dio che almeno io, per evitare il casino del locale di mattina e le voci starnazzanti di Summer e Seth che litigavano per qualche motivo, mi ero sparata i Linkin Park a palla nelle orecchie, mentre studiavo, preferendo la voce del cantante ai loro gentili colloqui.

Altrimenti era la volta buona che lo uccidevo… pure Serenity mi vuole togliere, accidenti a lui!

E poi che cavolo c’è da lamentarsi di uno stramaledetto bagnoschiuma alla ciliegia?! È da bambina! Insomma che la dovevo lavare con il suo invitante bagnoschiuma al pino silvestre?!! La prossima volta chiederò quello di Summer, made in Christian Dior, per compiacere il suo delicato olfatto… ma andasse a quel paese…

Salgo decisamente innervosita al piano di sopra, spalancando con un calcio la porta dell’appartamento, e mi affretto a cambiarmi, gettando i miei vestiti sul letto ed indossando di malagrazia quelli nuovi, una semplice camicia azzurra ed un paio di short kaki.

Sì, da quello che avete capito precisamente, so diventare molto disordinata se molto nervosa!

E Draco Malfoy ha la capacità di rendermi una furia, quindi insomma un concetto abbastanza più ampio del mero nervosismo.

Mi spazzolo i capelli, completando il tutto con una fascia che trattenga la mia zazzera incolta, e usando solo un velo di cipria e di mascara. Chissene, tanto oggi più che fare la babysitter a Serenity e Seth non farò, mio malgrado. E poi i parchi divertimento, cavolo… ragazzini con le mani sporche di zucchero filato che corrono come tarantolati, mascotte cretine che tratterebbero anche un novantacinquenne come un moccioso desideroso di avere uno stupido cane palloncino e famiglie esaurite che non fanno altro che urlare, per non parlare di attrazioni acquatiche dove ti inzuppi dalla testa ai piedi, riducendoti ad una candidata perfetta per il concorso di Miss Maglietta Bagnata.

Sai che divertimento!

Dean li adorava quei posti, ma io mi ero sempre erta insormontabile, dicendogli che non se ne parlava. Lui faceva l’aria da cucciolo ed allora mi piegavo semmai a vedere una maledetta partita di calcio, ma sempre meglio di un odioso parco divertimenti.

Lui metteva il muso, diceva che ero poco elastica  e poi accettava, facendomi un largo sorriso e stringendomi in un abbraccio.

Dean… che strano che ogni tanto ci continui di nuovo a pensare… probabilmente perché, di fronte a questi nuovi… sentimenti… maledico sempre quell’errore, fatto in metropolitana, che mi portò qui… qui, lontano da lui…

Ora magari, sarei con lui in Francia, avrei trovato un lavoro e mi sarei anche innamorata di lui.

Sì come no… sveglia Hermione… ancora ci credi a sta favoletta?

Mi siedo sul letto, la testa piegata a fissarmi le ginocchia.

Chissà che fa adesso, in Francia… lo immagino che cammina impettito come sempre, nelle strade di Parigi, per le mani buste griffate, un perenne sorriso sul viso. Guarda il cielo, pensa un secondo a me, abbassa lo sguardo e poi accende gli occhi luminosi alla ragazza bionda che lo ha appena fissato languidamente. Mi viene curiosamente da ridere, immaginandomelo con quell’aria da playboy che assumeva sempre.

Per favore, prenditi cura di te stessa, ora che io non posso più farlo…

Questo mi ha detto… mi sollevo piano, raggiungendo il mio comodino. Apro un cassetto e, sotto qualche maglietta, compare luccicante, come l’avevo lasciato, il braccialetto di Dean, quello con le mie iniziali. Lo soppeso tra le dita per qualche istante, prima di indossarlo. In fondo le iniziali sono le mie… ed in fondo Dean, nonostante tutto, è rimasto un bel ricordo. Effettivamente, è come indossare un bel ricordo.

Mi stendo sul letto nuovamente, un braccio piegato sugli occhi a proteggermi dalla luce del sole.

“Dean… “ sussurro con un filo di voce alle pareti della mia stanza “Vorrei tanto sapere se prima o poi potrò smettere di farlo… di prendermi cura di me stessa… un giorno, vorrei tanto che qualcuno lo facesse per me…”.

Io mi sono presa cura di Ron. E di Dean. E a loro modo anche di Harry e Ginny.

Qualcuno, un giorno… si prenderà cura di me?

Sono così stramaledettamente stanca di… essere forte…

Ma fino a quel giorno, io, nel bene e nel male, mi dovrò alzare sempre. Continuare ad andare avanti, sorridendo.

Nonostante riconosca che non so quanta forza sia rimasta in questo corpo, nonostante sembra che il mio cuore si sia fatto di pastafrolla…

Nonostante questo… andrò avanti. Come sempre. Fosse anche per forza d’inerzia.

Perché non sopporterei l’onta di cadere. E forse anche perché non so vivere in modo diverso.

Non saper vivere in modo diverso. Non saper pensare a cose diverse. Non saper dare cose diverse.

Il mio cuore si ferma.

Stringo il lenzuolo tra le dita, spalancando gli occhi contro il sole. Draco…

Si sovrappone il mio pensiero al suo. Ricordo le mie parole crudeli di quella sera, le sue spalle serrate, i suoi occhi sconvolti. Stamattina il sussulto al suo nome…

…lui… forse, non mi può dare quello che cerco. Qualsiasi cosa essa sia.

Ed è così assurdo che mi sia venuto in mente solamente adesso.

Quello che cerco… in fondo… è… che lui smetta di essere forte… e che lasci che mi prenda cura di lui…

Qualcosa che rivolterebbe dalle fondamenta tutto quel mondo che, nonostante tutto, lui deve continuare a difendere.

Perché è la sola cosa che ha.

La sola cosa che gli consente di restare in piedi.

Ed appoggiarsi a me, anche solo per un istante, ammettere di essere fragile… non potrebbe più tornare indietro.

Mi porto le mani scioccata alla bocca, chiudendole in un soffio, una lacrima che si affaccia a rimirare la mia stupidità.

La stupidità che si riflette anche nel mio ultimo scioccato pensiero… possibile che… anche per lui… sia lo stesso che per me?

 

 

“Fammi capire…” dico arrabbiata, tamburellando le dita in modo isterico sullo stipite della porta “… io nella tua testa bacata ora che cosa dovrei fare?! Mutilarti, no?!”.

Seth si contorce su sé stesso, mugugnando: “Non è una tragedia, insomma…”.

“Infatti…” accondiscendo con tono materno, sorridendo in modo mellifluo “Effettivamente questa situazione assume maggiormente la connotazione di catastrofe…”.

“Ma dai! Non esagerare come sempre!” cerca di difendersi Seth, guardandomi persino scioccato, ma la sua faccia testimonia l’esatto contrario del suo ostentato disinteresse. Se la sta facendo sotto. Ed ovviamente ora cerca di scaricare la cosa su di me.

Sospiro stancamente, guardando l’orologio. Le undici meno venti. Serenity, ignara di tutto, nel passeggino batte le manine continuamente, sicuramente contenta della prospettiva di andare nel “paese delle favole”, come le ho descritto il parco divertimenti. Peccato che poco prima di uscire, Seth si sia accorto che non aveva i biglietti… e, fin qui, la cosa potrebbe anche essere accettabile. Nel senso, l’avrei riempito di male parole, l’avrei preso a sberle ed avrei consolato Serenity, portandola al parco giochi a giocare con quegli orribili animali di plastica colorata che si possono cavalcare, cosa che lei tutto sommato avrebbe anche adorato, che avrebbe portato via solo un’oretta, consentendomi anche di tornare a studiare, anticipandomi molto della mia mole di lavoro.

Ma invece no… Seth non li ha dimenticati, non li ha lasciati nei pantaloni che ha messo in lavatrice, tantomeno li ha gettati per sbaglio.

No… li ha lasciati sulla scrivania della camera di Draco…

Come noi, lui non può entrare nella camera del supremo signore del Petite peste. Eppure, l’altro giorno, era entrato per una questione di vita o di morte… non so che cosa sia ovviamente, e dubito che i concetti di urgenza di Seth saranno mai i miei.

Fatto sta che è entrato, ha detto sta dubbia cosa a Draco e gli ha anche chiesto, già che c’era, se voleva venire a Wonderland.

Li ha mostrato i biglietti, ma Draco ha detto di no, dicendo che aveva da fare con Summer, ma mentre ficcanasava su cosa dovessero fare Malfoy e la sua fidanzata, aveva dimenticato di farsi ridare i biglietti. Ora suppone che siano ancora lì.

Ma il peggio è che, ora, invece di flagellarsi con una frusta a nove code ed implorare perdono dalle schiere angeliche, lui sostiene che dovrei andarci io in camera di Malfoy!

“Tu sei scemo…!” urlo con tutto il fiato che ho in gola “Come cavolo te ne esci?! Contrariamente a te, io non sono un’autolesionista… non mi piace il masochismo… e nemmeno bramo suicidarmi!”.

“Ma dai, Danny non c’è nemmeno in casa…” piagnucola lui “E se capisce che ci sono stato io daccapo in camera sua, davvero che mi licenzia… tu almeno te ne vai in ogni caso…”.

“E certo!” lo contraddico “Per questa ragione, io dovrei prendermi tutti i suoi rimproveri! Non volevi che mi occupassi di Serenity e ora mi vuoi spingere nelle fauci del lupo?!”.

“Ma è una questione di vita o di morte!”.

“E dalle!”.

“Non mi dire che non sei curiosa di vedere la camera di Danny?” cerca di allettarmi con una lieve gomitata insinuatrice.

Ovvio che sono curiosa… ma non sono poi così curiosa tanto da affrontare la morte per direttissima.

“No” nego incrociando le braccia.

“Bugiarda!” si lamenta lui, poi decide di sfruttare un’altra carta: “Io non ci vado… quindi nessuno ci andrà… quindi Serenity resterà mortalmente delusa…guarda che bel faccino!” e prende in braccio la piccola dal passeggino, mostrandomela con aria afflitta. La bambina continua a ridere contenta, divertita dal nostro battibecco, mentre ballonzola nelle mani di Seth.

Gliela strappo di mano, rimettendola nel passeggino, urlando ancora che non se ne parla nemmeno.

“Uffa! Ma insomma… ti lasci dare ordini da lui?!” tenta Seth per l’ultima volta.

“Io non mi faccio dare proprio ordini da nessuno, che dici!”.

“Invece sì!” urla ancora, agitando le braccia, poi, imitando goffamente una voce femminile, inizia a squittire: “Danny mi ha detto di non entrare quindi io me ne sto buona buonina a cuccia. Sì, così un giorno Danny mi sposerà e vivremo nella casetta delle Barbie… io ho tanta paura di Danny! Mi metto lo smalto rosa shocking sulle unghie dei piedi!”.

“Dannazione!” mi metto ad urlare, gettandogli contro il volantino della serata in stile Michael Jackson delle settimane prossime. Lui frigna ancora un po’ con quella orribile voce da sorcio, quindi mi affretto a replicare: “Va bene, accidenti a te!”.

Ritorna normale in quattro secondi netti: “Grazie, sapevo di poter contare su di te! Stai tranquilla, Danny non se ne accorgerà mai…”.

“E se non se ne accorgerà mai, allora, non potevi farlo tu?!” inveisco nervosa, guardandolo storto. Lui si limita semplicemente a sorridere sornione, fingendo di non aver sentito, mentre fa giocherellare Serenity.

Ma tutte a me dovevano capitare!

Persino il Protocollo 3 bis di riforma dell’Uso della Magia per legittima difesa sarebbe stato meglio! Ma se io me ne stavo bella tranquilla a studiare!

Salgo le scale con il passo di un serial killer, la faccia scura e le mani artigliate attorno al corrimano, continuando a borbottare improperi all’indirizzo di Seth, fino a quando arrivo davanti alla tanto temuta porta. Deglutisco un paio di volte, se Draco mi vedesse altro che licenziarmi… ingoio l’amaro boccone della paura.

Da Auror, so di aver affrontato cose peggiori, che diamine! Ed infatti la mia mente ed il mio orgoglio mi dicono che non dovrei spaventarmi per una sciocchezza simile ed anzi dovrei spalancare la porta della camera di Malfoy con dispetto e farne risuonare il rumore fino a dove si trova lui, sfidandolo poi a farmi qualcosa.

Tanto quello più che sibilare insulti che altro mi potrebbe fare?

Ma, invece, dentro davvero provo paura all’idea di aprire quella porta. Non per la reazione di Draco… ma per quello che c’è dietro quella porta.

Come se mi trovassi ad aprire un vaso di Pandora che non so che cosa contiene. Ok, d’accordo, non penso che ci sia niente di così strano, se anche Seth è entrato senza problemi… e non penso nemmeno che, qualunque cosa ci potrebbe essere da nascondere, Draco la terrebbe in bella vista. Inoltre, il suo divieto potrebbe solo per privacy, per restarsene da solo a pensare ai fatti suoi…è perfettamente il tipo da trascorrere ore in solitudine e di intimare divieti per non vedere infranta la sua tranquillità.

E poi con Seth nei paraggi, innamorato perso di lui, probabilmente anche io avrei fatto lo stesso.

Eppure non riesco a scrollarmi di dosso questa sensazione.

Resto per qualche istante con la mano bloccata sulla maniglia della porta, il sudore gelido che mi inzuppa la schiena. Resterò solo qualche secondo, non mi devo preoccupare, non toccherò nulla a parte i biglietti e non mi guarderò nemmeno attorno; Draco non se ne accorgerà mai. In fondo sono sempre un’ex Auror, no? Di perquisizioni in incognito, ne ho fatte a decine. Sono anche abbastanza cauta ed agile se mi ci metto. Mi chiamavano il felino di Worcester… Worcester perché, quando mi addestravo, avevo sempre la fissa di mangiare le patatine con la salsa Worcester, contrariamente a quanto ci era prescritto, ed un giorno poi che ce l’avevano vietata espressamente, io… ma a che cavolo sto pensando?!

Deglutendo ancora, abbasso la mano sulla maniglia della porta che si apre immediatamente con un cigolio, tipo film dell’orrore.

Iniziamo bene, quasi quasi mi auguravo che fosse chiusa a chiave invece… effettivamente è un po’ contradditorio che la lasci anche aperta, poi. Bah…

Faccio qualche passo, la stanza è completamente avvolta nella penombra, rotta solamente da qualche raggio di luce proveniente dalla serranda abbassata, esattamente come la prima ed unica volta che ci ho messo piede, quando Draco mi trascinò per le scale quando ci rivedemmo, pensando che fossi venuta per un’indagine su di lui.

Sembrano passati secoli… quasi come se temessi che la porta si chiuda alle mie spalle, non lasciandomi più uscire, la accosto solamente, rendendo la stanza ancora più buia di quanto già non fosse. Mi muovo piano, tenendomi attaccata al muro, alla ricerca dell’interruttore della luce ma non lo trovo.

Maledizione!!!

Le mie maledizioni aumentano quando urto qualcosa, causandomi un dolore lancinante al piede, cosa anche trascurabile alla luce dell’enorme fracasso che ho provocato. Qualcosa sembra essere caduto e rovesciato, ho avvertito un tonfo e altri rumori. All’anima di Seth!! E pure alla salsa Worcester!

Per fortuna, perlomeno, nella mia enorme sbadataggine ho urtato proprio la scrivania di Draco, quindi adesso sono in grado di avanzare a tentoni alla ricerca di una lampada che mi sembra di ricordare sia su di essa. Trovo con sollievo l’interruttore e lo premo, una lieve luce bluastra avvolge le ombre della stanza che si fanno più minacciose attorno a me.

La stanza semi-illuminata non mi fa vedere granché dei grandi misteri di Draco Lucius Malfoy, sembra una stanza come tante altre. Mura bianche che sembrano appena stuccate, lampadario bombato di ferro e vetro, un letto singolo con una trapunta vagamente rossa, la culla di Serenity avvolta da tulle rosa e giallo.

Niente di strano, quindi.

Nessun quadro alle pareti, nessuna fotografia incorniciata, nessun segno effettivo che questa stanza sia viva… non morta.

Getto uno sguardo distrattamente curioso alla scrivania; a parte i biglietti per Wonderland, lasciati qui da Seth e che subito mi affretto a mettere in tasca, non c’è nient’altro di particolare. Fogli di carta che riportano colonne di dati e cifre, un portapenne, un block notes verde.

Niente, insomma… deduco che sia la privacy a far vivere Draco come un segregato.

Qualsiasi cosa nasconda, non è nella sua stanza.

Sto già per uscire, quasi sollevata, quando urto qualcosa con il piede. Abbasso lo sguardo, intuendo che deve essere la cosa che ho fatto cadere prima involontariamente.

Una scatola rossa. Una scatola rossa di cartone.

Doveva stare sulla scrivania, evidentemente. Meglio rimetterla a posto. Alla faccia del felino di Worcester! Assomiglio più al pagliaccio di McDonald’s…

Mi chino a raccoglierla, il coperchio è scivolato di lato, ma non riesco a vedere il suo contenuto. Nell’oscurità sembra un enorme buco nero e mi fa quasi paura; non ne sono incuriosita, la rimetto a posto e basta. E me ne vado di qui.

Sollevandomi, lo spostamento d’aria dà alito a qualcosa, dolce come l’eco di un ricordo. Un… profumo che, all’inizio, fatico a riconoscere.

Lo sguardo vigile come quando ci si concentra, cerco di ricordarmi dove l’ho sentito.

Poi… il cuore mi salta in gola…

Ciliegia.

L’odore penetrante ed intenso della ciliegia, solo leggermente soffuso dalla scatola chiusa. Lo sento espandersi leggero, ostaggio di un tempo lontano, e quasi stagnare sulle pareti, come se respirasse tutto attorno a me.

“Cavolo un bagnoschiuma alla ciliegia era! Mamma mia… che idiota… d’accordo, vestila tu Serenity!”

Sgrano gli occhi, la scatola ancora nelle mani. La scena inspiegabile di stamattina… l’odore della ciliegia che ha sentito su Serenity... gli ha dato fastidio…

Forse gli ricordava questo…

È più forte di me poggiare la scatola sotto il cono di luce della lampada e guardarci dentro, il buco nero che ormai avviluppa la sua oscurità attorno alle mie membra, impedendomi di andare via, catturando ogni raggio di luce attorno a me. Imponendomi di restare… e di guardare…

Le mani sono fredde e mi tremano, anche se non capisco perché. Dentro alla scatola, il profumo della ciliegia che quasi mi fa impazzire, ci sono solo pochi oggetti.

Tutti diligentemente conservati e riposti con cura.

Tocco la superficie liscia di un qualcosa di morbido ma compatto, ed estraggo una piccola agenda rossa. La soppeso nelle mani, la data impressa in copertina a caratteri dorati è di tre anni fa. Perché conservare un’agenda di tre anni prima?

A disagio, spostando il peso da un piede all’altro, alla fine la apro, sfogliando le pagine delicatamente, quasi come si trattasse di una reliquia.

La prima pagina reca una scritta in rosso brillante… il nome del proprietario. Come immaginavo, non è né Danny Ryan, né tantomeno Draco Malfoy.

Ed è una fitta dolorosa che avverto dentro, la nego immediatamente, anche se comunque non posso smettere di provarla.

Rachel Leigh.

Rachel Leigh… l’agenda è di una tale Rachel Leigh. Non è un nome magico, decisamente. Non ho mai sentito parlare di una famiglia, purosangue o no, che si chiami Leigh. Ed insomma tra maghi, più o meno si sa a che famiglia si appartenga.

Quindi una babbana…

Razionalmente questo riesco a pensare, il mio spirito pratico che tenta di prendere il sopravvento.

Eppure, l’eco di quel nome si ripete nella mia testa, facendo crepitare un pensiero che diventa sempre più grande, minuto dopo minuto.

Un pensiero tutto sommato ovvio, ma che mi sento in dovere quasi di chiarire a me stessa.

È il nome di una donna. 

E già, questo dovrebbe bastare a farmi fermare.

Ogni uomo che conserva un’agenda di tre anni prima di una donna, potrebbe farlo solamente per un motivo.

Eppure, la stessa smania di sapere che spesso mi è tipica, mi rende quasi feroce. Mi sento come quel giorno di tanti anni fa, mentre leggevo il rapporto sulla fuga notturna di Ron da Lavanda. So che probabilmente leggere equivale a soffrire, e potrei evitarlo, facendo finta di niente.

Ma so che non lo farò mai.

E mi rassegno al fatto che inevitabilmente finirò a breve per maledire questa foga.

Sfoglio le pagine velocemente, quasi maltrattandole, trovando solo impegni annotati dalla stessa mano femminile. Ci sono molti nomi di riviste di moda, Vogue, Vanity Fair, Cosmopolitan, accompagnati dal nome del fotografo e del truccatore del giorno.

Una modella… babbana, ovviamente. 

E quel qualcosa dentro continua a sbriciolarsi, inesorabilmente, polvere rosso sangue che si disperde come in una tempesta di sabbia, annebbiandomi gli occhi.

Non so cosa sia… terremoto che mi scuote i sensi sapere che, nella vita del purosangue Draco Malfoy, c’è stata un’altra babbana.

D’accordo, ora c’è Summer.

Ma lei non mi ha mai dato di una persona che, nella vita di Draco, poi, conti così tanto, nonostante tutto.

Questa donna, invece… questa… Rachel…

Appartiene a quelle categoria di donne di cui conservare un’agenda a tre anni di distanza, una categoria che, per un uomo, conterà in tutta la vita al massimo un componente.

E, da quest’agenda, emerge solo che donna impegnata e bellissima dovesse essere.

Mi mordo inquietamente il labbro inferiore, con nervosismo, immaginandone il volto. Se già Summer è bellissima, figuriamoci questa Rachel che troneggia in una scatola indimenticata ed indimenticabile. Goffamente, incrocio il mio riflesso disordinato e poco curato nel vetro della lampada da tavolo.

Come se avessi bisogno di guardarmi per sapere che…

Dio, stava con una modella… me la raffiguro nella mente con lunghissimi capelli biondi, occhi azzurri circondati da ciglia nerissime, sorriso angelico, corpo da favola. Tutto il contrario di quella che sono io… intimamente sento quasi una spina di vergogna per ogni momento in cui mi ha guardato, in questi lunghissimi giorni.

Deve avermi soppesato con lo sguardo, notando solamente tutti i miei difetti, enormi in confronto a quelli inesistenti di Rachel o di Summer.

Io che esco dal bagno, senza asciugarmi i capelli.

Io che vado a passeggiare, sempre con gli stessi jeans.

Io che mi mangiucchio le unghie, senza lo straccio di una manicure.

E potrei continuare… la scena della maglietta da calcio, la prima sera che sono stata qui; il coma di quindici giorni; la sera in terrazza con le ciabatte rosa.

Non ci posso pensare… per non parlare poi del giorno in cui mi ha baciato… doveva avere una paura matta per osare farlo.

Ancora sono così dannatamente sbagliata che vorrei non aver mai lasciato traccia nei suoi occhi.

Vorrei che non mi avesse mai guardata, nemmeno per un attimo…

Scivolo senza volere a sedere per terra, le gambe che non mi reggono più in piedi, ogni cosa che scopro di lui è un ulteriore argine a me, un monito a restare lontana, un campanello d’allarme che trilla senza sosta.

Sempre di più… devo andarmene via da qui… prima che davvero io non possa più tornare indietro…

Ora posso ancora farlo. Tra poco… quando sarò… innamorata… non potrò più. Quando un altro particolare di lui si sarà conficcato nella mia anima, aprendomi un ancora più profonda crepa nel cuore, io accetterò qualsiasi compromesso, umiliazione, mediazione, sofferenza, bugia o dolore per restare un solo secondo, ancora qui.

Con lui.

Che sarà sempre lontano da me, anni luce.

Quasi per darmi ancora quel necessario dolore, continuo a frugare nella scatola rossa, ciliegia amara che mi annebbia la testa. Poggio l’agenda dentro, estraendo poi una serie di fotografie legate assieme da un nastro rosso. Ancora rosso. Rosso come la scatola. Rosso come ciliegia. Rosso come l’amore dannato che mi sbatti in faccia.

Non tolgo il nastro per non rischiare di lasciare tracce.

Ma è una bugia… in realtà una foto basta ed avanza.

Eccola, Rachel.

Eccola, e già so che come sempre la mia mente aveva ragione.

Rachel sorride nella foto, ferma, immobile, come nelle foto babbane. Guarda fisso l’obiettivo, come se dietro di esso ci fosse la persona più importante del mondo, e non credo che c’entri il fatto che probabilmente è abituata ad essere fotografata.

Dietro l’obiettivo, c’è sicuramente Draco. Non so come, ma credo di saperlo da quando ho visto la foto.

I suoi occhi azzurri sono sereni, dolcissimi e chiari. E, curiosamente, ancora, io so che il loro colore preciso l’ho già visto.

Come sapevo che la loro sfumatura deriva dal guardare Draco.

Perché, quelli stessi occhi io li vedo da giorni. E so che diventano di quel colore, quando incrociano gli occhi grigi di Draco.

Sono gli occhi di Serenity.

Rachel deve essere la mamma di Serenity, della bimba dolcissima che tenevo poco fa tra le braccia, che mi chiama Mione e che ho ricoperto di ciliegia poco fa.

Questi occhi, gli occhi di Rachel, hanno avuto tutto quello che io non avrò mai.

Hanno trattenuto nei propri quelli di Draco, riempiendoli della luce che Seth erroneamente attribuisce a me.

Ed hanno plasmato quelli di una bambina meravigliosa.

Deve avere solo qualche anno più di me, credo sui ventotto o ventinove; indossa un vestito scuro che le lascia scoperte le spalle sottili ed abbronzate, appena celate dai capelli castano chiaro, lasciati sciolti e liberi, ma comunque assolutamente lisci. Non è truccata, eppure è permeata di quella perfezione che io non credo che conoscerò mai.

Una perfezione interiore, oltre che esteriore, ecco.

Serenità… come il nome che ha dato a sua figlia.

Sono sicura che Serenity sia sua figlia. Non so perché, ma lo so. Anche se avevo il sospetto che Serenity fosse una strega, visto il coinvolgimento di Harry, ora so che la normalissima Rachel sia sua mamma.

E l’altra cosa che, guardandola, non so perché suppongo, sia la connessione anche con Summer.

La forma degli occhi, le linee del volto, la regalità ed eleganza dei modi che traspare anche da una semplice foto… non sono cose comuni. Sono cose particolari che in pochi hanno. Tipo io no… e tutto di Rachel, mi dice di Summer. Forse sono parenti… e così Draco ha conosciuto Summer. Tramite Rachel.

Sono molto simili. Tranne per il sorriso.

Summer non ride nemmeno per sbaglio. Ed è fredda come il ghiaccio.

Rachel è un sorriso incarnato. Ed è rossa come il fuoco che spesso passa repentino negli occhi di Draco.

Sarai stata tu l’ultima che l’ha chiamato Draco? Vero? Ti ha raccontato tutto di sé, Rachel?

Scusami allora se, chiamandolo io così, ho tolto quella traccia di te.

Chissà dov’è adesso… se è davvero la mamma di Serenity, perché non è con lei? Con Draco?

Si saranno… lasciati? E perché allora non viene nemmeno a trovare la bambina? E con Draco, poi… perché sarà finita?

E…allora… Draco… è davvero il papà di Serenity?

Sono centinaia le domande che solo la visione di questa donna può provocarmi. Domande che, lo so, resteranno senza alcuna risoluzione, enigmi che lei, quasi come la sfinge, ha messo in me, lasciandoli a marcire irrisolti.

Mi porto stancamente la mano nei capelli, fiaccata dentro, come se avessi studiato mille pagine da assimilare e memorizzare. Appoggio stancamente la testa sulla cassettiera della scrivania, artigliandomi ad essa, le nocche che diventano bianche a furia di stringere.

Sollevo il viso, cercando la forza per finire questa perquisizione stupida che mi sono trovata a fare. Sotto le foto, legate assieme, c’è solo un'altra cosa.

Una cartolina di carta lucida che reca l’illustrazione di tanti piccoli fiori bianchi con la corolla aperta, il nettare giallo.

Curiosa, la volto ancora. La stessa mano dell’agenda, le stesse lettere allegramente cicciottelle, i stessi puntini accentuati su ogni i.

Solo poche righe, scritte ancora di rosso. Come se non si fossero già stampate a fuoco nella mia testa ed avesse bisogno di accentuarle.

Le leggo freneticamente: So che non sopporti le cartoline e che le trovi odiose ed inutili, ma insomma a questa non potevo resistere, non credi? Vienna è bellissima… ma con te sarebbe stata più bella ancora. Cerca di stare attento. Ci vediamo a casa. Rachel.

Nella parte dell’indirizzo, il destinatario è ovviamente Danny Ryan. Mordendomi il labbro, cerco di concentrarmi solo sull’indirizzo, che non è quello del locale.

Lancaster Road n76.

Non è lontano da qui. Draco viveva lì tre anni fa? Lei… Rachel… sarà ancora lì? Ha scritto, ci vediamo a casa, quindi forse vivevano assieme.

Ha scritto Danny… e allora non sapeva che lui, in realtà, è un mago?

E poi, facendomi un po’ di calcoli… se non ricordo male, ciò che mi disse Harry settimane fa, quando mi parlò di Draco… lui, alla fine della guerra, aveva vissuto un po’ come sé stesso, tanto che gli era stato teso un agguato. Aveva un posto al Ministero dove era rimasto per ben un anno e mezzo.

Quindi… tre anni fa, quando Rachel scrisse questa cartolina…

Danny Ryan ancora non esisteva.

Esisteva solo Draco Malfoy.

E allora perché c’è scritto Danny Ryan?

Possibile che Draco, per stare con lei, vivesse già una doppia vita?

Quasi posseduta, mi sollevo, rimettendo tutto nella scatola e risistemandola sulla scrivania, poi strappo un foglio dal block notes, annotandomi l’indirizzo che metto in tasca.

Non mi importa che sia strano, non mi importa. Io questa donna, la… devo trovare…

Liberarmi dell’ossessione di vederla, da oggi, per sempre, negli occhi di Serenity. E poi in quelli di Draco.

Se sei la chiave che Draco ha gettato in fondo al suo cuore, io ti afferrerò Rachel. Fosse anche per darmi un po’ di pace, fosse anche per scordarlo, per capire che pensa ancora a te… io lo farò.

Al momento farei di tutto per stare solo un po’ meglio.

E tu, questo, dall’alto del tuo paradiso dorato, popolato di tutto ciò che luccicante bramo con ogni fibra del mio essere, questo non me lo puoi negare.

No, dannazione…  almeno questo non mi sia negato.

Spengo repentinamente la luce e scappo fuori da quella maledetta stanza. La porta sbatte alle mie spalle, quasi intimandomi di tornare più.

Scendo le scale, correndo, la voglia nei piedi di mettere quanta più distanza tra me e la Rachel che ancora respira nella stanza di Draco, ma sento l’odore della ciliegia che mi prende persino i capelli, impregnandomi come un’esalazione nociva.

“Ce l’hai fatta!” mi urla Seth, appena mi vede, stringendo Serenity in braccio.

Respirando a fatica, distolgo lo sguardo dalla bambina, la cui immagine si sovrappone a quella di Rachel. Mi sento colpevole, ma non riesco a evitarmelo.

“Che è successo?” mi chiede Seth, preoccupato, avvicinandosi a me e poggiando una mano sulla mia guancia gelida.

“Nulla” mento, poi sollevo lo sguardo, puntandolo nel suo: “Seth, conosci Lancaster Road? Dov’è precisamente?”.

Lui sbatte le ciglia senza capire e mormora che è qui vicino, poi mi chiede curioso: “Devi andare da Summer?”.

“Cosa? No… che c’entra Summer, scusa?!”.

“Bè, Summer abita lì, no? È per lei?”.

Sgrano gli occhi. Il collegamento tra Summer e Rachel esiste davvero allora.

“Al civico 76?” chiedo con un filo di voce. Non faccio nemmeno finire Seth di annuire con il capo.

“Ascoltami, Seth…” dico trafelata, afferrando la giacca dall’attaccapanni ed infilandola alla bell’e meglio “Io devo fare una cosa prima… aspettami alla fermata della metropolitana… ok?”.

“Ma che cosa devi fare adesso?!” piagnucola Seth.

“Tornerò presto, te lo prometto…” sorrido, poi scappo via, spalancando la porta prima che mi dica qualcos’altro.

Corro fuori, il vento freddo che mi sferza il viso.

Sto arrivando, Rachel.

 

 

Taddadà, il nuovo capitolo! Questo può essere decisamente definito come un capitolo di transizione, in attesa che succedano delle cose molto più interessanti nei prossimi, quindi spero che non vi deluda…! Questo personaggio, come forse avrete intuito, sarà molto importante, anche se diciamo che è venuto fuori quando la mia storia era già bella che cominciata… quindi nel caso dovreste trovare o ricordare delle contraddizioni con quello che ho detto poi in seguito, non esitatelo a farmelo sapere, cercherò di risolvere!

Il titolo significa press’a poco “Rosa al sapore di ciliegia”.

Passo ai ringraziamenti:

Cygnus Malfoy: la mia cara Helder! Non ti preoccupare per i capitoli precedenti e per le mancate recensioni con questa ti sei abbondantemente rifatta! Ti ringrazio per i complimenti ed anche per avermi rassicurato sull’essere o meno IC dei miei personaggi, cosa di cui mi preoccupo spesso. La mia storia deve essere su Draco ed Hermione, non su due che hanno lo stesso nome ma poi non c’entrano nulla con loro! Quindi grazie!! Le risposte di Draco, al momento, sono il silenzio ma nel prossimo capitolo si muoverà qualcosa, promesso!! Un bacio!!

Nyappy: ciao!! Grazie dei tuoi complimenti! La differenza su attrazione ed amore era una cosa che mi premeva molto chiarire… e spero che anche in questo sia evidente che Hermione sì prova qualcosa, ma non è ancora amore! Grazie ancora!!

Seven: quanto aspetto le tue recensioni! Sono autentici capolavori!! Eheheh!! Allora partiamo dall’inizio; come hai giustamente sottolineato tu, Hermione è sempre lei, quindi è chiaro che ci metta molto per capire le cose. Per come la immagino io, è una che tende sempre a razionalizzare, a voler tenere le cose in ordine nella sua testa e, quando una cosa fa saltare quell’equilibrio, la teme e cerca di tenerla fuori, come sta facendo ora con Draco. Ma è anche chiaro che, nonostante lei lo neghi e cerchi di metterlo a tacere, sa perfettamente che ormai il biondino non le sta più indifferente… nei primi capitoli, basta che apriva bocca e si scannavano, ora le cose lentamente stanno cambiando… per Draco le cose sono meno evidenti, nel senso che lui non è così cristallino come Hermione, ma anche per lui le cose stanno cambiando, e quel voi che frappone tra sé e lei, è quasi l’ultima roccaforte che mette per difendere sé stesso, come se dicesse “Ma tu guarda io che penso ad una che è un’Auror, un membro dell’Ordine, eccetera!”. Cosa che, però, chiaramente la ferisce perché lei, proprio grazie a lui e al racconto della fine dei suoi, ormai non crede più in queste divisioni… per l’attrazione di Hermione per Draco, diciamo, che effettivamente anche essa è peculiare: non è che lei guarda all’involucro, ma ricorda quel bacio e notare come le sia piaciuto, la fa sentire confusa. I loro caratteri credo che si scontreranno sempre, alla fine, non sono persone fatte per andare d’accordo, ma si spera che si trovi un compromesso!! Eheheh!! Grazie ancora dei tuoi complimenti, davvero aspetto sempre le tue recensioni con ansia!! Un bacio!!

Baby_ san: ciao!! Tranquilla, basta che alla fine hai recensito!!:D grazie delle tue rassicurazioni su Draco, ne avevo davvero bisogno!! Un bacio!!

Vesper: evviva una nuova lettrice!! Grazie dei tuoi complimenti, mi hanno riempita d’orgoglio!! benedico il caso che ti ha portato a leggere la mia fic!! Eheheh!! I titoli dei capitoli cerco sempre di farli meno scontati possibili… e non ti sto a dire questo che fatica m’è costato!! Eheheh!! Spero che recensirai ancora la mia storia!! Un bacio!!

Emmettì: la mia cara MT!! Compagna di scorribande su L&L!! poveretta, che si è dovuta sorbire 16 capitoli tutti d’un fiato!! Effettivamente, quando ho riletto tempo fa i capitoli iniziali, mi sono accorta che la mia Hermione è un po’ nevrastenica e, come caratteristica, non credo che la perda mai… me lo giustifico mentalmente, dicendomi che un po’ anche l’Hermione originale sia tanto dolce di sale, anzi… e un po’ perché alla mia davvero è successo di tutto. Sono contenta che non ti sei fermata, comunque nel leggere, un’altra persona lo avrebbe fatto quindi un grazie triplo!! Ormai tutto il Petite peste è quasi un mio figlio adottivo, specie Seth…e tranne Summer… il suo rapporto con Draco sarà uno dei nodi di questa vicenda! E scoperto quello, tutto verrà di conseguenza!!:D anche se premetto che non sarà un bellissimo momento per Hermione!! Ti ringrazio davvero tanto!! Un bacio!!
saluti anche a chi legge e non recensisce!!

A presto Cassie chan!!

 

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Capitolo 18
*** Searching for our dreams ***


Capitolo 18 – Searching for our dreams

Capitolo 18 – Searching for our dreams

 

Quando arrivo al 76 di Lancaster Road, so razionalmente di non aver fatto molti metri dal locale, eppure ho il cuore in gola e il viso in fiamme.

Il respiro mi manca e mi appoggio stancamente al muro, cercando di riprendere fiato; sollevo lo sguardo e il numero 76, scritto in eleganti lettere dorate, brilla beffardo nella luce del primo mattino. Una parte della mia mente è ancora cosciente e non anestetizzata dalla corsa folle che ho appena fatto, e mi chiede in tono ovvio ma necessario che diamine ci faccia qui, alla ricerca di una donna che non ho mai visto e che nemmeno conosco.

Anche se trovassi Rachel, lei non potrebbe mai rispondermi alle domande che davvero mi stanno a cuore.

Fosse anche una donna estremamente indiscreta ed indelicata, e mi raccontasse tutta la sua storia con Draco, lei non potrebbe mai darmi quella pace che cerco.

Perché la verità è che io voglio che Rachel mi svuoti dentro.

Prenda tutto questo bell’incendio che mi corrode l’anima e me lo geli su stesso, magicamente, dicendomi una qualsiasi cosa che mi faccia smettere di pensare a Draco. Lei mi occhieggia da ogni vetrina, da ogni passante, da ogni riflesso, e pretende che io sciolga questo mistero. E io corro alla ricerca di una medicina a questa stupida follia che sembra avermi preso in questi ultimi giorni. Lei… mi sembra la sola che possa darmela.

Mostrandomi ciò che non ho avuto… e che non avrò mai…  la mia mente ritornerà in sé e mi prenderà di peso, per farmi tornare sulla retta via.

Tornerò quella di sempre, no? È sempre andata così, non mi sono mai crogiolata in amori impossibili e storie tormentate.

Sapevo di poter avere Ron e l’ho avuto. Stessa cosa con Dean.

Innamorata o meno, quando capivo che un determinato ragazzo non mi era indifferente, valutavo le possibilità che potevo avere, e, se ragionevoli, andavo avanti. Anche se sembrava difficile, anche se le cose andavano male, anche se tutti mi dicevano di lasciar perdere… dentro di me, quel sillogismo perfetto reggeva sempre.

Avevo prove, teoremi, dimostrazioni logiche ed incontrovertibili. Avrei potuto filosofeggiare per ore, sorda a qualsiasi richiamo ad essere realistica.

Ero fatta per stare con Ron. Avrei imparato ad amare Dean.

E niente mi poteva far cambiare idea.

Con Draco, no.

La mia mente fa corto circuito da settimane ormai. Io so che non posso averlo, eppure il mio cuore o qualsiasi cosa sia imbavaglia la mia mente… e non smetto di pensare a lui. A conti fatti, anche se sembra assurdo, la sola che mi possa davvero salvare è Rachel Leigh.

Raccontami del vostro amore grande, immenso, incomparabile, e dammi la prova che lui non proverà mai niente di simile, per nessuna, tantomeno per me.

Mostrami come sei bella, Rachel, compari ai miei occhi come una dea su uno scranno dorato; fammi sentire che lui, al tuo confronto, mi guarderà sempre con disprezzo.

Dammi il sollievo di un teorema ineccepibile. Una cosa che imparerò con un po’ di lacrime, ma di cui riconoscerò sempre l’inoppugnabilità.

Come quando andavo a scuola… faticherò, suderò, mi dispererò, ma alla fine ne sarò persino soddisfatta. Mi glorierò di me stessa. E sarà tutto dannatamente facile.

Dammi questo, Rachel, per favore. 

Il portone del numero 76 è un raffinato portale di legno rossiccio, con vetri colorati di verde e giallo, per maniglia un grifone intrecciato. Sorrido, che sia di buon auspicio?

Un palazzo elegante, insomma, adatto ad essere la casa di una modella. O di Summer Layton.

Effettivamente lei e Rachel non hanno lo stesso cognome… saranno lo stesso parenti? O solo amiche? Compagne di casa?

Spio discreta attraverso i vetri che, oscurati, però non permettono di vedere all’interno. Maledizione… che, poi, che cosa volevo vedere? Non penso che Rachel se ne stia nell’atrio ad aspettarmi… ammesso che abiti ancora qui… sinceramente, ora che ci penso, ne dubito.

Una cosa è che la sua casa, forse, è la stessa di Summer… una cosa è pensare che Rachel effettivamente sia ancora qui. In fin dei conti, non ho mai sentito nemmeno parlare di una coinquilina di Summer… quindi una cosa esclude l’altra. O qui ci abita Rachel o ci abita Summer.

E sulla seconda tesi sono sicura… inoltre, se ci rifletto su, se abitasse qui, perché non è mai venuta al Petite Peste, anche se è ad un passo, a trovare Draco?

D’accordo, questo ci può anche stare… potrebbero aver litigato o miriadi di altre cose.

Ma, se davvero la mia supposizione è esatta e lei è la mamma di Serenity, perché non viene mai da lei?

Evidentemente non è più qui, che abita. Forse si è trasferita per lavoro… facendo la modella è altamente probabile, e ha lasciato il suo appartamento a Summer, forse una sua parente. Ed ha affidato Serenity a Draco, che la cura in sua assenza. Cosa logica se Draco è il papà di Serenity.

Ma allora perché non dirlo, fingere che sia sua sorella?

Che senso avrebbe? E poi perché Harry, il Ministro della Magia, avrebbe il potere di togliergli Serenity?

Le cose, come sempre, non tornano… paradossalmente, la sola cosa che torna è che Rachel, ragionandoci bene, quasi sicuramente non è qui.

Scorro velocemente il citofono dorato e le targhette dei nomi dei condomini. Al numero dell’interno 15, come immaginavo, c’è scritto solo Summer B. Layton.

Nessuna traccia di Rachel.

E se poi non avesse mai vissuto qui? In fondo la cartolina era per Danny…

Ora che ci penso, è stato davvero idiota venire qui… che diamine mi è preso? Sono venuta solamente a vedere un portone a vetri, probabilmente ottocentesco, e a farmi paranoie. Sospiro, sto davvero perdendo il cervello. Ora ci manca solo che esca anche Summer così faccio una doppia figuraccia.

Anche se… già che sono qui… potrei chiedere di Rachel a qualcuno… in ogni caso, sia per Summer o per Draco, può darsi che comunque sia venuta qui qualche volta.

Magari c’è un portinaio o qualche vicino che se la ricorda… se poi davvero viveva qui, è altamente probabile che sappia chi sia.

Almeno non ho perso del tutto tempo. Forse mi sanno dire dove posso trovarla.

Con un profondo sospiro, apro la porta spingendola piano ed accostandola subito dopo. Mi accoglie un grande androne, che conduce ad una monumentale scala di marmo nero e bianco, corredata di corrimano dorato. Proprio di fronte a me, una scrivania color ebano dove una donna anziana in livrea verde legge distrattamente una rivista.

Appena sente la porta aprirsi, solleva lo sguardo e mi guarda curiosa, inclinando la testa di lato.

Mi avvicino, appoggiandomi alla scrivania, sussurrando per paura che qualcuno, tipo Summer, mi senta.

“Chiedo scusa…” domando educatamente, schiarendomi la voce “Vorrei sapere se per caso conosceste una ragazza di nome Rachel Leigh… non sono sicura che abitasse qui, ma penso che ci venisse spesso…”. Fatta così, la mia domanda sembra ancora più stupida di quanto non lo fosse già nella mia testa.

Per fortuna, la signora sorride calorosamente e mi guarda tranquillamente, sgranando i grandi occhi azzurri: “Certo, la signorina Leigh… siete una sua amica?”.

“Diciamo di sì…” sorrido un po’ triste “Abbiamo degli amici comuni e mi piacerebbe rintracciarla… abita qui?”.

La signora nega con il capo: “No, signorina… o almeno non abita più qui da qualche anno… viveva all’interno 15…”.

Come immaginavo… lo stesso di Summer…

“Capisco… e non saprebbe dirmi dove posso rintracciarla?” chiedo ansiosamente.

Lei ci riflette un pochino, grattandosi pensosamente la guancia sinistra, poi dice incerta: “Non saprei, la signorina Leigh se ne andò all’improvviso… non ci salutò nemmeno, da un giorno all’altro prese e se ne andò… venne un camion a prendere le sue cose… io non la rividi più. Mi disse tutto il signor Ryan…”, la signora si illumina per poi dirmi: “Ecco potrebbe chiedere a lui…!”.

Ecco, ovviamente. Come volevasi dimostrare, Draco frequentava molto questo posto. Evidentemente veniva a trovare Rachel… come tuttora sicuramente fa con Summer. Ovvio che Danny Ryan sappia tutto di Rachel. Peccato che sia l’ultima persona con cui vorrei parlare al momento.

Fingo indifferenza: “Il signor Ryan? Come mai la conosce?”. Non preciso se io lo conosco a mia volta, sperando che lei ci caschi, smaniosa di parlare.

Per fortuna ci prendo.

“Il signor Ryan era il fidanzato della signorina…” dice lei, ammiccando “Mai vista coppia più bella… lui, poi, è un bellissimo giovane. Biondo, occhi azzurri, un principe da favola… e lei, Rachel… una modella, figurarsi. Erano bellissimi assieme…”.

Anche questa mia supposizione, era corretta.
“Erano? Non stanno più assieme?” chiedo con un filo di voce.

“No, signorina… quando Rachel andò via, non vidi il signor Ryan per parecchio tempo, credo che sia stata una brutta rottura. Ritornò mesi dopo con un’altra ragazza, la signorina Layton, l’attuale affittuaria dell’appartamento 15… ma non rimane mai qui, come prima. Insomma, signorina, detto in confidenza, non credo che sia la stessa cosa. Con Rachel, rimanevano qui giorni e giorni, senza uscire mai… con la signorina Layton, va sempre via poco prima dell’alba…”.

“Capisco…” mormoro a bassa voce “Quindi lui veniva spesso da Rachel?”.

“Spessissimo…” sorride lei, e io mi sento sempre peggio “Se mi lascia il suo nome, posso dire al signor Ryan che è passata… dovrebbe scendere tra poco…”.

Sgrano gli occhi terrorizzata: “E’ qui?!”.

La donna annuisce, dicendo che è di sopra con la signorina Layton.

Stupida! È vero, Draco era uscito con Summer… perché non mi è venuto in mente che potevano anche essere qui?

Dannazione…

Non ho cavato granché da questa conversazione, solo che effettivamente Rachel era la fidanzata di Draco e che si sono lasciati in maniera improvvisa e prevedibilmente dolorosa. Rachel non vive da tempo qui e il suo appartamento è quello di Summer. Cose che insomma avevo già abbondantemente intuito.

Adesso è decisamente meglio che me ne vado.

Faccio per salutare la signora, ma una voce interrompe il mio intento.

Non è la voce che temevo di sentire, ma diciamo che è lo stesso una voce che avrei preferito non sentire.

“Che ci fai qui, tu?! mi ferisce le orecchie una vocetta stridula, amplificata dall’eco dell’androne. Ovviamente Summer. Sollevo leggermente lo sguardo per guardarla scendere regalmente le scale, come se ci fosse nata sopra. Quell’eleganza innata, di cui parlavo, Summer la manifesta in ogni cosa che fa; eppure ha l’espressione del viso aggrottata in una smorfia arrabbiata. Questa espressione è comunque precedente ad avermi visto.

Si sa che lei non è che salti di gioia quando mi vede, ma generalmente, qualora sia per me, ci vuole un bel po’ per farle assumere quella faccia.

Ci deve essere stato un riferimento alla festa, che è andata bene anche senza di lei, oppure una risatina trattenuta di qualcuno che evidentemente crede a Seth e al bacio tra me e Draco. Cosa che, penso, nonostante tutto, sia arrivata alle sue orecchie.

Ma, se questi accenni non ci sono stati, di solito tende ad ignorarmi per non darmi troppa soddisfazione. Ciò, con mia somma gioia, ovviamente.

Perciò, credo fermamente che adesso non sia direttamente arrabbiata con me solo perché le sono capitata di fronte.

E la cosa mi si conferma, quando vedo scendere Draco.

Senza volere, mi incanto come sempre a guardarlo, lui che è sempre così dannatamente bello che vorrei cavarmi gli occhi pur di smettere di fissarlo.

Sempre con quel viso annoiato in modo elegante, sempre con i capelli biondi spettinati in modo raffinato, sempre con quel fisico da nuotatore che non so come faccia a mantenere, sempre con gli abiti studiati per farlo apparire perfetto. È ovvio che doveva essere bellissimo vederti accanto a Rachel…

Ancora mi sento, al pari di quella ragazza sconosciuta e di Summer, che comunque ho di fronte, maledettamente sbagliata in qualsiasi contesto che riguardi lui.

Mi stringo timidamente nelle spalle, abbassando gli occhi e sfuggendo dalla sua vista, l’eco del profumo della ciliegia che sento fino nelle ossa e che quasi temo lui possa sentire.

Mentre lo guardo scendere e fermarsi sullo stesso gradino di Summer, mi chiedo distrattamente perché la portinaia non ha pensato che fosse bellissimo anche vederlo accanto alla sua attuale fidanzata: sono biondi tutti e due, eleganti tutti e due, bellissimi tutti e due, e fanno decisamente un bel quadretto.

In cima a quella scala, adesso, immobili, con la stessa espressione sul volto di disgusto, mentre guardano me, sembrano due altolocati nobili di qualche prestigioso casato perduto.

Eppure

Arriccio il naso quasi con fastidio a quel pensiero.

Non so come e non so perché, ma effettivamente per loro due userei la parola quadretto, non coppia.

Qualcosa tra Draco e Summer sembra sempre sbagliato, come se fossero attaccati assieme e costretti a stare vicino. Mi danno sempre l’idea di una cosa che sta assieme solo per una costrizione, eppure sono così belli… ma è come se, dentro, questa bellezza loro non la condividessero.

Quella bellezza che, invece, sembrava trasparire come un’aura luminosa da Rachel e che, dalle parole della portinaia, desumo avvolgesse anche Draco.

Draco, già… appena è sceso, sembrava annoiato, tremendamente stanco. Come uno che avesse appena finito di litigare e si rassegnasse che non potrà mai essere diverso da così… e vedendo come sta Summer, probabilmente hanno litigato davvero.

Poi ha sollevato lo sguardo e mi ha visto. Sgrana gli occhi, forse non capacitandosi di vedermi lì, in quello che deve essere adesso, come tre anni fa, il suo nido d’amore.  “Granger…” sibila scontroso, finendo di scendere le scale “Lo stalking è perseguibile penalmente, spero che tu lo sappia, visti anche gli studi che stai conducendo…”. Fa un sorriso melenso, guardandomi di sbieco, alludendo ovviamente all’esame di legge che dovrò sostenere a breve.

Sembra quasi temere la mia presenza qui, in questo palazzo dove riposano parte dei suoi ricordi con Rachel.

Mi vede estranea a tali ricordi e magari vuole che me ne vada per non profanarli ulteriormente.

Vorrei farlo, andarmene, ma resto bloccata come un’idiota. Pensa, Hermione, pensa…non posso nemmeno inventare granché balle con la portinaia che ascolta avida e curiosa, ora che ha anche visto che stranamente il ragazzo di cui fingevo un’assoluta non conoscenza, si è appena rivolto a me.

“Eccoti! Accidenti!”.

Mi volto verso la direzione della voce, che sembra provenire dal portone d’ingresso.

Seth. Con Serenity.

Al momento non mi soffermo sul motivo per cui sia qui, mi sembra soltanto di sentire un coro celestiale accogliere il suo arrivo. Qualcosa tipo “Alleluiaaaa…”.

“Ti ho detto che non era qui che si fermava la navetta! Ma no… dovevi chiedere per forza!” mi urla con voce arrabbiata.

Ma che diamine dice?! Boh, questo è scemo forte… poi, mentre avanza verso di me, dando le spalle alla scala e quindi a Draco e Summer, mi strizza l’occhio.

Sorrido, ma certo… sta fingendo per reggermi il gioco. Non voglio sapere perché mi abbia seguito, ma, santo cielo, meno male che l’ha fatto.

Anche la portinaia deve aver inteso qualcosa, forse intravedendo il cenno di Seth, perché dice compita a Draco: “La signorina mi ha chiesto delle informazioni, signor Ryan… ma stava andando via adesso… le serviva qualcosa?”.

La vorrei baciare questa signora! Sorrido anche a lei a trentadue denti, affrettandomi a replicare: “La ringrazio, signora… davvero…”.

“Si figuri, per così poco” mi dice lei, facendomi un largo sorriso.

Non so questa donna che abbia capito di sta faccenda, ma al momento poco importa.

“Navetta?” chiede Summer, scendendo le scale ed avvicinandosi a Seth. Stranamente, la vedo anche chinarsi all’altezza di Serenity ed accarezzarle distrattamente la guancia. La piccola si ritrae confusa, esattamente come diventiamo anche io e Seth.

Insomma, lo sappiamo che Summer e Serenity non si incrociano mai, se non per lo stretto necessario: io e Seth, oltre Draco ovviamente, ci occupiamo di lei, Summer declina sempre elegantemente l’invito, scappando nella direzione opposta. E non parliamo solo di cambiarle il pannolino o cose simili, altrettanto disgustose, ma anche di coccolarla, uscirci assieme, portarla in giro a fare spese, cosa che forse potrebbe anche piacerle.

Summer di solito non degna Serenity di uno sguardo, se non quando Draco è presente.

Ma anche allora, fa lo stretto necessario e poi se ne scappa.

Che adesso le faccia da sola una carezza, è una cosa alquanto strana… decisamente, deve essere successo qualcosa tra quei due. Getto un’occhiata in tralice a Draco e lo vedo sospirare lievemente… boh… evidentemente devono aver litigato sulla cura della bambina. Forse ha rimproverato Summer perché non la cura abbastanza e lei sta cercando di rimediare. Forse Rachel voleva che anche Summer si occupasse della piccola, in sua assenza, chissà…

Di malavoglia, Seth spiega a Summer che stavamo per prendere la navetta per Wonderland.

“Ok, allora veniamo anche noi…” replica Summer, convinta, rialzandosi in piedi.

“Che cosa?!” chiediamo io e Seth, sconvolti, guardandola male. Deve essere uno scherzo… ok, stiamo calmi… ma che stiamo calmi e stiamo calmi!! Ho fatto di tutto per evitare Malfoy e adesso per colpa di questa sciroccata, che chissà che diamine ha oggi, io ci devo passare tutta una giornata assieme!!

Ma siamo matti?!

Non esiste al mondo, che diamine!

Loro andranno a Wonderland, ma io me ne tornerò a casa… a studiare, a fare supposizioni su Rachel, a contare quanti cereali ci sono in una scatola, a pomiciare appassionatamente con Trey, qualsiasi cosa tranne che stare lì con Draco Lucius Malfoy! Mi gettassi anche per terra a piangere come una bambina di cinque anni o mi strappassi le vesti in preda ad una crisi mistica improvvisata, IO NON CI ANDRO’ MAI!!! Me ne strafrego!! No, no e no…

“Mi sembra una buona idea…” sento Draco dire, scendendo le scale a sua volta ed avvicinandosi con Summer all’ingresso. Mi getta un’occhiata storta, evidentemente aspettandosi che io dica che non ci vado più. Idiota, non che non ci va lui! Io devo inventarmi una scusa su due piedi!!

“Ehm…” inizio, schiarendomi la voce “A questo punto, visto che siete così tanti a controllare Serenity, penso che me ne tornerò a casa…”.

“Dov’è che te ne torni tu?!” mi minaccia Seth, prendendomi per un braccio, per poi mugugnare nel mio orecchio: “Io non ci resto con questi due a fare la parte del terzo incomodo! Mi devi un favore, ricordi?! Ora saresti nel pieno dell’interrogatorio sulla violazione della dimora della divina Summer se non fossi intervenuto…!”.

“… e non mi avessi seguito…” borbotto a bassa voce, mentre Summer e Draco prendono in braccio Serenity.

La portinaia alle nostre spalle continua ad ascoltare avida, per lei questa scenetta deve essere meglio di una puntata di Beautiful. Mi allontano con discrezione, afferrando Seth per un braccio, poi insisto: “Mi hai seguita! Cosa che fa crollare la bontà del tuo intervento!”.

“Inezia di poco conto! Ora mi devi sto favore!”.

“Ma scusami non puoi farli andare da soli?!”.

“No! L’idea è la mia! E poi non voglio lasciare Summer a Danny!”.

Ma Danny è di Summer!”.

“Fin quando non hanno la fede al dito, gli uomini sono del demanio pubblico!”.

“All’animaccia tua!” commento menandogli una gomitata nelle costole “Ti ricordo che io sono entrata nella camera di Danny al posto tuo!”.

E io adesso ti ho letteralmente salvato la vita, quindi zitta, oppure dico a Summer di te e Danny e del vostro bacio appassionato!”.

“Non oseresti…” sibilo arrabbiata, guardandolo male, gli occhi ridotti a fessure. Mamma mia, se Summer ha la conferma di quello che pensa, credo che mi ammazzerebbe nel sonno per poi tagliare a pezzi il mio corpo e metterlo in una valigia. E credo che, al momento, Draco Lucius Malfoy non la denuncerebbe nemmeno per occultamento di cadavere… alzerebbe un sopracciglio, chiedendole soltanto di seppellirmi abbastanza lontano per non essere disturbato dal fetore del mio corpo in decomposizione.

“Oh sì che lo farei…” replica Seth deciso, sogghignando “Sottovaluti quanto odi quell’arpia di Summer…”.

Sbuffo calorosamente con il naso: “Me la pagherai, atrocemente, Green… la prossima volta che ti verrà il complesso del tuo alluce troppo grosso alle cinque del mattino, non ci sarà nessuno a consolarti…” concludo minacciosa e soddisfatta.

Lui sbianca un po’, poi tenta di farsi coraggio e dice: “Sopravvivrò…”.

“Farai bene a ricordartene…” lo minaccio con una spallata “I traditori finiscono dritti nelle fauci di Lucifero! Accanto a Giuda, Bruto e Cassio!”.

“Non sono un traditore…” mugugna lui “Sta cosa è capitata! E poi tu stamattina mi hai detto solo che non volevi stare troppo con Danny, non con Danny & Summer…”.

“E giustamente!! C’è un’enorme differenza…!” replico sarcastica e gli pesto il piede, per poi allontanarmi elegantemente.

Pure sto pazzo ci voleva!

Mi avvicino cautamente alla coppia bionda. Entrambi inarcano un sopracciglio, nel vedermi riavvicinarmi, mentre Serenity ride felice, divincolandosi da Summer per venirmi in braccio. Che tenera… in fondo non è tutto così male. Malfoy o no, questa forse è una delle ultime giornate che posso passare con Serenity. Quindi chissene di lui e di Summer… quest’ultima mi sta guardando con odio puro, evidentemente irritata dalle manovre della bambina che dimostra di non adorare la sua compagnia. Draco, invece, guarda entrambe con espressione indecifrabile, poi lo vedo alzare gli occhi e prendere Serenity dalle braccia di Summer che lo guarda contrariata.

Si avvicina a me e mi porge la bambina: “Devi venire anche tu…” mormora con voce insofferente “E’ troppo piccola per capire chi conviene frequentare e chi no…”.

Lo odio decisamente. Lo odio.

Prendo in braccio Serenity ed annuisco con il capo, poi mi allontano con Seth alle calcagna.

Almeno non ho dovuto dire io che venivo, una soddisfazione almeno l’ho avuta!

Serenity mi guarda dubbiosa, mentre usciamo dal portone, e tento di rassicurarla con un sorriso, sta bambina ha peggio di due antenne in testa…

“Tranquilla, piccola…” le sussurro in un orecchio “La mia promessa è sempre valida…”.

Lei sorride ancora, quasi come se avesse capito, anche se ne dubito.

Getto un’ultima occhiata al palazzo, mentre anche gli altri escono. Sento lo sguardo di Draco addosso, quindi mi affretto a riprendere a camminare.

Ma è come se ormai gli occhi di Rachel li avessi sempre addosso.

Da dovunque ella sia, ne sento quasi la presenza asfissiante tutto attorno a me. E, sebbene non lo capissi prima, anche attorno a Draco, Summer e Serenity.

Chiunque tu sia, Rachel… e dovunque tu sia… ora sembra quasi che ti diverti a giocare con le nostre quattro vite.

A giocare con gli occhi di Serenity per renderli uguali ai tuoi. Con i gesti di Summer per farli assomigliare ai tuoi. Con i ricordi di Draco per renderli solo tuoi.

E con i miei pensieri… perché sei tu la chiave di questo mistero. Ed ora essi, i miei pensieri, sono stranamente tutti tuoi.

 

 

 

“Non vuole che tu te ne vada, comunque…”.

“Scusami, Seth, non ti stavo ascoltando…” borbotto, asciugandomi il sudore dalla fronte “Sto jingle è davvero irritante…”.

Cavolo, sono venti minuti che sono a Wonderland, e già la odio! Sta musica demente che fa da colonna sonora al parco, la ripetono trecento volte al secondo. Mi dà davvero la nausea… e poi la gente! La gente, dannazione! È tutto pieno! Credo di star diventando misantropa a furia di stare con Malfoy…

Siamo in coda già da dieci minuti per salire sulla giostra dei cavalli. Lo ammetto, è uno splendido carosello dorato a due piani che i più piccoli guardano avidamente, compresa Serenity che è muta da quando ci siamo avvicinati. Sorrido mentre vedo le luci colorate inseguirsi pazze nei suoi occhi azzurri, e tento di ignorare che sono sempre stramaledettamente uguali a quelli di Rachel.

Sto cercando di non rovinarmi la giornata. E la vita, insomma.

Perché, comunque, questa faccenda non mi riguarda.

Ora… e tra un po’… perché, tra qualche settimana, per fortuna, la mia vita e quella di Draco si separeranno ancora, come sempre doveva essere.

E credo che saperne quanto meno possibile anche di questa donna, sia la cosa migliore.

“Stavo dicendo…” ripete lui pazientemente, gettando un’occhiata discreta alle nostre spalle, dove Draco e Summer sono seduti su una panchina, dato che non ne volevano sapere di salire su questa giostra “… che Danny non vuole che tu te ne vada…”.

Sussulto, restando immobile per qualche secondo, basta che nomini quel nome e già io mi scollego completamente dal reale. È come se mi prendesse in pieno una folata di vento, riducendomi gli occhi a due fessure, annebbiandomi la mente della polvere di mille pensieri e ricordi. Quel nome, sia esso Draco o sia esso Danny, è così piccolo… eppure, mi riporta a centinaia di migliaia di cose diverse. Odio, rancore, rabbia, fastidio, rimorso, compassione, tenerezza, meraviglia… ed infine questa cosa dentro che non mi lascia mai in pace, qualsiasi cosa essa sia.

“E da dove avresti ricavato questa tua tesi?” chiedo, fingendo il disinteresse che non ho.

“Per cominciare, sono giorni che se ne sta zitto e per conto suo…” inizia Seth ad enumerare mentalmente, contando sulle dita “E stamattina davvero era intrattabile… la scena del bagnoschiuma non è stata normale…”.

Abbasso gli occhi e mormoro: “Non era per me, Seth… stai proprio tranquillo su questo…”.

Lui mi guarda curioso, senza capire, ma non mi chiede nulla e gli sono abbastanza grata mentalmente. Distraggo la mia mente dal pensiero di Rachel, guardando ancora quanta gente manchi per quando tocchi a noi salire.

Intanto Seth prosegue: “Comunque al di là di questo, è diverso, Danny è diverso… e credo che c’entri con il fatto che tu te ne vada, non l’ho mai visto così… e credo che anche Summer se ne sia resa conto…”.

“Summer?” chiedo perplessa “Queste cose le vedi solamente tu… perché io non le vedo, scusa?”.

“Perché tu sei tu…” risponde Seth ovvio, roteando gli occhi “Non mi dire che non ti sei accorta che Summer è strana oggi? Troppo attaccata a Serenity per esempio…”.

Annuisco con il capo, fin qui c’ero arrivata. Non vedo che c’entri io, però.

“E non ti chiedi il motivo?” mi chiede, mettendomi una mano sulla schiena e sospingendomi leggermente, dato che è arrivato il nostro turno.

Meditabonda, salgo su un cavallo di legno, completamente ricoperto di fermagli dorati, fiocchi rosa ed argento. Serenity gorgheggia felice e distrattamente la sistemo davanti a me, mentre poggia le manine sulla testa del cavallo, saltellando quasi come una vera cavallerizza. Seth invece rimane in piedi, accanto a me, poggiandosi con un fianco al collo dell’animale finto.

Dopo un po’, rispondo dubbiosa: “Me ne posso anche chiedere il motivo, ma non lo immagino…”.

Mentre il giro inizia, Serenity ride ancora contenta, aggrappandosi al collo del cavallo, ed anche io mi sistemo meglio ascoltando Seth.

Seth guarda distrattamente attorno a sé e, quando la rotazione ci riporta al punto di partenza, dice con un sorriso: “Guarda…” e con il capo indica il punto dove abbiamo lasciato Draco e Summer. Mi volto e lo vedo con lo sguardo puntato verso di noi, sparisce nella girandola colorata del mondo fuori da questo carosello.

“Sta guardando Serenity…” commento stupidamente, guardandolo storto.

Seth scrolla il capo, ripetendo: “Non sta guardando Serenity… sta guardando te con Serenity…”.

“Perché?” sussurro, l’assurda melodia che ci circonda che assorbe le mie parole, ma lui le sente lo stesso.

Mi dice semplicemente: “Lo sai perfettamente, Herm… la sola donna che potrà mai avvicinarsi a lui, dovrà sempre passare per Serenity… e la prima sei tu…”.

La giostra gira ancora e sono ancora lì davanti a lui, curiosamente mi viene da sorridere. La magia di questa giostra è che posso tornare sempre a guardarlo senza sentirmi di colpa, senza doverlo negare. Mi riservo la sua immagine negli occhi, prima che mi diventi ancora estraneo il suo volto. Poi passano ancora altri colori, e poi di nuovo lui.

E quasi le parole di Seth mi convincono davvero, quasi davvero sento che sta guardando me con Serenity.

Quasi distinguo un sorriso sulle sue labbra sottili, quasi vedo i suoi occhi rischiararsi.

E quasi, suicida, mi dico convinta che vorrei stare per sempre qui, sospesa in questo momento, per sentire sempre i suoi occhi come velluto sulla mia pelle.

Fosse per qualsiasi motivo del mondo.

Fosse anche perché, semplicemente, io voglio bene a Serenity e lui non la vuole privare di me.

Come ha fatto prima.

Non mi importa… come questi colori che vorticano attorno a me, io mi sento splendente di sfumature che sono state disegnate solo su di me.

Splendente di quello che Seth mi dipinge.

Poi il giro finisce… la testa smette di vorticare. E Draco viene a prendersi Serenity e la porge a Summer che la prende in braccio, possessiva.

Lui ancora non mi guarda nemmeno in faccia.

E resto sola con Seth, spogliandomi ancora della carta color caramella di un’illusione che lui mi ha plasmato addosso.

“Seth…” bisbiglio mentre Summer e Draco si allontanano “Non farlo mai più… ti prego…”.

Lui si preoccupa e mi si avvicina premuroso, toccandomi una guancia. Si spaventa quando la ritrae bagnata.

“Herm, cosa c’è?”.

Sollevo gli occhi, cercando di frenare le lacrime che cadono a precipizio, e lo fisso negli occhi con decisione: “Non dirmi più queste cose, Seth… io, non posso più sopportarlo…”, abbasso gli occhi mentre lui mi guarda dispiaciuto e dice: “Perché? Lo odi a tal punto da non sopportare qualche mia riflessione innocente?”.

Mi sembra quasi arrabbiato, e a quel punto so che non posso più trattenermi. Come se mi stessi disgregando in mille briciole inconsistenti, il mio proposito della mattina è andato a farsi benedire, lo so mentre già penso la risposta che sto per dargli, mentre mi auguro di odiare Draco, quando ormai non lo faccio più.

Lo sorpasso bruscamente, mettendo qualche passo tra me e lui e dandogli le spalle.

Non ho il coraggio di guardarlo in faccia, non voglio leggere dolore o rabbia o qualsiasi altra cosa a ciò che sto per dire.

Una parte di me, una estremamente codarda, mi dice che l’ha voluto lui. Ed una parte di me… Bè credo che mi stia maledicendo… ma è già tutto maledettamente difficile, senza che ci si metta anche lui. E deve capirlo.

In un sussurro, dico solamente: “Stamattina mi ha chiesto la verità, Seth… sul perché vado via… e io ti ho mentito. Avrei continuato a farlo se tu non mi avessi detto queste cose adesso, perché non voglio perderti come amico. Ma la verità è diversa…”, sospiro profondamente prima di proseguire: “…non me ne vado perché odio Danny… me ne vado proprio perché ho smesso di farlo…”.

“Nel senso che…?” mi chiede allora lui, dopo qualche attimo di silenzio.

“Nel senso che… non lo so, Seth…” rido amaramente, girandomi alla fine. La sua faccia non è straziata dal dolore, è solo curiosa e scioccata.

“Ti sei innamorata di lui?” sussurra lui, guardandomi in viso.

“Certo che no!” erompo scandalizzata, facendo un passo indietro, asciugandomi le lacrime con la manica della camicia.

Ma non ti è indifferente…” mormora Seth, avvicinandosi a me “E questo, per te, è così terribile?”.

Rifuggo il suo sguardo, guardando altrove, apparentemente ipnotizzata da un bambino che si dimena per avere dello zucchero filato.

Annuisco con il capo, semplicemente: “Non volevo che tu lo sapessi… ma diciamo che mi ci hai costretto…”.

“Herm, tesoro…” mi fa lui, avvicinandosi ed abbracciandomi “Non ti devi preoccupare, piccola… puoi parlarmi liberamente… e comunque il mio pensiero lo sai… ma se questo ti fa male o ti impedisce di essere serena, non ne parlerò più…”.

“Grazie” lo abbraccio a mia volta, è meraviglioso avere un amico come lui. Davvero, non so come facessi prima di incontrarlo.

Non che Ginny o Harry non fossero stati mai degli amici fantastici, anzi… ma Seth è davvero una persona speciale.

È una persona così pura e semplice che davvero… non so come faccia a vivere…

Io non sono come lui, non sono una di quelle persone meravigliose, capaci di donare il proprio cuore in modo disinteressato, come fa lui, tanto da volere solo il bene della persona amata e cercarlo in qualsiasi forma sia possibile.

Tempo fa, io avrei detto solamente che lui mi faceva pena, perché dare il proprio cuore a qualcuno in modo così totalitario, è la garanzia assoluta ed incrollabile di riaverlo indietro a pezzi. Ora invece… io… lo invidio da morire…

Vorrei essere io così… ed invece io conto tutti gli slanci affettivi che ho e quelli che ricevo, aspettandomi sempre che si bilancino in modo totale, come una perfetta economa del cuore. Quando sono innamorata, il risultato che ottengo è solo diventare egoista. Ed anche adesso, con Draco, qualsiasi cosa essa sia, alla fine non ce l’ho fatta a starmene zitta, perlomeno con Seth.

Sono proprio irrecuperabile…

Mi stacco da lui con un sorriso e dico: “Senti, Seth, posso lasciarti solo un pochino? Voglio giusto riprendermi un po’… mi prendo un caffè e vi raggiungo…”.

“Tranquilla… ci vediamo tra poco…” sorride Seth e corre per raggiungere Draco e Summer che si sono fermati poco più avanti.

Vedo Seth dire qualcosa a loro e Draco voltarsi verso di me, per poi distogliere subito lo sguardo.

Sospiro ancora e raggiungo la porta del bar lì vicino, evito un paio di mocciosi indemoniati e mi siedo al bancone. Chiamo il barista, un uomo sulla cinquantina che indossa una divisa arancione carota, e mi faccio servire un caffè nero bollente, sperando che mi rischiari la mente.

Lo sorseggio piano, facendo susseguire immediatamente una smorfia; io odio il caffè, è troppo amaro! E come già chiarito, nel corso degli anni, ho sviluppato una strana predilezione per le cose dolcissime. Inoltre, essendo già abbastanza nervosa di carattere, se posso evitarlo come bevanda lo faccio, considerando che, quando termino di berlo, nelle vene ho solo una goccia di sangue che nuota nell’adrenalina. Il caffè inglese, poi… Dio santo, acqua sporca… essendo mia mamma di origini italiane, lei l’ha sempre fatto con la moka e tutto il resto, abituandomi ad un sapore pieno, intenso. Quello, invece, inglese ti lascia un retrogusto sporco e nauseante.

Insomma, per bere caffè, devo stare proprio a pezzi…

E ciò mi dà un fastidio assurdo…

Sbuffo, continuando a bere con fastidio, almeno mi darà coraggio in caffeina per affrontare ancora delle estenuanti ore accanto a Draco.

Improvvisamente, un brivido caldo. Qualcosa mi sta toccando sul polso, all’altezza del braccialetto di Dean che non ho tolto da stamattina. Un ladro!!

Maledetto, anche nei parchi per bambini, vengono! Tutto per colpa dell’ultima amnistia governativa, non c’è più sicurezza nelle strade… ma non avrai questo bracciale, senza combattere! L’ho pagato ben 75 sterline! Con l’incisione, poi, non lo puoi nemmeno rivendere, idiota… e comunque non penso nemmeno che lo puoi fondere… secondo me ci saranno anche dei frammenti di argento e nichel, altro che oro bianco purissimo…

Mi giro, impugnando la prima cosa che trovo sul bancone e cioè un portatovaglioli, pronta a scagliarlo sulla fronte dell’ignoto predone, e mi blocco con la mano a mezz’aria.

Mamma mia, magari tutti i ladri fossero così… mi ritrovo a tu per tu con la copia carbone di Shane West, un attore che, tanto per gradire, ho sempre adorato. Quando ho visto “A walk to remember ho pianto come una bambina per ore, mentre Dean sbuffava che voleva vedere Manchester United – Liverpool. E ci litigai anche pesantemente tanto che non ci parlammo per una settimana, me ne stavo zitta a guardare il vuoto e lui, povero illuso, pensava che fosse perché ero straziata dal dolore per la nostra lite.

Come no!

Io fantasticavo su Landon!

Insomma se l’ho avuta una cotta per un attore, quello è proprio lui… poi, come tutte le mie cose, mi è passata quando ho razionalizzato che mi piaceva il personaggio, più che l’attore: dove lo trovi uno che ti sposa sul serio anche se tu stai crepando per una malattia?! Da nessuna parte… quindi avevo fatto pace con Dean, gettando maledizioni mentali, nell’ordine, agli sceneggiatori hollywoodiani che non si ispiravano mai alla vita vera per i loro film, a Nicholas Sparks che aveva scritto un libro assurdamente irreale e a Mandy Moore che se lo sbaciucchiava per mezzo film sulle note di musica strappalacrime.

Ma, diciamo, che comunque non potevo negare che, come attore, fosse proprio un bel tipo…

E sto ladro è identico… occhi di colore verde intenso, capelli castani spettinati sul capo, un sorriso caloroso ed aperto, fisico scolpito, look casual.

Quasi quasi glielo do da sola il braccialetto… assieme a qualsiasi altra cosa mi chieda…

Ma a che cavolo sto pensando?! Mi riscuoto da sola, prendendomi a calci mentalmente, non ho un ragazzo da parecchio ed evidentemente me ne sto andando in scompenso da estrogeni. Stacco bruscamente il braccio dalla mano del tipo in questione, guardandolo con espressione perlomeno interrogativa ed affrettandomi a poggiare nuovamente il portatovaglioli sul bancone.

Lui mi sorride ancora, facendomi tremare le ginocchia, poi si siede accanto a me che continuo a guardarlo, in attesa.

“Scusami…” mi dice alla fine, guardandomi ancora con un sorriso “Mi aveva incuriosito il tuo bracciale… non volevo spaventarti…”.

Deglutisco un paio di volte, decisamente in imbarazzo, prima di chiedere: “Il mio bracciale? Non mi sembra poi così particolare…”.

“Le iniziali lo sono sicuramente…” sorride ancora lui, per poi chiedere al barista una limonata. Poi torna a guardarmi, dicendo: “Sono le mie stesse iniziali, quindi la cosa mi ha colpito…”.

“Ah, capisco…” sussurro più sollevata, portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, un tipo bellissimo attacca bottone proprio con me e non so fare altro che squittire! Riprenditi, Granger! Non che sia facile con questi fanali verdi puntati addosso che soppesano tutta la mia figura, sicuramente sciatta e disordinata, anche dopo il bel pianto che mi sono fatta poco fa con Seth. Ma almeno devo cercare di compensare con la personalità…!

“E’ particolare come cosa…” sorrido a mia volta, bevendo il mio caffè “Ma non così rara, no?”.

“No” ammette il ragazzo con un altro incantevole sorriso “Diciamo che era una buona scusa per parlarti, no? Mettiamola in questo modo...”. Mamma mia, ma quanto è carino da uno a dieci?!! E voleva parlare proprio con me!

Sorrido imbarazzata, armeggiando ancora con i miei capelli: “Deduco che sia una bugia…”.

“Le iniziali? Ah no, diciamo che mi sono capitate a fagiolo…” ride lui, bevendo la sua bibita.

Quindi sei…?”.

“Hayden James Griffith…”.

“Nome impegnativo…” rido, portando la testa all’indietro “Spero che non lo usi per intero!”.

Anche lui ride, chiedendomi quale sia invece il mio nome.

Sorrido maliziosamente, riscoprendo un po’ di civetteria che forse il mio cromosoma XX si è ricordato, dopo secoli, di possedere: “Vediamo un po’… prova ad indovinare…”.

Lui ci pensa un po’, mordicchiandosi il dito piano, provocandomi un nuovo e diffuso rossore sulle guance. Sembra uno di quei tipici ragazzi che, qualsiasi cosa facciano, sono terribilmente seducenti, ma non ne sono minimamente consapevoli. Anzi… non lo fanno nemmeno apposta, non si accorgono degli sguardi voraci che vengono lanciati nei loro confronti e spesso se ne sorprendono. Intimamente sono insicuri e fragili, anche se lo celano.

Insomma, il tipico ragazzo che a me fa decisamente impazzire. Odio quelli che sono belli e lo sanno, e fanno di tutto per mettersi in mostra.

Invece questo ragazzo ha uno sguardo dolcissimo, pochi secondi sono stati sufficienti per inquadrarlo pienamente.

“Vediamo un po’… un nome con la H… fammi pensare… mi dai di… Henrietta!” ride alla fine, sputando fuori il nome che pensa che io abbia.

Henrietta?! Mia zia materna si chiama così! Ed è una donna leziosa, si veste sempre di rosa confetto e, quando ero bambina, mi dava dei bacioni sulle guance che mi lasciavano dei segni rossi per settimane. Tanto per gradire, è anche sovrappeso.

Forse questo meraviglioso ragazzo, non mi vuole proprio abbordare… anzi… forse vuole solo prendermi in giro…

“Henrietta?” borbotto disgustata, inarcando un sopracciglio e guardandolo storto “Santo cielo!”.

“Non ti chiami così?” fa con aria innocente, sbattendo le palpebre, anche se sorride ancora “Avrei giurato che ti chiamassi così…”.

Ma è terribile come nome! Sembra quello di una nonna!”.

“Ma no!” sorride, agitando la mano “Al massimo di una ragazza molto seria che, appena qualcuno la tocca, brandisce un portatovaglioli come un’arma…”.

Arrossisco bruscamente, stringendomi nelle spalle ed abbassando lo sguardo, imbarazzata dalla mia reazione esagerata.

“Oppure, sei semplicemente seria perché sei fidanzata…” sussurra, sporgendomi verso di me e guardandomi fisso.

Nego con il capo, poi ribatto ironicamente: “Credo di essere nata seria… e comunque non sono fidanzata…”.

“Ecco, ora sono più sollevato!”.

Rido, ha un tono di voce caldo e sicuro, mi fa sentire protetta. La sua voce mi ricorda molto quella di Dean… e, stranamente, è una bella sensazione.

“In fondo, Henrietta non è male come nome…” ci rifletto su, girando pensosamente il cucchiaino nella tazza vuota del caffè, rimestando lo zucchero marroncino rimasto “E’ anche il titolo di una canzone dei Fratellis…”.

Lui ci pensa un po’ su, poi lo sento canticchiare, un’espressione seria e posata da cantante degli anni 50: “Henrietta we got no flowers for you…”.

Scoppio a ridere come una scema, la mente sgombra, la sua faccia che mi ispira curiosamente a ridere, ed anche lui mi segue nel ridere. Alla fine, mi asciugo le lacrime con il dorso della mano e lui si abbandona contro lo schienale della sedia.

Guardandolo, alla fine gli porgo la mano dicendo: “Hermione Jane Granger… mi dispiace di non chiamarmi Henrietta, sarei stata la donna della tua vita…”.

Lui mi stringe la mano, provocandomi un brivido lungo la schiena, dicendo con finta tristezza: “Pazienza, mi farò bastare Hermione, allora…”. 

Stacco la mia mano dalla sua, portandomela sotto il mento, poi chiedo divertita: “Bambino troppo cresciuto che trascorre le mattine sulle giostre?”.

“Diciamo di più, fratello maggiore mollato dalla baby sitter…e tu? Trovi le montagne russe un antistress?”.

“Incastrata da un amico ricattatore, da una coppia in crisi e da una bambina bionda…” mi fa quasi scoppiare a ridere il quadro di Serenity, Draco e Summer.

Ora, per la prima volta da giorni, mi sembrano lontanissimi. Ed è una boccata d’ossigeno, anche se mi dispiace.

“Prospettiva interessante…” sorride lui e io annuisco con il capo “Quindi nessun fidanzato?”.

Nego con il capo: “Nemmeno tu, a quanto pare…”.

Hayden nega a sua volta, spiegandomi che ha chiuso da qualche mese una relazione importante con una ragazza che l’ha cornificato più e più volte.

Scoppio a ridere, dicendo che anche per me è stata la stessa cosa e racconto brevemente la mia storia con Ron, ovviamente spuria di particolari magici.

“Una cosa in comune ce l’abbiamo almeno, attitudine ad essere traditi!” ride ancora lui, ha un sorriso contagioso e fa ridere anche me.

Cavolo, avevo scordato quanto avessi bisogno di ridere… sono giorni che piango e basta…

“E adesso?” mi chiede Hayden in un soffio, guardandomi.

“Adesso, cosa?”.

Sei innamorata?” mi chiede ancora con un sorriso.

Draco… e il sorriso evapora dalle mie labbra.

Nego con il capo energicamente, cercando di togliermi la sua immagine dagli occhi che si confonde con quella del ragazzo che ho di fronte.

Sospiro aggiungendo: “Non innamorata… mettiamola così… sono incasinata sentimentalmente…”.

Hayden inclina pensosamente il capo, poi afferma convinto: “Mi piacciono le incasinate sentimentalmente… vuol dire che sono persone complesse… altrimenti non sarebbe tutto così difficile… e ciò le rende anche interessanti…”.

Sorrido, stringendomi nelle spalle, uno strano senso di tranquillità che mi accarezza dentro, quasi come una camomilla calda che mi scivola nella gola.

Passa un’ora senza nemmeno che me ne accorga.

Hayden si dimostra una persona clamorosamente interessante, oltre che bellissimo, e parlare con lui mi distrae la mente, davvero. Fa ridere in un modo puro ed innocente, come un bambino con le sue smorfie inconsapevoli e buffe, ma è anche una persona colta, tanto da farti venire il dubbio che stia recitando. Ma le cose che dice, sono indiscutibilmente vere, come quando ricorda distintamente la poesia di D’Annunzio di cui porto il nome e ne recita qualche verso.

Incredibile che esista un ragazzo del genere…

Me ne ero quasi scordata, persa nel mistero meraviglioso di leggere negli occhi di Draco.

Ce ne sono ancora delle vite al mondo, interessanti quasi al pari suo.

Hayden studia Lettere classiche ed ha vinto una borsa di studio per l’Italia, alla Normale di Pisa, e lì vive da qualche anno. Ma adesso per le vacanze è tornato a casa, a Londra, dove vive la mamma e il suo fratellino minore, Nathan, di sette anni.

Lo ascolto rapita parlarmi dell’Italia, oppure dell’America, da cui è appena tornato, dove ha fatto delle ricerche per conto della Smithsonian Institution, e mi sembra un altro mondo… ci ho fantasticato tutta la vita su queste cose, e ora sentire qualcuno che davvero le vive, mi sembra un sogno. Non è che poi le descriva in modo presuntuoso, non lasciandomi parlare, anzi… ascolta le mie domande, risponde in modo vivace ed esaustivo ed ascolta cosa io possa saperne anche a proposito.

Mamma mia, ma da dove è piombato?! Forse dovevo andare in giro con il bracciale di Dean molto prima…

“Pensa che stavo lì, davanti alla teca con il Diamond Hope a Washington...” mi sta dicendo adesso, accaldandosi e ridendo come un pazzo “E io pensavo a tutti quelli che l’hanno posseduto e ci sono morti… ed insomma un po’ di strizza ti viene…”.

Scoppio a ridere, sorseggiando l’ennesima bevanda che mi sono presa per giustificare la mia sosta prolungata al bancone, mentre prosegue: “Pensavo al vaiolo di Luigi XV, all’esecuzione di Maria Antonietta, alla pazzia di Jacques Colot… e mi azzardo solo a dire che è incredibile quanta storia ci possa essere in un gioiello, anche se così bello… e sai che ha il coraggio di dire Nancy, quella di cui ti dicevo prima?”.

“No, cosa?” chiedo già ridendo.

“Che effettivamente Rose del Titanic ne ha passate parecchie appresso a sto coso…” termina, scoppiando a ridere, subito seguito da me.

Non riesco a smettere di ridere, seguita da lui, non so davvero se sia lui che è divertente oppure sono io che ne avevo un disperato bisogno.

Come farfalle di luce, sento i miei pensieri rischiararsi e volare via leggeri, permeandosi di una speranza che avevo perso dai miei gesti e dalle mie emozioni. Vorticante e luminoso come è sempre stato, mi sembra che, dalle parole di Hayden, io riafferri incerta il mio futuro e lo contempli ancora come una gemma preziosa, da limare e rendere ancora più perfetta e luminosa. E, considerando come sto quasi sempre, mi sembra un miracolo.

Ormai non so nemmeno più che significasse pensare al futuro… e non che questo sconosciuto me l’abbia restituito come prospettiva, ma pensarci ancora come qualcosa di bello, dopo tanto tempo, fosse anche per pochissimi attimi, è dolce, bello, incantevole. Non credevo che mi mancasse tanto.

Sollevo gli occhi, apprestandomi a chiedere al barista un altro succo di frutta, assieme stavolta a qualcosa da mangiare, mentre anche Hayden mi dice che tra poco anche suo fratello Nathan dovrebbe tornare dallo spettacolino organizzato dagli animatori.

“Te lo posso presentare…se vorrai mangiare con noi…” mi sussurra speranzoso, avvicinandosi a me.

Ripenso a Seth, mamma mia, mi darà per dispersa… poi sorrido ed annuisco ad Hayden, quando vedrà il motivo per cui gli do buca, credo che mi farà una statua d’oro.

Hayden sorride contento, chiedendo il menù: “Che cosa vuoi mangiare?”.

Alzo lo sguardo per sentire il cameriere elencare i vari piatti, distrattamente gli occhi trovano il vetro trasparente alle spalle dell’uomo. Incrocio i miei occhi e quelli di Hayden, e poi più nulla, il cuore mi salta in gola. Gelido il viso, ruoto su me stessa.

Draco

Alle mie spalle.

I capelli spettinati e l’aria sconvolta, gli occhi persi nel vuoto. Repentino e fugace, balena una saetta nel suo sguardo mentre guarda me ed Hayden che, incuriosito, si è girato anche lui. Rimane lì Draco a guardare entrambi, in modo alternativo, lento, studiato, e io mi sento in colpa, assurdamente ed illogicamente.

È così strano… senza dire una parola, si gira su stesso ed inizia ad allontanarsi.

La mia mano, il mio intero corpo si muove da solo, senza che io l’abbia voluto o premeditato, se ne va per conto suo.

Mi alzo bruscamente dalla sedia, tanto che essa per il contraccolpo ricade all’indietro con un tonfo sordo, assorbito dai rumori della stanza. Ignoro lo sguardo curioso di Hayden e faccio veloce quei passi che mi dividono da Draco. Lo afferro per la manica della camicia, fermandolo.

Lui resta di spalle, non girandosi, ed allora lo rompo io il voto del silenzio con lui, tanto ormai ci sono.

“Draco… che è successo?” stringo la mano sul suo braccio.

Lui non mi risponde ancora, quindi lo scuoto leggermente, incitandolo.

Ed è a quel punto che si gira, gli occhi lucidi, il labbro contratto in una smorfia preoccupata e tesa, la pelle innaturalmente bianca, sussulto a vederlo così.

Mi avvicino di qualche passo, ancora, ormai sono ad un soffio da lui, come la luna che attira la marea argentata dalle profondità amene del cielo, non so fermarmi. Delicatamente gli poggio una mano sulla guancia, sollevandomi in punta di piedi, cercando di farlo riprendere.

Sbatte gli occhi al contatto ed anche io avverto una spina bollente nel petto a toccarlo di nuovo, dopo tanto tempo; come riprendere esattamente da dove l’avevo lasciato quella sera sulla terrazza, il tempo svolto in mezzo che non ha il benché minimo senso.

Chiude gli occhi, una lacrima che scende dall’occhio destro, infrangendosi contro le mie dita, goccia salata che brucia come il mare d’inverno.

Quando gli riapre, prende la mia mano e la stringe nella sua, forte, quasi facendomi male.

Quasi, già… perché è il colore dei suoi occhi, opaco come un pezzo di roccia, che mi fa più male.

Ma, mai come le sue parole, taglienti, dure, mozzicate: “Non riusciamo più a trovare Serenity, Hermione…”.

 

Finito, e come sempre nel momento migliore! Che cosa succederà adesso? Premetto che questo capitolo era parte di uno molto più lungo, comprensivo anche del prossimo, ma ho preferito dividerlo in due parti. Il motivo è semplice, al momento sono molto impegnata con lo studio quindi ho davvero poco tempo sia per scrivere che per aggiornare; quindi preferisco scrivere capitoli più brevi, ma assicurarvi una costanza negli aggiornamenti, piuttosto che lasciarvi a bocca asciutta per anni. Comunque, il prossimo capitolo è già pronto quindi non credo che dovrete aspettare moltissimo per leggerlo.

Passo immediatamente ai ringraziamenti e alle risposte di rito!

Vesper: grazie tantissimo dei tuoi complimenti ed anche grazie della tua piccola critica! Per come sono fatta io, sono cose che mi fanno un grande bene quindi non lesinare, sii onesta!! Effettivamente spesso con le riflessioni ci prendo molto la mano, mi accade perché la storia è in prima persona quindi molte volte non mi accorgo di allungare troppo con i pensieri. Il capitolo scorso, poi, essendo tutto basato sul ritrovamento della scatola di Rachel, mi era purtroppo necessario farlo così… comunque, cercherò di essere più snella con i pensieri! Grazie ancora! Spero che questo capitolo ti piaccia! Ah una piccola domanda, in che senso la mia storia è inedita? J

Cygnus Malfoy: la mia carissima Helder che faccio morire di ansia anche su msn, e che mi preserverà in vita fino a quando finirò la mia storia! Per sapere chi sia Rachel, dovrai aspettare ancora MOOOOLTOOOO tempo, faccio più o meno una stima… almeno altri 3 o 4 capitoli! Diciamo che è il nodo della vicenda, quindi insomma ci sta che mi prenda più tempo! Però almeno adesso sai che è l’ex di Draco! Un bacio tesoro!

Nyappy: è la mia specialità lasciarvi sulle spine! Spero di riuscirci sempre, altrimenti non leggereste più la mia storia! Grazie!!

Seven: la mia lettrice preferita con le sue mega recensioni!! Prima o poi ti contatterò in qualche modo!!! Iniziamo con calma, effettivamente Hermione come ex auror ha una certa esperienza nel risolvere grane, quindi una in più una in meno!:D raccolgo le tue supposizioni e le tengo da parte, su qualcosa hai azzeccato, ma sono una tomba! Non dirò mai su cosa…!! Eheheheh!!! Serenity effettivamente vede Hermione un po’ come una mamma, anche perché non ha grandissime figure femminili nella sua vita, Summer la evita come la peste… ed anche la tua analisi su Draco, in larga parte, è corretta. Draco è palesemente ancora legato a delle cose passate che gli impediscono di avere un rapporto sereno con la nostra Hermione, ma piano le supererà!! Stanne certa!! Grazie del capolavoro, addirittura!! Ne sono onorata!! Un bacione!!

FraFri95: la lettrice che mi inorgoglisce di più perché c’è anche una mamma dietro le recensioni!! Me felice!! Grazie davvero, mi fa piacere che pensi che sia migliorata! Cerco sempre di mettercela tutta e spesso non so se questo arrivi… ma le vostre recensioni mi rassicurano!! Un bacio!!

BriBry85: continua a leggere e lo saprai! :P

Emmetti: compagna di violazioni di regole su L&L!!! grazie dei complimenti, cara!! Ma davvero io miglioro??? A me sembro sempre la stessa!!:D Seth è il mio eroe ormai, anche in questo capitolo ha dato il meglio di sé; essendo poi un personaggio tutto mio, insomma gli sono anche affezionata! Lieta che ti piaccia anche il “mio” Draco, sono sempre ossessionata dall’idea di tenerlo IC!! La ciliegia è presa, scusate lo spot, dallo shampoo per bambine della Garnier alla ciliegia che è quello che uso io, quasi sempre. Appena lo usai, mi venne in mente Serenity e quindi taddadà!! Avevo la scena iniziale del chappy!! Hihihi!! A presto carissima!!

Ginsan89: ciao!! Allora prima di tutto grazie per la recensione!! La mia Hermione è MOLTO masochista!! Ma anche la Herm della Rowling lo è secondo me, sta con Ron, ahahahah!! Tante domande che come vedi dall’inizio di questo capitolo sono le stesse che si fa anche Hermione! Prometto che cercherò di aggiornare quanto prima… un bacio!!

Coquelicot Rousse: grazie prima di tutto di aver recensito, ne sono felice!! Sentiti libera di scrivermi quando vuoi!! Sono felice che i miei Draco ed Herm ti piacciano, è un punto su cui sono molto sensibile!! Grazie anche per la piccola critica, ho cercato di rimediare in questo capitolo, effettivamente di punti di sospensione ne metto davvero tanti, chiedo scusa se danno fastidio!! Un bacio!!

Haley James: una nuova lettrice, immagino fan di One tree hill, cosa che già ti rende simpatica ai miei occhi!! Grazie mille dei tuoi complimenti, spero che continuerai a seguirmi!! Baci!!

Un saluto anche a coloro che leggono e non recensiscono!!

 

 

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Capitolo 19
*** Marvellous Tinkerball ***


Capitolo 19 – Marvellous Tinkerball

 

Capitolo 19 – Marvellous Tinkerball

 

Le parole che sono uscite dalla bocca di Draco, per un attimo, mi sembrano assurde e prive di senso. Non riusciamo più a trovare Serenity, Hermione

Come non la riuscite a trovare? Era con voi, no?

Poi, recupero la connessione con la mia mente e mi porto nervosamente la mano alla bocca, coprendola nel suo aprirsi meravigliato e terrorizzato.

“Che cosa?” riesco solo a dire, iniziando a tremare per l’angoscia. Oddio, Serenity…                                    

La mano di Draco nella mia diventa ancora più gelida, contraendosi nervosamente: “Summer… l’aveva lei… io e Seth eravamo andati a prendere da mangiare… lei… l’ha persa di vista…”.

Non riesco ad evitarmi di tremare, la mano ancora sulla bocca, spaventata e preoccupata per la bambina. Ne sento ancora il peso caldo e soffice tra le braccia fino a quando l’ho tenuta io, stretta a me, e adesso la sento evanescente come una nebbia di fumo. L’altra mano, invece, la tengo ancora stretta in quella di Draco, cercando di darle il calore che ha perso.

Devo stare calma… almeno per tranquillizzare lui…

Non è difficile capire che cosa passi adesso nella sua mente, sta pensando ai Mangiamorte superstiti che vogliono la sua morte, e che potrebbero aver rapito Serenity per arrivare a lui; oppure a qualche altro rischio babbano su cui comunque non c’è da stare allegri. Di notizie di bambine bellissime che scompaiono all’improvviso, ne è piena la cronaca. Eppure, devo cercare di essere positiva…

“Ascoltami Draco…” inizio, tenendo la mia voce più ferma possibile “Sta tranquillo, la troveremo… non sa nemmeno camminare bene, quindi non sarà andata lontano… la troveremo, tranquillo… Seth e Summer dove sono?”.

Solleva gli occhi e mugugna triste: “Seth è all’ingresso, ce n’è solamente uno… nel caso in cui intercetti qualcuno che l’ha presa… per impedirgli di andare via…”, la sua voce diventa più dura mentre ringhia che Summer invece è andata a parlare con la direzione di Wonderland.

Annuisco con il capo, dicendo decisa, tenendo a bada l’angoscia: “Ora andiamo a cercarla… sarà qui da qualche parte…”.

I suoi occhi rifuggono lontani, guardando dritto, alle mie spalle, il suo volto si indurisce e la sua mano nella mia sembra bloccarmi in una stretta possessiva. Non capisco che abbia, inarco un sopracciglio guardandolo e lo chiamo leggermente.

Tornando a guardarmi, sibila duramente, la mano violentemente attaccata alla mia: “E lui?”.

Sgrano gli occhi, guardandolo, i suoi occhi che si incatenano ai miei, fissandomi. Eco di onde plumbee che si infrangono, rovinose, nella mia mente, mentre mi guarda.

All’improvviso, come se mi svegliassi da uno stato di sonno pesante, mi ricordo di Hayden.

Mi volto verso di lui che sta fissando sia me che Draco con espressione confusa, mi sembra una vita fa che stavo parlando con lui, la spensieratezza nei miei sensi già lontana mille anni luce.

Mi mordo il labbro inferiore, imbarazzata, poi mi dico risoluta che non devo sentirmi in colpa o altro. Che cavolo, io ed Hayden stavamo solo parlando… e poi che diamine gliene ne frega a lui?!! Questa emergenza non nega d’un tratto tutto quello che è successo in questa settimana, lui che non mi parla e io che comunque tra poco non lo vedrò più. Non lo nega nemmeno questa mano nella mia.

E io, Hayden, lo devo, perlomeno, salutare.

Sollevo gli occhi decisa, guardandolo fisso: “Faccio in un attimo…”. Scivola la mia mano dalla sua, come se bruciasse tutt’un tratto, e, per un solo attimo insensato, ho come l’impressione che lui la stia trattenendo a sé. Girandomi, però, credo di essermelo immaginato. Draco già mi dà le spalle e sta uscendo dal bar.

Mi avvicino velocemente ad Hayden che mi stava guardando da prima e che, appena mi riavvicino, mi dice con un sorriso: “Immagino che sia lui la causa del casino sentimentale…”. Sorrido a mia volta, guardando fuori Draco passeggiare nervosamente avanti ed indietro.

“Sì…” mi ritrovo a dire con voce tenera, anche se avrei preferito non farne accenno, ma Hayden mi ispira fiducia e non so come le parole escono da sole.

“Capisco…” sussurra lui in un tenue soffio, poi afferma deciso: “Ma non è il tuo ragazzo e non ne sei innamorata… quindi c’è ancora speranza…”.

Sorrido a mia volta: “Mi ha fatto piacere parlare con te…”, imbarazzata, mi ritrovo a dire in un attimo, grattandomi la guancia: “Vorrei vederti qualche volta…”.

“Anche io, Hermione…” bisbiglia anche lui, alzandosi in piedi. È notevolmente più alto di me e devo alzare leggermente la testa per guardarlo in viso.

“Vuoi darmi il tuo numero?” mi chiede con un sorriso, ma nego con il capo, c’è l’altissima probabilità che al Petite Peste risponda qualcun altro al posto mio e a me non arrivi mai la chiamata: “Piuttosto, vuoi darmi tu il tuo? Abito con altre persone… e potrebbero non riferirmi il messaggio…”.

Non trovando carta o altro, non mi resta che scribacchiare il suo numero sulla mano.

“Allora aspetto la tua chiamata, Hermione…” mi dice con un altro sorriso che mi scioglie, poi guarda oltre il vetro del bar in direzione di Draco e ammicca verso di me, facendomi l’occhiolino. Non capisco che voglia, finché si sporge lievemente verso di me, sfiorando leggermente le mie labbra con le proprie.

Un bacio delicato come il battere delle ali di una farfalla. Si estingue velocemente, nemmeno un secondo e si è già allontanato.

Arrossisco furiosamente, abbassando gli occhi, lo sento ridere e poi mormorare: “Prendila come una licenza che mi prendo, prima che mi chiami di nuovo… e se non mi chiamerai mai, è un regalo per te… e per lui…”, non capisco che cosa vuole dire, lo guardo scioccata, un dito sulle mie labbra ancora tiepide del suo bacio leggero.

Hayden fa un semplice cenno del capo verso la porta, seguo il suo sguardo e vedo Draco che guarda nella nostra direzione.

“Che vuoi dire?” balbetto imbarazzata.

Hayden ride e mi dà un buffetto sulla guancia: “Vai da lui… su, ti sta aspettando…”.

Mi volto ancora verso Draco ed annuisco, vero… appresso ai miei deliri sentimentali, mi stavo dimenticando di Serenity.

Saluto ancora Hayden e corro fuori, la porta del bar che sbatte alle mie spalle. Draco è lì immobile, l’aria seria ed apparentemente tranquilla, e mi fissa intensamente.

“Andiamo, dai…” dico decisa, cercando di celare l’imbarazzo per il bacio di Hayden e la preoccupazione al pensiero di Serenity.

Lui mi segue, docile, poi ironizza, guardandomi di lato: “Almeno, qualsiasi cosa accada, fosse anche che venissimo uccisi dai Mangiamorte, avrai la consolazione che non sono stato proprio io l’ultimo ad averti baciato…doveva essere un pensiero insopportabile…”.

Insopportabile… già, proprio una cosa insopportabile…

Insopportabile è che, nonostante tutto, ora, sei solo tu la persona da cui vorrei essere baciata ancora ed ancora…

“Già…” mormoro distratta “Mi sono tolta un bel peso…”.

“Sono contento per te…” replica Draco con voce lugubre. Stride enormemente con l’aggettivo contento.

Il silenzio cade come una pesante coltre nera sui nostri respiri, gelandoci ogni parola in gola e schiacciandola contro l’ansia crescente per Serenity.

Mentre corriamo per il parco, alla ricerca della bambina, che sembra davvero essersi volatilizzata, chiediamo a chiunque incontriamo se l’abbiano vista. Chiamo anche Summer e Seth ma nessuno sembra saperne nulla: Seth mi dice al telefono che dall’ingresso non è passata e Summer, invece, garantisce che il servizio di sicurezza la sta cercando.

Dopo mezz’ora in cui battiamo il parco senza sosta, sono ormai più che sicura che la bambina non si sia allontanata volontariamente, ma che qualcuno l’abbia presa; di minuto in minuto, una mano gelida e agghiacciante mi si posa sulla nuca. Pensavo che si fosse solo persa e che l’avremmo ritrovata presto, ma adesso sta passando troppo tempo. Corro accanto a Draco e vedo sempre davanti agli occhi il suo visino, immaginandolo spaventato e triste, lo sguardo azzurro pieno di lacrime.

Mi trema ferocemente tutto il corpo, le lacrime che mi coprono la vista. Forse se non mi fossi fermata a parlare con Hayden, Summer non avrebbe preso Serenity, lei sarebbe rimasta con me…  io l’avrei controllata sicuramente meglio… ed anche qualora si tratti dell’azione dei Mangiamorte, l’avrei sicuramente potuta difendere meglio di Summer.

Anzi… sarei morta, pur di non lascare che la portassero via.

La preoccupazione si alimenta di secondo in secondo d’odio per Summer.

Se non usasse sempre quella bambina per arrivare a Draco, ora Serenity sarebbe ancora con noi.

Draco è sconvolto, livido, sudato, autenticamente terrorizzato. Corre senza sosta, fruga in ogni angolo, la chiama a gran voce. Non ce la faccio a guardarlo così… gli sta scivolando dalle dita la sola cosa a cui davvero tiene… forse… il solo ricordo rimasto di Rachel…

“Se hai una bacchetta, potremmo cercarla con la magia…” azzardo, fermandolo, il respiro corto.

Draco non risponde, nega con il capo, dicendo che ci aveva già pensato ma sono anni che non esce con la bacchetta. Avrebbe, poi, troppa tentazione di usarla per ogni cosa. Abbandono le braccia lungo i fianchi, stancamente, il petto che si alza ed abbassa velocemente per l’affanno della corsa.

Davanti a noi, c’è solo il cancello che delimita Wonderland, separandolo da un vicino maneggio.

Draco si appoggia contro l’inferriata, stringendo le sbarre metalliche tra le dita, poi, folle, prende a pugni furiosamente il cancello, il viso stravolto, gli occhi rossi, completamente fuori di sé e disperato. Non riesco a frenarmi ed inizio a piangere, mentre lui urla: “Sono un idiota! Un idiota! Glielo avevo promesso… sarebbe stata sempre al sicuro… ed invece ho perso anche lei!”.

Con un brivido gelido addosso, mi rendo conto con terrore che molto probabilmente sta parlando di Rachel.

E, per la prima volta, da quando so della sua esistenza, penso anche che Rachel sia morta.

Draco parla della sua perdita in un modo così disperato che può averli separati solo la morte.

Scrollo il capo, le lacrime che rovinano sulle mie ciglia, offuscandomi la sua visuale piegata su sé stesso.

Quella vista, non so come, mi riempie di qualcosa simile alla… rabbia… perché? Fatto sta che, davvero, io non lo so quale delle due cose mi faccia stare peggio, se sentirlo accennare a Rachel, oppure è proprio il suo dolore ad accartocciarmi la pelle, come mai prima d’ora.

Come qualcosa di vischioso che mi impregna la gola, avverto la mia voce farsi crudele, fredda, asettica, e dire senza ombra di emozione: “Tra gli aggettivi che ti avrei attaccato addosso nel corso degli anni, c’è sempre stato sicuramente idiota… e non pensare che perderei tempo a contraddirti… ma non serve un idiota al momento per ritrovare Serenity…”, concentro ogni fibra del mio essere scomposto e folle, come una delle Erinni che cerca vendetta, per rendere il mio tono più dolce e tenue: “… ora come ora a Serenity serve suo fratello…”. Abbasso gli occhi con un sospiro, la mia rabbia, assolutamente inspiegabile, si sgonfia nella mia ennesima attestazione di fiducia alla patetica storiella del fratello; come se non immaginassi, adesso, che Serenity non sia sua sorella… ma qualcosa di ben diverso… anche se non so ancora cosa di preciso. La verità è che penso continuamente che sia sua figlia… ma, se non lo ammetto compiutamente a me stessa, mi sembra meno probabile…

Draco si stringe prima nelle spalle che ancora mi dà, in un moto quasi di difesa e che mi intenerisce per un secondo; mi sembra piccolo, come se si pieghi sotto il peso di un carico enorme e soffocante. Temo le parole dure che mi sono uscite dalle labbra e la rabbia che le ha velate, e lo chiamo lievemente.

Lui si riscuote e si volta su sé stesso, facendomi solo un cenno del capo, lo sguardo lucido e rosso di lacrime represse.

Distolgo gli occhi da lui, cercando di non imprimermi dentro i suoi occhi, e mi guardo attorno: “Se dobbiamo ancora pensare all’allontanamento volontario, deve essere nelle vicinanze… ed un allontanamento forzato, credo che avrebbe dato nell’occhio… sia magico che babbano…”.

Vado avanti ed indietro, riflettendo, poi mi volto a guardarlo, cercando di illuminare il mio volto di speranza, ed aggiungo con un sorriso: “Quindi, cerchiamo di essere positivi…!”.

Draco mi guarda per qualche secondo, socchiude gli occhi. Nei suoi tratti, vedo un lieve irrigidirsi, dopo riapre gli occhi lentamente e simula un sorriso tirato, la pelle diafana del suo volto però ancora lucida di sudore freddo e di preoccupazione.

Mi guardo avanti ed indietro, chiudendo gli occhi per concentrarmi meglio, come quando ero a scuola. Pensiamo… allora, a Wonderland è sicuro che non ci sia… tra noi, Seth, Summer e lo staff del parco l’avremmo trovata sicuramente. Mettiamo che io creda ancora che Serenity si sia allontanata da sola, sebbene non lo dica a Draco…allora,  dove potrebbe essere…?

È un flash rapido e fugace che mi folgora in un secondo, vividi colori fulgidi che disegnano un pensiero sotto le mie palpebre.

Il maneggio!

Certo! Potrebbe essere lì!

“Draco!” urlo trionfante, lui che mi guarda stranito, evidentemente chiedendosi il motivo di tanto entusiasmo in un momento simile “Il maneggio!”.

“Cosa?”.

“Il maneggio…” ripeto paziente “Serenity potrebbe essere lì, no? Non ricordi come era felice sul cavallo della giostra?!”, ad entrambi passa nella memoria il riflesso degli occhi azzurri, felici, della piccola. Più lo dico e più mi sembra vero… anche se assurdo, mi sembra assolutamente sensato. Non so se sia il potere della speranza che, di fronte alle altre alternative, sicuramente peggiori, mi fa credere questa come veritiera. Ma, del resto, come si dice, la speranza è l’ultima dea… e noi, in sua balia, non possiamo fare altro che credere a lei e alle colorate immagini che ci mette davanti al naso.

“Non penso che sia lì… come diamine ci sarebbe arrivata, scusa?” obietta, anche giustamente, Draco, guardandomi incerto.

“Non lo so…” mormoro sommessamente “Ma se davvero fosse lì…non varrebbe la pena provare?”.

Draco mi guarda ancora dubbioso: “Perché sei così sicura?”. Sento un lieve tremore nelle mie mani, il suo tono è particolare, sembra che stia parlando di Serenity ma anche di altro, come se mi chiedesse perché sono sempre così sicura in tutto. Quasi una domanda curiosa, un anelito di conoscenza che esula dalla situazione in questione.

Scuoto il capo, cercando di concentrarmi solo sulle cose vere, non sulle paranoie che mi faccio sempre.

Eppure, qualcosa di questa intuizione mi esce lo stesso, mentre rispondo: “Perché lo sento dentro, Draco… sempre…”.

Arrossisco e giro il capo, guardando altrove: “Allora, andiamo? Sennò ci vado da sola…”.

“Ok…” sorride lievemente la sua voce.

Ci incamminiamo velocemente verso l’uscita che conduce al maneggio vicino, superando la folla che deve aver saputo della scomparsa di una bambina, dato che è isterica, elettrica. Incespico in una stupida mascotte vestita da orso fucsia e finalmente, seguita da Draco, arrivo all’uscita. La strada che conduce al maneggio è sterrata e, ad ogni passo, specie se di corsa, solleviamo polvere con le scarpe; attorno solo prati verdi, l’eco della musica di Wonderland nelle orecchie.

Accanto ad una piccola casetta di legno scuro, dove intravedo dei fantini, ci sono le stalle.

Più mi avvicino e più sento che Serenity sia lì.

“Andiamo a chiedere ai fantini…” dice Draco con il fiatone.

“No” lo contraddico io ottusa, poi mi rendo conto di ciò che ho detto e restringo il tiro: “Cioè, sì, ok… io intanto vado a dare un’occhiata nelle stalle…”.

Lui mi guarda ancora con espressione dubbia, poi scrolla le spalle e corre verso i fantini.

Io corro nella direzione opposta.

Le stalle sono ovviamente piene di decine di cavalli, ognuno di loro intento a brucare fieno, apparentemente disinteressati alla mia presenza. Non c’è nessun’altra persona.

Ce ne sono circa otto nei box, e tutti sembrano tranquilli. C’è un silenzio assurdo, nemmeno rotto da nitriti o versi… nulla…

Percorro silenziosamente i corridoi che dividono i box, acquattandomi per quanto possibile per vedere anche sotto le zampe dei cavalli, ma nulla, Serenity non sembra essere qui. Come credo che fosse naturale…

Chissà che diamine mi è saltato in mente…

L’ultimo cavallo, un purosangue dal manto immacolato, è stranamente irrequieto. O meglio, è il solo che non sta mangiando e che nitrisce continuamente. Ma non sembra minaccioso… mi avvicino cautamente, la sua visuale parzialmente coperta da una balla di fieno.

“Mione!” una vocina trillante mi fa trasalire. Serenity. È lei, ovviamente, che saltella felice come poco prima sulla giostra, sulla groppa del cavallo.

Come diamine ha fatto ad arrivare qui? Penso, ma pervasa dal sollievo, ho solo la forza di scoppiare a piangere, assieme al ridere contenta. Il terrore per ciò che poteva esserle successo e l’ansia enorme fino a qualche tempo fa, evaporano nella luce del suo sorriso contagioso.

Lei batte le manine contenta, è un autentico mistero come sia arrivata qui… ma, poco importa come sia successo, basta che adesso sia qui. Davanti a me.

Ancora mi sembra incredibile che mi sia tanto affezionata a questa bambina, di cui non so praticamente nulla… è come un dolce dolore che avverto dentro, costantemente. Perché lei, Serenity, è sempre una connessione con Rachel e non so davvero se voglio sapere ora come ora chi sia. Né che fine abbia fatto.

Ma è anche una connessione con Draco… ed anche questo, non so fino a che punto sia un bene per me.

Eppure non posso fare a meno di volerle ugualmente bene…

Riscuotendomi, mi avvicino velocemente per prenderla in braccio, anche perché temo che il cavallo la disarcioni da un momento all’altro, e lei fa qualche resistenza a lasciare il suo nuovo compagno di giochi. Le accarezzo piano i capelli cercando di rassicurarla.

Lei mette un piccolo broncio, guardandomi storto, succhiandosi il pollice, gli occhioni lucidi, ma poi si convince e lascia andare il pelo del cavallo che stringeva nell’altra manina. Le sorrido, stringendola, il suo peso leggero lo sento tra le braccia, soffice, caldo, reale, quando pensavo di averlo perso per sempre. Checché cercassi di consolare Draco, temevo anche io di averla persa questa piccolina.

La abbraccio forte, ritrovandomi ancora a piangere di gioia senza nemmeno accorgermene.

Ma come cavolo sarà arrivata qui?!

Magari qualcuno l’ha portata qui… ma chi, poi? E poi come avrebbe fatto lei, che non sa nemmeno parlare, ad esternare che voleva essere portata qui? Inoltre il chiosco ristoro è molto lontano da qui, specie per una bimba, quindi nemmeno gattonando ci sarebbe mai arrivata… e poi salire sul cavallo… come, se non c’è nessuno?

Boh, alla fine basta averla trovata… penserò più tardi al resto…

Ho come il vago sospetto che, conoscendomi, non riuscirò a smettere di pensarci fino a quando non ne verrò a capo. Effettivamente, a mente lucida, mi sembrerà ancora più strano di quanto già non mi sembri adesso… cosa che si aggiunge al quadretto Draco/Serenity/Summer/Rachel che tutto mi è tranne che chiaro…

Santo cielo, Draco… me ne ero dimenticata! Starà ancora morendo di angoscia…

Corro immediatamente fuori, Serenity in braccio, e lo vedo da lontano, intento a parlare ancora con i fantini che negano con il capo.

“Draco!” lo chiamo a gran voce, fregandomene del suo vero nome e di tutto il resto. Nelle mie corde vocali, sotto la mia pelle, nel mio respiro, avverto come ricoperta di ambrosia la notizia che sto per dargli, quella che Serenity sta bene e che è con me. La sola notizia che, credo, lui consideri davvero bella nella sua vita.

E, della stessa ambrosia dorata, mi sento ricoperta io stessa, come se per la prima volta potessi davvero comparire davanti ai suoi occhi finalmente degna del suo sguardo.

Felice oltre ogni ragionevole misura, ecco come mi sento.

Ed è ovvio che non sia solo perché ho ritrovato Serenity… ovviamente… e, maledettamente, oso aggiungere, non è solo questo…

Lui si volta lentamente, quasi come con il rallentatore di una scena da film, dandomi tutto il tempo di guardarlo attentamente in viso e di studiarne ogni particolare. Mi si stringe un nodo in gola, come se volessi piangere dalla troppa gioia che mi straborda dal cuore, mentre i miei occhi si imbevono letteralmente della luce fiorita improvvisamente sul suo volto, una luce calda, purissima, che non credevo sarebbe mai appartenuta a lui. Lui, a cui si erano sempre acclimatati perfettamente solo tenebre e buchi neri che risucchiassero la sua voglia di vivere… e credevo fino ad ora che fosse persino perfetto così, un angelo dannato che non può essere altro che tale, un bellissimo Lucifero condannato per sempre a maledire Dio.

Ma ora io…

…ora, che lo vedo con questi colori nuovi, fatti di luce, plasmati nel chiarore di una gioia infinita, mi rendo conto che non credo sia mai stato così bello.

I suoi stessi occhi sorridono, ogni cosa diventa accecante del suo sorriso, e mi fa sciogliere il cuore mentre si avvicina correndo, prende Serenity tra le braccia stringendola forte e affondando il volto nella spalla della bambina.

Gelo su me stessa, il nodo che si scioglie in lacrime spontanee ed inevitabili, scendono sulle mie guance, portando ristoro alla pelle bollente.

La ama così tanto… come Seth, anche Draco è capace di un amore puro, disinteressato, che non pretende nulla: questo è il primo pensiero che mi sfiora la coscienza, per poi nascondersi dietro le mie riflessioni. E mi sento tremendamente a disagio nel mio sentirmi quasi invidiosa di Serenity che viene amata così tanto, in una misura sconfinata che io non ho mai sentito su di me. Se non almeno da Draco… almeno qualcun altro, un giorno, ci sarà…?

Mi stringo nelle spalle, asciugandomi le lacrime, istintivamente faccio un passo indietro, paura a restare qui anche un altro secondo a riempirmi la mente e il cuore di nostalgia di cose mai avute e mai vissute.

Trasalgo a sentire di nuovo la sua voce, un po’ più chiara e cristallina del solito. Dice solamente in un sussurro: “L’hai trovata…”.

Sollevo lo sguardo, Serenity si è accucciata tra le sue braccia e lui sorride, ancora di quel meraviglioso sorriso. Su di lui sembra così strano… ma non strano brutto… ecco non so articolare come sempre le parole, quando si tratta di lui. Maledizione! Uno strano bello, anzi bellissimo… mettiamola così, come quando guardi l’aurora boreale.

È il cielo che conosci da tutta la vita, ma improvvisamente si distorce in mille nastri di colore e di luce. Ed è meraviglioso, ma anche strano… e forse anche questo lo rende anche meglio di quanto già non sia. Perché non accade spesso, anzi… devi essere a particolari latitudini, in particolari momenti, ci sono milioni di leggi sul vento solare, sulla geometria del campo magnetico terrestre e sulla presenza o meno degli elettroni, leggi che devono incastrarsi perfettamente per fartela vedere.

Ecco, il sorriso di Draco è come l’aurora boreale.

Un miracolo sbocciato in un viso che conosco da tutta la vita.

Arrossisco, il prodigio del suo sorriso che ora è rivolto a me mi fa distogliere lo sguardo, balbettando imbarazzata: “Credo che fosse ovvio che l’avrei trovata… tendi spesso a dimenticare che sono sempre un’ex Auror, in fondo…”.

“Già…” concede lui, sistemando meglio Serenity nelle sue braccia “Credo inconsciamente di essermi abituato al fatto che tu sia una mia cameriera…”.

Questo mia mi fa saltare il cuore in gola e sentire accaldata, perché, diamine? Ovvio che intende mia nel senso di sua dipendente, eppure… mi dà un caldo senso di appartenenza come un qualcosa nascosto nelle tasche per portarlo sempre con sé.

Improvvisamente, come il soffio di un vento d’estate, sento la sua mano arrivare a prendere la mia e stringerla forte, è un tocco deciso, forte, saldo.

Lo guardo senza capire, la sua espressione è indecifrabile. Con un piccolo mio sobbalzo, mi tira forte verso di lui, sempre tenendomi la mano. Cerco di opporre resistenza, ma non ci riesco ovviamente, è sempre maledettamente più forte di me, altrimenti non farebbe sempre il suo comodo. Anche con il mio cuore.

Alla fine, la mano me l’ha lasciata però… precauzione perfettamente inutile, se già ero a ridosso del suo petto, la fronte che sfiora la sua camicia, il viso in fiamme e una decisa tendenza all’ipertermia. Forse ho la febbre… sì ed improvvisamente mi è salita?!

Sono di nuovo nelle sue braccia, come quella sera, non ci posso credere. Come nel vento di un giorno di settembre, colmo di premesse appena dischiuse nella nebbia, sale adagio il suo profumo attorno a me, il cuore che pulsa prepotente di vita nel mio petto, come se non avesse mai battuto prima. Serenity accanto a me sonnecchia, sento il suo respiro pacato e tranquillo, come quello di Draco. La mano che non regge Serenity, è stretta saldamente attorno alla mia vita.

Sono più bassa di lui, quindi il mio sguardo resta fisso sul suo collo. Cerco di liberarmi la mente, tentando di fingere perlomeno indifferenza ma non ci riesco, mi sento svenire, come se perdessi la nozione di me stessa. Quasi come un moto di ultima difesa, la mia mano si aggrappa alla sua camicia, annaspo come se cercassi di respirare sott’acqua. Non vedo i suoi occhi, nemmeno il suo volto che è ancora rivolto davanti a noi e non trovo nemmeno il coraggio di alzare io gli occhi.

Probabilmente leggerebbe nel mio sguardo quanto desideri che mi baci ancora...

Si muove piano, rabbrividendo sento le sue labbra vicino al mio orecchio. Sfiora la mia pelle, tutto il mondo attorno inizia a tremare. Ma lui si limita a sussurrare lieve nei miei capelli: “Non posso darti i motivi per farti restare… lo sai vero?”.

Rabbrividisco ancora, gelando su me stessa. Come non credo di essere di nuovo nelle sue braccia, non credo nemmeno che mi abbia appena detto quello che ho sentito. La mia mano stringe più forte la sua camicia.

Brucia sopra il mio leggero indumento estivo il suo braccio che mi tiene stretta, ed ancora mi ritrovo a piangere, ancora, non prevedendo minimamente che cosa posso stare per dire. Alzo lo sguardo, nemmeno so io come, ritrovando coraggio. E, ritrovando i suoi occhi, di nuovo maledettamente tristi, già evaporata come niente la luce di poco fa. Mi osserva sorpreso nel viso, espressione che trovo anche io mentre sento la mia voce dire: “E se fossi io a voler restare?”.

Lui sbatte le palpebre per qualche secondo, autenticamente meravigliato, poi chiude gli occhi con un lieve sospiro, la sua mano che si stacca da me.

Le lacrime diventano ancora più pressanti sotto i miei occhi, ti prego, non allontanarti da me…

La sua mano, però, non si allontana da me, sale solo lungo il mio viso, portando via le lacrime dai miei occhi, accarezzandomi piano gli zigomi, le guance, fino al collo. Risale poggiandosi sui miei capelli, che continua ad accarezzare. Chiudo gli occhi, nonostante tutto, quasi estasiata… morissi adesso, non avrei nessun rimpianto. Forse quello di non averlo baciato di nuovo… ma in fondo, se può stare così vicino a me, allora anche un bacio potrebbe essere sacrificabile.

Quando riapro gli occhi, ha l’espressione triste, ancora, ma decisa: “Maledirei questa tua convinzione e farei di tutto per mandarti via…”, mi stringo nelle spalle, sentendo freddo. Con lui è sempre così, un momento è paradiso, quello dopo è inferno. E io, continuamente, in queste montagne russe emotive.

Mi stacco leggermente da lui, facendo un passo indietro, movimento che non gli sfugge, tanto che il suo braccio mi cinge daccapo, stringendomi più forte a sé, mentre continua: “Hermione, io non posso permettermelo. Credici… e fidati se puoi. È così… non posso permettermi te, e non posso permettermi di trattenerti qui. Non posso e basta, fosse anche che volessi tu restare…”, la sua voce scende di tono mentre aggiunge qualcosa che mi fa gelare su me stessa: “… tu stai bene per qualche attimo… e io non sono più me stesso per tanti anni…”. So che sta pensando a Rachel, ma caccio la sua immagine da me, non posso permetterlo a me stessa, a quest’unico momento che sarà mio e di Draco.

Lo ascolto ancora mentre prosegue: “… ma se fossi tu a voler restare, se non potessi fare nulla per impedirlo, se tu davvero volessi buttare tutta la vita all’aria… se fossi così maledettamente pazza e suicida…”, sollevo timidamente gli occhi e il suo volto sorride ancora, mentre mi guarda, un altro sorriso diverso dal primo, meno luminoso ovviamente, come un’alba timida, ma che stavolta è solo mio. Il primo sorriso di Draco che è solamente mio.

Mi poggia una mano sulla guancia, dicendo: “… se fosse così, Hermione… se un giorno sarà così… fosse anche solo per Serenity, per come ti vuole bene…”, prende fiato prima di continuare e capisco che sta facendo uno sforzo immenso. Per me.

“… io lotterei per diventare il motivo che cerchi…” sussurra alla fine, accarezzandomi il viso.

Non ci credo che l’abbia detto. Non ci credo e basta…ma l’ha fatto… non mi ha promesso amore, né affetto. Né altro… in fondo mi ha promesso solamente che, qualora lo volessi, potrei restare nella vita sua e di Serenity. E questo so che potrei farlo, restando, andando via, partendo per un lungo viaggio o non spostandomi mai di un metro.

Ma non potevo farlo, se lui non mi dava questo, se non mi diceva queste parole, se non dimostrava che, forse anche solamente un pochino, ci tiene a me.

È una cosa minuscola e mi sento come un’adolescente inebetita, ma so che con Draco, invece, questa è una cosa enorme.

Tutto ciò che è minuscolo e stupido con altri, con lui invece, diventa grandissimo e sterminato.

Sorrido leggermente, nascondendo alla fine il viso nella sua camicia, vergognandomi del rossore che mi ha preso le guance, proprio come una bambina timida.

“Soffrivi per questa cosa?” mi chiede con un filo di voce.

“Un pochino sì…” ammetto, risollevando il viso, mentre lui si stacca da me. Siamo vicini, ma non più abbracciati.

“Non lo immaginavo”.

“Lo so” sorrido ancora “… mi sembra sempre assurdo essere qui, davanti a te, a dirti cose del genere…”.

“Credo che mio padre si stia rivoltando nella tomba…” ghigna lui “Io e la Granger legati da una specie di amicizia…”.

Rido leggermente, lui assieme a me.

Poi il suo volto diventa di nuovo il solito, malizioso, insinuante, mentre sogghigna: “Credo con la mano di aver cancellato il numero del bel tomo del bar…”.

“Che cosa?” sobbalzo, guardando scioccamente la mia mano, sporca di inchiostro blu sbavato. Nessun numero si riesce a distinguere.

Lo guardo di sbieco: “Scommetto che l’hai fatto apposta…”.

“Vaneggi, Granger…” replica assorto “Tu e il tuo fidanzatino potete anche sbaciucchiarvi tutto il giorno per quello che mi importa… basta che evitiate di farlo in mia presenza…”.

“Perché? Ti dà fastidio?” chiedo innocente, sbattendo gli occhi.

“Diciamo che dà fastidio al mio intestino…” replica lui con voce ovvia, sistemandosi meglio Serenity sulla spalla “Potrei soffrire di colite spastica ad immaginare proprio te come una ragazza…”.

Odioso, decisamente odioso.

Lo prenderei a sberle altroché.

Metto il muso, nella mia solita conclamata imitazione di un pesce palla, ed inizio a camminare, dandogli le spalle. Lui ride un po’, poi si incammina dietro di me.

Sono talmente nervosa che, senza accorgermene, metto persino il piede in una pozzanghera, all’anima di Malfoy!

Lui ride ancora e io mi volto, stringendo i denti ed intimandogli di stare zitto, mentre tento alla bell’e meglio di pulirmi la scarpa sporca. Che strana pozzanghera, proprio qua doveva stare! Nemmeno ha piovuto!

Stringo gli occhi curiosamente, quando mi accorgo che, nonostante il fragore d’acqua e la sensazione di freddo, io non sono affatto bagnata.

Mi chino in ginocchio e guardo la pozzanghera, una macchia trasparente dai contorni tremolanti… e resto immobile.

“Granger?” mi chiama Draco, alle mie spalle.

Ci vuole poco a fare due più due.

Pochissimo, come sempre, per una come me.

E, davvero, come sempre da giorni, maledico la mia mente che non mi permette di ignorare le risposte alle mie domande.

Nella pozzanghera, un riflesso scarlatto ed azzurro di un chiosco che nelle vicinanze non c’è assolutamente. Attorno a noi, c’è solo erba verde.

Il chiosco dove hanno perso di vista Serenity.

Cado seduta per terra, sconvolta. Serenity l’ha usato come passaggio per arrivare qui.

Ed è una cosa che può fare solo una strega… solo una strega, anche se di un anno.

Ed, inoltre, una strega purosangue. Ginny mi ha spiegato una volta, la sola differenza tra purosangue e mezzosangue: la loro infanzia.

In termini medici, si sa che solo i bimbi purosangue sono in grado di fare incantesimi consapevolmente, cioè decidere una cosa, volerla, trovare il potere in loro ed attuarla.

I mezzosangue, invece, fanno delle magie, ma assolutamente involontarie.

Questo, ovviamente, solo da piccoli. Poi le differenze diventano nulle.

Ginny me l’ha spiegato, una volta… per questo, so che Serenity è voluta venire qui e ha aperto un passaggio.

Quindi, oltre ad essere una strega, è una purosangue. Ciò significa che è figlia di un mago e di una strega.

Ed anche se sembra assurdo, ora, ripensandoci, vista la loro somiglianza… non è figlia di Rachel che era sicuramente babbana.

Quel bandolo di matassa che tenevo nelle mani, così sicura di me stessa, mi sfugge dalle dita.

Chi è Rachel allora? E Serenity?

Sollevo lo sguardo su Draco che ora anche lui guarda il passaggio nella pozzanghera, il volto livido, gli occhi che sfuggono rapidi i miei.

Cosa ti lega a loro?

E a me?

Tu… adesso… saprai rispondermi?

In un alito confuso e tremolo d’aria, ostaggio di una fiducia che mi ha appena consegnato e che ora rischio di ridurre a brandelli, chiedo sommessamente al suo volto sconvolto: “Draco… adesso… vuoi dirmi chi è questa bambina?”.

 

 

Nuovo capitolo concluso a velocità razzica!! Nella sua stesura ho avuto anche un incidente con la macchina quindi sono anche un po’ dolorante!! E ho anche tantissimo da studiare…  quindi ringrazio brevemente tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo, sperando che leggano anche questo, dato che mi piace particolarmente!! Baci!!!

 

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Capitolo 20
*** Promissio gemina ***


Capitolo 20 - Promissio gemina

Capitolo 20 -  Promissio gemina

 

Nel momento stesso in cui quella domanda è uscita dalla mia bocca, sento distintamente di aver sbagliato a farla.

Sebbene la curiosità mi laceri dentro, sebbene ogni mio pensiero e convinzione mi sia sfuggito dalle mani e sebbene so che Draco è il solo che davvero potrebbe rispondere, so anche che questa domanda io non avrei dovuto farla.

La fiducia a cui Draco raramente si abbandona, è come un castello friabile di carte, pronto a crollare per una cosa qualsiasi che possa minarlo.

E ora la mia domanda è stata come puntare un cannone contro quel castello e sparare.

I suoi occhi già sono cambiati, sensibilmente, lame d’acciaio fredde e dure, occhi da… Mangiamorte. Purtroppo non mi posso negare questa similitudine, perlomeno mentalmente: la luce è scomparsa e il diavolo è tornato sul suo viso, impietrendomi nelle sue iridi che mi trapassano da parte a parte, come se nemmeno esistessi, come se fossi solamente una folata fastidiosa di vento, aria inconsistente e passeggera che, a malapena, lo sfiora.

Ultimo retaggio di un’umanità ancora preservata, sono le sue braccia che stringono ancora in modo quasi isterico Serenity.

Abbasso gli occhi, paura e rimorso nell’aver aperto bocca.

Lui, senza nemmeno una parola, mi sorpassa davvero come se non mi vedesse nemmeno, allunga la mano verso la pozzanghera e, in un fascio di luce opalina, la fa esplodere in milioni di gocce argentate, dense come mercurio. I capelli mi si drizzano sulla nuca, elettricità pura che crepita nell’aria, non lo ricordavo così potente… per un attimo assurdo, mi è sembrato di rivedere davanti agli occhi Lucius Abraxas Malfoy.

E non è stata una bella sensazione, per inciso.

Sei uguale a tuo padre… una volta, ormai tantissimo tempo fa, glielo ho detto, ma effettivamente io non ci ho mai creduto davvero, nemmeno quando eravamo a scuola.

Per motivi diversi, ma non l’ho mai pensato.

Prima per il potere di Lucius, che Draco non aveva. Poi, nonostante tutto, per il coraggio di Draco di fare il doppiogioco con Voldemort, coraggio che il padre non aveva mai avuto.

E poi per il suo… cuore. Strano a dirsi, ma da quando sono qui, credo che sia quello il maggior tratto distintivo tra Draco e suo padre.

Serenity ne è un esempio.

Eppure, ora quasi mi sento di escluderlo questo suo cuore, come se davvero fosse una bestia priva di esso, pronta a calpestare chiunque intralci la sua vita o sollevi minimamente polvere attorno a sé. Infatti, Serenity inizia a piangere, ma lui non la rassicura, resta in silenzio, continuando a camminare con finta nonchalance.

Finta, perché i suoi passi non sono lunghi, distesi, sicuri, come sempre.

Esita nel camminare, volge spesso il viso a destra e sinistra e non degna Serenity della benché minima cura o attenzione.

Scrollo il capo dai quei pensieri, per poi sollevarmi da terra di scatto. Con voce timida e tremula, lo chiamo, ma lui non mi fa nemmeno finire di pronunciare il suo nome: “Farai bene a non continuare nemmeno la tua domanda, Granger…”.

Tremo su me stessa, mentre si volta e mi minaccia solamente con quella voce agghiacciante, accompagnata dalla mascella indurita e dall’espressione di un uomo incattivito e pieno di odio, pronto a farmi qualsiasi cosa, qualora avessi la suicida idea di continuare a parlare.

Ecco… ancora… Lucius Malfoy… non l’ho mai visto così… mi fa quasi… paura…

Non ho mai avuto paura di lui, sia chiaro… nemmeno la magia che ha usato davanti a me e che ho percepito come molto più potente di come mi ricordassi i poteri di Malfoy, mi ha davvero impensierito. La magia, anche forte che sia, non mi ha mai preoccupato; insomma anche io posso ricorrere a incantesimi che non richiedano l’uso di una bacchetta, senza nemmeno violare la mia condanna, perché si tratterebbe di una questione di sopravvivenza. E un ipotetico scontro tra me e lui, non mi renderebbe certamente una facile vittima. Anzi… dovrebbe essere lui a preoccuparsi, in quel caso…

È quel Granger, di nuovo, a preoccuparmi.

È di nuovo il muro che mette per tenermi lontana. Prima lo fa crollare e poi lo erge daccapo, ancora più alto ed insormontabile del precedente.

Con una punta di frustrazione, penso di non farcela più, penso che sarebbe tutto maledettamente meno incasinato se lo lasciassi perdere, iniziassi a correre ed arrivassi a nuoto sulle coste della Florida. Aprirei un bel chiostro sulla spiaggia, inventerei dei cocktail innovativi e mi sposerei con uno che fa la pubblicità delle attrezzature da palestra. Oppure, chissà, chiamerei Hayden e faremmo sesso sfrenato sulla spiaggia fino alla prossima glaciazione.

Sospiro, anche i pensieri lussuriosi sullo sconosciuto che mi ha baciato poche ore fa non mi distraggono dall’idiota che ho di fronte.

Sono davvero irrecuperabile, oramai…

Probabilmente dovrei decidermi a fare una bella chiacchierata con Zabini o anche con la Parkinson, e chiedere come abbiano fatto tanti anni ad interagire con Draco Malfoy, ma credo che mi risponderebbero abbastanza piccati, sia per come mi azzardi a chiamarli, considerando che ai loro occhi sono sempre una Mezzosangue della peggior razza, una Grifondoro, eccetera, eccetera… sia perché gli chiederei del loro rapporto con un uomo seppellito da anni e con cui in vita non ho mai avuto a che fare.

Insomma, come minimo, ipotizzerebbero un mio discutibile senso del macabro.

Magari, faccio una seduta spiritica ed invoco l’anima di Narcissa Malfoy, e le chiedo delucidazioni sul loro genoma, anche se dubito che ammetterebbe che sono affetti da personalità multiple. Anche se Draco sembra invece chiaramente schizofrenico in certe cose… cinque secondi fa, mi ha promesso di darmi un motivo per restare, qualora lo volessi, tutto poi abbracciandomi… ed ora, solo perché ho nominato Serenity e ho chiesto chi sia, siamo tornati al Granger e alle minacce sibilate.

Paradossalmente e stranamente, mi ci sono quasi abituata.

Non è vero, non mi sono abituata, mi sono rassegnata… che è ben diverso. E che è una cosa che mi provoca fremiti d’irritazione in tutto il corpo.

Serro le mani a pugno, guardandolo fisso, lui che regge il mio sguardo con ostinazione, poi riapro la bocca impastata solo per dire: “Non perderò più il mio tempo a farti domande di alcun genere, Malfoy… anzi, dato che ci siamo, scordati proprio della mia esistenza…”.

So che non è da me, so anche che probabilmente è strano uscirmene all’improvviso con frasi del genere, così estremiste, ma davvero… sono così stanca.

Mi sento sempre più vuota… e sempre più sola

Magari esisterà un giorno una persona che è capace di reggere, che è così forte da farcela… o magari lo era Rachel o la mamma di Serenity, dato che ora mi sembra chiaro che siano due persone diverse… ma io non lo sono. Non posso fingere nemmeno di esserlo.

Meglio che lo accetti in fretta come cosa, e vada avanti. Prima che sia troppo tardi.

Lo sorpasso in silenzio, continuando a camminare, non concentrandomi nemmeno sulla sua faccia, me ne frego di quello che pensa. O meglio, non me ne frego, ma diciamo che voglio fingere che me ne freghi, d’accordo? Non sopporto più che scelga ad intervalli alterni se sono una nemica, una conoscente, una dipendente, un’amica o altro… Basta così, non sono mai stata masochista e non lo diventerò appresso a lui.

Lui non replica nulla e lo sento camminare alle mie spalle, brucia il suo sguardo contro la mia nuca.

Mi fermo all’improvviso su me stessa, prima di dire spazientita: “Tornerò a casa da sola… avvisa tu Seth…”.

Senza voltarmi, inizio a correre come una pazza fuori dal maneggio, le scarpe che sollevano polvere al mio passaggio.

Ok, d’accordo, ora sembro io la schizofrenica… ma davvero credo ormai di essere arrivata al colmo della remissività. Non sono una persona paziente, questo mi sembra che sia abbastanza chiaro, quindi comprendo che, per una donna votata al sacrificio, semmai il mio limite di sopportazione sia decisamente basso.

Ma posso ammettere con certezza che la pazienza che sto avendo con Draco, non l’ho avuta per nessun altro nella vita.

Senza nemmeno granché in cambio, tranne un bacio che era solo per difendersi, un abbraccio che non so ora fino a che punto avesse senso e delle parole che già si rimangia. Che razza di fiducia ha in me, se ancora mi tace questa cosa di Serenity? E poi in quel modo?

Accetterei che non me lo dica per motivi personali, ma che mi risponda così, ormai mi dà troppo fastidio.

Falso.

Mi fa troppo male, non è fastidio.

Come mi fa male che non abbia fatto nemmeno un passo per cercare di fermarmi… se n’è fregato.

D’accordo che Serenity sia importante, ma possibile che lo sia a tal punto da cancellare ogni sua parola, volizione o pensiero precedente, se pensa minimamente che il suo segreto sia in pericolo? E poi, ancora crede che io potrei mettere in pericolo Serenity?

Questo, se possibile, mi ferisce più del resto.

Dopo una corsa smodata che mi ha riportato dentro Wonderland, mi abbandono stancamente su una panchina, respirando affannosamente. Per fortuna almeno hanno tolto il jingle del parco, sostituendolo con una ballata pop da primo posto in classifica. Release me, release my body, I know it's wrong, so why am I with you now.

Perfetto, odio decisamente quando le canzoni si adattano al mio stato d’animo e ai miei sentimenti. Era meglio quello stupido jingle idiota.

Scavo nella mia borsa alla ricerca dell’i pod, almeno adesso mi sparo nelle orecchie i Queen o i Depeche Mode, e non sento più sto strazio…

Ma invece dell’i pod, trovo il mio cellulare che sta vibrando.

Lo tiro fuori con fatica, accidenti alla mia abitudine di riempire le borse di mille cose che penso mi serviranno e poi non uso. Scanso la bottiglietta d’acqua, l’Amuchina gel e la scatoletta portatile per il cucito, ed estraggo l’oggetto trillante.

Sul display, compare il nome Ginny.

“Pronto?” biascico, un dito nell’orecchio per non sentire la maledetta canzone empatica.

“Ciao Herm! Ma si può sapere dove sei? Si sente un casino!” urla lei, spaccandomi il timpano.

“Sono a Wonderland, il parco divertimenti… Seth voleva portarci Serenity…”.

“Tu, in un parco divertimenti?!” replica lei scioccata nella voce, scommetto che se la vedessi starebbe con la mascella spalancata fino a terra.

“Lasciamo stare! Che c’è?!” borbotto nervosa.

“Senti, avrei bisogno di parlarti per delle cose…! Quanto ne hai ancora al parco?”.

“Ho finito! Prendo un taxi e torno a casa… vuoi raggiungermi lì?” chiedo preoccupata. Se Ginny mi vuole parlare, allora vuol dire che è successo qualcosa, probabilmente una lite con Harry. La sua voce è calma, ma sembrava che si stia trattenendo dal piangere.

Mi gratto pensosamente la testa, mentre esco dal parco. Su quale delle innumerevoli cose potrebbero aver litigato?

Sospiro, come se non lo sapessi, sicuramente c’entra qualcosa che inizia con matri e finisce con monio. E paradossalmente oggi mi va anche bene sentirla cianciare di pizzi e merletti, piuttosto che sopportare ancora Draco Lucius Malfoy. Inoltre sono giorni che non la vedo… un po’ l’amica del cuore devo farla anche io, se non altro per contraltare a Lavanda… altrimenti quel matrimonio diventerà una specie di notte degli Oscar londinese.

“Ok, allora ti raggiungo tra una mezz’oretta…” dice e riaggancia con un piccolo singhiozzo trattenuto.

Ripongo il cellulare in tasca, chiamando un taxi. In una mezz’oretta, dovrei avere anche tempo di farmi una breve doccia… sperando che non me la faccia lei con le lacrime, sospiro. Mi abbandono contro lo schienale del sedile del taxi, guardando Wonderland che si allontana alle mie spalle. Con Draco.

Avevo dimenticato per un attimo di lui. E di Serenity.

Una strega. Purosangue.

Ma di chi diamine può essere figlia allora? Di Draco? E se sì, chi è la sua mamma, se non è Rachel?

Cerco di farmi una lista mentale della gente del mondo magico che conosco, ma non mi viene in mente nessuno che possa rispondere a quelle caratteristiche, anche perché di Purosangue ne conosco pochissimi, considerando che non è che siano persone che tendenzialmente abbiano mai voluto avere granché rapporti con me e con la gente che frequento.

Forse, se parlo con Ginny, in uno dei suoi momenti di lucidità, potrei avere delle chiarificazioni, certamente conosce più Purosangue di me.

Ora che Draco mi ha di nuovo negato di venire finalmente a conoscenza dell’identità di Serenity, mi è venuta ancora più voglia di scoprirla! Soprattutto non tramite lui, ma da sola…farò delle indagini e lo fregherò, alla faccia sua che non mi vuole dire nulla! Gliela sbatterò in faccia la verità che non mi vuole dire…

E poi… ora che so che non c’entra Rachel, sono quasi sollevata.

Con lei, non potevo competere assolutamente.

Sospiro, guardando fuori dal finestrino, sono felice che Rachel non c’entri, non posso negarlo. Da quando l’ho vista in foto, non riesco a scordare il suo viso, ed esso mi suggerisce sempre che meno ne so di lei, meglio è. È un po’ contradditorio, considerando che stamattina sono corsa a casa sua proprio per incontrarla, ma cosa non è contradditorio in me in questi giorni?

La verità è che sapere che stava con Draco mi ha fatto congelare ogni curiosità nei suoi confronti.

Perché, già in poche ore, una parte di me ora non vuole che lei, con la sua presenza fisica, davanti ai miei occhi, non mi permetta di pensare più a Draco.

Anche se è suicida e terribilmente sbagliato.

Stamattina lo volevo. Ed ora non lo voglio più.

Mi è bastato che mi abbracciasse per farmi cambiare idea.

Sospiro ancora, appoggiando la fronte al finestrino freddo, una piccola lacrima che cade giù. Continua, nonostante tutto, a fare di me quello che vuole.

Allungo la mano, ancora leggermente sporca di inchiostro, e la guardo, almeno avresti potuto chiamare Hayden… solo con lui, oggi, mi sono dimenticata di Draco.

Ed invece ho anche perso il suo numero… e non ricordo nemmeno un altro recapito a cui potrei trovarlo. Era troppo strano che un tipo meraviglioso si fosse interessato a me, quindi per bilanciare a livello di karma dovevo perdere il suo numero, giustamente… incrocio le braccia, sbuffando.

Finalmente arrivo al Petite Peste, entro dal retro, dove ovviamente giace l’immondizia che Lorna e Corinne, prive del controllo mio, di Draco, Seth o Summer, hanno pensato bene di non gettare. Saluto con un sorriso Lawrence e Trey ed abbraccio April, dicendole che sto aspettando Ginny e che vado a farmi una doccia.

Lei annuisce, dicendo di stare tranquilla, tanto per oggi non si sono visti molti clienti quindi basta ed avanza lei. Poi ovviamente mi chiede degli altri, ma eludo la domanda dicendo che sono molto stanca e che devo sbrigarmi, prima che arrivi Ginny.

April mi guarda un po’ stranita ma poi mi lascia andare per fortuna. Salgo, correndo le scale, e gettando tutto per aria, mi scapicollo sotto la doccia.

Preferisco affrontare Ginny rilassata, perlomeno esteriormente, piuttosto che sudata, trasandata e terribilmente distratta dal pensiero di Draco. Forse l’acqua calda laverà via un po’ di lui da me, ma persino il suo profumo deve essere waterproof dato che acqua, bagnoschiuma mio alle mandorle, bagnoschiuma di Seth alla cannella (terribile!!) seguiti da crema idratante alla mela, lo fanno andare via.

In compenso, ora sembro nell’odore che emano una specie di piatto di dubbio gusto, probabilmente simile al condimento di un pollo tandoori innovativo.

Ma il profumo di Draco, oramai, lo sento dovunque vado, come un’ossessione assurda del mio olfatto.

Mi spazzolo distrattamente i capelli, quando sento fuori dalla porta Ginny chiamarmi, la voce abbastanza acuta ed isterica. Con un sospiro, le urlo che esco subito e lei sembra riprendere a singhiozzare. Eccola là… se mai avessi avuto il minimo dubbio che la sua non fosse una semplice visita di piacere…

Mi asciugo la faccia in maniera distratta, mentre continuo a sentire provenire dall’altra parte della porta urla strazianti. Sospiro stanca davanti allo specchio e faccio traning autogeno, come sempre in questi particolari momenti, cercando di prepararmi all’inevitabile. Il maestro di yoga diceva sempre di respirare e, soprattutto, di ripetersi quanto si è belli, intelligenti ed importanti per gli altri. Nonostante però me lo sia ripetuto, non ha avuto decisamente l’effetto sperato: sono molto più scoraggiata di prima. Ok, d’accordo, so che comunque me la sono cercata, rispondendo al telefono e facendola venire qui… ma ripeto, non sono del tutto masochista, quindi non è che sprizzo gioia da tutti i pori al pensiero di incontrare Ginny, modello salice piangente.

Ne avrei io di motivi per piangere…

Qualora glielo raccontassi, scommetto che alla prospettiva di pensare costantemente a Draco Malfoy, anche lei riconoscerebbe che qualsiasi cosa di catastrofica, fosse anche un terremoto del nono grado della scala Richter, non ha paragoni

Mollo il phon sulla mensola del bagno, tanto non riuscirò a finire di asciugarmi i capelli, e, sospirando ancora, decido che è meglio togliersi questo dente prima che sia troppo tardi. Lascio stare anche i vestiti che ho preso dall’armadio, e rimango in vestaglia. La vestaglia assorbe meglio l’umidità. E poi, nonostante non si veda, ci tengo al mio paio di jeans e alla mia maglietta rossa. Ritorno in salotto, dopo la doccia i miei capelli si arricciano attorno al mio collo in piccole onde sottili. Le onde crespe, tanto per intenderci, che odio. Ma che puntualmente si formeranno, dandomi l’aria di un barboncino. Il traning autogeno non funziona per niente, e in fondo uno che faceva il maestro di yoga d’estate e vita ascetica d’inverno, che diamine ne può sapere? Nulla! Specialmente non può sapere nulla della regola numero trentacinque del codice A.L.S.. Codice “Abbasso-La-Sciatezzamade in Patil&Brown Production. Regola numero trentacinque: quando devi farti la messa in piega, isolati dal mondo civilizzato. Ogni cosa deve passare in secondo piano, in quei fatali quindici minuti di presa dei tuoi capelli. Un minuto di piega in più, e sei una ragazza che può tranquillamente ambire ad una posizione sociale decorosa. Un minuto in meno, perso a fare qualcosa che, per inciso, non voglio fare assolutamente, e diventerai un perfetto cane da competizione. Categoria: PELO-CHE-SFIDA-LE-LEGGI-FISICHE. Io, a Calì e a Lavanda, non ho mai prestato troppa attenzione, e ci mancherebbe anche, così come al loro fantomatico codice che sfida per rigidità le leggi di appartenenza alle caste indiane. Che Calì, pur essendo indiana, ignora apertamente, preferendo decisamente il suo Codice di vita. Ma la regola trentacinque è sacrosanta! E il mio maestro di yoga era anche calvo, quindi non ne sapeva proprio niente!

Batto il piede con foga per terra, unico segnale di impazienza, mentre il mio viso si atteggia ad angelo sceso dal paradiso, con una punta di spirito martire.

“Allora che è successo stavolta?” tento di tagliare corto, sedendomi anch’io sul divano. Ho sette minuti e quarantacinque secondi, prima che i capelli si asciughino in maniera irreparabile.

Mi arriva in risposta solamente un singhiozzo soffocato.

La cosa va per le lunghe, bene! Stelle a quattro zampe sto arrivando!

“Dai Ginny!” dico con una leggera punta di insofferenza, certamente percepibile al mio solo orecchio “Che cosa è successo? Hai litigato di nuovo con Harry?”.

Al nome fatale, la ragazza dai capelli rossi si irrigidisce e mi guarda gelida. Mai figlia fu più identica alla genitrice. Mi sembra di parlare, come altre volte, con Molly Weasley. Decisamente un brutto segno… ovviamente me ne sto zitta, le dicessi una cosa del genere e probabilmente finirei in giornata tra i cadaveri che sezionano i suoi studenti di Anatomia.

Passano alcuni secondi di completo e totale silenzio rotto solo dal ticchettare della pendola della cucina, dal suo respiro gemente e dal mio, decisamente affrettato. Mancano cinque minuti e dodici secondi.

Non posso andare ad asciugarmi i capelli e poi ritorno?!!!

Finalmente Ginny scoppia a piangere in maniera alquanto isterica, gettandosi sul mio braccio. Mai scelta di una vestaglia al posto di una maglietta rossa fu più azzeccata. Le accarezzo la testa, sussurrandole di calmarsi, anche se so benissimo che non sortirà alcun tipo di effetto. Ma in fondo è la mia migliore amica, no? E quindi le devo anche questo.

“Herm, non hai idea di che cosa ha fatto!” urla, sollevando il viso rigato dalle lacrime. La incoraggio a continuare, toccandole la spalla. Forse stavolta è davvero qualcosa di grave… non che lo speri, considerando che si sposano tra due mesi e quindi il mio vestito da testimone di nozze da centododici sterline se ne andrebbe ai pesci. E poi non credo di riuscire a sopportarli, mentre litigano ancora, ancora ed ancora. Ora capisco perché Ronald li manda sempre da me, per lui e Lavanda deve essere uno strazio vivere accanto a loro. Non ho il tempo materiale, però, di maledirlo ancora mentalmente, che Ginny inizia a raccontare l’ultimo capitolo della soap: “STO PER SPOSARE IL BAMBINO CHE E’ SOPRAVVISSUTO”, dopo aver tirato rumorosamente su con il naso.

“Stamattina avevo appuntamento con il tipo del catering… quello che deve occuparsi del rinfresco…” inizia accalorandosi ad ogni parola “Un fissato, non ti sto neanche a dire… avevamo deciso per un antipasto di salmone, una cosa molto chic ed anche la più economica tra le cose che c’erano. Stamattina però mi chiama e ciancia sull’ottima scelta, su come aveva erroneamente pensato che fossimo delle persone superficiali e provinciali, e si congratula con me. Non ho capito niente finché non ho saputo che quell’essere che dovrei sposare aveva cambiato tutto il menù., che IO avevo scelto, mettendone un altro che costerà almeno il triplo! Gli ho chiesto spiegazioni, e sai che mi ha risposto? Lo sai?!”.

Evito di commentare che è alquanto ovvio che io non lo sappia, perché altrimenti lei non me lo direbbe. Ma Ginny aggrotta le sopracciglia ed evidentemente si aspetta proprio questa risposta.

“No” dico rassegnata, infondendo il tono più curioso che mi venga fuori.

Ginny sembra soddisfatta e quindi riprende: “Mi ha detto che il nostro matrimonio deve essere una cosa di classe, che verrà un sacco di gente importante e che non può permettersi di fare brutte figure! Hai capito?! Brutte Figure! Come se io gli facessi fare brutte figure!”.

“E allora?” chiedo ancora, soppesando quanti altri minuti mi manchino all’effetto barboncino. Un minuto e cinquantuno. Sospiro, non ce la farò mai.

“Gli ho detto che si poteva sposare un’altra, una che non gli facesse fare brutte figure…” conclude in tono melodrammatico, poi aggiunge con un filo di voce: “Gli ho gettato dietro i cuscini del divano e sono uscita, sbattendo la porta… ed ho anche rotto lo scacciapensieri che mi ha regalato Charlie… era tutto di vetro veneziano, mi viene un nervoso a pensarci! Tutta colpa di quell’imbecille…”. E dà di nuovo vita alla serie di lamenti, mugugni e lacrime infinite.

Ormai ho fatto trenta, è meglio che faccia anche trentuno.

“Ascolta Ginny…” inizio con tono comprensivo, quello made in Hermione Jane Granger che nemmeno Madre Teresa di Calcutta aveva così affinato “Harry è una persona importante, è il Ministro, e lo sai meglio di me che al vostro matrimonio verrà un’infinità di gente, a cui è da aggiungere almeno la metà dei giornalisti del Profeta. Ricameranno pagine e pagine sopra ogni errore o mancanza, ed anche se non accadrà niente, il matrimonio del RAGAZZO-CHE-HA-SCONFITTO-LORD-VOLDEMORT sarà l’evento dell’anno. Harry è in quel mondo da molto più di te e sa benissimo come prenderle certe cose. Non sarà delicato, ma sicuramente ha ragione. E soprattutto lo fa per proteggerti da eventuali critiche, che non sa come prenderesti…”, la sto per convincere, lo noto dai suoi occhi azzurri che si sono schiariti e quindi rincaro la dose: “E poi non hai sempre desiderato un matrimonio da sogno? Se Harry dice che potete permettervelo, che ti frega, se spendete di più? Ci si sposa solo una volta nella vita!”.

Nella mia mente, a questa ultima frase, si aggiunge un “Per fortuna”, ma chiaramente me lo soffoco in gola.

Passano ancora qualche minuto in cui lei soppesa il peso delle mie parole, poi le sue spalle si rilassano così come il suo sguardo e alla fine, sospirando, conclude: “Come sempre, hai ragione. Sono veramente nevrastenica in questo periodo!”.

Sorrido e nego con il capo: “Sei solo… concentrata, ecco… e vuoi che tutto vada bene… è perfettamente normale…”.

“A volte mi chiedo che cavolo ci trovi Harry in me…”.

Ecco me l’aspettavo anche questa di frase. Dopo la fase rabbia con le fiammate consuete, arriva l’altrettanto consueta fase della autocommiserazione e della depressione. Non so quale delle due sia la peggiore. A vederla, Ginny tutto sembra tranne che una dei più conosciuti Medimago del san Mungo. Piuttosto, sembrerebbe la compagna di stanza dei coniugi Paciock. 

Per fortuna, la brava e comprensiva Hermione ha anche la frase giusta per risolvere questa nuova crisi.

“Harry ti ama… e questo quello che ci trova in te…” dico con voce pacata, accarezzandole la testa, mentre lei annuisce. Meno male, stavolta è finita anche prima del previsto, sono stata più rapida e concisa del solito. Ed anche molto più efficace. Peccato che non sia stata sufficientemente veloce da salvare anche i miei capelli. Incrocio per un attimo il mio riflesso nel vetro della finestra di fronte a me, da cui si vede il panorama grigio di Londra, ha anche iniziato a piovere. Tipico, nuova umidità nell’aria per rendermi un fantastico fenomeno elettrostatico.

E, come se non bastasse, se adesso inizia a piovere, Draco tornerà anche prima a casa…

Sospiro ancora, doppiamente tipico.

L’anno cinese del Bufalo mi porta proprio male.

Ginny si alza dal divano e finalmente sorride, dicendo con la sua voce da bambina in colpa e colta in fallo: “Sarà meglio che vada a casa… prima che Harry davvero si trovi qualche altra da sposare…”, poi all’improvviso il suo viso si illumina di un’espressione autenticamente ilare e mi fa, sedendosi di nuovo vicino a me: “Lo sai che quando ero piccola e vidi Harry per la prima volta pensai una cosa stranissima?”.

“Che cosa stranissima?” chiedo, alquanto terrorizzata dalle sue cose stranissime.

Lei schiocca le labbra, coperte da un velo di rossetto perlato, in tinta perfetta con la canotta rosa confetto. Crea un’atmosfera di attesa di qualche secondo, che sarebbe assolutamente perfetta con un rullo di tamburi come in tv. Poi scoppia a ridere e riprende: “Ho sempre pensato che tu saresti finita con Harry. Sei assolutamente quella che va più d’accordo con lui…”, un velo di malinconia e dice: “Sareste benissimo assieme…”.

“Nel mondo delle favole, Gin…” replico sarcasticamente, scuotendo decisamente il capo.

Lei scoppia a ridere, stavolta più di gusto, evidentemente rincuorata dalla mia reazione. Credo che si sia spaventata lei stessa da quella remota possibilità. Come se in qualche universo parallelo potrebbe essere vero…

“Ma dai Herm! Non mi dire che Harry non ti è mai piaciuto nemmeno un po’?!” ride ancora lei.

Mi alzo stizzita dal divano e mi fermo davanti alla finestra, il viso rosso mentre rispondo tagliente: “Avevo qualcun altro per la testa, Gin…”.

La sento zittirsi all’istante, le sue risatine acute che si smorzano all’improvviso e non posso evitarmi di pensare che se l’è cercata e non mi interessa che adesso si senta in colpa. D’accordo, non è colpa sua, sono io che sono nevrotica, ma in fondo che per una volta Hermione Granger non abbia detto: “Sì, sì, smanio dalla voglia di fare il vostro tappetino! Calpestatemi!” non dovrebbe essere qualcosa di estremamente negativo. È anche normale che pure io reagisca male e che mi arrabbi, e devo dire che è abbastanza liberatorio. Lo so, lo so, sono arrabbiata più per Draco che per lei e le sto scaricando addosso colpe non sue, ma ogni tanto potrò essere irrazionale anche io? No? No? NO?!! Il silenzio prolungato di Ginny mi suggerisce la risposta.

“Scusami Gin…” dico, sinceramente pentita, voltandomi verso di lei “Oggi sono solamente un po’ nervosa… perdonami, non volevo prendermela con te…”.

Lei solleva lo sguardo e sorride, negando con il capo, mugugnando un: “Non ti preoccupare…”, poi pigola qualcosa che all’inizio non riesco a percepire.

“Eh? Che hai detto?” .

TI SERVIREBBE UN RAGAZZO!” urla Ginny, rossa in viso.

Mi massaggio le orecchie, è veramente la donna degli eccessi.

“Non ci volevi tu per dirmelo, Gin…” rispondo ironica, chiudendomi la vestaglia “Ma adesso non ne ho davvero il tempo…”.

Tipico, anche questo. Mi invento una scusa… specie se alla sua affermazione, ho pensato subito ad una persona in particolare che vorrei solamente veder sprofondare nel Tartaro, a fare compagnia ai vermi.

Ma Herm! Non hai un ragazzo, da quando… insomma, da quando hai chiuso con Dean…!”.

“Non mi sembra che siano propriamente passati ventinove anni…” commento piccata “Almeno raffreddiamo le lenzuola…”. 

Espressione tipica questa della mia cara zietta Henrietta. Cosa che mi riporta a pensare ad Hayden.

Almeno avrei potuto sbandierarle questo, ma no! Anche il suo numero dovevo perdere!!.

“Ormai le tue di lenzuola hanno una temperatura pari allo zero assoluto…!” commenta lei sarcastica, per poi aggiungere entusiasta, stringendomi le mani… anzi non stringendomi le mani… fracassandomi le mani! : “Dai Herm! Dovresti riprovarci! Ci sono un sacco di ragazzi che ti vengono dietro!”.

Uno ce n’era ed ho anche perso il numero…!!!!!

Cosa che poi lei non sa… quindi dove stanno tutti sti spasimanti??!!!

“Certo, tantissimi!” mi libero della sua stretta d’acciaio e agito la mano indolenzita “Talmente tanti che sono tutti dietro la porta che bramano solo di vedermi uscire…”, abbandono il mio tono ironico per concludere stizzita in una alzata di sopracciglio: “Avanti Gin, e chi sarebbero? Neville, Neville oppure Neville?!”.

Lei si irrigidisce e tace, evidentemente ci ho preso in pieno. Mi alzo ancora più nervosa di prima ed ancora mi dirigo verso la finestra. Appoggio la mano sul vetro gelido ed osservo senza reale interesse il panorama di fronte a me, sento pizzicarmi gli occhi dalla voglia di piangere, mentre ancora, come un disco rotto, rivedo nel riflesso il bacio di Draco. Non ce la faccio più… davvero…

“E poi, Ginny, ignorando la tua presunta onniscienza…” aggiungo piccata, voltandomi verso di lei, reflusso di parole che non intendo finché non le pronuncio: “… ma chi ti dice che io non sia già innamorata?”.

Ginny mi guarda senza parole, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso, e io… io non lo so.

Non sento di aver mentito per far tacere Ginny, sento di essere stata onesta… sento di aver usato la parola giusta. Innamorata. Chi prova amore per qualcuno.

Io…provo… amore… per Draco?

No, no, non è così. Che cavolo… amore, addirittura?! Ma no… attratta, ok, incuriosita, d’accordo, magari anche affezionata, ma innamorata proprio no.

Insomma… se penso a com’era con Ron… per Draco non è così. E di Ron ero innamorata, ne sono certa.

Con Ron, ero disposta a tutto pur di stare con lui. Anche se non gli ho perdonato che mi abbia tradito.

Con Draco, invece, non mi faccio passare una mosca sotto il naso. Anzi, non lo sopporto la maggior parte del tempo. Anche se lascio sempre che faccia di me ciò che vuole.

IO NON sono innamorata di Draco! Potrei stare ore ad elencare tutti i corollari di questo teorema, giungendo sempre alla medesima soluzione. Io non sono innamorata di Draco, punto e basta.

È un ex Mangiamorte, un Serpeverde, un Purosangue, uno stronzo della peggior specie, un datore di lavoro sadico, un egoista e un egocentrico…!

Ed è anche

Insomma, qualche altra cosa di insopportabile in lui, sta… ah ecco!! È biondo, io i biondi non li sopporto, mi danno fastidio!

I loro capelli dorati, il modo che si riflette al sole, il difetto della melanina… cose insopportabili, chiariamo! Ok, ora sto esagerando… ma nulla cambia che NON SONO INNAMORATA di Draco!!!! Accetto anche ossessionata, ma non innamorata!!!!!

È stato semplicemente un lapsus… freudiano? No, un lapsus e basta, causato da Ginny che mi fa innervosire.

Io non sono innamorata di Draco… e non lo sarò mai…

Dopo le mie elucubrazioni mentali, torno ancora un po’ sconvolta ad occuparmi di lei, di Ginny che mi sta guardando con una strana luce negli occhi. Mamma mia, sembra posseduta… ma che vuole?!

“Intendevo dire…” inizio con voce convincente, ma lei mi interrompe subito, urlando: “Lo sapevo! Lo sapevo! Ti sei innamorata, Herm?!!”.

“NO!” urlo a mia volta, rabbrividendo. Accidenti alla mia boccaccia larga…

“Ma sì!! Me l’hai detto chiaramente adesso!!” continua lei cocciuta, alzandosi e venendomi incontro con le braccia spalancate, quasi come se mi volesse abbracciare. Sembra una mamma che ha appena saputo che la figlia, zitella da decenni, abbia deciso di sposarsi, tipo “Il mio grosso grasso matrimonio greco”, tranne che lei è un’acciuga.

“Non volevo dire quello che ho detto! NON SONO INNAMORATA!!!”.

“Scommetto che è quel gran figo del tuo capo…!” aggiunge convinta, all’anima sua, ma che è diventata sensitiva?! Ma che sensitiva e sensitiva, ha sbagliato della grossa… infatti, io NON sono innamorata del mio capo!

Ma lo sai che il mio capo è bello che fidanzato?” le dico cercando di farla rinsavire.

“Ma di chi parli? Della biondina acida?” replica lei, per nulla intimorita, agitando la mano avanti ed indietro “Ma va và… una volta li ho visti e già mi è bastata, non è per niente preso da lei infatti, mentre eri in coma, lui…”. Ginny tace ad un certo punto, lo sguardo perso nel vuoto. Si porta la mano alla bocca, pallida, quasi come se avesse un conato di vomito.

“Gin!” mi avvicino preoccupata, una mano sul volto freddo.

Lei rinviene subito, accusando una nausea improvvisa, al che le chiedo maliziosa: “Non sarai incinta?!”.

“Non dire fesserie!” ribatte lei con energia “Ho iniziato a prendere anche la pillola per impedire di rimanere incinta, prima del matrimonio… mia madre ha dei radar per queste cose e sverrebbe se sapesse che non mi sposo vergine… per non parlare poi del vestito che non mi andrebbe bene…”.

Inarco un sopracciglio, almeno si è distratta dalla mia questione: “Forse ti fa effetto collaterale…”.

“Chi, mia madre? Ma non credo che sia una cosa di oggi… anzi… più di vent’anni di effetto collaterale…”.

“Parlavo della pillola, Gin!” ribatto esasperata, ma lei nega con il capo, dicendo che come Medimago, sa perfettamente quali sono le controindicazioni, e non ci sono nausee improvvise.

“Sarà lo stress…” ipotizzo, porgendole un bicchiere d’acqua, che lei beve annuendo: “Il peggio è che ti stavo dicendo qualcosa di importante… e me ne sono dimenticata…”.

Mai nausea fu più provvidenziale…

Poi si sbatte la testa con una mano, dicendo: “Stavamo parlando del tuo capo…! Giusto!”.

Maledizione alle sue sinapsi ancora funzionanti!

“Già, vero…” borbotto inacidita “Ti stavo ribadendo che lui non è minimamente interessato a me…”.

Dunque il problema è solo che non sei corrisposta?” insinua Ginny, dandomi una lieve gomitata, alla quale mi scanso nervosa. Non ci credo che ne sto parlando proprio con lei, anche se in questi termini scherzosi. Soprattutto considerando che lei non sa che NON sono innamorata proprio di Draco Malfoy.

“Ginny, stai facendo un castello sul niente…” replico ancora, dandole le spalle “Io e Danny non siamo nemmeno amici… è un bel ragazzo, sicuramente, ma non sono innamorata di lui…”, mi siedo stancamente sul divano incrociando le braccia, per poi proseguire: “Credo anche io che Danny non sia innamorato di Summer, ma non cambia le cose. Nel senso che credo sia innamorato ancora della sua ex…”.

“Che palle ste ex!” borbotta Ginny, accalorandosi “Sono la rovina della società… il crescente numero di divorzi deve essere dovuto a loro…”.

“Harry non ha delle ex vere e proprie… di che ti lamenti?!” la contraddico, alla fine, a parte Cho Chang, Harry ha avuto solamente lei.

Lasciamo perdere, decisamente!!” si infervora, cambiando discorso. Questa, poi, un giorno me la dovrà spiegare.

“Quindi non è del tuo capo che sei innamorata? E di chi allora?”.

Ma di nessuno, Gin…” ribatto scocciata, già mi basta il mio lapsus a farmi sentire confusa, non mi devo sorbire anche lei adesso.

Ginny sospira scettica, poi mi dice: “Sarà… in ogni caso un po’ di amore non potrebbe che farti bene…oltre che un po’ di sano sesso…”.

“GIN!” urlo scandalizzata, mettendomi le mani sulle orecchie.

Ma dai, non fare la moralista… scommetto che ci stai pensando anche tu…”.

“Assolutamente no” replico convinta, anche se sto mentendo spudoratamente. Arrossisco, ricordando il bacio con Draco e le sue braccia attorno a me, solo poche ore fa. A quel ricordo, sento un fremito intenso scuotermi dall’interno di me stessa, e non è una bella sensazione. Assolutamente.

Sta diventando quasi un’esigenza che lui mi stia così vicino, che mi stringa, che mi sfiori… mi fa paura, Gin… sta diventando così forte il desiderarlo che oramai temo di non riuscire a stare zitta ancora per molto, anche con te… lo voglio così tanto che mi sembra di impazzire…

“Allora te lo dovrò trovare io un bel fidanzato!” esclama Ginny convinta, estraendo dalla sua borsa un enorme librone rettangolare. Ma che si porta la lista degli scapoli d’oro del mondo magico sempre dietro?! Mi ritraggo su me stessa, spaventata da questa donna.

Quando lo apre, però, noto che invece c’è disegnata una planimetria della sala da pranzo, dove si terrà il ricevimento del loro matrimonio, con tanto di disegni dei vari tavoli comprensivi di post it rettangolari e sottili che indicano in colori vivaci ed accesi i nomi degli ospiti.

Inutile precisare che ci sono almeno trenta tavoli con dieci persone ciascuno. Ed è anche inutile precisare che Ginny mi ha detto di aver notevolmente ristretto la rosa.

Praticamente mezzo mondo magico è qui rappresentato, stilizzato da delle strisciette di carta colorata.

Il peggio è che sembra che anche Harry sia incline a dare un ricevimento in grande stile, d’accordo che è il Ministro, ma… bah… se mai un giorno mi sposerò, volerò su un’isola del Pacifico con il mio ragazzo e i miei testimoni, avrò una bellissima cerimonia sulla spiaggia al tramonto, con tanti fiori bianchi e rosa. E se mi verrà in mente, non inviterò nessuno dei miei parenti, altroché… credo che invece Harry abbia accorpato il suo ricevimento di nozze al censimento del mondo magico, stile Galilea del I secolo.

Altrimenti non mi spiego come ci sia tanta gente che… un attimo!!

Ecco qui come trovare una Purosangue, candidata ad essere la mamma di Serenity!

Ce ne sono di nomi di famiglie che non conosco assolutamente… la mamma di Serenity deve essere tra queste… e magari indirizzando Ginny, capirò anche chi è. Scommetto che sa vita, morte e miracoli di tutte queste persone.

Con nonchalance, indico il mio bigliettino tanto per iniziare: “Con chi sono io al tavolo, fammi capire…”.

Ginny con un cenno della mano, fa illuminare di perlata luce rosa gli altri cartoncini, su cui leggo distintamente il nome suo e quello di Harry, quello di Ron e di Lavanda. Ovvio… essendo io e Ron i testimoni, è chiaro che siamo allo stesso tavolo degli sposi.

“E come sempre farò la parte della single, condannata a fare sempre la damigella d’onore, e mai la sposa…” borbotto melodrammatica “Non posso chiedere a Seth di venire con me? Posso sempre pagarlo per fingere che mi trovi sessualmente appetibile…”.

“Quello è il piano B…” borbotta lei concentrata, guardando gli altri tavoli “Seth te lo puoi portare dietro in ogni caso, ma accompagnato da un altro bel tipo… con cui magari non condividi la passione sviscerata per Shane West…”. Eccola là, ancora? Ce l’avevo il sosia di Shane West sottomano e un imbecille mi ha anche cancellato il suo numero! Ma che ho fatto di male nella mia vita precedente!! Sono la reincarnazione di Stalin, Hitler o Mussolini?!!

“E magari adesso lo trovo anche uno per Seth…” sta continuando Ginny a biascicare “Zabini non me la conta giusta…”.

“Hai invitato Zabini alla tua festa di matrimonio?” chiedo autenticamente scioccata. Serpeverde della peggiore risma… ma anche Purosangue, meglio stare attenta.

Lei annuisce con un sorriso: “E’ un tipo simpatico, ovviamente se preso a piccole dosi… stava alla Cooperazione Internazione, ricordi? Insomma lo incontrai una volta che…” e via ad una serie di racconti infiniti su Zabini e sulla loro conoscenza. In mezzo alle altre molteplici informazioni che mi dà, tra cui la sua allergia alle noci messicane, la passione per le cravatte viola del pensiero e il fatto che soffra spesso di calcoli renali, vengo anche a sapere che ha una sorella, poco più piccola di me.

Opportunamente indirizzata, Ginny mi dice che l’ha invitata ma aveva da fare, e che è una tipa un pochino arrogante. Si chiama Dorilys Annie Zabini.

Prima candidata.  

Ovviamente io non la ricordo, anche se Ginny dice che veniva a scuola ai nostri tempi. Me la faccio descrivere, fingendo che voglio cercare di ricordarmela, e lei mi parla di una tipa alta, raffinata con lunghissimi capelli neri.

Decisamente non assomiglia a Serenity, ma chissà…Serenity potrebbe anche aver preso da suo padre… e, se fosse Draco, i capelli biondi e gli occhi azzurri sarebbero pienamente giustificabili.

Mi annoto il nome mentalmente e, nell’ora seguente, mentre Ginny cerca di trovarmi un fidanzato, io invece cerco di trovare la mamma di Serenity. Come prevedevo, interrogare Ginny è stato molto proficuo: anche se non ci sono molti Purosangue alla sua festa, lei comunque mi ha dato molte informazioni utili.

Quando va via, infatti, rassegnata all’idea che alla sua festa sia io che Seth verremo da single (“Domani metto una foto di Seth nella scrivania di Zabini… dalla sua reazione, vedo se almeno lui lo accoppio!”), corro alla scrivania e inizio ad annotare tutta una serie di nomi femminili, che potrebbero portarmi alla soluzione del mistero.

Ovviamente devo recuperarli dal pantano di dati, notizie e gossip veri e presunti che Ginny mi ha dato nel suo fiume incessante di parole.

Mordicchio la matita per qualche secondo, iniziando a scrivere.

Dorilys Annie Zabini.

Lo sai che Hannah Abbott ha divorziato? Hanno beccato il marito a letto con una delle commesse di Fortebraccio. Ricordi quella che portava sempre le calze spaiate?

Amaryllis Davies

Marietta Norton si è messa a fare la giornalista de “Il Cavillo”… le manderò un bambù della fortuna per aver fatto lasciare Cho ed Harry.

Destiny Montague

Ieri, ho letto che è morto Amos Diggory con la moglie. Un incidente, mi sa. E dire che, da quando è morto Cedric, lo trovavo anche simpatico… meno presuntuoso…

Accidenti a Ginny e quanto parla!! C’ho una confusione nel cervello… continuo a scribacchiare nomi per un’ora circa, fino a quando le luci si accendono su Londra e la notte cala. Guardo distrattamente l’orologio, le 20, 15, forse è meglio che smetta. Ho una ventina di nomi da esaminare a cui ovviamente devo aggiungere quelli delle Purosangue che conosco io, come la Parkinson, la Greengrass… certo che se continua così, sta storia la risolvo al prossimo Big Bang. Come sempre, un angolino della mia mente mi suggerisce che potrei anche fregarmene ed andare dritta per la mia strada, sorridendo nella luce dell’aurora.

Sospirando, mi alzo dalla scrivania, raggiungendo la porta, quella vocina oramai si fa sempre più piccolina, flebile, non la sento nemmeno più.

Oramai è diventato impossibile fregarmene, o fare finta di fregarmene

Sbuffo chissà se Draco e gli altri sono già tornati. Non faccio nemmeno in tempo ad aprire la porta che qualcosa mi prende in pieno, qualcosa che urla in modo concitato: “Bagno, bagno, bagnooooo!!!”.

Sono tornati.

“Seth!” parlo con la porta del bagno chiusa “Allora com’è andata? Serenity sta bene?”.

“Sì, sì… ne potremmo parlare dopo, please??!!!” mi parla Seth dalla porta, inveendo.

Promemoria per me, quando sta in bagno non vuole parlare… cosa abbastanza intuibile, ma nel caso di Seth assolutamente scioccante, visto che, quando ci si mette, è logorroico. La prossima volta che mi stressa, li metto dei lassativi nel caffè…

“Ok, allora scendo di sotto! Vedo se April ha bisogno di una mano…” parlo sempre con la porta chiusa, ottenendo un muggito in risposta.

Sorrido per poi legarmi i capelli, e scendere nel locale, dove, come April mi aveva già preannunciato, non c’è molta gente, ma Corinne e Lorna hanno appena staccato quindi è meglio che mi muova ad aiutarla. E magari, lavorando un po’, mi distrarrò da tutti questi pensieri. Di studiare non se ne parla, vedrei sempre Draco tra i caratteri del libro… speriamo che domani mi alzi con un’altra mente, sennò questo esame non lo passerò mai.

Chissà se davvero, poi, lo voglio ancora fare questo esame… sospiro, sparecchiando un tavolo con aria insofferente. Le priorità della mia vita ormai sono completamente capovolte… la cosa più importante sta diventando Draco con Serenity, Seth ed April. Al momento, il pensiero di separarmi da loro, da lui, mi mozza il fiato.

“Herm!” mi chiama leggermente April “Potresti andare a gettare la spazzatura? Quelle due celebrolese l’hanno lasciata fuori, ed alcuni clienti si sono lamentati…”.

“Certo, figurati…”.

Esco dalla sala ristorante, passando per la porta sul retro, trovando gli stessi sacchi che avevo visto prima, accompagnati da un altro. Sono enormi! Mai che facciano qualcosa… sbuffando per lo sforzo e per il caldo, raggiungo a fatica i bidoni della spazzatura poco distanti, gettando con foga i sacchi neri.

Mi asciugo il sudore dalla fronte, giuro, in vita mia non ho mai lavorato tanto come da quando sono qui… come se non bastasse, stasera fa caldissimo… ci saranno almeno 28 gradi, sembra la Sicilia di quando stavo in vacanza da mia nonna, altro che Londra. In compenso, il cielo è terso e carico di stelle, stranamente limpido e privo di foschia, dopo la pioggia lieve e leggera di oggi pomeriggio. Mi fermo un po’ a guardare il cielo, rapita, quando è così luminoso ti illudi quasi di poter toccare le stelle, farle scivolare tra le tue dita come se fossero sfolgoranti diamanti e rimirarti del loro riflesso. Come se potessi toccare tutti i tuoi sogni… già, i miei sogni… non so nemmeno che fine abbiano fatto, è come se fossero diventati incolori e sbiaditi nella luce piena e prepotente di una luna d’argento. Draco.

Torno indietro sui miei passi, la porta del magazzino è aperta. Vuoi vedere che quelle due alcolizzate di Lorna e Corinne hanno dato via al loro dopolavoro etilico là dentro?! Summer chi se la sente, l’altra volta mancavano ben dodici bottiglie di vino rosso, e loro spiegarono candidamente che li servivano per un sangria party.

Casa loro deve essere una specie di taverna, non che ci tenga a saperlo o a vederla.

E nemmeno ci tengo a sapere o a vedere in che attività sono occupate, ma oggi, nella mia situazione emotiva e psicofisica, non sono proprio in vena di sentire Summer che inizi a strillare con delle frequenze così acute da poter essere captate distintamente solo dai pipistrelli, mentre per noi esseri umani risulteranno essere simili allo stridere del gesso sulla lavagna. Già, me lo vedo che inizia a gridare…

“NON PUOI FARE QUESTO!!!”.

Ecco, così, infatti… ma un attimo, questo l’ho solo pensato o l’ho anche sentito?

Un attimo, no, no, l’ho davvero sentito… dal magazzino… allora non ci sono quelle due spugne, ma Summer… il cuore mi balza in petto…

Draco. Ci deve essere anche lui… e da stamattina che litigano in fondo…

Lo so che non si origlia e tutto il resto, ma un’occasione del genere non mi capiterà mai più, al diavolo lo spirito Grifondoro! Scommetto che anche Godric in persona, se mi vedesse, non farebbe che appoggiarmi… in fondo si tratta di dare un bello smacco ad uno dei più illustri membri della casata di Salazar…

Mi avvicino in punta di piedi, quando vuole Draco ha gli occhi e le orecchie sensibili come quelli di un gatto, e se mi becca, mi infilza su un palo, specie dopo l’illuminante conversazione di questo pomeriggio.

Mi accosto alla porta del magazzino, da cui proviene adesso un bisbiglio concitato che ha sostituito le urla di Summer, nascondendomi dietro la pila di casse d’acqua, in modo che, se anche escano, non riescano a vedermi celata da quell’intercapedine. Nella lama di luce che intravedo dalla porta semiaccostata, vedo solamente Draco. Indolentemente appoggiato alla parete, gli occhi chiusi, apparentemente indifferente. Mi appiattisco contro il muro, celandomi al suo sguardo. Nonostante non lo veda benissimo, ho inteso perfettamente. Non è indifferente. Assolutamente. È furioso.

Le palpebre fremono leggermente, il petto mostra un respiro affannoso ed irato, le braccia conserte sono contratte nervosamente, le spalle sono serrate e piegate su sé stesse. Quando riapre gli occhi, è energia di diamante e ghiaccio che agghiaccia la persona che ha di fronte. Peggio di come ha fatto con me oggi… ma che dico, molto peggio… ora sì che anche a me fa paura in un senso oggettivo, non vorrei essere nei panni di Summer adesso. Quegli occhi potrebbero anche uccidere.

Apre lievemente le labbra increspate, come se avesse in bocca un limone acerbo, solo per dire: “Lo sai meglio di me che era così che doveva andare a finire… non credo che non fossi stato chiaro, in fondo credo che fosse un concetto semplice anche per te…”.

“Sì, ma la bambina è scappata senza che me ne accorgessi, ed io…” tenta di opporsi Summer, la voce rotta dall’isteria e dal pianto. La vedo avvicinarsi a Draco, dando a me le spalle, ed evidentemente cercare di toccarlo in qualche modo, ma con uno strattone, Draco si libera violentemente.

Stanno litigando perché Serenity è scappata… ma… Draco ha detto che era così che doveva andare a finire… si stanno lasciando? Addirittura? Come poteva Summer impedire ad una piccola strega di fuggire? Non lo capisce?

Quasi mi dispiace per lei, povera Summer. Possibile che sia così… crudele?

Non le vuole nemmeno un po’ di bene, diamine? Che razza di persona è?

Stringo i pugni con rabbia, chiamatela anche solidarietà femminile, ma mi fa venire dei nervi. Vorrei persino uscire a prenderlo a schiaffi…

“La cosa era chiara… dall’inizio… se sei qui, è sempre stato quello il motivo… non fare l’ingenua, almeno questo risparmiamelo…” sibila Draco, girando attorno a lei come un avvoltoio, poi le prende un braccio stringendolo forte. Sto quasi per intervenire, quando dice irato: “Sei sempre stata qui solo per lei, l’hai sempre saputo e ti è sempre andato bene, no? Sapevi che non ti avrei mai amato, lo sapevi… eppure sei rimasta. Ti ho lasciato fare… ma c’era una condizione… e oggi l’hai fatta a pezzi…”.

Ma di che diamine stanno parlando… e pensare che credevo di assistere ad una semplice litigata tra innamorati, magari utile per capire qualcosa di più di Draco. Ma qui c’è qualcosa sotto di grosso… come fa a dire così tranquillamente che non la ama e nemmeno avrebbe mai potuto farlo?! Non che non l’avessi intuito che non provasse nulla per Summer, ma insomma lei invece è cotta di lui. Poteva essere meno diretto… e poi perché l’ha lasciata qui allora? Che è successo oggi di diverso? È bastata la distrazione con Serenity a decretare il suo destino?

I miei pensieri si bloccano nel loro corso, provocandomi un brivido lungo la schiena, quando sento Summer chiamarlo, piangendo: “Ti prego, Draco… non puoi farmi questo… sai che non posso tornare a casa…”.

L’ha chiamato Draco… allora… lo conosce… come? Dannazione non ci sto capendo nulla…

“Non chiamarmi così…” soffia Draco freddamente, allontanandola da sé, con un altro strattone. Summer allora strilla istericamente, sempre piangendo : “Alla Granger però consenti che ti chiami Draco, no? È per lei, vero? Non è così?! Non è così?!” Summer prende a pugni la sua schiena, mentre io mi porto una mano alla bocca per impedire che un qualsiasi respiro lasci le mie labbra. Se mi scoprono sono dolori… ora stanno parlando anche di me… e, a quanto pare, Summer sa anche che io chiamo Draco per nome… quindi sa chi sono… chi diavolo è, allora?

Draco le blocca i polsi, urlando a sua volta, facendomi rabbrividire: “Lei non c’entra con questa storia, non ti azzardare a metterla in mezzo… se non era per lei, oggi Serenity non l’avremmo mai trovata…”.

Santo cielo, Draco… mi sta difendendo davanti a lei, alla sua ragazza…

“Che c’è?!” ride rabbiosamente Summer, schernendolo “Ti sei innamorato di lei? Ti vuoi fare la Granger? Tuo padre ti avrebbe diseredato se lo avesse saputo, Draco…”.

Il cuore prende a battermi furiosamente nel petto, serro gli occhi quasi come se servissero a rendermi invisibile, ogni parte di me tesa spasmodicamente ad ascoltare. Credo che sia il secondo più lungo della mia vita aspettare che Draco risponda… il sudore mi gela la schiena, improvvisamente mi sembra che si sia fatto inverno e tutto attorno a me stia ghiacciando su stesso, riempiendosi di crepe. Ancora stringo la mano sulla mia bocca, cercando di tenerla ferma dal tremore che l’ha presa.

“Non dire sciocchezze…” dice lui con ovvietà, la voce dura.

Riapro gli occhi, come se non mi aspettassi che cosa avrebbe risposto… sono una stupida… mi sfrego energicamente gli occhi, tenendo a bada il mio respiro accelerato. Figuriamoci se Draco avrebbe mai detto di sì…

Che avevo bisogno della conferma scritta? Della copia autenticata dal comune?! Sono solamente un’idiota, ecco cosa. Mi mordo il labbro inferiore con rabbia, sapore ferrigno del sangue in bocca che mi scivola in gola, irritandola, tutto attorno offuscato delle lacrime che sono comparse nei miei occhi.

E poi che diamine me ne importa, no?

Invece sì che importa…

Importa più di tutto il resto. Perché mi dico una bugia, lo so solamente io.

“Ma mettiti in testa che non c’entra niente…” continua Draco, la voce annoiata “La Granger non ha niente a che fare con questo… lasciala fuori…”, il tono si abbassa diventando quasi un sussurro mentre aggiunge lapidario: “Non sono più obbligato nei tuoi confronti, come è ovvio che sia… se hai bisogno di una conferma, puoi anche chiamare Potter, credo che sarà un enorme sollievo anche per lui...”, Harry? Che c’entra Harry? “…me ne frego di quello che farai da domani… ti ci sei messa da sola in questa situazione. Sei stata tu a cercarmi, sempre tua l’idea della Promissio Gemina… ora anche io sono libero da qualsiasi legame nei tuoi confronti…”, Promissio gemina? O mio Dio… ora qualcosa la sto iniziando a capire… ho studiato la Promissio Gemina qualche giorno fa. È un contratto vincolante, un Incantesimo di Volontà che lega due persone che vogliono scambievolmente qualcosa l’uno dall’altra. Non porta alla morte, come il Voto Infrangibile, ma nel caso della violazione degli obblighi di una delle due parti, la controparte viene automaticamente liberata dai suoi oneri… ecco, a cosa si riferiva Draco, quando diceva di essere libero…

Evidentemente Summer ha violato una delle clausole… facile che sia la cura di Serenity, se l’ha persa di vista stamattina. Ma allora Draco da lei che cosa voleva? E perché hanno fatto questo patto? Dunque, Summer è una strega… e come mai si cela da babbana? Chi è allora, in realtà? E che c’entra Harry?

Altrettanto facile che sia il garante della Promissio Gemina, la terza figura del patto, una persona che conserva l’atto della promessa gemella e vigila sulla sua osservanza.

Ma perché proprio lui? E perché a me non ha detto nulla?

Ho una confusione in testa che la metà basta…

“Credo che tu sappia perfettamente che cosa accadrà, se torno a casa…” minaccia Summer, perdendo improvvisamente tutta la malinconia e il tono lamentoso che aveva fino a questo momento “E’ finita, Malfoy… anche il Ministro sarà dalla mia parte, se aprirò bocca…”.

Draco improvvisamente sembra aver perso tutto il suo coraggio, tutta la sua forza. Il volto impallidisce, gli occhi perdono colore e sembra davvero spaventato, le mani strette a pugno. Eppure dice solamente, la voce tremula: “Fallo… nel tempo che ci metteranno i tuoi a riaccoglierti in casa e a perdonarti per quello che hai fatto, io avrò portato a termine quello che sono venuto a fare qui…”.

Continuo a non capirci nulla, osservo in religioso silenzio Summer accusare il colpo, tacere e stringere le labbra sottili in una smorfia di impotenza.

Draco, ostentando sicurezza e disinvoltura, aggiunge stoico: “La Promissio Gemina è rotta… quindi non affannarti a raccogliere le tue cose. E vattene, da qui, dall’appartamento e da dovunque tu abbia messo piede… era facile ciò che dovevi fare, eppure sei riuscita a fallire. Tipico…”, la sua voce si vela di avvertimento stentoreo mentre conclude: “… fatti passare anche l’idea di vendicarti… scommetto che l’hai già avuta, patetica come sei… se accade qualcosa a Serenity, ti ricorderai ben presto di che razza marcia sono fatti i Malfoy…”, mentre rabbrividisco, spaventata, Draco chiude gli occhi per un secondo.

Quando li riapre, ha l’espressione ancora più truce di prima, fa un passo verso Summer e la sfida a muso duro, sovrastandola in altezza. Per un attimo, quando solleva la mano e la afferra per un braccio, credo che voglia ucciderla. Ma si limita solo a stringere forte la presa sul suo gomito e a sibilare: “… stesso effetto se succede qualcosa ad Hermione… fino a quando lasci lei e Serenity fuori da questa storia, tu puoi considerarti ancora una donna con una vita lunga…”.

Summer piagnucola ed annuisce tra le lacrime.

Che diamine mi potrebbe fare lei? Perché è così preoccupato?

Nonostante però i suoi modi duri, una carezza calda mi avvolge al pensiero che ci tenga così tanto anche a me, oltre che a Serenity. Nonostante la discussione di stamattina… e nonostante non sia innamorato di me…

Stacca violentemente la presa da lei, per poi dire, una risata sardonica sul volto: “A mai più rivederci, Astoria…”.

Una fitta violenta mi colpisce alla testa, mi accascio a terra per il dolore, come se si stesse spaccando a metà, nettamente, distintamente, come una mela. Boccheggio come se mi mancasse davvero l’aria, il dolore che mi impedisce anche di pensare a qualsiasi cosa razionale… non credo di aver mai provato nulla di simile, nemmeno sotto Crucio, oppure quando pativo della maledizione di Voldemort. Accasciata su me stessa, sento come se accadesse in un'altra dimensione qualcuno uscire correndo della stanza e sorpassare il mio nascondiglio. Come se fossi agonizzante, mi ritrovo ad implorare che si fermi, che mi aiuti, mentre tutti i miei pensieri si rovesciano gli uni sugli altri, uno squarcio profondo e lacerante che strappa la mia memoria. Avverto un conato di vomito e rimetto anche l’anima, piegata in due per terra. 

Poi, improvvisamente, passa. Anche se è durato solo qualche secondo, mi è sembrato di morire. Tutto, al nome Astoria.

Mi rialzo a fatica, reggendomi alle casse dell’acqua, appiattendomi mentre anche Draco esce, non vedendomi per fortuna.

Improvvisamente, so, come se me ne accorgessi solamente adesso, che Summer Breeze Layton ed Astoria Greengrass sono la stessa persona.

Riconosco nelle fattezze di Summer la ragazzina bionda con le trecce che vedevo qualche volta tra i Serpeverde, che rimproverai una volta perché era uscita con uno più grande, appartandosi nelle cucine a notte fonda, e che mi aveva guardato schioccando la lingua con fastidio. Quella che stava sempre attaccata a Daphne e che rideva con lei in modo idiota.

Summer è sempre stata Astoria.

E il mio malore… rottura di un Incantesimo di memoria. Ne riconosco i sintomi. Ho ritrovato la memoria, quando ho sentito il nome Astoria, associato a lei.

In modo nebuloso, ricordo persino il momento in cui mi ha incantato: il giorno che la incontrai per la prima volta, ero con gli altri e ridevamo su Seth e sul fatto che fosse innamorato di Danny. Gli altri tacquero, Summer era alle mie spalle… qualche attimo di buio e poi lei che si rivolge al personale, intimando di tornare al lavoro.

In quell’attimo di buio, a cui prima chiaramente non avevo fatto caso, ora ricordo una bacchetta puntata verso di me.

Mi ha tenuto sotto incantesimo tutto questo tempo… e io non me ne sono accorta. Summer è sempre stata al di fuori dei miei sospetti.

La scena della varicella, le sue sceneggiate al fatto che conoscessi Danny…stava solamente recitando.

Lei mi ha sempre conosciuto.

Ha sempre saputo chi ero e come conoscessi Danny, o meglio Draco… con un brivido, mi rendo conto che ha usato un Incantesimo così potente su di me da non farmene minimamente rendere conto. Se non avessi sentito ora il suo nome, non si sarebbe mai rotto.

E, per come si è rotto, mi rendo distintamente conto che mi avrebbe aggiogato per sempre.

Mi affloscio su me stessa, improvvisamente anche il volermi tenere al di fuori di Draco ha un senso… Summer/Astoria non si è minimamente preoccupata che potesse causarmi dei danni seri al cervello, manipolando la mia memoria così. Per difendere la sua identità.

E se sulla strada per arrivare a Draco, trovasse come ostacoli me e Serenity… probabilmente non esiterebbe un momento a farci fuori.

Perché, poi? Che segreto terribile nascondono tutti e due?

Ne ho paura, me ne vergogno, ma la Regina dei Grifondoro, per la prima volta, da quando ha messo piede qui, ha paura davvero.

La mano nei capelli, ricordo anche il malore di Ginny del pomeriggio… la nausea improvvisa ed ingiustificata, proprio mentre parlava di Summer. Mi stava dicendo una cosa e si è interrotta, non riuscendo a continuare.

Quel giorno, al mio risveglio dal coma, mi aveva detto di aver incantato lei Summer, aveva raccontato della biondina acida che continuava a sbraitare sullo stato del suo vestito azzurro. Evidentemente, non era stata Ginny ad incantare Summer, ma il contrario. E l’inconscio della mia amica continuava a suggerirle di dovermi dire qualcosa…

Che Summer era Astoria Greengrass.

Anche Ginny… anche lei… che diamine c’entrava lei? Come ha potuto Harry lasciarglielo fare?

Più vado avanti in questa storia, più ne scopro e peggio è… spero che almeno la rottura tra Draco ed Astoria sia definitiva. Come potrei fingere di non conoscerla ancora?

E lui, Draco… come ha potuto lasciare che mi facesse questo?

Forse sarebbe davvero meglio per me andarmene da qui, stasera stessa.

E non metterci piede mai più…

Appoggio la fronte sul ginocchio, seduta per terra come ancora come sono, e mi ritrovo a singhiozzare senza nemmeno accorgermene. Rimmel sciolto che sporca i miei jeans, lacrime che annacquano i miei pensieri, rendendoli ancora più labili e confusi di come già non fossero.

“Hermione?” qualcuno mi chiama e sollevo il viso, ancora bagnato di lacrime.

Sussulto quando mi rendo conto di chi si tratta e mi asciugo la faccia con la manica della camicia, frettolosamente, convinta di spargere il trucco sciolto per le mie guance. Accidenti a me, mi rialzo velocemente e simulo un sorriso tirato, il migliore che posso fingere: “Hayden…!”.

Mamma mia, devo avere un aspetto orrendo… non a caso, lui mi guarda tra lo spaventato e il preoccupato. Ma non sarà un miraggio?! In fondo, perché altrimenti sarebbe qui, quasi come un angelo provvidenziale? Scioccamente, allungo la mano toccandogli il braccio, accertandomi che sia vero.

Lui sgrana gli occhi giada e sorride: “Che c’è? Pensi che sia un’allucinazione?”.

Arrossisco, ritraendomi su me stessa, la mano piegata in petto, la mente ancora sferzata da confusione e dolore: “Mi sembra così strano… come mai sei qui?”. Mi schiarisco la voce, ancora velata di pianto, e sollevo lo sguardo.

Lui si gratta la testa imbarazzato, prima di dire: “Ammetto di aver violato ogni regola del corteggiamento… insomma dovrebbero passare almeno tre giorni prima di risentirsi, no?”.

Sorrido, miele caldo nella gola: “Non lo chiedere a me… credo di aver sempre ignorato quella tipologia di regole…”.

“Ecco, almeno posso dirti una bugia e dire che, in realtà, ci si rivede dopo poche ore…”.

Sorrido ancora, piegando la testa di lato: “Diciamo che non sei molto convincente… ma sono davvero contenta che tu sia passato…”.

E lo sono davvero, santo Cielo… Hayden ha la pregevole dote di farmi scordare di Draco. Al momento è la cosa migliore che mi possa accadere… come se non bastasse, poi, almeno così posso chiedergli nuovamente il numero. Giuro, stavolta lo incido nella pietra.

“Tra quanto stacchi?” mi chiede velocemente Hayden.

“Credo tra un’oretta… non c’è tantissima gente, oggi…”.

“Bene…” commenta lui con un nuovo sorriso “Ho due biglietti per il cinema all’aperto del parco di Notting Hill…ti piacerebbe?”.

Mi ostino a chiedere che cosa facciano, anche se ho già deciso di andarci, nello stesso momento in cui è comparso qui, davvero come un angelo.

Mi dice che danno I GRANDI CLASSICI e che, stasera, è la volta di “Orgoglio e pregiudizio”, quello del 1940 con Greer Garson e Laurence Olivier… che, per intenderci, è quello che vidi la sera che Dean non tornò a casa, addormentandomi subito dopo.

Decisamente un segno del destino.

Di solito, non cedo alle trappole dell’intuizione… si sa.

Ma, di solito, non vengo nemmeno incantata da una strega per mesi.

Di solito, capisco subito chi ho di fronte, mi basta solo un’occhiata.

Di solito, non origlio conversazioni private, ricavandone segreti inconfessabili.

Di solito, non mento alla mia migliore amica sui miei sentimenti per il mio capo, qualsiasi essi siano.

… e di solito, non penso a Draco Malfoy per tutto il tempo che passo da sveglia, non soffro perché lui sembra non accorgersi di me se non per una superficiale e stupida amicizia, non mi sento schiacciare dall’idea di non vederlo più… e non mi si spezza il cuore se non impedisce ad una Purosangue come lui di giocare con la mia mente.

Di solito, tutto questo non accade.

E di solito, io ora direi ad Hayden che ho da fare, che sono stanca e che sarà meglio fare un’altra volta, celando il mio imbarazzo e la mia timidezza sotto una maschera insofferente e impegnata.

Già, di solito… ma ormai la mia vita è tutta un’eccezione alla regola dei miei di solito… ed ora farei qualsiasi cosa, pur di stare un po’ meglio.

Qualsiasi cosa, pur di smettere di pensare.

Sfodero uno dei miei migliori sorrisi, facendo l’occhiolino ad Hayden: “Sai che c’è? Ora chiedo a Seth se può sostituirmi… ti va di mangiare qualcosa?”.

“Pensavo che non me l’avresti mai chiesto…”.

Sorrido ancora, incamminandomi davanti a noi e rientrando nel Petite Peste.

Draco è a pochi passi da me.

Al bancone che parlotta con Seth.

E, mentre mi avvicino, con Hayden alle mie spalle, e chiedo il permesso a Seth di andare via, ricevendolo in tono entusiasta da quest’ultimo, Draco mi guarda con la sua solita espressione, cristalli di sale lucenti negli occhi plumbei e silenziosi, domande e risposte che non avrà mai.

Mi volto senza guardarlo ancora e vado a cambiarmi.

Lapidaria, ferrea, scolpita, mi si staglia nella mente una sola frase.

Qualsiasi cosa sia, Draco, tra me e te… finisce oggi.

 

 

Ecco il nuovo capitolo, premetto che sto attraversando un periodo di cacca, anche se solo dal punto di vista solamente della scrittura per fortuna! Sono abbastanza demoralizzata nello svolgimento di questa storia, non so se davvero sia bella oppure se poi non sia sto granché quindi spero davvero di riuscire a continuarla e a finirla! Intanto ecco il nuovo capitolo di cui sono parzialmente convinta e che non mi piace tantissimo! Quindi se avete delle critiche mi raccomando, FATELE, mi fanno un sacco bene per migliorarmi!

Passo ai ringraziamenti e alle risposte di rito:

Cygnus Malfoy: la mia carissima e fedelissima Helder! Chissà se lo leggerai questo capitolo, persa nelle colline toscane! J Grazie come sempre dei tuoi commenti, il tuo lui deve essere davvero un bel tipo, specie se assomiglia al mio Draco che è abbastanza lunatico, come hai potuto vedere in questo capitolo! Spero che ti piaccia anche questo capitolo… un bacio!

Rorothejoy: grazie dei complimenti, al momento ci sto per finire anche io dall’analista, considerando quanta carne ci ho messo a fuoco e ora per sistemare tutti gli intrighi, mi sto abbastanza scervellando! Grazie ancora, un bacione!

Giusetta91: chiedo sommamente scusa per il ritardo, ho cercato di aggiornare il prima possibile! Grazie ancora, baci!

Haley_ James: mamma mia,grazie dei tuoi complimenti, anche su L&L! purtroppo non so per quale motivo astruso del mio computer non riesco più ad accedere al forum quindi non ti ho potuto rispondere lì, ma davvero ti ringrazio tantissimo! J Ti do una grande anticipazione (sempre se l’ispirazione mi torna… sob!) nel prossimo capitolo ogni domanda che mi hai fatto troverà risposta! Spero che mi seguirai ancora! Baci!

Seven: la mia carissima Seven; anche a te purtroppo ribadisco la mia incapacità attuale di entrare anche nel mio forum, non so esattamente che cosa sia successo quindi al momento non posso rispondere nemmeno lì! Quindi ti ringrazio qui anche per la recensione che hai fatto all’altra mia Dramione, “The blower’s daughter”, grazie grazie tanto!! Comunque nel caso mi volessi contattare, puoi farlo tranquillamente via EFP e poi provvederò a darti la mia mail! Veniamo come sempre alla tua meravigliosa recensione che, premetto, aspetto sempre con ansia, dato che mi piace molto come scrivi e come mi scrivi! J Credo che dopo gli ultimi eventi il tuo infarto sia notevolmente arrivato…J il momento dello scorso capitolo l’ho riscritto almeno quindici volte, quindi sono contenta che ti sia piaciuto! Draco non lo voglio mai troppo sdolcinato, anzi… in fondo stiamo sempre parlando di uno che ha tormentato la nostra povera Hermione per anni quindi non credo di doverlo mai rendere troppo gentile. Ma sicuramente siamo arrivati ad una sua “capitolazione”, come hai ammesso tu, diciamo che è laprima volta che ammette compiutamente di tenerci ad Hermione, cosa che, se hai letto qui, ha ribadito in questo capitolo nel dialogo con Summer. Però, ecco, non si può permettere di avere Hermione vicina… e questo lo scoprirete nel prossimo capitolo! Infatti, ispirazione ed esami permettendo, nel prossimo chappy saprete tutto, insomma ogni mistero sarà svelato! J spero che mi seguirai ancora in questo turbine di follia! Un bacione enorme!!

Gargi89: grazie enormemente dei tuoi complimenti, spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto! Un bacio!

Vesper: evviva, che bello ritrovarti ancora a recensirmi! Ammetto che amo molto anche le tue recensioni, anche se ogni tanto mi viene il panico di essere effettivamente poco originale nelle mie storie tanto da far intuire tutto, spero che almeno con questo ti abbia sorpreso un pochino! J ti ringrazio dei tuoi complimenti, come delle tue critiche passate, mi raccomando non esitare a farmele se trovassi altre cose che non ti convincono! Il rapporto di parentela tra Draco e Serenity sarà svelato nel prossimo chappy, speriamo che non lo intuisca tu prima!

Grazie ancora tantissimo della recensione, mi ha fatto davvero piacere!

FraFRi95: la mia lettrice doppia! Prima o poi mi farai conoscere la tua mamma! J grazie come sempre dei complimenti, davvero sembra un giallo la mia storia? Eheheh!! Allora con questo capitolo l’ho ingarbugliata ancora di più! Seth è il mio eroe come sempre, tutto il rispetto per Draco ma se non ci fosse Seth, quei due non starebbero ancora a nulla! Sono felice che la mia storia non vi annoi, ce la metto tutta per inserire sempre più colpi di scena quindi per me è davvero una cosa importante! Baci !!

Ginsan89:  ciao! Non ti preoccupare assolutamente per il ritardo, oramai avrai fatto i quiz per la patente! Spero che sia andato tutto bene… ti invidio profondamente dato che ancora non sono riuscita a prenderla! L Draco effettivamente è circondato di donne, ma diciamolo, se lo può permettere! Sbav sbav!!! Di Summer, oggi ho rivelato (parzialmente) l’enigma… restano solo Rachel e la mamma di Serenity, ma nel prossimo capirete tutto! Promesso! Non so esattamente quando arriverà, dato che è abbastanza lungo… e ho anche un esame abbastanza tosto! Spero che avrai pazienza! J un bacio!!

 

Allora un piccolo spoiler, considerando come ho scritto in alcune risposte, che il prossimo capitolo è quello (non finale, però!:P) in cui rivelerò tutta la faccenda che sta dietro a Rachel, Draco, Summer, eccetera, ma non so esattamente quando arriverà essendo abbastanza lungo da scrivere ed avendo anche un esame enorme in mezzo, vi lascio una specie di piccola anticipazione.

Il prossimo capitolo si chiamerà “Forbidden Colours” e prende il nome da una melodia di un pianista, se non erro, giapponese di nome Sakamoto.

È una melodia per pianoforte abbastanza celebre che avrà un ruolo FONDAMENTALE nella risoluzione di questa vicenda. Vi lascio il link qualora vogliate ascoltarla su you tube!  

 

http://www.youtube.com/watch?v=cOX8FhUiw1k

 

Un bacione! A presto! Cassie!

 

 

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Capitolo 21
*** Forbidden colours part I - The name of everything ***


Capitolo 21 – Forbidden colours part I

Capitolo 21 – Forbidden colours part I- The name of everything

 

Nota preliminare dell’autrice: questo capitolo lo dedico a tutte le persone che hanno recensito lo scorso capitolo, specialmente coloro che mi hanno incoraggiato a continuare questa storia, nonostante il mio periodo di “crisi creativa”. È stato grazie a voi che questo capitolo esiste, un capitolo di una difficoltà assurda, ma che mi rende molto fiera di me stessa, per il fatto di averlo portato a termine. Quindi grazie… purtroppo oggi non posso rispondervi uno ad uno, causa studio che mi ha fatto aggiornare in un solo attimo libero, ma davvero ringrazio tutti coloro che hanno recensito, coloro che ancora inseriscono questa storia tra le preferite o le seguite, chi si è iscritto al forum di questa storia e chi ha risposto alla mia discussione, sempre su HAFT, sul forum Dramione per eccellenza, Leather &Libraries.

È grazie a voi che questa storia continua ad esistere e a vivere, grazie a tutti coloro che si prendono una pausa e la leggono, e che mi lasciano anche dei commenti meravigliosi… quindi grazie, davvero, di cuore. Per una persona come me, che si abbatte abbastanza facilmente, è una cosa molto importante… e mi scuso davvero per non poter oggi rispondere a tutti, ma spero almeno di farmi un po’ perdonare con il nuovo chappy, terminato a velocità razzica!

Purtroppo, prevedo che il prossimo aggiornamento dovrebbe arrivare, se tutto va bene, solo per la fine di febbraio. Questo, perché alla fine del mese, ho un esame particolarmente difficile (diritto commerciale, vi ho detto tutto!) e quindi non penso di poter scrivere molto… ma sono nuovamente entusiasta del mio lavoro e di questo devo ringraziare solamente voi…!!!! Quindi, con qualche difficoltà e momento di crisi, continuerò a scrivere questa storia…!!

Premetto una cosa!

NON E’ QUESTO IL CAPITOLO NEL QUALE SCOPRIRETE TUTTO IL MISTERO!

Ve lo premetto in modo che non restiate delusi!

Sarà il prossimo, come avrete capito… di questo chappy, precedentemente avevo in mente solo la fine, quindi credevo di poter tranquillamente spiegare tutto già in questo. Invece mi sono venute delle altre idee e quindi questo si è particolarmente allungato. Specialmente la parte centrale, è nata da sé… spero che vi piaccia lo stesso, sebbene vi faccia penare un altro po’! Ribadisco poi che questo capitolo si chiama “Forbidden Colours” dal nome di una famosa melodia per pianoforte che fa da colonna sonora al film “Merry Christmas Mr Lawrence”. Io non ho mai visto il film, ma conosco questo brano… il link per ascoltarlo è

 

http://www.youtube.com/watch?v=cOX8FhUiw1k

 

Buon ascolto e buona lettura!

 

Il cielo è chiaramente strano oggi.

Sebbene siano già le sei del mattino, il sole non si decide a sorgere, l’aria rimane sospesa, un colore azzurro chiaro e un freddo piacevolmente frizzante, insolito per il mese di giugno. Dalla terrazza di casa mia, osservo indolente i palazzi grigi che mi circondano, le finestre chiuse, le serrande abbassate, le luci delle strade che, lentamente, una dopo l’altra, si spengono, baluginando nei timer di regolazione che prevedono che alle sei precise debbano spegnersi, mettendo a dormire quei solitari abitanti della notte. Poco importa se il sole sia sorto davvero o meno.

Nelle mie lunghissime notti insonni, da quando da tre giorni sono tornata a dormire a casa mia, ho imparato con la stessa facilità con cui imparavo gli elementi di una difficilissima pozione, che il primo ad alzarsi da letto è il proprietario della pasticceria, all’angolo della strada. Si vede una piccola lucina tremolante, che brilla nell’aurora chiarissima, ad una finestra al piano di sopra, poi essa scende nelle cantine, compagna delle mille delizie che il suo portatore inizia a preparare con dovizia e cura. Quando si spegne, so che il sole è sorto, nonostante da dove sono, non lo si veda perché ancora celato dai palazzoni di cemento.

Invece, oggi, il sole non sorge ancora, rimane un’ostinata nebbia che sembra entrare nelle ossa, pronta a frantumarle per l’eccessiva umidità.

Mi chiudo nelle spalle, stringendo tra le mani il mio bicchiere di succo d’ananas, ancora gelido dopo averlo uscito dal frigorifero… dovrei levarmi questa abitudine, specie in giornate fresche come questa. Inoltre, mi ricorda ancora maledettamente Dean.

Ora, nonostante il mio odio innato per il caffè, ne avrei davvero bisogno. Se non altro perché sarebbe caldo, almeno.

Stringo il cardigan rosso di lana leggera, che porto sulla vestaglia bianca di lino, troppo sottile per questa mattinata, e mi passo una mano sugli occhi, stropicciandomeli. Ho sonno, ovviamente, ma come sempre non sono riuscita a dormire, non dormo molto ultimamente.

Probabilmente, non sono più abituata al mio letto. In fondo, dormivo da parecchio al Petite Peste… e quel letto quasi sfondato, con Seth che russa in sottofondo, ora, mi fa sentire il mio come una lastra di cemento. Inoltre, è ancora il vecchio letto a due piazze che dividevo con Dean.

Ora mi sembra enorme e mi fa rigirare come un’indemoniata, innervosendomi.

Ma, chiaramente, non credo che sia solo per questo.

Gratto l’orecchio di Grattastinchi, spuntato da sotto la mia sedia, Ginny me l’ha restituito con sollievo quando le ho detto che tornavo a dormire a casa. Quando, poi, sono al Petite Peste durante il giorno, per adempiere ai miei turni, al mio gatto non dispiace restare a casa da solo, anzi.

Credo che sia una bella novità rispetto a quando viveva con Ginny.

E poi non torno mai troppo tardi… quando ho detto a Seth che era meglio che iniziavo il trasloco delle mie cose dal locale a casa mia, lui ovviamente se l’è presa, obiettando che mancano ancora tre settimane al mio esame. Mettendo il muso, ha detto che, finalmente, ora che Summer e Danny si sono lasciati, avremmo potuto divertirci senza il controllo di quell’arpia.

Gli ho risposto male, dicendo che avevo vissuto anche troppo lì.

Poi, ho ristretto il tiro dicendo che comunque sarei rimasta tutto il giorno e che, a qualunque ora avessimo finito, sarebbe stato meglio iniziare nuovamente ad abituarmi a dormire da sola, a casa mia. Seth, a quel punto, ha accettato mugugnando, sistemando i miei turni in modo tale da avere solo le ore centrali del giorno, preoccupato che tornassi troppo tardi a casa, quindi vado al Petite Peste alle dieci e stacco alle venti.

Seth, poi, mi ha anche aiutato a portare le mie cose a casa, sistemate in ingombranti cartoni che giacciono ammonticchiati nell’ingresso. Li ho lasciati lì, senza disfarli completamente: li apro, esco quello che mi serve e poi li richiudo.

Posso spacchettare tutto ormai.

Ma non lo faccio, chissà perché.

In realtà, penso di traslocare quanto prima. Voglio andare a vivere a Notting Hill.

Indipendentemente dalla vicinanza con il Petite Peste, di cui poco mi importerà di qui a poco, se non nei limiti di andare a trovare Seth e gli altri, è un bel quartiere, abbastanza vicino a casa di Ginny ed Harry, abbastanza vicino al Ministero, abbastanza vicino anche a casa di Hayden.

Io ed Hayden usciamo assieme da una settimana.

Esattamente ogni sera dopo il lavoro.

Come avevo già avuto modo di intuire, è una persona meravigliosa; davvero non credevo che ancora esistessero di persone così, lo stampo deve essere andato perduto dopo aver messo sulla piazza ragazzi come lui. Siamo usciti assieme ogni sera, ed ogni sera mi ha portato a fare qualcosa di differente: dopo il cinema, è toccato ad uno spettacolo teatrale, ad un ristorante pakistano, ad una fiera di prodotti tipici, ad un osservatorio astronomico.

Tutto meraviglioso, certo, ma mai come stare con lui.

Di ogni argomento, ne sa quanto, se non più di me. Gli piace spiegare le cose, te le espone lentamente, con pazienza, senza un’ombra di supponenza. È così evidente che voglia fare l’insegnante nella vita… eppure lo fa, facendoti schiantare dal ridere.

Mi fa sorridere in un modo quasi scemo, perché inizio quando viene a prendermi da casa e termino quando chiudo il portone.

Mi ha presentato suo fratello Nathan, una peste di prima scelta che mi ha imbrattato le scarpe di gelato alla fragola, ma stranamente, con Hayden vicino, sono stata calma e paziente, e non ho messo quel piccolo satanasso su una forca improvvisata, come mi sarebbe stato tipico.

Hayden mi calma dentro.

E solo quando sono con lui, ultimamente, davvero non penso a nulla. E davvero mi sento, perlomeno, serena.

Non ha più provato a baciarmi, ma ha ribadito in diverse occasioni che gli piaccio molto.

Alla mia domanda curiosa sul perché allora non provasse di nuovo a baciarmi, mi ha detto solamente, un velo sugli occhi chiari: “Ti bacerò di nuovo il giorno in cui non avrai sempre il riflesso di un altro negli occhi…”.

Io ho sussultato e me ne sono rimasta zitta.

Io e Draco non ci parliamo da una settimana buona.

Stavolta, sono stata io ad evitare di parlare con lui; credo che abbia anche cercato di venirmi a parlare, ma sono fuggita prima che ne avesse il tempo. Lui non sa che so di Astoria, o perlomeno credo che non lo sappia. Penso che sia ancora convinto che ce l’abbia con lui, perché non mi parla di Serenity.

Oramai non me ne frega più nulla di questa storia.

E non ne voglio nemmeno sapere più niente.

Il vaso di Pandora, di cui ho visto solamente un decimo, sembra così profondo ed agghiacciante che oramai non ne voglio più sapere nemmeno una virgola; mio malgrado, mi sono ritrovata anche ad evitare Serenity per lo stesso motivo. So che lei non c’entra nulla, ma ora come ora, starle lontana mi fa soffrire, mi rende triste, ma almeno non alimenta nuove domande. Accompagnate da nuova rabbia e da nuovo dolore.

La rabbia è l’essere stata manipolata da Astoria, non essermene accorta, non essere stata sufficientemente protetta da Draco, non aver impedito che facesse la stessa cosa anche a Ginny… ed ovviamente non sapere ancora nulla di questa storia, nulla di certo, se non supposizioni.

In un attimo di follia, mentre ancora ci ripensavo, mi sono fatta la lecita domanda se, a questo punto, la Purosangue mamma di Serenity non sia Astoria stessa.

A questo punto, nulla mi meraviglierebbe più, ma non credo che arriverebbe a far del male volontariamente alla sua bambina, come paventava Draco stesso. Oltre che molti altri punti crollerebbero… non capirei perché, andandosene, Astoria non l’abbia portata con sé, fosse anche per tenersi ancora Draco; perché l’abbia sempre ignorata; perché non si facesse chiamare allora mamma dalla piccola e non vivessero tutti e tre come una famiglia felice.

Ammesso e non concesso che Draco sia davvero il papà di Serenity.

E che contenuto avrebbe allora la Promissio gemina?

Se avevano già Serenity ad unirli, a cosa serviva vincolare ulteriormente le loro volontà?

Ovviamente non lo so… ovviamente ci ho anche ripensato, specie quando, entrando in casa la prima volta da settimane, ho trovato la pila di numeri della Gazzetta del Profeta arretrati, di cui avevo l’abbonamento e che erano stati diligentemente consegnati.

Li avevo guardati distrattamente, ricavandone notizie più o meno interessanti, come i particolari della morte di Amos Diggory a causa di un incidente con delle Pozioni non messe in sicurezza, oppure la candidatura di Charlie Weasley ad insegnante di Cura delle Creature Magiche ad Hogwarts; insomma notizie che, bene o male, già avevo saputo da Ginny.

Tranne una.

Mio malgrado, mi ero seduta per terra ed avevo afferrato con due dita la prima pagina della cronaca mondana. In una foto sfavillante e dai contorni luccicanti, sorrideva agitando la mano con eleganza, una bellissima e biondissima Astoria Greengrass. Teneva la mano stretta sul braccio di un’altra mia vecchia conoscenza, Theodore Nott.

Avevo guardato la data del quotidiano e risaliva a qualche settimana prima, quando Summer/ Astoria era ancora saldamente al suo posto al Petite Peste.

Quindi, chiunque fosse la donna del giornale, non era la vera Astoria.

Evidentemente dovevano aver trovato una specie di sostituta, magari una donna compiacente ad assumere Pozione Polisucco per chissà quanto tempo. 

L’articolo parlava del matrimonio dei due, a quanto pare, imminente, delle passate noie sia dei Nott che dei Greengrass per il fatto di essere stati dei seguaci del Signore Oscuro e del loro assoluto ravvedimento. Sì, come no.

Avevo combattuto una volta con Lara Greengrass, la madre di Astoria e di Daphne, durante una retata, a causa di una segnalazione su presunta detenzione di materiale sottratto illecitamente, durante le razzie dei Mangiamorte. Ovviamente lo possedevano.

Loro se l’erano cavata con la restituzione del maltolto, una piccola ammenda a causa della reazione violenta, ma il Ministero era stato molto indulgente. L’ammenda, se l’avevano data, era stato solo perché la reazione dei Greengrass aveva mandato me al San Mungo, anche se per soli cinque giorni.

Quindi, tutto potevo credere, tranne che fossero Mangiamorte redenti. Erano i tipici personaggi su cui aleggiava una netta linea d’ombra, fatta di leggende metropolitane, indizi non risolutivi e prove mai sufficienti; quindi continuavano a vivere tranquillamente, come se non fosse successo niente.

Stessa cosa per la famiglia Nott, con l’arresto e la detenzione dell’unico vero Mangiamorte, cioè l’anziano padre di Theodore.

Avevo cercato di condurre diverse indagini su di loro, cercando di dimostrare che anche Theodore e i coniugi Greengrass fossero Mangiamorte, ma non avevo mai trovato prove sufficienti; alla fine, avevo disposto che fossero sempre controllati, ma avevo abbandonato l’attività investigativa.

Quindi, mi sembra ovvio che sentire che l’innocua Summer Breeze Layton fosse Astoria Greengrass non mi aveva lasciato del tutto tranquilla, specie vedendo che cosa era stata capace di fare a me e a Ginny, senza che ce ne accorgessimo. Dato non trascurabile, era poi che ci aveva incantato solo per non far saltare la sua copertura, non perché avessimo scoperto chissà che cosa. O almeno lo suppongo… insomma, credo che, ricordandomi di lei, se mi avesse cancellato dei ricordi importanti su qualcosa che aveva fatto, sicuramente adesso li avrei recuperati. Invece, al momento, dopo la rottura dell’incantesimo di memoria, sono solamente conscia che sono sempre state la stessa persona, lei e Summer.

Deduco che sia successa la stessa cosa anche con Ginny. Evidentemente, quando la mia amica, convinta che Summer fosse babbana, cercò di incantarla per farle dimenticare la mia emorragia magica, l’algida Principessa dei Ghiacci reagì solo perché Ginny poteva riconoscere in lei Astoria.

Non faccio fatica a pensare che, se avessimo scoperto qualcosa di grosso, probabilmente ci avrebbe uccise e basta.

Mi ero tranquillizzata pensando che comunque adesso era andata via e che, in ogni caso, lasciando perdere l’Incantesimo di Memoria con cui evidentemente era d’accordo, Draco sembrava in grado di tenerla a bada.

Chiudo stancamente gli occhi, forse a tranquillizzarmi è stato maggiormente il decidere di non avere nulla a che vedere con lui.

Non ho paura di Astoria, figuriamoci… ora che so chi è, posso fronteggiarla, ovviamente, qualora ce ne sia la necessità.

Ma credo che questa storia sia stata la cosiddetta goccia che ha fatto traboccare il vaso. Sapere che Draco non è del tutto fuori da delle vicende oscure, da legami con famiglie magiche non propriamente virtuose e inappuntabili, ecco… mi ha fatto ricordare chi è davvero.

Il figlio di Lucius Malfoy e di Narcissa Black, un Serpeverde, un Ex Mangiamorte, eccetera… insomma, tutto il pacchetto mi è di nuovo vivido in testa.

Tutto, assieme alla consapevolezza di non volerci avere nulla a che fare.

Ingenuamente, pensavo che lui fosse cambiato… il fatto di avere una vita babbana, una sorellina, amici… lo vedevo diverso dal Draco che ho sempre conosciuto.

Ora… ricordare come ha cacciato Astoria, la circostanza dell’utilitaristica promessa con lei, i legami ancora stretti con ex Mangiamorte…

È sempre lui, è sempre stato lui.

Io con Malfoy non voglio averci nulla a che fare.

Appoggio la testa sulle ginocchia, era con Draco che volevo averci a che fare.

Mentre formulo quel pensiero, la luce dei sotterranei della pasticceria, all’angolo della strada, finalmente si spegne. Sorrido, vuol dire che il sole è sorto, anche se io non lo vedo. Alcune cose non cambiano mai, come il sole che sorge.

Peccato che sia lo stesso per la vita delle persone. Non si cambia mai.

Distendo pigramente le braccia davanti a me, un trillo familiare che giunge dalle mie spalle. Mi sporgo verso la sdraio, raccogliendo il mio cellulare, un messaggio.

Guardo l’orologio, le sei e mezzo, chi diamine sarà…? Il numero non lo conosco, boh. Sarà quella cavolo di Vodafone con le sue offerte bislacche. Vuole cambiare piano tariffario? Vuole attivare l’opzione YOU&ME? Ma sono single! E vabbè, ce l’avrà una madre, un padre, un fratello, un amico, un conoscente, un vicino di casa, una scimmia centralinista??!!

Giuro che, se è la Vodafone, la mando male, faccio una Class Action e la mando a gambe all’aria!!

Premo il tasto centrale nervosamente, aprendo il messaggio.

Non puoi evitarmi per sempre. Penso che la cosa sia chiara anche a te, qualsiasi sia il motivo per cui lo stai facendo, perlomeno fino a quando sei una mia dipendente... non mi importa il motivo, sei libera di fare quello che vuoi, ma hai un contratto ancora da rispettare, quindi oggi ti voglio al lavoro. Anche stasera se dovesse essere necessario. Spero di essere stato chiaro. Danny.

Getto il cellulare in un angolo, fregandomene che si rompa, anzi magari è la volta buona che me ne compro un altro, getto questa sim, cambio numero di telefono ed anche operatore, in barba alla Vodafone. Firmati anche Danny, tanto sempre Malfoy sei.

Sono tentata di rispondergli con una sequela di parolacce, dicendogli in modo carino e cortese che stasera non se ne parla proprio che resti lì, a costo di prendere la metro alle quattro del mattino. Ma sarebbe dargli troppa soddisfazione, quindi decido di non rispondergli proprio.

Raccolgo il cellulare, il cui lancio ha fatto scappare Grattastinchi terrorizzato, e decido di studiare un po’ prima di andare al lavoro; la cosa buona di questi giorni è che almeno ho quasi finito il programma. Sono abbastanza sicura che almeno questo esame riuscirò a superarlo, brillantemente.

Non ho nemmeno sottolineato una riga che il cellulare forgiato direttamente nelle fiamme dell’inferno, inizia di nuovo a suonare.

Maledizione, ma tutti svegli sono alle sei e mezzo?!!

Premo il tastino verde e borbotto: “Pronto???”.

“Hai avuto il messaggio?” una voce lenta e strascicata, terribilmente annoiata da tutto e da tutti. Immagino persino la piega arricciata delle labbra, il disgusto malcelato per tutto ciò che non ha direttamente a che vedere con la sua persona. I capelli biondi leggermente spettinati, la mano sotto il mento, gli occhi freddi come un eterno inverno. La penombra della sua stanza, non rischiarata da alcun sole mattutino, ma dalla luce onnipresente della luna, anche se è già andata via dal cielo.

Ghermita la mente da scatole di ricordi di donne assenti che profumano di ciliegia.

Mi coglie un brivido lungo la schiena, mi aggrappo allo spigolo del tavolo quasi come se temessi di cadere.

 “Sì…” ribatto semplicemente, cercando di sembrare più fredda possibile.

Si risponde, solitamente…”.

“Credo che fosse un silenzio assenso, Malfoy…” sento soddisfatta la mia voce farsi gelida, come non credevo sarebbe mai stata nel parlare con lui.

“Malfoy…” lo sento constatare asciutto, e il mio cuore manca un colpo.

Alla Granger però consenti che ti chiami Draco, no???

L’ho chiamato Malfoy, senza nemmeno rendermene conto. È stato naturale, come era prima chiamarlo Draco.

Lui, però, se n’è accorto invece.

E chissà come e perché, sento che gli ha fatto male.

Mi mordo il labbro inferiore, mentre il silenzio dall’altro capo del telefono continua, sento soltanto il suo respiro lento, cadenzato.

“Volevo solo sapere se ti era arrivato… odio le cose babbane…” mi congeda velocemente “A stasera, allora, Granger…” e riaggancia.

Resto a fissare il cellulare, oramai muto nella mia mano, la luce arancio che si spegne dopo qualche secondo.

Sarai sempre te… non importa come io ti chiami…

Che tu sia Draco, Malfoy o Danny, non importa… sono solo parole con cui prendo a chiamare l’enorme mistero che sei, sempre, per me…

Ed un nome non fa la differenza, sei sempre la stessa cosa per me…

Sei sempre la stessa cosa sconvolgente e meravigliosa a cui, nonostante tutto, ancora non so dare un nome…

 

 

Che Draco Lucius Malfoy sia sempre stato un sadico bastardo, credo che sia risaputo e noto a tutti.

Ma che lo sia anche il suo alter ego Danny Ryan, è una novità.

Quando arrivo, infatti, al Petite Peste, mi trovo davanti ad una scena alquanto inusuale. Tutti i dipendenti sono nella sala ristorante, la quale è ingombra di cellophane che ricopre le sedie, i tavoli, il pianoforte ed ogni altra mobilia. Per terra, fogli di giornale vecchi, diligentemente posti a ricoprire tutto il pavimento di marmo rosa. Intravedo vicino alla porta dei secchi di vernice e dei pennelli, oggetto di sguardi indecifrabili da parte dei miei colleghi.

Il pub e la discoteca sono chiusi, ed ovviamente non c’è l’ombra di un cliente.

Mi fermo perplessa davanti alla porta dell’ingresso secondario, osservando la scena con una punta di nervosismo frammisto ad isteria.

Non avrà intenzione di…?!!

Seth, che mi sembra l’unico allegro in questa stanza, mi vede e mi raggiunge sorridendo: “Herm!”. Indossa una tuta, modello meccanico, e ha una specie di bandana rossa che gli copre i capelli. Assomiglia vagamente a David Hodo, quello dei Village People che si vestiva da operaio. Cosa che non mi piace affatto, premetto.

“Che sta succedendo, direttore?!” chiedo con sarcasmo, guardandolo storto, alludendo al suo avanzamento di carriera dopo l’addio di Summer/Astoria. Non pensate che sia diventato più responsabile, oppure più attento al lavoro, o più scrupoloso. No. Ha rotto l’anima per diventare direttore solo perché voleva l’armadietto di Summer.

Tipico della sua mente bacata.

Per il resto, si comporta esattamente come prima.

Si dipinge!” trilla lui tutto felice, guardandomi con espressione cuoriforme, a cui corrisponde una scrollata di spalle di April e una mano nei capelli di Trey “Danny ha avuto la meravigliosa idea di ridipingere tutta la sala ristorante! Questo stupido bianco ormai ha scocciato! Ci vuole un nuovo colore… tipo… LILLA!”.

Che cosa hai detto che ha detto Danny?! bisbiglio, già torcendomi le mani, una vena che pulsa incontrollabile sulla mia tempia.

Ecco perché mi voleva al lavoro anche stasera… sicuramente sta cosa andrà per le lunghe, stramaledettissimo Malfoy!

Capisco che le donne cambino colore di capelli quando chiudono una storia, ma lui che scusa ha???!!

Non amava Summer, i suoi capelli sono sempre biondi che io sappia, e le pareti del locale sono più dispendiose dell’idea di tingersi color rosso Weasley!!

Maledetto!! Maledetto furetto!!!

Getterò una maledizione sulla sua stirpe… una gonorrea ereditaria dovrebbe essere sufficientemente dolorosa ed umiliante… per avvicinarsi nuovamente ad una donna, ci vorrà una molteplicità di Voti Infrangibili, altro che la Promissio Gemina con Astoria… non esiste al mondo che io, Hermione Jane Granger, ex Capo degli Auror, eroina del mondo magico, aspirante al Wizengamot, e per ultimo, una semplice cameriera, si metta a fare l’imbianchino! Ce ne ha di soldi, perché non paga una squadra?!!

E poi questa è una chiara violazione dei miei diritti, un destinarmi a mansioni inferiori, non previste nel mio contratto, come recita l’art  2103 dello Statuto dei Lavoratori!! Lo trascinerò in tribunale e lo ridurrò in mutande! Mi pagherà un vitalizio enorme, fino a quando campo! E allora sì, che trascorrerò ogni giorno della mia vita, ricoperta d’oro zecchino, stesa a bordo di un lussuoso yacht, sorseggiando champagne e agitando la mano alla gente accalcata nei porti per vedermi!

Magari, organizzo anche dei tour nella mia villa, non prima di aver stampato dei francobolli con la mia foto… quella del Ballo del Ceppo è la più decente, ma anche una stile DAMA DELL’ERMELLINO di Leonardo andrebbe bene… ovviamente con Malfoy come furetto…

Vengo strappata dai miei deliri di onnipotenza dallo squittio di Seth che blatera come un indemoniato: “Ma stai scherzando?!! Un ristorante lo vuoi fare giallo?!! A sto punto, scriviamo davanti alla porta, Ludoteca, mettiamo anche dei festoni e diamoci al baby sitting!”.

Gail, per nulla intimorita dalla faccia di Seth che tende al violaceo, sentenzia spiritata: “Il giallo porta buone vibrazioni… se vuoi sfruttare l’energia cosmica del sole fino a quando è nella casa dell’Acquario, il giallo è la scelta giusta… altrimenti Sedna scatenerà i suoi tremendi flutti su di noi…” ed agita le braccia verso il cielo, imitando una specie di movimento tribale ed intonando canti propriziatori.

“Sento che sta dicendo qualcosa…” fa Trey, massaggiandosi la tempia con aria drammatica “Ma per quanto mi sforzi, non riesco a capirla…”.

“Idem” asserisce April convinta, per poi completare sarcastica: “Sarà che ho la luna in opposizione…”.

Gail la guarda colpita, sgranando gli occhi enormi e luccicanti, e si avvicina a lei, stringendole le mani: “La senti anche tu, vero?!”. April, terrorizzata, annuisce cercando di compiacerla e contemporaneamente di liberarsi dalla sua stretta.

Vivo in un ospedale psichiatrico, non c’è altra spiegazione.

E in tutto questo marasma, dove sta Malfoy?!!

Ovviamente non è qui!

Almeno fino a quando c’era Astoria, quella incuteva abbastanza timore da farli stare tutti zitti… e alla fine si faceva quello che diceva lei. Avrebbe già abbondantemente ordinato la gradazione giusta di colore, obbligandoci ad imitarla alla perfezione, assoldando anche degli ex gendarmi nazisti per farci eseguire il lavoro meglio di Michelangelo Buonarroti. E poi dicono che la democrazia è una gran bella cosa… la dittatura è la risposta!

E, ora, dato che Astoria è dispersa, la veste del comandante in capo la devo assumere io.

Altrimenti da qui non ne usciamo… il mio primo comando sarà insorgere contro Malfoy, il tiranno, lo schiavista, il despota!

Sarò come la libertà che guida il popolo del quadro di Delacroix!

“Scusate…” inizio, cercando di apparire razionale e decisa “Ma vi sembra normale che dobbiamo essere noi a fare questo lavoro?!”.

Tutti, comprese Lorna che stava fumando bellamente una sigaretta ed April che stava cercando di convincere Gail di non essere la reincarnazione della sacerdotessa Elena di Avalon, mi guardano con aria interrogativa. Dimenticavo…! Il tiranno, lo schiavista, il despota ha plagiato le loro fragili ed inermi menti per convincerli che il solo scopo nella loro miserrima vita, sia quello di servirlo e riverirlo. Come diamine fanno ad adorarlo così tanto da acconsentire persino a ridipingere tutta la sala ristorante?!

D’accordo, le ragazze… lo vedo anche io che… insomma, si sa che… almeno mentalmente me lo posso concedere?!!! Dicevo, si sa che Draco è bellissimo… ma io non lo servirei mai fino a questo punto… ma ammettendo anche la libidine pura per le ragazze e per Seth, ovviamente, che cosa spinge invece i maschi?

Guardo Lawrence e Trey, entrambi che mi fissano quasi scioccati, come se avessi iniziato a sostenere che il sole tramonta sempre ad est e che la Siberia è un caldo ed accogliente paese tropicale.

Una sola parola, credo, riassume perfettamente il loro status mentale: ammirazione maschile.

Già, le sento le loro menti, plasmate dal cromosoma XY, pensare: “Danny è un grande! Guarda che razza di bonazza ha come fidanzata!”, oppure, in tempi successivi: “Come cavolo fa a far sbavare tutte per lui?!e credo che ora pensino: “E’ un mito! Ha persino dato il benservito a quella st****a di Summer! E’ un grande, io l’ho sempre detto!”.

Insomma, sempre libido alla base… libido per le donne di Draco.

E non hanno visto Rachel…

Prima che mi torni il malumore, seguito dalla sfilza di domande consuete (Perché Astoria era qui? Che c’entra Harry con la Promissio Gemina? Di chi è figlia Serenity? E Rachel perché la vedevo così simile a Summer? Cosa c’era da nascondere? Draco è ancora innamorato di Rachel, della mamma di Serenity o di chiunque altra donna che gli vela sempre lo sguardo?) scatto nervosamente dicendo: “Se voi lo fate, non è detto che lo faccio io!”.

Io sono anche in fase di chiusura di rapporto di lavoro, quindi non è nemmeno etico dal punto di vista giuridico!

E poi l’odore della vernice è anche cancerogeno…! Non me lo prendo sto rischio per Malfoy!

“Che succede qui?” quella voce... quella dannata voce

… stesso effetto se succede qualcosa ad Hermione…

… io lotterei per diventare il motivo che cerchi…

Va via perché ti ho baciato, vero?

Semplice… fingo di essere occupato…

Ricordo ogni dannata volta in cui mi ha rivolto la parola. Ogni volta.

Non riesco nemmeno a girarmi e a guardarlo. Non ce la faccio. Abbasso lo sguardo ed ogni mia ombra di decisione che aveva assunto il viso, evapora come nebbia.

Per Seth, April, Lorna, Corinne e persino Gail, si chiama libidine.

Per Trey e Lawrence, si chiama ammirazione.

Per me… non so come si chiama. Ha il nome del batticuore. Ha il nome di un bacio rubato. Ha il nome di un abbraccio che mi mozza il respiro.

Ha il nome di ogni cosa che ora mi rende viva.

Non ha un nome… o, perlomeno, tutti mi direbbero che ne ha uno, ma continuo a pensare che non sia quello giusto.

ma chi ti dice che io non sia già innamorata? Le parole che ho detto a Ginny.

Amore… essere innamorata… non lo è. Credo.

Ma, comunque si chiami, esiste, oramai non riesco nemmeno a convincermi del contrario. Vorrei solo che mi lasciasse in pace, che la smettesse questa cosa assurda di stringermi il cuore, ogni volta che lo vedo.

“C’è qualche problema?” lo sento dire, dietro di me, mentre non riesco ancora a girarmi.

Seth si affanna immediatamente a rispondere: “Nulla, Danny… ci stavamo solamente accordando sul colore da usare…”. Anche gli altri, forse anche per proteggere me, annuiscono convinti.

“Avevo sentito delle rimostranze, no, Granger?” la sua voce diventa più dura e tagliente mentre si rivolge a me. Granger.

Hai ragione, fa male. Molto male. Forse se non avessi mai saputo che cosa significava sentirmi chiamare per nome da te, non avrei mai saputo che male facesse.

Rassegnata, sono costretta a girarmi per guardarlo in faccia.

Bellissimo.

Oggi è stranamente più bello del solito, santo cielo, sarà che quando mette qualcosa di azzurro, i suoi occhi risaltano come luci opalescenti, saranno i capelli che lascia liberi e spettinati sul viso, sarà il torace scolpito che risalta sotto la camicia aperta per i primi tre bottoni, sarà qualsiasi cosa… ma non riesco a smettere di guardarlo.

Cosciente, però, di stare facendo decisamente una pessima figura, mi affretto a ritornare in me.

“Non ho fatto rimostranze…” mormoro in un sussurro sotto lo sguardo scioccato degli altri, Seth per primo, che credevano che avrei dato vita ad un siparietto comico degno di Gianni e Pinotto. Ed invece li ho sorpresi con questo stupido silenzio imbarazzato.

Draco sbatte gli occhi un paio di volte, poi dice solamente: “Bene… credevo di aver capito il contrario, Granger…”.

“Non preoccuparti…” sussurro ancora, voltandomi e dandogli le spalle fino a quando lo sento uscire.

Sospiro, stringendo i pugni, qui non si può andare avanti così.

“Herm” mi chiama gentilmente Seth, toccandomi la spalla “Come va? Tutto bene con Danny? O meglio… va peggio del solito?”.

Sorrido, cercando di tranquillizzarlo, ma non riesco a dire null’altro, come se mi avessero sigillato le labbra cucendole assieme. Nemmeno se mi puntassero un’arma contro, riuscirei a dire qualcosa. Le parole sono diventate così vane, inconsistenti, inutili, quando si tratta di Draco.

È come tentare di spiegare ad un cieco cos’è il mare, utilizzando solo parole. È impossibile.

Fossi anche Emily Dickinson, comunque non ci riuscirei. Fiorirebbero metafore, similitudini ed ogni sorta di figura retorica, ma sarebbero sempre false e riduttive.

Ed anche se quelle parole, per pura genialità, fossero giuste e perfette per quello che voglio dire… non sono in grado di metterle una dietro l’altra, per formare un senso compiuto… che non c’è, mai, tra me e Draco.

Ed anche qualora ci fosse, non mi sento di condividerlo con nessuno.

Non ho bisogno delle definizioni altrui che mettano nella loro giusta prospettiva quello che sento dentro.

Ho bisogno solamente di non pensarci, nella frustrazione di una cosa ineffabile e inesprimibile.

Strano per me, che ho sempre diligentemente categorizzato la mia vita, le mie sensazioni, i miei sentimenti, in classi ben precise… non nego che lo sia, strano intendo.

Ma oramai non mi sembra più tale, sono rassegnata a questo sentirmi sempre impotente davanti a questa… cosa.

Cerco di andare avanti ugualmente, un passo davanti all’altro, senza fretta, sperando che passi.

Sperando che passi… le unghie delle mani, strette a pugno, si conficcano nella carne tenera, quasi lacerandola.

“Sto bene, Seth…” mormoro alla fine, guardando il mio amico preoccupato “Alla fine, imbiancare questo posto sarà una bella distrazione da quella massa di mocciosi urlanti che escono da scuola… oggi è l’ultimo giorno, no? Starebbero tutti qui, a bere frullati… quindi meglio tenere chiuso e fare qualche altra cosa…”.

Seth non mi sembra ancora del tutto convinto, ovviamente. La mia è un’ingiustificata resa su tutti i fronti. Che diventa giustificata solo se la si collega all’entrata di Draco.

Questa è una cosa che ovviamente sconcerta tutti, da Gail che rotea gli occhi scuri, mormorando frasi incomprensibili a Trey che assume un’aria compassata, accompagnata da borbottii, orrendamente simili a: “E’ un grande! Non c’è niente da fare…”, per arrivare a Lawrence che scrolla il capo incredulo.

Accidenti a loro!

Alzo la voce, dicendo: “Il lilla e il giallo sono fuori questione, comunque…” e, per fortuna, la mia obiezione distrae le loro menti da me, dato che iniziano a battibeccare come bambini del asilo, urlando tutti i colori dello spettro della luce.

“Io direi un bel rosso fragola…” biascica Corinne, agitando le braccia “Fa molto effetto, locale di Parigi…”.

“Vuoi dire postribolo di Parigi…” sputo fuori avvelenata, guardandola storto, è la volta buona che mette su una bella attività redditizia.

“Nero… e disegni argento…” asserisce convinta Lorna, stiracchiandosi sullo sgabello e ravviandosi i capelli scuri “Almeno la smettiamo con questa finta aria ipocrita da borghesia arricchita…”.

Sbuffo: “Infatti… basta borghesia arricchita… diamoci agli spacciatori! Gente di alto borgo che avrà sempre soldi per pagare… quel mercato non va mai in crisi, vero, Lorna?!”. Lei incrocia le braccia con noncuranza, tacendo finalmente.

“Di fronte a queste alternative, ammetterai che il lilla è la scelta migliore…!” rimugina Seth, guardandomi con espressione afflitta “Ma cedo anche se parliamo di un bel rosa cipria…”.

“Ma non ne conosci di colori normali?!” chiedo infastidita, le mani sui fianchi “Secondo me, nonostante tutto, il bianco è la soluzione migliore…”.

“Anche per me…” borbotta Lawrence, scuotendo il testone.

“Idem per me…” annuisce Trey, scrollando le spalle “La bambolina ha ragione…” e mi scocca la solita occhiata da pseudo Casanova dei poveri.

Simulo un falsissimo sorriso e replico: “Grazie Trey…! Non dimenticare questo tuo enorme affetto per me il giorno in cui ti castrerò con delle cesoie arrugginite…”.

Trey si porta le mani sui gioielli di famiglia, presagendo il dolore: “Non parlo più, bambol… volevo dire Hermione!”.

Sorrido benevola: “E tu, April?”.

Lei alza gli occhi al cielo: “Avevo pensato al verde acido, ma mi rassegno al beneamato bianco, portatore del silenzio di Seth…”.

Sorrido complice, a volte la democrazia funziona allora!

“Quattro voti!” esclamo allegra, agitando la mano “Quindi vince il bianco… al massimo ti concedo una tenue sfumatura di beige, Seth…”.

“Monotono…” mormora lui inconsolabile “Il lilla poteva essere la botta di stile di questo locale…”.

“Come no… la botta finale all’immagine di questo posto, già abbastanza in decadenza…” mugugno, legandomi i capelli ed infilandomi sopra i vestiti una delle tute da lavoro che giacciono ammonticchiate in un angolo. Completo il tutto con una bandana, ricavata da una mia vecchia sciarpa rossa che avevo lasciato di sopra.

Ovviamente la questione non finisce qui…

Avete idea di quanti tipi di bianco esistano?! No, ovviamente… voi gente normale veleggiate nella vostra esistenza, senza aver bisogno di questa superflua informazione.

Seth Green, invece, le conosce perfettamente! Tutte! Inizia infatti a sventagliare una vasta scelta di opzioni tra bianco perla, bianco crema, bianco-grigio, bianco segnale, bianco alluminio, bianco puro, bianco traffico, bianco papiro… non ho parole, e io che avevo detto bianco per far finire le sue discussioni!

Dopo aver finalmente scelto il bianco crema, non prima di una serie infinite di discussioni, finalmente iniziamo a dipingere, ma anche questa operazione si rivela abbastanza difficile: non soltanto non siamo degli imbianchini, non soltanto abbiamo una sola scala scassata, non soltanto fa caldo, cosa che alla fine ci fa gettare le tute all’aria e lavorare con i nostri vestiti consueti, no. Aggiungiamo anche Lorna che fa tre pennellate ed inizia ad accusare un feroce mal di testa e se ne scappa fuori, Corinne che inizia a litigare con il suo fidanzato tatuato via cellulare e Gail che erge un altare di fortuna alla dea Sedna per propiziare la scelta del bianco invece del rituale giallo.

Quindi il vero lavoro, oggettivamente, lo stanno facendo Trey e Lawrence, dato che per Seth ogni scusa è buona per abbandonare, tirando anche in causa la cromoterapia e la connessione con il divino, a cui si arriva con la gradazione violetta. Quando Gail giustamente, e per la prima volta vorrei baciarla, dice che lo stesso risultato si raggiunge anche con il bianco, Seth riprende a pitturare ma con aria moscia, quindi ogni sua pennellata deve essere ripassata da me ed April.

E, a parte lo sforzo, siamo entrambe abbastanza basse per non raggiungere ogni punto.

Dopo un’ora, quindi, non siamo ancora a nulla, mentre iniziano a farsi sentire i morsi della fame, considerando che è l’una passata. Io, April e Gail ci accasciamo sul pavimento, mentre Seth borbotta assieme a Trey e Lawrence. Lorna e Corinne, ovviamente, sono fuori a fumare, accusando un’improvvisa claustrofobia.

Stramaledetto Malfoy!

Ma adesso lo chiamo e ci viene ad aiutare, me ne frego! L’avuta lui questa bella idea ed adesso lo tiro dentro, al diavolo! Mi violento psicologicamente e ci parlo, anzi… che parlo, alla fine è ininfluente parlarci… lo scotenno… ecco, così nemmeno mi imbarazzo…!

Attraverso la sala con passo marziale, diretta di sopra, ma mi fermo ai piedi della scala, attirata da un’ombra nell’ingresso principale.

“Hayden!” sorrido, riconoscendolo e correndogli incontro.

Lui, finalmente, mi intravede nella semioscurità e mi viene incontro, il solito sorriso meraviglioso sul volto abbronzato. Come sempre, mi tremano le ginocchia e mi chiedo che diamine ci trovi in una come me, basta che accenda gli occhi verdi e potrebbe sciogliere anche una distesa artica.

Eppure, ha un’aria così serena e rilassata che non incute alcun genere di timore reverenziale oppure imbarazzo, cosa che tendenzialmente capita con i bei ragazzi, tranne che con lui. La mia prima impressione su di lui, effettivamente, si è rivelata corretta, non è minimamente consapevole di quanto è carino, quindi non vi dà peso. Non a caso è sempre vestito in modo semplice; infatti, oggi porta una T-shirt verde smeraldo ed un paio di comodi jeans larghi. Nella mano destra, regge un busta di plastica bianca.

“Ciao Herm!” mi saluta, dandomi un buffetto sulla guancia, poi nota che ho il viso sporco di vernice e ride: “Ma non eri una cameriera tu?”.

“Non mi far parlare, per favore…” ringhio tra i denti, poi chiedo, inclinando la testa: “Che ci fai qui?”.

“Ero venuto a trovarti… e a proporti una pausa pranzo a base di panini con tacchino e salsa Worcester… non la adoravi tu?!” e scoppia a ridere, ricordandosi la mia storia del felino di Worcester. Ovviamente non con particolari magici, credo che allora avrebbe riso anche di più.

“Smettila!” rido a mia volta, dandogli una lieve gomitata nelle costole “Accidenti a me che te l’ho raccontata! E comunque non posso! Adesso devo…”.

“… adesso Hermione deve lavorare…”, sobbalzo, una voce dalla sommità delle scale. Quella voce.

La sola voce che ha il potere di bloccare il mio cuore, di gelarlo e di intrappolarlo tra le mie costole, come un uccello in gabbia, a cui nega crudele l’ossigeno.

La sua voce. Solo la sua voce.

Se poi mi guardasse, lo soffocherebbe il mio cuore… e se mi toccasse, semplicemente lo ucciderebbe.

Mi ucciderebbe, centinaia di schegge perse nel vuoto.

Draco. Solo lui.

Lo guardo scendere le scale piano, con lentezza, lo sguardo puntato su Hayden. La mano scorre leggera sul corrimano, lui, sempre il Principe delle serpi, il nobile, il sovrano di tutta la terra che lo circonda, che guarda sempre noi come servi indegni. Sono dardi in fiamme i suoi occhi su di me e Hayden, come sempre, saturi del rancore e dell’odio che ha sempre nel sottofondo delle sue iridi, quando mi guarda. Si socchiudono in due fessure, mentre si avvicina, e si ferma sull’ultimo gradino, le braccia conserte, in attesa di una spiegazione.

Ed ancora… io non riesco nemmeno a guardarlo. Cosciente solo della sua presenza, mi sgretolo, sabbia forgiata nelle fattezze di una persona.

Ha calcato il mio nome con decisione, forte, staccandolo dal resto della frase, come se non stesse parlando con Hayden… ma solo con me.

Sebbene mi costi ogni cellula del mio corpo, impegnata ad urlare dentro di me perché non lo faccia, finalmente riesco ad alzare il viso e a sibilare, gli occhi nei suoi: “Lo so, Danny… infatti, non stavo andando via…”.

“Mi era sembrato…” commenta ovvio, scendendo l’ultimo gradino e fermandosi accanto a me. Ancora non degna Hayden di uno sguardo.

Lui, accanto a me, si agita a disagio, probabilmente sentendosi di troppo.

Hayden sa di Draco, ed è un pensiero che mi tramortisce in un attimo, come una botta in testa che mi annebbia la vista e la capacità di connettere.

Sa che provo qualcosa per lui… anche se non so cosa.

Ti bacerò di nuovo il giorno in cui non avrai sempre il riflesso di un altro negli occhi…

Come un’onda di insperato coraggio, mi colpisce quella frase, sferzandomi d’energia e di forza, assieme a residuo orgoglio.

Io non sono quella che se ne sta qui di fronte a lui, abbassando gli occhi e mugugnando, in preda alle tempeste emotive.

Non sono questa persona… mai… qualunque cosa io provi per Draco e per Hayden, non sono questa persona.

Non sono proprietà di Malfoy, ma tantomeno sono la ragazza di Hayden. Eppure, oggi la parte che abbraccio, è chiara.

Non voglio che Hayden stia qui… davanti a me e Draco…

Non voglio che stia qui, a pensare chissà che… non se lo merita. Non si merita che Draco gli faccia pensare chissà che.

Sollevo lo sguardo, ostinatamente rivolto verso il basso fino ad ora, e guardo esclusivamente Hayden: “Ma se non hai nulla da fare, potresti anche darci una mano… te ne intendi di pittura?”. Draco, accanto a me, si muove leggermente, forse trasale, ma non lo vedo in viso, gli do ostinatamente le spalle.

“Non ne capisco nulla…” sorride Hayden, un sorriso chiaro ed aperto, credo più per il fatto che abbia finalmente aperto bocca e per invitare lui, che per la prospettiva di passare una mattinata estiva a pitturare un ristorante “Ma credo di essere meglio di te… non che ci voglia molto, comunque…”.

Sorrido a mia volta, ignorando ancora Draco: “Ok, allora la prendo come una sfida…”.

Stringo la mano attorno al polso di Hayden, gettando un’occhiata in tralice a Draco che se ne sta praticamente immobile a fissarmi, per poi sorridergli fintamente: “Vedi, Danny? Tutto a posto… la mia etica professionale è ineccepibile, non solo resto a lavorare, ma rimedio anche un aiutante…”.

Lui non risponde, il viso pallido più del solito, chiazzato di rosso sugli zigomi, le labbra contratte in una smorfia infastidita, mentre io mi trascino Hayden dietro per il polso.

Credo che, se fossi fatta di carta, mi avrebbe già incendiato solamente con lo sguardo.

Eppure, resta indietro, non mi segue prendendomi ad insulti… lo sento salire le scale, a due a due, allontanandosi furibondo.

Strano, decisamente strano.

Appena varco la porta della sala ristorante, sento un applauso scrosciante, mi ritraggo quasi spaventata.

I miei colleghi di lavoro applaudono a tutto spiano, Seth per primo, che ha quasi le mani dell’amato color lilla.

Hayden mi guarda ancora, non capendo, inarcando un sopracciglio, e nemmeno io ci capisco granché, persino Lorna e Corinne sono rientrate e battono le mani sorridendo. Ma saranno scemi? Che hanno da applaudire?! Poi, un pensiero. Hanno sentito tutto.

Scoppio a ridere, la mano ancora in quella di Hayden, questi sono proprio pazzi.

Faccio un buffo inchino, immediatamente seguita da Hayden che, alla fine, ride anche lui.

Trey, in piedi sulla scala, sbracciandosi in modo decisamente pericoloso, urla: “L’ho sempre detto che la bambolina è una grande!”.

 

 

“E’oro puro… non te lo far scappare…” mi sussurra complice April nell’orecchio, fingendo di star prendendo un tovagliolo nel nostro picnic improvvisato. Le sorrido velocemente, arrossendo lievemente, calore diffuso che mi prende le guance: “Non è come pensi comunque, April… insomma, mica stiamo assieme…”.

Lei sorride ancora, sussurrandomi ancora per non essere sentita dagli altri: “Vero… ma è un bel tipo, no?”.

Decisamente…” sorrido come una cretina, guardando Hayden, impegnato in una conversazione epica con Lawrence sulle quesilladas messicane e su come perdano un botto, se non ci metti il chili originale messicano. È la quinta conversazione di tenore completamente diverso che sostiene nella mattinata, ed è arrivato all’una e mezzo.

In un’ora, ha aiutato enormemente nel lavoro di pittura, riuscendo anche ad elaborare una soluzione per conciliare le velleità artistiche di Gail e Seth rispetto al progetto immacolato della parete. Ha pensato di fare dei disegni stilizzati di farfalle, piccole, dal corpo giallo e dalle ali lilla che rompessero ogni tanto la evidente monocromia della superficie bianca. Per il lavoro che abbiamo già portato a termine, circa metà del ristorante, ne sta uscendo una cosa spiritosa, in accordo con tutto lo stile del Petite Peste.

Ma, cosa decisamente più importante, almeno Seth e Gail stanno lavorando, allegramente.

Dipingendo, Hayden ha intrattenuto una conversazione sul movimento punk e su Cid Vicious con Lorna, costringendo anche lei a dipingere, per ascoltarlo meglio.

Con Trey, ha intavolato una lunga discussione sulla musica dance anni 80 e su come sia la capostipite della nostra musica.

Poi è stato il turno di April e della legge per la conservazione dei beni culturali che i laburisti hanno approvato a marzo.

Ha persino scambiato banalità con Gail sulla orbita di Nettuno e con Seth sui danni da lampade solari.

Ovviamente, con Corinne non ha spiccicato parola, cosa al contempo consolante, perché avrebbe determinato una sua evidente affinità con la stupidità di quell’oca, ed impossibile, se lei lo guardava con la bava alla bocca, anche se non capiva una parola di quello che diceva.

Alla fine, ora, ci siamo seduti per terra e stiamo mangiucchiando panini come pausa.

È decisamente perfetto. Non c’è nulla da fare.

Mentre ascolta Lawrence e le sue rimostranze culinarie, mi getta un’occhiata per poi farmi un occhiolino, a mo di saluto. Sorrido, arrossendo.

È troppo carino! Mamma mia!!!

Seth gattona nella mia direzione, eccolo là… sollevo gli occhi al cielo, ovviamente qualcosa deve dirmela anche lui. Si accomoda vicino a me, sbocconcellando distrattamente un tramezzino e facendo l’indifferente. Si aspetta che dica io qualcosa, ovviamente.

“Che c’è?” chiedo nervosa, guardandolo di sbieco. Non mi piace questo mio stare tra lui ed April, come in un silenzioso e sussurrato interrogatorio.

Decisamente carino, brava Herm!” sussurra ancora mangiando, spargendomi briciole addosso che scuoto con energia: “Finisci di mangiare almeno, potevi anche rimandare la rassegna stampa…non mi sarei offesa, mica!”.

Seth finisce diligentemente di masticare, per poi bisbigliare ancora, la faccia atteggiata ad una smorfia: “Ma Danny è meglio!”.

Rischio di strozzarmi con il panino, attirando l’attenzione di tutti, compresa quella di Hayden che si interrompe dal parlare, per dire: “Piano Herm! Non sapevo che avessi così fame!”.

Arrossisco furiosamente, stavolta di rabbia, e fingo un’espressione colpevole di fronte al mio inesistente accesso di voracità, fino a quando Hayden riprende a parlare con Lawrence. Inesorabile, la mia mano raggiunge il fianco di Seth, scoccandogli un pizzicotto talmente forte che credo di avergli rotto qualche capillare.

“AHIA!” urla Seth, interrompendo ancora le altre conversazioni. Rido nervosamente verso Hayden che credo che a breve lascerà la stanza, preoccupato dalla mia salute psicofisica, e roteo l’indice sulla tempia, facendo chiaramente intendere che è della salute psicofisica di Seth che dovremmo preoccuparci tutti.

Hayden sorride ancora e riprende a parlare.

“Ma sei proprio fissato con Danny, Seth!” farfuglia April, abbassando la testa per coprirsi mezza faccia con la frangia “Arrivasse qui Antonio Banderas e ti proponesse una serata di sesso in equilibrio su un pianoforte, e te comunque frigneresti dicendo che Danny è meglio!”.

“Perché proprio il pianoforte?!” chiedo ridendo.

Ce l’ho davanti e quello mi è venuto in mente…” scrolla le spalle April, soggiungendo ispirata: “Anche se deve essere scomodo…”.

“E rumoroso…”.

Ma in Pretty Woman lo fanno!” medito io, ricordandomi la scena del famoso film “E premono solo qualche tasto…”.

“Per come lo farebbe Seth specie con Danny, si romperebbe tutto il pianoforte, altro che qualche tasto…”. April scoppia a ridere, subito imitata da me, e alla fine anche da un contrariato (e trasognato alla fantasia del pianoforte) Seth.

Gli altri ormai rinunciano a dedicarci attenzione, comprendendo che siamo irrecuperabili, Hayden scrolla la testa sorridendo ancora.

“Comunque, pianoforte a parte, non puoi negare che il mio teorema sia esatto…” riprende Seth con espressione compita “Insomma, Hayden ha sicuramente quell’aria da cucciolo indifeso che…”.

“… che ti fa venire voglia di immergerlo in una vasca da bagno, ricoprirlo di schiuma, e poi…” fantastica April, in una serie di bisbigli sovraeccitati.

“April!” inveisco scandalizzata, arrossendo e portandomi le mani inconsciamente sul viso.

“Sì, sì, qualcosa di simile…” continua Seth, per nulla sconvolto, come se April avesse degnamente finito il suo pensiero “Ma insomma… Danny è Danny…”. E stavolta l’aria di chi si sta facendo fantasie a tutto spiano l’assume lui.

“Interessante teorema, Seth…Danny è Danny… come ho fatto a non arrivarci io?” commento, roteando gli occhi.

“Intendo dire, se mi facessi finire…” sbotta Seth, guardandomi male e distendendo le braccia dietro di sé “… che non puoi negare che Danny ti dà proprio l’idea di maschio… quello che ti sbatte al muro, insomma…”.

“Seth!” mi tappo le orecchie, ma come stanno perversi oggi?!!

“Bisogna ammettere che ha ragione, comunque…” asserisce convinta April, addentando un pezzo di mela “Danny ti dà proprio quell’idea, deve essere uno molto passionale…”. Li guardo entrambi scandalizzata, ma che razza di pensieri si fanno?!!

“E poi adesso che Summer ha preso il volo è anche libero!!” batte le mani entusiasta Seth “Potresti sempre farci quel benedetto pensierino che ti suggerisco di fare da mesi, Herm…”.

“E dalle, Seth! Io non mi faccio nessun pensierino! E non bramo nemmeno essere sbattuta al muro! Non è una mia fantasia ricorrente… meglio la vasca da bagno piena di schiuma…!!” sbuffo infastidita, alzandomi in piedi e chiudendo la conversazione con un sorriso malizioso, o finto tale, dato che dubito di farne uscire uno decente.

Annuncio di andare in bagno a lavarmi le mani e percorro la sala con passo cadenzato e sicuro, da donna che sa esattamente cosa e chi vuole, specie dopo la conversazione alla Sex and The City che ho appena avuto con quella specie di erotomani. Quella stessa andatura, alla Carrie Bradshaw a spasso per la Grande Mela mentre ammicca ad ogni uomo minimamente vicino a lei, diventa una mezza corsa alla Hermione Jane Granger, sempre così bambina da fare la disinibita a parole, mentre poi mi imbarazzo come una quindicenne davanti ad un film a luci rosse.

Appena uscita dal ristorante, vogliosa di acqua fredda che mi rinfreschi il viso in fiamme, corro quindi in bagno.

Non vado di sopra per paura di incontrare Draco, al momento non so come stia dopo aver invitato Hayden a fermarsi. Probabilmente sta fabbricando una bambola voodoo con le mie sembianze, sembrava abbastanza arrabbiato…chissene…

Ma diciamo se lo evito è meglio, almeno fino a quando la mia fantasia, liberata dalle parole di Seth ed April, se ne ritorna a cuccia.

Corro quindi nel bagno di sotto, apro il rubinetto e vi porto le mani chiuse a coppa, gettandomi l’acqua ghiacciata sul viso. Mi sento immediatamente più calma e ritemprata di prima, almeno potrò affrontare le prossime ore senza la faccia sconvolta da pensieri lussuriosi. Accidenti a loro, sempre alla mia vita sentimentale stanno pensando!

Raccolgo l’asciugamano, passandomelo sul viso con energia.

Muschio bagnato nel mese di settembre.

“Non pensare di poter fare questi giochetti con me, Granger… ti ricordo chi sono… tu ne avresti sempre la parte peggiore…”.

Rabbrividisco su me stessa, forse la mia mente mi sta giocando brutti scherzi, a furia di fantasticare in modo poco pudico.

Sollevo gli occhi verso lo specchio di fronte a me e vedo distintamente dietro di me lo scintillio irato e furioso degli occhi di Draco. È dietro di me.

È fermo alle mie spalle, le mani chiuse a pugno lungo i suoi fianchi, furioso. Le labbra sono ormai ridotte ad una fessura minuscola, contratte e strette. Ha ancora le guance stranamente rosse, e i suoi occhi sono come due spade puntate alla mia gola, acciaio fuso dall’ira.

Poggio l’asciugamani a posto e ribatto, girandomi, con voce assolutamente incolore: “Non capisco di che stai parlando…”.

“Lo sai perfettamente di che cosa sto parlando!” inveisce lui, allora, la sua voce che mi fa accapponare la pelle, mi ha praticamente urlato contro.

Non aveva urlato nemmeno quando aveva rotto con Astoria, nemmeno allora. La sua voce era rimasta un flebile sussurro d’odio, era calmo, serafico, come se stesse parlando del meteo. Ora no… come se avesse perso il controllo… rido amaramente nella mia mente… come dimenticare? La sola che gli fa questo particolare effetto, voler gettare l’intero universo nell’inferno, sono io.

L’odio, che spesso gli rievoco dal nostro passato, facendo qualcosa che lo infastidisce, è più forte di ogni cosa che provi. È atavico, puro, senza ragione. È dirsi probabilmente nella sua mente: “Che cosa mi aspetto dalla Granger, in fondo?!”.

È anche facile.

Perché, di fronte al nostro presente legame incomprensibile, la suprema certezza dell’odio che ci ha sempre unito, è come un salvagente in mezzo alla tempesta.

In fondo, sarebbe più facile così, anche per me.

Sospiro, ritrovando un incomprensibile tremore delle mie labbra, incomprensibile alla facilità dell’odio… ma che diventa ovvio nella tempesta che mi scuote dentro.

“Davvero… non lo so…” rispondo senza energia, guardando altrove, sfuggendo ai suoi occhi.

Odio i suoi occhi, li odio quando mi guarda così… cieco di furia, come se non mi vedesse nemmeno.

Un spostamento repentino d’aria, un dolore fulmineo e bruciante alla schiena. Sbatto le palpebre un paio di volte, sono contro la parete. La tipica persona che ti sbatte al muro. E’ ad un respiro da me, le mani sul muro alle mie spalle, poco sopra la mia testa, bloccandomi.

Resta a testa bassa, i capelli che gli coprono gli occhi, il suo corpo vicino al punto tale che ne percepisco il calore, irato e nervoso. Se allungassi una mano, arriverei agevolmente a toccargli il torace, compatto, liscio, sotto la camicia azzurra. Scrollo il capo a quel pensiero, cercando di apparire calma e padrona di me.

Ma quando solleva il viso e mi ritrovo i suoi occhi addosso, non riesco a sostenere il suo sguardo senza arrossire. Volgo ancora il capo a destra, sfuggendogli.

Una mano fredda, la sua mano, mi afferra per il mento, costringendomi a guardarlo in viso: “Guardami in faccia, Granger…” mi minaccia nella voce tornata calma.

Alzo il mento altezzosa, per quanto me lo consenta la sua presa d’acciaio, piccole lacrime di impotenza che pizzicano nei miei occhi.

La sua mano ricade lungo il fianco, si allontana per quanto lo consenta la lunghezza del suo braccio teso, la mano ancora appoggiata sul muro ai lati del mio viso.

Per un attimo, mi perdo ascoltando il suo respiro veloce che mi accarezza tiepido il viso, ipnotizzata come la vittima di un serpente.

Guardo il ciuffo solito di capelli che gli sfiora la fronte, e mi chiedo arrossendo come sarebbe spostarglielo con le dita, mentre dorme vicino a me, esausto, dopo aver fatto l’amore. Dischiudo quasi senza accorgermene le labbra, non accadrà mai, ed è un cupo rumore sordo nelle mie orecchie, un tonfo nel cuore, uno spasimo inconsapevole nel petto, come un vuoto d’aria. Con violenza, un groppo in gola, cerco di mantenere gli occhi asciutti.

Sento le sue mani chiudersi a pugno, mentre riprende a parlare tagliente: “Posso sopportare che non mi parli… che non mi guardi… posso anche sopportare quella maledetta aria da regina che hai sempre…  la superba regina di ogni cosa che tocca con lo sguardo e per cui sono meno di niente… sai questo, posso anche sopportarlo… in fondo, anche se non hai motivo alcuno per fare l’altezzosa, non me ne frega niente…” la testa reclinata in basso, si alza, portandosi a tiro dei miei occhi, ancora più vicino a me, mentre continua: “… ma che tu faccia stare quel tipo qua, giusto per punirmi in qualche contorta maniera, … questo è davvero idiota…”.

Autenticamente sorpresa, sgrano gli occhi per qualche istante. Cerco immediatamente di riprendermi, rispondendogli: “E’ talmente idiota come cosa, che non hai nulla di meglio da fare che stare qui a rompermi le scatole…”, incrocio le braccia, sbuffando: “Inoltre, potresti anche lasciarmi, invece di tenermi bloccata così… ti sento lo stesso, mio malgrado…”. È decisamente meglio che si allontani.

“Mi dispiace, Granger… hai la leggera tendenza a sfuggirmi di mano… cosa alquanto irritante… quindi molto meglio che ti tengo così, almeno fino  a quando finisco di parlare…” aggiunge ovvio, abbassando lo sguardo su di me, poi si illumina per un secondo e sorride malizioso, arrossisco ancora non capendo, finché bisbiglia: “Anzi… se lo voglio davvero finire questo discorso, devo trattenerti di più di così…”.

Piega verso l’interno le braccia, ancora appoggiate al muro, e così facendo, si avvicina ancora di più a me, se mai era possibile. Ormai sfioro il suo viso con il naso, il suo respiro mi brucia le labbra. Cerco di indietreggiare di più, ma non ce la faccio ovviamente. Il cuore mi rimbomba nelle orecchie, impazzito, frastornandomi. Basta che mi muovi anche di un solo centimetro e le mie labbra sfiorerebbero le sue. Resto con il viso basso, sperando che non me lo sollevi ancora.

“Adesso va meglio… non devo nemmeno alzare la voce…” sussurra ancora sulle mie labbra, un fremito incontrollabile mi mozza il fiato, non facendomi nemmeno intendere che cosa stia dicendo, come se stessi traducendo una lingua sconosciuta e avessi bisogno di qualche secondo per capire le sue parole.

Nella testa, grido che mi baci ancora. Grida il cuore, grida la pelle, gridano gli occhi, gridano le mani, tutto di me stessa grida e si contorce.

Riprende, la voce ora soffice, soffusa, roca: “Hai fallito miseramente se credevi di suscitare in me, che so, gelosia… la sola cosa che mi provocano i tuoi giochetti imbecilli, è fastidio… improvvisamente, oggi che non ci parliamo, arriva il tuo bambolotto… chissà, come mai, forse per sbattermi in faccia che stai bene con lui, e non con me… ammesso che mi interessi… ma insomma, Granger, sono giochetti idioti… dopo una vita tra i Serpeverde e i Mangiamorte, non li sopporto… e tu non sei nemmeno brava a farli…”.

“Questa al mio paese si chiama gelosia…” commento fiocamente, sfiancata, anche se non ci credo nemmeno io.

Credo davvero che sia infastidito che lo renda oggetto di giochetti, cosa a cui non ho pensato nemmeno per un momento, anche se lui ne è convinto.

“Sempre fastidio… non gelosia… non dire sciocchezze…” bisbiglia ancora, muovendo leggermente una mano nervosa. Inavvertitamente mi sfiora i capelli, scarica gelata lungo la colonna vertebrale. Rabbrividendo, alzo gli occhi, trovando prima le sue labbra e poi i suoi occhi, racchiusi nei miei, improvvisamente scrigni di nuvole, socchiusi, foschi, inaccessibili. Sbatte le palpebre un paio di volte, la mano contratta che piano si distende in un attesa infinita. Ogni parte di me è un ponte per le sue dita, ancora lievemente accostate ai miei capelli, fremo dalla voglia che mi accarezzi anche solo per sbaglio.

Quando riapre la bocca, la sua voce è affannata come se avesse corso per chilometri, le labbra umide sfuggono incandescenti le parole, in un respiro arrivano alle mie labbra che sfiorano le sue, i miei occhi prigionieri soggiogati dei suoi: “…se fossi mia, potrei essere geloso, ma non così…”. 

“…tua…” sussurro, concentrata sulle sue labbra, tutto attorno è un mare vischioso di silenzio.

…mia…” ripete lui, la voce più bassa, le labbra dischiuse. Come in un sogno, vedo la mia mano arrivare a lui, lambire con le dita i tratti del suo viso delicatamente, leggermente, come se davvero temessi che sparisse. Assorta e concentrata, terrorizzata all’idea che mi fermi, scorro le dita sul suo viso caldo, lui che prima sussulta, vedendo la mia mano alzarsi, e poi che mi osserva attonito, immobile, per un attimo spaventato. Gli manca il fiato, quando arrivo a toccarlo, lo sento rabbrividire sotto le mie dita, sebbene siano più calde le mie mani che il suo viso. Chiude piano gli occhi, quasi esortandomi silenziosamente a continuare, le mie dita che accarezzano la sua pelle come se stessi suonando con morbida esperienza le corde di un’arpa. I capelli spettinati sono serici tra le mie dita, come li avevo immaginati, guardandoli prima, mi mordo il labbro inferiore, rapita. La fronte spaziosa e lievemente corrugata che mi fa sorridere buffamente, lui che è sempre corrucciato con il mondo intero. Gli occhi, ora chiusi, ma le cui palpebre fremono leggermente ad ogni mio movimento. Gli zigomi, le guance e infine le labbra, ancora dischiuse.

Resto lì immobile, congelata, l’indice che corre sul suo labbro superiore, seguendone il profilo sottile. Quando piano riapre gli occhi annebbiati, sollevo come inebetita il mio viso, guardandolo fisso negli occhi e ritrovandomi a ripetere senza rendermene conto: “…tua…” .

Finalmente, la sua mano si poggia sui miei capelli, scorrono le sue dita leggere tra i boccoli sotto la bandana, quasi ravviandoli, mentre lentamente mi avvicina a lui, attirandomi per il fianco con l’altro braccio, ora anch’esso libero. Mi accolgono le sue braccia, il suo cuore ora contro il mio, diviso solo da inconsistente tessuto. Non riesco a smettere di guardarlo in viso, mentre mi accarezza con dolcezza i capelli e il viso. Stringe forte il braccio attorno alla mia vita, possessivo, mentre ripete, gli occhi seri e decisi, in un sussurro fioco: “… mia…”.

Sussulto a mia volta, il tono con cui l’ha detto… e questo braccio… davvero mi senti tua?

Impercettibilmente chiudo gli occhi, lui che lentamente mi porta vicino al suo viso, solleticandomi con il suo respiro. 

“Piccola Hermione…” sussurra ancora, le labbra ormai sulle mie, ne sento il calore e la linea che ho disegnato sotto le dita “Le mie donne non hanno avuto mai bisogno di giochetti per tenermi incatenato a loro…”.

Apro bruscamente gli occhi, un brivido leggero che mi ha ucciso come un terremoto. Improvvisamente, la dimensione di ciò che sta accadendo mi frastorna senza sosta. Tutto continua a gridare dentro di me, ma già i miei piedi che si erano alzati sulle punte per arrivare al suo volto, mi riportano alla mia solita altezza, sfuggendo al suo viso e alla sua mano che resta immobile a mezz’aria. Meravigliosamente sbagliato. Meravigliosamente sì, ma sempre sbagliato. Perché? È quello che voglio… e allora…?

Mentre vedo i suoi occhi chiusi riaprirsi di scatto, sentendomi irrigidita, e guardarmi come per chiedermi che cosa sia successo, tremo di rabbia, ricordando.

Inizio a piangere, silenziosamente, guardandolo. Draco sembra non capire, eppure già si allontana di un po’ da me, trattenendomi solo per il fianco.

Finalmente sputo fuori con rabbia: “Invece Astoria aveva bisogno di giochetti per stare con te?! Doveva tenermi sotto incantesimo senza che tu muovessi un dito, vero?”.

I suoi occhi si sgranano ferocemente, si stacca da me come se fossi un pezzo di lava: “Come…”.

“Come lo so??! Questo vorrei sapere?!” urlo furiosa, spingendolo lontano con le mani. Per il contraccolpo imprevisto, finisce abbastanza lontano da me per farmi ritornare in sé. Si porta sconvolto, le mani sul petto, guardandomi senza fiato.

Mi ritrovo a singhiozzare senza accorgermene, mentre grido senza controllo: “Me ne frego del tuo stupido segreto, della tua stupida vita, di tutto! Di tutto quello che sei, me ne frego, ma come diamine hai potuto permettere che facesse questo a Ginny, a me, per settimane?!! Come hai fatto??!!”.

“Hermione, adesso devi farmi parlare, aspetta…” cerca di afferrarmi per il gomito, trattenendomi, ma scatto allontanandomi.

“Deve essere stato meraviglioso per te che quella lì si prendesse gioco della mia mente, dei mie ricordi, così, no? NO??” urlo ancora, ormai senza controllo, il bacio non dato che diventa un incentivo incandescente alle mie parole irrazionali  “Deve essere stato un momento meraviglioso, vedermi completamente in suo potere?! Non hai nemmeno pensato a fermarla, anche se sapevi che poteva costarmi caro, che poteva rovinarmi la vita, cancellarmi ed annullarmi la mente!”, riprendo fiato, la sua espressione sconvolta che mi dà solo ulteriore energia per continuare ad urlare: “Come diamine ho fatto a dimenticare chi sei, che cosa sei… e adesso stavo anche per…” piangendo disperata, mi porto le mani nei capelli, appoggiandomi stancamente al muro.

“Hermione, ci sono delle cose che devi sapere, il fatto che Astoria fosse qui…” tenta ancora di avvicinarsi a me, ma mi allontano ancora, arrivando sulla soglia della porta.

“Non mi interessa! Hai capito che non mi interessa??!!” ripeto ancora, la voce sempre più alta, fregandomene che mi senta qualcuno, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano “Non ti devi più avvicinare a me, non ti azzardare mai più anche solo a rivolgermi la parola o a guardarmi… facciamo durare questa sceneggiata fino a quando sia strettamente necessario…”, abbasso lo sguardo riprendendo a piangere, poi lo guardo cercando di mantenere la mia voce ferma e decisa, anche se il labbro continua a tremarmi innaturalmente: “…questo… questo che stava per succedere, non accadrà mai più… non sono il tuo giocattolino…”.

La sua espressione, da sconvolta che era, improvvisamente si indurisce, diventando fredda, gelida, pietra scolpita: “Mi sembra che tu non sia stata propriamente immobile… o che ti sei messa a scalciare per divincolarti…”, sussurra: “Lo volevi esattamente come me…”.

“Che cosa era?” chiedo, ignorandolo e tornando a guardarlo “Che cosa era, rispondi…”.

Senza nemmeno prendere fiato, risponde sicuro, affondando le mani nelle tasche: “Un impulso e basta… sono un uomo e mi eri vicina… questo credo che spieghi tutto…”.

Non ci posso credere.

La rabbia mi offusca gli occhi, mentre dico raggelata: “Tieniti gli impulsi nei tuoi pantaloni, fino a quando sei in mia presenza, Malfoy… non ti avvicinare mai più a me…”.

“Tranquilla, Granger… qualsiasi cosa fosse, è passata…” sibila ferocemente, poi solleva il mento ripetendo: “Ora, visto che non abbiamo più nulla da dirci e non c’è più niente di me che ti interessi, ti lascio ritornare alle tue incombenze…”.

Senza dire nient’altro, esce silenziosamente, senza nemmeno guardarmi in faccia.

I pugni chiusi, resto immobile al centro del bagno, il mento alzato, l’espressione fiera di una leonessa, gli occhi asciutti.

È solo quando sento chiudere la porta che cado sulle mie ginocchia, ricominciando silenziosamente a piangere.

 

 

“Sei sicura di stare bene?” mi domanda per l’ennesima Hayden, mettendomi una mano sulla guancia e guardandomi preoccupato.

Fingo un inespressivo sorriso e annuisco, senza trovare la forza di aggiungere altro.

Lui sospira stancamente, appoggiandosi allo stipite della porta d’ingresso del locale. Fuori ha iniziato a cadere una pioggia leggera, dall’odore frizzante, e la gente nella strada ha preso a correre per evitare di bagnare i vestiti leggeri, adatti alla serata estiva, ma non alla pioggia che ha preso improvvisamente a scendere. Alcuni guardano speranzosi verso il nostro locale, ma, quando leggono la scritta “Chiuso”, si ritirano in buon’ordine, sbuffando un po’, storcendo il naso per l’odore di vernice fresca.

Ma almeno domani, quando riapriremo, sarà tutto perfettamente a posto. Abbiamo finito una mezz’oretta fa ed adesso sto salutando Hayden.

O meglio si sta salutando da solo… io non riesco nemmeno ad aprire la bocca, per il groppone che ho in gola da questo pomeriggio. 

“Non stai bene, Hermione… penso che sia evidente, no?” mi sorride teneramente, mettendomi una mano sulla spalla “Improvvisamente, questo pomeriggio inizi a dipingere in silenzio, ogni tanto scappi via e, quando torni, ha gli occhi rossi…Seth ti punzecchia e non rispondi, ti cade una lattina di vernice sul piede e non reagisci… ammetterai che è strano…”, sorrido ascoltandolo, mio malgrado, appoggiando la testa alla porta, piegandola poco di lato, mentre continua: “…e c’è anche un’altra cosa…”.

“Cosa?” chiedo, muovendo leggermente le labbra, non credo nemmeno di averle aperte, ma un po’ di voce è uscita, a quanto pare.

Hayden sorride teneramente, mentre mi bisbiglia, gli occhi quasi velati e un po’ socchiusi: “L’ombra… nei tuoi occhi… il suo riflesso… oggi credo che sia diventato più pesante ed evidente del solito…”. Trasalgo e mi stringo nelle spalle, a disagio. Sfuggo dal suo sguardo che legge dentro me e cerco di concentrarmi per rendere i miei occhi meno dannatamente sinceri.

“Non me ne devi parlare, se non vuoi…” riprende a bassa voce “L’ho capito che è una cosa complicata tra voi… molto più di quanto non sembri. Ma non vorrei che ti ferisse, che ti facessi fare del male solo perché non sai rinunciare a lui…”, la sua voce si è tinta di seria e determinata preoccupazione, dolce come miele vischioso nella mia gola. Rompe gli argini che ho messo faticosamente alle mie lacrime, cerco di nasconderle alla sua vista mentre riprende: “Tu sei forte, sei determinata, intelligente… e sei bellissima…”. Un brivido caldo e mi volto verso di lui, incurante delle mie guance bagnate.

Hayden sorride ancora, poi mi prende per il polso attirandomi verso di lui e stringendomi forte. Quel miele in gola, diventa improvvisamente così soffocante che mi sembra di morire dalla tenerezza che provo, soffice, intensa, straziante. Lo abbraccio a mia volta, non riuscendo a smettere di singhiozzare.

“Meriti di sorridere ogni giorno della vita… meriti un principe azzurro, uno che potrebbe diventare re, e regalarti il castello da fiaba dei tuoi sogni…” continua lui, la voce come una ninna nanna che mi culla tra le sue braccia “E questo non credo di dovertelo dire io… lo sai, Herm, che non fa per te. Forse non faccio nemmeno io per te, ma non importa… eppure, qualsiasi cosa sia quello che mi lega a te, io ci sarò per sempre per te… qualsiasi cosa succeda, quando riuscirai a parlare, quando vorrai parlare, quando avrai solo bisogno di non restare da sola…corri da me…io ti aspetterò…”.

Annuisco, continuando a piangere, affondando il viso nel suo petto e stringendo le dita attorno alla sua maglietta.

Gentilmente, Hayden mi dà dei colpetti affettuosi sulla schiena, cercando di farmi calmare, fino a quando riesco a dire con voce sufficientemente ferma: “Grazie”.

Mi stacco da lui, cercando di sistemarmi come meglio posso, lui sorride ancora salutandomi, prima di correre via sotto la pioggia.

Resto immobile per qualche secondo, le scie della pioggia argentata nei miei occhi e nei miei pensieri, un tuono che rompe il silenzio, facendo scattare un antifurto lontano. Tendo la mano sotto la pioggia, si bagna velocemente mentre la guardo, completamente svuotata di ogni cosa.

Il pensiero c’è sempre, sotto le ceneri di me stessa, che arde inesauribile, e c’è anche il cuore, che batte di ricordo stupido di mani calde su di me, occhi grigi chiusi e labbra sottili, tinte di corallo. Ma, se non mi muovo, se non faccio niente, se mi concentro sulla pioggia, o sulla pittura, o su una cosa che ho davanti agli occhi, fino a far finta io stessa di essere un bicchiere, un pennello, una bottiglia… almeno sento meno male, come se fossi anestetizzata.

Non afferro nemmeno le parole di Hayden, le faccio scivolare via come tutto il resto, per paura di ricordarmi che cosa le ha provocate.

La mia reazione di oggi pomeriggio, dopo che Draco…

Serro la mano bagnata sotto la pioggia, morsicandomi le labbra, ancora, ancora, come tutto il pomeriggio, il suo sapore lieve come un’eco in una vallata che scompare ad ogni morso che mi do, portandomi pietoso sollievo. Prima o dopo, sparirà del tutto, se continuo a mordermi le labbra. Se ne andrà del tutto…

Mi siedo per terra, appoggiando la fronte sulle ginocchia, miriadi di voci nelle orecchie come stormi neri nel cielo del crepuscolo.

“Herm…” mi sento chiamare alle mie spalle.

“Dimmi Seth…” rispondo pigramente, sollevando il viso e riprendendo ad osservare la pioggia. Almeno la mia voce sembra ritornata la stessa.

“Stai bene?” mi chiede lui gentilmente, sedendosi accanto a me e guardandomi.

“A meraviglia…”.

“Devi tornare a casa adesso?”.

A casa… Io non posso tornare a casa.

Lo vedrei in ogni dannata parete vuota.

Lo avvertirei negli spot assordanti in televisione.

Lo sentirei nella carezza dell’accappatoio sulla mia pelle, dopo la doccia.

Lo respirerei nel profumo della pioggia, entrato dalla finestra della mia camera, lasciata aperta.

Ovunque… se restassi da sola, lui s’impossesserebbe del vuoto attorno a me.

Nemmeno Astoria poteva tornare a casa, così aveva detto. Forse, è una sua caratteristica tagliarti fuori dal mondo, crearti una cupola attorno che ti tiene sotto vetro impedendoti di respirare e di avere a che fare con qualsiasi cosa che non sia lui, il ricordo di lui o il pensiero di lui.

Un’ossessione.

“No, Seth… posso anche restare qui se vuoi…” aggiungo senza ombra di allegria, constatando che almeno la vicinanza di Seth riuscirà a distrarre i miei pensieri. Lui è sempre così maledettamente rumoroso che metterà a tacere ogni altra voce nella mia testa. Anche se questo significa restare più vicina a Draco… non importa.

Mi tocco inavvertibilmente il petto, una fitta che mi fa annaspare, tanto è sempre qui dentro… poco importa dove sia realmente. 

“Vuoi vedere un film?” mi chiede ancora Seth, prendendomi per un braccio ed aiutandomi ad alzarmi, come se fossi davvero incapace di farlo. Sono sempre così maledettamente cristallina che si accorgono tutti di ciò che ho… mi metto in piedi orgogliosamente, puntellandomi sulle ginocchia, rifiutando l’aiuto di Seth orgogliosamente. Lui sembra quasi rassicurarsi e mi dice un po’ più allegro: “Se ti va, ho un film che muoio dalla voglia di rivedere…”.

“Rivedere?” chiedo, inarcando un sopracciglio “Non possiamo vedere un film nuovo… minimo l’ho già visto anche io…”. 

“E’ importante, un film importante per me…” asserisce convinto, mettendomi una mano sulla testa “Quindi voglio che lo veda anche tu…”.

“Ah vabbè…” commento, incrociando le braccia “Se non è una cosa tipo Mr Bean, ok… non lo sopporto…”.

Lui storce il naso, evidentemente a lui piace, ma non aggiunge altro, quindi probabilmente non si tratta di quello.

“E niente commedie romantiche… non sopporto nemmeno quelle…” chiarisco preliminarmente.

“Sei più positiva del solito…” sibila sarcastico Seth, iniziando a salire le scale, seguito a breve distanza da me “Sai che se me ne vuoi parlare sono qui…”.

“Non c’è granché da dire…” getto la bandana che ancora portavo in testa in un angolo della stanza di Seth, dita sottili che spostano il tessuto leggero passando nei miei capelli come se li volessero ravviare, e mi getto distrattamente sul letto, un braccio piegato sugli occhi umidi.

“C’entra Danny, vero?” mi chiede in un sussurro Seth, sedendosi accanto a me. Il mio corpo va su e giù per il contraccolpo, mentre serro gli occhi in una stretta dolorosa.

“E’ un bastardo…” bisbiglio, spostando il braccio e guardando il soffitto bianco “Non voglio che abbia mai più a che fare con me…”.

“Lo so… o meglio, con te lo è particolarmente…” continua Seth, stendendosi accanto a me. Lo osservo di sottecchi, è la prima volta che dice una cosa minimamente negativa sul suo eroe personale.

Deglutisco un paio di volte, prima di dire velocemente, come se le parole bruciassero nella mia gola: “Ci siamo quasi baciati Seth…”.

Lo guardo preoccupata dalla mia rivelazione, ma lui sorride leggermente e si gira verso di me, la testa poggiata sul braccio piegato: “Quasi, perché?”.

Arrossisco, poi poggio la fronte sul suo braccio, lui mi accarezza leggermente la guancia, le dita fredde sulla mia pelle bollente: “Perché non fa per me Seth… e me ne sono accorta appena in tempo…”, prendo fiato prima di continuare: “Queste settimane… stando qui… con voi… e con lui… vedendolo ogni giorno, mi ero illusa che fosse diverso dalla persona che conoscevo… che fosse cambiato… ma lui è sempre lo stesso… non è mai cambiato…”.

Abbasso ancora di più il viso mentre riprendo a piangere, Seth che non smette un secondo di accarezzarmi, come un’onda calda che avvolge il mio cuore in un abbraccio stretto che mi ridà ossigeno.

Finalmente riprende a parlare, la sua voce seria non sembra nemmeno la sua: “Hermione… è ovvio che non sia mai cambiato… la gente non cambia mai, siamo per sempre quelli che eravamo da bambini, da ragazzini… il passato di una persona non si può cancellare. Mai. Lo sai, no?”.

Annuisco contro la sua spalla.

“… tu non hai conosciuto un altro Danny… hai conosciuto solo il Danny che non ti aveva mai dato occasione di vedere… quello celato dietro la persona che detesti. E quest’ultima non può smettere di esistere all’improvviso…” continua Seth con voce roca “…perché fa parte di lui, è la persona che è sempre stato… la sola cosa che ha per andare avanti...”. Lo guardo continuare a parlare, offuscato dalle lacrime celate nei miei occhi: “… io non so nulla di Danny. Non so che vita abbia fatto, chi abbia conosciuto e chi abbia amato… non so perché sia così. Crudele, cattivo, insensibile, menefreghista… la lista potresti farla meglio di me. So solamente che sono quei lati che mette sempre a difesa di stesso… e so che, quando li abbassa, non è così. È la persona migliore del mondo…”, la sua voce si abbassa ancora mentre soggiunge triste: “Non potrei fare a meno di quei lati, quegli buoni… l’attimo miracoloso in cui abbassa la guardia ed è stesso. Non tutti siamo in grado di essere sempre noi stessi, semplicemente non possiamo, non vogliamo… o che ne so che altro. Tu sei sempre te stessa, fino all’inverosimile. Perché sei forte… lui… io… no… eppure c’è chi ci ama anche per i momenti in cui siamo così chiusi da ferire volutamente per non farci del male… o così frivoli da rompere le scatole con uno stupido color lilla per tutto un pomeriggio… perché hanno visto l’altro e sono disposti ad aspettare anche tutta la vita per rivederlo anche solo un istante… e continuare ad amarlo…”.

Resto immobile a fissarlo, le sue parole come una coperta calda sulle mie spalle, mormoro guardandolo: “Tu lo continui ad amare anche se ti tratta male?”.

Seth si gratta pensosamente la testa: “Non credo di amare Danny… sono troppo narcisista per innamorarmi di lui… diciamo che il fatto che sia un gran bel pezzo di selvaggina complica le cose, ma credo solo di volergli bene come amico… e me l’hai fatto capire tu…”.

“Io?” chiedo incredula, ancora una traccia di risata alla definizione gran bel pezzo di selvaggina.

“Tu, Herm, sì… so che non ti piace esageratamente sentirlo, ma non posso esimermi dal dirtelo…” prende fiato sotto il mio sguardo lievemente preoccupato, per poi affermare sicuro: “…sono sempre più convinto che Danny sia follemente innamorato di te…”.

La sua voce si ferma, mentre soppesa la mia reazione, ma osservandomi relativamente tranquilla perché non gli credo proprio, scambia il mio silenzio per assenso o speranza o chissà che cosa, e riprende più sereno: “…e credo anche che lo sappia, se ne sia accorto. Insomma è palesemente geloso di Hayden, ti ha già baciato una volta, anche se sembra per scherzo o chissà che…oggi cerca di farlo daccapo… se vuole una che gli riscaldi il letto, esce e la trova, non ha bisogno di rompere le scatole a te... considerando anche il tuo carattere impossibile…”.

“Carattere impossibile?!” inveisco, dandogli un piccolo pugno sulla spalla.

“Sì, sì, vabbè… possibile e meraviglioso…va meglio così?” ride lui, stendendosi meglio sul letto, poi riprende la voce più profonda: “Potrebbe anche non essere come dico, in fondo tu lo conosci meglio di me e, se non vuoi rischiare, evidentemente senti che è una cosa impossibile, lo senti meglio di quanto possa fare io dall’esterno... o magari ti piace davvero Hayden… non lo so…eppure per quanto mi riguarda, una cosa è certa, Danny sta cambiando… lentamente, ma ogni giorno di più…ha avuto anche il coraggio di lasciare Summer finalmente… anche se era palese che non l’ha mai amata…”.

“Non l’ha fatto mica per me…” obietto con un filo di voce.

“Lo so, ovviamente…” ribatte Seth sicuro, come se stessi dicendo un’ovvietà gigantesca “Ma ha avuto il coraggio di farlo solo quando sei arrivata tu… coincidenza strana, no? Si cambia perché si ama. Decidi tu in che senso lui ti amasi ama nel senso che conosciamo bene, ma si ama anche per amicizia, per nostalgia, credo che si ami persino per odio. Odio per stessi, per il proprio passato… mettila come vuoi, insomma. Ma solo quando si ama, per qualsiasi motivo, si cambia… ritornando al mio discorso iniziale, credo che sia anche per quello che hai avuto la percezione di vedere un nuovo Danny. Ti vede in modo diverso e si rapporta con te in modo diverso… e allo stesso modo, ho capito che, se sono anni che Danny è sempre allo stesso modo con me e viceversa, evidentemente non abbiamo un sentimento così forte ad unirci… sia da parte mia che da parte sua… so che Danny mi vuole bene, in fondo, come gliene voglio anche io. Ma è un amore piccolo che non ci hai mai cambiati… quindi non credo che sia così importante… come quello che invece ha per te, ti ripeto, sia quello che sia. Il legame con te, sebbene lo logori dentro e si vede, è così importante che lo spinge a muoversi, ad agire, a cambiare appunto, pur di non rinunciare a te…”.

Soppeso le sue parole nella mente, sono come sempre un caldo alito di vento che mi danno respiro e ristoro dal gelo che mi prende a tratti. E mi rendo conto che, da qualche tempo, sono completamente in balia di tre ragazzi che governano la mia mente e il mio cuore: Draco che, come ghiaccio bollente, spazza via tutto in me, rendendomi steppa bruciata ed annerita, riarsa poi da un freddo pungente e incessante che mi congela, rendendomi morta al mondo; poi dopo Draco, arriva sempre Hayden, come un tiepido sole di aprile che rischiara le rovine di me stessa, riempiendole di luce, di calore, di speranza tenue, facendomi risentire forte e coraggiosa; ed infine Seth, l’acqua che cade copiosa dal cielo in gocce argentine, alleviando il vuoto, facendomi risorgere del tutto, rendendomi fresca di vita e di fervore.

Eppure, ad ogni resurrezione, Draco mi toglie qualcosa.

Ogni volta so che, al di là delle parole di Seth ed Hayden, io inevitabilmente perdo qualcosa per strada. Un po’ di coraggio, un po’ di orgoglio, un pizzico di forza, una manciata di speranza. Ogni volta, nonostante il sole e la pioggia, qualcosa smette per sempre di esistere.

Più penetro il mistero di Draco e più non sono me stessa.

E sapere di Astoria… il quasi bacio, il sentirmi sua mi hanno talmente congelato e sedato che avverto il calore delle parole di Hayden e la freschezza di quelle di Seth, mi ci abbandono, mi sento rincuorata e persino un po’ di lacrime tendono a sparire, ma non ci credo più.

Sono palliativi, placebo che mi danno un po’ di sollievo. Vitali, necessari, indispensabili, ma purtroppo non risolutivi di questa mia malattia.

La totale guarigione, forse, sarebbe fare un bel incidente e perdere completamente la memoria.

Credo che sarebbe quella la sola strada.

Ma, intanto, recupero un po’ sensibilità al mondo, ricominciando a sentire qualcosa… o perlomeno mi distraggo un po’.

“Grazie Seth…” mormoro convinta, anche se ovviamente non può sapere quanto sia contenta solo del fatto che sia rimasto con me, piuttosto che di quello che abbia detto.

“Di nulla…” sorride lui, sollevandosi seduto sul letto “Allora, una bella doccia e dopo film?”.

Annuisco: “Ma si può sapere che film sei tanto smanioso di rivedere?”.

Seth mi fa un sorriso strano, prima di aggiungere: “Merry Christmas Mr Lawrence… l’hai mai visto?”.

“Ne ho sentito parlare, ma no… di che parla?”.

Seth mi parla sommamente della trama, parlando di una storia ambientata nel 1942 in un campo prigionieri giapponese, scenario della passione quasi morbosa di un giovane capitano giapponese per un ufficiale inglese. Ora capisco perché gli piace… mi spiega anche, sebbene in modo molto riluttante, che è un film molto importante per lui perché, vedendolo, quando aveva circa un decina di anni, capì di essere omosessuale. Lo rivede in momenti alterni della sua vita, specie quando chiude una storia, credo per darsi coraggio. Aggiunge con gli occhi quasi lucidi che ora deve dare l’addio anche a Danny, e vuole che ci sia anche io nel caso gli venga da piangere.

Sorrido, mettendogli affettuosamente una mano sulla spalla, lui sorride, si alza velocemente e dice che mi precede sotto la doccia.

Quando chiude la porta, mi stendo di nuovo sul letto, lo sguardo fisso sul soffitto. Il silenzio totale che mi circonda, è rotto solo dai lievi rumori provenienti dalla camera accanto alla mia, quella di Draco. Sento un piccolo pianto di Serenity e la sua voce leggera, di cui non intendo le parole, cercare forse di calmarla. Calpestio di passi mentre va avanti ed indietro, cullandola. Un cassetto aperto e richiuso velocemente. Qualcosa poggiato sulla scrivania. Ancora passi.

Mi alzo come se fossi in trance, faccio qualche passo, arrivando alla parete che divide le nostre stanze. Allungo la mano senza accorgermene, poggiandola sul muro, come se così facendo, potessi toccarlo di nuovo come ho fatto questo pomeriggio. Sotto i polpastrelli, la superficie liscia e fredda del muro immacolato diventa ricordo ardente del suo volto sotto le mie dita, che si irrigidisce e si distende, linee dure che diventano morbide. Chiudo gli occhi, poggiando la fronte sul muro.

Alla fine, dovunque io sia, non mi lascia mai in pace… l’orgoglio e la rabbia sono solo deboli paletti che reggeranno fino a quando non l’avrò di nuovo…

Forse era meglio che tornavo a casa…

Sento Seth uscire dal bagno e mi affretto a fingere di star facendo qualcosa, prima di correre in bagno a farmi la doccia. Cerco di fare più velocemente possibile, accendo anche la radio mettendo sull’emittente caraibica per distrarmi la mente, mentre Seth apprezza la mia scelta musicale e lo sento ballare fuori dalla porta. Che scemo… sorrido bagnandomi il viso. Ora so perfettamente che questa persona gioiosa e vivace, è solo uno schermo, non è stesso. Dietro il sorriso, ora mi sembra sempre di sentirlo gridare che non ha la forza di essere sempre stesso. Deduco che la persona che nasconde ostinatamente, sia quella con cui ho parlato fino a poco fa. Il suo vero io, insomma, un ragazzo estremamente sensibile e fragile che ora ha capito di non essere ricambiato dal ragazzo che ama. Ha foderato il suo discorso di riflessioni argute e sagaci, ha finto disinteresse e rassegnazione, ma era evidente che ci sta male. Ed è anche evidente che, se vuole rivedere quel film, è perché crede che gli darà la forza che non ha… magari ne desse un po’ anche a me…

Esco dal bagno, asciugandomi i capelli alla bell’e meglio, mentre Seth si siede sul letto in pigiama, accendendo la tv. Mi siedo silenziosamente accanto a lui ed iniziamo a vedere il film che si dimostra essere davvero bello. Seth singhiozza un paio di volte e allora lo abbraccio, sorridendo e cercando di consolarlo. Sebbene la tematica non era certamente così delicata per me come per Seth, effettivamente anche io, alla fine, sono abbastanza commossa. Inoltre, credo anche di essermi ricordata perché il nome del film mi era conosciuto. È la colonna sonora che conoscevo, non il film in sé.

Mentre Seth si alza, spegnendo la tv, chiedo infatti: “La colonna sonora… il tema, insomma… come si chiama Seth?”.

Lui, asciugandosi ancora qualche lacrima con la manica del pigiama nero di raso uguale a quello che indosso io adesso, ci pensa un po’ su e poi risponde sicuro: “Forbidden colours di Ryuichi Sakamoto… è un brano per pianoforte abbastanza famoso…”.

“Ecco perché mi sembrava conosciuta…” sorrido illuminandomi di comprensione “Mia mamma quando ero piccola, mi fece prendere lezioni di pianoforte per qualche anno... e in un saggio, ricordo che feci proprio questo pezzo…”. Mi viene curiosamente da ridere, ricordando quel momento.

Ricordo solo le mie scarpette nere di vernice con cui non arrivavo nemmeno al pianoforte, dato che a dieci anni ero ancora abbastanza bassa, e la maestra che mi prendeva in braccio per farmi arrivare allo sgabello. Lucide tele dorate di note si intrecciano nella mia mente, a quel ricordo. Il saggio non andò benissimo, ricordo che c’era una posizione particolare con il pollice che non riuscivo mai a fare bene, e nemmeno allora mi riuscì. Iniziai a piangere, mentre cercavo comunque di portare a termine l’esecuzione, finché la mia mamma mi venne a prendere dal palco e mi prese per mano, facendomi scendere.

Lei lo sapeva sempre con estrema esattezza che, se una cosa non mi viene perfetta, non ne voglio nemmeno sentire parlare più. 

Piuttosto ricomincio dal principio, ma mai la lascerei volutamente imperfetta.

Mi fece piangere, andammo a prendere un gelato al cioccolato e menta, cosa che allora mi faceva impazzire, e poi mi aiutò a mettere a punto quel pezzo alla perfezione, assieme con papà. E la settimana dopo, andarono a parlare con la maestra e pretesero che rifacessi la mia esibizione davanti a lei, a loro e ad alcuni amici.

E allora mi venne perfetta.

Non me ne ricordavo più.

Credo perché, solamente qualche giorno dopo, ebbi la lettera di ammissione di Hogwarts. E tutto quello che era stato fino a quel momento, smise improvvisamente di esistere. Compresi i miei genitori che, con il mio nuovo mondo, non avevano più niente a che fare… e dimenticai persino il pianoforte, la mia grande passione infantile.

Abbracciai la magia con tutta me stessa.

Credevo che fosse la sola cosa che mi rendesse speciale.

“Davvero? E ricordi ancora come fa?”  mi chiede speranzoso Seth, sedendosi accanto a me.

Annuisco quasi malinconicamente, ovvio che me la ricordi. Fino a qualche attimo fa, nemmeno ci pensavo e ora invece ricordo perfettamente ogni posizione delle mie dita sui tasti.

“La suoneresti per me?” mi chiede Seth ancora. Se fosse un cane, credo che starebbe scodinzolando.

“Sperando che me la ricordi tutta, sì…” sorrido, è da tantissimo tempo che non suono e mi fa discretamente piacere. Quando ero piccola, ricordo che mi dava una pace ed una serenità assurda suonare. Mi sedevo per ore dietro la finestra, e passavo il tempo a strimpellare, mia mamma che mi correggeva qualcosa e mio papà che mi scompigliava i capelli con affetto, pulendosi gli occhiali sul maglione rosso. Mamma e papà.

Seguo Seth giù per le scale, in punta di piedi, nel caso dovessimo svegliare Draco o Serenity che probabilmente staranno già dormendo, essendo mezzanotte passata. La porta della sua stanza è socchiusa, spero solo che non sia andato di sotto. Seth avanza davanti a me, cercando a tentoni l’interruttore generale, poi, quasi saltellando, raggiunge il pianoforte nero, ancora coperto da un telo per impedire che si sporcasse di vernice.

Poi mi fa segno di sedermi.

Come un dejà vu di ere fa, ricordo perfettamente di sistemare lo sgabello alla mia altezza, di controllare che il piano sia perfettamente accordato e di mettermi nella posizione perfettamente dritta che mi imponeva sempre la maestra di piano. Ed anche quando inizio a suonare, è come un flutto di ricordi che si riversa sulle mie dita… ecco, il punto che mamma mi sistemò quel giorno che pioveva e si allagò lo scantinato… l’incertezza sul do, con papà che batteva il piede ritmicamente sul pavimento… alla fine della melodia, mi scappa persino da piangere, Seth ovviamente mi batte e se ne scappa di sopra in lacrime, accusando un’allergia improvvisa.

Che scemo…

Resto seduta per qualche istante, sicuramente scenderà subito, imponendomi di suonare per altre ventinove volte.

Scorro leggera le dita sui tasti, ancora caldi dopo che ci ho suonato, e sorrido, è strano, nostalgia mista ad una strana malinconia allegra. È come se avessi ritrovato un vecchio amico. Forse dovrei riprendere davvero a suonare, mi sento anche un po’ più calma.

Siccome Seth tarda a tornare ed evidentemente sta allagando camera nostra, mi alzo per tornare di sopra. Se mi inzuppa il cuscino, lo prendo a sberle.

Mi volto ed immediatamente faccio un passo indietro per la sorpresa, finendo contro lo sgabello e scivolandoci di nuovo seduta. Resto immobile per qualche istante, arrossendo, poi cosciente della situazione, cerco di riprendermi alzandomi in piedi: “Non volevo svegliarti… mi dispiace… torno a dormire…”.

Eppure, nonostante sento ancora l’eco di questo pomeriggio, nonostante io sappia di dovermene andare quanto prima da qui, nonostante io sappia tutto questo… e nonostante, forse, mai come ora, sono consapevole che dovremmo stare divisi e nemmeno guardarci un attimo di più… io non riesco nemmeno a pensare di fare un passo, quel passo, che mi allontani adesso da lui. Dentro, è come se sapessi che non posso farlo.

Come se sapessi perfettamente che ora è questo il mio posto.

È la stessa consapevolezza che avevo, quando incontrai Harry e Ron sul treno, e seppi che sarei stata loro amica.

È la stessa consapevolezza che sentivo, quando intravedevo Ginny da bambina, e sapevo che sarebbe finita con Harry.

è la stessa consapevolezza di questo pomeriggio… di essere nata solo per essere tua.

È questo il mio posto. Assurdo, illogico, ma così naturale e scontato che mi chiedo che cosa mi spinge a dirmi sempre il contrario. 

Il fuoco brucia. Il mare non si ferma mai. Il cielo non è mai uguale a stesso. La terra fiorisce di primavera e muore d’inverno.

E io sono nata per stare qui.

L’orgoglio, ovviamente, geme in me, irritazione nei miei piedi immobili, e la rabbia, naturalmente, mi fa serrare le mani a pugno per l’impotenza e la frustrazione.

Ma il cuore, no… saldo, sicuro, determinato, palpitante… trema dell’attesa che lui parli.

Quando mi decido a guardarlo in viso, capisco e non so come diamine succeda, che siamo alla resa dei conti.

Perché Draco non sembra nemmeno avermi sentito.

E il suo viso… io non credo di averlo mai visto in nessun altro al mondo.

Immobile, livido, le labbra bianche, l’espressione sconvolta, mi guarda come se stesse cercando disperatamente di dirmi qualcosa, solamente guardandomi… qualcosa che assomiglia ad una supplica, una preghiera, una richiesta d’aiuto. E stona sul suo viso così enormemente che, per un attimo, mi sembra di non stare guardando lui, ma un’altra persona. Come sempre, poi, sono i suoi occhi a non tradirlo mai, a non ingannarmi mai. Solo gli occhi del mio angelo dannato, sono di quel colore. E di occhi grigi so che ne esistono a decine di milioni nel mondo. Eppure, i suoi li riconoscerei sempre, anche se li vedessi un istante in un mare di gente.

Sanno di ghiaccio, di mare d’inverno, di distese prive di vita. Ma sanno anche di fuoco che mi brucia, consumandomi.

E ora il fuoco si avviluppa attorno al mio cuore, brutale, facendolo a pezzi. I suoi occhi, la cosa più bella che io abbia mai visto… sono… lucidi.

Per la prima volta, da quando sono qui, Draco Lucius Malfoy sta piangendo. Sono rivoli argentati quelli che scendono lungo le sue guance, rovinando sulle sue labbra, rendendole quasi rosse del loro colore perduto. Singhiozza Draco, con i capelli spettinati, un pigiama che sembra più piccolo del solito, addosso a lui. Sembra un bambino, quel bambino che non è mai stato, stretto nella favola del piccolo principe delle serpi che ha solo un funesto castello di morte da ereditare.

Mi intenerisce come non ho mai pensato che potesse fare, e il mio cuore è cera che si scioglie in un rogo inestinguibile.

Stringe le labbra come se tentasse di smettere, come se volesse davvero fermarsi dal piangere, ma non ci riuscisse, non ce la facesse.

Il ragazzino nella cucina a Grimmuald Place… in realtà non ha mai smesso di esistere… come sempre, Seth ti conosce meglio di me, anche se tento sempre di convincermi del contrario e del fatto che sono la sola depositaria dei segreti reconditi di Draco Malfoy.

Seth aveva ragione… tu sei sempre tu.

Il rampollo dei Malfoy che è abituato a prendere tutto quello che vuole, anche con i mezzi più abbietti.

L’ex Mangiamorte che ucciderebbe chi lo ostacola con ferocia e disumanità.

Il traditore di ogni parte che avrebbe ucciso i suoi genitori, se non l’avesse fatto qualcun altro.

E poi sei il ragazzo che piange di un ruolo più grande di lui in una cucina sconosciuta, che teme che qualcuno gli porti via sua sorella…

… e che difenderebbe me da una donna a cui, in qualche modo, era legato… che mi bacia in una terrazza al novilunio per proteggere il nostro comune segreto… che mi abbraccia perché resti qui… che vuole baciarmi e mi dice che non ho bisogno di giochetti per tenerlo legato a me…

Possibile che tutto quello che mi abbia detto, io l’abbia sempre capito come volevo?

Possibile che solo ora capisca quello che davvero voleva dirmi?

Mi si stringe il cuore in una morsa ghiacciata e faccio quasi di corsa quei pochi passi che mi dividono da lui, afferrandolo per la manica del pigiama. Un volo folle e disperato, dove ogni cosa mi sembra possibile.

Posso curare le tue ferite, medicarle, fare in modo che tu senta meno male e che possa riprendere a sorridere. Sorridere di quel sorriso obliquo e imperscrutabile, eppure più sincero di quello facile di Ron o di quello prevedibile di Dean.

Posso starti vicino anche in silenzio, senza dire nulla, anche se sai quanto vorrei farti tante domande e avere tante risposte. Ma mi imporrò il silenzio se a te piacerà e ammanterò tutto il mondo di silenzio, se me lo dovessi chiedere.

Posso continuare tutta la vita a non pretendere niente di più che avere te accanto, nemmeno averti vicino se per te sia troppo, posso vivere così per sempre, anche avendo solamente te e Serenity e considerarmi comunque la donna più felice del mondo.

Posso prometterti tutto questo, oggi, adesso, domani, per sempre.

Ma ti prego, Draco, non piangere più… ti prego… stavolta ti capirò. Oppure lo stesso non ti capirò, ma ci sarò lo stesso.

Ti prego non piangere più…

“Draco...” lo chiamo piano, lui che resta a testa bassa, i suoi singhiozzi amplificati dal silenzio del ristorante.

Lo scrollo piano, cercando di richiamare la sua attenzione, ed è allora che, in un secondo velocissimo, che mi afferra a sua volta per il pigiama, aggrappandosi saldamente a me, ma con troppa forza. Infatti, scivola in ginocchio e io assieme a lui.

Mi ritrovo seduta per terra, lui che piange su di me, la testa china sulla mia spalla. Lo abbraccio di slancio, allacciandogli le braccia attorno alle spalle, sentendo che sto piangendo anche io, senza un perché, per il solo fatto che stia piangendo anche lui. Le sue lacrime scivolano sul raso del mio pigiama e vorrei che invece le assorbisse, le trattenesse fino a farle sparire, fino a cancellarle, fino a quando lui stesso non le senta più sue e torni ad insultarmi, a prendermi in giro, a fare qualsiasi cosa purché sia più felice, allegro di come è adesso. Non posso sopportarlo. Non riesco nemmeno a respirare se stai così. Ti prego, Draco…

Non so quanto sia passato, quando finalmente apre la bocca e pronuncia delle scarne, sintetiche parole.

Eppure, i singhiozzi che le velano mi fanno sembrare che siano durate una vita intera. 

Leilei la suonava sempre… e io pensavo che fosse una melodia magica. L’ho cercata…tanto… ed invece era babbana…”.

Siamo alla resa dei conti.

Un ronzio nelle orecchie, come se si addensasse un temporale lontano, oltre l’orizzonte mentale dei miei pensieri. Veloce, rapido, implacabile, oscura ogni mio ragionamento. Se sono ancora qui, io non sono più io.

Non chiedergli niente. Non dirgli più nulla.

Quella che non sono più io chiede con un filo di voce, stringendolo più forte: “Lei, chi?”.

Le sue dita si stringono attorno al tessuto leggero del mio pigiama, una presa d’acciaio che temo mi strapperà anche la carne di dosso.

Non sono fatti suoi, io odio la Granger, mi fa schifo. Non voglio risponderle.

Non rispondermi.

Dice solamente: “Helena Jasmine Greengrass… la sola donna che abbia mai amato e che mai amerò… la mamma di Serenity…”.

Non era un temporale.

Non poteva esserlo.

Anche se il lampo c’è stato ed ha illuminato tutto, a giorno, dentro di me. Tutto. Tutto. Tutto.

E tutto… tutto era distrutto con la forza di un maremoto, non di un temporale.

Rovesciato, sconvolto, rivoltato da sopra a sotto. E poi distrutto, polverizzato, incenerito, annientato, annullato, cancellato.

Io stessa… sono stata cancellata.

Nel silenzio del nulla, prego che arrivi qualcosa che mi distragga dal dolore. Che mi uccida e mi levi questo posto designato, maledetto da chissà chi.

Ditemi che mi sbaglio, ditemi che non è il mio posto… ditemi, vi prego, che non è così che…

Draco ovviamente non mi sente urlare, forse sente solo che mi aggrappo a lui come se temessi di affogare.

E lui fa lo stesso con me.

La sola cosa che ci unisce, è questo. Aggrapparci l’uno all’altra, come se temessimo di morirne, come se queste parole fossero spade fiammeggianti sulle nostre teste, pronte a squartarci, a farci a pezzi.

Ci accomuna anche il perché di questo aggrapparci… anche se va in direzioni opposte.

Perché, nel secondo esatto che trascorre tra le sue parole e le mie lacrime, in quel secondo esatto… lui probabilmente ricorda la donna che ancora ama più di stesso.

…ed io, nel mio cielo sconvolto e polverizzato da un lampo feroce e spietato, trovo il pezzo che mi mancava. Il nome. E capisco che lo sono anche io.

Come te… che non lo sei di me.

In un secondo passeggero come il vento, capisco la cosa, al contempo, più facile e più difficile tra tutte.

Sono follemente innamorata dell’uomo che piange per un’altra, aggrappandosi a me, come se stesse annegando.

Sono follemente innamorata di Draco Lucius Malfoy.

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Capitolo 22
*** Forbidden colours part II - Cerulean eyed girl ***


Capitolo 22 – Forbidden colours part II – Cerulean eyed girl

Capitolo 22 – Forbidden colours part II – Cerulean eyed girl

 

Ho sempre creduto nel principe azzurro.

Nessuno lo direbbe, guardandomi, no?

Sotto l’algida razionalità e il disincantato cinismo, quella infantile consapevolezza è sempre esistita. O meglio, è sempre rimasta, da quando mi è stata istillata.

Quando ero bambina, se mia mamma aveva da fare, faceva la cosa più naturale del mondo per una genitrice con una figlia rompiscatole da accudire e un lavoro che reclamava attenzione, al pari e, forse, più di me. Mi preparava un panino con burro e marmellata di albicocche, mi metteva un tovagliolo bianco sulle ginocchia per impedirmi di sporcarmi e mi parcheggiava davanti alla tv, lasciandomi alla blanda custodia di una vicina.

Sbocconcellando la mia merenda, sedevo incantata a guardare i classici della Disney, gli occhi spalancati nel rimirare principesse meravigliose, vestite di velluto e broccato, gli occhi luccicanti di zaffiro e i capelli rifulgenti d’oro. Aurora, Biancaneve, Cenerentola, Ariel… tutte, tutte, alla fine della fiaba, incontravano un principe bellissimo, biondo anch’esso, dai modi gentili ed affabili che rompeva l’incantesimo che le imprigionava e le conduceva in un castello d’avorio fino alla fine dei loro felici e rifulgenti giorni.

E io ci credevo ciecamente, mi rimiravo nello specchio facendo mille giravolte e piroette, abbracciando un grande cuscino scozzese come se fosse il torace saldo e possente del mio principe azzurro. Eppure… anche allora… quando ero solo una bambina, io avevo sempre una domanda curiosa e pressante nel cervello.

All’inizio, era una nebbiolina confusa che si insinuava lenta nel mio pensare, mentre mi drappeggiavo addosso la lunga tenda di pizzo avorio del salone, fingendo che fosse un vestito elegante. Poi, divenne sempre più grande ed avvolgente, mentre guardavo ancora altri film, colmandomi di indorate fantasie.

Una sera, quando mia mamma, tornò a casa e mi abbracciò forte, cercando di darmi quell’affetto colpevole che mi aveva negato per il lavoro, io storsi il naso per l’odore del disinfettante che l’accompagnava sempre, dopo una giornata di ambulatorio, poi le chiesi serissima: “Mamma, ma se Cenerella sposa il principe azzurro, le altre ragazze che erano andate alla festa che fine fanno? Chi sposano?”.

Mia mamma mi osservò meravigliata, poi rise e mi scompigliò i capelli, spaventata per un attimo dalla mia espressione compita che le aveva fatto pensare chissà che.

Da allora, non vidi più quei film.

Era come se non ci credessi più. Avevo solo sei anni e già la mia mente uccise la mia fantasia.

Ma una parte di me… non so come… aveva continuato ostinatamente a pensare che, in fondo, per ognuna di quelle ragazze chiamate a partecipare ad un ballo in cui non sarebbero state guardate nemmeno per sbaglio, esisteva, fuori dalla porta scintillante del castello, un principe che le stava aspettando.

In fondo, la terra è grande e posto per altri castelli, ce n’era sempre.

Mi feci comprare da mia mamma “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry, convinta che fosse quasi una sorta di manuale per riconoscere questa persona leggendaria. Io non ero bionda, né bella, né gentile, l’avrei trovato lo stesso? E che succedeva se non lo si trovava? Se era di un’altra principessa che ancora non era apparsa e che magari dormiva ancora in una foresta?  

Non c’entrava nulla ovviamente quel libro con il mio ragionamento cretino, mi piacque molto, lo rilessi anche più volte, ma non era stato di ausilio al mio teorema.

Eppure, l’immagine in copertina mi diede il modello che dovevo cercare. Un bambino elegante ed impettito, dai vestiti raffinati e seriosi, con intensi occhi chiari e capigliatura color del grano.

Draco Malfoy sul treno di Hogwarts tredici anni fa.

Poi mi convinsi che non doveva essere per forza biondo… insomma, anche con i capelli rossi andava bene. Diamine, erano sempre capelli, il contenuto non cambiava. Poteva anche avere un sorriso contagioso, un aria perennemente imbarazzata e vestiti non propriamente di prima mano.

La guancia di Ron sotto le mie labbra, prima di una partita di Quidditch.

Poi, dopo, mi dissi che anche uno che non era nato per essere un principe, poteva andare bene. Io non assomigliavo molto ad una principessa, quindi ci poteva anche stare che non dovessi trovare un principe… non mi risulta che ai balli andassero anche quelle normali.

Evidentemente, il principe azzurro era fuori dalla mia portata.

Un bicchiere di sangria accostato con forza a quello colmo di Dean.

Poi… basta.

Improvvisamente, avevo smesso di pensarci. Perché, insomma, una si fa film fino ad un certo punto.

Se avessi aperto la cassetta della posta ed avessi trovato l’invito ad un ballo, l’avrei gettato nell’immondizia. Qualsiasi principe si fosse palesato ai miei occhi, si sarebbe rivelato sempre come il freddo e greve rospo che era, per quanto fosse vestito elegante, gentile, ammodo ed innamorato.

In fondo, io con quella tonta di Cenerentola non avevo mai avuto niente a che fare, a ben vedere. Fossi andata al ballo, fosse anche per pura curiosità, non mi sarei nemmeno sprecata a mettermi in abito lungo, ma schioccando la lingua, sarei rimasta appoggiata al portone del castello, ridendo sotto i baffi.

Poteva sussurrarle quello che voleva nell’orecchio mentre volteggiavano nel salone addobbato, ma, appena le porte si sarebbero chiuse e tutti gli invitati fossero usciti, lui sarebbe tornato quello di sempre… lei l’avrebbe visto senza mantello, senza spada, senza uniforme.

E sarebbe stata una sconfitta.

Non era un principe, si divertiva solamente a fingere di esserlo.

Era una scenetta anche abbastanza patetica, quindi, io ormai nel castello non ci entravo proprio. Non era posto per me.

Poi, in un lampo livido di giugno, in ginocchio per terra, con accanto un pianoforte a coda che vibrava ancora di note maledette, mi ero resa conto che invece io, in un austero castello da fiaba, c’ero entrata, eccome. Vestita di tutto punto, perfetta, con gli occhi smaglianti di illusioni. Infrante.

perché questo castello, aperto ed illuminato, non stava aspettando me. Non sono io la principessa di questa fiaba.

Sono una di quelle che aspettano e sperano, avvolte nei loro vestiti inutilmente abbelliti da fiocchi e trine.

Sono una di quelle che non saranno mai scelte e che guarderanno ballare i due protagonisti, sognando quell’amore grande che non avranno.

E magari ameranno pure, lo ameranno vedendolo danzare, perso negli occhi di una donna che non sono loro. Resteranno silenti testimoni di un amore eterno ed inestinguibile di cui non hanno conoscenza. Feriranno le mani guantate di raso, morderanno le labbra riflesse di corallo, lisceranno inutilmente la gonna di seta da inesistenti piegoline.

Ma lui passerà sempre oltre, non guardandole neppure. Non guardandomi neppure.

Era un principe, allora, non mi ero sbagliata. Ed aveva anche una principessa.

Quindi, Hermione può anche uscire da questo castello sterminato e maestoso. Non è mai stata la sua di fiaba.

 

Che succede a quelle che vanno al ballo e non vengono scelte? Che cosa fanno, dopo, quando escono nell’aria crudele della notte? Quando sono… sole?

 

Fuori il mondo può anche essersi fermato.

E probabilmente nemmeno me ne sono accorta. O magari, in fondo, non si è fermato niente. Tutto ha continuato a girare come sempre, sono nati bambini, sono morte persone che probabilmente non lo meritavano, risate sono scoppiate con fragore, pianti evanescenti ed isterici si sono riversati su spalle amiche.

Certo che tutto è continuato come sempre. Ovvio. Necessario e giusto al tempo stesso.

Con l’eco della mia mente ancora in piedi, ho sentito che ha iniziato a piovere forte fuori da questa stanza, un tenue eco di terra bagnata mi ha urtato dentro come un calcio ben piazzato, armato da struggente malinconia. Poi è passato. Lo amo. Niente può fare male dopo quello. Non è vero. Ama un’altra.

È qui tra le mie braccia, piange e ama un’altra.

È qui… e ama un’altra.

Io lo amo… e ama un’altra.

Che succede a quelle che vanno al ballo e non vengono scelte? Che cosa fanno, dopo, quando escono nell’aria crudele della notte? Quando sono… sole?

Credo di essere semplicemente rimasta cosciente di me stessa per quel movimento incredibilmente lento, ripetitivo, costante, di accarezzargli piano la spalla, cercando di calmarlo. Rassicurante nel suo ripetersi come l’onda del mare, lambisce lieve la terra, poi va via.

E io, uguale… ma non così piena di forza come un’onda, non così viva e gorgogliante di energia da poter ripetere lo stesso gesto anche per l’eternità.

No.

Sono un’onda che si ripete, perché non posso fare nient’altro. Come se fossi una specie di manichino, morto dentro, ma perlomeno somigliante ad una cosa che è stata viva, vista da fuori. Come quelle ballerine nei carillon, congelate per sempre, in un elegante arabesque.

La musica finirà ed inizierà daccapo, e loro saranno sempre ferme lì, con la gamba alzata e il braccio teso, gli occhi fissi nel nulla.

E, ora, sono utile fino a quando la mia mano non si fermerà dall’accarezzarlo, dal tentare di calmarlo, da darmi un senso inutile. Poi smetterò di averne.

Smetterò di servire a qualcosa.

Smetterò di fare qualcosa.

Ricomincerò a sentire… e smetterò di esistere come me stessa, probabilmente.

Cadrò a pezzi, dilaniata in milioni di miliardi di schegge. Con quel senso consapevole che ogni minuscolo frammento continuerà ad urlare, a gridare, a piangere, a disperarsi, moltiplicando infinite volte ciò che sento dentro. Il mio amore stupido. Il mio dolore stupido. Il mio cuore stupido. Il mio essere una maledetta idiota stupida.

Dopo un po’, Draco sembra calmarsi, i suoi singhiozzi diventano più tenui, non sento più le lacrime bagnarmi il pigiama, spegnendosi dopo essere scivolate lungo il mio collo. La mia mano continua i suoi colpetti, non potrei fermarla nemmeno se volessi, va per conto proprio come se avesse un senso tutto suo, staccato dal resto del corpo, un impreciso senso di necessità che non so cogliere nemmeno io.

Io non la potrei fermare.

Infatti, se si ferma, non è per me.

È costretta a fermarsi, quando Draco si stacca da me, poggiando le mani sulle mie spalle, la fronte sulla mia, gli occhi rossi, il respiro corto. Una vicinanza che è solo una lontananza continua, solo il preambolo di una separazione, come una specie di commiato, un saluto affrettato ed un’ultima occasione per ricordare ciò che non siamo mai stati, io e lui. Terra e mare. È un’illusione il pallido momento in cui ci unisce un’onda.

Poi, saremo solo granelli di sabbia dispersi nel vento.

Dio mio, fammi andare via, accada qualsiasi cosa… ma fammi andare via… ti prego, non chiederò mai più nulla in tutta la mia vita…

Fammi andare via, allontanalo da me…

La mano immobile e gelata a mezz’aria non si muove più, i pensieri ricominciano come un fiume in piena a cui avevo solo messo un tronco come diga, mi investono in pieno e… ne sono travolta ed asfissiata.

Draco si accorge del mio labbro che trema, si accorge che sto piangendo e mi guarda piangendo a sua volta, incredulo, gli occhi spalancati da bambino, come se tentasse di capire, di leggere oltre il mio viso umido, stravolto, sconvolto, incredibilmente lontano da quello che era, fino a qualche attimo fa. C’è una tenerezza nei suoi occhi che non c’è mai stata prima, una morbidezza triste ed inquieta che mi sorprende, tra le mie mille lacrime nuove, una delicatezza che fonde l’argento dei suoi occhi, rendendolo liquido, vivido, lucente. So che mi ha abbandonato l’orgoglio, la sola cosa che mi tenesse in piedi, e so che, se non lo imploro di lasciarmi andare, è solo perché credo di aver anche perso la capacità di parlare.

Non mi fido di nulla di me stessa in questo momento.

Né della bocca, né della testa e soprattutto del cuore.

Se sto ferma, se sto immobile, se non parlo… se non faccio assolutamente nulla… magari, scivolerò via da questo momento senza nemmeno accorgermene.

In fondo, se non avessi chiesto chi fosse la lei di cui parlava… e se non avessi suonato il pianoforte… sarei ancora così bellamente arrabbiata con lui solo perché ha tentato di baciarmi… Dio, magari fossi stata per sempre piena di quella rabbia, invece che di questo amore maledetto…

Amore.

Amore.

Abbasso gli occhi, singhiozzando, mentre quella parola minuscola mi risuona dentro, vibrando come una nota lugubre e stonata, lunghissima, rimbombante, trattenuta, che echeggia in un silenzio così perfetto da sembrare irreale. Dentro, è tutto silenzio, tranne che per quella parola insopportabile. Il nome.

Amore.

Improvvisamente, sento la mano di Draco sotto il mio gomito, mi trascina di peso, in piedi, trattenendomi appena. Resto con la testa bassa, facendomi trascinare passivamente di sopra, su per le scale, non chiedendomi nemmeno che cosa abbia in mente, non interessandomi neppure.

Si ferma davanti alla porta della sua stanza ed è solo allora che alzo la testa, curiosa e meravigliata, scorgendo la soglia che aprii di nascosto da lui, ma che non mi ha mai fatto varcare di sua iniziativa in tutto questo tempo. Gli occhi annebbiati di lacrime, lo scorgo spalancarla con il piede, ancora tenendomi per il gomito di malagrazia, trascinarmi dietro di lui e poi chiudersela alle spalle. È tutto buio, tranne per una piccola luce accanto alla culla di Serenity.

Sento il respiro della piccola che dorme profondamente, ed istintivamente mi chiedo quanto abbia di sua mamma. Helena Jasmine Greengrass.

Non la guarderò più quella bambina.

E mi uccide. Ma non lo farò. Cercherei sempre di trovare quella donna in lei.

Pur non volendo e pur non cercandola esplicitamente, cercherei sempre di vederla. E se la trovassi, non potrei sopportarlo. Nemmeno per un secondo.

Draco mi lascia un attimo nel buio, allontanandosi, non mi chiedo nemmeno che stia facendo, mentre lo sento armeggiare con qualcosa nascosto in un armadio.

La curiosità mi ha portato a questo, a stare qui con il cuore a pezzi, in una stanza buia, dove dorme la figlia della sola donna che Draco abbia mai amato.

La curiosità…è stata lei, piccola e bastarda, a farmi restare qui. A farmi chiedere perché Malfoy vivesse da babbano. A farmi accettare la sua proposta di lavoro assolutamente imprevista. A farmi chiedere dei suoi genitori. A farmi correre a casa di Rachel. A farmi ascoltare lui che rompeva con Astoria.

E, alla fine, come pegno per questa verità che volevo assolutamente, come se avessi un diritto sovrannaturale di dover assolutamente sapere tutto, la curiosità si è presa la mia anima.

Per sapere la verità, ho venduto la mia anima a questo diavolo dagli occhi chiari.

Per sapere la verità, io gli ho donato la sola cosa che mi restasse, senza che nemmeno lo sapessi.

Ho svenduto il mio cuore.

Mi sono innamorata di lui.

Perché non sono andata via, quando potevo?

Quando mi si riavvicina, sembra che non abbia mai pianto, gli occhi sono asciutti, l’espressione seriamente consapevole di stesso, le spalle contratte. Si ferma davanti a me e mi guarda a lungo, senza dire una parola, serio, impassibile, come se mi stesse soppesando, come se fossi un certo quantitativo di merce da valutare.

Basta, per favore…

Mi serro nelle spalle, abbassando gli occhi, cosciente che non ho mai smesso di piangere silenziosamente, cosciente di non aver mai sentito le mie guance asciutte da quando ha pronunciato il suo nome.

“Hai ragione…” la sua voce reca tracce di quel pianto appena trascorso, ma le cela in modo convincente. Suona freddo, distaccato, sicuro, come sempre.

Come diamine fa? Come ci riesce?

“Che cosa?” chiedo, non riuscendo a capire, alzando lo sguardo nella penombra che lo rende invisibile ai miei occhi colpevolmente innamorati.

“Hai ragione…” ripete lui con pazienza, come se davvero non avessi sentito “Questa storia deve finire… oggi, adesso…”.

“Non capisco…” mormoro ancora, un cinguettio tremante che esce dalle mie labbra ancora inumidite di lacrime.

Immagino persino il suo viso nel buio, quando dice lapidario: “Devi sapere tutto… di me e di Helena…”.

Espressione accigliata e labbra strette. Occhi chiarissimi e limpidi. Necessità ed impossibilità che non sia come dice lui.

Deve essere che prego il Dio sbagliato… non c’è altra spiegazione…

Istinto di sopravvivenza, forse, mi rende improvvisamente la voce: “No… non devo sapere niente… credo di avertelo già spiegato… non mi interessa…”. Rincuorata dal tono sicuro e deciso, e dal fatto che perlomeno l’urgenza del momento mi ha reso più calma, rincaro la dose: “Non ho mai voluto sapere nulla, né di te, né di Astoria, né di…”, una fitta intollerabile al petto, ringrazio il buio che mi consente di riprendere fiato senza che se ne accorga: “… né tantomeno di Helena, chiunque lei sia… non ti ho chiesto mai niente e non capisco che cosa mi devi adesso…”.

“A te magari non interessa…” riprende lui stoico, dandomi le spalle “Ma a me sì…in un modo contorto, ma è così, è necessario che tu sappia tutto di questa storia…”.

“Necessario, per cosa, scusa?! Che cosa deve finire oggi? Puoi spiegarmelo?” chiedo ancora, ignorandolo e cercando di prendere tempo. Sento il sudore freddo inzupparmi la schiena, un impreciso senso di puro terrore al pensiero di sentirlo parlare di lei.

Dopo… dopo che avrai visto…” risponde lui sibillino, voltandosi verso di me.

“Visto?”. Non capisco fino a quando non vedo alle sue spalle, poggiato sulla scrivania, qualcosa di vagamente circolare. Emana un lieve bagliore perlaceo, insufficiente ad illuminare la stanza, si riflette solo nei suoi occhi grigi, rendendoli ritagli di luna.

Un pensatoio.

Non soltanto sentirlo parlare di lei… no… anche vederlo con lei… non se ne parla neppure. Non ce la faccio. Non ce la posso fare.

Scuoto il capo con energia, negando quella possibilità. Ma non faccio nemmeno in tempo a farlo che Draco mi afferra per un polso, trascinandomi dietro di lui. Mi puntello con i piedi per terra, cercando di ostacolarlo, mi ritrovo persino a gridare, ma come sempre è più forte di me. Serro gli occhi, un fragore d’acqua nelle orecchie, mentre cadiamo entrambi nel pensatoio.

Poi più nulla.

 

(NDA: da questo momento in avanti, chiaramente avremo a che fare con i ricordi di Draco. Sono in terza persona e, dal punto di vista di Draco stesso, ovviamente. Per distinguerli da quando invece a parlare è Hermione, uso un carattere diverso. Ecco una piccola leggenda:

Draco ed Hermione = Hermione che parla.

Draco ed Hermione =  come sempre, sono i pensieri più intimi di Hermione stessa.

Draco ed Hermione =  sono i ricordi di Draco).

 

La mente di Draco è un inferno di porte chiuse.

Corridoi immacolati e deserti, pieni di voce attutite da porte chiuse. Alcune sono enormi, imponenti portoni dall’aria antica, di legno massiccio e scuro, chiusi da ferri e lucchetti sigillati. Altre sono piccole, minuscole, non ci passerebbe nemmeno un mio piede. Altre ancora, sono spalancate, ma al loro interno, c’è poco o nulla.

Scale a chiocciola, si arrampicano in altezza dove nemmeno la mia immaginazione riesce ad arrivare, tutto è un eco di voci, rumori, odori sconosciuti che si mescolano in vario modo. È tutto così bianco da sembrare accecante, eppure così asettico e freddo… sento la mano di Draco stringere la mia, guida silente per ciò che mi vuole far vedere, come un Caronte ineluttabile che mi conduce all’inferno.

Il polso mi fa male, per dove mi ha stretta prima, per la forza che ci ha messo per trascinarmi qui. Alle mie spalle, vedo il gorgo d’acqua che è l’ingresso del pensatoio.

Se corressi, magari ci arriverei… e lui mi riporterebbe qui. Non c’è altra soluzione.

Che diamine vuole ancora da me?

Girandomi a guardarlo, lo vedo immobile e fermo, rilucente d’argento come un pensiero, esattamente come me. Sono dello stesso splendore opalino anche le mie mani che allungo oltre il mio corpo. Draco è serio, impassibile, la sua mano nella mia invece è di ghiaccio. Inizia a camminare, velocemente, sapendo perfettamente dove portarmi.

Mi chiedo ancora perché sta facendo tutto questo.

Non lo vuole fare, è evidente, ci sta soffrendo, la sento la tensione nella sua mano… eppure, pensa che sia necessario. A cosa?

Perché dover condannare entrambi a questo inutile dolore che poteva risparmiarci?

Mentre camminiamo velocemente, riesco a gettare solo brevi occhiate nelle stanze attorno a noi, mentre superiamo corridoi e saliamo scale.

Una luce calda ed ambrata da una camera socchiusa. Porta di ciliegio dai riflessi dolcemente rossi.

Ci guardo fugacemente dentro.

Narcissa Black Malfoy guardò delicatamente il figlio, i suoi occhi azzurri scintillarono per un attimo dal riflesso dello specchio di fronte a lei.

Poi si spensero così come si erano accesi e volse lo sguardo altrove, riprendendo a spruzzarsi del profumo. Odore di rosa. Passò una mano nei lunghi capelli biondi, annodandoli poi in una crocchia severa sulla nuca.

Sembrava molto più grande dei suoi pochi anni, sguardo vecchio dietro le palpebre lisce come petali di fiori.

Draco la chiamò leggermente, le guance rosse per l’indignazione, il viso infantile buffamente piegato in una smorfia di disappunto: “Madre, mi stai ascoltando?!”.

“Anche se Potter non è voluto diventare tuo amico…” commentò con voce strascicata Lady Narcissa, voltandosi verso il figlio “Non vuol dire che tu ti debba eccessivamente dolere per questo. Sarà anche una… celebrità…ma, in fondo, Potter è sempre un Mezzosangue, e certa gente dovrebbe solo sentirsi onorata di poter camminare dove noi passiamo…”, la sua voce eterea assunse un tono stentoreo mentre aggiunse grave: “Vedi che non se lo scordi mai, Draco…”.

Il bambino biondo assunse un cipiglio molto più serio dei suoi undici anni scarsi e si erse nel suo abito di velluto verde bottiglia, sicuro di cose che non conosceva e non capiva fino in fondo, ma che erano dogmi inscindibili dalla sua persona, incontestabili e incontrovertibili.

“Non accadrà mai più, madre…”.

Credevo di aver anche dimenticato che Draco aveva tentato di essere amico di Harry, al primo anno, attirato dalla sua fama. E stranamente doveva anche esserci rimasto male per il rifiuto subito da lui, incredibile. Continuiamo a camminare velocemente, la smania di Draco di farmi conoscere la storia di Helena mi sconvolge e mi rende nervosamente curiosa di guardarmi attorno. La mente di Draco è così piena di cose che non conosco e che vorrei conoscere… ma è soprattutto l’assoluta consapevolezza di non volerne sapere nulla di lui e di Helena, e di esserci invece costretta, che mi fa indugiare oltre queste porte, osservando con lentezza studiata i ricordi di Draco.

Una porta scura, massiccia, di legno nodoso, con una maniglia avviluppata nelle forme di un serpente d’oro.

Anch’essa socchiusa, ne filtra una luce che potrei definire solamente… buia.

Stavolta non riesco a vedere al suo interno, sento solamente delle voci.

“Padre, ma è bellissima!!” una voce entusiasta ed acuta di gioia.

“Vedi di non farti soffiare la Coppa da Potter, adesso…” una voce adulta e scorbutica, che cela con fatica orgoglio smisurato.

La voce di Lucius Malfoy.

Lo ricorda ancora, allora. Ricorda ancora i suoi genitori, sebbene dica sempre il contrario. Sono sempre qui dentro, nel suo cuore. Come potrebbe essere altrimenti, in fondo? Per buona parte della sua vita, ha avuto solamente loro. Spio il suo viso con la coda dell’occhio, i suoi occhi sono pieni di ombre minacciose, procede velocemente come se cercasse di tenere lontani quei ricordi, palesemente contradditorio nel fatto di averli poi conservati.

Accelera ancora di più il passo, quando improvvisamente scorge una porta stavolta serrata, piccola come la mano di un bambino. I suoi occhi si stringono rabbiosi e la sua mano mi trascina con furia, eppure, passandole davanti, sento ugualmente delle urla provenire dall’interno.

Mi si drizzano i capelli sulla nuca, mentre riconosco una delle due voci.

Una voce femminile, resa acuta dalla rabbia e dal livore. Odio filtra dalle sue parole, rendendole unte di risentimento e di acredine. Eppure, non sembra colpita da questo, sembra… abituata.

“Sei davvero un idiota colossale, Malfoy! Un idiota! Ti vedo piangere e non ti dovrei chiedere che diamine hai?! Fosse anche perché adesso per chissà quale discutibile ragione, sei dalla mia parte…?!”.

“Io sarò da molte parti, Granger, ma non sarò mai dalla tua, spero che questo ti sia chiaro…”. Velata da lacrime celate e vergognosamente negate, la voce del ragazzo sputa fuori quelle parole con astio.

Un tonfo di qualcosa che cade per terra.

“Cristallino, Malfoy… spero davvero che ci lasci le penne in questa stramaledetta guerra!”. Porta sbattuta.

Un sospiro, colmo di angoscia. Parole bisbigliate ad una stanza adesso vuota.

“Tranquilla, Granger… probabilmente sarà così…”.

Eravamo… noi…

Draco si ferma, improvvisamente, voltandosi verso di me. Lo guardo, sconvolta, stringendo la sua mano nella mia e portandomi l’altra alle labbra.

“La notte a Grimmuald Place…” mormoro più a me stessa che a lui “Quando ti trovai lì, da solo… non ricordavo di averti detto quelle cose…”.

Sorride piano: “Non importa… quello che c’è adesso, non cancella quello che siamo stati fino a qualche anno fa…”.

“Mi dispiace…” mormoro autenticamente pentita, abbassando gli occhi.

La sua mano mi risolleva il viso e, guardandolo, per un attimo, dimentico tutto quello che è successo fino ad ora. Che sono nella sua mente, che sto per vederlo con Helena, che ha lasciato che Astoria mi controllasse… che sono innamorata persa di lui… e mi perdo nei suoi occhi meravigliosi.

“Non importa, Hermione…davvero…” aggiunge convinto, trattenendo una mano sul mio viso “Probabilmente ricorderai anche tu cose del genere, no?”.

Annuisco, figuriamoci se non le ricordo…

“E probabilmente saranno anche di più, conoscendomi…”. Sorrido leggermente, non staccarti mai da me.

Improvvisamente, i suoi occhi, sereni, serafici e tranquilli, tornano specchi torbidi e si stacca da me come se scottassi. Mi stringe di nuovo il polso con forza e riprende a camminare, dopo aver detto frettoloso: “Non pensarci più…”.

Incespico, seguendolo, chiedendomi ancora perché abbia tutta questa fretta.

Quello che c’è adesso… sapessi fino a che punto cosa c’è per me, adesso…

Dopo qualche passo, finalmente si ferma. Respira a fatica, ma non credo che sia per lo sforzo, in fondo non ho fatto alcuna resistenza, convinta ormai come fossi che non avrebbe fatto alcuna differenza. Tornano anche le lacrime nei suoi occhi, tira su con il naso, cercando di fermarle. E allora capisco. Siamo arrivati.

Davanti a me, c’è un portone immenso, devo alzare la testa per guardarlo fino alla sua sommità. Decorato con dei motivi di rose, incise ed intagliate nel legno chiarissimo, splendono di luce propria. Come molte altre porte di ricordi nella mente di Draco, questo mastodontico portone sembra inaccessibile, ma lo sembra molto più degli altri.

Prima di tutto, per la sua dimensione… e poi per chiavistelli infiniti che ne chiudono la serratura, grande come un mio braccio.

Lo soppeso con lo sguardo in ogni particolare, accanto alla sua serratura, le rose si intrecciano in vario modo, formando in caratteri eleganti le lettere H.J.G.

Sobbalzo, le mie iniziali… poi, con una punta di delusione angosciosa, mi ricordo che sono anche quelle di Helena. Helena Jasmine Greengrass.

Una Greengrass… ancora non ci avevo pensato… ma non erano solo in due? Astoria e Daphne? Chi è allora questa terza Greengrass? Penso sempre che abbia a che fare con quel ramo della famiglia, se non altro perché questo giustificherebbe la presenza di Astoria, qui.

Ma, allora, perché non ho mai sentito parlare di lei? E come me, nessun altro?

Magra consolazione è che, tra poco, mio malgrado, saprò vita, morte e miracoli su questa donna.

Draco fa un solo incerto cenno del capo, e il portone enorme si apre cigolando. Mi trascina ancora dietro di sé, stavolta cerco anche di fare resistenza e di chiamarlo per fermarlo, ma senza successo. Ormai ha deciso e io, poco, ci posso fare. Sì, come no.

“Malfoy!” urlo con tutta la voce che mi ritrovo in gola, facendolo voltare ed ansimando per lo sforzo di continuare ad ostacolarlo, puntando i piedi per terra “Quale parte, esattamente, del mio discorso non ti è chiara?! Te l’ho detto anche questo pomeriggio… non me ne frega nulla della tua vita, sono stata chiara? O devo ripetermi ancora in modo che i tuoi neuroni recepiscano il messaggio e facciano finalmente contatto?!”. Il respiro corto, lo guardo con furia, sperando che interpreti i miei occhi lucidi come rabbia, e non per quello che sono realmente. Sono dura, lo so, ma è davvero il solo modo che mi è rimasto per salvare me stessa.

“Ti ho già detto, Granger…” riprende lui con la mia stessa intonazione severa ed inflessibile “… che non lo sto facendo per te… ma solo ed esclusivamente per me stesso. E che, dopo che avrai visto tutto, ti spiegherò il motivo per cui lo sto facendo… sei sempre quella che ambisce alla verità, al verbo assoluto, e ora ti tiri indietro?! Cosa c’è che non ti va esattamente?”, abbassa la voce e, per un attimo, credo che voglia usare un tono di voce soffuso e malizioso. Credo che fosse anche la sua di intenzione, mentre socchiudeva gli occhi e mi guardava intensamente, accendendo gli occhi grigi. Ma invece, la voce che gli esce, è diversa.

Bassa, roca, profonda e… triste. Gli occhi continuano ad essere lucidi specchi di dolore.

“Che c’è? Non riusciresti a vedermi con un’altra donna?” mi sussurra.

Ci ha preso perfettamente.

Punta sul vivo, ribatto sicura: “Non dire sciocchezze… non ne vedo solo l’utilità…”.

“Ce la vedo io l’utilità…tranquilla, le mie azioni hanno sempre una motivazione, per quanto tu ne possa dubitare…”.

Rassegnata, mi lascio condurre passivamente oltre la soglia, convinta di aver esaurito gli argomenti che potevo portare a sostegno della mia teoria. Spero solamente che non sia stata una storia lunga, perlomeno nel tempo, e che non abbiano troppi ricordi assieme. Che è la storia più importante della sua vita, già lo so.

Oltre la soglia, contrariamente alle premesse, non c’è niente di eccezionale. Un enorme spazio bianco, delimitato da uno specchio sconfinato che si estende a perdita d’occhio su un lato della stanza. Draco mi conduce davanti ad esso e, sofferente, poggia una mano sul vetro freddo.

Lo specchio reagisce al suo tocco, turbinando di luci, colori ed ombre sconosciute, che iniziano a sbocciare in ricordi lontani davanti ai miei occhi, socchiusi, inutilmente, per tentare di soffrire il meno possibile, da quello che sto per vedere.

 

La guerra aveva avuto il pregevole dono di tirare fuori la vera natura delle persone.

A quello, non riusciva a smettere di pensare Draco Malfoy, mentre se ne stava seduto nell’ufficio deserto del Ministro, apparentemente ipnotizzato da un arazzo che rappresentava, in colori accesi e in filigrana d’oro, i nomi degli Auror che avevano perso la vita in quella guerra. Come ex Capo del Dipartimento degli Auror, doveva essere sembrato doveroso per Scrimgeour farlo realizzare; evidentemente conosceva molte di quelle persone i cui nomi erano solamente tratti di fili colorati, pallida traccia di vita dispersa nella cenere di quei giorni spezzati.

Draco chiuse le mani in grembo a pugno, chiedendosi se poteva esistere, in chissà che luogo dimenticato da Dio, qualcosa di simile per gli “altri”.

Chiamava sempre così i Mangiamorte, quelli che erano dall’altra parte… come Tiger, Goyle, Nott, Zabini… i suoi vecchi amici… e come sua madre e suo padre.

Come se, con quell’appellativo generico che definiva lontananza ed estraneità rispetto a stessi, poteva effettivamente chiuderli fuori dalla sua mente e dalla sua memoria.

E diventare finalmente il traditore che avevano plasmato dalla sua carne e dal suo spirito.

Draco sollevò gli occhi umidi, guardandosi ancora attorno con espressione impaziente, aspettando che il Ministro tornasse, dopo che lo aveva lasciato nel suo ufficio da solo. I suoi occhi pigri si poggiarono sui libri antichi, sui quadri sonnecchianti, sulle pile di fogli di carta sulla scrivania, senza guardarli veramente. Aveva una sola cosa nella mente.

Quella guerra aveva avuto il pregevole dono di tirare fuori la vera natura delle persone, Draco se lo ripeteva ostinatamente nella testa, come un mantra.

Lui si era scoperto un traditore.

Del suo sangue puro, della sua famiglia, del suo stesso essere che ribolliva ancora nelle profondità del suo spirito.

Perché lo aveva fatto? Era la prima volta che ci pensava compiutamente.

Se glielo avesse chiesto un nome su quell’arazzo, avrebbe risposto con una sequela di ridondanti parole come “giustizia”, “bene” e “coraggio”. Ne avrebbe sentito il sapore pieno e avvolgente nella bocca, come latte caldo, e se ne sarebbe saziato e dissetato. Avrebbe indorato ogni suo discorso del loro gusto sconosciuto ed, in parte, ancora ostile. E tutti ci avrebbero creduto.

Ma, se glielo avesse chiesto uno di loro, degli “altri”? Che avrebbe detto?

Non avrebbe nemmeno risposto. Erano stati loro a costringerlo a questo. Quindi, non aveva senso che glielo chiedessero. Questa domanda, da loro, non sarebbe mai arrivata. Lo avrebbero ucciso, senza parlare, era questa la sola cosa che avrebbero potuto fare. E, per quello, non c’era vitale necessità di parlare. A meno che non si volesse costringere la vittima anche alla tortura mentale.

Ma, se anche glielo avessero chiesto e lui avrebbe risposto, che cosa avrebbe detto?

Convenienza, probabilmente. Vendetta, sicuramente.

E finalmente, con qualcuno, sarebbe stato sincero.

Solo pochi, in fondo, sapevano la verità su di lui… solo pochi sapevano dell’origine del suo ravvedimento. Pochi. Gli altri si erano limitati ad accettarlo con un’alzata sarcastica di sopracciglio.

Di stranezze ce ne erano anche troppe in quella guerra. E, in fondo, forse tutti sapevano che la guerra mostrava la vera indole delle persone. E la sua, bontà d’animo discutibile a parte, doveva essere lontana da quella del Mangiamorte. Basta. Non c’era bisogno di complicate spiegazioni.

Ma essa, la spiegazione, invece c’era.

Sì, che c’era. E gli faceva schifo solo a ripensarci.

Quando era scappato da Hogwarts con Piton, dopo l’omicidio di Silente, quando aveva visto la vita dei Mangiamorte da vicino, quando aveva capito che cosa era…

Repulsione. Ecco cosa aveva sentito.

Sentiva sempre il sangue sulle mani, non si staccava mai, sebbene le lavasse, sebbene non l’avesse versato lui.

Ancora.

Era secco, dolciastro, appiccicoso.

Nei ricoveri di fortuna con il suo professore di Pozioni, mentre fuggivano, le sfregava con foga fino a renderle viola, nel suo giaciglio umido e sporco. Ma quella sensazione non passava mai, e lo disgustava. Immaginava ori ed incensi, ed invece non riusciva a scordare gli occhi di Silente. Erano un tormento. Continuo, eterno, inestinguibile. Una febbre.

Lo portarono a Malfoy Manor, in fin di vita, ormai, dopo giorni passati alla diaccio, con quella febbre che nemmeno le cure di Piton sembravano sanare. Continuava a salire, diventava fuoco progressivamente, lo ardeva dall’interno, sciogliendolo come burro fuso. Nell’agonia, i pianti dei suoi genitori, le parole di Silente “Uccidere non è nemmeno facile come credono gli innocenti…” e grida e risa che lo tormentavano da quando era bambino, incubo infantile a cui non aveva mai dato peso. Stava per morire e lo sapeva, ma Piton trovò la cura. E fu peggio della morte stessa.

Estrasse dei suoi pensieri dalla sua mente, in un barlume di lucidità glieli mostrò. Il martirio dei Paciock a cui aveva assistito quando aveva pochi mesi. Ad esso, ora si era aggiunto il ricordo dell’omicidio di Silente.

Non era una febbre fisica, era una febbre mentale, causata dal rimorso che nemmeno lui sapeva riconoscere come tale.

La cura era semplice. Draco non poteva essere un Mangiamorte. Doveva essere libero. Probabilmente sarebbe morto, in caso contrario. Piton lo sentenziò con serafica calma alle sue orecchie incredule.

Quella era una condanna, la medicina che, come malefico assenzio, gli era stata prescritta.

Draco obiettò con voce flebile che sarebbe passata, che forse era solo debilitato per il viaggio, che lui se ne fregava dei Paciock e di Silente. Non gli credettero. Credettero a Piton.

Potevano proteggerlo, potevano nasconderlo a Voldemort, potevano semplicemente farlo stare lì e, sebbene ora fosse inutile, usare la sua salute cagionevole come spiegazione ineccepibile per la sua mancata partecipazione alle missioni dei Mangiamorte. Invece no…

Lo vendettero. Al nemico.

Fu Piton a suggerirlo, servivano Mangiamorte esperti e lo barattarono con gli Auror, convincendoli che Draco fosse il vero assassino di Silente, e quindi una preda d’eccellenza. In fondo, senza Potter, nessuno poteva smentire quella versione; fino a quando, poi, avessero violato la sua mente, sarebbe passato del tempo. E ormai la proficua transazione sarebbe già avvenuta. 

I suoi genitori non fecero nulla, forse pensando che sarebbe stato più al sicuro così. Il silenzio pesò come una lapide su di lui.

Volevano salvarsi, e quindi lo dovevano sacrificare. Il Signore Oscuro, convinto dal discorso di Piton, lo trovò un modo assai efficace per rendere utile uno che era così debole da non servire a nulla.

Febbricitante, morente, fu consegnato ad un Dissennatore che lo portò su un lago deserto. Al largo, in mezzo alla superficie liscia come petrolio dello specchio d’acqua, avvenne lo scambio.

I suoi non erano venuti, c’era solo Piton. Lo gettò di malagrazia su quella bagnarola e gli disse solamente, freddo: “Sentiti di vivere come meglio preferisci… è il solo modo per restare in vita, per te…”.

Inutile. Bollato come tale e condannato. Non serviva più a niente. Nemmeno ai suoi.

Gli Auror lo torturarono, per farlo confessare. Ovviamente nella sua mente non c’era la confessione dell’omicidio. C’era solo il ricordo dell’Avada Kedavra di Piton.

Ulularono come lupi feriti quando capirono l’inganno, lo abbandonarono in una cella polverosa a Grimmuald Place. Marciva lì, sempre più debole, ormai prossimo alla morte.

Quando tornò Potter, Lupin, il solo che lo aveva trattato decentemente, ricordandosi ogni tanto di dargli da mangiare, parlò con il Prescelto. Di lui.

Gli proposero di fare il doppio gioco, quando si fosse  rimesso. Era il soggetto ideale. Pieno di livore e odio per la parte che lo aveva rifiutato.

Non voleva. Aveva paura, sentiva che era prossimo a morire, e ne era terrorizzato. Ma il pensiero di passare dalla parte di coloro che, nella sua mente, lo tormentavano ed alimentavano la febbre, iniziò a guarirlo.

Accettò.

Confusamente, capì che era il solo modo per restare in vita. Come gli aveva detto Piton.

Tornò dai Mangiamorte ed era un altro. Forte, freddo, severo, implacabile. Recitava. Nel cuore, portava il tradimento, come un frutto acerbo ed immangiabile.

Andava alle riunioni, li sentiva parlare, li vedeva distruggere ed uccidere… e si chiedeva sempre, nel fondo dell’anima, perché non era stato degno di tutto quello. E, non trovandone risposta, odiava.

Li odiava, odiava i suoi che non capivano il suo evitarli, odiava Voldemort. E quell’odio era la linfa del suo agire, era la spinta a sapere e rivelare. Voleva distruggerli. Dimostrarli che avevano sbagliato a sottovalutarlo.

Ricordava lo scambio, la cella, la fame, le torture, la febbre continua… ed odiava sempre di più. 

Era vendetta di un ragazzino viziato, ora lo sapeva. Dopo, aveva anche pianto quando erano morti i suoi, in una notte a Grimmuald Place. Anche se era inevitabile che morissero, e lo sapeva.

Anzi doveva anche ringraziare di non essere stato costretto a farlo lui stesso… se le cose si fossero messe in altro modo…

Quel pensiero era stato come una rivelazione.

Solo in quel momento, aveva capito quanto fosse stato inevitabile, quanto era entrato in una storia più grande di lui, quanto aveva contribuito alla loro fine. Non se ne era nemmeno reso conto, preso dall’idea della vendetta, come se le sue azioni non avessero dirette conseguenze, come se le informazioni che passava non avessero aiutato poi effettivamente gli Auror.

Lo aveva fatto per il suo scopo. Ferirli e colpirli. Ferire e colpire coloro che lo avevano ripudiato.

E gli eroi lo avevano usato per i loro di scopi.

La guerra aveva avuto il pregevole dono di tirare fuori la vera natura delle persone.

I suoi, per non incorrere nell’ira di Voldemort, lo avevano abbandonato, augurandosi con un segno sulla fronte che si salvasse in qualche modo, ma non preoccupandosi di come ciò potesse avvenire.

Gli Auror, Lupin, Potter, avevano scordato chi era, per potersi garantire un’entrata privilegiata nei segreti del nemico.

E lui… traditore di stesso e del suo sangue, per degli ideali che non avrebbe mai assimilato appieno.

Dopo poco, la guerra era finita.

Era sempre più confuso e disorientato e, ora come ora, anche consapevole che non aveva una vita lunga. I Mangiamorte sopravvissuti lo avrebbero braccato ed, infine, ucciso. Doveva sparire, cambiare vita.

In fondo, era come si sentiva di vivere… ed era il solo modo di restare in vita, per uno come lui.

Ora, la mina vagante di quella guerra, il vero fautore nascosto della sconfitta di Lord Voldemort, Draco Lucius Malfoy, aspettava di avere il beneplacito del Ministero per ricominciare una nuova vita.

Per dimenticare. O perlomeno per provare a farlo.

Il Ministro tardava a tornare, mancava già da un’ora buona e Draco era sul punto di andare via, scordare la burocrazia e fare di testa sua, quando la porta si aprì con un cigolio metallico.

Nella stanza, entrarono tre persone: il Ministro, uno scintillio ambizioso sul viso burbero e leonino, immediatamente seguito da Potter, stanco e con i capelli spettinati, ed un uomo alto, sulla sessantina, dalla barba castana ed occhi malinconici. A Draco sembrava di conoscere quest’ultimo, eppure non riusciva a ricordare chi fosse.

Il Ministro si sedette alla scrivania, spostando le pile di documenti per guardare Draco in viso, mentre Potter e l’altro si sistemarono ai lati della scrivania. Potter sembrava esausto e, di tanto in tanto, sbadigliava senza pudore; Draco presagì che doveva essere con lui che il Ministro aveva parlato fino ad ora e si chiese che cosa lo aveva annoiato tanto.

Sperava solo, per la sua salute mentale e per la mascella di Potter che rischiava di slogarsi a furia di sbadigli, che il colloquio si concludesse presto. Sospirò, aveva come la vaga impressione che non sarebbe andata così.

Già, la posa plastica di quei tre glielo suggeriva, evidentemente dovevano dissertare per ore sull’annosa questione “Il destino del traditore Malfoy”.

Fu il Ministro a prendere la parola, per primo: “Bene, Draco… abbiamo parlato a lungo della tua…”, si fermò a disagio, schiarendosi la voce, prima di proseguire: “… della tua situazione… comprendiamo che essa, al momento, sia abbastanza… difficile…”.

“Curioso eufemismo, la parola difficile…” commentò sarcastico Draco, schioccando la lingua “Credo che sarebbe più corretta la parola mortale… decisamente…”.

Per un attimo, Draco ebbe la sensazione che Potter avesse trattenuto un risolino, ma, quando si voltò verso di lui, aveva ripreso a sbadigliare come prima.

“Non essere esagerato, Draco…!” rise forzatamente Scrimgeour, guardandolo con espressione di derisione “I Mangiamorte sopravvissuti sono disperati e soli… non avrebbero nemmeno la forza di venire ad attaccare proprio te… e comunque saresti protetto con tutte le cautele del caso…”.

Draco inarcò un sopracciglio, scettico: “Ero convinto che, alla fine della guerra, io avrei cambiato identità… insomma, non sarei più stato più Draco Malfoy, o avevo capito male?”. Non aveva capito male, assolutamente, i patti erano sempre stati quelli. Ora, per chissà quale motivo, il Ministro doveva aver cambiato idea. Getto un’occhiata confusa a Potter, prima di riscuotersi e mormorare sommessamente: “A questo punto, potreste anche consegnarmi ad uno dei Mangiamorte e vi liberereste in fretta del problema, no?”.

“Non essere esagerato, Malfoy…” ribadì Potter, con aria di sufficienza, guardandolo dagli occhiali tondi “Saranno prese tutte le precauzioni, gli Auror ti proteggeranno giorno e notte. Non vedo perché dovresti cambiare identità… sarebbe un inutile scocciatura anche per te, non credi?”.

“Questi sarebbero problemi miei, al massimo, non penso che vi dobbiate curare delle mie noie eventuali…” la voce di Draco crebbe di tono e di acidità, mentre rispondeva alla frecciata di Potter. Non capiva dove voleva andare a parare il loro ragionamento e, soprattutto, che utilità potesse avere per loro non fargli cambiare identità. Perché, di utilità si parlava. Non poteva essere ovviamente il piacere della sua compagnia.

Evidentemente, serviva ancora a qualche misteriosa ragione che lui restasse Draco Lucius Malfoy.

Il Ministro spostò a disagio il peso da una gamba all’altra: “Amos ha garantito che ti darà un lavoro… e ti aiuterà a reinserirti nella società… non vorresti fare almeno un tentativo?”. Il suo tono appariva quasi implorante, e Draco si chiese ancora il motivo della sua insistenza. Amos? Ma Amos chi? Improvvisamente, ricordò chi era l’uomo accanto a Scrimgeour. Era Amos Diggory.

Non lo vedeva da quella notte, alla Coppa Tremaghi, quando aveva pianto sul corpo del figlio Cedric, appena assassinato da Voldemort.

Era vistosamente invecchiato e dimagrito, e ora lo guardava con una sorta di strana tenerezza e malinconia.

Gli diede quasi sicurezza quello sguardo, e si disse che forse un tentativo lo poteva anche fare. In fondo, erano loro che dovevano buttare soldi per proteggerlo, peggio per loro.

E, in fondo, restare Draco poteva anche avere i suoi vantaggi. Non doveva di nuovo farsi un nome, una ricchezza, una casa.

Non era molto, ma almeno poteva ricominciare con una posizione di vantaggio.

E, poi, nonostante tutto, sapeva che quello di cui voleva liberarsi… la memoria… i ricordi… lo avrebbero seguito, anche se avesse cambiato nome.

Alla fine, poteva anche farlo un tentativo... a conti fatti, non aveva nemmeno la certezza che non lo avrebbero scovato, anche sotto altra identità, e almeno così avrebbe sfruttato gli uomini del ministero.

Orgoglioso come sempre, non disse sì, né a Potter, né al Ministro.

Annuì silenzioso al solo indirizzo di Amos Diggory.

 

 

Natale era arrivato così velocemente che Draco nemmeno se ne era reso conto. Guardando fuori dalla finestra innevata del suo ufficio, quasi si sorprese di vedere le decorazioni natalizie, appese per le strade della Londra magica. Sembravano inappropriate e inadatte, soprattutto considerando che metà della città era ancora ridotta a macerie e cumuli di polvere. Londra sembrava un pacchetto natalizio che andava in contro alla morte.

La gente ancora piangeva i suoi morti e seppelliva gli scomparsi, e non aveva alcuna voglia di festeggiare; passava silente nelle vie illuminate, indifferente al fulgore delle luci trillanti di festa dimenticata.

La guerra era finita da soli sei mesi, eppure sembrano già passati due decenni. Draco sentiva addosso il peso dei suoi pochi anni, come se fosse un centenario, e si chiese se sarebbe stato sempre così.

Certo che sarà sempre così, si disse crudo ed onesto, distogliendo lo sguardo dai documenti su cui stava lavorando e gettando uno sguardo in tralice all’Auror che stava davanti alla sua porta, come guardia. Gli altri impiegati dell’Ufficio Regolazione e Controllo delle Creature Magiche, passando, gettavano occhiate volutamente distratte verso di lui, in realtà curiose rispetto all’uomo che godesse di una così forte protezione.

Come se non sapessero chi fosse… lavorava lì da mesi, oramai, e perlomeno il suo nome dovevano saperlo.

A Draco, ogni momento, veniva in mente di alzarsi in piedi, fare un inchino e di dire con espressione canzonatoria: “Eccomi, sono io, il doppiogiochista Draco Malfoy…!”.

Ma dubitava che, anche in quel caso, avrebbero smesso di fissarlo, cosa che lo mandava ai pazzi.

Voleva una vita quanto più isolata e solitaria possibile, ma invece il Ministro aveva trovato sommamente giusto per lui che fosse costantemente posto su un palcoscenico ed osservato in ogni angolazione.

Oddio, ad essere sinceri, avrebbe potuto anche fregarsene di quello che gli aveva ordinato in modo così supplichevole ed andarsene per la sua strada, rifiutando la proposta di lavoro di Diggory e facendo come credeva, specie perché aveva capito che non era al suo bene che il ministro aveva pensato con quella decisione, ma a qualcos’altro che però ancora gli sfuggiva.

Insomma, era stato usato per l’ennesima volta, e per l’ennesima volta, aveva lasciato correre. Incrociò i suoi occhi madreperla nel riflesso della finestra, si faceva schifo profondamente, da un po’ di tempo.

Una sensazione nuova, decisamente. Era sempre stato fin troppo orgoglioso di stesso. Ora non ricordava che motivazione vi aveva trovato allora.

Era come se, da un po’ di tempo, avesse uno specchio davanti a sé che lo mostrava per come appariva dall’esterno, dalla prospettiva degli altri. Ma non altri qualsiasi… loro.

La guerra gli aveva reso più vicino il punto di vista di persone come Potter, Lupin, Weasley o la Granger, e ora non riusciva a smettere di guardarsi dai loro occhi.

Codardo.

Così, lo avrebbero dipinto, mentre ridevano nelle loro case ornate d’oro e di rubino, scartando regali inutili e pulciosi.

Anche prima era così… anzi, non c’era stato un solo momento in cui non fosse stato così, ma non gli era mai interessato. Figuriamoci, l’interesse sarebbe stato un’onta incancellabile sul suo onore. Ed anche ora, non era interesse… ma… qualcosa di diverso…

Inconsciamente, forse, aveva iniziato a pensare come loro, a voler essere come loro. Schifo. Ancora. Essere dalla loro parte, gli aveva fatto maturare la convinzione friabile ed assurda che doveva essere come loro.

Era così, no, che doveva andare? Era uno dei buoni, adesso, no? Doveva essere come loro? Ma non lo era. E non voleva neppure esserlo.

Si dibatteva nel ribrezzo per quel desiderio e nel disgusto per non riuscire ad attuarlo. Era nauseato da stesso. Sempre alla ricerca spasmodica e continua di qualcuno che gli dicesse cosa fare, in modo che, se avesse sofferto, se si fosse trovato male, poteva dare la colpa a qualcun altro, ma mai a sé stesso. Sempre alla ricerca della patetica approvazione altrui, anche se proveniva da persone che né stimava né apprezzava.

Sospirò leggermente, le luci colorate che si inseguivano nei suoi occhi sterminati, e ricordò con un sorrido mesto l’enorme albero di Natale a casa Malfoy, che torreggiava in un angolo del salotto, colmo di addobbi argentei e verdi, come era sempre piaciuto a sua madre Narcissa, in ricordo di Hogwarts e della casata Serpeverde.

“E’ lì che mi sono sentita a casa, per la prima volta nella vita…” aveva detto con un sorriso dolcissimo, l’unica volta che glielo aveva chiesto.

Ora, gli addobbi giacevano nei sotterranei assieme all’albero. Draco non li avrebbe mai usciti fuori. Mai. Dubitava persino di passare il Natale a Malfoy Manor.

Forse, sarebbe andato ad Hogsmeade, a mescolarsi con la gente, bevendo fino allo stremo con l’Auror che non gli avrebbe mai dato degli affettuosi auguri a mezzanotte.

Aveva perso tutto, amici, familiari, tutto… mancava solo perdere stesso. Esisteva per inerzia, faceva quello che andava fatto, lavorava, mangiava e dormiva. Aveva persino una specie di fidanzata, una ragazza bellissima e biondissima come lui, di nome Denise Delacour, la cugina di Fleur. Ma, era solo sesso, un modo urgente di rinfrescare la febbre che il corpo, ovviamente, dava.

Ma, anche con lei, non sentiva più. Non amore, in fondo non aveva mai saputo compiutamente come fosse amare una donna, e non ne sentiva nemmeno la mancanza.

Ma anche il sesso puro e semplice aveva perso ogni attrattiva. Anche il piacere puro e semplice aveva perso ogni valore.

Cosa restava, quindi? Nulla. Quindi, in definitiva, forse aveva davvero perso anche stesso.

Una voce austera, ma al contempo gentile, lo riscosse dai suoi pensieri: “Draco, sei ancora qui?”. Sulla sua soglia, in una lunga tunica blu scuro, sostava Amos Diggory, un sorriso aperto e sincero sul volto.

Draco annuì, mentre l’uomo entrava nell’ufficio, salutando distrattamente l’Auror che replicò con un cenno del capo.

“Pensavo che fossi già andato via…” mormorò l’uomo, sedendosi alla scrivania con espressione assorta. Sembrava sul punto di andare via, infatti era vestito e bardato di tutto punto per affrontare la nevosa sera dicembrina, eppure se ne stava lì a chiacchierare del nulla. Draco lesse nei suoi occhi castani, piccoli ed acquosi, la voglia di parlare di… altro. Qualcosa di non meglio identificato, ma di diverso dal semplice scambio di convenevoli tra colleghi. Quell’uomo, stranamente, lo aveva preso in simpatia e Draco ne era abbastanza sorpreso. Non era mai stato un ragazzo eccessivamente aperto e socievole e, in questa nuova carriera, non si comportava in modo diverso. Faceva il suo lavoro alla perfezione, sebbene non lo entusiasmasse, ma non parlava mai con nessuno dei suoi colleghi, trascorreva le pause pranzo nel suo ufficio, arrivava prima di tutti e tornava a casa più tardi degli altri, per evitare di stare troppo nel suo maniero deserto. Il suo solo compagno era Anthony Goldstein, la sua guardia personale. Ma nemmeno con lui parlava.

Figuriamoci… si erano trovati antipatici anche ad Hogwarts, lui era anche un patetico Corvonero… e ora nulla della loro frequentazione forzata, poteva suggerire che tra loro si instaurasse un rapporto diverso.

Eppure, Amos Diggory ostinatamente cercava un contatto con lui, nella maggior parte delle volte, respinto con decisa cortesia.

Draco rifletté che forse gli ricordava suo figlio, Cedric, e il fatto che lui adesso fosse orfano, magari suscitava in lui un moto di affetto. Chissà, tutto poteva essere… a Draco tutto sommato, nemmeno stava antipatico.

Era un uomo burbero, autoritario, ma onesto e diretto nei modi. Aveva anche quella patina di nobiltà, datagli dalla purezza del suo sangue e dall’orgoglio per la sua casata, ma non la ostentava, se non in particolari occasioni. Ed, anche allora, sembrava così profondamente ferito dall’idea che non ci fosse nessuno a continuare la sua stirpe, dopo la morte del suo unico figlio, che il suo amor proprio ripiegava su sé stesso, afflosciandosi senza forze. Il contrario di suo padre Lucius, insomma. Se mai questo possa essere considerato un difetto, si disse mentalmente Draco con sincerità.

Lucius aveva venduto suo figlio, perché inadatto a reggere il fardello del suo cognome. Amos aveva perso un figlio che era in grado di portare quel peso in modo impeccabile.

Ironia della sorte.

Draco scrollò le spalle in silenzio, spostando senza attenzione particolare una boccetta d’inchiostro sulla sua scrivania, evitando lo sguardo di Amos.

Poi, visto che il silenzio proseguiva e che stranamente oggi lo metteva a disagio, replicò annoiato: “Non mi ero accorto dell’ora…”.

Amos annuì pensosamente, guardandolo ancora, poi, in un sussurro quasi imbarazzato, chiese: “Cosa farai a Natale, Draco?”.

Draco si sorprese della sincerità della domanda e di come gli era stata posta senza preamboli. Tipica caratteristica di Amos, andava dritto al sodo. Ancora, al contrario di suo padre, che macchinava per ore prima di palesare le sue reali intenzioni. Spalancò gli occhi per un secondo, un attimo fugace ed impercettibile che nemmeno l’uomo di fronte a lui colse, per come era stato repentino.

Diffidenza manifesta socchiuse ancora il suo sguardo, era arrivato a fare così pena il giovane rampollo dei Malfoy? Tra poco, anche Potter gli avrebbe fatto l’elemosina?

Schifo.

Ancora.

Con orgoglio, sollevò il mento appuntito e disse fiero: “Non lo so, non credo che il Natale sia mai stato una delle mie somme preoccupazioni, ed ora, meno che mai… sa, quando rischi di morire ogni giorno, queste cose passano in secondo piano…”. Aveva sputato fuori quelle parole come veleno, guardando Amos dritto negli occhi con una durezza che non era destinata a lui, ma che da lui passava per il solo fatto di essergli davanti in quel momento. L’urgenza di fare qualcosa e di placare il nervosismo nelle mani, lo spinse a spostare ancora la boccetta d’inchiostro, senza un motivo apparente.

“Capisco…” disse pensosamente Amos, non turbato dalle parole del ragazzo e tantomeno dal suo tono. Appariva solo… concentrato.

Alla fine, parlò con voce leggera e apparentemente casuale, anche se i suoi occhi si erano velati per un secondo. Ma anche quell’attimo, come era successo prima per Draco, fu così rapido che il suo interlocutore non se ne accorse neppure: “Anche per me, il Natale non è una grande occasione… anzi… credo di odiarlo profondamente…”. La sua voce si era fatta dura, come pietra, e Draco imbarazzato si chiese perché tutta quell’ansia di sfogarsi gli fosse venuta proprio con lui.

Si sentì in dovere di dire qualcosa, anche se non si sapeva spiegare questa urgenza. Aggiunse ovvio, in tono casuale: “Ma lei ha ancora una moglie, no? Immagino che almeno a lei piaccia il Natale…”, deglutì prima di continuare: “A mia madre, piaceva il Natale…”. Era la prima volta dalla loro morte che nominava i suoi genitori.

Amos parve accorgersene e sobbalzò lievemente, poi proseguì con un sorriso mesto: “Certo, Draco, alle donne il Natale piace molto… sembrano punte da un’ape all’inizio di Dicembre, ed iniziano ad infiocchettare, impacchettare, incartare, ornare… una donna in casa aiuta a sentire l’atmosfera, ecco… a mia moglie piaceva molto…”. Ancora i suoi occhi si velarono e stavolta Draco, con una fitta di nervosismo, se ne accorse.

Si mosse sulla sedia, ancora chiedendosi perché stava sostenendo quella conversazione assurda proprio con lui, e chiese titubante: “Non le piace più il Natale adesso?”.

Amos sorrise tristemente, voltando il capo e guardando oltre la finestra. Quando parlò ancora, la sua voce era un tremulo sussurro, sembrava che non provenisse da lui per come stonava con il suo aspetto fiero e caparbio.

“Credo che a mia moglie piaccia ancora, dovunque ella sia… e scommetto che fa l’albero con Cedric, aspettando che io un giorno li raggiunga…”.

Draco tremò a disagio, ricordandosi improvvisamente che aveva sempre saputo che Daisy Diggory era morta qualche anno prima, consumata dal dolore per la perdita del figlio.

Un’altra cosa che non avevano in comune i Diggory con la sua di famiglia, annotò mentalmente con uno spasmo.

Eppure, aveva sempre sentito i colleghi di Diggory fare sempre delle battute su sua moglie che lo aspettava a casa, sul fatto che Amos fosse molto fortunato, dandosi di gomito, alludendo al fatto insomma che fosse indiscutibilmente viva… avevano un raccapricciante senso dell’umorismo o cosa?

“Pensavo che sua moglie fosse viva, mi scusi…” replicò Draco con voce flebile “Devo aver capito male…”.

Solo allora Amos sembrò ricordarsi di qualcosa e si grattò la guancia con espressione distratta: “Ma certo, sì, sì… mia moglie è viva…”, vedendo l’espressione confusa e disorientata di Draco, replicò quasi divertito: “Ho un’altra moglie, adesso, mi sono risposato qualche anno fa… per questo devi aver capito male, Draco…”.

Draco annuì, comprendendo infine, mentre Amos proseguiva: “Diciamo che però la mia seconda moglie non ha la vocazione della brava donna di casa… quindi l’albero era l’ultimo dei suoi pensieri… quando glielo ho fatto notare, ha scrollato le spalle e l’ha fatto fare ad un elfo domestico…”.

A Draco venne curiosamente da sorridere, di cuore, come non faceva da tempo, all’idea dei battibecchi tra Diggory senior e la sua nuova moglie. Se ne sorprese alquanto, specialmente perché non ricordava più il momento in cui aveva davvero riso, sembravano passati secoli… come quello in cui aveva pianto, per dirne una. Esattamente come se fosse morto.

Anche Amos sorrise a sua volta, aveva una risata sempre malinconica, mai eccessivamente ilare o spensierata.

“Se stasera sei libero, potresti cenare a casa nostra…” proseguì Amos con voce più chiara “Mi farebbe piacere presentarti mia moglie…”.

Draco fu ancora colpito dalla schiettezza della domanda. Per un attimo, pensò di rifiutare, l’apatia di quei giorni che si era attaccata come una patina ostinata alla sua voglia di fare qualsiasi cosa. Se avesse accettato l’invito di Amos, avrebbe dovuto fare conversazione, sorridere in modo sciocco ai commenti della moglie, mangiare con appetito quello che era stato preparato e mantenere un aspetto decoroso ed elegante.

E lui non aveva intenzione di fare niente del genere.

Immaginava già il suo letto, la calda vestaglia di seta nera, il bicchiere di Firewhisky che lo aiutava a dormire, lo scenario cupo e sinistro che si vedeva dalla sua camera del Malfoy Manor.

Poi, ripensò che in fondo, anche domani sera, il letto, la vestaglia, il bicchiere e la finestra sarebbero stati al loro solito posto. Ed anche la sera dopo. E la sera dopo, ancora. Schifo.

Quindi, un po’ di diversità poteva anche concedersela.

Annuì silenziosamente, accettando così la proposta, ed Amos ne parve oltremodo contento e sollevato.

Uscirono entrambi nell’aria fredda della sera, aveva iniziato di nuovo a fioccare, e la neve cadeva silenziosamente, avvolgendo tutto in una quiete che donava pace. Draco ed Amos continuavano a camminare in silenzio, ognuno profondamente perso nei suoi pensieri e ragionamenti. Non erano realmente soli, attorno a Draco si vedevano chiaramente Auror appostati dietro ogni angolo, oltre ad Anthony Goldstein che li seguiva a breve distanza. Ad un tratto, Draco si fermò, suscitando la curiosità di Amos che lo guardò senza capire, fermandosi a sua volta.

I sensi acuiti dalla guerra ed attutiti dalla pace, tornarono vivi a farsi sentire in Draco. Sentiva distintamente di essere seguito, e non dall’Auror. Ma… da qualcun altro. Le sue orecchie sensibili avevano captato un rumore nella neve fresca, un passo insolito che non era tipico degli Auror. Si guardò attorno, eppure la strada era deserta.

Goldstein raggiunse Draco velocemente, la bacchetta sguainata, dando un segnale a qualcuno degli altri Auror che li circondavano: “Malfoy, cosa c’è?”.

Draco scosse il capo, doveva esserselo immaginato. Dovevano essere stati gli Auror.

“Nulla” negò, riprendendo a camminare “Devo essermelo immaginato…”.

“Cosa?” insistettero sia Amos che Anthony, seguendolo di gran carriera, ma Draco non rispose. Se Amos smise di parlare, Goldstein insistette: “Se hai questa sensazione, magari c’è davvero qualcuno…forse dovremmo avvisare il Capo…”.

Draco rise leggermente, divertito: “La Granger? Ma per favore… come minimo, me la ritrovo alle costole… sei già abbastanza insopportabile da solo, Goldstein senza che si aggiunga anche la Granger…”.

Il ragazzo, offeso per il commento fatto nei confronti del suo superiore, tacque innervosito, suggerendo solo ai due di Smaterializzarsi e di non continuare la loro “passeggiata” per maggiore sicurezza. Draco con un lieve sospiro, afferrò il polso di Diggory mentre quest’ultimo scompariva in un piccolo “pop”.

Si ritrovarono in un salotto, abbastanza grande, completamente illuminato da un lampadario di cristallo enorme che scintillava di luce, creando riflessi arcobaleno sulle pareti, sui quadri, sui mobili, sulla libreria piena zeppa di libri antichi. Sia Draco che Goldstein, smaterializzatosi subito dopo di lui, guardarono la stanza rapiti.

Non era uguale al salotto del Malfoy Manor che era di dimensione doppia, rispetto a quello, eppure aveva qualcosa in più che Draco non riusciva bene ad identificare.

Amos, non appena entrò, accarezzò distrattamente la tela di un ritratto che rappresentava una donna sulla cinquantina, seduta in una poltrona, con un vestito cremisi. Accanto a lei, in piedi, un giovane alto, dalle spalle larghe e dagli occhi chiari ed aperti. Amos disse solo con voce fioca: “Ciao Daisy. Ciao Cedric. Sono tornato a casa…”. I due sorrisero ed agitarono la mano calorosamente.

Draco si strinse nelle spalle, quasi a disagio. Si chiese come facesse la moglie attuale di Diggory a vivere con quel ritratto in casa… curiosamente, gli venne da sorridere, ricordando quel libro babbano “Rebecca, la prima moglie”, dove la nuova compagna di un ricco facoltoso doveva convivere con il ricordo asfissiante della prima consorte del marito.

“Helena!” chiamò Diggory a gran voce, evidentemente all’indirizzo della moglie che non era in salotto. Poi proseguì, spazientito, verso Draco: “Chiedo scusa per mia moglie…credo che sia di sopra, ma scenderà tra poco…”.

Draco agitò la mano per dire che non importava. Helena… che strano, sembrava di aver già sentito il suo nome…

Come se Amos l’avesse letto nel pensiero, disse con voce casuale, sedendosi su una poltrona ed invitando i suoi due ospiti a fare altrettanto: “Dimentico quanto io sia vecchio… e quanto Helena invece sia giovane… siete quasi coetanei, probabilmente la conoscete…”. Coetanei? Si chiese Draco meravigliato. Si era aspettato una donna abbastanza grande, più o meno sulla cinquantina. Hai capito, Diggory…

“Come si chiama? Sua moglie, intendo?” chiese Draco curioso.

“Helena Jasmine Greengrass…” rispose Amos, sistemandosi meglio sulla sedia e chiamando un elfo domestico per far servire da bere.

“Greengrass?” si interrogò Draco “Pensavo che le Greengrass fossero due… Daphne ed Astoria… a meno che non sia di un altro ramo della famiglia…”.

Amos negò con il capo: “No, Helena è proprio la sorella di Daphne ed Astoria, la primogenita dei Greengrass… immagino che non l’abbiate mai incontrata ad Hogwarts, effettivamente portate qualche anno di differenza…”. Draco annuì, effettivamente non ricordava assolutamente una terza Greengrass. E due erano più che sufficienti: Daphne era acida come un limone ed Astoria era appiccicosa come la colla.

Era innamorata di lui dal terzo minuto in cui aveva messo piede ad Hogwarts. Ed era decisamente seccante.

Non c’è due, senza tre… Draco, con un roco sospiro, rimpianse il letto, il bicchiere, la vestaglia e la finestra che aveva sconsideratamente rifiutato, ignaro della prospettiva di conoscere una nuova Greengrass.

“Eccola…” disse Amos, alzandosi ed indicando la scala che portava al piano superiore.

Anche Draco si alzò, osservando a lungo la donna che stava entrando. E rimase a bocca aperta. Era la donna più bella che avesse mai visto.

Helena doveva avere sui ventisette, ventotto anni, ed era alta come tutte le Greengrass. Anche le linee del volto, sottili ed eleganti, assomigliavano molto a quelle di Daphne ed Astoria, compresi gli occhi azzurro cielo e i capelli chiari. Eppure, dopo un esame superficiale, Helena appariva molto diversa dalle sorelle.

Daphne aveva un volto affilato, duro, spigoloso, esattamente come il suo carattere. Gli occhi erano allungati, come quelli di un felino, e di un colore frammisto tra il verde e l’azzurro. Sembravano un mare in perpetuo moto ondoso, una tempesta capace di annegarti ed ucciderti all’istante. Aveva inoltre lunghissimi capelli biondo platino, lisci, ed incuteva timore con la sua sola presenza. Si curava fino allo stremo, indossava vestiti raffinati e si truccava molto. Astoria era molto simile a Daphne, forse solamente gli occhi erano diversi, più intensi, sul blu oltremare. Ma per il resto, sembrava la sua sorella gemella. 

Helena invece non assomigliava a nessuna delle due. I suoi capelli erano ondulati e di un colore più caldo dell’algido biondo delle sorelle, castano dorato. Gli occhi splendevano come due turchesi sul bel volto a forma di cuore, ed assomigliavano ad un chiaro cielo primaverile. Nonostante inoltre un elegante vestito di broccato color glicine ed una parure di gioielli di ametista, non era eccessivamente truccata.

Possedeva una perfezione che non aveva bisogno di ulteriori artifici per metterla in mostra.

E contrariamente alle sorelle, aveva anche un meraviglioso sorriso. Partiva dagli occhi, insolente, e poi riempiva di luce le labbra rosa.

E, ora, quel sorriso era tutto per Draco Malfoy.

Draco si accorse di essere rimasto a bocca aperta, mentre lei vezzosa aveva allungato la sottile mano affusolata verso di lui per presentarsi. Su di essa, brillava molesto un anello con un diamante ed una piccola fede di platino. La moglie di Amos Diggory.

Draco si affannò a prendere la mano nella sua, un brivido sulla schiena, e a replicare affrettato: “Sono Draco Lucius Malfoy…”.

Lei sorrise ancora e rispose: “Helena Jasmine Greengrass”.

 

Mi stacco dal vetro come se scottasse.

La donna che sorride dall’altra parte del vetro, ha appena detto di chiamarsi Helena Jasmine Greengrass. Non dovrei averla mai vista.

Ed invece io conosco il suo volto a memoria.

La donna che sorride dall’altra parte del vetro, indimenticato ed indimenticabile ricordo, è stampata a fuoco anche nella mia mente.

La donna che sorride dall’altra parte del vetro è Rachel Leigh.

 

 

 

Cassie is back again! Chissà se con vostra gioia o dispiacere! Reduce da un esame che mi ha fatto anche perdere la salute, oltre che quel poco di sanità mentale che possedevo, posto un nuovo chappy! Non so se vi piacerà oppure no… nel senso che è la prima volta che mi cimento con i pensieri di Draco ed insomma è abbastanza complicato gestirlo! Il mio intento è sempre quello di cercare di lasciare un Draco fedele all’originale della Rowling, e non di renderlo un superuomo, come appare in molte fic, nessuno me ne voglia a male… Draco non è propriamente un uomo coraggioso, è un uomo che subisce passivamente gli eventi e questo l’ha fatto, per buona parte della sua vita. Quindi anche la circostanza del suo tradimento, non volevo che risuonasse forzata. Non me lo vedo proprio uno che improvvisamente si ribella e cambia le idee che aveva per anni… mi suonava più convincente, conoscendolo, che le avesse subite. Poi ovviamente cambierà ancora, diventando il Draco che adesso state conoscendo… ma per quello credo che avrete già intuito, che avrà una grande parte Helena.

Poi, ovviamente, questa è la mia esclusiva interpretazione… fatemi sapere che cosa ne pensate!

Come avrete notato, il flash back non è finito… il capitolo stava venendo troppo lungo e quindi ho preferito spezzarlo per aggiornare prima… sennò avreste dovuto aspettare altri tre mesi!:D Inoltre, si è aggiunto un sottotitolo… per lo scorso chappy, “The name of everything”.

Per questo, avete letto invece “Cerulean eyed girl” e si riferisce ovviamente ad Helena.  Significa, press’a poco, “Ragazza occhi cielo” e in questo mi ha ispirato la meravigliosa canzone di Loredana Errore di Amici che si chiama appunto così… e che insomma mi ha fatto pensare ad Helena.

Come sempre, vi metto il link qualora la voleste ascoltare…

 

http://www.youtube.com/watch?v=ecZaGq09c0A

 

Colgo anche l’occasione per ringraziare il forum Neverending story awards!

Have a little fairy tale, infatti, nell’ottavo turno ha vinto ben sei awards come Miglior Personaggio Originale per Seth Green, Miglior Commedia, Miglior Storia Incompleta, Miglior storia scritta esclusivamente dal punto di vista di un solo personaggio e Miglior Personaggio Femminile per Hermione Granger… più Miglior storia in assoluto! Una cosa che mi ha decisamente commosso e sorpreso…quindi ringrazio ancora per questo onore!!:D

Ringrazio ovviamente anche chi legge la mia storia, chi visita il forum (in cui, ahimé, non riesco ad entrare per problemi tecnici…L) e chi la inserisce nei preferiti o nei seguiti! Grazie!!!

Ringrazio anche in questa sede la mia amica Vittoria che si è letta tutta la mia storia e che ora mi tormenta perché continui! :P

E un grazie particolare e preliminare va a Seven, una persona meravigliosa, davvero, e che sono contenta di aver conosciuto tramite HALFT…

In breve, purtroppo come sempre, ringrazio come sempre chi ha recensito la mia storia: Haley James (grazie davvero tantissimo dei complimenti! Spero di emozionarti sempre così! Baci), Liven (eheheheh! Sono contenta che la mia crisi a posteriori sia stata apprezzata! Il dna dei Malfoy lo sto effettivamente subendo molto!! Purtroppo non sono riuscita ad aggiornare prima, maledetto esame, almeno puoi comprendere il mio dolore profondo… ma diciamo prima di quanto pensassi!! Baci), Seven (ovviamente come ben sai, le tue recensioni sono sempre le mie preferite, davvero! Poverina ci metterai delle ore…! Grazie ancora!! Ma tanto adesso comunichiamo inter nos, quindi mi dirai a breve che ne pensi! Baci), Lights (mamma mia, grazie! Effettivamente c’è molto di me dentro Hermione, ripeto la gente che mi conosce, continua a dirmi che sono io… nevrosi comprese! Hai ragione perfettamente, spesso mi dilungo troppo… mi raccomando quando sbaglio fammelo sempre notare! Sul serio! Kiss!), Corvetta (grazie, grazie, grazie! Spero che Draco ti abbia trafitto il cuore anche in questo chappy!), Cygnus Malfoy (la mia cara Helder che sopporta le mie paranoie su come non sopporti Helena! grazie! Baci), Rorothejoy (bravissima, hai azzeccato parte dell’identità di Helena! Riceverai un enorme cesto di frutta dono! Scherzo! Bravissima! Grazie!! Baci!!), Lunachan 62 (grazie dell’in bocca al lupo per l’esame, per fortuna è andato molto bene! Kiss!), Eruanne (grazie infinito! Anche tu hai azzeccato la parentela di Helena con Astoria! E spartirai il cesto con rorothejoy! Eheheh!! Baci!!), Only V (scrivimi tutti i poemi che vuoi! Scherzi??!! Io adoro le recensioni lunghissime, vedere seven per credere! Hai fatto tante supposizioni, molte di esse esatte, ma ovviamente visto che sto prendendo il dna dei Malfoy, non ti dirò quali!! Hai però perfettamente inquadrato che Helena e Rachel fossero la stessa persona! Bravissima e io che credevo di essere stata imperscrutabile…L scherzo!! E hai inquadrato un’altra cosa importante, e cioè la somiglianza tra Helena ed Hermione! Ora non è ancora venuta fuori, ma sarà un punto importante! Come premio per la tua intuizione, ti ho dato questa bella anticipazione!! E ho fatto anche la rima!! Baci!! E grazie!!!), Tully Domy (benvenuta!!! Grazie dei tuoi complimenti, è uno dei miei intenti primari rendere la mia storia non banale… di dramione ne esistono a iosa quindi non è un’impresa facile! La frase finale di Draco è effettivamente MOLTO cattiva, specie per Hermione, ma tranquilla! Poi recupererà!! Baci!!!), Baby Fairy (grazie, un’altra nuova lettrice, me felice!!! Anche tu hai indovinato che Rachel ed Helena sono la stessa persona!!! Bravissima!!! Scrivimi pure quanto vuoi, adoro ricevere delle recensioni anche lunghe!! Per vedere se ci hai preso con la tua teoria, devi solo aspettare i prossimi chappy!! Grazie ancora!! Baci).  

A presto!!! Cassie chan!!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 23
*** Forbidden colours part III - She's unreachable ***


NDA: In modo preliminare, stavolta procedo a ringraziamenti ed avvisi vari

NDA: In modo preliminare, stavolta procedo a ringraziamenti ed avvisi vari!! IMPORTANTEEEE!!!!

 

  1. Il primo di essi è un enorme scusa che chiedo a tutti per il ritardo di questo capitolo. So che spesso lo dico, ma chi ha modo di contattarmi via msn o tramite il forum, sa che questo è stato davvero il capitolo più difficile che abbia mai scritto. Non a caso è abbastanza lungo, e non a caso è arrivato dopo due mesi. La verità è che il personaggio di Helena mi è stato ostico sin dall’inizio, non lo sopporto e questo è strano, considerando che l’ho “creato” io e che, invece, per altri personaggi originali come Hayden e Seth ho un’autentica adorazione. Quindi scrivere di lei è stato una pena assurda, non lo dico tanto per dire!
  2. Il secondo di essi è un enorme grazie per chi segue ancora questa storia, chi la commenta e chi mi segue costantemente aiutandomi e dandomi consigli. Mi riferisco a Seven ed Helder, due persone meravigliose che mi hanno aiutato in modo incredibile e che potete considerare a tutti gli effetti, gli “editor” di questa storia sgangherata. A voi, dedico questo capitolo per avermi sopportato e supportato nella scrittura di questo capitolo, specialmente nei miei scatti omicidi verso Helena. J Grazie, Grazie, grazie.
  3. Il terzo di essi è una precisazione. Mi sono accorta, con mia somma preoccupazione, di aver messo nella storia una serie di riferimenti temporali spesso contradditori. Mi spiego… questa storia l’ho iniziata a scrivere molto tempo fa, il settimo libro della saga non era nemmeno uscito, per questo non mi è stato possibile nemmeno riscattare il personaggio di Severus Piton. Questo ha provocato che in molte parti ci siano delle contraddizioni:  parlo per esempio di Hermione, che era ancora Capo degli Auror, quando Harry divenne ministro, mentre successivamente altri riferimenti temporali (specie in questo capitolo) vadano a negare tutto questo. Dovrei sostanzialmente cancellare tutta la storia, rivederla dall’inizio ed eliminare queste contraddizioni tipiche di una storia che, come avrete capito, è in continuo divenire, sebbene esista tutta nella mia testa (visto gli spoiler che do sempre in giro specie alle mie editor!). Ma per ovvi motivi, questo richiederebbe troppo tempo e procrastinerebbe la fine di questa storia. Non credo che sia un vostro desiderio!! Quindi prendete per buone queste contraddizioni, e non mancate eventualmente di farmele notare. A breve, quando mi sarà possibile, metterò sul forum una tabella temporale corretta che vi possa fare comprendere meglio tutto. Ed intanto cercherò di correggere e di ovviare come posso. Chiedo sommamente scusa.
  4. il quarto di essi è una specie di pubblicità che mi auto faccio a questo punto! Allora, c’era qualcuno (al momento non ricordo chi) che mi aveva espresso il desiderio di far inserire questa storia tra le scelte del sito, ma non sapeva bene come fare… al momento esiste un metodo più semplice che è quello di cliccare la voce Segnala per le scelte nel riquadro a sinistra, quarta riga, della pagina di ogni capitolo, e di scrivere una recensione sul motivo per cui questa storia dovrebbe essere inserita, a vostro parere, tra le scelte. Ho avuto modo di dire a molti che è una cosa che io vorrei fermamente che mi accadesse un giorno (me speranzosa!!) ma ovviamente non posso costringere nessuno e sarò felice lo stesso, anche se non accadrà!! Ma siccome mi era stato chiesto, almeno rispondo così!! Stessa cosa se la vorreste segnalare per il concorso del sito, aperto fino al 30 aprile, che vuole premiare la storia con i migliori personaggi nuovi. La procedura è sempre la stessa, ma si clicca sulla riga Vota questa storia per il concorso di EFP, 'Storia coi migliori personaggi originali (nuovi)' [entro il 30/04]
  5. A questo punto vi lascio alla storia, non prima di aver ringraziato tutti coloro che leggono, commentano e recensiscono questa storia!! Purtroppo oggi non posso ringraziarvi uno per uno, visto quanto tempo ho perso in questi avvisi!! Ma davvero grazie, grazie, grazie.!!!

 

 Un enorme bacio da Cassie chan!!

 

 

 

 

Capitolo 23 – Forbidden colours part III – She’s unreachable

 

Alle mie personalissime e specialissime “editorHelder e Seven con tantissimo affetto J

Semplicemente grazie…J

 

 

Draco ha la mano poggiata sul vetro in un modo così delicato che è come se lo accarezzasse.

Mentre l’immagine di Helena, dall’altro lato di questo specchio immaginario, è bloccata in questo raggiante e, a suo modo, raggelante sorriso, Draco resta con quella mano aperta, sofferente, freneticamente contratta sul volto di quella donna. E mi ricordi me, che accarezzo la tua spalla, colmandomi di un senso che non mi darai mai.

Non sta piangendo, non più, e forse per me sarebbe stato anche meglio che lo facesse.

Versare delle lacrime sembra un’emozione così banale, umana, normale, attaccata al suo di dolore. Un dolore che semplicemente non può piangere.

Si esprime solo nella sua testa china, nei capelli biondi che gli coprono gli occhi chiusi, nella fronte appoggiata al vetro, in quella mano che trema come se il suo stesso sangue stesse gelando progressivamente, mentre cinge di effimero calore lo sguardo ceruleo di Helena.

O di Rachel, o di come diamine si chiama.

E io… nemmeno io riesco a piangere. Come se fossi diventata come lui. Incapace di farlo. Dentro, mi sento implodere dal dolore, eppure non riesco a piangere.

Riesco solo a fissare gli occhi di Helena. Gli occhi di Rachel. Gli occhi di Serenity.

Quando credevo che lei non fosse la mamma di Serenity, per il fatto che fosse babbana, ero sollevata. Con lei non potevo competere.

Ora, ce l’ho di nuovo davanti agli occhi. Irraggiungibile. La dea, ricoperta d’avorio, che sfavilla nel tempio del cuore di Draco.

e io sono quella che, supplice, arranco su una scalinata infinita, chiedendo l’elemosina dell’amore che ha per lei.

Mi odio profondamente.

Sono disgustata da me stessa, una schiava alla mercé di quest’amore esecrabile, per il quale oramai farei qualsiasi cosa.

E, in questo, rientra anche mettergli fraternamente una mano sulla schiena per cercare di calmarlo.

Come una sorella.

Mi si riempiono gli occhi di lacrime.

Draco sgrana gli occhi, come se tornasse di colpo da un pensiero tutto suo, e mi guarda come se mi vedesse solamente adesso, come se si fosse scordato che c’ero. Tipico. Ora c’eravate solo te e lei. Lo guardo sofferente, come se improvvisamente, in modo repentino, io abbia compreso tutto.

Credo che lei… non ti abbia lasciato. Non è una cosa umana a separarvi… credo che sia la morte a tenervi divisi.

Lei… Rachel, Helena… deve essere morta.

Draco si risolleva in piedi, ergendosi in tutta la sua altezza, dandomi ancora le spalle. Lascio cadere la mia mano lungo il corpo, mentre si volta, mormorandomi: “Scusami…”.

Come se effettivamente avesse qualche valore chiedermi scusa, come se effettivamente gli importasse. Solo un mero scambio di convenevoli e di educate banalità.

Chiudo gli occhi, respirando profondamente.

Calma. Devo stare calma.

Quando gli riapro, replico senza partecipazione: “Non è nulla…”.

Per qualche attimo, ho come l’impressione che mi stia per dire qualcosa, il suo volto diventa più roseo e sembra qualcosa di importante, i suoi occhi si velano d’urgenza mentre mi fissa. Sbatto le palpebre, guardandolo a disagio. Non è rabbia. Che cosa è? Sembra…triste. E sembra… in colpa.

La sua mano si alza, come se mi volesse afferrare… come se mi volesse portare via da qui. Come se non mi volesse far vedere più altro.

Una smorfia, poi, gli contrae dolorosamente il viso, ed è come se improvvisamente si ricordasse qualcosa. Il senso di stare qui, credo. Che solo lui sa.

E l’attimo passa così come era arrivato. E scrolla il capo, affannandosi a dirmi di avvicinarmi per continuare questo viaggio nei suoi ricordi.

“Perché?” chiedo con un filo di voce, avvicinandomi a lui, cercando di mantenere gli occhi asciutti “Draco, io non ho bisogno di sapere tutto questo… perché? Davvero… ti prego…spiegamelo…adesso…”. Prendo fiato, sgomento ed incertezza nei suoi occhi, prima che riprenda, la voce più sicura: “Continuerò, se tu lo vorrai… ma spiegami…”.

Evapora la lieve tensione nei suoi occhi, diventa di nuovo fredda raffica di vento che mi taglia il respiro.

“Ne ho bisogno io. E questo, per il momento, deve bastarti…” replica duramente, sollevando il mento, e io mi irrigidisco sotto quello sguardo gelato.

Poi la sua espressione si ammorbidisce e mi sussurra: “Capirai… per favore, Hermione. Credici… e fidati se puoi…”.

Un brivido mi attraversa la schiena, scivolando sulla mia pelle, fino alle gambe, e risvegliandomi per un attimo dal torpore che mi aveva preso.

Ansia convulsa nelle dita, mentre sento che qualcosa sta sfuggendo dalla mia comprensione, una bolla di sapone che vola lontana da me, mentre cerco di afferrarla. Iridescente nella luce del sole, la osservo andare via. Questa frase… credici e fidati, se puoi… me l’ha già detta una volta.

A Wonderland.

Non è un caso che l’abbia ripetuta, lo sento. Come non è un caso che mi sia tornato in mente quel momento… mi abbracciò e mi disse che… cosa mi disse?

Credici… e fidati se puoi. È così… non posso permettermi te, e non posso permettermi di trattenerti qui. Non posso e basta, fosse anche che volessi tu restare….

Mi porto stancamente una mano nei capelli, spossata, perché quella frase mi è tornata in mente proprio adesso?

Mi sta sfuggendo qualcosa… lo sento. Come sento che, se mi sono ricordata questa cosa adesso, vuol dire che aveva un qualche senso…

Diventa improvvisamente troppo tardi per una risposta.

Draco non aspetta che io dica niente, mi prende per mano e mi trascina di nuovo davanti a quello specchio.

Davanti ai miei occhi, ora di nuovo liquidi di lacrime, fioriscono nuove immagini.

 

 

Draco Lucius Malfoy non aveva mai avuto niente di babbano. Mai.

Fino a quel momento. O forse no… non lo ricordava con esattezza.

Forse, fino a quel momento, Draco Malfoy non aveva mai effettivamente realizzato che c’era un mondo, un universo… come dire… diverso… da quello in cui viveva e respirava quotidianamente.

Un mondo senza magia.

Non che non avesse mai saputo che cosa fossero i babbani, ci mancherebbe. Ne era stato abbondantemente indottrinato. La prima volta che gliene avevano parlato, era stato quando aveva sette anni ed era stata sua madre.

Lo aveva guardato dall’alto della sua poltrona, nella luce vermiglia e liquida del caminetto, aveva storto il naso sottile alla sua domanda. Poi aveva preso fiato e gli aveva parlato del mondo dei babbani.

Con profondo disgusto, questo è chiaro, e chi mai non avrebbe potuto averne? Certo, già sua madre gli disse che c’era chi non aveva disgusto per i babbani, ma nel loro mondo era così.

Vigevano delle regole.

Ed era il disgusto che si provava davanti a quelle infime creature della scala evolutiva.

Sua madre ne parlò poco, velocemente, lasciando sfuggire le parole come se bruciassero. E dopo capì il perché. Suo padre la incenerì con lo sguardo, quando la sentì dirgli certe cose.

Draco, sollevando lo sguardo al cielo terso di quel giorno d’estate, fissò gli occhi su un gabbiano che librava nell’aria salmastra e carica di iodio. Era ancora troppo presto perché le spiagge aprissero, era poco dopo l’alba e la sabbia era ancora ricovero di bivacchi e fuochi notturni che si erano spenti al sole che sorgeva. Lontano, in un lido, solo un babbano sistemava degli oggetti che, Dio solo sapeva, a che cosa servissero.

Draco poteva ammettere, almeno con stesso, che quella volta, davanti a quel camino, mentre nevicava fuori, fu lui curioso, fui lui che ne volle sapere di più da sua madre.

E lei gli aveva detto qualcosa sì, ma quella… donna… Narcissa, sua madre… aveva sempre avuto la caratteristica di dire tutto e non dire niente in realtà. E la curiosità in lui cresceva.

Poi suo padre lo aveva preso come sempre da parte gli aveva parlato di che consisteva davvero la vile razza dei babbani e dei mezzosangue.

E lui, sciocco bambino chiuso in un castello a guardare le montagne, aveva sbagliato tutto. Aveva pensato a loro, ai babbani, in maniera assolutamente anormale, pensava che fossero delle creature superlative perché riuscivano a fare tutto senza magia. Non erano superlative, ma patetiche, arrancavano nel deserto della vita costruendo cose che poi arrivavano persino a danneggiarli.

In realtà, nemmeno suo padre fu così preciso nelle sue descrizioni, ma le sue parole, il tono di esse, fu sufficiente a far capire bene a Draco la portata della cosa.

Non ci aveva ripensato, non avendone nemmeno motivo, fino a quando non vide i babbani ad Hogwarts e capì che erano effettivamente diversi.

Vedere accanto, la Granger e Daphne, per credere… era facile capire dove fossero cresciute.

Quella che nella sua mente era una idea lieve come una foglia, divenne del peso di una roccia, quando compì dodici anni. Quando chiese dell’apertura della camera dei segreti, durante le vacanze estive. Chiese la verità su quella camera e su chi aveva avuto la meravigliosa, a suo dire, idea di aprirla per eliminare quella feccia che contaminava Hogwarts. E suo padre, per la prima volta, gli parlò dell’Oscuro signore.

Gli brillavano gli occhi.

Non aveva mai avuto quell’espressione, quegli occhi, quel viso, colmo contemporaneamente di rabbia, di dolore e di trionfo, sembrava… rifulgere… lo invidiò. Non lui, non suo padre che amava così tanto quell’uomo che gli aveva promesso anni prima di oltrepassare i limiti di ogni morte, ma quell’uomo stesso. Che aveva quell’ammirazione da parte di suo padre, che guardava sempre lui con sufficienza.

E chissà quante altre ammirazioni di padri aveva

Tornato in camera sua, aveva preso da sotto il letto un libro. Lo aveva comprato un giorno, per caso, al Ghirigoro, a Diagon Alley.

Era un libro che gli ricordava la sua infanzia, non lo aveva mai letto, lo aveva sempre attirato la semplice immagine sulla copertina.

 

Un bambino elegante ed impettito, dai vestiti raffinati e seriosi, con intensi occhi chiari e capigliatura color del grano.

Anche… tu…

 

Gli somigliava, ne era stato colpito e lo aveva acquistato.

Ma non l’aveva mai letto… la sola volta che aveva provato a farlo… era arrivato uno schiaffo di suo padre. Prima al libro che era volato dall’altra parte della stanza, e poi alla sua faccia.

Il primo gli aveva fatto decisamente più male.

Non ebbe il coraggio di raccogliere il libro per giorni, poi, tremante, lo raccolse e lo nascose sotto il letto, come una reliquia preziosa. Giorni dopo, balbettando, bussò alla porta della camera di sua madre, con delicatezza. Entrò senza aspettare che lei rispondesse, visto che anche lei era arrabbiata con lui, e le chiese: “E’ di un babbano? Madre, quella storia… il Piccolo Principe… è di un babbano?”.

Lei annuì leggermente, abbassando lo sguardo, terrorizzata da quelle pagine inermi.

La abbracciò e le chiese scusa.

Eppure, il libro rimase lì. Sotto quel letto. Avvolto dalla polvere e circondato di cianfrusaglie, ma sempre lì.

Quel giorno, a dodici anni, lo aveva ripreso. E bruciato.

Quando intimamente abbracciò anche lui la causa di Voldemort, non servivano tatuaggi spaventosi, maschere argentate e mantelli neri. Ma solo quello. Il desiderio di essere anche lui il principe di qualcun altro.

Essere considerato per qualcuno anche soltanto la metà di come suo padre considerava il Signore Oscuro. E avrebbe potuto darglielo, lui, Voldemort. Dargli schiere di persone che l’avrebbero davvero pensata così, che lo avrebbero idolatrato, che gli avrebbero dato potere.

Questo, quando aveva dodici anni.

Prima che Voldemort tornasse, quando era ancora un fantasma rilucente nelle memorie, non carne che bramava sangue e morte.

Quando la sua vita era cambiata.

Per sempre.

Ormai nemmeno se la ricordava più, la sua vita prima di quel momento. Nonostante questo, nonostante il loro peso, quelle ere glaciali adesso erano finite. Come ghiaccio che si ritirava, anche la parentesi di vita di Voldemort recedeva dal tempo presente, lasciando artigli gelati sulle loro vite. Sulla sua vita, che beninteso, non sarebbe stata mai più la stessa.

Nell’alba, brillò improvvisamente un vestito celeste di raso, capelli dai riflessi d’oro e una collana di perle chiare. Profumo di ciliegia, quel giorno più intenso. Gli raggiunse il viso, soffiando nel fresco vento di tramontana.

Draco sorrise, agitando la mano lentamente verso la donna che veniva verso di lui correndo. Un sorriso spontaneo, che partiva dalla sua anima.

Un sorriso che aveva addosso da quando l’aveva conosciuta… a dicembre sarebbero stati due anni.

Eppure… Draco si portò stancamente una mano al petto, cercando quasi di serrare il cuore in una morsa che lo proteggesse. La sentiva ancora palpitare quell’ombra nera, quella che si era insinuata in tutto quello che faceva e in quello che faceva lei, che aveva raggiunto il respiro e l’anima, entrando nel cibo, nell’aria, nei sogni, ristagnando sulle pareti, trovando riparo negli arazzi ricamati, dormendo nei camini spenti.

La vedeva persino negli occhi dell’Auror, sempre Anthony Goldstein, che sbuffava per quella levataccia mattiniera, poco distante da lui.

Era sempre lì. Gettò lo sguardo su Helena che si avvicinava. Lei, ingenua, credeva davvero che se ne fosse andata? Credeva davvero che non avesse già legato la loro vita, il loro destino?

Credeva davvero che d’ora in poi sarebbe tutto diverso per lei? Forse anche per lui?

Sorrise ancora, mentre Helena si sedette accanto a lui, sistemando il vestito celeste sulla sabbia, aprendolo come se fosse una principessa, come faceva sempre. Sì. Già lo sa che lei lo crede davvero.

Ed in fondo, lei dalla guerra non era mai stata sporcata. Quindi, le lasciava la sua illusione e sperava di godere un po’ del suo riflesso.

Helena guardò divertita, ridendo, il gelato che Draco aveva nelle mani e che si stava inesorabilmente sciogliendo, non ancora toccato da lui: “Guarda Draco che, anche se babbano, non morde mica!”.

La sua voce, campanelle d’argento.

Draco storse il naso, guardandolo come se davvero potesse mordere: “Ma non potevamo andare a Diagon Alley, scusami? Vai a vedere che queste cose babbane sono anche tossiche…”.

Ma che dici, Draco?” rise lei, dandogli una lieve gomitata nelle costole e mangiando di gusto il suo gelato “Vivi troppo nel tuo maniero isolato dal mondo… lasciatelo dire…”.

“E a me sembra che tu viva troppo nel mondo dei babbani per essere una Greengrass…” commentò caustico Draco, guardandola di sbieco. Lo aveva sempre pensato, sembrava sempre troppo informata sul mondo dei babbani, ma non aveva mai espresso il suo dubbio a voce alta. Helena, spesso, sembrava… strana, da questo punto di vista.

Le voleva bene, come non si aspettava, ormai era come una sorella. Eppure, difficile negare che quell’aspetto spesso lo inquietava.

Si aspettava che lei sbottasse nervosa ed inorridita, ma Helena si limitò a sorridere in un modo quasi triste, per poi replicare: “Hai ragione… i miei direbbero la stessa cosa…”.

Draco si ritrasse a disagio, mormorando sommesso: “Insomma, è un pochino… strana… come cosa…”. Gli sembrava così ovvio.

“Se le cose le vedi sempre e solo da un punto di vista, è chiaro che tutto ti sembri ovvio…” replicò lei seria, fissandolo con i suoi infiniti occhi azzurri, come se lo avesse letto nel pensiero. Come faceva sempre. A vederla, sembrava una deliziosa bambolina, dalle guance rosee e dagli occhi circondati da ciglia nerissime e lunghissime. Invece in lei, c’era un’altra anima, una donna profonda e riflessiva. Emergeva di rado, illuminava i suoi occhi chiarissimi di sfumature cobalto di tristezza e poi annegava nel suo sorriso luminoso ed accecante.

Improvvisamente ispirata, allungò l’indice, attirando la sua attenzione su una casa sulla scogliera. Draco seguì il suo dito, scorgendola.

La vedeva appena, era completamente bianca e spiccava sulla scogliera in modo quasi insolente. A spegnere un po’ quel nitore, provvedevano delle siepi di rampicanti dai fiori violetto.

Helena parlò con voce sommessa: “Quella casa, per esempio… a me sembra bellissima, molto più di quella di qualsiasi mago io abbia mai conosciuto…!”, lo disse con voce argentea, allegra, come se fosse una cosa… ovvia… poi, abbassò la voce, puntando i suoi occhi in quelli di Draco con franchezza: “… eppure è babbana… cosa dovrei fare? Negare la verità? Essa è sempre la stessa… anche se la neghi, Draco…”.

Il ragazzo improvvisamente si sentì a disagio, sapeva di avere mille argomenti per obiettare alla sua affermazione, permeati delle teorie ancestrali che i suoi gli avevano sempre inculcato. Eppure, ora, l’assurdità della situazione gli impediva di ricordarle degnamente… o forse… era solo lei che gli faceva quell’effetto.

Era una bella donna… inutile negarlo… ma non era solo questo…

In lei, c’era qualcosa… Che gli faceva scordare tutto quello che era stato. Un tempo, l’avrebbe temuto… ora gli faceva quasi piacere.

Poteva essere tutto quello che voleva. E persino quelle cose che erano rimaste delle certezze in lui, si sgretolavano come sabbia nel vento.

Addentò con sospetto il gelato, sporcandosi anche il naso di fragola, mentre Helena rideva indicandolo. Evitò di risponderle male, e se ne sorprese ancora.

Guardandola da vicino, stranamente gli provocava una calda sensazione di tenerezza, come un formicolio caldo dietro la nuca.

Sembrava una bambina. Aveva la pelle liscia e profumata di ciliegia, sembrava un frutto invitante, da mordere…

Draco scosse il capo, ma che diamine pensava???!! Helena lo guardò non capendo, inarcando un sopracciglio, e quindi Draco si affrettò a riprendere a mangiare.

Lei era solo una sua amica… certo, era strano per lui avere un’amica. Ma si erano subito presi in simpatia, da quella sera di ormai quasi due anni prima.

Dopo averla conosciuta, aveva preso a frequentare più assiduamente la casa dei Diggory, inizialmente solo per avere una compagnia che gli impedisse di impazzire, anche se lo avrebbe sempre negato, indipendentemente da chi fosse e da chi si trattasse. Poi per Amos, che si era rivelato un uomo straordinario ed ormai un padre per lui. Infine per lei.

Lei che rendeva zucchero ogni cosa che lo circondava.

Ed ogni verità, disarmante nella sua evidenza, la rendeva una bugia nello stesso momento in cui la toccava.

Alla fine, come sempre con lei, si gustò persino quel “gelato” e ne rimase soddisfatto. Gli venne da sorridere. Che cosa assurda. Per lui, la vita era sempre stata assurda. Ma almeno ora era assurda, in un modo quasi bello.

Cosa farai quest’estate?” chiese Draco, guardandola di lato.

Helena agitò la mano con fare noncurante: “Probabilmente andremo in Scozia… Amos ed io… e poi dai miei…”, a quell’ultima affermazione il viso le si tinse di una vena di sarcasmo, poi disse felice: “Ma potresti venite tu con noi! O hai da fare?”.

Draco fece una smorfia: “Dovrei vedermi con Denise… alla fine questa storia deve finire in qualche modo…”.

“Capisco” mormorò Helena, mordicchiandosi un pollice “La lascerai?”.

Draco annuì, guardando il sole che iniziava a sorgere, rendendo rosa il cielo: “E’ inutile... più ci vediamo e più aumenta il fastidio che provo per lei… mi dispiace, ma è così…”.

“Un tempo, non ti sarebbe dispiaciuto per lei…” annotò Helena, abbracciandosi le ginocchia.

“Un tempo, non conoscevo te…” replicò sinceramente Draco, guardandola “Scommetto che ti dispiace anche per lei… anche se la conosci appena…”. Helena sorrise ancora, piegando la testa di lato.

Era così bella… probabilmente non fosse stata una sua amica, ci avrebbe già provato. Draco si riprese mentalmente, chissenefrega dell’amicizia, non ci provava perché era la moglie di Amos. Altrimenti, probabilmente già l’avrebbe presa su quella stessa sabbia, fino a quando il sole non fosse sorto di nuovo. Scosse ancora il capo, vedere Denise almeno gli calmava gli ormoni… ora gli aveva decisamente in subbuglio.

“Forse è anche meglio che io non venga in fondo…” rise Draco, cercando di distrarsi “Tu ed Amos avete molto da recuperare…”.

Helena sorrise, ma di un sorriso diverso. Sembrava… triste: “Eh già… siamo sposati da parecchio, ma non sono ancora riuscita a dargli un figlio…”.

Draco smise di ridere, aveva fatto quella battuta solo per ricordarsi con estremo dispiacere, che il solo uomo che poteva avere Helena, era suo marito. Invece l’aveva solo ferita.

“Scusami…” replicò compito, Helena agitò la mano per dire che non importava: “Hai ragione… abbiamo parecchio da recuperare…”.

“Un giorno sarai una brava madre…” replicò Draco convinto.

Helena sorrise ancora: “Forse… la verità è che non mi ci vedo proprio come madre… entrerei in crisi già per scegliere il nome…”.

“Addirittura?!”.

“Sì, insomma… pensaci… il nome è ciò che ci rende quello che siamo per tutta la vita…” asserì lei infervorata, poi si addolcì guardandolo: “Io non ti riesco ad immaginare con un altro nome…”.

Draco distolse lo sguardo imbarazzato e lei rise ancora: “Come chiameresti tuo figlio?”.

“Non ci penso proprio per ora ad avere un figlio…”.

Ma, se fosse? Come lo chiameresti?” insistette Helena, gli occhi che le brillavano. Sembrava dannatamente importante per lei avere una risposta, quindi Draco si sforzò di risponderle: “Non so… nella mia famiglia, c’è la tradizione di chiamarsi con i nomi delle stelle, costellazioni o simili… o perlomeno era così per i Black, per questo mi hanno chiamato Draco… è il nome di una costellazione… quindi, forse un nome simile…”.

Draco ci rifletté un attimo, poi rispose abbastanza sicuro: “Chiamerei mio figlio o Scorpius o Leo… sono i due nomi su cui era in dubbio mia madre, quando sono nato…”.

Lei riusciva anche a fargli parlare di sua madre, quasi con tenerezza. A Draco venne di nuovo da ridere, in modo assolutamente incomprensibile.

“Sono bei nomi… nella mia famiglia, non abbiamo delle tradizioni simili…” commentò lei, socchiudendo gli occhi nella luce del sole che sorgeva “Io, per esempio, il mio di nome non lo sopporto proprio…”.

Mise un broncio da bambina viziata, il labbro inferiore sporgente e gli occhi quasi lucidi di fastidio.

E Draco fece la sola cosa che gli venne in mente. Rise ancora, estrasse dalla tasca la bacchetta e disse in un sussurro: “Floresco”.

Nelle mani di Helena, comparve una meravigliosa rosa bianca, molto profumata, dalla corolla gialla.

Helena la guardò senza capire, e Draco sorrise: “Si chiama Rosa Helenae… la rosa di Helena… come vedi, non sei solo tu che porti questo nome…”.

La ragazza la tenne tra le mani, poi d’impulso abbracciò Draco, sussurrando nel suo orecchio e causandogli un brivido sulla schiena: “Grazie”.

Draco la strinse a sua volta, rosa al sapore di ciliegia come una tela di profumo che si annodava nei suoi pensieri.

 

 

Nel buio, il corpo disteso di Anthony Goldstein, riverso sul pavimento, non era distinguibile in nessuno dei suoi tratti. Sembrava un fantoccio, liberato dei fili che lo sospendevano su un palcoscenico.

Draco respirava a fatica, si pulì con il dorso della mano del sangue che gli colava dal naso, dove lo aveva colpito un pugno dell’Auror, la cartilagine aveva ceduto, lo sentiva. Ma se ne fregava… per la prima volta, nella vita da ragazzo viziato che aveva sempre fatto, non provava dolore fisico insopportabile. Per la prima volta, sopportava il dolore perché c’era qualcosa di più importante.

“Non avresti dovuto colpirlo…” una tenera voce femminile, spaventata, interruppe il silenzio.

Fuori, scendeva una pioggia che attutiva ogni rumore ed ogni voce, eppure lui la udì lo stesso: “Non mi interessa… per me, potrebbe anche morire…”.

“Draco…” la voce lo ammonì dolcemente, cercando di farlo ragionare.

Il ragazzo si voltò verso di lei, le mani contratte, e sferrò un violento pugno contro il muro. Ancora, nessun dolore fisico. Sangue sulle dita imbrattò il muro candido.

Helena sobbalzò e distolse lo sguardo da lui, puntandolo involontariamente nel Pensatoio, alle loro spalle, dove avevano appena rivissuto la morte di Lucius e Narcissa Malfoy.

Argento ed acquamarina, come un oceano d’estate i suoi occhi. Attorno a loro, silenzio, l’eco del pugno che si ripeteva contro le pareti vuote, le grida dei genitori di Draco ancora nelle orecchie.

Draco sentiva che non se ne sarebbero mai andate. Come quelle dei Paciock? Cosa c’era di diverso tra Alice Paciock e Narcissa Black?

Il nome… solo quello.

Un nome, fatto di vite intessute secoli prima, che le condannava come santa la prima e puttana la seconda.

Chiuse gli occhi, stanco, un lieve bruciore dall’osso della mano. Lo guardò distrattamente, doveva essere rotto, ma non sentiva nulla. Helena gli prese la mano ferita nelle sue, la strinse e Draco sentì finalmente qualcosa.

Non sapeva cosa… ma qualcosa… ed era insopportabile.

Cadde in ginocchio, piangendo, Helena si abbassò subito alla sua altezza per stringerlo a sua volta. Piangeva anche lei, che non conosceva Narcissa Black né Lucius Malfoy.

Lei conosceva solamente la madre, riflessa in quel Pensatoio, che aveva chiamato il figlio mentre moriva.

“Tutto quello che ho fatto fino ad ora… non aveva senso… è sempre la stessa cosa…” mormorò sconnessamente, Helena che lo cullava tra le sue braccia come un bambino, la gonna rosa antico che si sporcava del sangue di Draco. Il ragazzo si abbandonò nel suo profumo, chiudendo gli occhi, sua madre che chiamava il suo nome sempre nelle orecchie, suo padre che esalava un ultimo respiro pesante come l’anima stessa del mondo, sempre negli occhi.

“Li ho uccisi io…” disse alla fine Draco, risollevandosi e guardando Helena che continuava a piangere e si limitava a scrollare il capo, facendo segno di no.

“Non avresti dovuto strappargli quel ricordo…” mormorò lei tra le lacrime “Sapevi già chi li aveva uccisi…”.

“Ma non sapevo perché… e come…” disse Draco freddo, sollevandosi in piedi ed aiutando lei ad alzarsi “E questo oggi fa tutta la differenza del mondo…”.

Helena rabbrividì. Un’ombra si era rappresa nello sguardo di Draco. Qualcosa… in lui… era morto per sempre.

La scarsa fiducia nel mondo e nella giustizia… ormai non erano più nulla.

Ma oggi anche questo finisce…” ripeté sibillino, prese il mantello e corse fuori, sotto la pioggia. Helena cercò invano di chiamarlo, preoccupata, si fermò sulla soglia, ma lui scomparve nella pioggia che scrosciava.

Correva, incurante dell’acqua che si mischiava al sangue delle sue ferite, schizzi che si sollevavano al suo passaggio, grigio negli occhi come se non esistesse altro colore. Altro colore, a parte il rosso.

Sangue.

Ovunque. Su ogni cosa che guardava, c’era il sangue dei suoi genitori che lui stesso aveva ucciso. Come poteva vivere un secondo di più?

Sapeva che poteva vivere, lo sapeva. Perché lo aveva già fatto. Sapeva che la vita sarebbe continuata, se lui non avesse avuto il coraggio di farla finita, piantarsi un coltello in gola o gettarsi nel vuoto o... altro.  

La vita, come una punizione, sarebbe continuata.

Sarebbe stato il ricordo di sempre, che non l’aveva mai lasciato. Il mondo fuori dalla finestra che brucia e lui intrappolato, chiuso dentro una casa divorata dalle fiamme. A guardare fuori le lingue di fuoco.

Sperando, tremando, piangendo? Magari un tempo… ora, solo aspettando… di morire. Perché sapeva che il fuoco avrebbe preso anche lui, un giorno.

Correva Draco, suscitando reazioni scandalizzate nei babbani che urtava nella sua corsa, ma non se ne curava. Per la prima volta, pensò che, se fosse nato babbano, forse sarebbe stato felice.

Beatamente ignaro dei fenomeni strani, a cui il nome magia sarebbe stato accostato solo per gioco.

Lacrime e pioggia.

Sua madre avrebbe preparato torte in una cucina bianca, con la finestra sempre aperta su montagne di smeraldo. Suo padre avrebbe fumato pipe in una poltrona cremisi, i piedi appoggiati su uno sgabello panciuto.

Corse fino al Ministero Draco, se ne fregava che probabilmente così facendo, sarebbe morto. Rinunciando alla protezione degli Auror, sarebbe morto.

Gli facevano troppo schifo per continuare a sentirli respirare vicino a lui dell’aria troncata nei polmoni nei suoi, a sentirli parlare attorno a lui delle parole negate ai suoi, a sentirli ridere delle stesse risate con cui avevano deriso e schernito i suoi. Ricordava tutti i loro nomi. Tutti.

Goldstein che rideva, calpestando i capelli di sua madre. Steeval che bruciava sigarette sulla fronte di suo padre. Ogni nome. Altri nomi. Un giorno, l’avrebbero pagata. Bruciati in una casa sprangata, al centro esatto dell’inferno. Assieme a lui. Assieme a Draco Malfoy, traditore di ogni parte del mondo.

Entrò nel Ministero, non ricordandosi subito dove fosse l’Ufficio del Capo degli Auror. Agitazione che confondeva e rendeva ruggine la sua memoria. Dove diamine è?

Girò in tondo per un bel po’, poi qualcosa attirò la sua attenzione, scuotendo i suoi sensi, violentandoli persino. Una risata. Risata di donna. Istintivamente si nascose dietro una colonna.

Una risata conosciuta. Troppo conosciuta. Miele di presente e sale di passato… tutto assieme. Mescolati in quel solo suono.

Non arrivò, però, la dolce ciliegia del profumo che si aspettava. No. Arrivò un profumo intenso, forte, penetrante. Tè nero e vaniglia. Contraddizione nella sua stessa esistenza.

Si sporse oltre la colonna. I suoi occhi si sgranarono, persero delle lacrime incagliate nelle ciglia e divennero asciutti. Non poteva essere.

La Granger, il Capo degli Auror rideva piegata in due, indicando Lenticchia Weasley che era appena caduto per terra. Rideva la Mezzosangue della risata di Helena.

Uguali, identiche, come sorelle.

A Draco mancò la salivazione, si sentì soffocare, mentre lei lo superava ridendo ancora: “Sei un imbranato cronico…!”.

Smettila, Hermione! Potevo farmi male!”.

“Almeno avresti imparato a non camminare come un satiro in calore, guardando ogni essere minimamente somigliante ad una donna…”. Il sorriso era evaporato ed era diventato una smorfia ironica, mentre usciva dal palazzo, riparandosi dalla pioggia, sollevando il colletto della giacca che portava. Weasley cercò di difendersi e lei rise ancora, le campane dell’inferno nelle orecchie di Draco.

Possibile che vedesse Helena dovunque, ormai? Anche nella Granger? Si era innamorato di lei, della moglie di Amos?

Forse era arrivata anche l’ora che a quell’inferno, lui ci andasse per davvero. Non poteva sopportare anche questo…

… poteva persino sopportare quell’amore, imprevisto e non richiesto, ma non che l’assassina dei suoi avesse la stessa risata della donna che ogni giorno, fosse come fosse, era la sua salvezza.

E si disse che amava Helena… andava anche bene, tanto lei non l’avrebbe mai saputo. Amando Helena, vederla nella Granger aveva un’ineccepibile spiegazione.

Trovò il vice della Granger nel suo studio, un incapace di nome Beckwith. Comunicò la sua decisione e fu lieto che non fosse lei, la Granger. Probabilmente la Regina dei Grifondoro avrebbe fatto molte più storie.

Invece, ci furono proteste, ma, sfoderando un contegno da perfetto Mangiamorte, Draco disse che avrebbe ucciso tutti gli Auror che si sarebbero avvicinati a lui.

Nessun Auror avrebbe mosso un solo dito per proteggerlo, se fosse stato attaccato. Questo, disse alla fine Beckwith con voce lapidaria.

“Mi va benissimo… premuratevi anzi che non siano loro vicino a me… potrebbe finire decisamente male… per loro…”.

Uscì dal Ministero, pioveva ancora.

Corse di nuovo. Voleva risentire il profumo di Helena. Disperatamente. Voleva cancellare quello del sangue, dolciastro nei suoi pensieri. E voleva cancellare quello della Granger che non se ne andava più via, sottofondo del massacro che lei aveva fatto nella sua vita. Un giorno, l’avrebbe pagata anche lei. Bruciata in una casa sprangata, al centro esatto dell’inferno.

Assieme a lui, Draco Malfoy, traditore di ogni parte del mondo.

 

 

“La cosa peggiore di tutto questo, è sentire anche quello che provavi… anche quello che pensavi dentro…” dico, senza emozione, guardandolo negli occhi “Non vedo che cosa ci sia di utile nel farmi vedere tutto questo… mi devo gettare per terra e ripeterti ancora che non sapevo nulla dei tuoi?”. Sentire il nascente amore per Helena permeare i suoi ricordi e i suoi pensieri… e, nel contempo, l’odio per me fondersi assieme, mi riduce in cenere ogni secondo che passa.

Non credo di averlo mai meritato, tutto questo.

Non risponde, contrae nervosamente la mano, un pugno stretto poggiato sullo specchio. Fallo a pezzi. Per favore.

Non mi attende una risposta, se non alla fine di questo percorso… le immagini ricominciano.

 

 

“Me ne vado…”.

“Devo farti vedere una cosa prima…”.

Draco socchiuse gli occhi, la sabbia turbinata nel freddo vento di novembre che lo infastidiva. Attorno, un cielo grigio carico di pioggia, tuoni che lo rendevano simile ad un’enorme e pulsante bestia ferita. Iniziarono anche a cadere delle gocce d’acqua, prima lievi, poi sempre più intense, fino a che iniziò un vero e proprio acquazzone. Ma Draco non si mosse, bagnato fino al midollo, i capelli che si appiccicavano sulla fronte, le ciglia gravate da quell’umido peso. Non erano lacrime, anche se sapeva di volerci piangere… ma erano fredde gocce d’acqua quelle che gli cadevano sulle guance e sugli zigomi.

Fredde. Come la pioggia. Non erano lacrime. Era solo pioggia. La pioggia che, chissà come, c’era sempre nei suoi ricordi e nei suoi pensieri.

Una pioggia che aveva il solo effetto di inzuppare i suoi ragionamenti e di renderli tutti dannatamente uguali. Privi di senso.

Draco spostò distrattamente lo sguardo attorno a sé, un barlume di rosso negli occhi, il rosso del mantello di Helena che vorticava nel vento. Il respiro di lei si condensava in piccoli sbuffi di vapore, e tremava.

Ma non era freddo… era urgenza che lui vedesse ciò che lei voleva. Prima di andarsene.

Dopo aver guardato la spiaggia attorno a lui, il mare minaccioso che schiumava contro gli scogli, la casa bianca ormai davvero un miraggio nel grigiore attorno, priva dei fiori che l’adornavano e probabilmente deserta, rivolse nuovamente lo sguardo verso Helena. I capelli le si attaccavano in lunghe onde attorno al collo, sbatteva le palpebre cercando di vedere ed aveva le guance rosse. Si portò una mano al viso, mettendosi i capelli dietro le orecchie e cercando ancora con lo sguardo di implorarlo quasi, di fare quello che lei diceva.

Draco chiuse gli occhi in un sospiro doloroso, l’immagine di lei impressa nella retina che nasceva e moriva dietro le sue palpebre chiuse.

Se la sarebbe scordata mai? Sarebbe arrivato un giorno, in cui il suo stesso sangue non avrebbe reclamato di lei, bruciando?

Quanta distanza poteva mettere un cuore innamorato per stare tranquillo?

Riaprì gli occhi ed annuì, lei che riacquistò lo scintillio blu zaffiro tipico del suo sguardo, e poi sorrise mesta. Lo prese per un polso, tiepido zefiro nel suo respiro che si mosse distintamente per i sensi di Draco nel vento freddo, e poi si Smaterializzarono. Si ritrovarono in una trafficata strada della Londra babbana, piena di confusione e gente che correva per ripararsi dalla pioggia.

Draco stranamente non se ne sorprese, inconsciamente nei mesi passati aveva accostato Helena e i babbani con una facilità che lo sorprese un po’. Lei sapeva troppe cose dei babbani per non pensare distintamente che ci avesse qualcosa a che fare. Eppure, questo a Draco rendeva l’immagine di Helena solo un mistero inspiegabile, meraviglioso come un’aurora fiorita in un cielo d’inverno.

Non lo inorridiva o gli faceva aborrire la compagnia di lei. Ad di là di questo, Helena era sempre la creatura più incantevole che avesse mai conosciuto.

Se ne andava per quello… perché la amava e perché la desiderava. E lui non sapeva amare in modo pulito, perché non lo era nemmeno lui pulito. Basta pensare che il suo grande amore, nasceva dal tradimento di Amos.

Ridicolo.

Del suo amore, sporco ed unto come petrolio, avrebbe sporcato anche lei, bianca come il latte.

E non se lo poteva permettere.

Draco sarebbe morto. Il suo nome avrebbe cessato di esistere. Lui sarebbe diventato un’altra persona, negandosi per sempre a lei che era il pericolo maggiore. Al di là dei Mangiamorte che ancora volevano la sua testa.

Tutto, pur di non toccarla con il suo amore torbido.

Helena si fermò davanti ad un portone di legno rossiccio, dai vetri verde e giallo, la maniglia un grifone intrecciato. Accanto al portone, un numero e il nome di una strada.

 

Il 76 di Lancaster Road.

 

Helena si frugò nelle tasche del mantello, uscendone una chiave piccola e rotonda. La infilò nella toppa, che si aprì con uno scatto metallico.

Un grande androne, una monumentale scala di marmo nero e bianco, corredata di un corrimano dorato. Una scrivania color ebano dove una donna anziana in livrea verde sonnecchiava e trasalì al loro ingresso.

Helena sorrise e fece un cenno del capo, a mo di saluto. La donna rispose al saluto con un nome che Draco non conosceva e, in quel momento, non intese.

Sempre più curioso ed esterrefatto, Draco la seguì su per le scale, fino ad un appartamento, il numero…

 

L’interno 15.

 

Un’altra chiave. Ed Helena aprì la porta con decisione.

Odore di ciliegia. E Draco capì subito, ancora prima che parlasse. Quella era casa sua.

Non guardò la stanza, non voleva, quasi come se quella sua stessa che palpitava in quelle pareti, gli fosse stata celata in modo colpevole da lei e non meritasse alcuna attenzione. Pensava solo a questo, ad un senso di possesso su Helena, sui suoi pensieri e sulla stessa vita, più che pensare che era sempre in una casa evidentemente babbana. C’era un pianoforte, utensili tipicamente babbani, cose insomma di cui lui non sapeva assolutamente il significato e che non doveva sapere nemmeno Helena. Cos’era un hobby ridicolo il suo? Che senso aveva? Perché lo aveva portato lì?
Lei si sedette tranquillamente, sistemandosi la gonna come faceva sempre, non preoccupandosi di asciugarsi, gocce sul parquet e sul tappeto cremisi.

Non invitò Draco a sedersi, nemmeno si preoccupò del fatto che fosse bagnato, come in altre situazioni forse avrebbe fatto. E lui rimase immobile, la schiena appoggiata allo stipite della porta, le braccia incrociate, lo sguardo freddo e scostante che, dalla vista della morte dei suoi, si era acclimatato perfettamente a lui e non lo aveva più lasciato. Lo sguardo quasi di un riccio, spaventato, ma pieno di aculei che lo potessero difendere.

Helena iniziò a parlare con voce netta e chiara, da adulta, gli accenti da bambina evaporarono come aria condensata. Draco si riscosse quasi dal suo tepore, mentre lei parlava, ogni parola del suo discorso l’avrebbe ricordata per tutta la vita… ogni parola del suo discorso era una freccia nel suo cammino che avrebbe seguito, da quel momento in avanti.

Helena non portò mai i suoi occhi in quelli di lui, come faceva sempre. Restarono bassi, in tutto il tempo in cui parlò.

Il valore di una donna si vede dall’anello che porta, questo diceva sempre mio padre. Non c’era altro per lui che valesse la pena di essere considerato in una donna… quando io e le mie sorelle eravamo bambine, i miei genitori fecero realizzare per noi tre anelli perfettamente identici a quello di mia madre, l’anello di fidanzamento che l’aveva unita a mio padre. Tre anelli, piccoli, delle semplici fasce d’oro con una pietra in sommità. Un rubino per me, uno smeraldo per Daphne, uno zaffiro per Astoria. Niente a che vedere con il diamante che torreggiava sull’anulare di mia madre Lara. Io e le mie sorelle, avvolte nei nostri vestitini di tulle e velluto, unite da quel luccicante legame, sfoggiavano quell’anello come un tesoro, ambendo contemporaneamente alla gemma più preziosa tra tutte. La pietra bianca che catturava l’arcobaleno. Il diamante che portava mia madre. Ma eravamo solo delle bambine… e allora io non capì che quell’anello era solo un giogo che mi si era stato imposto. Niente di più.

“Non portai per sempre quell’anello. Divenne piccolo ed un giorno lo riposi in un cassetto. Non l’ho più ritrovato e, come me, nemmeno Daphne ed Astoria, ma loro hanno sempre finto di non vedere e probabilmente non se ne preoccuparono nemmeno. Lentamente di giorno in giorno, nella mia casa, sparivano delle cose. Un quadro antico di un mio antenato, porcellane finemente cesellate d’oro, arazzi ricamati d’argento, statuette di cristallo colorato e lucente. Ogni giorno, la ricchezza diventava opulenza mostrata ad arte, coprendo spazi sempre più vuoti in modo studiato e non casuale. Abbassavo il capo e facevo come Astoria e Daphne, dicendomi che ci doveva essere un motivo. Ma purtroppo non lo riuscii a fare per sempre… sparì un giorno, come una stella nascosta dalle nuvole, anche l’anello di mia madre. E allora le chiesi la verità…

“Mio padre aveva il vizio del gioco. Galeoni, milioni di galeoni, fuoriusciti dalle nostre tasche in un’emorragia inarrestabile. Vendette tutto quello che aveva, compreso l’orgoglio, la dignità, l’amore di sua moglie che ormai lo guardava con odio e disgusto e che non lo lasciava solo per quella morte sociale che sarebbe stata la condanna peggiore che potesse ricevere una donna come lei. Alla fine gli rimase solo una cosa da vendere, la sola merce che potesse essere una garanzia per i suoi debiti. Le sue figlie, a cui aveva dato la sola cosa che possedeva ancora e che avesse un benché minimo valore economico, il suo cognome.

“Forse fu per questo che avvertii sin dall’inizio una somiglianza tra me e te, Draco. Entrambi siamo stati venduti dai nostri genitori… quel dolore, di essere stato rifiutato, ti resta dentro per sempre. È come una macchia sulla tua anima che, ostinata, non va mai via, è l’infamia di chi avrebbe dovuto amarti ed, invece, ha barattato quell’adorazione infinita che avresti avuto eternamente per chi ti ha dato la vita, in virtù di vantaggi più immediati. Quella macchia… si attacca a tutto e a chiunque amerai da quel momento in avanti… questo è successo a me… ma lo vedo anche in te, Draco. E forse siamo i soli su questa terra che possiamo sapere che cosa si prova e, per questo, non inorridiamo di quell’untuoso affetto che ci riversiamo addosso. Sappiamo che è la sola cosa che potremmo darci vicendevolmente, macchiandoci reciprocamente, ma non essendone toccati, essendo già sudici di nostro, nel nostro profondo.

“Mio padre aveva moltissimi debiti, alcuni di essi riuscì a coprirli con operazioni più o meno legali, spesso fiancheggiando i Mangiamorte e facendo da ricettatore con i beni che sottraevano nelle loro razzie nelle case delle vittime… alla fine, restarono solo tre conti da chiudere. Tre, come me, Daphne ed Astoria. Tre conti con tre famiglie importanti, che si potevano tranquillamente sanare con tre matrimoni, considerando che le famiglie in questione avevano anche tre figli maschi. Una era la tua, Draco, erano i Malfoy…”, Helena si interruppe, soppesando la reazione di Draco, ma alle sue orecchie giunse solo un sospiro soffocato, nemmeno malinconico, triste, nervoso o sconcertato. Solo un sospiro di evidente rassegnazione, divenne solo tiepida curiosità, quando Draco chiese, temendo la risposta: “Chi mi sarebbe toccata?”.

Helena rispose abbastanza velocemente: “So che avevano già siglato un accordo… ora, ovviamente, è invalido dalla morte dei tuoi… tu avresti sposato Astoria…”.

Perfetto, la Greengrass che sopportava meno… Daphne almeno aveva il contegno di starsene per i fatti suoi e, se non la irritavi in una delle molteplici maniere in cui si poteva tangere la sua regalità, non aveva niente a che fare con te. La terza Greengrass, invece… era meglio che se la scordava… peggio di Pansy adolescente, il che era tutto dire. Come una domanda assolutamente insensata e una rivalsa inconcepibilmente presente, provò astio ulteriore per i suoi. Perché non avevano scelto per lui Helena? Forse poteva essere suo marito… ogni suo problema sarebbe sparito, avendola accanto. Sua. Solamente sua.

Ma, ovviamente, i suoi non avevano mai contemplato nulla che gli rendesse la vita più facile.

Helena proseguì, ignara dei suoi pensieri: “L’altra famiglia erano gli Zabini, e Daphne credo che sposerà Blaise. A me, invece, toccarono i Diggory. Avrei sposato Cedric Diggory. Quando lo seppi, avevo solamente diciassette anni, avevo appena finito Hogwarts, avrei voluto fare la Medimaga. Ma, ovviamente, questo non avrebbe portato alcun giovamento alla mia famiglia. Quindi mi ordinarono di lasciar perdere… avrei dovuto sposare Cedric al più presto, anche se lui era di qualche anno più piccolo di me. Non volevo che decidessero al mio posto, mi ribellai, piansi, mi chiusi nella mia camera. Ma non valse a nulla… me lo fecero conoscere qualche giorno prima di…”.

Fu l’unico momento in tutto quel discorso in cui la voce di Helena si incrinò, pianse, nascondendosi il viso tra le mani. Mentre parlava di sé, non aveva mostrato alcuna emozione, ora invece piangeva. Draco, che ancora faticava ad assorbire tutto ciò che le stava dicendo, le si sedette accanto, mettendole una mano sulla spalla. Non fece altro, non si fidava molto delle sue pulsioni mentre la vedeva piangere. Helena si calmò, respirò profondamente e riprese.

“Lo vidi qualche giorno prima che morisse… era il campione di Hogwarts, aveva una fidanzata, era felice. Rimanemmo da soli, su quella spiaggia dove andiamo spesso io e te. Mi disse che mi voleva parlare, iniziammo a correre e seminammo i nostri genitori. Mi portò lì, su quella spiaggia. Lo ricordo come se fosse ieri, aveva solo diciassette anni… io ne avevo ventuno, eppure era lui quello maturo, quello serio e sereno. Mi disse che ne saremmo usciti e che non mi dovevo preoccupare. Che aveva una ragazza, Cho, e che ne era innamorato. L’avrebbe presentata a suo padre a torneo concluso, l’avrebbe convinto a cancellare quel debito. Mi avrebbe reso libera. Ho ripensato spesso a Cedric in questi anni, c’è molto di Amos in lui… quel giorno, per un attimo folle, pensai che, forse, non mi era andata poi così male e che, se anche l’avessi sposato, forse mi avrebbe reso felice. Ma Cedric è morto… e la mia speranza morì con lui… qualche anno dopo, morì anche la mamma di Cedric. Ma quel debito continuava ad esistere… mio padre fece la cosa più ovvia, mi propose in moglie ad Amos Diggory. Lui non voleva, si rifiutava, diceva che ero troppo giovane e che, dalla morte dei suoi cari, questioni come il denaro e la ricchezza, ormai, per lui non avevano più importanza. Ma mio padre, invece, aveva riscoperto onore ed orgoglio e mi costrinse a sposarlo. Anche quella volta feci tutto quello che era in mio potere per evitarlo, ma senza risultato alcuno. Amos alla fine accettò, spaventato dalla solitudine, ci sposammo in un giorno di dicembre, faceva tanto freddo… forse mi incantarono, non lo so, ma non ricordo nulla di quei momenti. Solo che mi barricai nella mia stanza, rifiutando di mangiare… e poi, apparentemente la mattina dopo, mi svegliai nel letto con Amos. E basta. Lui l’aveva capito, capì che mi avevano costretto e che mi avevano forse anche messo sotto Imperius, non mi ha mai toccato fino a quando non l’ho voluto io… in fondo, il suo dolore era così forte che nessuno avrebbe potuto sanarlo, tantomeno io e il mio amore riottoso e rancoroso… vivevamo come estranei nella stessa casa, parlandoci a malapena. Lo odiavo… pensavo persino di ucciderlo. Lui che nemmeno pensava a me… lo avrei voluto uccidere per quella sua incolpevole e lacerante indifferenza… ero sola. Le mie sorelle mi venivano a trovare, ma raramente. Inoltre, vedendomi piangere in una casa per loro così bella e sfarzosa, si irritavano profondamente… alla fine non vennero più…

“Trovai consolazione nel gioco estremamente appagante e soddisfacente di tradire Amos. Non so quanti uomini ho avuto in quegli anni, non lo so davvero, molti nemmeno li ricordo, nemmeno il primo, quello che si prese la mia verginità. Scrivevo i lori nomi in un quaderno e mi gloriavo sadicamente di quanti fossero e di come ognuno di essi fosse una spina nel cuore di mio marito. Lui lo sapeva, credo che lo abbia sempre saputo, ma l’inerzia che lo contraddistingueva in quegli anni, gli impediva di fare qualsiasi cosa, anche ripudiarmi. La mia rabbia cresceva, e lo tradivo ancora, desiderosa che lui si accorgesse di me, che mi odiasse, che facesse qualsiasi cosa. E lui più lo tradivo e più mi ignorava, ergendosi quasi come un dio, immobile e lontano che non guardava i miei peccati, preso dal compito superiore di portare da solo il peso del mondo. Non cerco giustificazioni, Draco. Non ne voglio… e raccontandoti queste cose, non vado alla ricerca di parole che possano consolare o alleviare il mio senso di colpa verso Amos. E non le voglio nemmeno da te, Draco, tu sei il mio migliore amico, io voglio solo che tu sappia chi sono davvero prima di andare via… essere stata me stessa e non averti nascosto nulla, come invece ho fatto in questi anni… sempre e costantemente…

“Un uomo durò più degli altri. Lo avevo conosciuto per caso, avevo preso l’abitudine di camminare per la Londra babbana, dove ero sicura di non incontrare nessuno che conoscessi. In un bar, sorseggiando un caffè, incontrai un uomo… era un Mago, ma era anche un babbano, aveva rinnegato la sua vecchia vita per vivere in modo semplice e normale e rifiutare degli obblighi che gli erano stati imposti. Non sono così poche le persone che scelgono di vivere come lui, ne ho conosciute molte, ma semplicemente, di loro non si parla mai. Li si disprezza e basta, perché si ritiene che abbiano scelto una vita inferiore a quella che avevano… ma chi abbia vissuto la vita babbana, poi, non ne sarebbe così sicuro, specie se fosse nato in una famiglia come la mia, o come quella che intuivo dovesse aver avuto lui… o come la tua, Draco.

“Quell’uomo… lui non mi disse mai il suo vero nome, si faceva chiamare Daniel Ryan… mi disse di avermi vista da bambina, poteva avere qualche anno più di me… non seppi mai molto di lui, mi portò nel suo mondo, diceva solo che voleva che mi liberassi come era accaduto a lui. Faceva il fotografo, di fotografia babbana… Danny mi diceva sempre che adorava la fotografia babbana, quella magica prende molteplicità di attimi, nessuno dei quali davvero significativo, se non pochissimi. La tensione, invece, della foto babbana era quella di catturare un singolo frammento di luce, quello giusto, e di impressionarlo per sempre. Mi insegnò tutto quello che c’era da sapere sul mondo dei babbani, mi fece vivere una realtà alternativa, mi diede persino un lavoro babbano… iniziai a fare la modella, dopo che alcune sue foto, che mi aveva fatto, iniziarono a circolare nell’ambiente della moda. Mi chiamavano Rachel Leigh. Mi diede quest’appartamento, mi insegnò a suonare il pianoforte e ci amammo profondamente… mi lasciò, alla fine, un giorno di qualche anno fa. Lui aveva guarito il mio cuore, liberandolo dall’astio e dal rancore, dandomi una leggerezza che non assaporavo da anni. Eppure, quando mi chiese di lasciarmi tutto alle spalle, come aveva fatto lui, non ce la feci. E lui se ne andò…  la vita da Rachel era un gioco… bellissimo, mi faceva sentire viva. Ma non potevo abbandonarmi tutto alle spalle, come aveva fatto Danny. Non ce la facevo, non riuscivo nonostante tutto, a lasciare Amos, specie dopo quello che gli avevo fatto. Il valore di una donna si vede dall’anello che porta… e io, al mio di anello, la fede di Amos, non avevo mai reso giustizia. Non l’avevo mai amato, mai, lo avevo odiato… ma non era colpa sua. Io ora ero sua moglie… e nulla, nemmeno la vita di Rachel, poteva cancellare tutto quello…

“Tornai da Amos… lui mi accolse come sempre, come una scomoda ospite, venuta solo a riempire di sgradita vita la sua casa piena di cose morte e putrefatte di Daisy e di Cedric… avevo bisogno ancora di respirare, fuori da quella casa, mio malgrado. Non ero ancora così fedele ad Amos, come avrei voluto, avevo bisogno di riempirmi di quella luce che, necessariamente, avrei dovuto poi portare a lui per impedirgli di annegare… ho continuato la mia doppia vita come la babbana Rachel Leigh, perché mi rende felice e mi rende me stessa, anche se con un altro nome. Ma non l’ho più tradito… mai più, da quando è finita con Danny. Ho aspettato pazientemente di espiare le mie colpe, dandogli qualcosa in cambio. Non so se sia amore, io non so cosa sia… non credo di essere in grado di amare, credo che sia riconoscenza, Draco, o affetto, o devozione, non lo so… ma quel giorno è arrivato, un giorno sono riuscita a farmi volere da lui e finalmente mi ha presa, mio marito mi ha avuto per la prima volta. Ora sono davvero Helena Greengrass in Diggory… ma a darmi la forza di continuare ad essere Helena, è contemporaneamente continuare ad essere Rachel… è assurdo, lo so… ma se ho smesso di tradirlo, se inizio persino a dire di provare qualcosa, se non annego nella mia rabbia, è solo perché a volte sono anche Rachel. Anche tu, Draco, hai conosciuto solamente Rachel fino ad ora… Helena, non credo che l’hai mai vista… probabilmente se la vedessi, non sapresti nemmeno chi è…”.

Draco sentiva la bocca impastata, eppure quando parlò, la sua voce non recava tracce di quel sconvolgimento intimo: “Helena è quella che compare quando abbassi gli occhi e non sai che rispondere, quando la tua voce diventa più grave e perde i suoi accenti soliti, Helena è la sfumatura che prendono i tuoi occhi quando ti perdi in pensieri tutti tuoi, Helena è quando parli di avere un figlio da Amos…”, sotto gli occhi lucidi di lei, Draco disse quasi duro: “L’ho sempre vista Helena… so chi sono entrambe… ed amo entrambe…”. Quelle ultime parole gli sfuggirono dalle labbra e se ne pentì immediatamente, ma per fortuna gli occhi di Helena non mutarono la loro espressione riconoscente e grata. Aveva capito che l’amore di cui Draco parlava, era solo l’amicizia che li legava. Ovviamente. Ringraziò Dio per questo.

Helena si strinse nelle spalle e sorrise: “Ora che te ne ho parlato, mi sento meglio… so che, magari, per te è assurdo pensare di vivere una vita babbana, ma…”.

“Non stavo pensando a questo…” ammise Draco, sistemandosi meglio sul divano “Effettivamente, non stavo pensando a questo… avevo già notato che avevi una strana familiarità con le cose babbane, non sapevo perché, ma conoscendoti, non mi è mai sembrato un problema, forse solo un comportamento un po’ eccentrico, ma stranamente non mi ha mai inquietato quanto forse avrebbe dovuto…”.

“E questo cosa vorrebbe dire?”.

Draco pronunciò quelle parole come se scottassero nella sua bocca, come se fossero fuoco liquido sulla sua lingua: “E’una riflessione che ho da tempo in mente… se fossi nato babbano, metà dei miei problemi non sarebbero mai esistiti. Niente Signore Oscuro, niente Mangiamorte, niente Auror… avrei ancora i miei… e non si sarebbero corrotti come è successo…”, Draco sentì quasi di doversi giustificare, dicendo che sapeva che un pensiero del genere avrebbe dovuto fargli schifo, ma ormai ogni suo sentimento gli sembrava drasticamente capovolto rispetto al passato.

Aveva una migliore amica. Ne era innamorato.

Era disgustato dal suo nome. Da stesso. Dai suoi.

Odiava gli Auror, e voleva vendetta.

Tutto oramai era cambiato. Ma non era ancora sufficiente. Seppe che la sua vita stava ancora per capovolgersi totalmente, quando Helena gli prese le mani e le strinse forte.

 Disse solo cinque parole. Cinque parole che gli cambiarono l’esistenza e il destino.

“Draco, diventa tu Danny Ryan…”.

 

Improvvisamente lo specchio inizia a turbinare, diventa quasi vivo sotto la mia mano. Velocissime, passano tantissime immagini, frammenti di ricordi e sensazioni, labili ed evanescenti come nebbie mattutine che non mi è dato guardare compiutamente. Sono la vita di Helena e Draco nell’appartamento di Lancaster Road, dopo che Draco ha evidentemente accettato di diventare Danny Ryan. Anche quel nome viene da lei. Cerco di afferrarle mentre corrono via, segreti attimi di felicità che almeno mi sta risparmiando.

Helena guardò Draco, inarcando un sopracciglio: “Secondo me fai bene a non abbandonare del tutto il tuo nome… hai ancora discreti vantaggi da esso… e poi, qualora diventi troppo pericoloso, tronchi del tutto…”, un sorriso dolce, di latte e miele, Draco arrossì stringendosi nelle spalle: “Tanto in ogni caso ci vedremo lo stesso, sia che tu sia Draco sia che tu sia Danny…”.

Ed ancora…

Helena suonava al pianoforte, la luce del sole penetrò dalla finestra, riempiendo i suoi capelli castani di riflessi di bronzo. Perdutamente assente nel suo mondo, chiuse gli occhi, non guardando nemmeno i tasti che stava premendo, conosceva quella melodia a memoria, non le serviva guardare.  Forbidden colours, i colori proibiti 

Draco la osservava, senza riuscire a parlare, senza riuscire a dire una parola, incantato da quel silenzio magico che non era silenzio, era lei stessa che vibrava in quelle note che aumentavano ogni secondo d’intensità.

Ogni nota si conficcò nella sua memoria, ferite che sanguinavano di nostalgia triste.

“Trova qualcosa da amare allo stesso modo, Draco…” disse lei, gli occhi ancora chiusi, continuando a suonare “Ti riempirà la vita…”.

Non vide le labbra di lui disegnare le parole: “Io l’ho già trovata…”.

Come ha potuto ricordare lei, sentendomi suonare? Come? Io non c’entro nulla. Lei… è irraggiungibile. Lo… sarà… per sempre…

E ancora…

Correva Helena, Draco la inseguiva per le stanze dell’appartamento di Lancaster Road. Sole di un’altra estate che finiva dalle finestre. Lui cercava di sporcarla con della tempera, aveva preso a dipingere, un qualcosa che amava da sempre… ma che lei gli aveva fatto ricordare. Su una tela, nascosta nella sua camera, splendevano gli occhi di Helena, ma lei ancora non lo sapeva.

E ancora…

Helena dormiva placidamente, serena, distesa sul divano, Draco le poggiò una coperta sulle spalle. Sorrise, guardandola muoversi e fare una piccola smorfia da bambina infastidita. Nella luce della luna, i suoi capelli sembravano più lucenti del solito, e le ciglia placide fremevano del rumore dei suoi sogni. Draco si sedette accanto a lei e le accarezzò piano la guancia, sembrava vivere di soli respiri come un fiore.

Era come quelle principesse delle fiabe addormentate in una foresta.

I contorni diventano meno nitidi… come un quadro bagnato dall’acqua che si dissolve in un turbinio di colori…

Draco… basta per favore… che altro ti è venuto in mente?

Un secondo velocissimo, un’immagine che nemmeno sono certa di vedere davvero. Sgrano gli occhi, poggiando di nuovo la mano sul vetro, e guardo Draco smarrita.

Ma lui non mi guarda in risposta, non reagisce, sembra solamente spazientito. Sospira in un gemito di evidente esasperazione.

Sembra non essersi accorto di nulla. L’immagine di Helena, per un solo attimo, è sparita, sostituita da un’altra. Fremito. Non un’altra immagine qualsiasi.

La ragazza dormiva scomposta, agitata, muovendosi continuamente nel letto che non gli apparteneva. Draco si avvicinò sospettoso, guardandola con astio anche se lei non poteva accorgersene. Trasalì, una fitta improvvisa al cuore, quando lei si mosse e fece una piccola smorfia da bambina infastidita, spostando la coperta con un piede. Nella luce della luna, i capelli spettinati gli parvero più cespugliosi del solito in evidente contrasto con la maglia rossa da calcio che portava, e le ciglia recavano tracce di lacrime lontane che doveva aver pianto. Draco si sedette accanto, non riuscendo a smettere di guardarla, un dejà vu continuo nei sensi che lo frastornava. Sembrava… era del tutto identica a… lampo di consapevolezza.

Ancora.

Era la seconda volta che gli accadeva… perché?

Sembravo io… la maglia rossa da calcio… la prima sera che dormii al Petite Peste. Eppure, ero anche differente, non so come, diversa da come mi ero vista nel ricordo di Draco al ministero… percepivo qualcosa di insolito rispetto a prima, attraverso i suoi occhi. Ma forse non ero io… o forse era un pensiero senza forma.

I ricordi riprendono e quella piccola immagine sbiadita, già, sparisce sotto strati di desolazione per quello che devo ancora vedere.

 

Aveva detto quelle parole, come se avesse detto che l’avevano condannata da innocente alla pena capitale, e l’ultimo appello si fosse risolto in una mera conferma della pena precedente.

“Sono incinta”.

A Draco, nonostante la schioppettata sorda che aveva sentito all’altezza del cuore, era sembrata una notizia meravigliosa, specie considerando che uno dei desideri di Helena era sempre stato quello di rendere padre Amos. Invece lei, tutto sembrava tranne che felice. Davanti alla finestra dell’appartamento di Lancaster Road, quello che Draco quasi inconsciamente ormai chiamava casa loro, teneva tra le dita in modo convulso l’intelaiatura della tenda e il suo sguardo si perdeva lontano nel tappeto di palazzi che potevano guardare alle loro spalle, un panorama che Draco non avrebbe mai pensato di chiamare casa e che, nella sua mente, si era sempre appellato come qualcosa di estremamente sgradito e molesto, la cui sola esistenza poteva essere di danno alla sua persona. Ed invece, ora, era casa.

Anni dopo, Draco avrebbe ammesso con estrema chiarezza che fu in quel momento preciso che qualcosa si creò tra lui ed Helena, ma contemporaneamente si dissolse per sempre.

Inerzia.

Non abbandonare il loro nome, ma farsi chiamare Rachel e Danny. Quel bambino che cresceva e respirava già nella pancia di Helena, era il coltello alla gola. Scegliere. In quel momento. Chi siamo?

Helena e Draco. Rachel e Danny.

L’inerzia che lo aveva caratterizzato, che aveva contraddistinto anche lei, ora stava per finire, Draco lo sapeva. Alla nascita di quel bambino, Helena avrebbe dovuto scegliere se continuare ad essere babbana o ritornare mente e cuore da Amos. Per quello, per lei era così difficile… e lui? Lui anche. Non poteva, logicamente, continuare ad andare in ufficio ogni mattina, parlare con Amos, sopportare il magone che sentiva quando lui parlava di Helena, ascoltarlo compito quando ancora ricordava Daisy e Cedric, fare incantesimi per sedare creature più o meno pericolose… e poi rientrare a casa, nella Londra babbana, usare cose che nemmeno avrebbe mai saputo in una vita passata come si chiamassero e perché esistessero, giocare in un ruolo che non era suo, ma che ipocritamente motivava innocuo con il fatto che la donna che lo aspettava tra quelle mura, si chiamasse Rachel.

Quel giorno, stava per finire tutto.

“Capisco...” disse Draco, arrivandole alle spalle “Devo farti vedere una cosa, Helena…”. Lei annuì e lo seguì nella sua camera da letto. Nella penombra, distinguibili appena erano i suoi tratti di tela, ancora incompleti.

Una donna con i suoi occhi che dormiva di tempera e di carta, non era ancora lei… ma i suoi occhi, quelli sì. Un cielo turchino di primavera. Draco ci aveva lavorato per giorni, per renderli proprio loro.

Fumosa come in un sogno, si distingueva persino la loro venatura cobalto di alcuni momenti.

Helena non fece nulla, quasi se lo fosse sempre aspettato, si aggrappò solo al braccio di Draco come se temesse di cadere. Lui, davanti a lei, continuò a darle alle spalle in modo ostinato.

“Che cosa significa?” pigolò lei, in un sussurro spezzato.

Draco deglutì, era arrivato il momento. Non poteva più tornare indietro.

“Quello che amo… la cosa che mi riempie la vita… me l’avevi detto tu… di trovarla…”, Draco sospirò, voltandosi finalmente verso di lei: “Eccola…”.

Lei si morse il labbro in modo inquieto, lacrime già caligine azzurra dei suoi occhi: “Io non posso…”.

Draco fu colpito da quella sua frase, non posso… cosa?

“Io non ti sto chiedendo niente, Helena…” disse sincero, guardandola e poggiando le sue mani sulle sue spalle “Volevo avere qualcosa di tuo, per sempre… un giorno tu andrai via da me, o sarò io, non lo so. Questa vita… essere Rachel e Danny, non può continuare, lo sai meglio di me… e io volevo avere un modo per ricordarmi di te… Danny, il tuo Danny, aveva ragione…”, sospirò guardandola, le si stava spezzando il cuore, lo sentiva dalla tensione nelle sue spalle contratte: “Dobbiamo scegliere, tu devi scegliere… specialmente ora che aspetti un bambino… e so che probabilmente la tua strada ti porterà lontano da me…”.

“Io non posso…” ripeté lei, la testa fra le mani, le lacrime che le bagnavano le mani.

Perché ripeteva sempre quelle parole? Possibile che non capisse che quel gioco da bambina doveva finire? Era così importante per lei essere Rachel? Possibile che fosse così… infantile?

Draco si pentì immediatamente del suo pensiero e, quasi in colpa, si affrettò ad abbracciarla, sussurrandole tra i capelli: “Lo sapevi che non sarebbe stato possibile per te restare Rachel per sempre…”.

Era come consolare una bimba da un brutto sogno, il suo petto assorbiva i singhiozzi di lei, facendoli suoi.

Ma non era una bambina che stava piangendo… le sue parole successive fecero tremare il mondo di Draco, dalle sue fondamenta.

“Non è la scelta tra Rachel ed Helena a terrorizzarmi… quella la potrei sopportare…”, Helena riprese fiato, guardandolo e poggiando una mano sul suo viso, Draco rabbrividì stringendosi nelle spalle.

Quando lei parlò ancora, si sentì perdere la forza e il coraggio, soggiogate da un’onda devastante che avrebbe distrutto ogni cosa nel suo percorso. Ogni cosa che negli anni aveva costruito, paletto e colonna di sé stesso, limiti e confini che lei avrebbe portato un po’ più in là. Lontano da lui.

“Io non posso scegliere tra te ed Amos, Draco… perché la mia risposta mi rovinerebbe la vita, la rovinerebbe anche a te, ad Amos e a mio figlio… e la risposta sei sempre stato tu…”.

L’avrebbe ricordato per sempre quel momento…

L’hai ricordato per sempre quel momento…

Ogni cosa poteva morire, fuori da quella stanza, poteva continuare l’inerzia, vivere, galleggiando nella sola certezza di averla accanto.

E, se l’inferno si sarebbe spalancato attraverso le labbra di Helena, lui ci si sarebbe gettato a viva forza, senza temerlo, bruciando assieme a lei.

La baciò con foga e disperazione e lei rispose allo stesso modo. Ogni pensiero fatalmente rinviato.

Di soli nove mesi.

 

Draco prende a pugni lo specchio, con impeto, piangendo, e io spero che si rompa, spero che lo distrugga. Ma dimentico che qui, nulla è reale, e, se quello specchio, Draco non lo vuole distruggere, non si romperà. Continuerà a stare lì, un demone ingordo che si vuole prendere la mia anima, dopo aver rapito la sua.

Vederli baciarsi… non ce la faccio, davvero. Non posso. Basta, devo andare via da qui.

Mi volto disperatamente in quell’enorme spazio bianco, cercando quasi una via di fuga da qui, una strada che so che non c’è, i suoi singhiozzi nelle orecchie che mi dilaniano ma che so di non poter consolare.

Non trovandola, come è ovvio, mi avvicino, disperazione nella mia voce: “Draco, ti prego… andiamo via…”. Non ci credo di essere arrivata anche ad implorarlo.

“Devi ancora vedere…” replica lui, piangendo ancora e sollevando lo sguardo disperato verso di me.

“Smettila!” urlo, facendolo sobbalzare, eco infinito della mia voce nelle pareti immacolate della sua mente che ci circondano. Mi guarda senza capire, le lacrime prosciugate e le mie che riprendono a scorrere, dandomi un po’ di sollievo. In quell’urlo, ogni goccia del mio amore umiliato.

Ok, d’accordo, so che non mi amerà mai, ma in cosa mi sarebbe utile questo supplizio continuo? Una tortura e basta… lo guardo sconvolta dal mio stesso urlo, stringendomi nelle spalle. So che non sa nulla di me, non sa che sono innamorata di lui… ma perché? Perché non mi lascia stare?

“Ti prego, Draco… lasciami in pace…” sussurro alla fine, senza vergogna, abbandonandomi del tutto e sedendomi per terra, le ginocchia piegate da questo assurdo martellare di ricordi e sentimenti che dovevano restare solamente suoi.

Lui si china alla mia altezza, mi ritraggo nel vederlo avvicinarsi a me, ne resta colpito e quasi addolorato. Ma non ci posso fare nulla, non voglio che mi tocchi mai più…

Non vorrei nemmeno essere guardata dai suoi stessi occhi che hanno guardato in quel modo Helena. E che, invece, hanno guardato così me…

“Non posso… lasciarti in pace…” mi sussurra piano, sedendosi accanto a me “Non ci siamo lasciati in pace a vicenda… e questo ora è diventato necessario, Hermione…”.

“Necessario a cosa? A chi?” inveisco nuovamente, la rabbia che mi prende ancora “A te, che ci soffri terribilmente? O a me? che…”, la mia voce si spezza e ricomincio a piangere, mentre pronuncio l’estrema bugia: “O a me a cui non importa nulla di tutto questo?!”. Parole che vanno in una direzione e lacrime che vanno in un’altra.

“E allora perché stai piangendo?” mi dice lui, guardandomi, dolore insopprimibile e inesauribile nella sua voce.

Sussurro la sola cosa che mi metterà al riparo dal segreto che mi porto dentro: “Nonostante tutto, non voglio vederti soffrire…”.

“Lo so…” bisbiglia lui, nessuna partecipazione nella voce, solo un’evidente rassegnazione “Ti ringrazio…”.

“Non ce n’è bisogno, come non c’è bisogno di tutto questo, adesso…”.

“E’ quasi finito, manca poco…” sussurra lui in risposta, come se non mi avesse nemmeno udito.

Si alza in piedi, porgendomi la mano, e so ancora con estrema chiarezza che, da questa storia non uscirò fino a quando non avrò visto tutto quello che chiede.

Non prendendogli la mano, mi alzo con le mie forze.

Un solo sussurro e le immagini riprendono.

“Facciamo in fretta…”.

Sembra avermi evidentemente ascoltato, anche se ovviamente in parte, perché come poco fa, le immagini scorrono velocemente, sono frammenti di ricordi assieme e di baci, lotte tra le lenzuola, la pancia di Helena che cresce di giorno in giorno di più. Una parte di me, a parte la delusione e il dolore, non riesce a provare nemmeno risentimento per il loro tradimento nei confronti di Amos Diggory. Sono così felici… mi mordo le labbra ansiosamente…

Lui continua a vivere a Lancaster Road, rinvia il momento fatidico della sua decisione alla nascita del figlio di Helena, e lei fa lo stesso.

Annegano i loro sensi di colpa per Amos l’uno nell’altra.

Lui le chiede di sposarla come Rachel e Danny, dato che avranno solamente quello dalla vita, e lei è titubante, ma alla fine accetta.

Le regala un anello meraviglioso, un diamante che era appartenuto a sua madre, e lei commenta tra le lacrime che non potrà mai indossarlo.

Draco continua a vedere Amos Diggory e, di volta in volta, la pressione del tempo che scorre, lo schiaccia profondamente, l’amore per Helena veleno nei suoi pensieri.

Lei suona ancora il pianoforte e gli dice che avrà una bambina.

E la chiamerà Serenity Hope Diggory, perché crede ancora nella speranza di un futuro sereno sia per loro, che per sua figlia ed Amos.

Draco pensa per la prima volta al rapporto che dovrà avere con la figlia di Helena. Eppure, rinvia ancora…

Draco viene attaccato a sorpresa da due Mangiamorte, a cui scampa per miracolo, mentre torna nel suo appartamento.

Non ne fa parola con nessuno, stringe tra le mani la cartolina di Helena da Vienna che trovai anche io… le rose Helenae sul retro…

So che non sopporti le cartoline e che le trovi odiose ed inutili, ma insomma a questa non potevo resistere, non credi? Vienna è bellissima… ma con te sarebbe stata più bella ancora. Cerca di stare attento. Ci vediamo a casa. Rachel…

L’epilogo di questa storia, non so perché, mi si palesa davanti agli occhi passo passo: qualcosa deve essere successa. Non potevano evidentemente continuare così… io non avrei potuto vivere un solo secondo così, ma io sono io. E per questo non potrei mai stare con Draco… ma anche per loro, qualcosa deve essere successa… semplicemente perché vivono su una nuvola, senza pensieri, e qualcosa ti riporta sempre sulla terra ad affrontare quello che hai lasciato sotto di te.

E capisco che l’epilogo si avvicina, quando Draco inizia a tremare accanto a me. Davanti a noi, turbina oltre lo specchio il ricordo di una gelida notte di Natale di poco più di un anno prima.

 

“Sono felice che tu sia venuto, Draco…” la voce di Amos Diggory, per la prima volta da quando Draco lo conosceva bene, suonava autenticamente felice. Nessun retrogusto amaro o malinconico, nessun evidente ricordo di persone morte nelle sue parole e nei suoi gesti.

Amos Diggory era felice.

E Draco Malfoy sentiva la sua gioia come una colpa sulla sua persona. Il suo riso aperto, i suoi occhi scintillanti d’orgoglio, erano un peso sul suo respiro che minacciava di ucciderlo ogni secondo di più.

Quindi è nata?” chiese Draco malinconicamente, seguendo l’uomo nel salotto della sua grande casa. In un angolo, torreggiava un enorme albero di Natale, decorato di stelle d’argento e d’oro. Quest’anno, Helena aveva deciso di farlo finalmente, forse intenerita dall’imminente nascita di sua figlia, e vi aveva aggiunto una serie infinita di vezzosi fiocchi rosa.

Amos guardò l’albero con un altro esasperante sorriso, annuendo ed aggiungendo: “Sì, mia figlia è nata, Serenity… è bellissima…”.

Draco si chiese che cosa ci facesse lì, così d’un tratto e in modo così disperatamente sincero che si chiese come mai non se lo fosse chiesto prima di uscire, prima di lasciare l’appartamento di Lancaster Road, quando aveva ricevuto un messaggio di Helena. Semplicemente, gli aveva scritto che la sua bambina era nata. E lui si era sentito in dovere di uscire nell’aria fredda e di andare ad incontrare quella che solo per una maledetta fatalità, era figlia di Amos Diggory e non sua. Perché di occasioni, pesanti come macigni nel ricordo e leggiadri come piume nel corpo, ne avevano avute a decine. Ma Serenity, per pochi fatali giorni, era indiscutibilmente figlia di Amos.

Sarebbe cambiato qualcosa, se poi fosse stata sua? Draco se lo chiese ancora, seguendo Amos su per le scale. Forse niente… forse tutto…

Quando Amos aprì la porta della loro camera da letto, Draco ebbe una vaga vertigine, il sudore che gli inzuppava la schiena. Sapeva nascondere le sue emozioni e sapeva che nessuno se ne sarebbe accorto, ma ancora un’altra constatazione ovvia gli aveva raggiunto la coscienza, causandogli un conato di vomito. Si strinse la camicia, all’altezza della bocca dello stomaco, mentre Amos continuava a chiacchierare.

Quella era la camera di letto di Helena ed Amos. La camera dove ogni notte, quando fuggiva da lui leggera come una farfalla di seta, lei tornava a dormire.

Era sempre stata categorica. La mattina, lei si sarebbe sempre svegliata accanto ad Amos. Nessuna scusa da inventare o bugia da raccontare, come faceva in altri casi. No. Lei doveva tornare accanto ad Amos ad ogni alba, lui che era al massimo la luna incastonata nel cielo che restava sempre presente, ma che aveva solo di che impallidire al sorgere del sole.

Anche in altri casi, era stata categorica Helena.

L’anello di Narcissa lo teneva sempre a Lancaster Road, chiuso in un cassetto. Non lo indossava mai. Nemmeno quando era certa che Amos non l’avrebbe mai vista.

Aveva accettato di sposarlo, ma non aveva mai nemmeno parlato del giorno o del periodo preciso in cui farlo, anzi non ne aveva parlato più.

Non smetteva mai di portare l’anello di fidanzamento e la fede con le quali Amos le aveva cinto l’anulare.

Non lo lascerà mai… fu il pensiero con cui Draco Malfoy accolse la vista di Serenity Hope Diggory. Helena era distesa sul letto, ancora dolorante e rossa in viso, ma incredibilmente felice. I suoi occhi luccicavano di gioia a stento repressa e, quando Amos si chinò a baciarla sulle labbra, lei lo abbracciò di slancio, sobbalzando solo qualche secondo dopo quando si accorse della presenza di Draco.

Era la prima volta che si scambiavano un gesto d’affetto davanti a lui, erano sempre stati freddi e formali. Draco avvertì la nebbia della gelosia chiudergli la gola, serrargli il respiro, come se, ancora, solo ora si rendesse conto che lei era effettivamente sempre sposata con Amos. La vista offuscata, si avvicinò al letto di Helena, fissando in mancanza di altro, la bambina tra le braccia di Helena.

Amos continuava a parlare entusiasta, il sorriso di Helena si era congelato sulle sue labbra ghiacciate e Draco continuava a guardare Serenity.

Avvolta in una copertina azzurra, era la bambina più bella che avesse mai visto. Dormiva placidamente tra le braccia di Helena, non emettendo nemmeno un gemito, aveva guance rotonde e rosee, capelli radi e soffici di un colore già tendente al biondo. I lineamenti erano molto simili a quelli di Helena, eppure aveva molto anche dell’aspetto gioviale di Amos. Il miracolo più bello fu, quando si svegliò, e rivelò già dei chiarissimi occhi celesti, in tutto e per tutto uguali a quelli della madre. Amos si sedette accanto ad Helena, accarezzando allegramente Serenity, mentre Helena lo guardava in evidente apprensione.

Alla fine, la donna finalmente parò, rivolgendosi a Draco e sorridendo malinconicamente: “Le dovrai insegnare a giocare a Quidditch un giorno… Amos non sa nemmeno che cosa vuol dire giocare a Quidditch…!”. Amos si ribellò con lievi motti scherzosi all’indirizzo della moglie.

Draco deglutì un paio di volte, prima di dire le parole più difficili che avrebbe mai pronunciato.

Tutto poteva continuare. Per sempre. Così. Questo lo sapeva.

Lui ed Helena per sempre assieme, ogni momento della vita di Serenity come un ulteriore traguardo nella loro corsa piena di bugie, mentre ambivano al tanto desiderato premio di essere sinceri con sé stessi e con Amos.

Avrebbero usato il primo compleanno della piccola come momento limite per parlare ad Amos… e poi si sarebbero detti che era troppo piccola.

Allora avrebbero aspettato che andasse ad Hogwarts. Poi che finisse la scuola. E così, per sempre.

E lui, Draco, avrebbe sempre avuto la metà oscura di Helena, come la luna che non mostra mai un lato di stessa. Poteva sopportarlo? Certamente.

L’avrebbe avuta e tanto sarebbe bastato, per tanti giorni e per tanti notti.

Sarebbe stato l’eco del tempo immobile a schiacciarli entrambi. Un tempo che scorreva circolare, in tondo, non procedendo mai in avanti, ma nemmeno indietro perché indietro non si poteva tornare.

Perennemente in quell’oggi eterno.

Con Serenity che invece cresceva. Con Amos che invece invecchiava. E con loro che invece vedevano il loro amore trasformarsi alla fine in un’abitudine necessaria, senza futuro alcuno.

Lei sarebbe stata libera. L’avrebbe liberata dall’onere di dover scegliere. Togliendosi di mezzo.

Pensando a quello e certo che lei avrebbe capito tutto, disse in un soffio doloroso: “Sarà suo padre ad insegnarle il Quidditch e qualsiasi cosa per lei sarà giusta… così come, da sempre, deve essere in una famiglia…”.

Helena ovviamente comprese che stava dicendo. I suoi occhi si riempirono di lacrime, tirò su con il naso cercando di calmarsi ed abbassò il viso, nascondendo il suo volto ad Amos. Eppure, annuì senza una parola.

Draco si scusò con Amos, dicendo che doveva andare via, ma non fece nemmeno in tempo ad uscire che qualcosa ruppe quella quiete che non era una quiete, ma uno sbriciolarsi silenzioso di due cuori.

Improvvisamente, Draco, senza nemmeno rendersi conto di come ciò fosse avvenuto, si ritrovò per terra, carponi sul pavimento, le mani sulla nuca e un enorme ronzio nelle orecchie. Attorno a lui, l’eco di un’esplosione immane ed una nube di polvere. Il tetto era parzialmente crollato, per fortuna lontano da Helena ed Amos, che si erano chinati a proteggere Serenity. La piccola aveva iniziato a piangere.

Draco si alzò velocemente, constatando superficialmente che non era ferito, dallo squarcio aperto sopra le loro teste filtrava un freddo e gelido vento invernale, oltre che qualche fiocco di neve. Raggiunse Amos, aveva un profondo taglio sulla fronte che grondava sangue, dove era stato colpito da una pietra. Aveva protetto Helena e Serenity con il suo corpo e, infatti, le due non mostravano alcuna ferita.

Amos si appoggiò stancamente al muro, ancora integro, una mano a trattenere il sangue che scorreva copioso, guardò il tetto distrutto e la stanza da letto completamente sconvolta: “Ma cosa…?!”.

“Stai bene?” chiese preoccupata Helena a Draco, il quale annuì distrattamente, scuotendosi la polvere dai vestiti. La aiutò ad alzarsi da letto, circondandole la vita con un braccio, momentaneamente non memore delle loro disavventure amorose; Helena infatti non si reggeva ancora in piedi dopo il parto, le mise distrattamente una coperta sulle spalle, mentre lei rabbrividiva nella camicia da notte di seta leggera, stringendo Serenity.

Imbarazzata, distolse lo sguardo da lui, guardando Amos: “Che è successo?”.

“Il tetto… aveva alcune assi marce, probabilmente… il freddo di questi giorni deve aver peggiorato la situazione, meno male che almeno non ci siamo…”.

Amos fu interrotto da una nuova esplosione, stavolta proveniente dai piani inferiori. La casa tremò dalle fondamenta, e si udirono urla e strepiti di elfi domestici. Draco si chinò istintivamente su Helena, stringendola, un terribile sospetto che prendeva forma nella sua testa. Divenne certezza in pochissimi secondi. Grida, risate e bestemmie provenienti dall’esterno.

E poi quell’urlo: “Malfoy! Vieni fuori a giocare!”.

Tremando, si affacciò alla finestra che sembrava galleggiare nell’enorme voragine che era stata aperta tra il tetto e le cantine. Nel buio, le luci di bacchette sguainate. Maschere d’argento di vetusta memoria, su mantelli neri. Erano solamente in due… ma dovevano essere in due particolarmente pericolosi, specie se lo attaccavano da soli. Inoltre, dalla fisionomia, sembravano abbastanza simili a quei due che lo avevano attaccato qualche giorno prima. Draco chiuse gli occhi, risentendo le loro urla nelle orecchie… voci familiari… Serpeverde… immediatamente collegò a due visi conosciuti. Riaprì gli occhi. Pucey e Montague.

Terrore, come un formicolio sulla nuca. Pucey… aveva fatto arrestare sua sorella, era morta ad Azkaban qualche mese prima. Montague… aveva portato al nascondiglio di suo padre, gli Auror lo avevano ucciso.

Vendetta. Pura vendetta ora guidava il loro agire. Non si sarebbero fermati fino a quando non fosse morto. Anzi, no… non si sarebbero fermati fino a quando non gli avessero inflitto lo stesso dolore subito.

E, solo allora, lo avrebbero ucciso.

Lui aveva solo tre persone al mondo, adesso. Amos, Helena e Serenity. Avrebbero iniziato da loro.

Con rabbia impotente, si rese conto che gli Auror probabilmente non sarebbero intervenuti nemmeno per loro, orgoglio ferito di essere stati ripudiati dal traditore di ogni parte del mondo.

Non avrebbero mosso un dito nemmeno per salvare i Diggory.

Possibile che solo ora si rendesse conto di quanto fosse stato pazzo e suicida?

Di quanto poteva buttare anche all’aria la sua vita, ma aveva anche direttamente legato al suo destino di sangue e morte anche loro tre, innocenti ed incolpevoli?

Avrebbe dovuto fare come sempre, come il suo stesso sangue Malfoy gli avrebbe sempre imposto di fare…sfruttare la protezione degli Auror… lasciare che morissero per lui, per loro tre… invece aveva fatto l’idealista, come mai prima. Ma la guerra, sia come sia, non concede mai repliche all’idealismo.

Lascia in vita i cinici. Ed uccide senza pietà gli utopisti.

Ora, quel destino sarebbe toccato a lui. E, prima di lui, ad Amos, Helena e Serenity.

Non poteva permetterlo, questo si disse. Idealista, ok… allora eroe fino in fondo. Gli avrebbe difesi, fino alla morte, lasciando che fuggissero. Si sarebbero salvati.

Uno solo doveva morire quella notte. Ed era lui.

Ma non sapeva Draco Malfoy, in quella fredda notte di Natale che avrebbe cambiato la sua vita per sempre, che il coraggio non è degli agnelli che indossano le spoglie del leone, dei serpenti solo costretti a diventare grifoni.

Probabilmente, un giorno avrebbe conosciuto quella spinta dentro, il calore del cuore che, di fronte alla prospettiva di perdere qualcosa di amato, diventa mobilità del corpo, slancio dell’azione e velocità del pensiero.

Draco, un giorno, avrebbe conosciuto il coraggio. Difendendo una persona che ama.

Questi pensieri… non sono ricordi… sono pensieri di adesso…

Ma, invece, quel giorno, Draco era solo desideroso di morire per sanare le sue colpe. Per liberarsi dell’amore maledetto per Helena. Per avere il perdono per la morte dei suoi. Per sanare l’odioso tradimento.

Voleva morire solo per paura e per stanchezza della vita. Non per coraggio.

Per questo, non seppe affrontare quello, invece, purissimo e niveo di Amos Diggory.

Alle sue spalle, aveva visto dalla finestra i due Mangiamorte, ed aveva subito saputo che cosa fare: “Draco, porta via di qui Helena e Serenity…”.

“Che cosa?!” si voltò quasi irato Draco, incontrando gli occhi seri e pur sereni di Amos. Alle sue spalle, Helena livida in volto stringeva con foga maniacale Serenity al petto.

Amos poggiò con affetto paterno una mano sulla spalla di Draco, il ragazzo che rabbrividì leggermente. Solo Helena seppe leggere nei suoi occhi grigi commozione e lacrime represse.

“Draco, figliolo…” iniziò Amos con voce pacata “Hai ancora tanto da vivere e da amare… per me, non è così… il mio cuore aveva già amato e perduto quando sono morti mia moglie e mio figlio…e quel giorno sono morto anche io…”, era la prima volta che alludeva esplicitamente a loro, Helena cadde in ginocchio, piangendo.

“Helena… è sempre stata per me come una figlia e un colpevole tentazione a cui non sono riuscito a non cedere…” parlava di lei come se non ci fosse, le voci dei Mangiamorte lontani echi di morte nell’aria che vibrava delle sue parole “Non avrei dovuto sposarmi… mai… sarei dovuto morire con il ricordo di Daisy nel cuore e nel corpo. Ma ho ceduto e ho reso prigioniera Helena… per sempre… ma ora sono in tempo per riparare ai miei errori e liberarla finalmente. Liberarla da questo matrimonio che non ha mai voluto. E liberarla anche dal peso di scegliere tra me… e te…”.

Sapeva tutto. Aveva sempre saputo tutto.

Draco cadde anch’egli in ginocchio, aggrappandosi al mantello di Amos, Helena poco distante da lui nella stessa posizione, il volto chino e i capelli sparsi sul suo viso. Due figli che chiedono perdono al loro padre.

“Io non posso…” mormorò Draco, guardando supplice Amos dal basso verso l’alto, gli occhi una nebbia di lacrime che non sapeva più piangere.

“Vai con lei… “ordinò Amos con voce perentoria, guardandolo severamente “Ripara al tuo errore, proteggendola ed amandola per sempre… e proteggendo ed amando anche mia figlia… non è morendo che potrai espiare le tue colpe... ma solo stando con Helena e con Serenity… andatevene adesso…”.

Draco si sollevò in piedi, ergendosi in tutta la sua altezza, chiuse gli occhi pieni di lacrime: “Non posso farlo, Amos…”.

Amos si avvicinò a lui e, senza alcun preavviso, lo strinse forte, un braccio attorno alle spalle piegate. Draco trasalì, deglutendo a fatica, piangendo finalmente nella stretta dell’uomo che non era suo padre ma che gli faceva ricordare un gesto che mancava dalla sua memoria da anni.

“Lo devi fare, Draco…” sussurrò Amos al ragazzo che piangeva “Rendila felice come non ho mai potuto fare… guadagnerò il tempo che vi serve…”.

Si staccò da Draco con un sorriso mesto, prendendo per i polsi Helena e facendola rialzare in piedi come una bambolina di stracci. Il capo della ragazza andò giù proprio come quello di un giocattolo inanimato, solo il braccio che reggeva Serenity era saldo. Le accarezzò i capelli ricci e le baciò la fronte, ripeté lo stesso gesto con maggiore cura e malinconia con la neonata figlia.

“Sii felice, Helena… perdonami, se puoi…”.

A quelle parole, Helena alzò lo sguardo, piangendo, e si gettò tra le sue braccia: “Non hai niente da farti perdonare! Nulla! Nulla! Perdonami tu! Io ti ho tradito tante di quelle volte che… ti volevo solo fare del male… e tu invece… perdonami Amos!”. L’uomo annuì, accarezzandole ancora il capo, poi la sospinse delicatamente verso Draco: “Andate via adesso!”.

Un nuovo scoppio fece tremare la casa dalle fondamenta.

“Passate dai sotterranei… vi porteranno fuori di qui…” furono le ultime parole che disse Amos prima di Smaterializzarsi fuori, sparendo con un leggero pop.

Pochi secondi dopo, mentre Draco si caricava Helena sulle spalle e prendeva Serenity in braccio, Amos Diggory moriva nella neve fresca, a pochi passi dai resti dell’albero di Natale di sua moglie Daisy. Negli occhi spenti per sempre, quell’ultima luce che sarebbe stata come un faro per ritrovare i suoi cari.

Draco correva nei sotterranei, l’umidità nel suo respiro affannato e terrorizzato, un barlume di quel coraggio nella sua folle corsa, Helena continuava a piangere sulla sua schiena.

Era dolorante per il parto e ferita nell’anima, le esplosioni fuori erano sempre più forti e più vicine.

E Draco fece la cosa più ovvia per proteggere la sua famiglia.

La depose delicatamente per terra, la fece nascondere in una nicchia ben protetta e le disse di aspettarlo lì.

Lei lo guardò piangendo, mormorando solamente con una voce che aveva solo del perentorio ordine: “Devi tornare… da me e da Serenity… sono stata chiara?”.

Lui annuì, baciandola, e corse fuori.

Era appena uscito e si ritrovò nell’aria fredda della notte, pronto ad affrontare i Mangiamorte, ora per vivere accanto ad Helena e Serenity.

Era appena uscito che Pucey e Montague fecero esplodere la casa dalle fondamenta.

Era appena uscito che il castello dei Diggory fu avvolto dalle fiamme, non risparmiando nulla.

Era appena uscito che Helena Jasmine Greengrass, che sarebbe sempre stata in Diggory e mai in Malfoy, moriva senza lasciare traccia, senza nemmeno un corpo da piangere, arso mentre proteggeva la sua bambina.

Era appena uscito che un urlo di dolore, come quello di un animale ferito, squarciò l’aria colma di neve, mentre i Mangiamorte ruggivano di trionfo smaterializzandosi lontano.

Sotto quella neve, in quelle lingue di fuoco, bruciò la sola cosa rimasta ancora in vita di Draco Lucius Malfoy.

Il suo cuore.

 

Non ce la faccio, non posso trattenermi. Dimentico ogni cosa, correndo verso di lui che si accascia per terra, la mano che scivola lentamente sulla superficie fredda dello specchio, con uno stridio sordo e fastidioso. Cado per terra davanti a lui e lo abbraccio forte, stringendolo forte tra le mie braccia, le lacrime di un lutto che avevo intuito e di cui, sebbene non possa provarne il dolore, sento la lacerazione che prova Draco, dentro di me, come se mi appartenesse da sempre. Le sue braccia mi stringono alla vita, io ancora in ginocchio e lui seduto per terra, mi attira forte verso di sé, aggrappandosi con tutte le sue forze residue a me, come se fossi il solo vessillo rimasto nel suo mondo che si arrende e mostra bandiera bianca al dolore di cui è piena la sua vita.

“Non è stata colpa tua…” sussurro, stringendolo ed indovinando quello che deve essere il suo tormento costante, le sue mani sulla mia schiena sussultano e tremano, aprendosi piano. Nella sola occasione che, forse, in tutta la mia e la sua vita mi sarà data di toccarlo ancora, appoggio la mano sulla sua testa, accarezzandogli delicatamente i capelli biondi.

Solo nel mio cuore, so esistente un fremito ricolmo di passione nefasta, ma da fuori so che sembra che lo stia consolando come si fa con un bambino.

Semplicemente con tenerezza. Non con amore.

Amore. Non con enorme amore che si deflagra implacabile tra i miei organi, incatenando il respiro, sciogliendo il pensiero e invadendo il cuore.

“Hermione… io avrei potuto salvarla… Amos… io… glielo avevo promesso…” bisbiglia dolorosamente, le parole soffocate contro il mio petto, il suo respiro caldo che si insinua sotto i miei vestiti, facendomi rabbrividire.

Stacco faticosamente il suo viso da me, prendendolo tra le mie mani e guardandolo in viso con feroce decisione: “Guardami, Draco…”.

I suoi occhi, lucidi eppure asciutti, come chi ormai non sa nemmeno che senso abbia piangere ancora, mi guardano con doloroso rimorso.

“Pucey e Montague l’hanno uccisa… non tu…” ripeto con voce decisa, tirando su con il naso. Il suo dolore è un’overdose, che mi hanno iniettato direttamente nelle vene e che si è sostituita al mio stesso sangue, lasciandomi nell’agonia lenta di sapere la mia morte vicina. Non credo di essere mai stata così male per una cosa che non mi riguardasse da vicino… è come se oramai tra i sentimenti di Draco e i miei, ci fosse una specie di rovinosa osmosi, una parete sottilissima e piccolissima che si frappone tra me e lui, confini nel tempo scolpiti e delimitati con selvaggia ostinazione, e che oggi sono meno che nulla.

Sono lui e lui è me… o forse sono solo io che sono diventata meno che niente, e lui che ha assorbito il mio cuore.

Lui esiste sempre per intero. Sono io che non esisto più.

“Mi sono fuggiti… quella notte…” continua Draco con un filo di voce “Ed anche altre volte… tante volte… non sono riuscito nemmeno…”.

La Hermione che conoscevo, lo avrebbe dissuaso, dicendo che la vendetta è inutile e che ti sporca solamente l’anima.

Assomiglia alla giustizia, ma in realtà ne è solo una copia malriuscita.

Ma oggi, più che mai, non so nemmeno io chi sono. Sono semplicemente nelle parole che vanno dalla mia bocca al suo orecchio.

“Ce la farai… un giorno… li troverai…”.

“Non ci credo che tu l’abbia detto…” commenta quasi con un sorriso, le mie ginocchia che si piegano, ricado alla sua stessa altezza, i suoi occhi, velluto soffice di nuvola.

“Nemmeno io…”.

“Ho una cattiva influenza su di te, Granger…”.

“Lo credo anche io…”.

“Saresti stata una perfetta Serpeverde, in fondo…” mi dice con malinconia, e trovo che sia il più grande complimento che mi avrebbe potuto fare nella vita.

“Sono infida, meschina e doppiogiochista?” blatero sarcasticamente, cercando di mantenere il mio contegno solito che mi imporrebbe di vedere solo con disprezzo l’aggettivo “Serpeverde” associato alla mia persona. E lui è come se capisse che non ci credo nemmeno io… non mi segue nel mio moto ironico, rispondendomi a tono.

Sembra persino pensarci un po’, mentre si alza in piedi e ritorna in sé, invitandomi silenziosamente a fare altrettanto.

È solo quando tocca lo specchio che riprende a vorticare di immagini sconosciute che mi arriva la sua risposta.

“Non saresti mai in grado di essere infida, meschina e doppiogiochista… saresti stata semplicemente l’orgoglio di essere quella che sei, come ogni Serpeverde… anche quando questo vada contro ogni sentimento comune… non sei l’incarnata ed inquadrata virtù dei Grifondoro…tu sei la forza caparbia e testarda di essere sempre quella che sei… e questo non è dei Grifondoro… è dei Serpeverde… nostra… o meglio, mia…”.

“Vuoi dire che non siamo mai stati così diversi come abbiamo sempre creduto?” commento fiocamente.

La sua risposta si perde nei suoi occhi che ora guardano solamente lo specchio.

La sua risposta è solo un accenno all’insù delle sue labbra, subito sedato da un’ombra scura nella sua espressione.

La sua risposta viene soffocata immediatamente dall’esigenza cupa che io continui a vedere.

E, improvvisamente, mentre le immagini riprendono, afferro solo per un attimo quanto terrore abbia di quella risposta.

 

Tac. Tac. Tac.

Sempre quel rumore nelle orecchie, consolazione del suo ripetersi ed ossessione del desiderio di risentirlo.

Draco potrebbe riassumere le sue ultime tre settimane dalla morte di Amos ed Helena, in quel suono metallico. Ci avrebbe aggiunto, al massimo, il respiro di Serenity, la bambina bionda che dormiva accanto a lui, disteso sul letto dell’appartamento di Lancaster Road. Serenity aveva paura di piangere, così sembrava… da quella notte in cui per poco aveva scampato la morte, Serenity non piangeva mai.

Come se sapesse… come se anche Serenity, con la sua esperienza di vita di sole tre settimane, breve eppure già pesantissima, sapesse che non valesse la pena piangere per nulla, se non per la morte dei suoi genitori.

Ma, siccome la sua mente era ancora troppo piccola ed ingenua per ricordarli, nella mancanza di quel dolore, non piangeva affatto.

Tac. Tac. Tac.

Il fermaglio a forma di libellula, si aprì ancora con quel suono freddo, liberando solo per qualche secondo la voce di Helena, impressa per sempre lì nell’ultimo spasmo di vita che le era rimasto.

Lo gettò lontano, con rabbioso dolore, e quello si aprì lo stesso. Tac.

Non fece in tempo a correre per richiuderlo. Lei parlò di nuovo. Solo parole. Le ultime. Nemmeno profumo o occhi o labbra o mani. Solo parole di una voce che stava morendo.

Si bloccò, ed Helena parlò di nuovo da quel fermaglio che era rimasto stretto nella manina di Serenity, quando l’aveva ritrovata illesa, mentre di sua madre non c’era traccia.

Volata nella morte, come la farfalla che era stata in vita… lasciando alle sue spalle solo quel messaggio silente, per lui, nella mano di sua figlia.

Draco si accasciò piangendo, ascoltando ancora il testamento di Helena che risuonò nelle pareti della sua stanza.

Tac.

 

 

Draco, io ti amo. Ti ho sempre amato, probabilmente dal primo giorno in cui ti ho visto, quella sera di dicembre che Amos ti portò a casa nostra.

Non so se te l’ho mai dimostrato pienamente, se il mio essere così maledettamente egoista e codarda non ti abbia sempre privato dell’amore di cui davvero avresti dovuto avere bisogno. Non mi hai mai avuta del tutto, sono sempre stata in bilico tra te ed Amos.  E mai, mai, mai…  ti ho fatto pensare di essere davvero la scelta tra te e lui. Ma lo sei. Lo sei, Draco, amore mio. Lo sei sempre stato.

Per questo, Draco, vivi, vivi anche per me. Ed ama anche per me. Questa è la prima cosa che riesco a dirti e che riesco a pensare.

Draco, ama, non c’è niente che valga la pena di fare a questo mondo, davvero, se non amare con tutto il cuore qualcuno. Nemmeno il nostro odio, la nostra rabbia, il nostro rancore e il nostro dolore, che sadicamente ci siamo sempre inflitti dentro, credendo di meritarli davvero, valgono quanto amare qualcuno con tutte le forze, proteggerlo, sostenerlo e renderlo fiero di noi. Apri il tuo cuore all’amore, Draco, aprilo alla donna che è destinata a possederlo. So che esiste. So che c’è.  Non ero io, Draco. Se lo fossi stata, ti avrei reso la vita e la gioia che ti sono state negate, non ti avrei gettato ulteriore dolore e tormento, provenienti solo da me. Lei, invece, la donna della tua vita,  cancellerà quel dolore e tormento dentro di te, semplicemente… e tu lasciala fare, non avere paura.

 Sii quello che sei, non mentire più, non nasconderti più. Non c’è amore più puro e perfetto di amare chi siamo davvero, e non ombre sotto falso nome, come abbiamo fatto noi.  Amala Draco… e più di quanto tu abbia fatto con me. Anzi, non di più o di meno… ma in un modo così unico e speciale che lei non debba mai pensare a me e soffrirne.

Non farla soffrire per me, Draco, non riversarle addosso qualcosa di cui non ha colpa. Non essere me. Per quanto tu ci riesca, Draco, dimenticati di me. O perlomeno dimenticati dell’amore che provavamo.

Vivi e vai avanti, scordandolo. Perché solo così andrai avanti, amore mio… io ti proteggerò da ogni parte dell’Universo dove finirò. Per sempre.

Proteggerò per sempre te, lei… e Serenity, ovviamente. La mia bambina. Mia figlia.

Dio mio, è così ingiusto… la mia bambina… non la vedrò crescere, mai. Non saprà nemmeno chi sono… no, non ce la posso fare… mio Dio, non ce la posso fare…

Sto per morire, Draco, lo so… quindi per favore, ascolta le mie parole.

Proteggi mia figlia e fai che sia la serenità di cui porta il nome. Sono certa che troverai una donna che sia anche una mamma per lei, fai che la ami come io non ho mai potuto fare e che non le faccia mai rimpiangere di non avermi avuto.  Draco, parla a Serenity di me quando sarà il momento, quando potrà capire… non omettere nulla, dille e raccontale tutta la verità. Chi sono stata davvero e il bene che volevo a suo padre… e l’amore che provavo per te. E dille che la amo, da morire, che l’ho sempre amata e che sempre la amerò. Che si fidi sempre di stessa, che sappia di poter essere sempre quella che vuole e che crede, e che possa essere la donna migliore del mondo quando crescerà… e che abbia sogni, Draco. Immensi, grandi, colorati, e che lotti tutta la vita per realizzarli come io non ho mai avuto il coraggio di fare. Sia forte nella strada della vita, che abbia sempre amici che la sostengono ed aiutano… e che ami, Draco, ami anche lei con tutta la forza che ci vuole vivendo. Perché amare è vivere, Draco, mai come ora ne sono certa.

Vorrei che fossi per lei un padre, Draco, ma so di non potertelo chiedere. Ho solo una cosa da chiederti.

Che sia babbana, Draco, che non cresca nel nostro mondo… ti prego, Draco, che non sia mai una strega. Le faranno quello che hanno fatto a me. I Greengrass non la lascerebbero mai in pace, ed io non voglio che accada. Loro non sapevano che ero incinta, avevo detto ad Amos che volevo aspettare che Serenity nascesse, avevo finto una scaramanzia assurda nell’ipotesi che la gravidanza andasse male, ma in realtà cercavo di prendere tempo. Sapevo che avrebbero avanzato delle pretese su di lei…  specie, dopo che hanno scoperto della mia doppia vita. Non so come abbiano fatto, e non te l’ho detto perché in fondo non era importante… ma mi hanno cancellato dalla famiglia.

Ma Serenity… lei è una Purosangue, figlia di Amos Diggory, destinata ad una rendita e patrimonio inimmaginabili. Si cumuleranno su di lei i patrimoni di quel casato che ormai, dopo Amos, è estinto.

La sfrutteranno… Draco, che non lo sappiano mai… non avendo Amos dei parenti ancora in vita, la affideranno a loro. Tu per lei, non sei un parente, anche se, dopo Amos, sei forse la persona più vicina ad un padre che lei abbia.

Solo per poco, lo sappiamo entrambi, Serenity non è tua, nostra figlia.

 Ti prego Draco... rendila babbana, bloccale i poteri, qualsiasi cosa… ma che sia babbana. Che sia libera. In quel mondo, con te, io ho vissuto i momenti più belli della mia vita… e voglio che anche Serenity conosca questa gioia…

Ti prego, Draco, è la sola cosa che ti chiedo davvero.

 

Il testamento di Helena terminava così. Con un respiro un po’ più forte. L’ultimo.

Helena moriva così. E lui non sapeva nemmeno che altre parole avrebbe voluto, in fondo c’era tutto… ma era solo quel pesante respiro che sentiva nelle orecchie. Sempre. Ogni giorno, ogni notte, sempre.

Tac.

E quel respiro.

Soli, a riempire quel vuoto in testa. Assieme alle parole su Serenity. Ora sapeva solo pensare alla parte su di lei… a quella su stesso, Draco non prestava la benché attenzione, considerandola assurda. Lei parlava di amare ancora… e lui invece ora viveva solo per Serenity. Che spazio ci sarebbe stato per l’amore in tutto questo? Nulla. E nemmeno lo voleva. 

Ora capiva Amos che sorrideva ad un dipinto animato in salotto con le fattezze di Daisy Diggory… un giorno, avrebbe finito anche lui il quadro di Helena di cui ora aveva solo gli occhi, rendendolo vivo.

Rendendolo la sola cosa viva, dopo Serenity, rimasta nella sua vita, si sarebbe perso per sempre in esso, finendo di morire e restando sufficientemente esistente nella parte in cui doveva.

Solo, per proteggere Serenity, garantire che restasse babbana e che i Greengrass non sapessero di lei.

E poi, appena avesse affidato Serenity a qualcuno che lo meritasse dato che era più che mai convinto che uno come lui non avrebbe mai potuto farle da padre, restava una sola cosa nella lista.

Pucey. Montague.

E, allora, finalmente poteva morire.

Chiuse gli occhi, stanco, prese da terra il fermaglio di Helena richiudendolo ancora. Tac.

Lo nascose in un cassetto della sua scrivania, chiudendolo a chiave, in modo che Serenity non lo potesse trovare quando fosse diventata abbastanza grande da capirne il contenuto ma troppo piccola per comprenderne l’autentico significato. Si avvicinò a lei, che dormiva ancora sul suo letto, pancia in giù, e le accarezzò la testa con un sorriso lieve.

La sua vita, mai come in quel momento, era Serenity. Fin quando la piccola avesse avuto bisogno di lui, Draco sarebbe rimasto vivo, o perlomeno vivo da camminare, muoversi e parlare.

Per il resto, Draco oramai era un essere putrefatto dal dolore, dall’odio e dalla colpa.

Stava per mettere Serenity nella sua culla, quando un rumore nel soggiorno attirò la sua attenzione. Pop. Qualcuno si era Smaterializzato.

Draco sospirò profondamente, prese Serenity e la poggiò nella sua culla. Considerando gli incantesimi che c’erano nella stanza e che impedivano qualsiasi Smaterializzazione, poteva essere solo una persona.

La sola che non voleva vedere in quel momento. E la più assurda che, anni fa, avrebbe immaginato come soggetto privilegiato nel poterlo raggiungere in qualsiasi momento.

“Malfoy!” urlò la voce con tono autoritario e severo “So che sei in casa, quindi non fare finta che non ci sei!”.

Draco sospirò ancora rumorosamente e si trascinò pigramente in salotto, era solo per quella patina di tristezza, che oramai gli era tipica, che non strascinò i piedi per terra ironicamente, come un bambino dispettoso.

Potter era in piedi, le spalle alla finestra e le braccia conserte, in attesa. Era palesemente spazientito. Aveva l’aria stanca, come ogni volta che lo vedeva, la tipica espressione da Potter, quello che aveva sempre dovuto portare da solo il peso dell’umanità come Eroe del Mondo Magico. A questo si era aggiunta la stanchezza di essere adesso anche il Ministro della Magia, oltre che essere il solo depositario dei grandi segreti di Draco Malfoy. Se Draco lo avesse pensato anni prima, probabilmente si sarebbe messo a ridere… ma ora quel misto di ammirazione e di invidia che aveva sempre provato per lui, lo aveva reso dipendente da Potter più che da ogni altra persona al mondo. Certo, anche Blaise e Pansy sapevano che era vivo… ma il solo che sapesse di Serenity, era lui.

Perché? Si chiese Draco. Perché si era fidato di lui?

Semplice. Aveva messo la sua vita e quella di Serenity nelle mani di Harry, perché le considerava le più adatte allo scopo.

Era rimasto ore nei sotterranei anneriti dall’esplosione, nelle fondamenta del castello distrutto dei Diggory, Serenity in braccio che piangeva e il fermaglio di Helena nelle mani.

Alle prime luci dell’alba, si era stagliata nell’aurora la sagoma di Harry Potter, apparentemente solo, anche se fuori si sentiva il vociare degli Auror, cosa che mai come in quel momento, feriva le orecchie di Draco.

Lo aveva preso per un braccio, aiutandolo ad alzarsi, e lui come un automa aveva obbedito, poi lo aveva condotto lontano, in un appartamento che non conosceva.

Aveva fatto chiamare una donna che si prendesse cura di Serenity, e che portasse a lui di mangiare. Gli aveva intimato di restare nascosto, e lui, senza forze, aveva obbedito, trascorrendo le ore a letto e ignorando persino la vista ormai insopportabile di Serenity per la somiglianza con sua madre.

Si era persino occupato, dopo suo esplicito consenso, di inscenare la sua morte, nel rogo di Malfoy Manor, causato da un incidente con un drago, oltre a tumulare in gran segreto Amos ed Helena.

Aveva preferito fare in questo modo, per depistare i Mangiamorte ancora sulle sue tracce, decidendo di dare l’annuncio della loro morte solo qualche mese dopo, in modo che fosse escluso qualsiasi collegamento tra loro e la sua “presunta” morte. In fondo, solo i Greengrass avevano interesse a sapere ciò… ma non parlavano con la primogenita da tempo, quindi una sua mancanza di contatti non avrebbe destato sospetti.

Potter aveva anche accettato che Draco tenesse con sé Serenity. Lo aveva chiamato un “risarcimento” per la fine dei suoi, e Draco, sebbene non ne volesse e nemmeno sentisse di meritarlo appieno, accettò di buon grado.

Harry si impegnò quindi a tenere nascosti entrambi, dai Greengrass e dal resto del mondo magico.

Inoltre, e di questo Draco era maggiormente grato anche se non l’avrebbe mai ammesso, Harry, al momento, semplicemente “pensava” al posto suo.

Lui era incapace di farlo. Era incapace di fare qualsiasi cosa.

Si sedette stancamente sul divano ed Harry lo imitò, senza aspettare un suo invito, mentre Draco guardava in modo malinconico fuori dalla finestra. Gli occhi grigi si eclissarono per un attimo, ricordando Helena.

Cercando di non ripensare ancora a lei, chiese sgarbatamente al Ministro che cosa volesse, visto che non parlava ma sembrava smanioso di dirgli qualcosa. Semplicemente sembrava che non sapesse da dove iniziare.

Potter sospirò e chiese: “Hai sistemato le cose? Stai mettendo a punto la tua identità babbana?”.

Draco annuì, senza troppa convinzione, ed aggiunse solamente: “Il Petite Peste… il locale che aveva rilevato Helena due anni fa e che voleva gestire, una volta finita la carriera di modella... lo avevamo affidato ad un ragazzo fino a quando era incinta, Seth Green… riprenderò semplicemente la mia qualifica e ci andrò più volte di quanto facessi prima…”.

“Ottimo”.

“Probabilmente venderò anche quest’appartamento…” commentò laconicamente Draco, guardando le pareti “Ed andrò a vivere lì… non credo di sopportarne più la vista…”.

“Capisco…” soggiunse Harry a disagio, incrociando le braccia al petto “Sbloccherò parte dei tuoi beni e la convertirò mensilmente in sterline… così non dovresti avere problemi…”.

“Queste cose le so già Potter… cosa c’è di nuovo che non riesci a dire?” lo interruppe Draco bruscamente.

Harry trasalì, spalancando i grandi occhi verdi. Sorrise tra sé e sé, anche lui vagamente sorpreso del legame inconcepibile che ora legava i loro destini.

Ricordò gli anni di scuola e quanto lo aveva odiato, e si chiese, in fondo, che cosa fosse cambiato. Lui, Harry, era sempre lo stesso.

Preso da mille problemi e pensieri, forse più grandi di lui. Sempre innamorato della stessa donna. Sempre gli stessi amici, sebbene di uno oramai non avesse quasi più notizie. Lei, Hermione.

Ma, nello sguardo di Harry Potter, dopo quei pensieri si lesse la verità innegabile. Lui era sempre lo stesso.

Tecnicamente e praticamente, invece, Draco Malfoy, il suo acerrimo nemico non esisteva più. Davanti a lui, sedeva un manichino con le sue fattezze, ma vuoto dentro di ogni pensiero, ricordo o volizione.

Finalmente, Harry si decise con un sospiro seccato a raccontare la spiacevole novità accadutagli.

Astoria Greengrass aveva scoperto tutto di lui, di Serenity e del fatto che vivesse da babbano.

Non si sa in quale modo ci fosse riuscita, probabilmente collegando la vita babbana della sorella e lui… evidentemente nelle rare volte in cui si erano visti, aveva intuito che tra lui ed Helena c’era qualcosa. Ed aveva scoperto tutto. Voleva che lui onorasse la vecchia promessa tra le loro famiglie e che la sposasse… altrimenti avrebbe rivelato l’esistenza di Serenity ai suoi. Voleva che si legassero con una Promissio Gemina con Potter come garante, in modo da legare il patto alla figura di maggiore autorità del mondo magico.

Draco chiuse gli occhi per un attimo, se ne fregava ovviamente di tutto, anche di sposare Astoria. La sciocca non capiva che, facendolo ritornare nel mondo della Magia, probabilmente i Mangiamorte l’avrebbero cercato ed ucciso, assieme a lei. La sua cotta idiota per lui, l’avrebbe messa in pericolo al pari di Helena. Ma se non lo capiva, erano solo affari suoi.

A lui importava solo di difendere Serenity. Era la sola promessa ad Helena che era rimasta in piedi e che non avrebbe mai infranto.

Accettò, ma chiese tempo.

Sette anni.

Da vivere come Danny Ryan. Da babbano, sarebbe stato più facile trovare Pucey e Montague se erano convinti che era morto. Ed ucciderli.

Intanto, Serenity sarebbe cresciuta, sarebbe stata in grado di conoscere la verità e allora l’avrebbe affidata ad una famiglia babbana che meritasse di averla.

E, magari, avrebbe trovato anche un modo per sbarazzarsi di Astoria, una volta nascosta Serenity.

Altrimenti, l’avrebbe sposata, sarebbe stato seccante, ma sapeva che in quel caso avrebbero avuto vita breve assieme.

Astoria, inorgoglita dalla possibilità di diventare una Malfoy, accettò senza pensieri, anche con le clausole aberranti di essere una babbana per sette anni.

Anche con la clausola di diventare Summer Breeze Layton e di vivere al 76 di Lancaster Road. Anche con la clausola che Serenity doveva essere protetta anche da lei, in modo che non mostrasse mai i segni della magia.

Ad Astoria, interessava solo diventare la signora Malfoy e sposare Draco, il suo unico amore. Il suo era un sentimento effimero ed utilitaristico come pochi, ma si era aggrappata ad esso con tutte le sue forze, nello sfacelo della sua famiglia e della ricchezza e del prestigio, nemmeno riparati dal matrimonio di Helena o da quello previsto di Daphne.

In fondo, nessuno era i Malfoy.

Ed in fondo, il valore di una donna si vede dall’anello che porta.

Celebrarono la Promissio Gemina, alla presenza di Potter. Quella sarebbe stata l’ultima volta che Draco l’avrebbe visto prima che…

 

Improvvisamente Draco, in curioso controsenso con tutto quello che ha fatto fino ad ora e che mi ha fatto soffrire enormemente, cerca di strapparmi dallo specchio e da un nuovo ricordo che sta affiorando, assolutamente involontario. Perché? Non mi ha già fatto vedere tutto quello che di peggio potesse esistere per me?

Mi artiglio allo specchio con tutte le mie forze, curiosa, con una speranza assurda che quel ricordo celato goffamente, sia qualcosa che mi porti almeno un po’ di ristoro dal peso che avverto dentro.

L’immagine resta ferma, sono Harry e Draco nella sua stanza al Petite Peste. I loro abiti, il loro comportamento… la data sul calendario…

Una settimana dopo la luna nuova. Io quindi sono ancora in coma nella stanza accanto… il momento del loro incontro, quando Ginny ha pensato che Harry fosse andato a cancellare la memoria a Danny Ryan. Ma in cui invece dovevano aver parlato di qualcos’altro… erano stati sempre stati sibillini, non mi avevano mai detto nulla, nessuno dei due. Anzi, solo una cosa…

Al momento, per la prima volta nella vita, io e Potter una cosa in comune ce l’abbiamo… te…

Io… hanno parlato di me… per quello non vuole che veda questo ricordo…

Faccio forza sullo specchio con tutta la mia volontà, so che, se fossimo fuori da questo Pensatoio, lui sarebbe più forte di me. Ma qui, conta solo la volontà e la mia ora è evidentemente più forte della sua. Riesce ad escludermi le immagini, restano fisse in quel flash di loro due che parlano, ma le parole no… quelle no…

Quelle no… le intendo benissimo…

Ed è lì che mi si spezza il cuore, davvero, anche se credevo che si fosse spezzato prima, mentre lo guardavo con Helena.

Quello… non era ancora niente…

 

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Capitolo 24
*** A touch of madness in love and a touch of logic in insanity ***


Capitolo 24 – A touch of madness in love and a touch of logic in insanity

Capitolo 24 – A touch of madness in love and a touch of logic in insanity

 

 

Si arrende.

Alla fine, Draco Malfoy si arrende. Ed oltre alle parole, anche le immagini riprendono. Me le mostra volontariamente.

E, in questo, non c’è nessuna generosità. Evidentemente c’è solo il crudele e malsano desiderio che sia umiliata e derisa del tutto. Mi porto le mani alla bocca, non riuscendo a frenare le mie lacrime, mentre lui ed Harry parlano.

Tutto quello che avevo creduto… tutto quello che scioccamente avevo pensato… non è mai realmente esistito.

 

“Malfoy…”. Harry Potter, il viso profondamente cerchiato, aprì con un cigolio la porta della camera, richiudendosela immediatamente alle spalle in modo furtivo. Socchiuse gli occhi, abituandosi alla penombra della stanza, individuando nel cono di luce scarso di una lampada sulla scrivania, la figura di Draco Lucius Malfoy. Accanto a lui, nella culla, Serenity Hope Diggory giocava allegramente con un peluche, emettendo gridolini festosi. Riconobbe immediatamente il Ministro, ma non fece le solite scene di evidente dimostrazione di simpatia.

Forse Serenity era davvero intuitiva… o forse semplicemente era quell’aria ad essere così pesante da poter essere riconosciuta persino da una bambina.

“Potter…” lo salutò freddamente Draco, sollevando appena lo sguardo da una pila di fogli di carta sulla scrivania.

“Ufficialmente, sarei qui per cancellarti la memoria…” commentò Potter, stancamente, abbandonandosi su una sedia e passandosi una mano infiacchita sulla fronte.

Ed ufficiosamente?” chiese Draco, continuando a dargli le spalle, apparentemente preso in modo assoluto dalle sue faccende. Le sue spalle si erano, però, contratte in un moto spontaneo ed involontario.  

Harry prese a pulirsi gli occhiali con un lembo della camicia, in modo incerto, prima di dire: “Ufficiosamente sarei qui per portarti informazioni… avrei mandato il solito gufo, ma credo che sarebbe stato inutile, trovandomi già qui. Inoltre con tutta questa gente nei paraggi, credo che un gufo che si mette a svolazzare vicino alla tua finestra, avrebbe creato sospetti… e sarebbe stato anche pericoloso…”, la sua voce si tinse di irata preoccupazione, mentre soggiunse: “… anche se forse più per loro, che per te…”.

Draco sospirò rumorosamente, voltandosi infine, e dicendo con voce sgraditamente ovvia: “I Confundus e gli Incantesimi di Memoria sono necessari, Potter, per proteggere me e Serenity… lo sai meglio di me… potrei persino fidarmi di quella piattola della tua donna, ma Weasley, Thomas e la Brown sono davvero troppo… non terrebbero un’informazione del genere per sé, nemmeno sotto Crucio. Ed immagino che sarebbe un bel gossip raccontare a tutti che Draco Malfoy è vivo e che, per giunta, vive da babbano…”.

Ed Hermione?” mormorò Potter con voce atona, guardandolo in modo duro ed ignorando le sue parole, era evidente che Potter nascondeva qualcosa che andava al di là del senso precipuo della loro conversazione.

Il Ministro chiuse le mani a pugno, e tornò a guardare Malfoy, giada gelata negli occhi: “Era necessario?”.

“Cosa?”.

La Greengrass mi ha detto che lei non sa chi è… che è sotto incantesimo da settimane… pensa anche lei che si chiami Summer… ha riso come una povera imbecille, quando me l’ha detto, le è passata la voglia solo quando le ho detto di non permettersi più di incantare Ginevra, senza che gliel’abbia detto io, o la sua Promissio Gemina diventerà improvvisamente carta straccia…” riprese Harry, la voce scura, alzandosi in piedi ed avvicinandosi pericolosamente a Draco.

Draco roteò gli occhi, dandogli nuovamente le spalle: “Non ho potuto evitarlo… quando l’ha fatto, non ero presente… e pensavo che la Granger si sarebbe fermata solo poche ore. Dopo, non ho ritenuto vitale che lo sapesse… anzi era meglio che non lo sapesse. Era già abbastanza insospettita che ci fossi io qui, figuriamoci se avesse visto Astoria… quest’ultima in fondo risulta viva e vegeta, a casa sua, e questo poteva mettere la Granger sul chi vive, qualora l’avesse scoperto… a proposito, come sta quella brava donna? Avrà la nausea a furia di ingerire Pozione Polisucco…”.

“Sta bene, si sta per sposare… ma non cambiare discorso, Malfoy…” lo ammonì rudemente Potter, fronteggiandolo ancora “Perché hai lasciato che Hermione rimanesse qui?”.

“Se sono settimane che me lo chiedi, e sono settimane che non ti rispondo, ci sarà un motivo… e non mi sembra nemmeno che sia cambiato qualcosa oggi…”.

“Invece sì che è cambiato qualcosa!” urlò Harry, dimenticando ogni premura ed ogni buonsenso, afferrando una spalla di Malfoy in modo violente e costringendolo a voltarsi. Respirava a fatica ed aveva gli occhi lucidi di ira e di dolore: “Hermione potrebbe morire da un momento all’altro, ecco che è cambiato! Ne ho le palle piene dei tuoi giochetti, mi hai capito, Malfoy?!”.

Draco si divincolò dalla sua stretta bruscamente, alzandosi e dandogli le spalle, prima di sibilare gelido : “La colpa in questo caso, è stata solamente sua, si è dimenticata lei di prendere la pozione, ed aggiungerei che mi ha messo nel maggior rischio che potessi aver mai avuto negli ultimi mesi… quindi non giocare a – Diamo la colpa a Malfoy! – che non attacca…”.

“Non capisco come sia potuto succedere…” commentò affranto Harry, abbandonandosi su una sedia e nascondendo il viso tra le mani “Lei di solito non è così…”.

“Quando si vive da babbani, per anni, si hanno queste dimenticanze… dimentichi letteralmente chi sei… e credo che sia successo anche alla Granger…” commentò con tono piatto Draco, camminando per la stanza e chinandosi su Serenity per vedere come stava. Harry sembrò rassicurato maggiormente da questo, dalla invincibilità della sua migliore amica, che dalla prospettiva della lontananza che si stava scavando tra loro.

“Pucey e Montague sono stati avvistati dalle parti di Hogsmeade…” riprese Harry, quando la sua voce non risultò alle sue orecchie più incrinata come era prima, Draco prestò la sua massima attenzione a quelle parole, stringendo le nocche forte fino a farle diventare bianche. Annuì brevemente con il capo, senza dire altro, senza sottolineare altro.

“E Danny? Non mi dire che brama ardentemente licenziarmi, perché mi sono ammalata alla sua preziosa festa, Seth?!”.

“Non lo so… è fuori città per lavoro… manca da qualche giorno…”.

Quella volta… era andato a cercare gli assassini di Helena…

“Inutile che ti dica di stare attento o simili…” borbottò Harry, guardandolo da sopra le lenti rotonde in un modo che a Draco ricordò spaventosamente il compianto Silente “Credo che, nonostante tutto, non mi importi granché che tu faccia una brutta fine… ma credo che lo sai anche tu di non poter lasciare sola… tua sorella…”. Accentuò quella parola con forza, come una bugia che bruciasse in gola dalla voglia di diventare verità. 

Draco annuì con un sorriso sarcastico: “E’ lo stesso motivo per cui io stesso preservo ancora una traccia di interesse nel non fare una brutta fine, Potter…”.

“Lo so…” asserì Harry convinto e rassegnato con un breve sospiro “Ed è anche inutile che ti ribadisca che lei deve restare fuori da questa storia…”.

“Ci mancherebbe che mi porto Serenity dietro… hai perso la testa?!”.

“Non sto parlando della bambina…” borbottò lapidario Harry, non muovendo un passo, però facendo quasi sentire una decisione e forza che fendeva l’aria tra loro due “Sto parlando di Hermione…”.

Draco sospirò con espressione annoiata, prima di dire: “Ovvio, Potter… sono il primo a non voler subire le paturnie della Granger…”.

“Non sto parlando solo della tua noia, Malfoy” ribadì Harry, guardandolo con il primo autentico odio che avesse verso di lui da quando avevano lasciato quella Torre, la sera della morte di Silente. Da allora, per Harry Potter, Draco Lucius Malfoy era sempre stato una vittima di un sistema che lo aveva autenticamente stritolato in un meccanismo più grande di lui.

Uno che diventa cattivo, solo per paura o per ingordigia dei privilegi che ha raggiunto negli anni da una posizione sopraelevata.

Eppure, Harry era sempre stato convinto che la sua anima non fosse corrotta del tutto. E la storia con Helena e il nuovo profondo affetto per Serenity, ne erano la prova tangibile.

Ma, ora, ad Harry Potter premeva chiarire un’altra cosa. Il suo ruolo in un’altra questione. Molto più spinosa ed annosa per il giovane Ministro.

Per un attimo, un bagliore dorato oscurò ed ottenebrò il verde degli occhi di Potter, lampo vivido e liquido come bronzo colato, al ricordo delle parole che gli sconvolgevano la mente da quella sera della festa, una settimana prima.

Lei.

La regina dei Grifondoro.

Semplicemente la sua migliore amica, Hermione.

Lei che difendeva la sua intenzione di trovare gli assassini dei genitori del ragazzo biondo davanti a lui, con una caparbietà che aveva poco a che vedere con il mero desiderio di giustizia. C’era qualcosa… in lei…

Quello stesso ragazzo, destinatario di tale impeto, in pochissimi secondi, capì che cosa passasse per la testa al nemico di sempre, all’amico di oggi.

Chiuse gli occhi Draco, riaprendoli subito dopo.

Colori più vividi, improvvisamente. I colori di questo ricordo… sono permeati di rabbia… infinita, immensa. Rabbia.

La sua voce suonò acida e scontata, in netto contrasto a com’era stata fino a quel momento.

“So che stai per dire, Potter… e per favore, taci, prima di dire sciocchezze… ho già pensato a tutto… se la Granger si sveglierà, se si salverà… potrai portartela dove vuoi… basta che me la levi dagli occhi…”.

Harry parve autenticamente meravigliato, mormorò delle parole scollegate prima di rendersene effettivamente conto, come se nemmeno lui sapesse collegare quello che aveva sempre pensato e quello che sentiva adesso. Improvvisamente anche le sue intenzioni cambiarono… voleva difendere Hermione da un affetto distruttivo per Malfoy, ed ora? Che cosa invece c’era, se lui parlava così?

Bisbigliò scioccamente: “Pensavo che le cose… andassero meglio tra voi… lei, alla festa… ci tiene davvero a te… quello sguardo, lo conosco…”.

Draco lo interruppe bruscamente, dandogli le spalle e replicando con voce scocciata: “Appunto, Potter… sta diventando seccante questa storia… credo anche che si stia innamorando di me…”.

“Non è possibile…” ripeté Harry, negando con il capo, anche se forse egli stesso aveva pensato la stessa cosa, tacendola persino ai suoi stessi ragionamenti, per quanto gli sembrasse assurda.

“Sia o non sia possibile, non sono affari miei ma tuoi… è amica tua, non mia…” ripeté Draco, schioccando la lingua con fare noncurante ed affondando le mani nelle tasche, aveva la stessa espressione indifferente e menefreghista di tanti anni prima  “…e non credo che le faccia bene il masochismo… ammesso che Helena non fosse mai esistita, io non mi potrei innamorare di una come lei…”.

Harry sospirò brevemente: “Lo so, o meglio, immagino che per te non sia mai cambiato nulla… ma per lei evidentemente sì… non voglio che soffra… ma perché l’hai lasciata qui, allora? Non potevi mandarla prima allora?!”. La voce di Harry, al pensiero della sofferenza della sua migliore amica, si alzò di tono e di rabbia nell’ultima domanda.

Draco parve quasi divertito dalla sua reazione, sadicamente divertito: “All’inizio, ho pensato che mi facesse comodo un’Auror per casa… se lei voleva davvero lavorare qui, che diamine me ne fregava di farle cambiare idea? Avrebbe protetto anche lei Serenity… e alla prima occasione, probabilmente sarebbe morta nella sua nobile missione, come si addice ad un’Eroina del mondo magico come lei…”.

La sua voce era amara ed acida, ignorò la rabbia palese nelle mani contratte di Harry, e proseguì: “Ed è sempre stato per Serenity che l’ho lasciata qui… lei si è affezionata alla Granger… e Dio solo sa come abbia fatto…ma non avrei mai fatto nulla per farla soffrire… quindi ho pensato che in fondo poteva anche stare qui… anche perché nemmeno sapeva dei miei, quindi era stata almeno assolta per la sua colpa peggiore e non era nemmeno più un’Auror quando morì Helena… ci poteva anche stare … stavolta non sarei nemmeno stato così egoista da togliere una protezione a Serenity, solo perché dava fastidio a me… l’ho fatto con Amos ed Helena e vedi che cosa è successo… avrei anche sopportato la Granger se significava poter proteggere meglio Serenity… ma lei sta iniziando a fraintendere Potter, dimostrarle interesse anche solo per Serenity sta facendo che lei pensi chissà che cosa… inutile dirti che mi fa schifo anche solo a pensarci…”.

“Non ti ha fatto così schifo baciarla però, alla festa, no?” ribatté irato Harry, la rabbia per come era stata trattata Hermione era visibile nei suoi occhi lucidi di livore “Seth mi ha detto che vi ha visto baciarvi e…”.

“… ed è stata la cosa peggiore che abbia mai fatto…” replicò Draco disgustato, una smorfia sui tratti induriti del viso “Ma avevo bisogno di distrarre Seth… e poi lei… la Granger…”, la sua voce divenne un filo leggero d’aria mentre sputava fuori una verità che gli deformò il viso di dolorosa nausea emotiva per quello che sentiva e vedeva, ma che sapeva essere solo un’illusione: “… lei, talvolta, mi ricorda Helena… non so come sia possibile… ma… lei, la Granger… ride come Helena…”.

L’espressione mutò in un secondo, ritornando fredda e cinica, mentre aggiunse le sue ultime parole, a cui Harry avrebbe solo ribattuto che avrebbe trovato un lavoro per Hermione, che non gli facesse incontrare più.

Le sue ultime parole. Epigrafiche come una condanna.

“Ma la Granger… non sarà mai Helenae io non proverò per lei nulla di più diverso da quello che provavo per Helena…”.

 

Raffiche di vento nei miei sensi.

Ricordi di parole, dette in questi mesi.

Fosse anche solo per Serenity, per come ti vuole bene… io lotterei per diventare il motivo che cerchi…

Novelli pensieri che non ho bisogno di sentire, per indovinare e conoscere a memoria.

È solo per Serenity che ti trattengo qui, Granger. Solo per lei… fosse anche qualche altro giorno, ma sarà sufficiente per rendere la mia bambina felice, per un altro po’. Lotterei per non darle motivo di soffrire ancora. Anche se provenisse da una come te.

Ancora ricordi.

Farai bene a non continuare nemmeno la tua domanda, Granger…

E pensieri solo suoi.

Se saprà la verità, probabilmente nemmeno la proposta di Potter la farà schiodare da qui… non me la leverò più dalle scatole. In fondo, basta che pensi posso tenere a lei… e verrà solo per Serenity.

Ad ogni ricordo, velocissimo, di parole che passa nello specchio, credo di esserne colpita come se mi stessero sparando dritto al cuore.

La Granger non ha niente a che fare con questo… lasciala fuori…

Pensiero nascosto.

Ci manca solamente che Astoria la faccia fuori… Potter non mi aiuterebbe più… e mi toglierebbe Serenity… perché diamine l’ho lasciata qui?

Il ricordo più doloroso tra tutti… e quello che, fino ad ora, era il più bello. Sporcato anch’esso.

…se fossi mia, potrei essere geloso, ma non così…

In realtà… lui… ha solamente pensato…

… se Helena fosse stata mia… mia davvero…  nemmeno Amos l’avrebbe mai avuta…

Cado per terra, per quello era… un impulso e basta...

Ed infine, mentre usciamo dal Pensatoio, l’ultimo pensiero.

A te magari non interessa… ma a me sì… in un modo contorto, ma è così, è necessario che tu sappia tutto di questa storia…

Sono le sue parole dal vero, mentre ci ritroviamo di nuovo nella sua camera, a palesarmi i suoi pensieri.

Di fronte a me, gli occhi grigi lucidi di ira, vero come forse non è mai stato. Vero e bello sempre, ma ora vero… perché il Draco che ho amato in questi mesi… non è mai esistito… mai… mai… mai…

Coloratemi la vita di bugie, menzogne, illusioni e falsità. Ridatemi tutto quello che, a mio modo, ho sempre creduto essere il vero.

Al di là del loro caleidoscopio, riflessa nei loro riflessi d’inganno, ero perlomeno in vita… ora, io… che sono sempre stata la fautrice della verità assoluta… annego come se essa fosse diventata il mio veleno… ed anelassi vivere per sempre di frottole.

Eppure, non è possibile più. È’ un suicidio solo continuare a pensarlo.

Non è possibile.

“Era necessario che tu sapessi, Granger, di come amassi Helena, era solo il modo per cui tu forse capissi…” borbotta stoico, freddo e lontano come un Dio pagano, guardandomi dall’alto in basso come se fossi solamente un insetto da schiacciare, incredibilmente molesto con la sua sola esistenza. Abbassa gli occhi, per poi risollevarli nuovamente e fissarli crudeli nei miei, biglie di perla dura come se appunto nemmeno esistessi, solidi, stentorei, potenti, nel loro ultimo messaggio risolutore.

L’angelo che possiede il Verbo e lo comunica agli umani, scendendo dal cielo. Il diavolo che ghigna del Giudizio indelebile e lo sputa fuori, spalancando l’inferno.

Entrambi. In lui.

“Amerò per sempre lei… lei e solamente lei… a parte i motivi che conosci, mi ha ingannato la tua superficiale somiglianza con lei… l’ho capito mentre ti guardavo suonare, le assomigli persino in questo… ma non basta, non basterà mai…”.

Non ci credo. Non sta succedendo davvero.

“Helena è sempre qui, nel mio cuore, a farmi sentire il divario inesauribile che c’è tra te e lei… e, se il mio bisogno di lei, potrebbe farmi accontentare anche della sua immagine malriuscita che vedo in te, non può invece farlo quello che ancora provo per lei…”.

Non ci credo. Non sta succedendo davvero.

“Nonostante tutto, non posso autenticamente ancora desiderare, come semmai mi è accaduto in passato, che tu soffra per me… non sai niente dei miei e nemmeno di Helena, non è stata colpa tua… e non sei mai stata nella mia lista. Forse davvero nemmeno ti odio più… ma devi capire che tutto quello che è accaduto fino ad ora… è stato solo per questi motivi…”.

Non ci credo. Non sta succedendo davvero.

Quindi, adesso, Granger… vattene via… davvero… Serenity se ne farà una ragione… e tu magari te ne andrai con Hayden o come diamine si chiama… e mi scorderai facilmente… ogni solo secondo che resti qui, ti fa soffrire inutilmente, e senza senso. E mi ricorda lei, senza poterla avere mai più. … vattene via…”.

Non ci credo. Non sta succedendo davvero.

È stata tutta una menzogna…

Nonostante le sue ultime parole, è lui a sparire e ad andare via, allontanandosi da me, correndo fuori, impossibile forse anche sopportare la mia stessa presenza dove lui vive e respira. Il suo ultimo sguardo… scintille sulla mia pelle. Ne rabbrividisco, perché non riscaldano più, gelano il sangue nelle vene e corrono dalla nuca alla schiena come ghiaccio che fonde. Come un pesce rosso, apro e richiudo le labbra, potevo parlare, negare fino alla morte… in passato, lo avrei fatto… ma ora…

Inorridita, mi accorgo che non avrei saputo che parole usare, che espressione mascherare, che repulsione fingere.

Inorridita, so di aver messo la mia sola anima come scudo e spada per difendermi. Niente orgoglio, niente dignità, nulla di nulla. Solo essa.

E lui… lui l’ha distrutta velocemente, senza pensarci su. Ora… più nulla…

Annullati tutti i pensieri e rattrappita la mente, le ginocchia tremano sotto il mio peso, non cedono per chissà che moto assolutamente inutile di conservazione della mia persona. Mi fischiano le orecchie, sento solo un tonfo lontano e poi più nulla… forse passano decenni in un secondo. O magari ne passa davvero solo uno, di secondo. Potrebbe anche essere passato tutto il tempo rimasto della mia vita, e non lo saprei. Non lo sentirei.

Il rumore della pioggia continua e diventa sempre più fastidioso, come qualcosa che mi richiama al momento che sto vivendo, come quella realtà che oggettivamente esiste ancora… ma dovrei pensare, per arrivare a questa conclusione… ma non credo in fondo di sentirlo davvero.

Non credo, in fondo, di sentire davvero qualcosa.

Qualsiasi cosa.

Buco.

Solo un buco dentro, dove prima c’ero ancora io. Respirando con il nulla dentro, sapendo di non essere viva ma condannata ad esserlo fino al giorno prestabilito.

Come te.

Dolore. Enorme. Immenso. Da perderci il fiato. Le ginocchia cedono alla fine.

Non come te, mai come te. Io non come te. Nulla ci accomuna meno di ora, persino il tempo e lo spazio stessi si ripiegano inorriditi su sé stessi, separandoci. Come mura altissime fatte di fuoco che si ergono, inespugnabili, rendendomi lontana miglia da te.

E la mente riprende a funzionare, non ha mai smesso. Ogni cosa disgustosamente torna al posto che ha sempre avuto, togliendomi dignità ed orgoglio e imbrattando il mio sentimento rivelato, come un siparietto comico di cui ridere un minuto e provarne pena il minuto successivo.

Non riuscendo a sentire nulla di diverso dalla mera stanchezza, mi accascio per terra, chiudendo gli occhi e raggomitolandomi sul pavimento freddo, in posizione fetale.

Il cuore… se la mente funziona ancora… il cuore non funzionerà mai più.

Il cuore, il mio cuore oramai, è perso nelle parole che hai detto.

E, se passo dopo passo, chiudendomi in me stessa, quella sensazione ovattata passerà… e se lentamente capirò che posso muovere ancora le dita della mano, posso faticosamente serrare gli occhi, posso allargare le narici in un respiro un po’ più intenso, posso persino alzarmi in piedi, posso mettere un piede davanti all’altro…

Quella cosa dentro che, un giorno aveva un nome e che ora non ne ha più…

Cuore.

Esso non funzionerà mai più.

 

 

Sono rimasta sensibile nella misura in cui potessi sentire i passi di Draco riportarlo nella sua camera.

Perché sì, ora, riconosco anche la sua particolare camminata. Lenta, misurata, dai passi ampi ed aperti.

Ed, appena avessi sentito i suoi passi su per le scale, sapevo che quel tonfo sordo che avverto dentro, mi avrebbe caricato al punto da dare impulso alle mie gambe e farmi correre via. Dall’altra parte del mondo.

Ma per il resto, nessun gesto era necessario. La guancia premuta contro il pavimento, la bocca leggermente dischiusa e gli occhi ostinatamente fissi nel vuoto.

Silenzio dentro e fuori, affollato di parole remote e di ricordi che ora hanno dimensione diversa, come gemme dischiuse su alberi spogli per cui non arriverà nessuna primavera, ma solo un ostinato inverno. Aspettando solo di morire gelando.

Sento così male dentro, che, solo annullandomi, riesco a non impazzire e a non mettermi ad urlare.

Un altro passo. Non è lui. Quindi non mi interessa.

Seth entra silenziosamente nella stanza, aprendo la porta, lo intravedo nel riflesso della finestra. Non dice nulla, si china semplicemente e mi prende dolcemente per i fianchi, mettendomi dapprima seduta come una bambola, e poi prendendomi in braccio.

Dovrei dire qualcosa… ma è come se sapesse… quindi evito qualsiasi parola, chiudo gli occhi, accoccolandomi contro il suo petto che sa di sapone e di pulito.

Seth esce fuori dalla camera di Draco, dallo scenario dove si è consumato l’ultimo atto di questo sciocco amore, portandomi sempre in braccio, e mi porta in camera sua. Delicatamente, come se davvero fossi una bambina, mi fa stendere sul suo letto di fianco, mi mette una coperta sulle spalle per poi sdraiarsi accanto a me.

“Ho sentito che cosa ha detto…” mi sussurra nel buio della stanza “Non volevo… ero solo salito a vedere dov’eri…”.

Un piccolo crack nelle orecchie, il labbro che trema e vorrei dire: “Non importa, Seth…” e vorrei preoccuparmi del fatto che forse ha sentito delle cose che c’entrano con la magia, e vorrei inventare delle scuse, e vorrei rimproverarlo perché non si fa mai i fatti suoi, e vorrei riderne quando si offenderà ancora.

Vorrei davvero fare tutto questo… ma invece è solo un crack nelle orecchie. E io che ritorno tutt’un tratto, da dove mi ero confinata in un angolino sperduto della mia mente.

Nella foga di abbracciarlo e di scoppiare in singhiozzi contro di lui, lo sposto di poco nel letto troppo piccolo per tenerci entrambi. Lui mi abbraccia solamente, non dicendo nemmeno una parola, e nessun orgoglio e nessuna forza prosciuga le mie lacrime… nulla di nulla, come se fossi davvero vuota dentro, di tutto ciò che mi ha sgraziatamente tenuto in piedi in questi mesi. È rimasto solo nelle maledizioni del tempo trascorso, la benedizione di avere Seth accanto.

E vorrei poter dire che ogni lacrima, ogni singhiozzo, ogni parola mozzicata, ogni urlo represso solo per paura di non riuscire a smettere più, mi abbia liberato un pochino, mi abbia sfogato, lo abbia mandato via da me, lo abbia lavato via, come una macchia sporca dentro… ma è inutile, ogni lacrima, ogni singhiozzo, ogni parola mozzicata, ogni urlo represso solo per paura di non riuscire a smettere più, dà sempre maggiore forza a lui, è un paradosso che, credendo di farlo uscire fuori, lui entra sempre di più come una freccia acuminata, come un ago sotto le dita, come una lama nel collo. Solamente lui a percuotermi il cuore.

È come se credendo di respirare, io mi trovassi ad inalare anidride carbonica che mi uccide e basta, eppure sapessi di non poter smettere di farla entrare nei miei polmoni…

Morirne sempre e comunque.

Disperazione.

Mi aggrappo ferocemente alla maglia di Seth, sperando che mi aiuti lui e sapendo che non potrà farlo nemmeno lui, l’amico più vero che la vita mi abbia donato in questo delirio, e che ora piange assieme a me, piange solo perché mi sente e vede piangere, perché lui, le sue lacrime per Draco, chissà quando le ha piante, da solo, senza che nemmeno io lo consolassi. Io che ero persa nel mio vaneggiamento febbricitante di amare Draco e nel mio sogno farneticante di farmi perlomeno voler bene da lui.

Prendo a pugni il petto di Seth come se fosse lui, urlando quanto sono stata stupida ed altre parole che forse nemmeno la mia stessa bocca sa che cosa sono.

Lui semplicemente me lo lascia fare, stringendomi solo più forte tra le sue braccia e piangendo ancora assieme a me.

E sono anatemi e maledizioni di donna innamorata, inutili perché nessun Dio misericordioso le ascolterà mai, e sono parole che feriscono l’aria che sa di lui, come se aleggiasse su di me, per sempre, attorno a me. Ma sempre aria… mai più lui, davvero… mai più lui dal vero.

Perché il vero Draco non è mai stato il mio Draco.

E perché il mio Draco semplicemente non è mai esistito.

E ora è un lutto che io piango.

Lui che muore in una casa sprangata al centro esatto dell’inferno. Lui, il traditore di ogni parte del mondo.  Assieme ad Hermione Jane Granger.

Alla fine, lì, davvero mi ci hai portato, come mi avevi promesso senza che io lo sapessi.

E ora, ti resta solo una cosa da fare con me.

Guardarmi bruciare.  

 

 

Quando vai a letto piangendo, gli occhi pesanti hanno il pregevole e rinfrancante dono di farti addormentare quasi subito. Piegati dalla stanchezza e dal dolore, essi si chiudono senza che nemmeno te ne accorgi… ma è solo una falsa tregua.

Nello spazio che intercorre tra la veglia e il riposo, si confondono tutte le cose, mescolandosi come tempere annacquate, le parole che ti fanno soffrire assieme a quelle che ti hanno fatto gioire, diventando qualcosa di nuovo e distante dal reale.

Quando ti risvegli, saresti pronta a spergiurare che le cose sono andate in tutt’altro modo, per poi renderti conto, quando si sveglia anche il ricordo, che sono andate esattamente come temevi e pensavi…. ed è di nuovo una stoccata precisa e fatale, persino peggiore della precedente, perché per un attimo avevi dimenticato che significasse soffrirne, e ti eri illuso che tutto invece andasse bene. Il brutto sogno è la realtà, e non c’è cosa che possa fare più male.

Mentre scivolo mio malgrado nel sonno, dopo una giornata il cui inizio mi sembra trascorso da vent’anni, gli occhi verdi di Seth, che scintillano nel buio, mi sembrano diventare quelli di Harry… e lentamente, chiudendo gli occhi, i sensi vengono rapiti da un profumo fin troppo conosciuto.

L’odore dei nontiscordardime.

Che esista o non esista davvero, è solo un ricordo che può portare. Il peggiore.

Semplice… fingo di essere occupato…

Non smettere di baciarmi… mai… Draco… ti prego… non farlo…

Riapro gli occhi bruscamente, o almeno credo di averlo fatto, cercando di svegliarmi e riprendendo a piangere ancora, l’ossessione di quel ricordo che vorrei soltanto che sparisse. Ma capisco che, invece, mi sono addormentata… gli occhi verdi che ho davanti, non sono più quelli di Seth.

Sono quelli di Harry, ma non è nemmeno corretto questo.

Sono di Harry… ma in realtà sono i suoi.

Lily Evans Potter.

La guardo senza capire, ed ovviamente mi sembra chiaro che io stia sognando. Lei mi sorride calorosamente, con quel suo sorriso familiare che in realtà non ho mai visto, ma che conosco a memoria, da ogni fotografia che Harry conserva gelosamente. I suoi capelli splendono come un fuoco d’autunno e gli occhi verde chiaro hanno molto di quelli di Harry, lo stesso calore, lo stesso fondo un po’ triste, la stessa luce che sanno donare spontaneamente. È vestita di bianco e sorride in modo così sincero ed autentico che persino quel buco che ho dentro, sembra quasi un po’ meno sterminato adesso. Sorrido a mia volta, almeno se è un sogno, mi farà stare per qualche istante un pochino meglio… un senso di pace e di tranquillità assoluta mi assale guardandola, e mi porta ancora alle lacrime, anche se nemmeno so perché sto piangendo.

Ora, almeno.

Lei mi si avvicina, rapida e leggiadra come una colomba, e mi abbraccia forte, come una mamma: “Hermione, piccola… non devi piangere…”.

Annuisco, profumo di nontiscordardime ancora attorno a me, e mi stacco di lei, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano: “Signora Potter…”.

“Lily” sorride lei, guardandomi ancora.

“Lily…” concedo con un lieve sorriso, lei te lo strappa automaticamente anche se non vorresti “Che cosa ci fa qui?”.

“Sono venuta per te, Hermione…” sorride ancora, iniziando a camminare ed invitandomi a fare altrettanto, la seguo velocemente “So che stai soffrendo molto… e so anche che non è giusto che tu stia così male… non te lo meriti…”.

Trasalgo, guardando la cascata di capelli rossi di lei che mi precede, ed abbasso lo sguardo, quel buco dentro che ritorna improvvisamente in tutta la sua forza, anche se siamo solo in un sogno.

“Hai aiutato tante volte mio figlio…” sorride lei, e piange assieme, fermandosi e guardandomi “Harry… lui… come sta?”.

“Sta bene…” sorrido a mia volta “Credo che sentirà per sempre la sua mancanza e le sarà per sempre grato per averlo salvato e per averlo reso l’uomo che è… anche se siete stati assieme davvero molto poco…”.

“Esattamente tre mesi… solo tre mesi…” piange ancora lei, ma poi scrolla il capo e mi sorride ancora: “Ma in realtà sono sempre rimasta con lui…”.

Mi chiudo nelle spalle: “Lo immaginavo…”.

Lily Potter mi sorride ancora e mi chiedo se davvero questo sia ancora un sogno, è così maledettamente reale… non ho mai creduto che i defunti potessero parlarci in questo modo, persino quando ho iniziato a sognare, ero scettica. Ma adesso… lei non può essere altro che Lily Potter… perché sta parlando proprio con me?

Lei è come se avesse intuito i miei pensieri, mi guarda ancora, inclinando la testa di lato: “Ascoltami, Hermione… io posso aiutarti… so che stai soffrendo molto… per Draco Malfoy… lo ami, vero?”.

Sobbalzo e sfuggo dai suoi occhi, come se quest’amore fosse un’onta vergognosa sul mio viso. Annuisco semplicemente con il capo e lei stavolta non mi consola con alcuna parola gentile, come se davvero avessi compiuto un peccato imperdonabile.

“Andrà sempre peggio…” mi minaccia velatamente, sollevo il capo e il sorriso è scomparso, è seria, imperturbabile, occhi freddi come quelli di una statua “Hermione, andrà sempre peggio… questo non è che il primo passo di un destino di autodistruzione che oramai ti sei scelta… amare una persona del genere non potrà che portarti alla follia…”. Mi verrebbe quasi da ridere amaramente, dicendo che io la follia credo oramai di essere già arrivata, ma invece resto in silenzio, immobile, ascoltandola.

“Bisogna che tu intervenga prima che sia troppo tardi…” mi sussurra, avvicinandomi “Se ti avessi conosciuta, tu saresti stata come una figlia per me… ho vegliato tanto su di te e Ron… ed ora non voglio che ti succeda qualcosa…”.

“Non so che cosa fare…” bisbiglio al limite della disperazione, abbandonandomi al suolo.

Lei sorride ancora, ma in modo diverso, enormemente diverso. Non sembra nemmeno più lei, mentre dice: “Io invece sì…”.

Per un attimo, mi ha ricordato qualcun altro… ma non sono riuscita a focalizzare chi, perché è immediatamente scomparsa.

Tutto attorno a me cambia forma, diventando qualcosa che conosco perfettamente…

Hogwarts. La Sala Grande.

Mi guardo attorno meravigliata, ma ogni particolare è esattamente come lo ricordo. Il tavolo rialzato dei professori, tutti impegnati a mangiare e a parlare sommessamente, con il trono dorato del Preside. Su di esso, siede ancora Silente, è sorridente ma anche sofferente… la mano pende bruciata, sul pomo della sedia. 

Il sesto anno. Siamo al sesto anno.

Per il resto, non mi sembra una giornata particolare, di cui debba ricordare effettivamente qualcosa. Mi guardo ancora curiosamente attorno, ma tutto mi sembra normale.

Le lunghe tavolate delle Case, ingombre di ragazzi ridanciani. Le finestre dallo stile gotico, da cui penetra la luce tenue di una mattinata pigra d’autunno. Il soffitto incantato, ritagli di cielo tra macchie di sole. Il solito cicaleccio tipico delle mattinate, prima delle lezioni, così familiare ed ormai lontano nella memoria, ma che mi viene ancora con nostalgia da chiamare casa.

Mi muovo lentamente, i ragazzi correndo mi passano attraverso, senza vedermi, sono evidentemente inconsistente come un fantasma. Cerco con lo sguardo impaziente l’ultimo tavolo partendo dalla porta, quello dei Grifondoro, e con un tuffo al cuore, mi vedo seduta tranquillamente lì, impegnata a leggere un libro, Harry che scherza con Ginny e Ron che si sbaciucchia con Lavanda. Si erano già messi assieme allora… infatti, dopo qualche secondo, mi vedo chiudere furiosamente il libro ed alzarmi, uscendo fuori dalla sala. Mi seguo con lo sguardo attraversare velocemente la sala piena di gente, stringendomi al petto il mio libro come un caro amico che mi ascolterà sempre, ma che non risponderà mai. Lo sguardo basso, gli occhi lucidi, e come sempre, il labbro che trema… eppure so già, anche se non ricordo questo particolare momento, che cosa mi sto ripetendo nella testa. Non devo piangere. Non devo piangere.

Avessi invece fatto il contrario, perlomeno per una volta, chissà se qualcosa davvero sarebbe cambiata nella mia vita.

Ora, per esempio, non sarei in questa situazione, a scrutare con ossessione un ricordo, mandatomi dall’aldilà, per cercare di salvarmi dalla rovina di un amore folle.

C’è qualcosa di vagamente ironico in tutto questo… come anche nel fatto che la mia me stessa del passato, uscendo dalla sala, ha appena urtato qualcuno.

Non qualcuno.

Lui.

Corro verso di loro, il cuore in gola, sperando e temendo che sia successo qualcosa allora.

Immobile e fredda come un pezzo di ghiaccio, mi vedo sollevare timidamente gli occhi biascicando delle scuse, che si fermano così come erano nate, quando vedo chi ho di fronte. Scintillano i miei occhi e si chiudono le mie labbra.

Come fa l’amore di un giorno a cancellare l’odio di anni?

Lui… lo deve aver sempre saputo…

Un Draco sedicenne, accompagnato dai soliti Tiger e Goyle, guarda la mia me stessa passata con freddezza e repulsione, lo stesso sguardo che aveva poco fa, insomma.

Vuoto smisurato dentro, anche nel sogno.

Erano i giorni in cui tentava di uccidere Silente… e sono certa che, se allora non me ne sono resa conto, ora invece è evidente che era a pezzi.

Ha gli occhi profondamente cerchiati, le occhiaie e un colorito ancora più pallido del solito; sembra stanco, esausto, lontano migliaia di pensieri da qui. E’ evidentemente diverso da come è adesso, più piccolo, più basso, meno sicuro nel portamento e con un fisico più gracile. Eppure… è già tutto lui… era già lui… la persona che avrei amato perdutamente qualche anno dopo…

Eppure… allora… 

Mi avvicino a loro, tremando tra me e me, e noi ci fronteggiamo come abbiamo già fatto decine di volte e come faremo altre centinaia di volte, crepita l’aria come per un temporale. Poi, come ho sempre fatto, mi vedo scrollare le spalle, sospirare e proseguire per la mia strada. E Draco, dopo qualche secondo, fare esattamente lo stesso.

Sospiro a mia volta, il sesto anno fu così duro e difficile, per entrambi, che nemmeno ci parlavamo più, per quanto potevamo parlare prima. Nemmeno ci insultavamo, ecco.

Eravamo troppo stanchi, come due cinquantenni nel corpo di ragazzini.

Draco prosegue, chiamando Zabini e Nott, per andare a lezione di Pozioni, tutti e due bestemmiano per averla in comune con i Grifondoro.

Dopo poco, infatti, anche Harry, Ron e Lavanda si alzano trafelati dal loro posto, salutando Ginny e correndo fuori dalla sala Grande in direzione dei sotterranei.

Una lezione di Piton.

Perché Lily Potter vuole che la riviva?

Mi precipito anche io dietro di loro, scansando studenti che corrono nei corridoi, anche se ovviamente nessuno mi vede. A poca distanza, intravedo la mia testa, colma di capelli ricci indomabili, prendere anch’essa la direzione per l’Aula di Pozioni.

Quando arrivo, Piton è ovviamente già in aula. La mia me stessa passata è seduta in prima fila, ma noto subito che, nonostante i fogli di pergamena diligentemente ordinati, le boccette d’inchiostro allineate secondo colore e le penne perfettamente appuntite, sono abbastanza distratta. Volto, infatti, bruscamente il capo quando vedo entrare Harry, Ron e Lavanda, arrossendo di collera e sdegno e lasciando il posto solo ad Harry accanto a me. Ron e Lavlav si siedono leggermente contrariati, nei posti in fondo, a poca distanza dai Serpeverde. Harry mi sussurra qualcosa, ma io agito la mano con noncuranza mugugnando qualcosa a labbra serrate.

Sicuramente ho detto che non me ne frega nulla di Ron… tipico di me…

Anche Draco è a miglia da qui. Si siede pigramente nell’ultimo banco, stravaccandosi alla bell’è meglio, e giocherella con una penna, tracciando linee e segni su un foglio di pergamena. Piton ovviamente non lo riprende, credo che abbia sempre saputo tutto di lui, anche in quel momento. Lo guarda solo per qualche istante, sospira in modo furtivo e poi assume la sua solita espressione arcigna, specie rivolgendo lo sguardo verso i non appartenenti alla sua Casa.

“Oggi parleremo di Pozioni Antiche…” inizia a spiegare con la sua solita voce melliflua, guardandoci in cagnesco, io mi accoccolo per terra accanto al mio alter ego, ascoltando attentamente, anche se davvero non ricordo nulla di questa lezione. Sarà perché nemmeno mi vedo prendere appunti, con mio sommo dispiacere… deve essere stata l’unica volta nella storia che non l’ho fatto, ed ecco che è successo!

Piton prosegue ironicamente nella sua spiegazione, misurando la stanza con ampie falcate: “Sono cosciente che parlare di questi argomenti, è più o meno come dare galeoni ad un Troll, visto le vostre menti deviate da beghe ormonali…”, e qui lo sguardo cade su Ron e Lavanda che sono impegnati in una melensa scenetta su chi presta prima le cose a chi “… o dal Quidditch…”, e qui ovviamente la stoccata è per Harry che disegna schemi di gioco su un angolo del libro, con sommo orrore dell’Hermione sedicenne ed anche di quella ventitreenne. Infatti mi vedo dargli una gomitata e lui si arresta subito, spaventato più da me che da Piton.

“… e data la loro difficoltà di realizzazione e la lacunosità delle fonti, non saranno nemmeno argomento di esame…”, tutta la classe rilascia un sospiro di sollievo evidente e quei pochi temerari dell’appunto cessano immediatamente le loro manovre “Ma il Preside è convinto che la vostra cultura generale ne trarrebbe beneficio… e quindi si presuppone che debba fare questo sforzo titanico… iniziamo subito con quella che la Pozione più difficile del nostro Mondo… ed anche quella che è meno conosciuta…”.

Fa una pausa ad effetto, per poi agitare la bacchetta, facendo comparire sulla lavagna alle nostre spalle una scritta in caratteri fiammeggianti.

Zahir.

Non mi ricorda assolutamente nulla. Evidentemente, visto che non sarebbe stata chiesta per gli esami e visto come stavo in questa giornata, non devo averla memorizzata. Piton riprende la sua spiegazione, lo ascolto attentamente cercando di non perdermi nessuna parola: “L’idea dello Zahir viene dalla tradizione islamica, Zahir in arabo significa visibile, presente, incapace di passare inosservato. In terra musulmana, la gente usa questo termine per riferirsi agli esseri e alle cose che hanno la virtù di essere indimenticabili e la cui immagine finisce col rendere folli gli uomini che la pensano. Qualcosa o qualcuno che, una volta che si è stabilito il contatto, finisce per occupare a poco a poco il nostro pensiero, fino al punto che non riusciamo più a concentrarsi su nient’altro… e questo può portare alla santità o alla follia…”.

Sobbalzo, rivolgendo lo sguardo verso il ragazzo biondo in fondo alla sala.

Draco. Ecco, cosa voleva dire Lily…

Il mio Zahir… è lui…

Ascolto, concentrata, mordendomi in modo nervoso un pollice. Possibile che davvero non ricordi nulla di questa lezione?

Piton fa una pausa, sospira ancora, gli occhi neri persi in pensieri tutti suoi, e quasi penso che ce l’abbia anche lui uno Zahir.

Una persona indimenticabile.

Poi si schiarisce la voce e riprende annoiato: “Per esempio, possiamo trovarlo nella paura ossessiva per la perdita di una persona amata, o nel vuoto lasciato da un lutto improvviso, ma anche in molte altre tipologie di situazioni, dove la sola cosa in comune è un’autentica spirale autodistruttiva di sensazioni, emozioni e ricordi che inevitabilmente le parole, i luoghi del vissuto comune e le esperienze condivise riportano ad ogni momento alla mente. Rievoca nell'individuo la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco, di aver imboccato una strada senza uscita. Lo Zahir si può risolvere solo con il raggiungimento della pace ritrovata in seguito alla ricongiunzione ovvero, allo stato di quiete dato dalla consapevolezza perenne di impossibilità del raggiungimento del proprio fine…”.

Liberarmi di lui… accettare consapevolmente che non mi amerà mai… non amarlo più…

“Questo per quello che deriva dalla tradizione babbana, che lo usa semplicemente come un concetto di natura psicologica. Nel nostro mondo, è l’idea base per una delle Pozioni più antiche della storia, probabilmente di origine greca, visto il desiderio degli antichi Maghi ellenici di liberarsi dalle catene delle passioni in ossequio all’ideale di una razionalità superiore… il suo fine e scopo è quello di liberare dai pensieri e dai sentimenti ossessivi, molesti e sgraditi, dandone forma in un oggetto che assorbe tale emozione, liberando l’anima e sanandola. È una pozione più instabile che propriamente difficile,che prevede la preparazione della pozione e il recitare di una particolare litania che assicura il suo fine. La formula completa dello Zahir è contenuta solo all’Ufficio Misteri, di sola conoscenza pertanto degli Indicibili… la causa di tale segretezza è la sua pericolosità. Lo Zahir assorbe il sentimento, neutralizzandolo, ma, se esso continua ad essere alimentato, lo trasforma nel suo contrario. L’amore diventa odio, il dolore euforia, la speranza disperazione, e così via. E questo è deleterio per lo spirito e per il corpo, potendo causare anche la morte, anche perché una volta creato, lo Zahir non può essere distrutto. Continua nel suo lavoro, indipendentemente dalla volontà del creatore. Abbiamo pochissimi casi di Zahir distrutti, ed erano tutti di grado inferiore. Essi sono infatti diversificati in cinque categorie, di potere diverso; maggiore il potere, minore è la possibilità di distruggerlo. Il meno potente è lo Zahir che nasce per l’ossessione della Libertà; di seguito, abbiamo lo Zahir d’Odio, di Potere, di Dolore ed infine quello più potente ed instabile… lo Zahir d’Amore. Mentre infatti abbiamo conoscenza di Zahir di grado inferiore distrutti, per il primo non se ne conosce nessuno, esiste solo una leggenda anche riguardo alla effettiva creazione di tale Zahir…”.

Piton si interrompe, convinto di non essere più seguito, ma nota con un ghigno disgustato che la classe femminile, alla parola Amore, si è ridestata quindi magnanimo prosegue nel suo racconto: “Di Zahir delle quattro categorie inferiori, Dolore, Potere, Odio e Libertà, abbiamo testimonianze storiche certe… si parla del Cuore di Ametista della Maga Medea, della Collana di Zaffiro della Regina Maria Antonietta di Francia, del Calice di Smeraldo di Cesare Borgia, tutti distrutti e tutti egualmente portatori di sventure, basta rileggere la storia di questi tre personaggi. Ma le leggende raccontano del primo Zahir, l’originale, creato per un sentimento ossessivo di amore. La Stella di Corallo della Regina Artemisia, regina dell’isola di Atlantide… senza scendere troppo nei particolari di una storia permeata, qualora fosse vera, solo della volubilità di una donna non corrisposta che distrugge un grande impero, è evidente che lo Zahir d’amore è molto pericoloso. Se la storia fosse infatti vera, esso avrebbe causato la fine del popolo di Atlantide… per questo, lo Zahir è illegale al pari di una Maledizione senza perdono ed è custodito all’Ufficio Misteri, di sola conoscenza degli Indicibili...”.

I contorni dell’immagine sfuocano improvvisamente, diventando meno nitidi, ed anche io mi sento strappare via.

Ora sai che cosa devi fare…

La voce di Lily Potter…

Mi sveglio di soprassalto, sudata ed accaldata, nella stanza buia di Seth. Lui è ancora vicino a me, si è addormentato. Lo guardo per qualche attimo, come per accertarmi davvero di aver sognato fino ad ora. Respirando a fatica, mi porto una mano al petto che si alza e si abbassa velocemente.

L’odore dei nontiscordardime è ancora così forte nella mia testa che mi sento stordita… non ci sono dubbi. Non era un sogno come tanti altri… era un segno del cielo.

Respirando ancora affannosamente, mi alzo e vado in bagno, il mio passo è ancora incerto e tremante, ma la voragine dentro si è quasi attenuata.

Apro la porta con cautela, attenta a non svegliare Seth, e me la chiudo alle spalle. Mi lavo il viso con energia, cercando di riprendermi, e, mentre mi asciugo il viso, incontro il mio riflesso nello specchio. Capelli spettinati, occhi rossi, occhiaie di notti insonni, aria stravolta e sconvolta.

Eppure, i miei occhi sono quasi ritornati quelli di prima. Quasi, perché il mio amore per Draco è sempre dentro di me, pronto a sobbalzare ad ogni minimo rumore proveniente dalla stanza accanto, a gemere nel ricordo di ciò che siamo appena detti, a degenerare in una follia insana.

Lui non mi ama. Ci manca poco che mi odi… mi ha solamente usato.

Mi ripeto nella testa come un mantra, a quella prospettiva qualsiasi altro pericolo sarebbe solo un sorso di tè piacevolmente tiepido.

E magari essere impulsiva per una volta, non potrà che farmi bene… e, se Lily Potter me l’ha suggerito, vuol dire solo che è la strada giusta. Tutto questo per convincermi di una cosa che ho già deciso di fare. La sola cosa che potrà darmi la pace.

Per dimenticarlo.

Ora so che cosa devo fare.

Per dimenticarlo.

Nella mente, compare il solo nome che in questo momento so potermi essere minimamente utile. Il solo nome che potrà darmi quello che cerco.

Faccio un sospiro profondo, speravo di non doverlo mai fare. Eppure, so che nemmeno il Ministro in persona potrebbe aiutarmi adesso.

La sola è lei.

Helder Cassidy Bode. 

Come richiamato solo dai miei pensieri, si materializza improvvisamente tra le mani un mantello di colore azzurro polvere, chiuso da una rosa dello stesso colore. Sobbalzo leggermente, prendendolo tra le mani prima che mi scivoli via tra le dita.

Lo soppeso pensosamente, come se scottasse, il tessuto è morbido e leggero come un sogno. Ovvio. Si è già accorta che ho pensato a lei.

Con un lieve sospiro, stacco il biglietto sottile attaccato al mantello.

Una grafia elegante.

Dice solo:

E’ da parecchio che non vieni a Diagon Alley, e questo scommetto che ti potrà servire se non vorrai essere riconosciuta.

Ci vediamo all’alba, davanti alla Gringott. Salderò il mio debito, Hermione, dandoti la sola cosa che vuoi.

So che è il tuo destino. H. C. B.

Sospiro tra me e me.

Quindi… è davvero il mio destino… potermi salvare solo in questo modo…

 

 

Eccomi qui!! Chiedo come sempre scusa per il ritardo, ma oramai sapete che se i miei capitoli arrivassero dopo poco tempo ci sarebbe qualche problema serio della mia psiche quindi rassicuratevi dei miei ritardi!! Allora come sempre, ho tantissimo da dire e pochissimo tempo per farlo, approfitto del fatto che l’occhio mi si è gonfiato in modo pauroso stamattina quindi non posso studiare, ma aggiornare sì!!

1.      La prima cosa che ho da dire è un enorme GRAZIE!!! Have a little fairy tale è stata inserita nelle storie scelte del sito, il mio sogno si è avverato!! E di questo non posso fare altro che ringraziare coloro che hanno segnalato la storia, e cioè Seven, Helder e Haley James… grazie davvero, era un obiettivo che mi ero segretamente prefissata, ma che ovviamente non poteva dipendere da me, quindi davvero grazie… avete scritto delle recensioni meravigliose che non so nemmeno se meritare appieno! Prometto che vi ricompenserò cercando di scrivere la migliore storia che abbia mai scritto!! Grazie ancora! Ringrazio anche chi ha segnalato la storia per il concorso del sito, anche se non è passata alla seconda fase… grazie in ogni caso, mi ha fatto davvero piacere, Eruanne ed Emmetti, grazie davvero!!

2.      La seconda cosa è NON UCCIDETEMI E NON ABBANDONATE QUESTA STORIA DOPO QUESTO CAPITOLO!!! Non è una storia con un finale triste, ve lo assicuro, e questo capitolo anche sembra la fine di ogni speranza, non lo è assolutamente, anzi… e da qui che finalmente inizieranno a muoversi le cose. All’interno del chappy, infatti, anche se ora è abbastanza difficile da capirlo, ci sono tutte le risposte per i capitoli successivi, anche nello stesso titolo che non ho scelto a caso. Ci sono tanti piccolissimi segnali che saranno svelati solo alla fine della storia… quindi non mi abbandonate!!! J Draco purtroppo è sempre Draco, lo amate anche per questo, quindi prima di capitolare, doveva far riemergere il solito bastardo che è… e la rabbia per quelle cose dette ad Hermione, prende anche me!! Ma riscatterò tutto, tranquilli!!

3.      Ora passo ai ringraziamenti e alle risposte di rito:

·         LIVEN: tranquilla, puoi lapidare Helena quanto vuoi, io non la sopporto proprio quindi vi fai cosa gradita!! All’inizio anche io avevo deciso di rendere Helena la “donna angelo” di cui parli tu, una donna che calmasse il cuore di Draco e che lui amasse non corrisposto, fino alla morte di lei… poi, non so come è diventata così, è rimasta la donna che hai visto, sospesa per sempre tra due uomini, che condanna entrambi a vivere sospesi come lei. Cosa alquanto da viziata ed immatura, cosa che quindi me l’ha resa antipatica sin dall’inizio. Ma per renderla vera ed autentica, non era necessario che mi piacesse quindi ho continuato su questa strada… stessa cosa per Amos, anche se in positivo, personaggio che mi piace davvero tanto. Draco in questo capitolo è stato peggio che nello scorso, ma c’è una spiegazione. Purtroppo lui è una testa di rapa quindi se non si comporta in modo contorto non è contento!! Grazie dei complimenti, mi hai detto una cosa bellissima, dicendo che questa ormai è la “mia” storia, mi ha fatto tantissimo piacere… ti mando un enorme Bacio!!

·         HALEY JAMES: ribadisco il grazie per la segnalazione, mi hai fatto un grandissimo regalo, sono davvero felicissima!! Purtroppo non riesco più ad entrare nel forum, non so per quale problema tecnico del mio computer, ma se vuoi puoi contattarmi con la funzione CONTATTA L’AUTORE in modo che io ti possa anche mandare la mia mail o contatto msn se vuoi!! J grazie davvero tantissimo, davvero ti sei commossa nello scorso capitolo? Ne son felice!! Penso che questo invece ti farà arrabbiare parecchio, ma tranquilla!! Poi ritornerai a commuoverti!! (si spera!) bacio!!

·         ROROTHEJOY: penso che mi maledirai sempre, povera!! È una delle mie più grandi doti lasciare i capitoli in punto in bianco!! Se non facessi così, poi, non mi leggereste più!!! Grazie dei complimenti, un bacio!!

·         ERUANNE: addirittura nobile scrittrice???? Mamma mia grazie!! Sei stata davvero carinissima, grazie anche della segnalazione, ci tengo che i miei personaggi escano un po’ dalla patina irreale di mamma Rowling e diventino un po’ più vicini a noi, anche se con una marcia in più!! Quindi grazie davvero!! Un mega Bacio!!

·         EMMETTI: carissima, grazie anche a te della segnalazione per il concorso!! Seth ringrazia e concorda con te sul fatto che sia meraviglioso!! In questo capitolo, effettivamente, ha fatto parecchio!! Sono felice che tu sia innamorata del mio Draco, anche se specie in questo capitolo è stato proprio crudele e malefico!! Ti piacerà lo stesso??!! sob sob!!! Grazie tantissimo dei tuoi complimenti!! Un bacio!!

·         SUNLIGHT_GIRL: visto? Ci ho messo solo un mese!! :P scherzo, ci ho messo pure troppo!! Grazie ancora tantissimo dei complimenti, mi piacerebbe davvero fare la scrittrice quindi spero di riuscirci un giorno!! Grazie ancora!! Un Bacio!!

·         PUNKINETTA: poverina, mi hai fatto tanta tenerezza!! ç_ç ma la mia anima bastarda da pseudo scrittrice e quella dannata di studentessa, mi hanno fatto prendere un mese di tempo!! Ora scommetto che maledici Draco e cosa ha detto ad Harry, ma abbi fede!!! Bacio!!

·         CYGNUS MALFOY: la mia Helder!! Che sta per comparire con il suo alter ego nella mia storia!! Premetto che se ti dovessi ringraziare, dovrei scrivere trentamila righe quindi concludo con quello che è un grande motto: Helena al Rogo, Draco all'altare a Herm con l'anello all'anulare!!!! Evvai!!!

·         SEVEN: ovviamente anche per te, valgono ringraziamenti mega infiniti, per le tue recensioni sempre più meravigliose e per la pazienza che hai nel supportarmi e sopportarmi!! Quindi ti saluto e ti mando come sempre tanti baci!!:D

·         VALAUS: grazie tantissimo dei tuoi complimenti, specie per avermi rassicurato su un altro punto, quello per cui questa storia sia poco o per nulla magica, ma molto babbana, e questo spesso è il mio cruccio!! Anche la magia comparirà, specie nel prossimo capitolo, ma è sempre molto soft… grazie per le lodi per i miei Draco ed Hermione, ho sempre amato questi due personaggi, e mamma Row non li ha valorizzati molto, quindi spero di riuscirci io! Ancora grazie!! Baci!!

·         PRINCESS DARK: grazie tantissimo!! Mi piace soprattutto la definizione di personaggi rompiscatole!! Effettivamente lo sono!! Baci!!

·         STELLALE: mamma mia, grazie! Addirittura un libro vero? Mi piacerebbe molto scriverne uno!! Anche se non credo di essere ancora così brava da poterlo fare…!! Mi hai fatto un grandissimo complimento altroché, dicendo che la storia sembra piena di piccoli segni che poi vengono recuperati e spiegati, vorrei poter dire che è sempre merito mio, ma molte volte vado anche a fortuna, riuscendo a riprendere qualcosa prima che me ne sfugga il filo!! :D Helena è un personaggio piuttosto strano, effettivamente, ma almeno non le difetta l’essere verosimile e il fatto che tu abbia colto qualcosa che non sia totalmente da condannare, per me è già un grande risultato! Mi hai messo persino in un tuo olimpo di scrittori, mammamiaaaa! Sono onorata!!! Grazie davvero!! Un enorme bacio!!

·         LOTTI: grazie tantissimo dei tuoi complimenti!! Pensiamo sempre che lo scotto di tanta sofferenza per Hermione è pur sempre quel gran pezzo di ragazzo di Draco Malfoy, quindi insomma non le va tanto male!! BACIO!!

·         ANGI81: mamma mia, se io ho il dono di toccare il cuore con le mie storie, tu non sei da meno!! Mi hai fatto quasi commuovere!!! Hai analizzato tutti i miei personaggi con grande attenzione!! Lo ammetto, di Hermione c’è molto di mio, l’ho sempre trovata molto simile a me, per come la descriveva la Row e quindi è stato facile con questa storia “forzare” forse un po’ la cosa, per renderla una parte di me… i pensieri suoi hanno molto dei miei, come molti atteggiamenti!! Ora avrai capito con che razza di persona hai a che fare…!! Ancora grazie!! un bacione!!!

·         SERE85: evvai, una nuova lettrice!! Grazie tantissimo anche a te!! Anche io detesto le storie con Draco ed Hermione che si innamorano al 2° capitolo, possono essere scritte benissimo ma le trovo così assurde ed inverosimili che smetto di leggerle… hai riassunto tutta la mia storia benissimo e spero che continuerai a seguirla!! Mi sforzo molto a mettere sempre dei riferimenti storici e letterari perché credo che facciano onore ad Hermione!! Sì sono una studentessa di giurisprudenza!! Si vede proprio, eh? Grazie ancora tantissimo!! Bacio!!

·         PAYTONSAWYER: un’altra nuova lettrice!! Fan di one tree hill, vero??:) anche io lo sono quindi mi piaci già ad istinto!!:D mi piaci anche perché non ti sei appiattita solo nell’adorazione per Draco che, ovviamente, adoro anche io, ma hai riservato belle parole anche per Dean e soprattutto per Hayden, che ammetto mi piace molto!! Come avrai letto, Draco ha detto in questo capitolo chiaramente di essere attratto da Hermione proprio per quella somiglianza… ma è una bugia, come puoi capire! Quindi abbi fede!! Grazie dei complimenti e grazie anche degli appunti sugli errori, mi sono utilissimi e non mi offendo assolutamente!! Quindi dimmi quello che pensi, tranquilla!!!un grande bacio!!

 

Grazie anche a chi legge soltanto!!!

Un enorme bacio anche alla mia amica Chloe che si è letta anche lei tutta questa storia!! poverina!!! Tvb!!!

Ciao !!!!

A presto!!! Cassie!!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 25
*** Strangers since yesterday ***


Capitolo 25 – Strangers since yesterday

Capitolo 25 – Strangers since yesterday

 

Quando arrivo a Diagon Alley, alle prime luci dell’alba, mi rendo conto di aver infranto un altro dei sacri precetti di Hermione Jane Granger.

Mi ero ripromessa di non rivedere mai più Helder.

Probabilmente perché non volevo da lei nulla, non volevo che saldasse il suo debito. Dio, è una cosa così assurda che senta ancora un debito nei miei confronti…

O chissà per che altro motivo. Probabilmente perché Helder mi ha sempre, ecco, reso inquieta.

È una di quelle tipiche persone che non sono destinate ad avere qualcosa a che fare con me.

Io sono un continuo nascondermi dietro qualcosa.

Dietro il coraggio, dietro l’ironia, dietro una smorfia, dietro un discorso perfetto, dietro una nuova risoluzione, dietro un sogno impossibile per tutti e verosimilmente fattibile per me.

E, invece, lei è una di quelle persone che notano il muro dietro cui ti trinceri e lo fanno a pezzi in pochi secondi, facendo venire fuori tutto quello che c’è dietro, senza scrupoli e remore. Come… Draco…

Tiro su con il naso, cercando di fermare il fiume di lacrime che rischia di nuovo di riprendere a scavare il buco dentro di me.

Tra la roccia, anche la più dura, e il fiume, si sa che vincerà sempre il fiume.

Mi stringo più forte nel mantello mandatomi da Helder, calandomi meglio il cappuccio sugli occhi. Ci manca anche che qualcuno mi riconosca… sostenere una conversazione su come vivo la mia condanna a NON strega, mentre mi appresto ad infrangerla con una pozione proibita da millenni e potenzialmente letale, non è una cosa di cui ho estrema necessità.

Inoltre, non credo di essere mai stata in grado di scambiare convenevoli e banalità, con persone a cui frega solo spettegolare un po’ di te all’angolo successivo, con il prossimo passante… ed ora lo sono meno che mai.

L’edificio della Gringott mi compare, dopo qualche passo, e, per un attimo, mi fermo a fissarlo, la gente che mi continua a passare attorno, urtandomi nella folla di questa fresca mattinata di giugno. Bianco come sempre, splende nella luce dell’aurora, mandando riflessi dorati dal portone di bronzo brunito, come sempre guardato a vista da un folletto sonnecchiante. Lo guardo senza vederlo davvero, la mia mente ospite sgradita del mio corpo che brama continuare a camminare.

Starò davvero facendo la cosa giusta?

Abbasso lo sguardo, chiedendomelo davvero. E poi…è solo un attimo, come il battito d’ali di una farfalla che però mi rovescia la mente e la volontà, ed il buco dentro riprende ad inglobare quel poco rimasto in vita di me.

E so che rispetto ad aspettare che finisca di divorarmi, non ci può essere nulla di peggio…

Nulla di peggio. Nemmeno morire davvero.

I miei passi tornano sicuri, il corpo che reclama la volontà, la mente che sparisce, e finalmente intravedo Helder, da lontano. La soppeso lentamente, esaminando la sua figura che non trovo molto cambiata, cosa come sempre rincuorante, le cose che restano identiche mi fanno sempre sentire bene.

E poi mi ricordo che nulla resta sempre identico, come non ci si può immergere due volte nell’acqua dello stesso fiume.

Panta rei. Tutto scorre. Io stessa scorro via, non essendo mai uguale a quella di due minuti prima.

So che è cambiata per forza, ma è ovvio che, ad un esame superficiale, lei mi sembri sempre la stessa di tanti anni fa.

Esattamente dalla fine della guerra… dal corso per diventare Auror.

Lei che poi un’Auror, non lo è mai diventata.

Conobbi Helder il giorno della mia prima lezione, avevamo un insegnante goffo e buffo, si chiamava signor Murray, vestiva sempre con una vecchia tunica logora bordeaux e sbagliava sempre i nostri nomi, storpiandoli in maniera assurda. Per non parlare, poi, delle varie nozioni, gettate a casaccio e contraddette sempre cinque secondi dopo.

A me, la perfettina del mondo civilizzato, faceva innervosire per il tempo che perdevamo. Ad Helder, faceva sommamente ridere.

Era la mia compagna di banco, e passava tutta la lezione a ridacchiare, una mano sotto il mento, gli occhi allegri.

Io la guardavo storta, innervosendomi sempre di più, finché un giorno le dissi in modo chiaro e netto che, se non aveva da fare nulla se non ridere, poteva restarsene tranquillamente a casa sua a ridere tutto il giorno, invece che cercare di diventare un’Auror. Con uno spirito del genere, non penso che ci sarebbe mai riuscita.

Per fare l’Auror, tutto ci voleva tranne che allegria… anzi, non c’era proprio nulla da essere allegri.

La guerra e il suo carico di sofferenze, erano una ferita ancora così dolorosa che avrei cancellato l’allegria da tutto il mondo.

Lei non si scompose minimamente e mi guardò fisso negli occhi, mormorando solo con voce seriamente flautata: “A lui fa piacere che io rida… si sente… divertente, ecco… e non un vecchio che insegna cose che gli hanno provocato solo dolore… quindi va anche bene imparare così…”.

Restai di sale, come è ovvio che fosse.

Lei sorrise e basta, continuando a seguire alla sua maniera la lezione, e solo allora mi resi conto che il signor Murray curvava impercettibilmente le labbra verso l’alto ogni volta che guardava Helder, illuminandosi in volto. Lei sapeva cosa il professore intimamente pensasse. 

Helder era un’Empatica. Me lo disse qualche giorno dopo, quando le chiesi spiegazioni. Sentiva le emozioni degli altri, come fossero le proprie. Bastava che guardasse anche una fotografia e si concentrasse per avvertire l’energia mistica di quella persona, e sarebbe arrivata a sentire il suo cuore, anche a chilometri di distanza.

Questo, intendevo, dicendo che lei legge dentro ed elimina i muri che uno si mette per difendersi.

Lo fa davvero.

Credo che anche stanotte abbia sentito che avevo bisogno di lei e come stessi. E ha subito deciso di aiutarmi.

Draco invece non è un Empatico. Non ha nessuna dote magica… Draco ha quel particolare effetto solo su di me.

Deglutendo, mi avvicino ancora di qualche passo. Lei mi nota e si gira nella mia direzione, sorridendo. I capelli, che ricordavo corti fino alle spalle, sono cresciuti e si agitano nel vento di questa mattinata estiva, catturando la luce del sole, gli occhi cervoni sono sempre luminosi come li ricordavo, agita la mano per attirare la mia attenzione, salutandomi.

E meno male che aveva mandato il mantello per impedire che mi riconoscessero…

Sospiro e sorrido a mia volta avvicinandomi, ha un mantello simile al mio, ma glicine, e il cappuccio le copre solo parzialmente la testa, sta quasi scivolando nell’impeto del suo saluto, rivelando le cuffie di un i pod nelle orecchie.

Tipico anche questo. Lei che è una Purosangue, ma usa cose babbane.

Un controsenso continuo come è lei… ora, infatti, mi intrattiene in un’amabile conversazione su come, una volta sentita “Don’t cry” dei Guns n’ Roses, uno non è che possa tornare allegramente ad ascoltare le Sorelle Stravagarie, noterebbe l’abisso.

Sorrido, annuendo leggermente e lasciandola parlare. 

Il suo aspetto suggerisce che sia una ragazza attiva, vitale e vivace. E, a suo modo, lo è.

Ma è anche fin troppo abituata a soffrire, con il dono che la Natura le ha riservato. E, come se non bastasse, di dolore nella vita ne ha già avuto tanto. E, stavolta, solo proprio.

Helder, infatti, è l’unica figlia di Broderick Bode, un Indicibile, cioè un impiegato nell'Ufficio Misteri. Lo conobbi alla finale della Coppa del Mondo di Quidditch, lo ricordo come un uomo dalla pelle olivastra e dall'aria lugubre e misteriosa, tipica peraltro di ogni Indicibile, data la clausola di estrema segretezza nel loro lavoro che impedisce a chiunque di sapere compiutamente la mansione a cui sono preposti. Bode morì qualche anno fa, lo ricordo bene, fu una delle prime indagini che mi sottoposero da Capo degli Auror. Era stato tenuto sotto Imperius per settimane da Lucius Malfoy che tentava di fargli prendere la profezia su Voldemort e Harry. Bode però sapeva che toccandola, e non essendoci scritto il suo nome sulla profezia, sarebbe impazzito: è per questo che riuscì a resistere tanto alla Maledizione Imperius. Tuttavia alla fine dovette cedere e,  toccando la profezia, subì gravissime lesioni al cervello. Venne quindi ricoverato al San Mungo, nonostante ancora parlasse in lingue incomprensibili e fosse in stato confusionale, stava migliorando. E per impedire che si riprendesse e parlasse che, pochi giorni dopo, venne ucciso dai Mangiamorte, che gli inviarono una piantina di Tranello del Diavolo travestita da regalo: non appena il convalescente Bode la toccò, la pianta lo strangolò all'istante 

Helder entrò nel corpo degli Auror proprio per sapere chi aveva ucciso suo padre.

Ma non era il solo motivo.

Helder aveva anche subito, qualche anno dopo, anche la perdita del suo ragazzo, Christopher Latimore, ucciso anch’egli dai Mangiamorte.

Erano amici da quando erano piccoli, anche se lui aveva qualche anno più di lei, e si erano dichiarati vicendevolmente solo una settimana prima che lui morisse, ucciso a tradimento. Lei, che, dopo la morte del padre, si era appoggiata in tutto e per tutto a Chris, come lo chiamava, ne era rimasta devastata… il particolare legame poi con Chris, aveva fatto sì che, con il suo potere, lei sentisse esattamente tutto quello che aveva provato mentre moriva, non riuscendo però a fare nulla per salvarlo.

Sembrava che una sorte crudele e misteriosa si fosse accanita su di lei per toglierle tutto quello che di caro aveva, questo diceva sempre.

Le era rimasta solo la mamma che, però, si era abbandonata al dolore e all’inerzia, lasciandola sostanzialmente sola.

Sola compagna del desiderio di vendetta.

Legammo abbastanza ai tempi del corso per Auror, lei era brava e capace, spesso anche più di me; infatti, molti dicevano che era sprecata come Auror. Avrebbe dovuto fare l’Indicibile come suo padre, ma lei non ne voleva sapere, almeno fino a quando non avesse trovato gli assassini di Bode e di Chris.

Come per Draco.

Riuscì anche a farsi affidare quell’indagine, non so nemmeno come, visto il legame stretto con le vittime, e chiese la mia collaborazione.

Fu la mia prima indagine.

In qualche mese, venimmo a capo di tutto. E per Helder fu il dolore peggiore della sua vita.

Ad uccidere suo padre, era stato lo stesso Chris. Era un Mangiamorte.

Per motivi ancora oscuri, poi, era stato ucciso lui stesso, forse perché si era rifiutato di fare qualcosa che gli era stato ordinato, o altro.

Helder si spense lentamente, giorno dopo giorno, e alla fine lasciò gli Auror, diventando un Indicibile. Io divenni il capo degli Auror qualche settimana dopo.

Mi chiese solo una cosa, per me incomprensibile.

Non voleva che nessuno toccasse la memoria di Chris. Mi chiese di non rivelare a nessuno la verità. Lei doveva essere la sola a saperla.

E io accettai, secretai l’indagine e finsi che eravamo arrivate ad un punto morto.

Questo è il debito a cui allude.

Non so perché lo feci, non la capivo, per me era assurdo che lo facesse, che difendesse l’assassino di suo padre. L’avevo aiutata solo perché era una mia amica.

E potevo solo immaginare quanto ne soffrisse.

Non l’ho mai capito.

Ma, ora che la vedo come sempre annegare nel chiarore accecante di un sorriso finto tutta la pena che ha dentro, parlando di musica babbana e di musica magica… per la prima volta, credo di capire.

E fa male, perché so che la capisco perché siamo unite dalla stessa colpa. Amare un Mangiamorte.

O meglio un Ex Mangiamorte…  loro sono i peggiori.

Rinnegano sé stessi, ma mai del tutto, restando in bilico sulla bilancia del mondo. Come Draco. Come Chris.

Lui… è morto perché volevano uccidere anche te, vero Helder?

È per questo che non lo lascerai mai andare nello sfacelo di una memoria profanata.

Grata, nonostante tutto. Lo ami lo stesso.

E io… invece, non sono come te. Non vedo l’ora di liberarmi di questo amore.

E so che mi capisci… ed, in fondo, Chris ti amava… Draco, invece…

Trattengo il fiato, ondate di lacrime non piante su di me, e lei si interrompe mentre parla, lasciando cadere il discorso. Sono tornati spenti i suoi occhi, mentre mi guardava fisso. Stringe le labbra e sfugge le parole.

“Innamorata di un ex Mangiamorte…” sussurra solamente, chiara e precisa l’intonazione, nonostante il vociare circostante.

“Sei diventata anche sensitiva, oltre che empatica?” chiedo amaramente, guardandola da sotto il mio cappuccio.

Lei sorride tristemente e nega con il capo: “E’ una sensazione abbastanza netta quella di essere innamorati di una persona che si è votata al male… assomiglia ad un soffocamento, ad un vicolo cieco… più ami lui, e più odi te stessa”. Sussulto leggermente, come sempre ha azzeccato tutto. Di che mi sorprendo, in fondo? È il suo potere.

“Meno chiaro, invece, risulta chi sia…” commenta in tono neutro, incrociando le braccia, una folata di vento le scopre i capelli scuri. Si porta pensosamente un dito sotto il mento, prima di replicare: “In fondo non hai più contatti con la comunità magica… e gli ex Mangiamorte non figuravano tra i tuoi amici di vecchia data…”.

Probabilmente non dovrei dirle chi è… insomma il fatto che Draco è vivo, è pur sempre un segreto.

Sospiro. Al di là di potermi fidare di Helder o meno, dato su cui non discuto sennò non sarei nemmeno qui, c’è il suo nome che mi arde in gola, dalla voglia di essere pronunciato ad alta voce. Ammettere a qualcuno, a parte me stessa, che sono innamorata di Draco Malfoy. Sfogarmi, ecco.

Seth sa tutto e niente. Ed anche se sapesse, sa che parlo di Danny.

Ma Danny non è Draco.

Con gli altri, poi… sono Danny… però io sono Draco, alla fine, dentro sono Draco, non Danny…

Già, in fondo, lo pensa anche lui… ed io, mai come ora, sono cosciente dell’abisso incommensurabile esistente tra quei due nomi che in fondo appellano la stessa persona, ma che la descrivono e rappresentano in nozioni ed anime completamente diverse.

Prendo un respiro profondo, prima di dire con un tono di voce incerto: “Sono innamorata di Draco Malfoy, Helder…”.

Lei non trasale, né mostra alcun segno di evidente sorpresa. Evidentemente sapeva, in qualche modo, che Draco era vivo, cosa che mi consola alquanto. Colgo però un impercettibile guizzo sinistro nella sua espressione, come un sordo tonfo dietro la sua placida calma. Improvvisamente comprendo e mi maledico per averle detto di chi si tratta. In fondo, Draco è pur sempre il figlio dell’uomo che ha torturato suo padre fino alla follia.

Come se indovinasse esattamente i miei pensieri, Helder solleva lo sguardo e agita una mano in segno di noncuranza: “Non sono io da compiangere, Herm… al massimo lo sei tu… Draco Malfoy… non ci posso pensare…”.

Sorrido, mio malgrado, e mi stringo nelle spalle.

Sono contenta, ora come non mai, che Helder sia un’Empatica.

Un altro non saprebbe cosa mi è costato dire ad alta voce che sono innamorata di Draco, non capirebbe perché la mia voce si è incrinata, perché mi sembra di averci messo trent’anni a dire quelle sei paroline, perché, sentendone l’eco nelle orecchie, mi sembri quasi che non sono giuste.

Sono troppo… piccole.

Come se nemmeno la parola innamorata bastasse. Come dire mare, e sapere che in quella parola ci può essere al massimo l’eco di una goccia d’acqua salata.

Non gli abissi inesplorati, non la vita brulicante, non le onde eterne, non la spuma vivace… e, ad ogni ulteriore aggettivazione, trovarne sempre un’altra, mai sufficiente.

Ecco... io… se dico innamorata e basta, credo quasi di dimenticare qualcosa.

E credo che, se iniziassi ad enumerare tutto mentalmente o a voce, probabilmente non finirei mai più.

Ma dagli occhi di Helder, tristi e partecipi, capisco che quel mare lei lo sente, senza bisogno che glielo descriva.

Lo sente ruggire affamato in me, erodendomi come una scogliera esposta alle intemperie.

Lei lo sente.

Non ha bisogno che glielo descriva.

Sussurra qualcosa che non riesco a distinguere, distogliendo lo sguardo da me e fissando gli occhi altrove.

Le iridi sembrano diventare quasi più chiare, tingendosi di tenui toni opalini. Gli occhi di Draco… come potrei sbagliarmi?

Quando torna a guardarmi, preserva ancora una traccia di quella luce perlacea negli occhi, che però ritornano subito del loro colore consueto.

Deve aver sentito Draco, anche da qui. Chissà che cosa sta sentendo adesso… probabilmente soddisfazione per essersi finalmente liberato di me… mi mordo il labbro inferiore con foga, cercando di stare calma, sapendo che Helder può sentire tutto di me, persino quell’ansia masochistica di sapere che cosa intimamente stia pensando Draco. Non voglio mostrare fino a che punto mi sono ridotta.

Helder torna a dedicarmi attenzione, non senza che mi sia accorta che di nuovo i suoi occhi sono cambiati. Sono diventati come i miei.

Mi ha sempre affascinato questo degli Empatici… cambiare colore degli occhi a seconda della persona di cui sentono i sentimenti.

Vedere con i loro occhi.

Camminavo accanto ad Helder per strada, e i suoi occhi erano azzurri, poi verdi, poi neri... ed era come guardare un pavone che mette nuove piume variopinte.

Eppure, mi chiedevo sempre quanto male le facesse dentro, come facesse a non morirne.

Mi spiegò che potrebbe escludere quei sentimenti, sentire solo i suoi, ma lo fa raramente. Perché fa parte di lei, ed oramai ci è abituata.

Non so davvero come ci riesca. I miei sentimenti bastano già a farmi impazzire per mio conto.

Lei sorride ed immagino che abbia sentito che cosa sto pensando, mi stringo nelle spalle imbarazzata e guardo altrove.

Torna seria, mentre mi dice con voce atona: “So che cosa vuoi da me, Hermione… e so anche che un altro Indicibile ti avrebbe già consegnato ad Azkaban…”.

“E tu invece?” chiedo con un filo di voce, per la prima volta qualsiasi sanzione non riesce a farmi desistere di un solo passo.

Solo infrangendo questa regola, io avrò la pace…

“Io invece… invece lo so…” bisbiglia Helder, guardando altrove, apparentemente rapita dalla facciata immacolata della Gringott, come se la vedesse per la prima volta.

Ma gli occhi sono tornati i suoi e si sono fatti lucidi.

Lei sente il mare che mi ruggisce dentro. È lo stesso che ulula dentro di lei.

“Probabilmente, tanto tempo fa, lo avrei fatto anche io…” acconsente con un sorriso caloroso, simulacro di una gioia che non può provare “Ma allora credo che mi trattenesse la paura… ma tu invece non la provi, lo sento, quindi credo che sia la cosa giusta… inoltre, sei una strega capace, quindi credo che saprai almeno limitare i danni agli altri, se non a te stessa…”.

Annuisco con il capo, sempre più convinta che sia la cosa più giusta che abbia fatto nella vita.

Lei mi invita a sedersi su un gradino della scalinata che porta alla Gringott, dopo averlo fatto lei stessa. Esce dalla falda del mantello una scatoletta di legno laccata di blu, abbastanza scrostata e dall’aspetto antico. Mi fa cenno di nasconderla e di non aprirla fino a quando non sarò da sola.

“C’è tutto l’occorrente, la formula, gli ingredienti per la pozione… alcuni di essi non esistono nemmeno più…” commenta sibillina, rimettendosi il cappuccio sugli occhi “Ne avevo qualche residuo nascosto a casa… quindi fai attenzione, non hai altri tentativi…”.

Prende fiato prima di riprendere, la ascolto attentamente, brividi gelati sulla schiena: “Come ovviamente non ti dico di fare attenzione al resto, a morire e a tutto quello che ne potrebbe conseguire, perché penso che tu abbia intuito che non sarà una passeggiata… né per te, né per la gente che ti circonda, quindi fallo da sola… ci saranno meno rischi per chi ti è vicino… me lo prometti?”.

Annuisco con il capo, devo aver perso la voce qualche attimo prima, senza rendermene conto.

Helder torna a guardare la gente che ci cammina vicino allegramente, persa nelle proprie faccende, infinito arcobaleno i suoi occhi.

Poi sospira ancora e riprende, facendo attenzione a non nominare nemmeno una volta la parola Zahir, ma alludendoci solamente.

“Ti farà addormentare, probabilmente per giorni… e potresti non svegliarti più. Vagherà nella tua anima alla ricerca del sentimento ossessivo. Questa cosa, Herm… è come un animale affamato. Fiuta la tua anima alla ricerca il sentimento di cui nutrirsi, lo braccherà cercando di stanarlo e di saziarsi di esso. Ma, se non sarà abbastanza forte e definito, si nutrirà di altro… altri sentimenti, altre emozioni, ciò che di più forte c’è in te… sei disposta a rischiare per questo?”.

La paura che non mi aiuti più, la disperazione di dover convivere allora con l’amore per Draco, mi fa ritrovare la voce perduta: “Sai già la risposta a questa domanda, Helder…”, abbasso la voce, aggiungendo: “Non mi hai appena detto che avresti fatto lo stesso?”.

Lei sorride piano: “Ovviamente…”. Faccio un cenno con il capo, tornando a guardare davanti a me il viavai per le strade: “Non chiedermelo più quindi…”.

Helder riprende, la voce più bassa: “Durante questo periodo di sonno indotto, userà il tuo cuore per vedere la gente che ti circonda, anche se tu non ne avrai coscienza, né ricordo, e sentirà tutto quello che provi nei confronti delle persone che ti circondano. Solo allora troverà probabilmente il sentimento ossessivo, e lo renderà ghiaccio, freddo. Se dovesse funzionare, tu ricorderai tutto di Draco, quello che vi è successo, cose che vi siete detti, tutto. Ma senza più emozione. Sarà come se fossero successe ad un’altra persona, anche se sarai cosciente di essere tu. Eppure, l’amore che provi per lui sarà come un tenue ricordo che non ti provoca più nessuna sensazione. Quando e se ti sveglierai, indosserai qualcosa di diverso, probabilmente un bracciale, un monile, un anello, qualcosa di simile. Sono così gli Zahir d’amore… non provare a sfilarlo, a farlo venire via. Non se ne verrà mai, resterà sempre lì e, più diventerà forte l’amore che deve distruggere, e più ti cingerà forte, probabilmente facendoti anche male. I primi tempi resta accanto a Draco, ha bisogno di essere nutrito dall’amore che deve distruggere, altrimenti cerca altro nella tua anima… trascorsi tre giorni, vai via. Dimenticalo per sempre. Alimentandolo troppo, non riuscirebbe più a sanarlo, a renderlo indifferenza… diventerebbe odio, Hermione…”.

“Non sarebbe un problema odiarlo…” aggiungo con tristezza “Tornerebbe tutto come prima…”.

Helder non aggiunge altro e capisco che ricorda perfettamente quello che c’è sempre stato tra me e Draco.

“Lo so…” commenta tristemente “Ma inizieresti a cambiare… il tuo aspetto, per prima cosa… e poi tutto il resto. L’odio non rimane mai circoscritto, è come un cancro… contaminerebbe tutto quello che rimane di te… quindi vai via, davvero, appena dovessi accorgerti di qualcosa di simile… potresti morirne a quel punto, come se ti avesse avvelenato. Solo l’amore ti salverebbe ancora… ma se lo hai distrutto, creando lo Zahir, è impossibile che torni ancora…”. Capisco in parte quello che dice, la ascolto silenziosamente.

“Un’altra cosa…” aggiunge con un altro sospiro, i suoi occhi diventano di nuovo quelli di Draco per un secondo. Rabbrividisco come se stessi parlando con lui.

“So che questo è il tuo destino… e so che solo così questa storia finirà…” commenta con un sorriso, i suoi occhi tornano del loro colore consueto mentre mi parla “Ed è solo per questo che ti aiuto… non c’entra niente il mio debito…”.

“Quindi perché lo fai? Non capisco…” chiedo attonita.

Gli occhi di Helder diventano prima d’oro e poi d’argento, fondendo come metallo liquido e prezioso, forgiato da due cose così diverse e distanti da essere assolutamente inconciliabili, ma che lei sola vede miracolosamente e misteriosamente… unite.

Riflessa in quelle iridi magiche, mentre Helder si alza e si smaterializza, dicendomi solo di stare attenta prima di sparire, con un formicolio diffuso, sento che c’è qualcosa che non mi ha detto. Qualcosa…

… e non è stata necessaria alcuna empatia per capirlo…

 

 

 

La pozione brucia in gola, mentre la bevo stesa sul letto, a casa mia.

Ha un sapore come di fuoco liquido, come se mi ardesse dall’interno, e credo di non farcela a finire di leggere la formula magica. O di sbagliarne le parole.

Divento subito anche meno lucida, mi sento fluttuare nel pensiero nullo e nel sentire inesistente. La testa mi ricade all’indietro, piegata dal sonno.

Eppure, mi aggrappo a quelle parole come se ne andasse della mia vita, reprimendo la tosse ed ignorando Grattastinchi che mi guarda curiosamente, inclinando la testa di lato dal basso del mio letto. Lo sguardo mi muore fissando la finestra da cui filtra forse l’ultima luce che vedrò in vita mia.

Le parole nel cervello si fanno meno nette, finendo di pronunciarle. Le labbra si spaccano, sanguinando, come se fosse un dolore inesprimibile, un peccato solo averle dette quelle parole magiche. Tutti i miei organi è come se morissero, putrefacendosi. Tutto di me sta morendo.

Eppure, le parole della formula continuano nella loro litania.

Omnibus nobis animi motus praeest. Amoris laetitiae, odii perspicuitatis, doloris stuporis fons est. Nolo obtemperare, volo pacem, haud cruciatum, fluentem venis et intercludentem mihi spiritum. Nolo hanc undam, quae intra me percutit et allidit. Omnia flagrat et solum colores imber restinguit. In vostro munere, non satis fortis sum, dii caeli, et sciite me meum animum subigere conari. Sed tempus est sic serum. Sciam dulcis mortis inanem.

(La passione ci comanda tutti. È fonte della gioia dell’amore, della chiarezza dell’odio e dell’estasi del dolore. Non voglio obbedire, io voglio pace e non dolore che scorre nelle vene e mi soffoca il respiro. Non voglio quest’onda che batte e sbatte dentro di me; tutto brucia e la pioggia spegne solo i colori. Non sono abbastanza forte nel vostro dono, dei del cielo, e sapete che cerco di domare il mio animo. Ma il tempo è così lento. Che io conosca il vuoto di una dolce morte.)

Solo, dopo aver finito di recitare la formula in latino, finalmente mi abbandono al sonno.

 

Harry aprì la bocca per ribattere, ma rimase curiosamente in silenzio come un buffo pesce d’acquario.

Non valeva la pena contraddirla, tanto lei avrebbe trovato un altro modo per avere ragione. Ormai l’aveva capito.

Quindi scrollò il capo e disse con voce rassegnata: “Sai che c’è Gin? Hai davvero ragione! Dare una cornice d’argento come bomboniera, è il più vecchio dei cliché… ci vuole qualcosa di meglio…”.

“Mi stai prendendo in giro??!” borbottò Ginny, guardandolo torva e misurando a lunghi passi il salotto, gli occhi che mandavano lampi “O mi stai solo assecondando il che sarebbe anche peggio??!”.

“Ma come la faccio e la faccio hai sempre ragione tu??”.

“Non è vero! Quando ho ragione è chiaro che io abbia ragione… ma se tu avessi ragione nel dire che io non ho ragione, allora sarebbe normale che tu hai ragione e io non ce l’ho più la ragione!!”.

“Eh?” chiese Harry, con gli occhi annacquati, cercando il bandolo della matassa.

Ginny, alla sua vista, scoppiò a ridere, dimenticando per un attimo quello che stavano dicendo. Si sedette accanto a lui, poggiando la testa sul suo braccio.

Harry chiuse gli occhi, sorridendo. Anche stavolta, non sapeva ancora come, l’aveva scampata.

 

Affetto. Tenerezza. Simpatia. Complicità. Ricordo.

Non è questo.

 

Seth sfogliò le pagine con fare distratto, profondamente perso nei suoi pensieri.

“Che hai?” chiese April, sedendosi accanto a lui, mentre continuava ad asciugare con uno strofinaccio un bicchiere “Sei strano oggi…”.

“Non ho niente…” borbottò Seth con voce monocorde “Chi ti dice che io abbia qualcosa?”.

“Bah, la vaga sensazione che tu abbia sfogliato il giornale senza guardarlo…”.

“L’ho guardato, invece…”.

“Anche Taylor Lautner a torso nudo, a cavalcioni di una motocicletta?” sogghignò April, guardandolo storto.

“Dove? DOVE??!!” urlò Seth, sfogliando come un ossesso le pagine in senso contrario, arrivando quasi a strapparle pur di ritrovare il suo attore preferito.

Perso nel suo delirio ormonale, non si accorse di April che, caduta per terra, inveiva contro di lui per il suo slancio troppo impetuoso che l’aveva fatta ruzzolare dalla sedia.

Serenity, nel suo box, scoppiò a ridere felice.

 

Dolcezza. Riconoscenza. Sicurezza. Affinità. Istinto materno.

Non è questo.

 

“Allora oggi dobbiamo assolutamente andare a comprare delle scarpe nuove…”.

Sospiro.

“Vorrei ricordarti che le Hogan blu sono assolutamente inadatte… insomma, diamine… oramai ce le hanno tutte…”.

Sbuffo irritato con la bocca. Mano ad asciugarsi la fronte, imperlata di sudore.

“Persino Shirley…! Ma dico, ha due fette al posto dei piedi, porterà come minimo il 45… pensa che lei a scuola, si vantava che gliele facessero su misura, le scarpe… ovvio! Non le troverà mai da nessuna parte!!”.

Cenno con il capo, che vuole fingersi divertito. Occhiate attorno alle donne circostanti.

“Poi, una volta con Calì la beccai che si tentava di infilare delle scarpe minuscole…! Che risate…! È assurdo quando una non è conscia di quello che è!”.

Ron fa un gutturale verso di gola, che vorrebbe corrispondere ad un assenso incondizionato. Lavanda comunque non l’ha sentito, presa com’è dal suo racconto sui leggendari piedi di Shirley Danes.

Il ragazzo torna a guardarsi attorno, con espressione spaesata, mentre la fidanzata continua a parlare.

Ha una sola domanda in testa. La solita.

Ma non l’ascolta e la lascia andare… anche perché sa che lei ormai non c’è più. In tutti i sensi. Harry glielo ha detto ieri sera.

Gli è semplicemente crollato il mondo. E cammina per strada, cosciente di avere il vuoto dentro. Cosciente che fa più male di quanto dovrebbe.

Hermione, la sua Hermione, si è innamorata davvero stavolta.

 

Ricordo. Rabbia. Dolore. Inadeguatezza. Voglia di dimenticare.

Non è questo.

 

Correva per strada, era in ritardo come sempre.

Quella dannata partita doveva anche finire ai supplementari?

E dovevano perdere pure??

E doveva anche essere collega di un gruppo di tifosi sfegatati del Paris Saint Germain??

Ed essere il solo che teneva per il Manchester???

Dean urtò una signora che veniva nella direzione opposta, si affrettò a replicare con voce frettolosa: “Je suis dèsolè, c’ètait un accident!”. La signora lo guardò in cagnesco, per niente intenerita dalle sue scuse. Gli ricordava terribilmente la signora Sanchez…

Fu un attimo…

Hermione…

Stava bene, Hermione, glielo aveva detto Ginny qualche giorno prima. Si era ripresa dal coma, stava anche per riavere un lavoro nella comunità magica.

E, a detta dell’amica, si era anche innamorata. Del suo capo, qualcosa del genere.

Era contento, sinceramente. Lei si meritava tutto il meglio del mondo.

E lui… bé, lui si era ricordato che la monogamia era una cosa che nuoceva terribilmente all’evoluzione della specie. Con Hermione, andava bene essere fedele, probabilmente se lei lo avesse amato, l’avrebbe fatto anche per tutta la vita… ma visto com’era andata a finire, allora ritornava alla sua vecchia teoria.

Si fermò davanti a Place de Sorbonne, dove aveva appuntamento con Laetitia.

O era Charlotte?

O Frances?

Appena la vide arrivare da lontano, ancora immemore del nome, capì che evidentemente la poligamia era stata abolita per l’alto tasso di omicidi.

Deglutì.

Omicidi di uomini che scordavano i nomi delle loro innumerevoli fidanzate.

 

Tenerezza. Rimpianto. Rimorso. Gratitudine. Senso di colpa.

Non è questo.

 

Stese la mano davanti a sé, faceva ancora male, ma almeno meno di prima.

Un paio di giorni e sarebbe guarito del tutto… chissà, se poi sarebbe stato un bene.

Draco Lucius Malfoy si guardò distrattamente la mano destra fasciata, al centro dello studio dove dipingeva, nelle cantine del Petite Peste. Accolse la vista di quella ferita con un fremito negli occhi chiari, un fremito che era assieme rabbia e dolore. Debolezza. Il segno della sua infinita debolezza.

Su di lui, si sentivano i passi dei clienti e le urla divertite di Seth ed April.

Chiuse gli occhi quasi infastidito.

Ma gli occhi si chiudono per non vedere qualcosa. Non per smettere di ascoltare.

E Draco la cosa, che non voleva vedere, ce l’aveva davanti agli occhi.

Sospirò, riaprendoli, ringraziando la ferita che si era scioccamente procurato alla mano e che gli impediva di finire quello per cui lavorava da anni.

Almeno non aveva per qualche giorno ulteriori spettri a tormentarlo.

Diede le spalle al quadro non terminato con una smorfia, e tornò indietro sui suoi passi.

In un quadro, nato anni prima, che solo di un sentimento profondo avrebbe tratto vita, un sorriso di donna restava sospeso, forse per sempre.

Oltre a quello, solo gli occhi.

Occhi azzurri.

Occhi azzurri sbiaditi, trasformati in lucenti stelle d’oro.

Occhi che lentamente, giorno dopo giorno, stavano cambiando. Ed era un colpo continuo all’anima vedere adesso le cose capovolte.

Non era lei che somigliava ad Helena… era Helena che somigliava a lei.

Lo sapeva, lo vedeva. L’azzurro stava scomparendo. Presto sarebbero diventati i suoi.

Gli occhi sarebbero diventati i suoi. Occhi castano dorato come bruno miele dolce.

Gli occhi della Granger.

Gli occhi di Hermione.

 

Dolore. Rancore. Rabbia. Desiderio. Passione. Odio… l’amore.

Qualcosa senza un nome.

Ci siamo.

 

 

 

Un bambino biondo che corre, inseguendo un cagnolino.

Un uomo che lo chiama a gran voce.

Una ragazza che sorride.

Una donna in una terrazza dai lunghi capelli castani.

Cinque anni nel futuro.

Scrive una pagina di diario e sorride, agitando una mano, salutando la sua famiglia. Abbassa gli occhi e nasconde la solita lacrima. 

La penna scorre ancora sulla pagina immacolata. Sa che lei la sta vedendo, ma che non la ricorderà. Non la ricorderà fino all’impulso di scrivere un diario da quella… prigionia… per poter ricordare tutto, per non perdere più niente. Sperando che un giorno serva.

Rilegge la pagina, cancella qualcosa e scrive altro.

Nella luce di quel sole estivo, luccicano come gabbiani le sue parole.

 

Volevo qualcosa che mi distraesse dal dolore. Persino un dolore maggiore… ma che non fosse quel dolore.

Ora…che sono passati cinque anni da quel giorno, ora che so quanto sia stato inutile, ho ricordato persino quel momento. Tutto quello che provai.

All’inizio, fu solo un lieve formicolio, poi come un pizzicotto, infine come se mi strappassero il cuore.

Sanguinava tutto, dentro di me, come un pezzo di corallo strappato dal fondo del mare e che tingesse di rubino l’acqua trasparente.

Si tingeva tutto il resto.

Sentivo il mio corpo contorcerci, sentivo la gola seccarsi, sentivo anche che mi mancava il fiato, mentre lo Zahir mi portava via l’amore per Draco. E desiderai morire. Perché, ora che stava funzionando, come il solito paradosso della maledizione che vuole gli uomini venire puniti dai loro stessi desideri, io trattenevo per le unghie il mio amore, lacerandomi l’anima, lasciandola gemere, graffiando e mordendo come una bestia ferita, che conserva la forza titanica della disperazione.

Non volevo che me lo portasse via. Sarebbe stato il mio caldo sole intessuto nell’anima, poco importa se ne sarei morta bruciata.

Ma almeno… sarei stata… viva…

Lo Zahir mi stava uccidendo una parte del cuore, la stessa parte che aveva visto Draco in quello studio guardare i miei occhi su una tela.

E si era ribellata, troppo tardi, a quella carneficina.

Lentamente, il corpo si assopì, la coscienza sparì, la memoria si annullò… e l’amore volò via.

E quando riaprì gli occhi, era come se fossi tornata in vita. Perché non sapevo cosa avevo appena distrutto.

Non sapevo della mano ferita di Draco e dello spasmo negli occhi grigi.

E ricordavo solo ricordi freddi, senza emozione.

Mi svegliai cinque giorni dopo.

E semplicemente io non amavo più Draco Malfoy.

 

 

Rieccomi!! Dopo decisamente meno tempo del solito, ecco il nuovo chappy!! Un pochino breve ma dove sicuramente vi ho dato dei segnali importanti e dove sono sorte tante domande, specie nella parte finale… ebbene sì, è proprio uno sguardo sul futuro della nostra cara Hermione, una specie di spoiler…! Ma perlomeno stiamo riemergendo dal baratro della desolazione dove eravamo annegati!! Baratro che invece colpisce me in modo determinante sia per gli esami imminenti, sia perché la scheda video del mio adorato pc si è rotta, cosa che mi costringerà a cambiarlo e ad utilizzarne un altro con cui non vivo lo stesso rapporto… ebbene sì, mi affeziono anche alle cose, io! Per gli stessi motivi, oggi il mio spazio è molto breve, ringrazio tutti coloro che hanno recensito lo scorso capitolo e VI Do UNA COMUNICAZIONE DI SERVIZIO:

Sia io come Cassie Chan Efp sia la storia stessa sono sbarcati su FB!! Il forum purtroppo era di difficile gestione sia per me che per Helder che non avevamo modo di curarlo molto, quindi abbiamo trasferito l’attività su FB, siete ovviamente tutti invitati, qualora vogliate condividere le vostre impressioni sulla storia, ed anche altro!!

Questo è il link della mia pagina, dove potete quindi contattarmi, chiedermi amicizia e simili:

 

http://www.facebook.com/home.php?#!/profile.php?id=100001120873807&v=wall

 

e questo invece della pagina di HALFT:

 

http://www.facebook.com/home.php?#!/pages/Have-a-Little-Fair-Tale-Official-Fan-Page/119669338068092

 

chiedo ancora scusa per la brevità delle mie risposte di oggi, ma davvero, la depressione causa trauma del pc, è una cosa troppo invalidante!!ç_ç Un Bacio Cassie!!

 

 

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Capitolo 26
*** Eternal sunshine of a spotless mind ***


Capitolo 25 – Strangers since yesterday

 

 

Capitolo 26-  Eternal sunshine of a spotless mind

 

Mi sentii onnipotente, invincibile, certa che nulla mi avrebbe più scalfito, quella lontana mattina di cinque anni fa.

Ripenso spesso a quel giorno, come se davvero tutto fosse iniziato e finito lì, e non prima, il giorno che per esempio misi piede al Petite peste.

Ci sono momenti, attimi, in cui la tristezza prende il sopravvento e vorrei non essermi mai svegliata, quel giorno.

Essere rimasta addormentata, per sempre, come una principessa. Non avrei causato danno e fastidio a nessuno, e soprattutto molto del dolore che provo mi sarebbe stato risparmiato. Non è da me, ne sono perfettamente cosciente, infatti è solo una carezza nefasta. Come l’anelito oscuro di abbandonarsi all’oblio, stanchi di lottare.

Inoltre, tutta questa storia maledetta è nata dalla mia incapacità di accettare il dolore, quindi è abbastanza suicida pensarla ancora in questo modo.

Fa meno male vivere ogni giorno questo inferno, che provare anche solo ad evitarlo.

È terribile da dire, ed anche solo da pensare. Quando appello la mia vita come un inferno, dimentico mio figlio e quello che dovrei chiamare mio marito, loro sono così lontani da me. Alex nel fulgore dorato della sua infanzia. E invece lui nella speranza liquida che un giorno tutto sarà diverso. Non lo dice mai, ma ci spera sempre, quando mi lancia quello sguardo sofferto e si corica nella brandina accanto al mio letto. E mi strazia il cuore che lui sia qui, vorrei che fosse libero almeno lui.

Non è giusto nemmeno verso Helder e verso i miei. Ovviamente. Ma, per forza di cose, penso sempre che non sia giusto soprattutto verso la mia famiglia più stretta.

Mio marito e mio figlio.

Poi, invece, ci sono giorni che ringrazio di essermi svegliata, sono persino felice, e ringrazio per quello che, nonostante tutto, ho. Anche se non richiesto, ed anche se non voluto.

Un figlio non voluto. Ed un marito non cercato.

Dura sempre così poco, stemperato dal senso di colpa l’essere felice, se penso a chi non è accanto a me, ma è dall’altra parte della terra, del mare, del tempo e del ricordo.

Resto in piedi per la speranza, quella che in fondo oltre l’effimera felicità e la perdurante tristezza, rimane sempre con me, dopo ogni marea.

Quella speranza. Ha sempre lo stesso nome, lo stesso suono nelle mie orecchie, la stessa vista negli occhi.

Ha sempre i colori di quella mattina tiepida di giugno. La mattina più bella della mia vita e di cui oggi cerco di ricordare solo oro e perla.

È sempre il solo motivo per andare avanti.

La speranza di rivedere te ancora una volta.

Oro e perla.

Solo una volta mi basterebbe per tutta la vita. Sarebbe il sole nel cuore per mille anni.

Rivederti un solo secondo… Draco.

 

Lo Zahir non poteva avere altro che questo aspetto.

Mentre lo guardo splendere attorno al mio polso destro, nella luce sonnacchiosa che filtra dalla finestra, mi rendo conto che effettivamente, se non fosse per il suo particolare aspetto, penserei tranquillamente che l’incantesimo non abbia funzionato e che quello che in realtà indosso non è che un semplice bracciale.

Ma, a parte che, come mi aveva detto Helder, non riesco ovviamente a sfilarlo, è esattamente come avrei pensato che sarebbe stato.

Un serpente.

Attorno al mio polso, la mia colpa inconfessabile si attorciglia nelle forme sinuose di un serpente d’oro giallo, ricoperto di lucide pietre opache di colore verde e nero, a simulare le scaglie dell’insidioso animale. La testa, che si poggia indolente su una vena bluastra del mio polso, quasi come un vampiro smanioso del mio sangue, è triangolare, dai ciechi occhi neri.

Eppure, non mi fa paura. Nonostante sia così terrorizzante che io non riesca nemmeno a muoverlo dal mio braccio, nonostante sia anche abbastanza stretto e, ad ogni mio frettoloso respiro, mi sembra persino che stringa più forte, come se fosse un animale vivo, affamato di nutrirsi della mia anima… non mi fa paura. E il motivo è solo uno.

Ha funzionato.

Con un senso di eccitazione nelle punte delle dita, mi rendo conto che io ricordo tutto. Tutto.

Draco che mi bacia. Draco che mi abbraccia. Le sue parole, le sue espressioni, i suoi silenzi…persino il colore preciso dei suoi occhi e il loro modo assolutamente unico di turbinare in preda alle sue emozioni molteplici…

Ma… ora… è come se non fosse successo a me.

Cioè è ovvio che sia successo a me, ma sento solo nulla, se ci ripenso. Come se mi proiettassero nel cervello la scena di un film, ecco.

Può avermi dato emozione in quel preciso momento, ma poi è stata come rendersi conto di una finzione.

Non ci credo. È meraviglioso…

Trattenendo contemporaneamente le lacrime e le risate isteriche, e l’istinto di mettermi a saltellare urlando che non sono più innamorata di Draco Malfoy, mi chiedo come mai non rendano legale questa meravigliosa pozione… insomma, sai quanti patemi d’animo si risparmierebbero? Uno Zahir per il tradimento di Ron, uno per l’abbandono di Dean, uno per l’amore per Draco… e io sarei stata la donna più felice e realizzata di questa terra! Lo proporrò al Wizengamot, se mai ci entrerò.

Una parte di me mi suggerisce quello che mi direi sempre in questa occasione.

Che il dolore è necessario per fare esperienza, per crescere, per diventare una persona migliore. Ma la metto a tacere con stizza.

Questa parte di me… è piccola, minuscola, ininfluente.

Come no. Saturiamoci la vita di dolore con la vaga promessa che sia utile e necessario, certo. Fino a quando esso inquinerà tutti i ricordi e giureremmo di non aver vissuto un solo giorno felice in tutta la nostra vita.

Mi torna in mente un insegnamento che ci dettero al Corso per diventare Auror.

Quando e se mai fossimo finiti sotto Crucio, sotto il dolore estremo, puro, netto, come una bomba che deflagra nell’organismo fendendo ogni punto… allora la nostra resistenza sarebbe dovuta partire da una frase, quasi un dogma filosofico.

È innaturale per l’uomo cercare il dolore.

Da lì, aperta una breccia per la razionalità, cercare di resistere sarebbe stato più semplice. O perlomeno meno complicato.

Mi ripeto quella frase di fronte alla parte di me che ancora nega che abbia fatto uno Zahir per liberarmi del mio amore per Draco.

Non ci credo di non averla sempre pensata così, persino quando Harry soffriva per la sua cicatrice e per il suo ruolo di Eroe del mondo magico… che stupida… bisognava che arrivassi all’overdose del dolore, per capire che bisognava darci un taglio, anche se in modo decisamente poco convenzionale. Bè, come si dice, meglio tardi che mai.

Almeno non ho ottant’anni e non sono bloccata in un letto. Posso ancora ricominciare a vivere. Senza Draco, finalmente.

Eppure, nonostante questa nuova meravigliosa sensazione di vuoto dentro, c’è qualcosa che non riesco a focalizzare.

La parte di me, piccola e molesta, mi suggerisce che ho lasciato indietro qualcosa… come… un ricordo.

Mi suggerisce anche che, con una strana ansia e calore alla bocca dello stomaco, che ho lottato strenuamente per trattenerlo.

Un ricordo che non ha confini, né contenuto… solo un senso di ricongiunzione. Una parola che la mia mente mi infila tra i pensieri in modo automatico e assolutamente non causale. Come contrario di ciò che, invece, mi ha portato alla creazione dello Zahir.

Stato di quiete dato dalla consapevolezza perenne di impossibilità del raggiungimento del proprio fine… o… ricongiunzione con l’oggetto amato.

Quelle erano le due alternative, per cui incontra una persona indimenticabile.

Cerco di focalizzare la mia attenzione solo su cose prettamente razionali. Quasi con sollievo, mi porto la mano sotto il mento ricordando. Helder mi aveva detto che, nel mio sonno, avrei visto cose di persone che mi circondavano, ma che non avrei ricordato. Evidentemente è qualcosa di simile… ma ha dei contorni così sfumati che non potrei ricostruirlo nemmeno se volessi. E non lo voglio nemmeno, quindi chissene…

In fondo, io ricordo solo odore di tempera fresca… e questo è un particolare così avulso da me e dai miei amici che credo che sia assolutamente poco importante…

Ora basta rimuginare. Ci sono decine di cose che devo fare!

Non mi ero resa conto, nei miei giorni di catalessi post traumatica da sentimento non corrisposto, che la casa fosse nel macello completo, per non parlare poi della mia persona… alzandomi bruscamente dal letto, mi avvicino quasi con cautela allo specchio.

Dall’esame dei miei capelli, che appena presi la pozione erano lavati di fresco e che ora invece sono opachi, deduco che devono essere passati alcuni giorni da quando mi sono addormentata. La conferma mi giunge dalla radio che accendo velocemente, mentre c’è il notiziario. Sono passati ben cinque giorni.

Questo mi fa ricordare di andare subito a controllare la segreteria telefonica. Avevo avvisato Seth, Harry e Ginny che sarei mancata per un po’ con la scusa che sarei andata dai miei, in Italia, ma non dubito che ci siano comunque dei messaggi. Ed infatti ce ne sono tre.

Uno è di Seth ed è il più recente. Preoccupato, mi chiede se sono tornata, perché non rispondo al cellulare e che decidere di suicidarmi in Italia, fa troppo Twilight. Riferimento che sa perfettamente che mi fa imbestialire, considerando quanto odi la saga dei vampiri.

Il secondo è di Hayden. Sorrido come un ebete ascoltando la sua voce cristallina, mentre mi chiede come sto. All’inizio non collego, poi come se emergesse da una lanugine vaporosa, ricordo che l’ultima volta che ci siamo visti, fu quel pomeriggio in cui ci aiutò a ridipingere il Petite Peste.

E in cui io e Draco ci siamo quasi baciati… assurdo che non provi assolutamente più nulla, ricordando quel momento…

Sorrido alla voce di Hayden che si spegne, prima del bip che annuncia il successivo messaggio. Adesso mi sento anche più tranquilla nei suoi confronti, non con la costante sensazione di tradire il mio cuore innamorato in modo disperato, dandomi solo sollievo con la sua compagnia. Ora potrei anche seriamente innamorarmi di lui. Più tardi, devo assolutamente chiamarlo.

Il terzo è quello più strano fra tutti. Harry. E, in questo, non c’è ovviamente nulla di così insolito, nonostante mi abbia contattato con dei mezzi babbani e tendenzialmente lui utilizzi più quelli magici. Ma la prima stranezza è il suo tono di voce, incerto, insicuro, come se mi stesse rivelando chissà che segreto. Persa nell’analisi dell’inflessione della sua voce, fatico a recepire ciò che sta dicendo e sono costretta, al termine della registrazione, a premere nuovamente il tasto play per riascoltarla.

Ciao Herm… sono Harry… sì, sì, proprio io, Harry… ecco, insomma, so che sei in Italia… dai tuoi, in Sicilia, o qualcosa del genere… mi avevi detto che abitano in campagna, poco fuori Siracusa… bene, bene, spero che non faccia troppo caldo… eheheh… ecco insomma, Herm, quando torni, avrei bisogno di parlarti di una cosa… importante… su… su, ecco, su Malfoy… ma, ecco, sarebbe una cosa diciamo segreta, quindi sarebbe meglio che non gli dicessi nulla di questa mia intenzione, penso che mi ammazzerebbe se lo sapesse… vabbè dai quando torni fammi uno squillo. Preferirei la via magica, sai che odio le segreterie telefoniche, ma è il solo modo con cui Ginny non ci ascolti per caso… ci sentiamo, allora, ciao…

Resto con la mano sospesa a mezz’aria, scrollo le spalle e decido di occuparmi delle mie cose.

In fondo, credo che Harry voglia solo parlarmi prima che io mi leghi sul serio a Malfoy, magari vuole mettermi in guardia o cose simili.mi sembrava strano che non avesse già agito, prima… fatica sprecata Harry!

Ho già bello che sistemato tutto.

Un taglio netto… zac! Quindi non lo chiamerò affatto…

Sarebbe un’inutile noia, soprattutto doverlo rassicurare sul fatto che non me ne freghi nulla di Malfoy. Come doveva essere sempre… ma so che, senza nominare lo Zahir, a tutti sembrerà strano che improvvisamente io mi disinteressi di lui.

Immagino che quindi devo essere abbastanza prudente… e forse dovrei anche chiamarlo Harry…

Ma non adesso…! Ora devo pensare solo a me stessa!

Per prima cosa, mi dedico allo studio, cosa che avevo tralasciato in questi giorni. Nonostante la proposta di lavoro di Harry mi sia giunta solamente per tenermi lontana da Draco e liberare lui della mia molesta presenza, ora sono perfettamente in grado di valutarla con adeguata lucidità, senza la sgradita intromissione dei sentimenti per Malfoy. Quindi comprendo ancora che è una grande occasione per tornare nel mio mondo… dove ancora di più, sarò finalmente divisa da Draco per sempre.

Avevo avuto delle enormi difficoltà nello studiare nei giorni passati, restavo immobile a guardare la pagina piena di parole incomprensibili ed ogni singolo concetto, fosse anche il più semplice, mi scivolava come acqua tra le dita. Tutto per Draco.

Riflettevo che passare quell’esame, significava separarmi da lui. E mi mancava forza e determinazione nel compiere quel passo.

Ora, invece, riesco a finire la parte che mi mancava in poche ore. Euforica, mi rendo conto che avrò persino il tempo di fare un paio di ripassi, cosa assolutamente vitale, dato che non ricordo nulla di quanto ho studiato nelle scorse settimane. Sempre per Draco.

Riposto il librone che finalmente ho finito, mi dedico alle pulizie di casa mia, pratica anch’essa divenutami avulsa nelle scorse settimane. La casa mi era diventata estranea, non la sentivo più mia… il meglio che poteva capitarmi era ricordarmi di Dean, mentre la pulivo da cima a fondo. Ed il peggio… ancora Draco… pensavo che ormai casa mia era dove c’era lui. Piuttosto patetico che oramai fosse presente in ogni cosa. Come diamine abbia fatto, ancora non so…

Dopo aver fatto il bucato, lavato i pavimenti, le tende, le lenzuola, le finestre, ed aver spolverato ogni centimetro libero della casa, ammiro il risultato con soddisfazione. Certo, ho ancora pensato a Dean e ha fatto anche male, molto più di quanto facesse prima, dato che non ha trovato la resistenza granitica del nuovo sentimento per Draco, ma ci posso convivere. Infondo, non sono ancora Wonderwoman.

Quindi ci sta che abbia ancora delle questioni irrisolte.

Sistemando la mia camera, ricordo di aver lasciato a metà un libro, che trovo abbandonato sulla scrivania. Anche per esso, Draco.

Le parole che non ti ho detto. Figuriamoci se leggevo dei romanzetti del genere, io. Ma Ginny me lo aveva regalato e non leggere un libro mi è sempre sembrato un crimine atroce, oltre che uno spreco di carta. Ebbene, lo avevo posato definitivamente quando avevo iniziato a chiedermi con insistenza crescente se Draco avrebbe potuto amare ancora dopo Rachel, o meglio dopo Helena Jasmine Greengrass, come succedeva a Garrett, il protagonista del libro.

Possibile che lui si fosse insinuato in ogni cosa?

In tutto?

Gli avevo lasciato tanto posto dentro me? Avevo lasciato che scavasse crepe profonde nel mio essere, senza fermarlo, facendogli varcare senza sforzo e senza resistenza alcuna, persino la mia quotidianità, il mio insieme di abitudini scomposte, le mie manie sciocche, le mie passioni nascoste, i miei vizi inconfessati? Tutto…era diventato il mio tutto.

Meno male che è finita. Non mi sono nemmeno occupata del mio aspetto, convinta che non sarebbe servito a rendermi degna dei suoi occhi di perla, degna del confronto con Rachel. Che idiota.

Per riprendermi, mi faccio un lungo bagno, immergendomi nella vasca da bagno, afferrando il cordless e chiamando tutte le persone che non sento da settimane. Inutile dire che anche questo era dovuto a Draco.

Nessuno poteva capirmi e nessuno era degno di essere paragonato a lui.

Tutto mi sembra così cristallino della turba di pensieri puntinati di confusione delle settimane precedenti, da far quasi male agli occhi.

Alla fine, dopo Ginny, Neville, Calì, qualche amica del corso per Auror e qualche mia amica babbana, riesco anche a chiamare mia mamma. Dio quanto mi mancasse… lei è quasi sorpresa, meravigliata, ma poi è così felice da stringermi il cuore. Mi dice che si trasferiscono in Toscana la settimana prossima, che papà ha voluto mettersi in società con un suo amico per aprire un agriturismo e che ora vivranno lì. Mi invita da lei per quando sono libera ed accetto volentieri.

Chiudo il telefono con un sorriso. Mamma. Almeno nel tuo caso, ero solo io ad essere strana. Draco non c’entra.

Anche se lui… è stato così… totalizzante… assoluto… fosse andata diversamente, non fosse stato lui… avrei giurato che fosse l’uomo della mia vita… che fosse il mio destino…

Sposto distrattamente la schiuma della vasca da bagno con una mano, sospirando. Ora che sono libera, posso anche ammetterlo senza imbarazzo, vergogna e paura. Ho pensato spesso, negli ultimi tempi, che fosse Draco la mia strada.

Insomma, il Grande Amore. Con tanto di maiuscole. Una cosa che provi una volta e poi non sentirai mai più, per nessuno.

E, forse, lo penso ancora, constato con un brivido. Un sentimento del genere doveva essere per forza il più assoluto che potessi provare.

Ma spesso bisogna imparare ad amare ciò che ci fa bene. E Draco, a me, ha fatto solo del male.

Quindi, anche se era l’uomo della mia vita, non ho mai creduto ciecamente al destino. Me l’hanno messo sulla strada? Benissimo.

Tornerò indietro con pazienza e ne imboccherò un’altra.

Non ci sono mai stata a cadere in queste trappole assurde. Il destino, il fato, le anime gemelle e cose simili.

Si può sempre recidere un filo rosso che collega il tuo mignolo a quello di un’altra persona.

Se può farlo la morte, può farlo anche la volontà. E lui, in fondo, credo che abbia sempre visto quel filo rosso collegarlo ad Helena.

E la morte l’ha tagliato di netto.

Ora… se mai sia esistito qualcosa che mi collegasse a lui… lo Zahir lo farà a pezzi per me.

Sollevo il polso, guardando il bracciale che mi incatena il braccio in quella stretta quasi mortale. Sotto il metallo luccicante, la pelle è striata di rosso, fa quasi male, il mio viso si curva in una smorfia. Probabilmente, pensando a Draco, è costretto a fare maggiore lavoro.

Credo che anche Helder mi avesse detto qualcosa del genere.

Non ho bisogno di nessuna supposizione per sapere che sarà ancora peggio, quando Draco sarà davanti a me.

Mi romperà l’osso, probabilmente.

Ma non ho paura…

ancora una volta, tutto… è tutto… lui… stavolta è tutto il mio desiderio che quel filo rosso, fragile e delicato, si rompa per sempre.

 

 

Non mi ero sbagliata. Figuriamoci se poteva succedere, una santissima volta nella mia vita.

Mi mordo il labbro inferiore con i denti, cercando di resistere, ma il dolore sembra persino annebbiarmi la vista. Il buco dentro, però, tace, i lembi quasi accostati, cicatrizzati, come se mi avessero chiuso quella ferita con dei punti di sutura appena in tempo, prima che facesse infezione, intaccando qualche organo vitale. E, questo, è in fondo l’importante.

Sollevo lo sguardo, asciugandomi la fronte sudata per il caldo e per il dolore che si irradia dal mio polso. Lo Zahir mi spezzerà davvero l’osso probabilmente. Ormai aderisce completamente alla mia pelle, stringendola. E, ad ogni passo, la sua stretta è aumentata sempre di più, fino a diventare lacerante quando mi sono fermata davanti alla saracinesca del Petite Peste.

Lui è dietro questa parete.

Apro la borsa, respirando a fatica, e cerco con le dita il foulard rosso che ci avevo cacciato dentro a forza prima di uscire. Lo lego stretto attorno al polso che porta lo Zahir, ci manca solamente che Draco se ne accorga. Non penso che sappia che cosa sia, ma è pur sempre l’ultimo rampollo di una famiglia dedita alle arti oscure. Se lo conosce… bé, sarebbe la fine. Non che gliene freghi granché, di me e della mia vita, ma forse mi butterebbe fuori a calci, temendo per Serenity e per gli altri. Cosa a cui devo stare ovviamente molto attenta anche io, ma non necessito dei suoi consigli.

L’animale, attorno al mio braccio, sembra stringere ancora più forte, se mai era possibile. Quasi come se non volesse essere coperto.

Sospiro lievemente. E ora si va in scena.

Mi ravvivo distrattamente i capelli, legati in una coda alta sul capo, e sistemo anche il vestito rosso che ho indossato, per l’occasione.

Oggi, comunque vada, io dico addio a Draco. Quindi c’è solo da festeggiare.

Peccato che il polso mi faccia così male… sembra che l’osso stia bruciando come carta…

Indosso il migliore dei sorrisi e busso con delicatezza alla saracinesca. È lunedì mattina, quindi è sicuro che ci sia solo Seth.

Infatti, dopo qualche secondo, la bambina sorridente su sfondo blu sparisce davanti ai miei occhi, risucchiata dall’alto.

E Seth compare davanti ai miei occhi: “Tesoro!”, urla e mi abbraccia forte, girando su sé stesso, io che volteggio come una bambola.

Manco non mi vedesse da un anno… che scemo… ma mi fa un piacere così grande che mi viene quasi da piangere.

“Seth!” sorrido a mia volta, quando finalmente mi fa scendere e, prendendomi per un gomito, mi trascina dentro il locale.

“Stai benissimo…!” commenta, facendomi fare una piroetta “L’Italia ti ha fatto proprio bene, la prossima volta porti anche me!”.

“Ma certo…” sorrido alla mia bugia “I miei ne sarebbero felici…”.

“Come stanno?” mi chiede, appoggiandosi allo stipite della porta, e passo qualche minuto a raccontare dei miei. Non ho nulla da inventare, sono le stesse cose che mi ha detto mia mamma al telefono, quindi sono tutte sacrosantamente vere. Ma capisco perfettamente che tutto questo interesse di Seth, ha solo una motivazione.

Sebbene ora per me sia quasi un ricordo sfuocato, deve ancora ricordare con estrema chiarezza l’ultima volta che ci siamo visti.

Quella sera.

Draco che dice quelle cose. Io che crollo. Lui che mi trova. E le lacrime, le urla, le parole sconnesse… e lui accanto a me.

Chissà come si è preoccupato. Per un attimo, sono quasi certa di avere persino una sua immagine negli occhi. Di lui, di Seth. Della sua preoccupazione. Come se… lo avessi visto…

La mia immaginazione è davvero molto vivida, sembra quasi reale…

Seth sospira, quando finisco di raccontare della mia famiglia, e rimane a guardarmi qualche secondo in silenzio, la testa inclinata di lato, quasi in attesa che sia io a rompere quella quiete.

Sorrido in modo caldo, cercando di rassicurarlo, prima di mormorare con voce netta e chiara: “Sto bene, Seth… non ti devi preoccupare… lo dico sul serio, non sto facendo la forte o simili…!”.

“Non ci sarebbe nulla di male…” aggiunge sottovoce, inarcando un sopracciglio scettico “… dopo quello che hai passato, se stessi ancora male…”.

“Lo so” mi affretto a replicare con foga, sollevando le palme. Mi fermo a riflettere qualche secondo, guardandolo. Seth mi ha visto piangere e disperarmi solo qualche giorno fa. Non crederebbe mai che la cosa mi sia passata così velocemente. Penserebbe sempre che fingo per non farlo preoccupare. O che faccio la forte come mio solito. Cambierebbe idea solo se… un guizzo di consapevolezza mi trapassa da parte a parte, dandomi i brividi sulla schiena.

Sospiro, smetterò mai di mentirgli?

Ma, come diceva mia nonna, una bugia a fin di bene, certe volte, vale più di mille verità.

Sorrido, stringendomi nelle spalle, quasi come una bambina colta in fallo.

“Credo di aver esagerato un pochino…” dico a denti stretti, distogliendo lo sguardo da lui “Quella sera, insomma… quando Danny mi ha detto quelle cose… il mio orgoglio si è ribellato e ho reagito in quel modo, ero disperata…”, mi interrompo alla ricerca d’ispirazione e sospiro: “Non sono mai andata dai miei… sono stata con…”, la mia voce si piega, roca ed incerta: “…con Hayden…”.

“Con Hayden?” mi chiede quasi scioccato, staccandomi dalle mie spalle che aveva stretto per consolarmi, come se scottassero.

Gli racconto di aver visto Hayden per caso, snocciolo la storia di come mi abbia consolata e di come sia stata bene assieme a lui, lasciando in sospeso il discorso in modo che possa eventualmente intendere che sia successo qualcosa di più. In un respiro più intenso, dico di avergli mentito perché temevo che potesse malgiudicarmi. Ma, con mia enorme fortuna, Seth è stato sempre un grande fautore della tesi del chiodo scaccia chiodo. E più semplicemente, mi vuole davvero bene. Quindi, per lui, vedermi stare meglio è la sola cosa che davvero conta. E questo mi consola. Poco importa che sia per un ragazzo, oppure per un bracciale che mi sega il polso.

Forse con l’ultima cosa, non sarebbe stato molto d’accordo, se lo avesse saputo, mi stringo nelle spalle, pensandoci.

Se non altro, perché mi ha messo seriamente in pericolo. E dubito, anche adesso, di essere al sicuro.

Ma una piccola ed oscura sensazione, mi dice che anche lui, come Helder, avrebbe trovato dentro la motivazione per capirmi.

Una motivazione tutta sua, certo, ma forgiata sullo stesso dolore che mi scolpisce lo Zahir addosso.

Seth avrebbe capito, alla fine.

Sorrido al suo fiume di parole, mentre mi chiede cose assolutamente personali e poco consone del tipo come bacia Hayden e simili. Alzo gli occhi al cielo di fronte alla sua mancanza di discrezione, ripromettendomi di cercare di saperlo quanto prima possibile.

Lo chiamerò quanto prima posso.

Seth, all’improvviso, si irrigidisce, assume un colorito terreo e mi guarda preoccupato. E, all’istante, lo Zahir preme violentemente sulla mia pelle, mi sembra quasi che spalanchi le fauci e mi morda, lasciandomi due segni indelebili addosso.

So perfettamente che cosa c’è alle mie spalle, senza nemmeno bisogno di voltarmi. Il cuore se ne sta fermo al suo posto, ovviamente.

Gelido, immobile, non fa nemmeno il minimo sforzo a mantenersi normale.

Sospiro di sollievo, rassicurata, sebbene la mia pelle si sia fatta gelida, come quella di un serpente.

Mi volto lentamente su me stessa, e lui è lì, come mi aspettavo, come era ovvio. In piedi davanti alla scala che conduce al piano di sopra, la mano sospesa sul corrimano, ferma. L’altra pende contro il suo fianco, noto subito che è fasciata.

Fasciata.

Una mano fasciata.

Lo Zahir si stringe più forte attorno al polso, fermandomi il respiro. La piccola parte dentro di me, che non so come, sembra immune allo Zahir, urla di strazio e dolore, dentro. La metto a tacere con foga, una mano sul petto che si solleva e riabbassa ritmicamente.

Cosa mai ci sarà di strano, poi, in una mano fasciata…

Seth al mio fianco, lo guarda come se fosse la mia guardia del corpo, pronto a proteggermi, e mi fa sorridere curiosamente. Non credevo che l’avrebbe mai fatto, prendere le difese di qualcuno a scapito di quelle di Draco. Dura, però, pochissimi secondi. D’un tratto, Seth sembra aver colto qualcosa che io non vedo, spalanca gli occhi, guardando prima lui e poi me, leggendo nel suo sguardo come io non ho mai saputo fare. Ci vede qualcosa che sa solo lui, scrolla il capo e si allontana in silenzio. Lo seguo con lo sguardo, non capendo.

“Che ci fai qui?”, la sua voce mi fa sobbalzare, e ritorno a guardarlo. Ha sceso gli ultimi scalini che lo separavano da me.

È sempre bellissimo, come è sempre stato, come era anche prima, come sempre sarà. Lo guardo attentamente.

Ma il cuore resta muto e il mio grande amore resta dissolto. I miei occhi cercano in lui qualcosa che risvegli il sentimento immenso che provavo per lui, qualcosa che crudelmente riapra la voragine dentro, la spalanchi come un inferno, pronto ad inghiottirmi. Ma non succede nulla, ad eccezione dello Zahir che continua a stringere la sua morsa letale. Nulla… come se fossi morta… il prezzo della pace era la morte, l’ho sempre saputo.

Una dolce morte, come recitava persino la formula magica.

I miei occhi lo guardano attentamente, come se davvero ancora cercassi qualcosa. E vedono tutto, come sempre. I capelli biondi spettinati sul viso, che li coprono leggermente gli occhi chiari, grigi, riflessi iridescenti di luna e di perla. Sembra sorpreso, quasi. Ovvio. Era evidentemente convinto di non vedermi mai più, con sua somma gioia. La mano sana stringe forte il corrimano della scala.

“Ci lavoro, o te ne sei scordato?” commento freddamente, schioccando la lingua e dandogli le spalle. È un sollievo dolce potermi comportare così con lui, non essere legata ai suoi occhi, staccarmene quando voglio e credo. Meraviglioso.

In un repentino spostamento d’aria, elegante come è sempre stato, mi afferra per il gomito, costringendomi a voltarmi. Nulla. Ancora.

Nemmeno al tocco della sua mano, nemmeno alle sue dita, nemmeno alla sua pelle. 

“Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro, o ti sei persa qualcosa?” sibila, guardandomi. Qualcosa, però, non mi sfugge, ora che lo guardo con così forte chiarezza, dato che non ho sempre il terrore di essere imbarazzata. Ora che non lo amo più.

Qualcosa in lui… è cambiato. Decisamente. Non riesco a focalizzare cosa, magari il mio vecchio amore avrebbe potuto, e poi nemmeno sento di volerlo compiutamente. Non me ne frega nulla. Sbatto le palpebre, sempre il nulla. Consolante.

Eppure, non posso fare a meno di notare che la presa sul mio gomito non è salda e forte come sempre. Anzi… sembra… tremare.

Tremare… sta tremando… trema alla prospettiva che io sia ancora qui.

Scuoto il capo mentre la piccola parte si chiede il perché. Io preferisco soprassedere.

Guardandolo bene, mi accorgo che ha un’aria semplicemente stravolta. Esausta, come se non dormisse da giorni.

Gli occhi sono profondamente cerchiati, appesantiti dalle palpebre violacee, e hanno perso tutto il loro argenteo splendore che tanto mi incantava, non so se mille anni fa, oramai. Le labbra sono strette in una fessura, le narici fremono, ed un’ombra scura sembra che si sia rappresa ancora di più nel suo sguardo, rendendolo quasi cieco. È come guardare le orbite vuote di un teschio.

Mi farebbe quasi paura, in circostanze normali, ma lo Zahir seda ogni emozione in sua presenza. Non sento paura, né amore, né tantomeno il così sconveniente ed imbarazzante desiderio che avevo di lui. Nulla, davvero. Come se mi stringesse il vento.

“Non mi sono persa nulla del tuo patetico discorsetto, Malfoy…” sputo fuori con astio, divincolandomi dalla sua stretta, lo vedo quasi trasalire al contatto con i miei occhi freddi. Ora tremano anche gli occhi, ma sembra sempre una statua di pietra. Riprendo come se niente fosse: “Mio malgrado, aggiungerei... perché mi hai riempito le orecchie di sciocchezze per ore, senza nemmeno farmi parlare…”.

Mi guarda come guarderebbe una persona che ha visto per la prima volta, questo è il suo sguardo. Scioccato e quasi inorridito. Per un attimo, la mia mano corre sul polso destro, a celare lo Zahir che pulsa come una creatura viva, come se lui potesse davvero accorgersi, solo guardandomi, di ciò che ho fatto e del fatto che sia lì.

Tutto però, per pochissimi istanti.

Poi, come sempre, è bravissimo a celare quella sorpresa sotto strati di menefreghismo. Inarca un sopracciglio e mi guarda, incrociando le braccia: “Cosa avresti voluto dire, allora?” commenta malevolo. Ancora noto però qualcosa che stride con la sua espressione. È strano, non saprei come spiegarlo. Le parole vanno in una direzione, la tensione del corpo eretto e immobile in un’altra. 

Le parole… e il corpo… come… un dipinto… e la sua… intenzione…

Lo Zahir si avviluppa meglio attorno al mio polso, mentre cerco di ricordare ancora quel frammento di tempera che mi è tornato in mente.

Vedo che mi sta ancora guardando, quindi mi affretto a replicare tagliente: “Non puoi prendere e cacciarmi così… se sono qui, sono sempre stata per tre motivi. Seth, Serenity ed April… come puoi notare non figuri nell’elenco… potrei anche nominare Trey, Lawrence e Corinne, sforzarmi di considerare anche Lorna e Gail, per finire con quello che ci consegna i giornali e la pianta nell’ingresso… ma tu, Malfoy, non sei mai stato uno dei miei motivi… quindi fattene una ragione, se scelgo di rimanere ancora per dei motivi che non riguardano minimamente te… sei sempre stato un po’ troppo egocentrico…”. Mi volto di schiena, dandogli ancora le spalle.

“Vuoi dire forse che non sei innamorata di me?” la sua voce tenta di deridermi, come se volesse umiliarmi, ma ancora qualcosa stride.

Cosa, dannazione?

Perché ora mi è così difficile capire? È qualcosa… che anche Seth ha visto… qualcosa che ad un cuore narcotizzato non arriva. 

Non mi interessa, ovvio, ma cosa è… che…ora non colgo?

Dura, replico con ovvietà, senza nemmeno voltarmi: “Non dire sciocchezze… mi avessi fatto parlare, avresti saputo anche questo…”.

“Cosa?” la sua voce è flebile, è come se nemmeno l’avessi sentita. Mi volto sconcertata, sperando che il mio cuore torni in vita solo per capire quella contraddizione che sento nelle orecchie, ma che non so spiegare. Quella contraddizione che sono anche i suoi occhi che, sono certa, essere stati diversi fino a qualche secondo prima, ma che ora sono di nuovo inaccessibili. Ha rimesso la maschera al suo solito posto. Una maschera che cela qualcosa. Quasi… urgenza.

Urgenza che io vada via.

Gli sono così insopportabile? Bene, la cosa è reciproca.

“Non sono mai stata innamorata di te…” sussurro atona, guardandolo male, lasciando i suoi occhi a splendere di misteri che non voglio più conoscere “Non so nemmeno come hai potuto pensarlo…”.

Mi volto ancora, senza concedergli replica, lasciando la stanza.

Il filo rosso è reciso.

 

 

Un piccolo sobbalzo mi fa aprire repentinamente gli occhi, che si erano chiusi senza che nemmeno me ne accorgessi.

“Scusa” una voce soffice e dolce mi raggiunge le orecchie, dalla mia destra.

Mi stropiccio gli occhi velocemente, mettendo a fuoco l’immagine che ho davanti, riemergendo dai miei sogni confusi, ancora l’odore della tempera, il senso quasi di uno strappo all’altezza del cuore.

Mi guardo attorno. Una macchina rossa, su un’autostrada deserta che corre sul mare. Il sole che si tuffa nell’acqua, tingendo il cielo di riflessi corallo. Lontano, verso Londra, alcune nuvole si addensano minacciose, qualche lampo sembra brillare nel grigio spezzato di rosso.

Mi volto leggermente, sorridendo: “Mica è stata colpa tua… anzi scusami se mi sono addormentata…”.

Hayden sorride, continuando a guidare e non distogliendo lo sguardo dalla strada: “Non dire sciocchezze… anche a me il sole fa lo stesso effetto…”.

“Non è che ti fai prendere dal sonno e ci schiantiamo contro un albero?!” borbotto, incrociando le braccia.

Hayden alza gli occhi al cielo, mormorando: “Piuttosto controlla se la bambina sta dormendo… sinceramente è di lei che mi preoccupo maggiormente… se non altro, per suo fratello…”.

Mi sporgo oltre il mio sedile, verso il seggiolino sistemato dietro. Serenity sonnecchia tranquillamente, la testa leggermente piegata sul collo, il piccolo cappello di paglia con un fiore azzurro ben calato sulla fronte. Si è così divertita da stamattina. Se mi avessero detto che avrei avuto la possibilità di trascorrere una bellissima giornata al mare con Hayden e Serenity, bé probabilmente sarei scoppiata a ridere. Con Hayden, l’idea non era certamente così improbabile come si potrebbe pensare, avevo deciso di chiamarlo e l’ho fatto. E lui mi ha proposto di trascorrere una giornata sulla spiaggia di Southened-on-the-sea, a un’ora da Londra. Ho accettato volentieri, lui è sempre pieno di idee e di proposte, ed anche il mare, devo ammetterlo, mi mancava molto.

Quello che, invece, è stato meno ovvio, è che stamattina nessuno poteva occuparsi di Serenity.

Draco, dopo l’illuminante conversazione con me, se ne è andato senza dire a nessuno quando sarebbe tornato. Probabilmente, aspettando semplicemente da qualche parte che io me ne tornassi a casa. Seth aveva delle cose importanti da fare, mi sa che veniva sua madre a trovarlo e quindi doveva rivoluzionare il suo appartamento, non si sa per quale balzana ragione.

Ed April aveva un esame. Quindi insomma, Serenity sarebbe rimasta sola.

Quindi l’ho portata con me. E, devo dire, di aver fatto benissimo.

Draco continua a vivere la vita come una specie di dovere, verso Helena. Non fa mai niente più del necessario, quindi nemmeno Serenity si diverte moltissimo quando è con lui. O perlomeno credo. Che io sappia, la porta al parco, se è di buon umore, sennò la tiene in camera sua e, se non fosse per me, Seth ed April, quella bambina diventerebbe fotofobica a furia di trascorrere le sue giornate al buio.

Invece al mare, con Hayden, si è divertita tantissimo. Credo che non avesse visto nemmeno il mare. Batteva i suoi piedini sulla sabbia, mentre io la tenevo ferma per le braccia, ridendo ad ogni onda che la bagnava. A mia volta, mi sono sentita felice e serena, guardandola.

Ed ancora una volta, la promessa di non lasciarla nonostante tra me e Draco sia finita, si è fatta sempre più forte.

Con Hayden, poi, come sempre, è stato tutto meraviglioso. Mi calma dentro, come sempre, ed ora di più grazie allo Zahir.

Vederlo in costume di bagno, è stato già un colpo troppo forte per i miei ormoni impazziti; mezza spiaggia si è girata nel guardarlo mentre avanzava verso di me, tipo modello Dolce e Gabbana, sorridendo ed accendendo lo sguardo di lucciole giada. Devo aver perso la saliva una quarantina di volte nel guardarlo, specie chiedendomi che razza di fortuna mi sia capitata nell’avere vicino un ragazzo del genere. Non che essa non mi sia evidentemente dovuta, considerando che ho passato con Draco, ma insomma, è decisamente troppo per me. Per non parlare del mio meraviglioso aspetto in costume da bagno, circondata da una sfilza di ragazze che dovevano sicuramente far parte del campionario di Vanity Fair e che ronzavano tutte attorno ad Hayden, mentre io cercavo contemporaneamente di stare dritta per non mostrare la mia pancetta e di inarcare la schiena per mostrare un seno che, ovviamente, non è all’altezza della schiera di arpie siliconate. Le tipe si sono, ovviamente, sciolte quando Hayden ha mostrato di saperci anche fare con Serenity, cosa abbastanza intuibile visto che Nathan, suo fratello, non è molto più grande di lei. Non avevano inserito Hayden nel loro radar di caccia, con l’etichetta: “Ottimo partito” solo perché lui stava con me. E, ad un certo punto, ha dato la netta impressione di stare anche fidanzato con me. Mi porto le mani sul volto surriscaldato, cercando di non farmi vedere da lui, ma per fortuna è impegnato nella guida. La musica bassa di Alanis Morissette riempie l’auto, quindi non sta nemmeno parlando. Posso tranquillamente tuffarmi nelle mie fantasie.

Stavamo per mangiare ed avevo preso Serenity in braccio per portarla all’ombra, visto che aveva già preso decisamente troppo sole. E ci mancava solo che Draco mi rimproverasse anche per quello, visto che nemmeno credo che prenderà bene che io abbia rapito Serenity, peraltro per farle trascorrere una giornata con Hayden. Improvvisamente, mi ha fermato con la voce, facendomi voltare su me stessa. Rapido, la brezza marina che gli scompigliava i capelli, mi ha preso il viso tra le mani calde e mi ha sussurrato dolcemente: “Oggi l’ombra non l’ho vista nemmeno una volta… la sua ombra… sai che significa?”.

Ho scrollato il capo, cercando di non andare in iperventilazione, mentre Serenity metteva su un capriccio assurdo. Cosa strana, considerando che era stata tranquilla fino a cinque secondi prima.

Si è avvicinato di più, sfiorandomi le labbra con le sue, bruciandomi la pelle con il suo respiro fresco, prima di sussurrare morbidamente: “Significa che devi stare molto attenta… perché potrei baciarti ancora… e stavolta, per bene… non mi sognerei più di fare altri regali a Danny Ryan, dopo che ti ha lasciato andare via da lui…”.

Ho deglutito un paio di volte, prima di sussurrare: “Credo che correrò il rischio…”, poi la mia voce si è piegata mentre bisbigliavo: “Non mi ha lasciato andare via da lui… è difficile con una cosa che non è mai stata sua, Hayden…”.

“Non sei mai stata sua?” mi ha chiesto con l’ombra di un sorriso triste, staccandosi da me.

Mi sono irrigidita, mentre la risposta sincera che avrei voluto dargli, riempiva la mia mente.

Sono sempre stata sua e lo sarei ancora se non fosse per lo Zahir. Lo sarei stata per sempre.

Anzi, il per sempre sarebbe stato un tempo irragionevolmente breve per descrivere quell’appartenenza…

Invece, ho solo sorriso dicendo di no con il capo.

La piccola parte, la solita piccola parte, quella briciola di cuore che lo Zahir non tocca e che lo fa stringere forte sul mio polso, aveva echeggiato un ricordo ormai stantio e sbiadito.

… se fossi mia, potrei essere geloso, ma non così…   

E mi sono detta che aveva ragione. Io non sono mai stata sua. Nemmeno quando ero innamorata di lui.

E quella che mi era sembrata una bugia o almeno un’omissione, mentre parlavo con Hayden, è diventata la verità. Lo è la verità.

Ora, mentre mi porto le ginocchia al petto, gettando un’occhiata in tralice ad Hayden che so già che sta sbuffando perché odia che metta i piedi sul sedile, aspetto la prova del nove. Lui mi bacerà quando arriveremo a Londra. E, probabilmente, allora, davvero capirò se lo Zahir ha cancellato del tutto Draco dalla mia mente e dal mio cuore. Poggio il mento sulle ginocchia, chiudendo gli occhi.

Non sono mai stata una persona promiscua nei sentimenti. So che nel mio cuore c’è posto per una persona alla volta.

Se riuscirò ad essere felice baciando Hayden, Draco sarà del tutto fuori da me.

Improvvisamente, ad interrompere le mie riflessioni, giunge come sempre in questi momenti il suono del mio cellulare. Mi scuoto come una tarantolata, visto che l’avevo messo in tasca con la vibrazione per non far svegliare Serenity, e lo estraggo a fatica. Hayden ride delle mie manovre buffe, faccio una smorfia e lui abbassa il volume della musica, già basso per non svegliare la piccola, per consentirmi di parlare. Sul display compare il nome Harry. Ma poteva anche comparire anche il nome Draco. Tanto è di lui che mi vuole parlare.

Mi mordo il labbro inferiore, iniziando già ad innervosirmi. Il fatto che non provi più nulla per lui, non significa che adori parlare di lui.

Sospiro, lo Zahir alla fine mi dà la forza sufficiente di non ignorare la chiamata, anche perché non saprei come spiegarlo ad Hayden. Inoltre, non penso di schiodarmi così facilmente Harry di dosso, se non togliendomi il dente adesso.

Con un sospiro, premo il tasto verde e dico scocciata: “Pronto? Harry? Dimmi…”.

“Ciao Herm!” la sua voce trilla allegra ma al contempo incerta, e mi chiedo chi diamine glielo faccia fare di parlarmi di Draco se non ne ha voglia nemmeno lui. Mi lasciava tranquilla e nessuno se ne sarebbe rattristato.

“Hai trovato il mio messaggio?” mi chiede senza troppi giri di parole, evidentemente vuole arrivare subito al punto, o forse c’è Ginny nei paraggi e quindi non è del tutto libero di parlare.

“Sì…” schiocco la lingua ancora infastidita, guardando fuori dal finestrino ed attorcigliandomi nervosamente una ciocca di capelli attorno alle dita. Hayden mi guarda preoccupato, ma gli sorrido cercando di rassicurarlo.

“E come mai non mi hai chiamato?” mi chiede velocemente, quasi stizzito, come se stesse facendo uno sforzo immenso e io non fossi sufficientemente grata “Pensavo che Draco Malfoy fosse, insomma, un tuo tasto dolente…”.

Una voragine di desolazione è Draco Malfoy, non un tasto dolente…” commento sarcastica, alzando gli occhi al cielo. Mi rendo conto di aver usato davanti ad Hayden il suo vero nome, ma forse è anche meglio così. Crede che stia parlando di una persona diversa da Danny Ryan ed almeno evita di preoccuparsi inutilmente per lui o pensare che, in qualche modo, gli sia ancora legata. 

Continuo con voce annoiata: “E questo dovrebbe deporre per la tesi che, se non ti chiamo per non sentire parlare di lui, sono perfettamente normale… più che se avessi la smania di infliggermi una noia simile, per non dire altro… comunque dimmi…”, mi interrompo mentre mi si accende una lampadina nel cervello. Mi darei anche una manata sul capo, ma sarei troppo teatrale.

Ecco che vuole Harry.

La conversazione che ebbe con Draco quel giorno, mentre io ero, diciamo, in coma.

Quella che lui puntualmente mi ha mostrato. Evidentemente Harry si sente in colpa e vuole vuotare il sacco. Che cosa inutile, l’avesse fatto qualche giorno fa, avrebbe anche avuto effetto, se almeno mi avesse risparmiato quella scena. Ma, conoscendomi, non avrei mai lasciato perdere Draco, se non fosse accaduto quello che è accaduto.

Avrei lottato fino all’ultimo secondo per lui, considerando quanto fossi follemente e disperatamente innamorata di lui.

Ma ora, è davvero tutto inutile. Per molti sensi. Il primo dei quali è che quelle dannate parole, oramai, le ricordo una per una.

Ora fa male solo l’orgoglio. E prima… bé, credo che fosse più facile dire che cosa non mi facesse male a quel pensiero.

Quindi tutto quello che poteva fare, per evitarmi quel pensiero, è dannatamente inutile. Avrebbe dovuto pensarci prima di allearsi con quella serpe per avvelenarmi il cuore e la vita, fino a metterla nelle fauci spaventose, eppure rassicuranti, del serpente aureo che mi cinge il polso con sempre maggiore bramosia del mio sentimento malato.

So che non è colpa di Harry, razionalmente lo so. Ma avrebbe dovuto portarmi via da lì, anche con la forza, con quello che sapeva.

Non permettermi che mi innamorassi di lui, no. Ma che dico… innamorarmi… lo uso come verbo per schermare quello che era quel sentimento per me. Mi sembra più leggero parlare di innamoramento. Ma io non ero innamorata di Draco Malfoy.

No, troppo semplice.

Io, se lo avessi visto e ci avessi parlato, non gli avrei detto, in una paradossale ed impossibile conversazione, che ero innamorata di lui.

No.

Avrei piegato la voce in un accento più roco, per nascondere l’inevitabile imbarazzo, mentre lui avrebbe piegato la testa di lato, guardandomi, come faceva sempre, cercando di leggere l’intricato corso dei miei pensieri, senza poterci riuscire. Forse mi avrebbe anche messo una mano sul viso, accarezzandomi la guancia, chiedendomi che cosa stessi per dire. E io, senza alcuna esitazione, nascondendo il viso rosso, avrei detto solo una cosa. Una. Semplice e limpida come un’alba.

Ti amo Draco.

È una scena, una fantasia che, non so come, mi perseguita ancora, il residuo di un sogno che un brusco risveglio non ha portato via.

Forse mi verrà dietro per sempre, come un’ombra.

Dopo questo, dopo la facilità con cui quel ti amo si era formato nel mio cuore per Draco, quando non era mai nato per Dean o era sempre riottoso per Ron, Harry davvero non ha più niente da fare per potermi aiutare.

Mi sono aiutata da sola, suicidandomi nel creare un oggetto proibito da generazioni. Chiudo gli occhi oberati dalle solite lacrime che neppure il potere dello Zahir potrebbe evitare, lo sento pulsare sopra il mio polso con foga come se avesse un cuore anche lui.

Intanto Harry ha iniziato il suo discorso, senza che me ne accorgessi: “Quando eri in coma, io e Malfoy abbiamo parlato… di te… non credevo minimamente che fosse possibile una cosa del genere… che un giorno avrei parlato con lui di te… ma ad un certo punto si era fatto inevitabile con te che vivevi anche a casa sua, sotto lo stesso tetto, ammetterai che è strano…”.

Annuisco, senza riaprire gli occhi. Ho decisamente pochi secondi di sopportazione, prima di interromperlo.

“E lui… aveva un’idea ben precisa di come si dovessero mettere le cose con te…” sussurra Harry con voce spezzata “Doveva chiuderle, prima possibile… per quello… insomma, è stato per quello che ti ho offerto quel lavoro… ma ora mi sembra così assurdo, insomma, te ne dovevo parlare Herm…alla fine ha deciso per tutti e due… e, so che mi fa senso anche pensarlo, ma se sei innamorata di lui, insomma…”. Riapro gli occhi stancamente, che diamine sta dicendo?

“Harry, ascolta…” comincio, interrompendolo “Draco mi ha già detto tutto… e non ti devi preoccupare, va bene così…”.

“Ti ha detto tutto?!” mi chiede autenticamente sconvolto, come se fosse stato punto da un insetto, devo anche staccare il telefono dall’orecchio per come ha gridato. Stare con Ginny, da questo punto di vista, gli sta facendo decisamente male.

Ancora più scioccato, bercia con voce affrettata: “E tu sei d’accordo? Insomma… che ti mandi via e tutto il resto?”.

“Ho qualche alternativa?” commento acidamente. Non capisco che cosa diamine pretenda da me. Mi agito sul sedile per il nervosismo, lo Zahir prende quasi a muoversi, la sua presa sempre più forte che mi ferma la circolazione nelle vene. Hayden mi fissa preoccupato.

“Solitamente non avresti reagito così… insomma lui ti dice che è… ancora non ci posso pensare… e tu lasci perdere…” riprende Harry, dandomi ancora più i nervi, lo ascolto a fatica oramai, poi quasi come se parlasse a sé stesso, chiede: “… ma sei innamorata di lui almeno?”.

Mi stringo nelle spalle, a disagio, prima di sputare con veleno fuori: “No… né mai lo sarò… puoi anche ribadirlo a lui…”.

Lo sento sospirare prima di dire: “Ah capisco… quindi alla fine… sta facendo una cosa inutile…”.

“Bravo, esattamente…” mi congratulo con sarcasmo, lui continua a cianciare per un altro po’ fino a quando la sua voce sembra diventare persino comprensiva nei confronti di Draco. Ed è esattamente allora con le mani che mi tremano, che dico che ho da fare e riaggancio.

Mi porto le mani nei capelli sudati, respirando a fatica, lo Zahir che finalmente molla un po’ della sua presa.

“Tutto bene, Herm?” mi chiede Hayden, con voce preoccupata, distogliendo l’attenzione dalla strada. Sul vetro, iniziano a cadere delle pesanti gocce di pioggia con tonfi sordi, mentre si avvicinano le prime costruzioni di Londra.

Sorrido, nascondendo il viso dietro i miei capelli: “Certo, tutto benissimo… solo un mio amico…”.

“Anche Draco Malfoy è un tuo amico?” mi chiede con voce monocorde “Ci sono un po’ troppi amici nella tua vita…”.

“No, Draco Malfoy non è decisamente un mio amico…” sussurro inespressiva, guardando fuori dal finestrino “Non è decisamente nulla per me…”.

Nulla di diverso da una condanna a morte che mi porto costantemente dietro.

Nulla di diverso da questo.

 

 

Per arrivare al Petite Peste, ovviamente ci mettiamo un’altra ora abbondante, visto il traffico e la pioggia che ha iniziato a cadere in modo imprevisto. Serenity inizia anche a piagnucolare per i tuoni, quindi mi sporgo dietro per liberarla dal seggiolino e prenderla in braccio.

Lei si accoccola, poggiando la testa sul mio petto, e dopo qualche secondo, si riaddormenta.

La telefonata di Harry mi ha fatto completamente dimenticare l’eccitazione per il mio, forse, imminente bacio con Hayden, caricandomi di pensieri negativi e nervosismo, oltre che di un formicolio diffuso che mi fa sentire un’avversione innaturale per Malfoy, ben diversa dalla placida calma che avvertivo prima. Al momento, credo quasi di odiarlo per il solo fatto che esiste e non mi lascia in pace.

Quindi, passo il tempo restante del viaggio, in silenzio, accarezzando distrattamente la testa di Serenity e cercando di liberarmi di questa sensazione negativa, amplificata dallo Zahir che, sebbene non stia direttamente pensando a Draco, mi cinge senza sosta.

Con la coda dell’occhio, vedo Hayden fissarmi di tanto in tanto, evidentemente convinto che la telefonata di poco prima mi deve aver sconvolto in qualche modo. Vorrei rassicurarlo, ma probabilmente mi chiederebbe troppe spiegazioni che, al momento, non sono in grado di fornire a chicchessia. La prima sarebbe perché Draco Malfoy anche indirettamente, non mi lascia mai in pace, perché esiste e perché, quella sera di quasi ventiquattro anni fa, Lucius e Narcissa Malfoy non siano andati ad una partita di Quidditch o a fare una caccia al babbano, invece che mettersi a generare quello che oramai per me, è alla stregua dell’Anticristo.

La seconda è perché quello che si presuppone essere uno dei miei più cari amici, esprima comprensione per l’Anticristo in questione e non per me, specie se tale nobile sentimento viene manifestato per il fatto di aver scelto di mandarmi via, dopo aver candidamente ammesso di avermi sempre usata, sfruttata e soprattutto umiliata, visto il mio essere un individuo estremamente masochista e deviato per essermi andata ad innamorare proprio di un tipo del genere. Davvero, non capisco. Mi mordicchio con ansia il pollice della mano.

Harry deve essere impazzito del tutto… non che lo abbia ascoltato bene, anzi…

Ma visto il tono con cui lo diceva, sono anche contenta di non averlo ascoltato. Mi avrebbe fatto venire voglia di ucciderlo seduta stante.

Sobbalzo quando l’auto si ferma improvvisamente. Sollevo lo sguardo, il Petite Peste… non mi ero accorta che ci eravamo già arrivati.

“Sei sulle nuvole?” mi chiede Hayden, spegnendo il motore e guardandomi.

“Un pochino sì… scusami…” ammetto, stringendomi nelle spalle.

Hayden agita la mano destra con noncuranza: “Non importa… tranquilla…”.

“No, davvero, scusami… è che Harry… un mio amico…insomma mi ha fatto innervosire…” biascico, sbuffando. Avrei anche incrociato le braccia se non avessi avuto Serenity.

Hayden ride, divertito dalla mia espressione: “E cosa, al mondo, esattamente non ti fa innervosire?! Da quando ti conosco, ti sarai così casualmente innervosita per almeno ottomila trecento cose diverse…”.

“Non è vero!” sbuffo, con aria infantile. Vorrei potergli dire che l’argomento di cui mi ha parlato Harry, è quello che mi fa imbestialire di più al mondo, ma mi trattengo. Mi farebbe troppe domande. Dove finiremmo inevitabilmente per giungere al punto che Draco e Danny sono la stessa dannata ed infame persona.

Lui mi tocca la punta del naso con un dito, prima di suggerirmi di portare prima dentro Serenity, per poi scaricare la nostra roba dal portabagagli, in modo che la piccola non si bagni.

“Hai così terrore di suo fratello?” chiedo con un mezzo sorriso, guardandolo, mentre cerco di coprire Serenity con la mia giacca.

“Intendi di Danny?”.

Annuisco con il capo, sembra sempre preoccupato che qualcosa lo faccia arrabbiare specie per Serenity.

“Non voglio che se la prenda con te, ecco…” mormora con un sorriso.

“Guarda che lo metterei a posto in cinque secondi, forse tre…”.

“Lo so perfettamente, Hermione…” sorride, aprendo lo sportello e riparandosi alla bell’e meglio “Ti ho già detto che non voglio dargli occasioni di riavvicinarsi a te, non per altro…”, la sua voce si abbassa di tono mentre mi guarda fisso, dicendomi: “… mi sembra ancora così assurdo che ti abbia allontanato da te… e forse, se capitasse la giusta occasione, se ti avesse di nuovo davanti agli occhi… bé, lo capirebbe…”.

“E’ la cosa più logica invece che abbia fatto…” mormoro con voce incolore, fissandomi le unghie della mano “Avrebbe dovuto farlo prima… e non penso che capirebbe nulla, se mai ci fosse da capire qualcosa…”.

Hayden improvvisamente tace, sento che vorrebbe dire ancora qualcosa, ma mi esorta a portare dentro Serenity.

Annuisco ed esco dalla macchina, correndo sotto la pioggia. Busso la porta con forza, ma nessuno mi apre. Vero, non ci dovrebbe essere nessuno. Per fortuna che, dopo qualche colpo, si apre da sola, quindi riesco ad entrare. Sistemo delicatamente Serenity sul divanetto dell’ingresso, coprendola con la mia giacca, per fortuna è asciutta mentre io sono bagnata fino al midollo.

Già che ci sono, ovviamente, torno indietro per aiutare Hayden, il portabagagli si è incastrato e quindi, in capo a pochi minuti, siamo entrambi colati. Scoppio a ridere, guardandolo, mentre cerca inutilmente di aprirlo e contemporaneamente cerca di ripararsi dalla pioggia. Lui mi guarda con gli occhi ridotti a due fessure, per poi scoppiare a ridere anche lui, probabilmente a causa dei miei capelli, che somiglieranno ad una specie di balla di fieno. Sbatto le palpebre sotto la pioggia battente, cercando di vedere, prima di dirgli di lasciare perdere il portabagagli e che cercheremo di riaprirlo dopo. Corriamo nuovamente sotto la pioggia, fino a rifugiarsi dentro il Petite Peste.

Serenity, per fortuna, dorme ancora. Accendo la luce sulla scrivania di Draco, appena dopo l’ingresso, e vado a cercare un asciugamani al piano di sopra per asciugare almeno un pochino Hayden. Lui mi aspetta di sotto, fermo sulla soglia per evitare di bagnare ulteriormente il pavimento. Dopo averlo preso, torno velocemente giù. Lui si guarda attorno e mi fa sorridere ancora.

“Dai, vieni qui, sei zuppo…” sorrido, avvicinandomi.

“Sì, mamma…” borbotta lui, piegandosi leggermente sulle ginocchia per arrivare alla mia altezza. Friziono con foga i suoi capelli bagnati in modo che si asciughino, e lui continua a borbottare perché lo sto facendo con troppa energia.

“Neanche fossi una specie di cane…” mormora, da sotto di me.

“Smettila! Ti prenderai un raffreddore!”.

“Se è per questo anche tu…” commenta, sollevando un lembo bagnato della mia maglietta. Un brivido mi scuote dalla testa ai piedi, e non c’entra assolutamente nulla il freddo. Concentrata, continuo ad asciugare i suoi capelli.

Improvvisamente la sua mano calda si chiude sul mio polso, per fortuna non su quello che ancora cela dietro il foulard rosso lo Zahir, costringendomi a fermarmi. I suoi occhi verdi ricompaiono sotto l’asciugamano.

“Dimmi…” sussurro, mentre lui ritorna alla sua solita altezza, sollevo leggermente il capo.

Il suo sguardo è assorto, concentrato, come se stesse guardando ogni singolo pensiero, per studiarlo e ricavarne implicito assenso a ciò che sta per fare. Mi stringo nelle spalle, imbarazzata, l’asciugamano scivola sulle sue spalle, fino a cadere dalle mie dita, sfiorando il pavimento. La mia mano resta sospesa a mezz’aria, la sua mano libera la stringe poggiandola sul suo petto.

Il suo cuore batte forte sotto la stoffa della maglia bagnata, mi si riscalda la pelle, nonostante quel freddo e quell’acqua.

La apro lentamente, i miei occhi fissi su di essa per sfuggire ai suoi che mi metterebbero in troppa soggezione ed imbarazzo.

Se sapesse che cosa c’è in ballo, per me, in questo momento… praticamente tutto…

Risollevo gli occhi timidamente, si sono fatti di nuovo umidi, anche se non vorrei. La sua mano si poggia sul mio fianco, anch’essa mi riscalda come se lui fosse fatto di fuoco e io mi fossi fatta ghiaccio, tutto attorno mi sembra che il tempo stesso abbia smesso di respirare.

In attesa.

Mi attira piano contro di sé, ogni movimento è uno sguardo che cerca consenso, come se temesse di spezzarmi da un momento all’altro.

Eppure, nonostante tutto, mi sento pronta, tranquilla, serena, anche se il cuore mi batte furioso nel petto, come un passerotto in gabbia che spiega inutilmente le ali piccole e fragili. Persino l’acqua che mi bagna ancora, la sento come se si fosse fatta tiepida, procurandomi una serie di piccoli brividi sulla schiena. Si ferma la sua mano sulla mia schiena, quando oramai il mio corpo aderisce perfettamente al suo, il mio e il suo cuore già si baciano dolcemente, infondendo calore il suo e perdendo gelo il mio.

L’altra mano lascia il mio polso, raggiungendo l’altro mio fianco, sfiorando la pelle nuda che la maglietta lascia scoperta, mentre mi alzo in punta di piedi. La mia stessa mano, senza controllo, raggiunge la sua nuca mentre lo avvicino di più a me.

Chiudo gli occhi, un attimo prima che il mio viso raggiunga il suo. Sento sotto le mie le sue labbra calde, morbide, un sapore che mi sembra quasi conosciuto, eppure che so di non aver mai sentito. La frescura di una lacrima bagna la mia guancia rovente, scivolando tra le nostre labbra unite. Sale e miele nello stesso momento.

Timido, dolce, leggero, come un’alba di settembre.

Le mie labbra si adattano velocemente alle sue e, prima che me ne rendo conto, già si schiudono piano, pronte ad accogliere le sue con maggiore intensità. La sua stretta si fa più salda contro la mia schiena, mentre anche le sue labbra si aprono dolcemente, ogni passo è lungo quasi come un anno, come se si rendesse conto di toccare un qualcosa di così evanescente che potrebbe sparire tutt’un tratto.

E gli sono così grata che altre lacrime rotolano ancora, dai miei occhi chiusi.

Lentamente, il bacio cresce d’intensità, la mia mano corre tra i suoi capelli, stringendolo ed avvicinandolo di più a me, le sue mani che corrono lungo la mia schiena, velocemente, ormai non più timide o incerte. Sfiorano i miei fianchi, ritornano al mio viso, come una marea in cui flutto senza accorgermene. Finché anche la mia lingua cerca e trova la sua, finché danzano assieme, ritrovandosi e perdendosi l’una vicino all’altra, finché il suo sapore si fa il mio. Inarco la schiena, annebbiata, fremente, pronta a qualsiasi cosa che possa venire dopo questo. Lo sento sussultare di fronte al mio impeto improvviso, ma lo sento volermi come lo voglio io adesso. Tremano le sue mani contro la mia schiena e tremano le mie attorno al suo collo, i piedi che sembra che non mi sostengano più.

Calcolo mentalmente la distanza tra qui e il piano di sopra, sperando che mi segua, i pensieri inceneriti come carta. Mi stacco leggermente da lui e chiudo la mia mano sul suo polso, affannata, respirando a stento, ed apro le labbra torturate e ruvide per dirgli di andare di sopra, senza nemmeno accorgermene. Senza nemmeno capire davvero che cosa sento. Basta averlo ancora attorno a me, a bruciare ogni cosa e a cancellarmi la memoria e il pensiero.

E poi riapro lentamente gli occhi.

Non è come sarebbe stato con te.

Baciare Hayden non è come sarebbe stato baciare te.

Sopra la spalla di Hayden, infiniti occhi grigi mi scrutano come se non mi vedessero nemmeno, trapassandomi quasi come se fossi fatta di burro. Fermo, sulla soglia, alle spalle di Hayden che mi cinge ancora, la mano fasciata stretta attorno all’intelaiatura della porta, i capelli bagnati che liberano delle gocce fredde sul suo viso, come se piangesse. La bocca socchiusa, non so per cosa, se si chiama sorpresa quella piega nei suoi occhi che li rende tristi, o semplice disagio nel vivere come lo caratterizza sempre. Le labbra bianche sono le stesse che hanno toccato le mie, secoli fa, e che ho desiderato così tanto da perdere la ragione.

Non è come sarebbe stato con te.

Baciare Hayden non è come sarebbe stato baciare te.

Un pensiero senza amore, solo prepotente, solo soffocante come lo Zahir che mi chiude il polso, ora come non aveva mai fatto prima. Brucia l’osso, lo sento quasi incrinato, mi porto la mano al petto respirando a fatica. Inorridita, vedo il foulard bagnarsi di sangue.

Hayden si accorge di qualcosa e riapre anche lui gli occhi. Coglie la sofferenza nei miei, ne cerca l’origine e la fraintende.

Occhi di demone, velati da acciaio duro come diamante, mentre guardano Hayden, mentre indugiano sul mio braccio attorno alle sue spalle, mentre sfuggono i miei occhi ancora appannati di passione.

Nascondo il viso nel petto di Hayden, mentre Draco ci sorpassa in silenzio, dopo aver preso Serenity dal divano.

Hayden non smette di accarezzarmi lentamente la spalla, mentre Draco sparisce, salendo di sopra. Non mi stacco da Hayden, dando ostinatamente le spalle a lui che non smette di perseguitarmi, che non mi lascia mai in pace. Come una condanna, peggio di quella a non usare la magia, peggio di una condanna a morte perché è la colpa stessa nell’essere felice, è la colpa stessa del continuare a vivere senza di lui, è la colpa stessa di cercare di sopravvivere, nonostante mi abbia spezzato ed annientato il cuore.

Lo odio.

Quel pensiero è come un fiume in piena nelle mie vene, oleoso, viscido, sporco, che si insinua nel mio sangue, inzuppandomi di sudore freddo, rendendo il mio respiro ghiacciato anch’esso, congelando nella stasi del disgusto per me stessa ogni mia azione. È come se mi fossi rintanata in un cantuccio di me stessa, terrorizzata da quell’ondata di odio che mi sporca dentro, e mi guardassi agire dall’esterno. La ferita che, sono certa, lo Zahir ha aperto sul mio polso, brucia la carne viva e non smette di sanguinare, lo sento il liquido caldo e viscoso che tinge il foulard di un rosso più intenso di quello che aveva naturalmente. Ma non sento male. Magari lo sentissi…

… improvvisamente è come se fossi morta dentro, come se mi stessi putrefacendo io stessa, come se mi reggessi in piedi per una cosa sola. L’odio per Draco Malfoy. Acuto, intenso, bruciante, totalizzante, annientante. Ho perso persino interesse in Hayden, mi danno fastidio le sue braccia calde che cingono il mio corpo gelido come pochi secondi prima, le avevo adorate. Lo guardo solo nella prospettiva che possa aiutarmi a ferire Draco. Spalanco gli occhi, scuotendo il capo e cercando di riprendermi.

Quel bozzolo che mi aveva rinchiuso, prigioniera nel mio stesso corpo e testimone silente del mio stesso agire, senza che lo potessi controllare, si riapre leggermente. L’odio si ritira su sé stesso, pronto a colpirmi ancora, se lo lasciassi fare.

Respiro profondamente, cercando di liberarmi i polmoni, quasi come se davvero lo avessi respirato per un attimo e mi avesse intossicato.

Le braccia di Hayden tornano piacevoli sulla mia pelle fredda.

E la ragione mi riporta un ricordo. Le parole di Helder.

L’odio non rimane mai circoscritto, è come un cancro… contaminerebbe tutto quello che rimane di te… quindi vai via, davvero, appena dovessi accorgerti di qualcosa di simile… potresti morirne a quel punto, come se ti avesse avvelenato. Solo l’amore ti salverebbe ancora… ma se lo hai distrutto, creando lo Zahir, è impossibile che torni ancora…

Un cancro. Una metastasi distruttiva. Ecco cosa era… ed è successo prima del previsto. Dovevano passare tre giorni ed invece non sono passate nemmeno ventiquattro ore… devo andarmene prima di morirne io stessa, prima di fare del male a Draco.

Rabbrividisco, nonostante tutto, ora che sono più lucida, so che non è questo che voglio. Me ne frego di lui e so che probabilmente lo Zahir non mi farebbe nemmeno provare nulla… ma non posso fare questo a Serenity. Almeno per lei, devo tenere fuori l’odio da me.

Devo andarmene, quanto prima possibile.

Sollevo nuovamente gli occhi verso Hayden, il suo sguardo è ferito, evidentemente ha pensato che ho reagito male vedendo Draco e mi sono pentita di averlo baciato.

“Mi dispiace…” dico, le labbra che mi tremano “Credo che per te sarebbe enormemente più facile se mi lasciassi perdere… da quando ci frequentiamo… ho reso… la tua vita… un inferno…”. Abbasso lo sguardo, gli occhi che mi si riempiono di lacrime. Cerco di concentrarmi su Hayden per escludere l’odio per Draco da me stessa, prima che mi sopraffaccia di nuovo. Lo sento sempre in agguato, ai margini di me stessa, pronto a graffiarmi se abbasso la guardia.

“Non dire sciocchezze…” risponde Hayden con un sorriso leggero, prendendomi il viso tra le mani e cancellando le mie lacrime con le dita “Ripeto, non avrei voluto fargli un altro regalo…”. Di fronte al mio sguardo interrogativo, completa ancora con un sorriso triste, accarezzandomi la guancia: “Quando mi vede baciarti… viene preso dall’insano piacere di procurarmi la morte… non dirmi che non te ne sei accorta?”.

“No…” nego, ricacciando indietro la soddisfazione per la sofferenza di Draco “E non credo nemmeno che sia poi come dici tu…e comunque non mi importerebbe…”, sorrido, piegando la testa di lato, accolta dal palmo della sua mano: “… ovviamente tranne per la parte della tua morte…”. 

Lui ride leggermente, per poi tornare serio, mentre mi accarezza ancora il viso: “Davvero?”.

Distolgo il viso dai suoi occhi, la belva dentro risponde che certo che mi interessa, che vuole che Draco soffra tanto quanto ho sofferto io.

Annuisco con il capo semplicemente, guardandolo: “Davvero… ti ho baciato solo per me stessa… lui non c’entra nulla…”.

Si avvicina piano, baciandomi a fior di labbra, delicato, come poco prima. Non faccio in tempo a rispondere che già si è allontanato.

“Adesso sarà meglio che vada…” mi sussurra, guardandomi.

“Così presto?”.

“Domani devo lavorare… e tra due settimane devo ritornare in Italia…”.

“Vero, l’avevo dimenticato…” mi mordo il labbro inferiore. Senza di lui, chi mi impedirà di perdermi? 

“Se andrà bene tra noi, sai perfettamente che sarò più qui che lì, no?” mi dice con un sorriso, baciandomi ancora.

“O sarò più io lì che qui…” sorrido, bisbigliando. Sarebbe la soluzione migliore, decisamente.

“Non te lo chiederai mai, se avessi anche il minimo sospetto che stai scappando da lui…” mi dice quasi duro, ma sempre con quel sorriso che ora vorrei solo baciare ed annullare, per quanto mi spezza il cuore.

Abbasso lo sguardo, lui mi risolleva il mento con una mano: “Ma il giorno in cui sarai sincera… e il giorno in cui per te lui non sarà più nulla… sarà la prima domanda che ti farò…”.

Sorrido ancora, prima di abbracciarlo di slancio, lasciando che mi stringa forte. Se sapesse quello che sta facendo per me… ricaccio indietro le lacrime, mentre si stacca da me, baciandomi ancora, prima di correre via sotto la pioggia.

Resto immobile, la fronte poggiata sulla parete accanto alla porta, la pioggia che cade fuori ancora, i tuoni che rimbombano nel cielo.

Devo salire di sopra, prendere le mie cose ed andarmene, prima possibile. Mi tolgo il foulard dal braccio destro, constatando che la ferita sembra quasi chiusa, non sanguina più, ma il metallo del bracciale si sta scurendo, cosa che non può essere sicuramente un buon segno.

“Non ti azzardare mai più…” un sibilo e la ferita si riapre, veloce, crudele, annaspo mentre riprende a gocciare.

Mi volto terrorizzata su me stessa ed è ovviamente lì davanti a me, i pugni chiusi, il respiro ansante, stravolto.

Ed è un attimo, il fiume riprende come prima, vincendo facilmente la debole resistenza del calore di Hayden.

Ed io sparisco, perdo possesso di me stessa, mi vedo muovere e parlare senza che possa impedirlo, senza che abbia il controllo di me stessa, il cancro che mi inquina dentro. Maledico la sua esistenza e il suo vivere, cerco l’annichilimento che cancelli Draco dalla storia della mia vita e dalla storia di qualsiasi persona al mondo. Sento dai miei stessi occhi il desiderio di morderlo, di ferirlo, di vederlo sanguinare, di ucciderlo quasi, se non fisicamente, almeno di uccidere il suo cuore. Come quando Harry guardava Silente attraverso gli occhi di Voldemort… la stessa cosa. Uguale. Ma io non sono così pura come lui… e l’amore che diventa odio è una cosa che deve essere così potente che probabilmente attecchirà così bene dentro di me, da spezzarmi come un fiore.

Constato con terrore che non voglio più andare via. No. Non me ne andrò di qui.

Fino a quando lui non brucerà assieme a me, in una casa sprangata, al centro esatto dell’inferno.

Il traditore di ogni parte del mondo. E la folle traditrice del suo stesso cuore.

 

 

Ah rieccomi!! Un capitolo non molto lungo e che a me non piace nemmeno particolarmente, ma che diciamo era abbastanza necessario per come si deve evolvere la storia successivamente… avrete presto a che fare con una nuova Hermione, che a me piace chiamare Dark Hermione, quindi non vi spaventate! Sotto il piccolo sondaggio che ho lanciato su fb,

(ribadisco l’invito per la mia pagina su fb http://www.facebook.com/home.php?#!/profile.php?id=100001120873807&v=wall

E per quella di HALFT,  

http://www.facebook.com/home.php?#!/pages/Have-a-Little-Fair-Tale-Official-Fan-Page/119669338068092

ho deciso di iniziare ogni chappy con uno sguardo sul futuro, dove Hermione a cinque anni di distanza scrive un diario sulla sua situazione attuale, riguardando anche al suo passato e a quello che le è successo prima… il futuro non è molto roseo, ma tranquille, cambierà!!:D passo come sempre ai ringraziamenti di rito e alle varie risposte, ringraziando anticipatamente tutti coloro che frequentano le pagine su fb, che leggono la storia e la inseriscono nei preferiti o nelle seguite o nelle storie da ricordare, e che non smettono mai di farmi sentire il loro sostegno ed affetto. Grazie davvero tanto!:D

Liven: carissima!! Come sempre, poverina, ti ho angosciato per tutto il capitolo, non credo che con questo sia andata meglio!:( purtroppo siamo in una fase di discesa necessaria all’inferno, poi inizieremo piano a risalire, all’insegna sempre del lieto fine che assicuro sempre!! Effettivamente l’idea che Draco la fermasse prima che riuscisse a compiere lo Zahir, non era male!! Al massimo faccio una one shot dove la sfrutto!!:D Ma per ora ci dobbiamo tenere la Dark Hermione!! Almeno ti sorprendo un pochino!! Non sprofondare nei pensieri negativi, mi raccomando! Io purtroppo per mia natura, vedo Draco ed Hermione come una coppia estremamente complicata, quindi mi sento di doverli mettere enormemente i bastoni tra le ruote per farli stare assieme!! Ma alla fine ce la faremo!! Grazie di avermi aggiunta su fb!! Tanti Baci!!:D

Coquelicot Rousse: ciao!! Grazie davvero dei complimenti, sto scrivendo dei capitoli di una tristezza assoluta che mi meraviglio ancora come non mi lasciate perdere!! Sono contenta che il personaggio di Helder ti sia piaciuto, le sono affezionata come ogni mia creatura originale! Draco ed Hermione sono sempre gli stessi, fanno sempre il contrario di quanto dovrebbero… credo che la sola cosa che li accomuna è fare sempre delle cose assurde, convinti di essere nel giusto… ma prima o poi li faccio rinsavire!! Un bacio!!

Payton Sawyer: ciao cara!! Ebbene sì, sono una donna di un sadismo estremo!! Anche se, come penso avrai capito da questo chappy, il futuro non è affatto bello come pensi…J Hermione non sta con Draco, ha un figlio e un marito, ma quest’ultimo non è Draco!! rigarantisco il lieto fine e rigarantisco che le cose spesso non sono esattamente come sembrano, quindi abbiate fiducia!!:D spero di averti rassicurato con il piccolo spoiler di questo capitolo, Hermione lo ama ancora Draco tranquilla… :D ed Helder effettivamente vede molto meglio di quelle due teste di rapa, diciamo che lei sa ciò che io so (ora sì che sono sadica…), ed anche per lei sono stata proprio cattiva, le ho dato una storia proprio pesante, ma prometto di riscattarmi anche con lei!! grazie mille dei tuoi complimenti!!:) baci !!

Haley_James: la mia cara Deny!! Compagna di canzoni condivise da OTH!! J spero che tu abbia finito con lo studio, ti faccio distrarre troppo…L Forse è un pochino più positivo questo di spoiler che l’altro, almeno sai per certo che Hermione ama ancora Draco!!:D grazie davvero, sei davvero dolcissima!! Un bacio!!

Stellale: carissima!! Non ti sono più riuscita a mandare mail, causa pc in paranoia, ma ti ringrazio davvero!! Ora posso di nuovo, quindi quando vuoi, sono qui!!:D effettivamente non avevo notato la somiglianza di fondo tra Draco e Dorian Gray, è una cosa che fa riflettere… ho letto il libro qualche anno fa, e devo dire che mi ha angosciato un po’, quindi se lo rileggo forse mi faccio venire lo spirito giusto per descriverlo!!:D tranquilla adoro i riferimenti ai libri, sono il mio pane!! (non da quando mi sono impelagata nella Meyer, e la bestemmio ogni minuto, ma lasciamo perdere che sennò inizio a delirare!) grazie davvero per tutto!! Baci!!

Dalia91: io ti devo delle scuse grosse come una casa!! Ho cercato di concentrarmi sul nuovo capitolo quindi non ho potuto adempiere alla nostra missione, diciamo così!! Scusami….ç_ç la sensazione da amore non corrisposto, specie in quel modo, è una cosa che purtroppo conosco bene e da lì, mi è nata l’idea dello Zahir… insomma, la proviamo tutti la sensazione di volerci strappare il cuore pur di non provare più quello che proviamo. Effettivamente la vita di Helder non è facilissima, ma lei, dalla sua, ha il fatto di essere una ragazza con molta voglia di vivere quindi riesce a gestire la cosa… anche io sono una lupacchiotta!! Eheheh… non sto leggendo il 4° libro della saga proprio perché oramai Jacob è fuori dai giochi! Grazie ancora di tutto quello che stai facendo per me e scusami ancora se non ti sto aiutando molto!! L

Cygnus Malfoy: la mia Helder in carne ed ossa!! Grazie davvero di tutto… sono contenta che il tuo alter ego ti sia piaciuto, volevo che fosse quanto più simile a te!! Sono contenta anche che il lieto fine scontato non faccia per te, io non li sopporto e continuo ad infarcire la storia di ulteriori ostacoli!! Poveri voi che mi sopportate!! Baci!!

Seven: la mia cara Nadia che un giorno mi scriverà le recensioni per i giornali, se farò la scrittrice!!:D non ti ringrazierò mai a sufficienza per l’aiuto che mi hai dato con questo chappy!!:) mi ha incoraggiato tantissimo e hai lottato contro le mie crisi di insicurezza, quindi davvero dovrei scrivere un grazie grosso come una casa!! Grazie anche delle tue recensioni meravigliose che aspetto sempre con ansia!!:D un enorme abbraccio!!!

Emmetti: tu mi fai sempre troppi complimenti!! Scrivere di Helder ed inventarmi la sua empatia, mi è piaciuto molto anche perché Helder tornerà ancora successivamente e come avrai capito, sarà molto utile perché sa molto più di quanto non sembri!!:D mi sono divertita anche con i flashback, adoro Harry e Ginny, li vedo come una coppia molto vera e reale, anche se canon, e certamente non hanno nulla a che vedere con Ron ed Herm made in Row; sai che la mia adorazione per Seth, oramai rasenta il ridicolo, lo sto lasciando molto in ombra ultimamente, e me ne dispiace!!ç_ç Ron e Dean ci stava, che soffrissero ancora per Herm, Dean mi sta abbastanza simpatico, è uno fiero di essere superficiale e playboy, ma Ron l’ho sempre visto debole e senza spina dorsale, e continua ad esserlo anche con LavLav, la paris hilton del mondo magico!! E dracuccio, caro, resta sempre tale… ma ci hai visto giusto, è l’ “inizio” di qualcosa per lui… anche se poi capirete che anche per lui è iniziata molto prima!!:D da questo spoiler, avrai capito che non va tutto bene… ma si sistemerà!! Ancora Baci!!

Veracruz: la tua recensione mi ha particolarmente colpito, davvero! Non capita di frequente di leggere cose simili, nel senso che ti sei davvero emozionata per la mia storia e questo, per una pseudo scrittrice come me, è una cosa bellissima! Diciamo che ne sei rimasta particolarmente coinvolta, e spero di non averti fatto stare troppo male. tendenzialmente sono una persona molto romantica, ma mi sono sempre convinta che bisogna sudarsi molto la propria bella favola. E per questo credo che scrivo così… scusami se ti ho fatto del male in qualche modo! Spero di ritrovarti al prossimo chappy!:) baci e grazie per la recensione così onesta e particolare!

DracoTheBest: grazie tantissimo dei tuoi complimenti, magari li perdessi io 10kg a scriverla la storia!!:) ma ci perdo solo il sonno, la ragione e la capacità di connettere!! Grazie davvero molto!! Baci!!

Alethewriter: ciao!! Mamma mia, ora ho anche tua mamma sulla coscienza…ç_ç posso comunque assicurarti che scrivendo questa storia mi sta venendo una voglia pazza di trovarmi un Seth da qualche parte, miracoli della fantasia!! Mi hai fatto sbellicare quando hai scritto che secondo te Draco ha dei disturbi della personalità, ma credo che quando uno sia così incoerente, è perchè sta facendo qualcosa che gli costa… o che non vuole fare… ecco ho detto troppo!! Anche la decisione di Hermione di creare lo Zahir, è na decisione strana, ma anch’essa verrà spiegata! Un piccolo segnale l’ho dato, ma davvero capirete tutto alla fine!! Ancora baci!!

Goldgriff: ciao e benvenuta!! Non ti preoccupare, non dovevi recensire per forza ogni capitolo!!:D ti ringrazio per il complimento sulla mia simpatia!! Spesso con Hermione mi sbizzarrisco pure troppo…!! Dubbi su Hayden?? Azzarda teorie, tranquilla!!:D ancora grazie!!

Baci!!

 

Saluti a tutti!! Baci Cassie!!

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 27
*** Going toward entropy ***


Capitolo 27 – Going toward entropy

Capitolo 27 – Going toward entropy

 

Quando ero incinta di Alex, facevo sempre lo stesso sogno.

Ogni notte, sognavo di partorire un serpente.

Mi risvegliavo sudata, accaldata, piangendo e gridando. E mio marito correva a consolarmi, mi abbracciava e mi diceva che andava tutto bene. Gli dicevo che avevo paura che lo Zahir mi fosse entrato nel sangue, che avesse ucciso il mio bambino e che quella sarebbe stata la mia punizione. Lui semplicemente mi diceva che era ridicolo, che non c’era nulla da punire in me e che mio figlio sarebbe nato, come tutti gli altri bambini prima di lui. Quando lo guardavo, ancora poco convinta, lui mi allungava il polso, mi passava un dito sulla pelle integra e mi diceva: “Guarda? Vedi qualcosa? Cicatrici? Segni? Ferite? Non c’è più nulla…”. Spesso, singhiozzando, ostinata come una bambina, dicevo che quel serpente era dentro di me. E lui, paziente e dolce come è sempre stato, mi sussurrava che avevo il cuore di una leonessa.

Il mio cuore l’avrebbe spaventato e sarebbe scappato via.

Lui ha sempre cercato di consolarmi così, e ha sempre avuto effetto, non so nemmeno io come, anche se alludeva ad un cuore che non amava lui.

Ma, per lui, non è mai stato un problema… o perlomeno ha sempre finto che non fosse un problema.

Non so come ce l’abbia fatta, come ce la faccia ancora, come riesca a vivere con la certezza che, nel momento in cui dovesse mai arrivare la notizia che aspetto da cinque anni, io me ne andrò via da qui, lontana dalla nostra vita. Forse, è in quei momenti che ricordo il serpente che mi cingeva il polso, che mi era entrato nel sangue, infiammandolo d’odio e rendendomi una preda delle più facili, e credo che non se ne sia mai andato davvero, anche se so che non è così.

Mi viene da credere in modo automatico di vivere ancora di odio e di egoismo, perché spesso, in modo più o meno palese e cosciente, costringo mio marito a subire tutto questo.

Sarebbe la giusta punizione che fossi condannata a questo, a non conoscere mai più la purezza di me stessa, a vivere per sempre con il ricordo di quel odio atroce che mi ha avvelenato l’anima, che è stata l’arma micidiale, forgiata per distruggerci. Sarebbe la punizione giusta, lo penso spesso.

Poi arriva Alex e so che io la mia punizione l’ho già abbondantemente avuta, quando è nato lui.

Quando l’ho visto per la prima volta.

Quando il mio cuore si è fermato, sciolto dall’amore e dal dolore. Ed ogni volta che lui mi guarda, o ride, o mi indica qualcosa che l’ha colpito, mi spezza sempre il cuore. Certo, subito arriva l’amore sconfinato per lui, per il mio bambino. Ma, quando lui non vede, io chiudo gli occhi, prendo un respiro e mi faccio forza, cancellando la somiglianza inevitabile che i suoi tratti mi comunicano. Perché di lui, tutto, è una condanna, per me.

Perché, quando mio figlio mi guarda… io rivedo l’oro e la perla.

Perché, quando mio figlio mi guarda… io rivedo sempre suo padre.

E quando penso al suo nome, mi dico che avrei dovuto sceglierne un altro, perché non so tutto questo quanto potrà durare. Forse per anni. Forse per sempre.

E quel nome sarà stato inutile. C’è Alexander, il nome di mio padre. Ma non è tutto il suo nome.

Esso resta sempre sepolto. Ma scriverlo mi fa bene, non mi fa dimenticare tutto quello che quel serpente si è portato via. 

Perché si è portato via tutto… tranne una cosa. Il nome di mio figlio.

Alexander Leo Malfoy.

 

 

Il mio corpo… il mio cuore…  il mio stesso pensiero… io non riesco più nemmeno a controllarlo…

L’odio è una forza potente, immensa, quasi quanto l’amore. Forse anche di più dell’amore.

Quando guardavo Draco, io sentivo sempre che ero troppo poco per lui, che non ero mai degna dei suoi occhi e del suo sguardo, specie se, in modo più o meno conscio, mi paragonavo ad Helena.

Ora, invece, io sono una regina, una stella nel cielo che lui non potrà mai eclissare. Mai più. Bella, desiderabile, lui ha solo da temermi adesso. Ha da temere il mio assurdo desiderio di fargli del male, come prima mi aveva terrorizzato causargli ancora altro dolore.

Come direbbe mia nonna, tutto torna indietro. Specie il male. Ora Draco Malfoy avrà un assaggio di ciò che ha fatto a me.

O mio Dio… che cosa sto per fargli?

Mi siedo sul bancone del bar, issandomi su con una leggerezza ed una grazia che non ho mai posseduto.

Incrocio le gambe in modo volutamente ammiccante, prima di sbuffare con voce monocorde: “Si può sapere che diamine vuoi, esattamente? Mi stai annoiando Malfoy…”.

Il suo volto, da irato com’era, si fa sorpreso, assolutamente sconvolto. I suoi occhi luccicano di stupore, come se volesse chiedermi chi sia io adesso. Ogni cosa di me gli sembra strana, diversa, tipica delle donne pessime che ha sempre frequentato. Le movenze da gatta morta di Summer… e magari anche di Helena. Anche se lei era il tipico angelo del paradiso, giusto… come scordarlo… ed invece ora io sono all’inferno. È qui che mi volevi condurre Malfoy? Ora vedrai quanto può bruciare il fuoco.

Si avvicina di qualche passo, gli occhi grigi ancora incerti e quasi addolorati, prima di sputare fuori con il solito astio che oramai non fa minimamente presa su di me: “Serenity… non ti azzardare mai più a portarla con te… e con quell’altra specie di bambolotto che ti porti dietro, sono stato chiaro?”. La sua voce, un tempo, mi avrebbe terrorizzato. Mi sarei spaventata, temendo che mi facesse del male. Ma che dico… non ho mai temuto che lui mi facesse del male, come quanto invece di fargliene io a lui. Ed infatti gli ho consegnato il mio cuore, lasciando che me lo riducesse a brandelli sanguinanti.

Ora, invece, non la sento neppure la sua voce, anzi sbadiglio rumorosamente coprendomi la bocca con la mano, attenta solo che i suoi occhi mantengano quella precisa espressione. Di dolore. Sorrido, che raccontasse e dicesse quello che vuole, ma credo che sentirà la mancanza della sua piccola e fragile Hermione.

Draco… vattene, dannazione, finché sei in tempo.

Riesco ad essere me stessa solo qui, in questa parte del mio cuore… come sfugge allo Zahir, non lo so…

Vattene, accidenti…

Al mio teatrale sbadiglio, i suoi occhi si riducono in due fenditure colme d’odio, freme come sempre. L’odio degli uomini è sempre così patetico, non sanno nemmeno che cosa significa. Non suscitare mai l’odio in una donna, invece.

“Cosa, esattamente, ti dà tanto fastidio?” sussurro con voce calda, guardandomi le unghie, prima di distendere il palmo davanti a me e tornare a guardarlo “Il fatto che Hayden sia migliore di te, praticamente in tutto, e che Serenity se ne possa rendere conto, anche se è ancora una bambina?”. Il suo sguardo si fa di diamante, duro, inaccessibile, mentre ancora una parte del suo sguardo cerca di fugare il mistero che gli sembra palese scorgere in me, dato che, per una volta sola, non mi sono gettata ai suoi piedi per farmi martirizzare.

“Giusto…” replico quasi come se avessi avuto un’ispirazione improvvisa e batto una volta le mani, guardandolo “Non dovrei dirlo, per non ferirti…! In fondo, Serenity è la tua sola ragione di vita…”, mi gratto pensosamente la guancia: “… anche se al momento, non capisco perché non dovrei dirlo… l’ho colto per un momento e mi è sfuggito daccapo…”, scoppio a ridere di fronte ai suoi pugni chiusi, incrociando le braccia al petto: “… in fondo, cavolo, Malfoy, è dallo stesso momento in cui ho messo piede qui che mi hai, letteralmente non in senso lato, rovinato la vita… quindi insomma ci sta che non sia masochista, fino a questo punto…”.

“Rovinato la vita?” ripete lui atono, facendo un passo avanti “Te la sarai rovinata tu da sola la vita… fosse stato per me saresti stata fuori di qui dal momento stesso in cui ci eri entrata…”.

“Certo, certo…” sbuffo ironicamente, distogliendo lo sguardo da lui come se improvvisamente mi ripugnasse anche solo la sua vista “Sai cosa? Andiamoci sotto con le confessioni, visto che tu mi ha ustionato le orecchie e gli occhi con i tuoi ricordi, vuoi? Cinque minuti di mie innocenti paroline non ti faranno male a lungo…”.

Dio mio… ora lo farò a pezzi…

“Hai ragione…” commento falsamente, alzandomi dal bancone con passo leggero e tornando ai suoi occhi, osserva le mie movenze senza parlare, ancora alla ricerca del particolare che gli sfugge. Quando mi porto la mano nei capelli, scostandoli dal mio viso, e il serpente che mi intreccia il polso luccica nel neon del bancone, stringe le iridi, ma non fa nulla. Euforica, mi rendo conto che non lo conosce. Era la mia sola possibilità che lo conoscesse. Dannazione.

“La vita me la sono rovinata da sola… decisamente, come una povera imbecille…” continuo, muovendomi verso di lui come un serpente che ammira la sua preda. E devo dire che è decisamente una preda di alto livello. “Ti ho rivisto e mi sono autonomamente convinta che tu fossi diverso, cambiato… hai degli amici che ti vogliono bene, una sorellina adorabile, una fidanzata, bionda manco a dirlo… e mi dico, sai che c’è, Malfoy non deve essere stato così male se ha tutto questo… ma la tua vita è un’invenzione continua. Ripetitiva, come sempre è stata…”, schiocco la lingua con espressione annoiata, contando sulle dita sotto il suo sguardo furioso: “… la fidanzata è Astoria, la sorella non è una sorella, gli amici non sanno nulla di te… bella vita, davvero… ma in fondo credo che sia il massimo a cui può ambire una persona come te, no?”.

“Che diamine vuoi dire?” commenta fioco, quasi ambendo il colpo mortale che gli sto per infliggere. Mi invita decisamente a nozze.

Non ha ancora capito bene dove sto arrivando, continua in quell’atteggiamento che, da stamattina, non ho capito, ma che ora riesco ad inquadrare meglio, ora che provo qualcosa per lui. Odio. Piena di odio al punto di volerlo fare a pezzi. Stringo gli occhi, inclinando la testa di lato, guardandolo.

Mi scappa da ridere che prima non lo capissi.

Era così chiaro… così evidente che… un groppo in gola… sbatto le palpebre un paio di volte, mentre il fiume che mi scorre dentro, ruggisce e si arresta, come se si fosse fermato, placcato da un argine immenso come una montagna che lo tiene facilmente a freno. Disorientata, lo guardo, gli occhi che si riempiono di lacrime che non so perché dovrei piangere, adesso, che sono così vicina a vendicarmi. Anche i suoi occhi cambiano, in un momento, ritornano gli occhi che amavo tanto, lucidi, intensi, pieni di luce e di dolore, stelle cadenti e meteore i suoi pensieri e i suoi sentimenti che ora potrei leggere uno per uno. Gli occhi che amavo tanto… no… gli occhi che amo tanto… uno spasmo ancora più forte, mi prende il respiro, bloccandolo, la presa dello Zahir che si fa sempre più forte, riprendo a sanguinare senza posa, con una fitta nascondo il polso dietro la schiena. Abbasso lo sguardo, i suoi dannati occhi… come diamine fa? L’odio mi ha mostrato netto il suo limite, ora lo vedo perfettamente che cosa c’era in lui da stamattina. L’odio ci vede meglio sia dell’indifferenza che dell’amore, strano a dirsi ma è così, perché cerca solo difetti da sfruttare a suo vantaggio. E ora io so quello che non vedevo. Quello che non vedevo, anche quando mi raccontava di Helena. Il limite.

I suoi gesti, le sue azioni, le sue parole.. il corpo… vuole che io vada avanti compiendo quell’ultimo passo finale che mi separi da lui. Vuole tenermi lontano da lui.

Ma poi gli occhi… i suoi occhi... sono ammantati dalla speranza timida e decisamente suicida che io ritorni sui miei passi. Vuole che… torni… da lui… perché? Perché pensa entrambe le cose? Sarebbe sempre il vincitore, sia che io dica queste ultime parole, sia che non lo faccia. Perché? La nausea mi prende la bocca dello stomaco, mi sento svenire, il fiume che abbandona il mio corpo come una risacca gelida, lasciandomi senza forze. La mano sul petto, respiro a fatica, l’odio che sembra abbandonare il mio cuore martoriato per un attimo, lasciando il posto all’… amore.

Ma certo, Helder me l’aveva detto, l’amore avrebbe spezzato lo Zahir… è quella la mia sola speranza…

L’amore è la mia sola speranza per tornare me stessa.

“Granger, ti sei incantata?” nella sua lotta ha vinto il desiderio di mandarmi via. Trema la sua voce di fronte all’altro desiderio, ma ha deciso come prima che sia quello il più forte. Che io vada via. Per sempre. Decretando la vittoria del mio odio.

Ora, però, ho capito… mi devo aggrappare a quel ricordo per non perdermi, i suoi occhi… ora lo so… una piccola parte di lui ha sempre voluto che restassi con lui… una parte della stessa dimensione di quella che, in me, è ancora me stessa e lo ama, in questo corpo posseduto dall’odio…

Mi sollevo lentamente, tornando a sorridere, il senso di perdizione sparito, il desiderio di fargli del male triplicato e quel fiume in piena di nuovo pronto a darmi la forza sufficiente.

“Scusami…” sorrido, risollevandomi in piedi e non dando il benché minimo peso al cedimento che ho avuto, in modo che non lo dia nemmeno lui. Per fortuna, il desiderio di mandarmi via in lui è più forte di qualsiasi cosa, lo leggo nei suoi occhi ed ancora mi chiedo il perché. Ma ricaccio indietro quella domanda perché la risposta…

… mi farebbe tornare me stessa…

“Dicevo che è il massimo a cui può ambire una persona come te…” continuo con un sorriso che si finge comprensivo.

“Avanti Granger… finisci la frase, non averne paura… dillo…” mi provoca lui, un bagliore maligno negli occhi. Probabilmente si aspetta che mi fermi al momento giusto. Non ha ancora capito nulla, Draco Malfoy.

O sta ancora cercando di mandarmi definitivamente via… ma non ha senso continuare a ferirmi, l’ha già fatto in tutti i modi immaginabili…

In fondo, se gli do solo fastidio, dovrebbe essere semplice ignorarmi? Invece vuole davvero che io vada via.

Troppo interesse. Vuole qualcos’altro. Cosa, dannazione?

Mi avvicino in punta di piedi, quasi danzando, come non avrei mai potuto fare prima, prendendo fiato: “Dicevi che ero innamorata di te… ma pensaci, chi mai potrebbe innamorarsi di uno come te? Seriamente, sarà stato un tuo desiderio perverso di avermi tua, non il contrario… e ora magari mi replicherai che di te si sono innamorate le due sorelle Greengrass, se mai possa essere un motivo di vanto. Astoria la tralascio decisamente, ed Helena… vanesia e viziosa, una donna così non so davvero a chi augurarla… se non a te…”.

Apre la bocca, semplicemente furibondo, i suoi occhi perdono quel desiderio, fino a qualche minuto fa, ancora febbrile di trattenermi qui, e diventano acciaio fuso, il vortice e l’uragano che mi spazzerebbe via. Ora che ho toccato Helena, ovviamente, ogni sua minima resistenza è svanita, ora è un tutt’uno con il corpo e con il volermi mandare via.

Sorrido e, con grazia, allaccio le mie braccia attorno al suo collo, lo sento irrigidirsi ma non lo farei spostare nemmeno se volesse. Il colpo che gli ho inferto, è bastato ad annullare tutte le sue difese e ad impedirgli di dire qualsiasi cosa. L’ira si spegne così come era nata, mentre ancora scruta nel mio viso la risposta, il tassello che gli sfugge e che mi luccica al polso. Non sa che la risposta che cerca, il motivo per cui ora sono così, ce l’ha a due centimetri dal collo. Pulsa lo Zahir al contatto con la sua pelle, quasi come se riconoscesse la sua origine, e Draco sembra quasi rabbrividirne, anche se penso che imputi il tutto al contatto con il metallo freddo.

Gli accarezzo suadente la nuca, facendo aderire il mio corpo al suo, prima di riprendere ad un respiro dalle sue labbra: “Io sarei stata quella diversa… l’avrai pensato chissà tante di quelle volte, no? Per questo non mi hai voluto mandare via, sul serio, per questo sono ancora qui…”. Mi avvicino alle sue labbra, cercando quella sua confessione che mi consentirebbe di prendere il suo cuore di ghiaccio tra le dita, e spezzarlo infine, come ha fatto con il mio. Chiudo gli occhi, già sicura della sua risposta.

Ma, improvvisamente, è come se anche lui avesse raggiunto una nuova e diversa consapevolezza. Spero che abbia capito, Dio mio. il suo corpo si fa più rigido e la presa delle mie braccia viene sciolta bruscamente. Mi afferra per le spalle, mi allontana e mi scuote, gli occhi due gelidi laghi montani illuminati dalla luna. 

Lo guardo senza capire, sbattendo le ciglia, incassando il colpo. Sarebbe stato quello a cui tenevo di più, ristabilire le cose…fargli ammettere che è sempre stato lui a volermi e a non potermi avere, non il contrario… ma non mi ha voluto. Ancora.

“Granger, non so che diamine ti stia prendendo…” mormora, staccandosi da me, prima di darmi le spalle “Ma fatti soddisfare dal tuo ragazzo, invece di rompere le scatole a me…”. La rabbia e il livore infiammano il mio odio, imporporandomi le guance di sdegno, facendomi chiudere le mani fino a sanguinare, togliendomi il respiro. Sfuggono le parole, senza che nemmeno le controlli, infrangendosi contro le sue spalle serrate: “Si trattava solo di un impulso, Malfoy… perché io ti odio, Malfoy, e non avrei mai potuto amare una persona patetica come te… patetico sì, e me lo sarei dovuto ricordare prima, ma invece mi sono fatta prendere dalla compassione… ed invece sarebbe dovuto essere come sempre è stato, io e te che non ci siamo mai potuti vedere, come se mi fossi il rosso negli occhi. Ma guardati, un ex Mangiamorte che ha amato una sola donna nella sua vita, che non ha nemmeno saputo proteggere… grande affare per Helena affidarsi a te, certo che era una donna furba… traditore dei suoi genitori, ma che poi ne piangeva la morte… ti sei fatto anche ricattare da un’oca come Astoria… e ora investi tutta la tua vita su Serenity. Ottima mossa, fino a quando non capirà anche lei, come sua madre, che persona sei… non a caso lei, Helena, non ha mai lasciato suo padre, no?”, sorrido di soddisfazione alle sue spalle che si piegano come sotto il peso delle mie parole, e continuo divertita, ad ogni parola quasi un ulteriore piacere, come una catarsi: “Avanti, non dirmi che hai davvero creduto che fossi innamorata di te? Non puoi averlo seriamente pensato… sei l’ultima persona al mondo di cui mi sarei potuta innamorare…”. Inclino la testa di lato, aspettandomi la sua reazione, mentre si volta lentamente, tornando a guardarmi. Ma, sgomenta, mi rendo conto che è rimasto immobile, assolutamente indifferente. I suoi occhi sono di nuovo foschi, irraggiungibili come sempre. Le mie parole non l’hanno ferito, o meglio hanno smesso di toccarlo in un punto preciso della nostra conversazione.

…quando ho tentato di baciarlo…

Fa un sorrisino ironico, prima di scrollare le spalle e dire con voce annoiata: “Ora che mi hai esposto a sufficienza le tue teorie, possiamo tornare al punto fondamentale?”.

“Cosa?” chiedo con un filo di voce, svuotata del mio senso profondo di giustizia che volevo ristabilire e che mi aveva saturato fino a poco prima.

“Serenity… non avvicinarla mai più…” soffia fuori con risentimento, guardandomi dall’alto in basso, prima di voltarsi e sparire.

Resto immobile e ferma, finché esce, poi mi porto le mani alla bocca, sedando la nausea improvvisa che mi prende allo stomaco.

L’odio e l’amore hanno lo stesso effetto, in fondo, non danno mai pace. Nulla mi dà la pace. Mi stanno solo uccidendo.

Ma l’odio non posso metterlo a sopire come l’amore. E questo è qualcosa che lo distingue nettamente dall’amore.

Lo rende più forte e lo rende la catena che ancora mi lega a Draco Malfoy. Un filo rosso, ora dannato come sangue sporco, che ancora mi rende sua schiava.

E, quando incrocio il mio riflesso nello specchio, dopo qualche ora, capisco che d’amore magari non sarei morta. Ma di odio sì.

Perché esso oramai è nel mio sangue.

Tocco il riflesso freddo che mi rimanda lo specchio.

Un’altra Hermione occhieggia dall’altra parte. Adesso, ha i capelli e gli occhi dello stesso colore.

Neri.

 

 

Infantilmente, ho pensato che una doccia mi avrebbe fatto sentire meglio, avrebbe lavato via quel fiume nauseabondo che ancora sento dentro, pronto a pungermi al minimo ricordo di Draco. O avrebbe almeno cancellato quell’onta dal mio aspetto. Ma l’acqua è scivolata sui miei capelli, ora liscissimi e neri, come se li temesse, e, quando sono uscita dalla doccia e mi sono guardata allo specchio, anche i miei occhi sono rimasti uguali. Niente più il castano caldo a cui sono abituata da quasi ventiquattro anni… dall’altra parte del vetro, vedo gli occhi di un corvo, neri, perfettamente compatibili con i miei capelli, ad ogni respiro splendono di luttuosa ardesia. Helder me l’aveva detto che anche il mio aspetto sarebbe cambiato, ma non immaginavo così tanto. Allora, quando Helder parlava, ogni sua parola era stata zucchero, perché pensavo che mi sarei sbarazzata del mio cuore. Ed è successo. Ma, guardandomi, so che oramai c’è qualcosa di più in ballo rispetto al mio solo ed unico amore. C’è in ballo tutta me stessa.

So di non essere stata più bella in vita mia, i capelli sono finalmente ordinati, lisci come se li avessi appena stirati anche se sono ancora umidi, le labbra risaltano rosse di corallo sulla pelle candida, gli occhi scintillano vivaci, senza segni di stanchezza o tristezza.

Ma ogni demone è bellissimo, chi non lo sa.

Sono fatti apposta per attirare le persone, per poi cibarsi delle loro anime.

E, mentre guardo le mie labbra curvarsi di un sorriso senza allegria, so perfettamente che ormai io sono un demone. Non ho più nulla di quello che ero prima. C’è sempre il bracciale al polso a ricordarmelo, ora anch’esso nero, gli occhi di rubino, vipera pericolosa ed infida. Mi asciugo la fronte e il viso dalle gocce d’acqua che ancora la ricoprono, mi lego un asciugamano sotto le spalle ed esco dal bagno. Seth deve essere rientrato senza che me ne accorgessi, ora contempla una serie di camicie che ha messo diligentemente sul letto, una accanto all’altra. Una mano sotto il mento, pensoso come il Mosè di Michelangelo.

Ma non mi fa ridere. Ovviamente. Non c’è nulla che possa suscitare oramai ilarità in me.

Pablo Neruda diceva che ridere è il linguaggio dell’anima. E io l’anima, non ce l’ho più.

L’ho venduta, per una falsa pace ed un’amara morte.

Quando Seth si accorge di me, naturalmente trasale. Alzo gli occhi al cielo, ci manca che mi faccia la paternale. Dico solo che avevo voglia di cambiare immagine e look. Mi siedo sul letto, aprendo l’armadio e ricordandomi che stasera c’è una festa al locale, per quello Seth è così preoccupato del suo aspetto.

Gli abiti mi sembrano tutti troppo colorati e troppo da educanda, ovviamente. Mi ricordo di una busta di roba che Ginny mi aveva dato tempo prima, quando credeva che facessi la fame e che lei non usava più. Non l’avevo mai toccata, sapendo come si veste lei e meditando di portarla in qualche postribolo di alto borgo che ne avesse bisogno. La trovo per caso ed, improvvisamente, tutto mi appare perfetto. Esco una canotta striminzita bianca, a costine, un paio di leggings di pelle nera e un paio di scarpe lucide di vernice rossa, con un tacco quadrato e di almeno dodici centimetri.

Tutto, perfetto.

Non sono decisamente io… se penso che ora mi vestirò anche con quella roba…

“Persino gli occhi sembrano cambiati…” commenta Seth, avvicinandosi e guardandomi, mentre si chiude i bottoni della camicia “Non stai affatto bene…”.

Schiocco la lingua con fastidio, replicando frustrata: “Ho la faccia troppo da cretina?”.

Lui mi accarezza dolcemente la testa in un moto tenero, ma che mi dà solo fastidio. Mi mordo il labbro inferiore, sapendo che è solo lo Zahir a farmi sentire così, e che Seth non c’entra nulla. Gli occhi mi si annebbiano mentre rifletto sul fatto che probabilmente la malattia che mi scava il cuore non si sazierà di odiare Draco, ma prenderà a detestare ogni persona che conosco e che mi ama. La cosa migliore sarebbe sparire per sempre, senza lasciare traccia. Specie ora che ho compreso che non posso fare nulla per ferire Draco, per vendicarmi. È come una parete di gomma, logorata da anni di odio persino più penetrante del mio, che rimbalza ogni tentativo di ferirlo ancora. Non come me, che ho venduto l’anima per liberarmi di lui. Draco… e lo odio ancora di più mentre lo penso… è adesso molto più puro di quanto non sarò io. E non c’entrano nulla le parole Mezzosangue e Purosangue. Oramai non si fa toccare più da nulla, compreso l’odio, come una rosa bianca in una piana di neve fresca.

Ora, che so di non poter ferire Draco… la sola cosa che l’odio reclama a gran voce… il senso di ogni cosa, è slegato da me, come se mi fossi fatta un burattino dai fili spezzati ed annodati, in modo da non poterli tendere mai più..

Ora voglio solo stordirmi. Con qualsiasi cosa. Il dolore che mi ha spinto a creare lo Zahir… aveva una consistenza, era qualcosa.

Una lastra sul petto, come se fossi sepolta viva e non potessi respirare, insopportabile, certo, ma era qualcosa, ero viva almeno.

Ora… vuoto, mancanza di una prospettiva alcuna del futuro, assenza di un qualsiasi volere o desiderio… apatia… come quella che descrivevano e volevano i greci, la mancanza di passione, qualsiasi essa sia. Esattamente come se fossi sette dannati metri sottoterra.

Sul serio. Adesso.

Voglio sentire qualcosa. Voglio perdermi in qualcosa. Intontirmi al punto tale da non sapere più chi sono.

Intuisco in modo frammentario che starò bene solo allora, perdendo me stessa ed il mio intollerabile cuore imputridito.

Indosso silenziosamente i miei vestiti mentre Seth continua a parlare, non lo riesco nemmeno ad ascoltare, mondo di gelatina che mi circonda, dove galleggio e dove nulla mi riporta alla densità delle cose vere e reali.

Per intorpidirmi, come sotto un’anestesia, ci sono solo due strade. Le strade che mi portarono a Dean, all’inizio di questo cerchio che ora necessariamente si deve chiudere, come un gatto che si morde la coda. Se non sono capace di altro.

Dannazione, se sto ripensando a Dean, le strade possono essere solamente...

Afferro il cellulare dalla mia borsa, componendo il numero di Hayden, Seth mi guarda stranito, rendendosi conto che non lo sto degnando di alcuna attenzione. Parlo con voce soffusa, invitandolo alla festa di stasera. Chiudo il telefono con un freddo sorriso, scrollando le spalle alle rimostranze di Seth perché non lo stavo ascoltando. Aspetto solamente di staccarmi da me, da Hermione Jane Granger, di bruciare in un lampo fulgido di fiamma e poi perire nelle mie ceneri. 

Le due strade…

Di sotto, troverò tutto l’alcol che mi occorre. Come quella sera con Dean.

E, come allora, avrò anche il sesso a finirmi il pensiero. Con Hayden.

 

 

Sarebbero bastate le luci stroboscopiche e la musica spaccatimpani a rintontire normalmente il mio cervello.

Non a caso, nonostante lavori qui da parecchio tempo, non ho mai messo piede nemmeno per sbaglio nella discoteca del Petite Peste. Ringraziavo mentalmente Malfoy per averla resa insonorizzata dal resto del locale e, quindi, quando c’era una festa, mi rintanavo al piano di sopra con Serenity, giocando con lei fino a quando non si addormentava e passando il successivo tempo da sveglia studiando.

Patetica. Davvero patetica.

Le mie orecchie poco allenate ai rumori forti, dato che per tutta la vita li ho sempre evitati accuratamente, fischiano un po’, ed i miei occhi non distinguono realmente nulla sotto le lame di luce psichedeliche, ma la mia andatura è comunque disinvolta, tanto da attirare gli sguardi di parecchi ragazzi. Sorrido compiaciuta, cercando con lo sguardo Hayden, tinta di quel rossore scarlatto che è solo un vessillo falso di fragilità, fatto apposta per attirarlo. Alcuni ragazzi iniziano a ballarmi attorno, strusciandosi su di me in modo esplicito, li gelo con lo sguardo e si allontanano come se si fossero scottati. Di un uomo solo ho voglia stasera, non sono certo diventata una che va con tutti… ancora. Fino a quando anche Hayden sarà diventato inutile per sedarmi l’odio insaziabile dentro, che mi mangiucchia come se fossi un cibo succulento, per poi risputarmi fuori con disgusto, oramai ridotta ad avanzi di quella di prima. Mi muovo ritmicamente, inarcando la schiena come una gatta, muovendo la testa in modo che i miei capelli catturino tutta la luce colorata. Tutti accorgimenti maliziosi che prima, nemmeno sapevo che esistessero, sono diventata il fiore carnivoro che chiama la sua vittima.

Fluttuano le mie mani attorno a me, carezzevoli sguardi sorpresi sulla mia pelle.

Da lontano, appoggiati alla postazione del Dj, vedo Seth ed April, mi guardano come se non mi riconoscessero. I loro sguardi sono stravolti e sconvolti, c’è qualcosa che mi irrita enormemente del loro silenzioso rimprovero, e mi volto dall’altra parte.

Potrei cercare di soffocare la mente anche solo con questo, con questa overdose di sensi, lasciare perdere Hayden che ancora non si vede e non toccare nemmeno una goccia di alcol, ma improvvisamente mi assale l’odore dei nontiscordardime, del Confundus, segno tangibile che Draco sta per entrare. Non lo vedo, ancora, ma i miei occhi, come bersagli, già lo cercano, pronti a renderlo schiavo del desiderio di vedermi e non potermi avere. Alla fine, con un groppo, lo intravedo avvicinarsi a Seth ed April, restare lì immobile accanto a loro e scambiare qualche parola. Seth fa un cenno nella mia direzione ma Draco non solleva nemmeno lo sguardo.

Inutile, dannatamente inutile. È tutto dannatamente inutile. Mi infilassi nel suo letto e lo implorassi di violentarmi, e lui non alzerebbe nemmeno un sopracciglio. Non mi vorrà mai. E io non potrò mai spezzargli il cuore.

La gola raschia di frustrazione e gli occhi pungono di insoddisfazione, mentre fendo la folla, spostandola a gomitate, lo Zahir che prende letteralmente a bruciare sulla pelle nuda, è come se ormai fossi avvolta da un rogo, fuoco nel sangue e fuoco negli occhi, arso dell’odio di non suscitare alcuna reazione in Draco Malfoy. La mia pelle brucia come se avessi preso il sole per tutto il giorno, sento la gente che si sposta da me come se fossi un lapillo incandescente. La mia vista è come offuscata da una nebbia rosso sangue che mi cala sugli occhi, impendendomi di vedere bene, sbatto le palpebre per schiarire ciò che vedo, ma essa non accenna ad andare via, mentre il rogo progressivo che si dipana dal mio polso si fa sempre più forte, come se fossi di carta e danzassi in una lingua di fuoco.

Arrivata al bancone, sono senza respiro e, probabilmente, sono rossa in viso come una fiamma viva. Luccicano gli occhi come se avessi la febbre e l’alcol che mi viene servito, non brucia nella faringe, bicchiere dopo bicchiere, sembra quasi freddo, dandomi pavido sollievo dall’arsura progressiva che mi consuma dall’interno, come se avessi ingerito uno stoppino e un litro di benzina. L’annebbiamento che bramo, però, non arriva, mi sembra solo di avere mille mani e mille occhi tutti attorno a me, pronti a scrutarmi e a rimproverarmi silenziosamente. Le guance bollenti si raffreddano di lacrime odiose, mentre corro fuori a cercare refrigerio nell’aria fredda della sera. Scivolo tra la gente che, quasi come se avesse capito di che cosa sono fatta adesso, mi evita senza nemmeno toccarmi.

L’aria esterna, satura di umidità e di pioggia che continua a cadere in scrosci rumorosi e copiosi, mi colpisce in viso, dandomi la nausea, cado in ginocchio, reggendomi il polso che continua ininterrotto a bruciare come un tizzone ardente. Se me lo strappassi via a morsi, finirebbe il dolore? O si propagherebbe per tutto il corpo, come un veleno?

Il mio riflesso corvino nella pozzanghera ai miei piedi, mi suggerisce la seconda ipotesi.

Non finirà mai, a meno che non morirò io.

Batto il pugno furiosa sull’asfalto bagnato, il dolore della lieve escoriazione come un pallido segno contro la mia coscienza, arsa nel mio polso spezzato dal fuoco. L’alcol inizia a fare effetto solo nella mia andatura che diventa incerta, come se camminassi su una trave di sughero sospesa sul mare. La cortina di fumo rossastro non si dirada dai miei occhi, nemmeno sotto la pioggia, e mi ritrovo ad entrare nei sotterranei del Petite Peste, invece che dall’ingresso principale. Imprecando, inciampo su delle pile di cartoni impolverati, tossendo per l’aria di chiuso e di stantio. A tentoni, cerco un interruttore, lo Zahir che preme sulla mia pelle, come se avesse trovato la sua preda. Cosa, dannazione?

Quando la luce si accende, il fuoco mi toglie il fiato per come diventa intenso. E l’odio trova il modo di venire fuori, di sfogarsi prima di uccidermi. Rido sguaiata, folle come Bellatrix Lestrange, folle nel ricordo impolverato che emerge improvviso e vivido, mentre l’ultimo pezzo del mio mosaico mi si rivela con perfetta chiarezza. Ed è improvvisamente come spingere il fuoco, lontano da me, fuori da me. Con forza sovraumana, lo tendo fuori da me, come una freccia da scoccare, tenendolo in tensione, cacciandolo dalle mie membra fiaccate, fino a raggiungere il solo Zahir. Tutto il calore, tutta l’arsura che mi stava uccidendo, si concentra in quel solo punto, avviluppando di tremore il resto del corpo, ora freddo.

Il senso di ferire Draco ritorna. Posso farlo.

È facile come lasciar andare un elastico teso troppo a lungo. Schizza lontano e non puoi fermarlo, nemmeno se volessi.

Il fuoco, che avevo sempre percepito come una specie di febbre, ma solo ed esclusivamente mia, scoppia invece come una bomba dal mio polso, diventando reale, bruciando tutto il sotterraneo, mentre continuo a ridere.

Bruciando tutto ciò che ho davanti a me. La carta. I ritratti.

Helena di carta e pittura. Hermione di carta e matita.

La carta si annerisce in pochi secondi, aggrovigliandosi in forme surreali, allungate, brucia di nuovo Helena Jasmine Greengrass, come il giorno in cui è morta, ma stavolta assieme ad Hermione Jane Granger. Le due donne che sono state la rovina di Draco Malfoy.

Ora capisco… ora è tutto chiaro… perché… mi ha fatto restare qui.

Il sotterraneo pieno di schizzi miei e di Helena. Il quadro di lei che stava terminando, quello che aveva iniziato tanti anni prima, come ho visto nei suoi ricordi.

Draco ricordava sempre il quadro di Daisy Diggory che Amos aveva in salotto. Parlava con esso, quando tornava dal lavoro, come se la moglie fosse ancora viva, fosse ancora con lui.

Aveva deciso di dipingere Helena, aveva iniziato con i suoi occhi e, quando lei era morta, aveva deciso di renderlo un dipinto vivo, animato, per avere sempre un ricordo di lei. Per farlo, credeva che bastasse il forte sentimento per lei, come dicono tutti i libri.

Un quadro si anima perché richiama un pezzo di anima di quella persona, dal mondo dei Morti. E solo un sentimento forte può farlo.

Ma evidentemente l’immagine di lei iniziava a sbiadire con il tempo e non riusciva a finire il quadro.

Poi sono arrivata io… con la mia strana somiglianza con Helena. Mi ha visto dormire quella prima sera che sono rimasta qui.

Quel ricordo… io con la maglia da calcio. Lui che non riusciva a capire. E poi afferrava il tutto.

Guardando me, ricordava lei.

E la mattina dopo, mi ha fatto restare qui. Con la clausola che vivessi qui.

Era il solo modo per guardarmi senza che me ne accorgessi… guardarmi dormire…

È sempre stato… solo… questo…

Rido con soddisfazione mentre il ritratto di Helena sparisce nelle fiamme, assieme agli schizzi che invece mi rappresentano, poco abbozzati, come era giusto per lui, essendo solo la copia malriuscita di Helena. Servivano solo da guida per continuare l’opera di lei.

Tutto torna al suo posto, ogni mistero svelato. Ogni minima parola adesso ha un senso diverso, ulteriore, chiaro, preciso.

Ora di Helena non resta davvero più nulla… ora saprà cosa ho provato io. Dovrà soffrire per forza adesso.

Calpesto con soddisfazione la cenere del ritratto, ridendo ancora, non ne è rimasto che qualche frammento sparso. Qualche frammento sparso. Li guardo distrattamente, l’odore di carta bruciata che mi annebbia l’olfatto, la cortina di sangue ancora sugli occhi. Una fitta improvvisa al cuore. Dolorosa, più del fuoco. Annaspo senza respiro.

Il ricordo. La tempera fresca. 

Sebbene lo Zahir mi stringa forte, quasi impedendomi di muovermi, mi chino a raccogliere il frammento del ritratto bruciato. Piccolo, minuscolo, si spezzetta tra le mie dita, eppure è chiaro anche nella nebbia di rubino. Lo guardo un paio di volte, il respiro accelerato, il fuoco che ritorna ma gela su sé stesso, una cascata che lo mette a tacere, come se non avesse nemmeno motivo di esistere e di aprire bocca nel mio corpo.

Quel minuscolo frammento… piccolo… di occhi. Di Helena.

Gli occhi.

Ma non sono azzurri. Non sono quelli di Helena.

Nostalgia, lacrime sulle labbra riarse dal fuoco.

Occhi color cioccolato… come erano i miei. Luccicanti, pieni di luce. Un castano intenso, definito, senza alcuna traccia di azzurro.

Un altro spasmo. Scricchiola lo Zahir, liberando altro fuoco indifferente nel mio corpo. 

Il ricordo… era reale. Quando ero addormentata… io ho davvero visto Draco e questo posto.

La mano fasciata. Lo spasmo negli occhi grigi. Il pensiero di Draco.

Helena somiglia ad Hermione.

Nel ricordo, c’era ancora dell’azzurro. Ora… non ce n’era più.

Il quadro… gli occhi… stavo diventando io.

La tensione nel suo corpo. Mandarmi via e volermi disperatamente trattenere qui.

Era vero. Mi ha sempre voluto trattenere qui.

Draco… mi hai voluto sempre trattenere qui, al punto che… ancora non ci posso pensare…

Al punto da confondere il ricordo di lei. Al punto da offuscare l’amore che doveva animare il quadro e richiamarla.

Al punto che gli occhi di lei… diventassero i miei.

Non ci posso credere… e io… ora… ho distrutto tutto…

Improvvisamente, un conato di vomito mi impedisce di respirare, crollo supina, piegandosi sul peso del mio corpo che si fa gelido, mentre una risacca di fuoco liquido lo abbandona, così come era nata, bruciando tutto al suo passaggio, come un esercito sconfitto che, battendo in ritirata, si vendica dei più deboli. Esce dal mio corpo, lentamente, facendomi sentire punte ed aghi di dolore, persino sotto le unghie.

Un attimo di pace, prima che un’altra onda torni al suo posto. Fredda eppure calda, mi scava dentro la voragine che aveva lasciato quando se ne era andata via. Riprende il suo posto con prepotenza come un imperatore legittimo che torna sul trono.

L’amore riprende possesso di me. Doloroso, inquieto, curvato dal senso di colpa. Ma enorme come era prima, salvandomi almeno dal fuoco eterno. Lo Zahir geme e si spezza, riducendosi ad una nera polvere di vento che vola via dal mio polso.

L’amore. Sono di nuovo me stessa.

Guardo il polso, libero dal bracciale di morte che lo cingeva, lo segna una cicatrice scura, come una bocca deformata, ma non mi interessa. Finalmente… sono libera.

Il senso di felicità che mi pervade non dura che pochi secondi.

Pioggia nel mese di settembre.

Ancora in ginocchio, nella cenere, non lo vedo in viso. Sibila le parole che mi aspetto e che non sono nulla, rispetto al senso assurdo di colpa che mi sconquassa dentro, rovesciandomi, dopo aver distrutto tutti i ricordi della persona che amo di più al mondo.

Ora che lo so. Ora che lo sento daccapo. Ora che amo Draco come sempre. Come sento adesso che doveva essere da sempre, per quanto sia giusto e naturale per me. Nessuno Zahir al mondo avrebbe potuto davvero farmelo scordare. Ne sarei morta, prima.

E ci sono quasi morta.

Non mi sarei mai fermata. Mai. Dopo i ritratti, avrei ucciso lui, e poi me stessa.

Ma io ho già ucciso me stessa, l’Hermione che, senza che io lo potessi minimamente immaginare, gli era cara fino a cinque secondi fa e che brillava di tela innocente. Innocente come mi credeva e come ora sa che non sono mai stata.

Quella Hermione, anche se ora è di nuovo qui…

“Per me, da oggi, Hermione Jane Granger…non esisti più…”.

… per lui, è morta davvero.

 

 

Non so che le sia successo… anche questi capelli, sembra così diversa… e credo anche che tu la conosca meglio di me, per poterlo dire… ma una cosa non è mai cambiata… lei… Hermione… è sempre stata solamente tua…

Terra bagnata come un eco che scompare.

Nel dormiveglia, indotto dall’alcol e dalla stanchezza, la voce che sento soffice e soffusa vicino a me, mi sembra quella di un angelo. Si accompagna ad una tiepida carezza sui miei capelli e ad un sospiro appena trattenuto.

La testa mi scoppia di mille voci. È come se dall’altra stanza ne provenissero altre, concitate, agitate, frettolose… ma sono così lontane… che non sembrano essere davvero nell’altra stanza.

Bisogna agire, adesso, subito. Anche stanotte, se necessario.

Una voce familiare. Acuta, sottile, dolciastra.

Le altre, invece, non mi sembra di riconoscerle, mi giungono lievi ed impalpabili, come se si trattasse di un sogno.

Forse sarà del tutto inutile… l’avessimo saputo che sarebbe andata così, avremmo agito prima.

Non è tutto perduto, comunque… basta poco per…

Le voci si spengono così come erano nate, diventando sommessi bisbigli che non riesco più a distinguere. Faticosamente riapro gli occhi. La voce dell’angelo… sorrido. Ovviamente era la sua.

“Hermione, tesoro…” Seth, preoccupato, mi accarezza la fronte madida di sudore. Contro la mia pelle bollente, la sua mano sembra dolcemente fresca. Eppure, la prima cosa che sento distintamente attorno a me, è il profumo di Draco.

Come potrei confonderlo con qualcos’altro che esista al mondo… perché era qui?

Non merito nemmeno di restare nella sua stessa casa ancora per un minuto, dopo quello che ho fatto.

Non ero in me, d’accordo, ma lui non lo sa. E soprattutto non conta.

Era una parte di me. Io ho creato lo Zahir. Io non me ne sono andata, quando ho visto che le cose iniziavano ad andare male. Io sentivo quella feroce soddisfazione al pensiero di infliggergli quanto più male possibile. Ed io ho bruciato il quadro di Helena.

Sono stata io. Non lo Zahir.

Distendo lentamente il polso davanti a me, lo Zahir non c’è più, la lunga e sottile cicatrice rossastra pulsa di dolore, riempiendomi il braccio di scariche elettriche. Devo considerarmi fortunata ad essere ancora viva. Decisamente fortunata.

Nel riflesso dello specchio, accanto al letto, intravedo anche il mio attuale aspetto. Ancora nero, ma quasi sbiadito. I miei colori lentamente torneranno, lo so, l’odio abbandonerà del tutto il mio corpo, le scariche elettriche passeranno, il tremore pure, forse anche la cicatrice un giorno si rimarginerà del tutto, smettendo di fare male. Ma il pensiero di quell’odio che mi ha posseduto… quello… non credo che andrà mai più via. Resterà sempre l’onta di un ricordo inconfessabile, salvato in extremis solo dall’amore per lui.

Come il peccatore che si pente in punto di morte. Ecco, così.

E, ora, devo solo ringraziare di non essere all’inferno. Di non bruciare. E mi devo preparare al mio lungo purgatorio, all’espiazione del peccato. Primo passo, non vedere Draco mai più. Andarmene via. Lasciarlo libero finalmente. Smettere di rovinagli la vita.

Accusavo lui di averlo fatto con la mia.

Invece, sono io che lo faccio da settimane con le sua, specie dopo che mi ha detto in tutti i modi di andare via.

Non ci credo di essere stata così egoista e sconsiderata… arrivando al punto di distruggere, stringo il lenzuolo tra le dita… se anche un giorno mi perdonasse, io non perdonerò mai me stessa. Mai. Per avergli fatto deliberatamente così male… ed è la persona che amo di più al mondo… figuriamoci se davvero l’avessi odiato.

Un brivido di freddo mi scuote, attirando l’attenzione di Seth che si precipita a mettermi un’altra coperta addosso.

“Herm, stai bene?” mi chiama ancora, scuotendomi leggermente. Guarda il mio polso, scorgendo la ferita che marchia la pelle chiara, e a disagio, la nascondo immediatamente sotto il lenzuolo.

Faccio un cenno affermativo con il capo, chiedendo che cosa sia successo. Seth mi spiega che ho bevuto troppo e che ho perso i sensi, non fa nessun accenno al fuoco nei sotterranei. Evidentemente Draco ha messo tutto a posto, per quanto sia possibile.

Gli occhi mi si riempiono di lacrime, pensando che ho distrutto anche la sola cosa che dimostrasse che ci teneva a me.

La sola cosa che avrebbe potuto darmi forza.

Quindi, forse, è anche meglio che quel frammento non esista più. Non finirebbe mai con quel frammento sempre negli occhi. Un giorno, lontano chissà quanto, mi dimenticherò persino che è esistito. Quando anche io sarò lontana chissà quanto…

 “Forse è meglio che ti lascio riposare…” suggerisce cauto Seth, studiando il mio viso, evidentemente stravolto.

Sollevo gli occhi, poverino, quante gliene faccio passare…

Sorrido: “Tranquillo Seth, sto bene… anzi, ti chiedo scusa per prima… credo di essere affetta da qualche forma di schizofrenia…”.

“Me ne ero accorto…” sospira lui sedendosi sul letto accanto a me “Ma credo che non sia una novità… l’ho capito dal primo giorno che ti ho conosciuta… e come se non bastasse, sei terribile quando ti innamori…”.

“Decisamente…”.

“Quindi…” replica Seth con voce sorniona e ammiccante, guardandomi di lato e attendendo finalmente la mia confessione finale. Crede di avermi gettato una trappola perfetta in cui sono cascata, sorrido. Chiaro che l’avessi subodorata, mi ci sono tuffata apposta.

“Niente, Seth…” sospiro, torturando il lenzuolo tra le mani, le scariche che continuano lungo il braccio “Credo che tu lo abbia sempre saputo no?”, la mia voce si smorza, mentre aggiungo: “Sono dannatamente innamorata persa di Danny Ryan…”.

“E Hayden? Cosa è cambiato da stamattina?” mi chiede con voce incolore, nessuna ombra di rimprovero o di giudizio nella sua domanda. Vorrei dirgli che non è cambiato nulla, che il mio cuore era solo anestetizzato da un incantesimo ancestrale, ma ovviamente non posso. Quindi respiro a fondo, prima di rispondere: “Nulla… o meglio, credo che mi volessi convincere che Danny non contasse nulla per me… e per farlo, ho usato Hayden. A pensarci, mi faccio abbastanza schifo… eppure, adesso, mi sento quasi meglio, ora che sono almeno sincera con me stessa… certo con Hayden sarà dura, dovrò parlargli e chiarire le cose, e sicuramente non vorrà più avere nulla a che fare con me… cosa che non posso biasimare… ma sono innamorata di lui… di Danny…”.

Distolgo gli occhi, è così difficile dire Danny e non Draco. Rende la cosa diversa da come è in realtà.

Relega tutto in una dimensione onirica e lontana. Danny non ha mai amato Helena, non ha mai stretto una Promissio Gemina con Astoria Greengrass, non ha la figlia della sua ex da accudire, non ha mai ritratto una donna che amava con i miei occhi.

Danny non è Draco. E io sono innamorata di Draco Malfoy, non di Danny Ryan. Ed è un concetto profondamente diverso.

Perché richiama alla mente il binario 9 e ¾ e un bambino biondo che teneva il libro del Piccolo Principe, nascosto sotto il letto; mi fa pensare ad un campo da Quidditch e al ragazzo che mi chiamava Mezzosangue, per la prima volta nella mia vita; mi fa ricordare la Sala Grande illuminata a giorno, al Ballo del Ceppo, ed il giovane uomo che mi lanciò un’occhiata senza poter dire null’altro.

Mi fa ricordare chi sono davvero. E mi riporta la dimensione enorme del mio amore, per cui ho lasciato indietro chi ero davvero.

“Mi ha detto di parlarti…” esordisce Seth con un filo di voce, richiamandomi dai miei pensieri. Mi stringo nelle spalle, presagendo il resto.

“Domani mattina… ha detto che ti accompagnerà nella località dove avrai l’esame…”.

Ovvio. Stavolta vuole essere davvero sicuro che io vada via sul serio…

Hogsmeade. È lì… mi accompagnerà lì.

Seth continua con la voce flebile, dicendomi che non ha capito il motivo di tanta risoluzione improvvisa in Danny, sembrava spiritato e asserisce convinto che, da quando lo conosce, è la prima volta che non gli ha concesso nemmeno di replicare e di opporsi a quello che stava dicendo. Deglutisco, immagino perfettamente il tenore della conversazione e lo sguardo che deve aver avuto, ne sono stata la destinataria così tante volte che oramai non mi spaventa più, anzi, da povera pazza, mi sono innamorata anche di quello sguardo. Certo per Seth, invece, è diverso. Ed è ancora la sottile differenza esistente tra Danny e Draco a fare tutto.

Quello sguardo è tipico di Draco e non di Danny. E Seth, con Draco, non ha mai avuto a che fare. Ma io sì.

Il limite che ho sempre sfiorato e sfidato, ora è superato.

Dico a Seth che voglio riposare ed invece inizio ad ammonticchiare roba sul letto, uscendola da armadi e cassetti, per poi riporla con eccessiva lentezza nella mia borsa da viaggio. Non ho tantissima roba da portare via dal Petite Peste. Non ne avevo mai portata molta.

Sono sempre stata terrorizzata dall’idea che quella diventasse in tutto e per tutto casa mia.

Ma lo è diventata lo stesso, senza che nemmeno me ne rendessi conto. O meglio lo è diventato Draco.

Draco ora è casa mia.

Ed è una morsa calda alla bocca dello stomaco, che mi mozza il fiato, sapere che ho lottato così duramente per evitarlo ed è comunque successo. Forse, poi, sarebbe anche andata bene così, forse sarei riuscita a restare qui, nonostante tutto, ma io dovuto rovinare tutto.

Il braccio formicola in preda alle scosse elettriche che non mi lasciano in pace, la ferita aperta dello Zahir pizzica come se fosse infetta e le ginocchia cessano di reggere il mio peso, facendomi scivolare a terra come una supplice, incapace persino di mettermi a piangere.

È in quella posa che accolgo l’alba, ovattata da rimpianti, rimorsi e ricordi.

Credo di essermi addormentata e di non essermene accorta, infatti il tempo sembra passato in un solo secondo. Un momento prima, il braccio formicolava ed era notte… ed ora c’è il sole. Mi alzo in piedi, quasi per sincerarmi che davvero sia l’alba. Sorge un sole strano, freddo, attraverso la nebbia che non si dirada, come una coltre di nubi scesa apposta per rendere tutto meno visibile. Il braccio continua a tremare, senza controllo, lo tengo fermo con l’altra mano. Chissà per quanto tempo dovrà durare, constato sospirando. Dubito anche che esista un modo per frenare questa cosa. In fondo è l’effetto collaterale di una pozione proibita.

Con la coda dell’occhio, guardo il mio riflesso nello specchio. Sbatto le palpebre un paio di volte, incredula, avvicinandomi ad esaminare meglio la mia immagine. Impossibile.

Ho i capelli perfettamente pettinati e legati in una treccia, ancora neri, come i miei occhi, ma che si stanno piano riempiendo di riflessi color cioccolato. Sono anche vestita in modo diverso, con un paio di jeans e una camicia a scacchi verdi ed azzurri.

E quando mi sono cambiata??

Inoltre, da un esame veloce del bagno, sembra anche che mi sono fatta la doccia. Eppure, non me lo ricordo proprio… sarò diventata anche sonnambula?

Tra le altre stranezze, quella maggiore però risulta essere il fatto che, nella tasca dei miei pantaloni, c’è una bacchetta.

Sembra quella che Draco mi diede il giorno in cui tememmo l’attacco dei Mangiamorte, quella che lui diceva avere di riserva e che usava a scuola. E quando l’ho presa?? E perché? Più scavo nella mia memoria, e più non me lo ricordo, dannazione.

Speriamo che sto maledetto Zahir non mi abbia anche fuso il cervello… sospiro, cosa di cui non potrei nemmeno essere completamente sicura.

Esco di soppiatto, sperando di poterla riportare nella stanza di Draco, senza che lui se ne accorga. Liquido tutto mentalmente con il fatto di aver sognato di dovermi difendere da qualcosa, e quindi mi sono preparata e ho preso anche la bacchetta, anche se la spiegazione non mi convince del tutto, perlomeno il sogno dovrei ricordarlo.

Ma, mentre esco, quella questione passa ovviamente in secondo piano. Lui è già lì ad aspettarmi, fermo sul pianerottolo tra le due parti dell’appartamento, le braccia conserte e gli occhi chiusi, la schiena appoggiata alla porta della sua camera.

Faccio appena in tempo a nascondere la bacchetta sotto la mia maglia che inizia a parlare:“Sei pronta?” .

La voce sottile per paura di svegliare Serenity ha solo le parole di una carina cortesia. Il suo tono è stentoreo e potente come una condanna a morte. Non apre nemmeno gli occhi.

Annuisco senza sollevare il viso da terra, porgendogli la mia valigia che recupero dall’interno. In fondo, non ha alcun senso aspettare ancora. Mi concedo il lusso proibito di conservare il calore lieve della mia mano che sfiora la sua, per l’ultima volta, mentre prende in mano il mio bagaglio. Quel secondo di pelle accarezzata lo terrò nel cuore come un addio, anche se è un suicidio cercare ancora, a questo punto, cose del genere. Mi concede il dono anche di poter arricchire quel contatto con un ultimo sguardo, mentre ci sfioriamo. La luna dei suoi occhi compare dietro la coltre della sua indifferenza e rabbia, poi scompare, lasciando il posto alla mia notte eterna. Ora, nulla potrà rischiarla. Mai più.

Prima di incamminarmi alle sue spalle, il braccio mi prende a tremare così forte che mi sembra che si debba staccare dal corpo. Spaventata, tento di tenerlo fermo ancora con l’altra mano, ma le scariche sembrano quasi trasmettersi anche al braccio sano.

Sembra quasi che stia sfuggendo dal mio controllo.

Pochi secondi, e sembra passare. Dovessi sopportare solo questo per quello che ho fatto… andrebbe anche bene così.

Ma la condanna non è quella, ovviamente. È scendere queste scale, cosciente che è l’ultima volta.

È guardare le pareti con sgradito affetto, ricordando episodi e momenti.

È trattenere le lacrime di fronte a Seth che ovviamente è giù ad aspettarmi.

Ed è lo strano formicolio sotto le dita, che non c’entra nulla con le scariche elettriche, che non lo rivedrò… per anni.

E mi sembra che quella strana percezione e certezza abbia preso anche lui, rendendolo immobile come una statua mentre Draco esce per accendere la macchina. Spalanca le braccia e, come una bambina, corro ad abbracciarlo.

Sembra un addio… e non dovrebbe esserlo… ed invece lo è.

D’ora in poi, tutto sarà diverso… forse è questo. Forse è la nostalgia perché non vivremo più assieme.

Non è questo.

Io sento che Seth non lo rivedrò più.

Cerco di tenere a freno questa componente fortemente irrazionale, che non so nemmeno da dove mi sia uscita, e mi stacco da Seth a malincuore, accarezzandogli la guancia bagnata: “Smettila, scemo… non me ne vado certo dall’altra parte del mondo…”.

“Lo so…” aggiunge con un singhiozzo “Ma… avrei voluto fare di più per trattenerti qui…”.

“Non dire sciocchezze… io e Draco non possiamo più vivere assieme, lo sai meglio di me…”  sorrido, prima di rendermi conto di come ho chiamato Draco davanti a lui. Spalanco gli occhi, portandomi le mani alla bocca, prima di mentire in modo automatico, come ho sempre fatto da quando ci conosciamo. Ma Seth non trasale e nemmeno mi guarda interrogativo. Nulla di tutto questo.

Sorride mestamente, e poi sussurra: “Spero solo che questo passato che vi separa adesso, un giorno vi unirà finalmente… sai cosa, Hermione? Voglio continuare a credere che sia il vostro destino… non sarebbe così difficile per voi, se non fosse così…”.

“Se sarà così, quel giorno sarai il primo a saperlo…” sorrido, nonostante tutto.

“E voglio anche i particolari piccanti… visto che io non ne ho potuto godere…” scherza tra le lacrime, dandomi un buffetto sulla guancia.

“Quelli te li sogni, razza di satiro in calore…” aggiungo con la mia solita voce autoritaria e saccente, piegata ed incrinata dalle lacrime, prima di correre fuori e scappare via da lui. Apro velocemente lo sportello della macchina di Draco, non lasciando che nemmeno l’aria del primo mattino mi pizzichi il viso bagnato. Lui entra velocemente dall’altra parte, mettendo in moto.

Le lacrime non smettono di scendere dai miei occhi, eppure resto a testa alta, guardando dritto davanti a me il parabrezza e la Londra sonnacchiosa che lentamente mi lascio alle spalle per un futuro sconosciuto. Tutto è nebuloso, e non è solo colpa delle lacrime o del nodo in gola che mi impedisce di respirare.

È la presenza di Draco, silenziosa come un macigno, ad offuscare ogni cosa.

Senza di lui, il mio futuro è solo una pagina bianca che non posso scrivere, come se non avessi nemmeno un pezzo di carbone per provare a segnare qualcosa. So che strapperò pagine su pagine, illudendomi di poter essere nuova e diversa e di poter cancellare ricordi e sentimenti. Ad ogni pagina strappata, mi riprometterò che quella sarà la mia ultima volta e che stavolta non resterà bianca, ma avrò la forza di iniziare di nuovo qualcosa. Ma il cimitero delle mie pagine strappate e dei mie giorni bruciati sarà sempre troppo esteso.

Non avrò nemmeno la consolazione di colpe da dare, se non a me stessa.

Avrò il macabro conto dei giorni che lo separano dalla donna che davvero lo farà innamorare, come spero che accada.

Oppure conterò i frammenti del suo cuore, ancora sanguinante per Helena, e mi dirò che sto meglio perché soffre anche lui. Ed poi mi ritroverò a maledire quel pensiero nelle mie lacrime, perché penserò sempre che il suo dolore sarà sempre peggio di qualsiasi cosa che possa succedere a me.

Sicuramente, un giorno, avrò anche amanti e fidanzati.

Li cercherò in chiunque con così poca stima di sé stesso da prendere una con il cuore difettoso.

Nelle lenzuola riscaldate da precario calore, cercherò la traccia delle labbra di Draco sulle mie, che mi hanno marchiato come se davvero fossi sua. E sarà disperazione non trovare più i suoi occhi e sognarli sempre, più reali di qualsiasi cosa davvero esistente.

Ed un giorno, so che arriveranno anche dei bambini, figli di qualcosa che ho avvicinato idealmente all’amore per lui, per cercare di darmi sollievo nella pietosa bugia di averlo dimenticato. Il tempo darà conforto, levigherà il dolore e la mia perdita, riempiendomi di inutili e futili scadenze ed impegni che forgeranno la voragine dentro ad immagine e somiglianza di una vita piena e felice.

E lui sarà quella scatola in soffitta che tirerò fuori il giorno in cui sono particolarmente triste, o in cui ho litigato con mio marito, o a Natale quando penserò ancora a lui e pregherò per un dono indirizzato a lui, sotto un qualsiasi albero illuminato.

Ma non se ne andrà via mai. Questo lo so. Diventerà rimpianto per un qualcosa mai avuto ed inconsapevolmente consumato.

Diventerà freddezza dei gesti e delle emozioni, congelate per sempre in questa mattina fredda di giugno.

Diventerà pretesto per litigi e distanze frapposte tra me e chi mi ama.

Diventerà malinconia nei giorni dei pioggia e fastidio nei giorni di sole.

Diventerà una cosa senza nome, attaccata dentro, che alla fine nemmeno saprò identificare più, ma che saprò sempre essere lì.

E io cosa diventerò per te?

La mia mano poggiata sul sedile dista solo venti centimetri dalla sua, stretta con rabbia sul cambio. Studio per qualche istante la sua mano contratta, le dita affusolate che, ora, mi sembra incredibile che mi abbiano stretto a sé, mi abbiano accarezzato il viso e mi abbiano trattenuto mentre cercavo di scappare via.

Mi mordo il labbro, le lacrime che non hanno smesso un secondo di scendere dai miei occhi, in silenzio, senza che se ne accorgesse.

“So che non ha senso adesso…” sussurro, voglio almeno che ricordi questo di me, e non il demone di ieri sera. Sono delle scuse inutili e stantie, ma almeno sono diverse dalle parole di ieri: “… ma non avrei voluto… fare… quello che ho fatto…”.

Sollevo gli occhi bagnati, cercando per un’ultima volta i suoi, anche se lontani e fissi davanti a sé. Godrò solo del loro riflesso, illuminato a tratti dai fari delle auto, ma andrà bene così. Davvero. Oramai va bene tutto, anche il silenzio.

Ma non li trovo dove mi aspettavo i suoi occhi.  

Sono nei miei, la strada solo una magra distrazione. Sussulto, in preda ai brividi, come se avessi la febbre.

I suoi occhi diventano scintillanti di diamante, mentre sussurra il mio nome, che non credevo di sentire più dalle sue labbra. Lo assaporo come una caramella dolcissima ed imprevista, come la parola gentile che ti illumina la giornata, come il miracolo che non avresti mai nemmeno osato chiedere. La mano sul volante trema, la stringe forte, tornando a guardare la strada con rabbia e dice qualcosa che intendo a fatica, il braccio che riprende a formicolare forte, la mia mano che corre, inconsapevolmente, alla bacchetta nella mia tasca.

Lo sento fermare la macchina, tirare bruscamente il freno a mano e spegnere il motore, ma vedo il tutto come se fossi lontana mille miglia, come se vedessi la scena dall’esterno.

Quando lo sento parlare, mi sembra quasi di non essere più qui.

“E io vorrei essere cambiato, Granger… al punto di fare la cosa giusta…” la sua voce è lontana chilometri ed anni assieme.

Trema tutto il mio corpo assieme al mio braccio.

Mi sento intorpidita, come se mi stessi addormentando, la mano che estrae la bacchetta dalla mia tasca.

Non capisco che cosa stia succedendo al mio braccio, perché si muova senza il mio controllo, perché abbia preso la bacchetta, ma è un rimasuglio della mia mente a farsi quelle domande, apatia e sonnolenza nel corpo. Resto cosciente solo perché il mio cuore continua a guardare gli occhi di Draco nei miei e continua ad aspettare che finisca di parlare.

Il mio corpo, pesante come cemento, non lo sento più mio.

So che il mio corpo è sempre uguale.

Sono sempre immobile a sentirlo, ho gli occhi sempre aperti… ma è come se… non mi appartenesse più.

“Ed invece, Hermione, io non sono mai cambiato… mai… sono sempre così dannatamente egoista, così come ero con Helena…e così sono rimasto anche con te…”.

Violento il mio corpo perché riesca a parlare, ma niente. Resto fredda come il ghiaccio, il denso torpore che continua ad avanzare. Il suo volto, illuminato lievemente dalla luce di un lampione, rimasto acceso nella nebbia, si solleva guardandomi. È distrutto, a pezzi, come se si stesse spezzando a metà. Di nuovo. Ma stavolta sono gli occhi a vincere. Stavolta… che sento di non poter rispondere.

“… io… non posso sopportarlo, Hermione… ho fatto di tutto, ma non posso sopportarlo… non vederti mai più…”.

Scoppia il cuore, nello stesso momento in cui il torpore arriva a lambirmi completamente.

E, mentre vorrei solo gettarmi tra le sue braccia e piangere, mi ritrovo a sollevare la bacchetta contro i suoi occhi atterriti.

E, mentre vorrei solo urlargli quanto lo amo, mi ritrovo a sussurrare due parole che mi ha sempre terrorizzato pronunciare e che ho evitato sempre di dire compiutamente. 

Proprio come ti amo.

Solo che queste non potrebbero essere la fine per me e per il mio desiderio di non farmi ferire da nessuno. Non sono ti amo.

Sono parole agghiaccianti, specie perché significheranno la sua di fine. Senza alcuna metafora.

Avada kedavra.

 

E dopo questo capitolo scommetto che bramerete ancora di più la mia morte!! Come sempre sono di corsa, quindi non ce la faccio a rispondere alle vostre recensioni, ma prometto di farlo domani via FB per quelle dello scorso capitolo!!:D chiedo davvero scusa…L grazie a tutti!! Per chiarimenti e domande, sono sempre disponibile via FB!! Un bacio!!

 

 

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Capitolo 28
*** Words I've never told you ***


Capitolo 28 – Words I’ve never tell you

Capitolo 28 –  Words I’ve never told you

 

 

Abitando sulla costa, mi sono resa conto che, senza accorgertene, il mare diventa una calamita.

Ti abitui all’orizzonte pieno e sconfinato, al di là delle case e dei palazzi, e l’occhio si completa di apparente quiete azzurra.

Il mare spesso mi chiama, specie nelle giornate di tramontana, e io mi allontano silenziosamente, percorro le strade sterrate vicino a casa e scendo in spiaggia, sedendomi sulla sabbia calda, turbini di polvere nel vento fresco.

L’aria, in quelle giornate, ha una nettezza così abbacinante che sembra il primo giorno della Creazione e ti sembra di vedere nella mente stessa di Dio.

La tramontana pulisce sempre l’aria e ha l’odore della salsedine e dello iodio di un mare lontano, a cui il mio è collegato da correnti sottomarine e da flutti immortali.

Chiudendo gli occhi, evitando di guardare direttamente il mare che continua a farmi paura come qualsiasi superficie acquatica, sento come se mi portasse l’eco del nord, soffiando feroce su di me e riempiendomi la pelle di brividi.

Sempre ad occhi chiusi, tocco la superficie dell’acqua, quasi concentrando il mio calore per farlo viaggiare nella distanza inimmaginabile che mi separa dall’Inghilterra.

Mi immagino, con un sorriso, Draco dall’altra parte del mare che fa la stessa cosa, anche se so perfettamente che, probabilmente, non è nemmeno vicino al mare. Forse è ancora a Londra. O magari da dove vive adesso, il mare nemmeno si vede. Ha le montagne a circondarlo e sorreggerlo.

Non ho mai finito quel libro. Le parole che non ti ho detto. Lo porto sempre dietro, quando vengo in spiaggia, volendomi concentrare su esso piuttosto che guardare le onde che mi terrorizzano, ma poi chiudo gli occhi, toccandone la superficie cartacea con le dita, lasciandolo chiuso.

Ma so perfettamente che il protagonista affidava alle onde le lettere d’amore per la moglie defunta.

Io non ho un marito morto a cui dedicare parole d’amore. Ne ho uno vivo a cui so dare solo un sorriso aperto, se sono in vena. 

Eppure, ho, oltre le onde, l’amore di tutta la vita.

Alcuni parlano di esperienze uterine per indicare dei ricordi che il bambino acquisisce nella pancia della mamma. Alex ha paura dell’acqua, esattamente come me.

Ed è difficile evitare il mare, abitando qui, quando d’estate l’aria si riempie di strilli felici di bambini che fanno il bagno, e d’inverno, comunque, il mare lo senti sempre, ruggisce come un animale e sembra volerti ghermire. Ma Alex, nulla. Il mare l’ha sempre evitato. Si stringeva a me e diceva che ne aveva paura.

Aggrottava le sopracciglia, come suo padre, e diceva: “Mamma, ma non sta mai fermo!”.

Sapevo che non poteva averne paura come me, anche perché io non lo avevo concepito nemmeno quel giorno, quindi insomma, era una cosa al di là del possibile.

Quindi, anche mio marito, cercava di forzarlo in qualche modo, ma Alex lo guardava come ha sempre fatto Draco. In modo corrucciato ed altezzoso, come il principe del mondo che guarda un suo infimo suddito. Mi è sempre scappato da ridere in quei frangenti, ma se lui, mio marito, se ne fosse accorto, avrebbe immediatamente collegato tutto a Draco. Non gli avrebbe fatto piacere, chiaramente, ma questo è il segreto di Pulcinella che io ami ancora Draco Malfoy, credo che lo infastidirebbe di più il fatto che mi faccia ridere che mio figlio, quello che non chiama lui papà perché io glielo ho impedito con tutte le mie forze, lo tratti come lo ha sempre trattato Draco stesso.

Alex vuole bene a mio marito, per carità. Ma come un amico. Non come un padre.

Ha solo cinque anni, eppure non ne ha mai voluto sapere di considerarlo tale. Come non ne voleva sapere del mare. 

Restavamo sulla spiaggia in silenzio, lui che si abbracciava a me e sporgeva il labbro inferiore con fastidio.

Ora, invece, fa il bagno con gioia nell’acqua poco profonda, assieme a mio marito.

Bastarono le parole che non gli ho mai detto. Bastò dire ad Alex che suo padre e sua sorella Serenity sono al di là di quel mare. Sua sorella… curioso che io la chiami così, in modo così spontaneo… eppure, anche se siamo una famiglia spezzata, io, Draco, Alex e Serenity lo siamo. Lo saremo per sempre.

Quelle parole, ad Alex, bastarono. La verità, a mio figlio, è bastata. È volata nel vento, l’ha assimilata e ha finto di dimenticarsene.

Le parole che non ho mai detto a te, invece, sono tutte qui, nel mare che ci divide, Draco.

In questo mare, che ci divide, si perpetua la mia assenza che, chissà, come ti sei spiegato negli anni.

In questo mare, che ci divide, si perpetua l’esistenza di Alex, che è solo un’altra parola che non ti ho detto.

 

 

Nella testa, il mio urlo mi ha bruciato i neuroni, per come mi ha straziato dall’interno.

Non sono sotto Imperius, me ne sarei accorta, nessuno mi ha puntato una bacchetta contro, non ne riconosco alcuno dei segnali esteriori e l’Imperius me l’hanno scagliato tante di quelle volte in addestramento che oramai lo conosco a memoria.

E so anche come contrastarlo, sebbene con difficoltà enorme.

L’Imperius ti dà la sensazione di fluttuare, ti senti persino liberato da ogni pensiero… è come galleggiare.

Questo no, … il corpo impantanato nelle sabbie mobili… è diverso, profondamente diverso.

E… non so… che fare…

Ma non l’ucciderò mai. No, questo mai… l’osmosi è compiuta. Se muore lui, muoio anche io. E non ci sto a morire oggi.

Non adesso. Non qui.

Sono troppe le parole che non gli ho detto. Sono troppe quelle che lui non ha detto a me.

L’urlo prosegue, perché tanto non lo deve sostenere la voce, ma solo il pensiero. La bacchetta trema nella mia mano, i suoi occhi si velano di una rassegnazione che non vorrei che avesse. Vorrei che fosse disperato perché vorrebbe dire che ci tiene enormemente a vivere.

Di carta il pensiero, l’urlo viaggia per i miei nervi, fino alle mie mani.

Si piega la bacchetta.

L’onda d’urto.

Volo via, come una bambola di pezza.

Nulla più.

 

“Che cosa si prova sapendo che sarà la seconda volta che vedrai morire la tua donna, per mano mia?”.

Sento quelle parole con una parte remota della mia mente, non intendendole davvero, non carpendone il significato. Le parole mi sembra che non esistano più, non esiste la sintassi, la grammatica, il loro fluire costanti una dietro all’altra per dire qualcosa.

Non esistono sinonimi e contrari, non esiste la punteggiatura, non esiste il modo di coniugare un verbo ed un aggettivo.

Non esiste.

Esiste solo che questa non è la voce di Draco. Lenta, roca, strascicata sulle finali come se fosse sempre convinto che non stai mai capendo che cosa sta dicendo e ciò lo irritasse enormemente. Dal timbro chiaro, preciso, come una campana ridondante che impone attenzione e riverenza. Dall’accento inesistente, plasmato da una imposta dizione aristocratica e nobile.

Non è la voce di Draco. E tanto basta.

Non voglio aprire gli occhi. Non voglio, non ne ho bisogno. Perché, aprendoli, vedrei qualcosa che non posso sopportare e, fin quando li ho chiusi, io posso ancora accettare di stare dentro il mio corpo. Lo stesso che lo ha ucciso.

Posso tollerare il sangue che scivola stupido nelle mie vene.

Posso sopportare le ossa che reggono il peso di questi ventitre anni.

Posso convivere con la pelle che contiene e delimita quella che sono.

Fino a quando non apro gli occhi…

La mente, che è ancora libera da questa prigionia incomprensibile, ordinerà al mio corpo paralizzato di morire, se lui dovesse essere morto. Il corpo fa sempre quello che vuole la mente, sempre. Ed anche il mio corpo dovrà morire allora.

Punto e basta.

Senza nulla a trattenermi qua, in questo ritaglio di tempo. Ogni secondo senza di lui… il pensiero di averlo ucciso, io… posso sopportare che non mi ami, posso sopportare che ami Helena, posso sopportare che mi odi, che mi disprezzi, che gli faccia ribrezzo, che si auguri costantemente la mia morte… ma posso sopportarlo se è vivo. Non, se è morto.

Mi rendo conto con terrore che io, gli occhi, li ho sempre tenuti aperti e che era solo la coscienza a mancarmi fino a qualche attimo fa.

Ho perso i sensi, ma gli occhi sono sempre rimasti aperti.

Sono la sola cosa che posso controllare, riesco stranamente a muoverli, ma non riesco a chiuderli.

Un’altra crudeltà gratuita… ma di chi, dannazione?

Confusamente, mi guardo attorno, per quanto me lo consenta la mia testa immobile.

Una terrazza, una veranda enorme, retta da colonne di vago stile dorico. Sembra una costruzione antica, fatiscente, edere rampicanti sono avviluppate attorno alle colonne, rese di colore rosa dalla luce del sole che sta morendo.

Il tramonto… è passato così tanto tempo?

Possono anche essere passati milioni di miliardi di secoli, assieme a tutta l’eternità, se lui non c’è più.

Oltre una ringhiera bianca che sta cedendo in più punti, placido un lago gode di sfumature rossicce. Non un lago qualsiasi, sobbalzo mentalmente nella mia acquiescenza mentale e nel mio torpore fisico.

Nell’angolo destro della mia ristretta visione, adagiata in una valle, Hogwarts si sta progressivamente accendendo di piccole luci tremolanti nella penombra del crepuscolo.

Perché, dannazione, sono proprio qui?

E perché non mi hanno uccisa subito? Volevano che lo uccidessi, l’ho capito, hanno trovato il modo di controllarmi e volevano che fossi io ad uccidere Draco. Probabilmente vogliono che muoia io, a mia volta. Ma allora perché hanno aspettato?

Ora, che non posso nemmeno piangere, ora che il dolore e la sofferenza rischiano di farmi scoppiare come in un’overdose, riducendomi a pezzettini minuscoli...

Abbasso gli occhi e noto una serie di particolari assurdi, del tipo che non indosso più i miei vestiti, ma un ampio abito di seta viola che accarezza le mie gambe tumefatte e ferite. In modo confuso, sento anche altri punti del mio corpo doloranti, probabilmente coperti di escoriazioni e lividi. Uno, in modo particolare, mi fa male più degli altri, sulla fronte. La tensione che avverto tra i capelli, mi suggerisce che ho anche un’elaborata acconciatura, una crocchia sulla nuca, probabilmente ornata con dei fermagli. A completare il mio aspetto da principessa, intravedo al mio collo una pesante collana di ametiste e diamanti. Inoltre sembro anche mollemente seduta su una poltrona cremisi.

Una bambola abbigliata e preparata, devo essere finita nelle mani di un maniaco.

Non ho paura, nessuna paura. Anzi… tremo dall’eccitazione che mi ammazzi quanto prima.

Lo cerco con gli occhi, intuendo che si tratti di un mago potente se mi ha fatto tutto questo senza che me accorgessi, atteggiando il mio sguardo alla preghiera che la faccia finita quanto prima.

La colonna di fronte a me, era seminascosta da un’ombra, una nuvola era passata davanti al sole. Essa improvvisamente scivola via nell’alito di vento che mi scuote i capelli neri. Uno scoppio dentro il cuore, e milioni di coriandoli di luce e fuoco nello stomaco.

Piangerei dal sollievo e dalla ritrovata voglia di vivere, ma ovviamente non posso, i miei occhi diventano solo un po’ più lucidi mentre guardo Draco, legato alla colonna, sospeso nell’aria a qualche centimetro di altezza, ferito, che perde sangue dalla testa, ma indiscutibilmente ancora vivo. È vivo… vivo, vivo, vivo.

Ancora lì, con quelle sue labbra che si aprono sempre a sproposito.

Ancora lì, con quelle sue braccia che incrocia al petto sempre troppo spesso.

Ancora lì, con quel sopracciglio che va aggrottando ogni santissimo minuto.

Ancora lì, con quel maledetto naso di cui, scommetto, va fiero come se l’avesse disegnato lui stesso.

Ancora lì, con quegli occhi che ora mi fissano, notando immediatamente che i miei si sono mossi e puntati nei suoi. E che mi sembrano chiedermi scusa, anche se non ce n’è alcun bisogno e necessità. E che scrutano attentamente il mio viso, socchiudendosi di fronte alle ferite ed ematomi, per poi ritornare freddi ed imperscrutabili come prima.

Il sollievo e la gioia mi fanno maledire la terribile maledizione che mi ghermisce, in gola il groppo che grattava le mie corde vocali si scioglie velocemente e vorrei scoppiare a piangere, ma la mia enorme emozione si traduce solo in un goffo gemito impercettibile.

Non so in che mani siamo finiti, e probabilmente siamo vicini a morire… e, anche se dovessimo cavarcela, probabilmente lui mi manderà ugualmente via… ma, per il momento, mi basta solo che lui sia vivo. Solo quello.

Se guardo indietro, alla vecchia me stessa, so che lei avrebbe considerato questa solo un’elemosina. Mi avrebbe chiesto con fare saccente, umettando le labbra dal fastidio, se non mi trovassi davvero patetica nel gioire per una cosa così stupida, specie in una situazione del genere, dove nella migliore delle ipotesi, avrò probabilmente la consolazione di morire prima di lui. 

Ma, ora come ora, dopo tutto quello per cui sono passata…Draco, con la sua sola esistenza e con il solo fatto inconsapevole di avermi provocato tali sentimenti così insopprimibili da distruggere persino uno Zahir, è il mio miracolo.

E, quando ad un mortale è concesso un miracolo, è peccato mortale renderlo vano.

Un senso di urgenza, oltre la coltre nebbiosa che mi avvolge, mi coglie improvvisamente. No, non è solo un miracolo. È molto di più.

… non posso sopportarlo… non vederti mai più…

Non ho sognato. Ha detto davvero quelle cose, ne cerco traccia nei suoi occhi, rivolti alle mie spalle.

No, non ci sto a morire oggi e non ci sto che muoia nemmeno lui oggi.

Come un pesce nell’acqua che guizza, il mio stomaco fa una capriola, deve spiegarmi tante cose… troppe cose. E da morta, non mi risulta che io possa parlare. Quindi, chiunque sia che ci tiene prigionieri, dovrà cambiare i suoi piani.

Devo trovare il modo di liberarmi… forse se…

Improvvisamente, un dolore intenso brucia il mio cuoio capelluto, la testa scivola indietro mentre qualcuno mi tira per i capelli. Il mio corpo risponde come quello di una bambola strattonata da una bambina viziata, assecondando il movimento e facendomi inarcare la schiena indietro. Draco sfugge dalla mia visuale, gli occhi mi si riempiono di lacrime, miste alle luci indifferenti delle stelle che stanno sorgendo nel cielo bianco del crepuscolo. Quando sento che ne sto per essere straziata e quando quel dolore si trasmette ad ogni fibra del mio corpo, la presa viene meno e scivolo per terra, a faccia in giù, il naso che si arriccia involontariamente per la polvere. Il dolore lascia artigli gelati sul mio capo, ma resto con la fronte premuta al suolo, preoccupata stupidamente che il mio vestito si sia sollevato, ma che non posso nemmeno sistemarlo con la mano, bloccata dal peso del mio corpo. La stessa mano forte che mi ha afferrato per i capelli, mi stringe con violenza il polso, sollevandomi di forza, per poi gettarmi con malagrazia di nuovo per terra, ai piedi della sedia cremisi.

Scivolo distesa su un fianco, ancora come un cumulo di stracci, e dalla mia prospettiva non riesco a girare gli occhi al punto tale da inquadrare il mio aggressore, né tantomeno Draco.

Una serie di gesti inutilmente cattivi e crudeli…ci vogliono morti e, nella maniera peggiore possibile.

Altrimenti non avrebbero cercato di farmi uccidere Draco.

Cerco di non concentrarmi sul dolore e sulla paura che sta inevitabilmente affiorando, sia per me che per Draco, e cerco di capire di chi si possa trattare. E soprattutto cerco di capire come abbiano fatto a ridurmi in queste condizioni. Non è un Imperius, l’ho già notato.

Quello riuscirei a riconoscerlo e ad oppormi, almeno parzialmente.

Inoltre, esso annulla anche il pensiero, che invece mi è rimasto. E i movimenti inconsci mi riescono, come gemere o provare fastidio per la polvere, come poco fa. Che diamine è? E quando me l’hanno lanciato soprattutto?

Il polso, dove c’era lo Zahir, prende di nuovo a bruciare improvvisamente, apparentemente senza causa apparente, mi si torce letteralmente come se qualcuno lo stesse girando con forza inaudita come per romperlo. Prego di riuscire almeno a piangere, ma invece resto così, immobile, come se non mi stesse accadendo assolutamente nulla, mentre dentro sto scoppiando.

La causa è solo una voce.

Una voce.

Acuta come quella di un’aquila.

Ferma nella mia posa, la pelle mi si accartoccia, riconoscendola. Non ne ho mai avuto davvero paura, mai. Figuriamoci.

Ma, adesso, invece, mi terrorizza. E tutto per un atroce sospetto che mi ha raggiunto oltre lo stato di immobilità del corpo, facendomi sentire le punta delle dita infreddolite e la gola secca. Ad ogni mia riflessione, il sospetto diventa nitido e pesante come un macigno, saturandomi di brividi invisibili e camminando sulla mia colonna vertebrale come una colonna di formiche rosse. Il sudore mi inzuppa la fronte, mentre acquista sempre maggiore consistenza… la voce… dovrei averla sentita l’ultima volta, tantissimo tempo fa.

Esattamente… allora…

E’ finita, Malfoy… anche il Ministro sarà dalla mia parte, se aprirò bocca…

Attonita, seguo lo svolgersi dei miei pensieri e dei miei ricordi. Come se una cortina di fumo si diradasse all’improvviso, ma quello che aveva celato era talmente spaventoso che avrei preferito che non fosse mai andata via.

Con la vista inutile, dalla posizione in cui mi trovo, le iridi fisse su Hogwarts e sul lago che vanno imbrunendosi, quella voce riecheggia nella mia mente così forte da darmi la nausea. E la sua perfetta chiarezza mi irrita al punto tale che le mie dita, da gelide, si fanno bollenti. Se potessi muovermi, le stringerei forte, ferendomi il palmo delle mani. Ma non posso. E l’irritazione, non sfogata, si traduce in un blocco pesante sui polmoni che mi fa soffocare di paura disperata e furente.

Se è davvero come penso… se fosse così… io stessa mi sono consegnata nelle sue mani, da sola.

Io stessa le ho dato la chiave per distruggere me e Draco.

Evito di articolare ulteriormente i miei pensieri, nel farlo non sarei più capace di fare alcunché, fosse anche pensare ad un modo per uscire da questa situazione.

Se è stata lei… a farmi creare lo Zahir… vuol dire che avrei dovuto davvero temerla come invece non ho mai fatto.

E come dovrò fare adesso…

Astoria Greengrass mi supera con arroganza, calpestandomi deliberatamente ed assestandomi un calcio in un fianco. Rotolo di lato e finalmente la vedo chiaramente, anche se non avevo dubbio su chi fosse da quando ho sentito la sua voce. I capelli biondi sciolti sulle spalle, acconciati in dolci e morbide onde setose, tenute composte da una serie di fermagli di rubino; il viso truccato come quello di una bambola di porcellana, perfetto e privo di qualsiasi imperfezione. Ogni ciglia a posto, a celare e coprire il fuoco insensibile degli occhi azzurri, resi quasi viola dal riflesso sfolgorante del broccato cremisi che la veste. Non sembra più la fragile e nevrastenica Summer che ho conosciuto per mesi, ma un’imperatrice romana. Persino il passo è cambiato, incede lenta e sicura, nonostante i tacchi che porta.

Mi guarda con sdegno, un sorriso cattivo sulle labbra rosse, mentre sussurra a qualcuno alle mie spalle: “Non ucciderla… ci serve… ancora…”. Rabbrividisco, anche se le sue intenzioni mi sono sembrate oltremodo chiare dal primo momento.

Se davvero è andata come penso… se davvero è stata lei…

Dalla mia prospettiva, finalmente rivedo Draco, punta solo qualche secondo lo sguardo su di me per poi guardare Astoria con livore. I suoi occhi restano freddi come granito, ma le sue mani strette a pugno mi testimoniano chiaramente che cosa farebbe se fosse slegato.

Non è sorpreso, quindi deduco che l’ha vista prima, quando ero incosciente.

“Ti ho già detto…” bisbiglia Astoria all’indirizzo di Draco con voce suadente “… di non guardarla così… è una cosa che mi disgusta profondamente, Malfoy…”. Estrae una bacchetta dal mantello e la punta contro Draco. “Crucio!” urla e Draco si contorce dal dolore dei mille pugnali arroventati che gli si conficcano in corpo. Maledico la mia intollerabile paralisi e la mano di qualcuno alle mie spalle che mi afferra, facendomi rialzare come una marionetta e tenendomi fermo il viso affinché io assista alla scena. L’impotenza mi gonfia il petto di dolore ed umiliazione e l’oceano di lacrime che non posso piangere, preme contro i miei occhi.

Astoria pone fine all’incantesimo con una risata sottile, Draco ricade con la testa sul petto, gli occhi coperti dai capelli biondi, il respiro corto ed affannato, il sangue che gli cola dal labbro. Lo guardo ansiosamente, cercando di capire come stia, aspettando che sollevi gli occhi, ma non lo fa. Quando alza lo sguardo, non mi guarda, guarda altrove, sfuggendo apposta i miei occhi.

Non guardarla così…

“L’idea che tu possa amare una lercia Mezzosangue è una cosa abbastanza disgustosa per i miei occhi…” commenta malevola Astoria, guardandolo con aria di sfida e sollevando il mento “… ma che tu possa amare proprio la Granger… bé, questo è decisamente nauseabondo…”. Che diamine sta dicendo? È convinta che… ma come diamine fa? Se potessi parlare, le direi che si sbaglia, decisamente. E magari, lei ci lascerebbe stare… è un moto insensato già mentre lo penso, ma ancora più paradossale è rendermi conto che Astoria è certa che Draco sia innamorato di me. Se leggesse la mia mente, magari, vedrebbe tutto quello che mi ha fatto per mandarmi via e lo capirebbe. Cerco di concentrarmi per farle arrivare in qualche modo i miei pensieri, se è stata lei a farmi questo, dovrebbe riuscire ad essere in contatto con me. In un brivido freddo, desisto immediatamente dal mio proposito.

Non ha senso cercare di farle cambiare idea sul perché ci dovrebbe uccidere… dubito che se le mostrassi tutti i miei pensieri, ci lascerebbe andare con tante scuse e due bacetti sulle guance.

E poi… se davvero è come penso… lei, i miei pensieri dovrebbe anche conoscerli… probabilmente

Draco la guarda, stringendo le labbra con ripugnanza, prima di replicare monotono: “E’ una cosa che disgusta anche me… e non vedo come dannazione tu possa averlo pensato…”, sputa del sangue, sospirando profondamente.

Mi si gela il cervello, come volevasi dimostrare.

Ormai l’ha detto talmente tante di quelle volte che il mio cuore non trasale nemmeno più, ci è abituato.

Sì come no… si ferma sempre. È la mente che conosce quel dolore e lo sottovaluta. Il cuore fa sempre quello che vuole e che crede.

Ma, se persino io ormai conosco quel dolore del non essere né corrisposta né minimamente avvicinabile a lui, perché lei, Astoria, ancora non lo capisce? Possibile che sia così stupida? Possibile che non consideri Helena, che pure era sua sorella? Possibile che lei sola non ricordi o non sappia che cosa unisse Draco ed Helena?

Qualcosa che nessuna morte ha potuto sciogliere… figuriamoci se avrei potuto farlo, io.

“… ed in ogni caso non sarebbe nemmeno lontanamente rivoltante, quanto te che ti allei con gli assassini di tua sorella…” completa Draco con astio, trasfigurato in viso dall’ira e dal dolore, reso bestiale demone che si dibatte nelle catene che lo tengono fermo alla colonna. Producono un rumore metallico, freddo, amplificato dal silenzio ovattato che ci circonda.

Echeggia nell’ombra fresca della sera che scende quietamente indifferente.

Inorridisco, la pelle agghiacciata, mentre capisco chi mi sta tenendo fermo. Pucey. Montague. Gli assassini di Helena.

Pucey e Montague sono stati avvistati dalle parti di Hogsmeade.

Harry l’aveva detto a Draco, mentre ero in coma.

Erano davvero qui…

Solo quelle catene impediscono a Draco di scagliarsi come una bestia ferita contro gli uomini che cerca da tutta la vita e che devono esserli sfuggiti per un soffio, quando è stato qui, nei fatali giorni in cui non ero cosciente.

Come se lo avessi invocato, Adrian Pucey compare alla mia destra, quindi deduco che quello che mi tiene ferma, è Montague, cosa abbastanza intuibile dal fatto che i miei piedi non toccano il suolo per come lui mi tiene immobile, alla sua mastodontica altezza. Roteo gli occhi fino a guardare Pucey, non c’è traccia del ragazzo dai capelli neri spettinati che giocava come Cacciatore nella squadra dei Serpeverde. È dimagrito, hai capelli lunghi e sporchi, le mani e le braccia sono coperte di graffi e cicatrici: una spaventosa di colore bruno gli taglia a metà il viso, deformando il labbro inferiore in una risata perenne e priva della benché minima allegria. Gli abiti lerci pendono troppo grandi, il corpo scheletrico ci balla dentro. Guarda verso di me con risentimento e disgusto, visibili solo negli occhi.

Le labbra sottili, congelate per sempre in quel sorriso inutile, restano immobili per la parte sana.

Inorridita, cerco di comandare i miei occhi di non guardarlo, ma essi restano fermi come sono, affascinati in modo macabro.

“Sapevo che l’avresti detto…” chiarisce seccata Astoria, gettando uno sguardo in tralice ai suoi alleati “… ma sai che c’è? Io, mia sorella l’ho sempre detestata, quindi non mi è mai importato granché di lei e della sua morte…”, scuote i riccioli biondi liberando un’ondata di profumo simile alla vaniglia che mi fa salire un conato di vomito, e continua: “Era sempre lì a lamentarsi, lei a cui era andata meglio di tutte noi… meglio di me e di Daphne che non sapevamo nemmeno se saremmo arrivate, un giorno, a poter sposare quelli che ci erano stati destinati, considerando come ci impoverissimo giorno dopo giorno. Si era sposata con Diggory, un grande idiota che le faceva fare tutto quello che voleva… non l’avrebbe nemmeno toccata se lei non avesse voluto… ed era ricca da fare spavento…”. La sua voce diventa frettolosa e stridula, ferendomi le orecchie: “… ma lei no. Lei, poverina, aveva fatto qualcosa che non voleva, era andata contro sé stessa, voleva fare la Medimago…”.  Sospira profondamente, guardando Draco con odio profondo, un odio che può essere soltanto la cenere di un amore calpestato e non corrisposto: “… poverina, lei amava quello che sarebbe dovuto essere mio marito…”.

Lo stesso sguardo che avevo io, quando ero posseduta dallo Zahir.

Ma, dalla mia, avevo il controllo di una pozione ancestrale… lei, invece, è proprio così di natura.

Draco regge il suo sguardo con tenacia, orgoglio nelle sue iridi per non averla mai amata, nemmeno per un secondo.

Lo sguardo, evidentemente, irrita di nuovo Astoria che stringe le dita attorno alla bacchetta, scagliandogli un nuovo Crucio. Draco urla e si contorce violentemente, il mio stomaco guizza nel mio addome immobile, la mano di Montague che odora di sangue che mi nausea, mentre prego ogni santo che lo lasci stare e che si concentri su di me. Ma Astoria non lo fa, continua ridendo sguaiatamente, specchio della principessa che credevo che fosse, trasformata in una strega dalla pelle d’alabastro e dal cuore di drago. Dopo secondi interminabili, lascia cadere la bacchetta lungo il fianco e riprende a parlare come se niente fosse: “Non so come tu possa aver pensato, anche solo per un istante, che avrei accettato di crescere sua figlia… quella mocciosa insopportabile…”.

“… e non so come tu possa aver pensato, anche solo per un istante, che io ti avrei sposata sul serio…” bisbiglia flebilmente Draco, risollevandosi in piedi, un tono di voce soffuso che non riesce comunque a velare la sua risolutezza e decisione “Serviva ad entrambi la Promissio Gemina… ma era solo questo… convenienza ed opportunità…”.

“Non chiedevo nulla di diverso…” replica lei tediata, sbadigliando con malagrazia “Diventare la signora Malfoy… mi sarebbe bastato… con la figlia di mia sorella persa chissà dove, con qualche babbano idiota…”, i suoi occhi si tingono di lucciole colorate come se stesse rievocando una magnifica visione, lontana ormai per sempre. Come possa esserlo, specie per come l’ha dipinta, assolutamente priva di qualsiasi sentimento, anche se è palese ed evidente che è innamorata di Draco, lo sa solamente lei.

Gli occhi tornano improvvisamente freddi zaffiri morti e Draco sembra raggelare, non riesce a nasconderlo, le nocche bianche attorno alle catene che lo tengono fermo e il respiro fermo ed immobile. Ma lei non guarda verso di lui. Non se ne accorge.

Guarda verso di me.

Tremo solo con il pensiero, nel mio corpo immobile.

“Tutto sarebbe stato perfetto… tutto…” bisbiglia con voce incerta e gelida, facendo un passo nella mia direzione “Ma poi è arrivata lei… e tutto è andato a farsi benedire…”. Il volto chiazzato dall’odio, mi schiaffeggia con tutta la forza di cui è capace, ricado a terra come un corpo morto, sfuggendo dalla presa eppure ferrea di Montague.

Per terra, bocconi, sento il sapore del sangue in bocca e il naso che mi punge di dolore fino agli occhi.

“Anche se non fosse arrivata quella Mezzosangue…” replica affrettato Draco, mentre Montague mi solleva di nuovo in piedi, afferrandomi per il polso “Io non ti avrei sposato lo stesso…”. Mi guarda velocemente, cercando di non farsi vedere da Astoria, le mani strette convulsamente attorno alle catene. La sua voce è più acuta del solito, sebbene è evidente che faccia ogni sforzo possibile per tenerla ferma. Non guardarla così.

Qualsiasi minimo interesse che lei scorgerà in lui, destinato a me, la farà diventare inesorabilmente peggio.

Dimmi che ti faccio schifo… fallo… e vattene da qui…

Astoria continua a trapassarmi da parte a parte, come se non l’avesse nemmeno sentito: “L’avevo capito subito, che c’era qualcosa che vi univa al di là di quello che dicessi… il fatto che l’avessi fatta restare al Petite Peste, credi che non abbia notato anche io la sua somiglianza con Helena? Ma era una cosa superficiale, dopo che la conosci non puoi scambiarle… Helena era una Purosangue, e questa… era sempre una Mezzosangue, era sempre la Granger… che cosa poteva succedere?”, abbassa gli occhi nel primo segno di debolezza che testimonia da quando siamo qui, e capisco che cosa debba provare per questa sua presunta distrazione nel non aver considerato il ruolo che avrei avuto nella vita di Draco. Almeno per quello che pensa lei, che lui sia innamorato di me, la cosa insensata che la fa agire di vendetta e rancore. La gelosia imbruttisce i tratti del suo volto.

“… ed invece no…” continua con voce incolore, fremendo di rabbia ad ogni parola, come un qualcosa che aumenta passo dopo passo, sospingendosi verso un’inevitabile esplosione ed un altrettanto indubbio annichilimento “Ogni giorno, è andata sempre peggio… ogni giorno… fino a quando ho capito che non si poteva più tornare indietro… ti conosco troppo bene per non capire che stavi dando a lei, quello che mi avevi sempre negato…”, la rabbia si frena così come era nata e ritorna la principessa di prima, la voce zuccherosa e fintamente comprensiva: “… ma ora siamo qui per mettere tutto in ordine… tempo al tempo, e tempo alle spiegazioni…sai che c’è Draco? Oggi comando io… quindi seguiamo la scaletta che ho scelto io, non tu, tesoro… concedimelo, dopo tutto quello che ho dovuto fare… ne vado alquanto fiera… ed allearmi con Adrian e Kain è la punta dell’iceberg… saranno anche gli assassini di mia sorella, ma loro l’hanno uccisa per arrivare a te…quindi, come puoi effettivamente comprendere e capire, chiunque ti si avvicini fa una brutta fine… e la prossima è la Granger…”.

Tremo sotto quegli occhi ghiacciati, mentre Draco continua a ripetere con voce persuasiva: “Per me puoi fare quello che vuoi di lei, non mi interessa… ma lo sai meglio di me che Potter ti darà la caccia fino alla morte se le torci un capello…”.

Astoria scoppia a ridere, inarcando un sopracciglio: “Potter? Ti stai preoccupando per Potter?! Ma per favore… tu mi darai la caccia fino alla morte… come hai fatto con Helena… ma anche a questo possiamo rimediare…”.

“Io?” ride senza allegria Draco, prendendola in giro “Ma figuriamoci che me ne importa…”.

Probabilmente, è lui che si sta preoccupando per Harry.

Sa che, se io morissi per qualcosa che riguardava lui, Harry non se lo perdonerebbe mai. E lui non vorrebbe subirlo, qualora si salvasse. Me l’ha già detto una volta, o perlomeno ricordo che era il motivo per cui minacciò Astoria di non farmi del male, sentii i suoi pensieri quando mi mostrò il suo passato. Ma la cosa, anche se è così chiara, inasprisce ancora di più Astoria, come non essere supportata nella sua teoria. Stringe le labbra in una smorfia seccata, prima di fare un cenno a Pucey accanto a me che sparisce improvvisamente.

“Trovo alquanto snervante che tu continui con questa recita…” sussurra Astoria, andando avanti ed indietro per tutta la veranda, il rumore dei tacchi quadrati rimbomba dieci, cento, mille volte sulla pietra fredda. Fermandosi accanto a Draco, gli punta un’unghia laccata di rosso sul petto, mentre lui si ritrae schifato, divincolandosi: “Se devo spiegarti tutto, devi sapere tutto… ed anche la Granger deve sapere tutto… in fondo, vi devo un regalo prima di morire, no? E il regalo migliore sarà farvi morire nella disperazione di sapere che cosa avete fatto entrambi, tutto da soli… prima ancora che intervenissi io… sarebbe stato così facile tra voi… ed invece…”, si avvicina ad un respiro da Draco, sussurrando sulle sue labbra: “…morirete nella consapevolezza di quanto siate stati innamorati, l’uno dell’altra… te lo devo, no?”. La mano di Montague impedisce che io cada per terra, dubito che l’incantesimo me l’avrebbe comunque concesso, ma la debolezza che mi coglie alle sue parole, mi lascia sfinita. Gli dirà tutto, prima di… ucciderci.

Anche dello Zahir…

Draco sorride ancora, guardandola con compassione: “Stai vaneggiando, Greengrass… capisco che essere stata ripudiata dai tuoi deve essere stata una brutta esperienza, ma fino ad impazzire, ce ne corre…”.

Astoria perde tutta la sua angelica calma, ribollendo come un serpente ingabbiato ed affamato, afferra di nuovo la bacchetta puntandola sul petto di Draco: “Non dire nemmeno un’altra parola…”. Draco scoppia ancora a ridere, stavolta di autentico divertimento: “Non ci vuole molto a fare due più due… se sei qui, è perché non ti hanno accettato di nuovo in famiglia, no? Non penso che ti saresti presa la briga di fare tutto questo solo per vendicarti di me, se avessi avuto un contraltare… meno che mai della Granger… fammi indovinare, hanno accettato quella che ha fatto la tua parte per mesi, quella che ingeriva Pozione Polisucco… e quella che, anche se era una puttana della peggiore specie raccattata per strada, con il tuo aspetto e con un utero ancora in grado di generare figli, vale sempre più di te… tipico… scommetto che è andata così…”.

“Sta zitto!” urla Astoria, e comprendo che Draco ci ha preso in pieno.

Astoria non può avere figli…

La discendenza per i Purosangue è così importante che deve essere stata una grazia scoprire che avevano una sostituta perfetta, in grado invece di generare. Persino le sue nozze con un redivivo Draco non sarebbero mai valse tanto. 

Astoria, arsa dalla rabbia, lancia un Crucio più potente dei precedenti contro Draco, che continua a ridere in modo crudele ed assente. La colonna si sbriciola in mille pezzi, rovinando per terra. Terrorizzata, la vedo franare su di lui, che riesce a scansarsi di lato all’ultimo momento, libero dalle catene, rotolando per terra. Non lo lasciano libero, ovviamente.

Montague lascia cadere a terra me, tanto sa che io in ogni caso, non posso scappare, né fare nulla per aiutare Draco, e corre nella sua direzione, superando un’affannata Astoria. Sbatto violentemente la spalla contro la sedia cremisi, restando immobile, seduta in modo scomposto. Montague raggiunge Draco, lo afferra con forza per un braccio, colpendolo ripetutamente. Pugni, calci, schiaffi, la sua mole lo aiuta, sembra diventato ancora più enorme e Draco sembra così piccolo al suo confronto. La vista del suo sangue mi annebbia gli occhi e, non so come, riesco persino a piangere, anche se immobile ancora come una statua.

“Ma tu guarda!” urla Montague, guardandomi, mentre con un ultimo calcio, si affretta a legare nuovamente Draco, stavolta lasciandolo seduto per terra “La tua Mezzosangue si è ricordata come si piange…! Tranquillo, Malfoy, avrai ancora l’onore delle sue lacrime prima di morire…quelle della moglie di Diggory non te le ho fatte vedere, ma queste te le gusterai tutte fino all’ultima!”. Draco non solleva lo sguardo, ha la fronte impastata di sangue e polvere, replica ancora in un sospiro doloroso: “Potete farla piangere quanto volete… non mi interessa…”.

È in quel momento che mi sento gelare letteralmente, dalla testa ai piedi. Tutto si ricopre di una patina ghiacciata attorno a me, mentre dalle punte delle bacchette di Astoria e Montague, esce una fitta nebbia luccicante. Assumono la forma rispettivamente di una farfalla, e di un orso. Il gelo mi fa tremare come una foglia secca d’autunno, sono dei Patronus… quindi…

Il Dissennatore mi sorpassa senza vedermi, rizzandomi i capelli sulla nuca, appena seguito da Pucey che mi sistema meglio sulla sedia, aspettando che io mi goda lo spettacolo. L’eco della magia di quel mostro mi riduce più debole di quanto già non fossi, portandomi via ogni speranza di salvarci e di sopravvivere. Mi concentro sull’amore che ho per Draco, sulla speranza che lui almeno mi sopravviva, non è un pensiero felice, assolutamente, ma riesce almeno a mantenermi in me.

Il Dissennatore si avvicina a Draco, fluttuando nero nella notte, sembra la nuvola che porta un temporale. Aleggia sopra di lui.

I suoi capelli biondi si riempiono di brina ghiacciata, batte i denti sotto le labbra viola.

Quanti pensieri felici possono davvero portarli via? Non ne ha nemmeno uno, se non Serenity. Che cosa altro possono fargli? Ha solo ricordi tristi… e non credo che serva un Dissennatore per farglieli rivivere. Ma Draco sembra aver capito che cosa gli vogliono fare, e si dimena furiosamente, cercando di allontanarsi dal mostro, il sangue che gli copre la fronte.

Tremo ancora, improvvisamente intuendo. E se volessero farlo baciare dal Dissennatore? Qualcosa di peggio della morte stessa… no, non possono farlo… non possono… cerco disperatamente di liberarmi dal mio incantesimo, il polso brucia ancora di più come se fosse in fiamme, ma non mi muovo di un centimetro. Unico segno della mia ribellione, sono le lacrime che ormai sono in grado di piangere, e che mi confondono la vista. Il Dissennatore, però, rimane immobile a qualche metro da Draco che tenta ancora di allontanarsi.

Lui ha capito… che cosa vogliono fargli… non è il Bacio, è…

“E adesso vediamo il tuo ricordo peggiore, Malfoy…” sorride melensa Astoria, colpendo Draco con un raggio di luce violetta. Al contatto con lui, si crea una sfera tremolante simile ad una bolla di sapone che volteggia sinistra nell’aria, allargandosi progressivamente. Draco la guarda atterrito e terrorizzato, per la prima volta autenticamente spaventato, gli occhi luccicano, iniettati di sangue, mentre la fissa.

Perché vogliono rivedere la morte di Helena? O quella dei genitori di Draco? A che diamine li serve, se non a farlo soffrire inutilmente?

Forse, solo a quello, in effetti… Draco ne è così terrorizzato… vogliono togliergli altra forza ed energia, evidentemente.

Vogliono rendergli la morte più dolorosa e più crudele possibile, in modo da potersi vendicare di lui.

Fisso la sfera a mia volta, nella mia prospettiva non potrei evitare comunque di guardarla, ed un brivido mi corre sulla schiena, come una valanga di neve gelida, mentre essa acquista maggiore definizione.

Non è la casa dei Diggory.

Non è un covo dei Mangiamorte.

È la camera di Draco, al Petite Peste.

Lo guardo senza capire, lui finalmente risponde al mio sguardo, libero dalla costrizione che si era imposto.

Come se ormai non servisse più…

Ha lo stesso sguardo di poco fa, in macchina. Carezzevole, dolce, come se mi guardasse direttamente nella mente, oltre la pastoia che mi imbalsama il corpo. Ne acquista luce il viso, si curvano le labbra quasi di un sorriso colpevole, prima di essere nuovamente irrigidite in quella posa di terrore che aveva prima. Non capisco… il ricordo peggiore di Draco… è nella sua stanza al Petite Peste.

Quando vedo anche me stessa in quel riflesso violaceo, inizio lentamente e faticosamente a comprendere.

Non può essere… il suo ricordo peggiore…

 

Sembrava così piccola adesso.

Con le sue spalle piegate, come se reggesse il peso del mondo da sola, come aveva sempre fatto da quando la conosceva. Restava immobile, le labbra rosa socchiuse, gli occhi color cioccolato spalancati come quelli di un cucciolo di cane sorpreso su una strada deserta da una macchina guidata a velocità folle, che sta per investirlo.

Ed era lui che stava per investirla.

Hermione era tenera a suo modo, come sempre, ed era buffa come sempre, a suo modo. E ci impazziva di secondo in secondo. Non poteva smettere di guardarla, lo sapeva, per parlare avrebbe anche dovuto guardarla. Ma, guardarla, significava non riuscire ad articolare nessuna parola. Significava non riuscire ad irrigidirsi al punto tale da riuscire a finire il suo lavoro. Significava saturarsi dei colori del suo viso, senza avere la forza di fare alcunché.

Nessuno gli aveva mai detto che sarebbe stato facile, ma nessuno gli aveva mai detto che sarebbe stato così difficile.

Sapeva recitare, eccome se lo sapeva fare... e il ricordo di ciò che era successo ad Helena, gli dava la rabbia sufficiente per mentirle.

Per questo, era facile. Enormemente facile guardarla come un insetto, facendole capire quanto la detestasse. Era sempre stato facile il disgusto, l’odio, la repulsione, la rabbia, il rancore, l’astio, l’orgoglio. Facili come respirare. O come sarebbe dovuto essere facile respirare.

Perché anche respirare era difficile, sotto i suoi occhi, adesso. Come se fosse sott’acqua, come se qualcuno gli spingesse con forza la testa in un liquido vischioso che, entrando nei polmoni, li immobilizzava come il veleno di una bestia mortale.

Ma respirare non era nemmeno lontanamente difficile come guardarla. Come cogliere i particolari del suo volto, uno per uno, pregustarli e conoscerli persino, ma non completamente. Era il tormento dell’inferno sapere la consistenza dei suoi capelli, ma in un modo così rapido e fugace da averne la memoria tattile di un secondo. Sapere che la pelle dietro le orecchie era tenera come quella di una bambina, ma averla solo sfiorata lievemente, non averla toccata, baciata. Sapere che le sue labbra sapevano di fragola, ma ricordarne una sfumatura leggera, impercettibile, come un eco indistinto in una folla senza nome.

Difficile era guardarla, ma impossibile era pensare che, dopo questo, quei particolari non sarebbero davvero stati mai più suoi.

Lei, davvero, non sarebbe stata mai più sua. Lui poteva essere geloso, se lei fosse stata sua. Glielo aveva anche detto.

In realtà, inconsciamente, l’aveva sempre considerata tale.

La sua cameriera, che girava per casa a piedi nudi, perché dimenticava sempre dove metteva le pantofole.

La sua Auror, che si era tormentata perché i suoi colleghi avevano ucciso i suoi genitori.

E, poi, semplicemente… la sua Hermione.

Ma lei era sua, fino a quel momento. Fino a quel secondo in cui era difficile guardarla e respirarla, lei era ancora sua.

Dopo, non lo sarebbe stata più. Dopo, ed era una crocifissione anche solo immaginarlo, sarebbe stata di un altro. Di quel Hayden, probabilmente.

Lui avrebbe scoperto che i suoi capelli sono come un oceano caldo, che non sono né lisci né ricci e che, se ci passi le dita attraverso, ti si stringono dolcemente attorno.

Avrebbe scoperto che la pelle dietro le sue orecchie profuma di talco, davvero come una bambina. Ed avrebbe scoperto che le sue labbra sono dolci davvero come una caramella.

Hermione restava immobile, aspettando il colpo finale, temendo ed aspettandolo assieme, ormai mettendo tra lei e lui solo il suo cuore come scudo, come sempre aveva fatto.

Quel cuore di roccia… lo aveva già fatto a pezzi. Tante di quelle volte che si stupiva che lei fosse ancora lì.

Ma ora era l’ultimo colpo, l’ultimo strale che scagliava contro di lei che sperava la riducesse a brandelli. Sperava che l’allontanasse definitivamente da lui, salvandole la vita.

Perché di questo, si trattava. Salvarle la vita. Allontanarla al punto che lei se ne sarebbe andata via, da lui.

Lo avrebbe bestemmiato, odiato, maledetto, ma sarebbe stata viva, salva, al sicuro.

Oggi era il giorno in cui tutto finiva. Anche quello. Non ci stava che somigliasse ad Helena anche in quello. No. Lei… no. Hermione, la sua Hermione… no.

Era necessario che tu sapessi, Granger, di come amassi Helena, era solo il modo per cui tu forse capissi…” iniziò Draco con voce lapidaria, Hermione continuava a guardarlo e, ad ogni battito delle sue ciglia, il coraggio da lui svaniva, evaporava, desiderava solamente stringerla, far cessare quelle parole che l’avrebbero uccisa.

Chissà se davvero era innamorata di lui… non l’avrebbe mai davvero saputo… ed in fondo nemmeno importava… ci teneva a lui, tanto bastava.

A quel pensiero, abbassò gli occhi, chiunque gli volesse bene, o faceva una brutta fine o finiva per odiarlo. Per lei, aveva scelto con risolutezza la seconda strada. A tempo debito, sarebbe toccato anche a Serenity e a Seth. Sollevò gli occhi, riprendendo a parlare, il buio della stanza e la luce dei lampioni in strada creavano sulla pelle terrea di Hermione dei riflessi sconosciuti, delle ombre che sembravano volerla divorare.

“Amerò per sempre lei… lei e solamente lei… a parte i motivi che conosci, mi ha ingannato la tua superficiale somiglianza con lei… l’ho capito mentre ti guardavo suonare, le assomigli persino in questo… ma non basta, non basterà mai…”. Lei impallidiva ogni secondo che passava, dietro i suoi occhi cercava un qualcosa che li tenesse assieme, si sarebbe accontentata di una sfumatura qualsiasi della voce o di un sinonimo sfuggitogli senza che se ne accorgesse. Era tenace come il giunco che si piega, ma non si spezza mai. Lui, invece, andava recidendo ogni legame, scegliendo con cura le parole e modulando la voce perché fosse perfetta.

La colpiva, sferzava e feriva con la somiglianza con Helena, sapendo quanto le avrebbe fatto male, sperando che un atto di sopravvivenza qualsiasi scattasse in Hermione, facendole prendere la decisione definitiva di lasciarlo perdere, andandosene via.

Ormai, era indiscutibilmente ovvio e scontato che Hermione non era Helena. Erano diverse come può esserlo il giorno e la notte.

Helena era una bellissima menzogna, una bugia incantevole.

Hermione era una fastidiosa verità, un dogma insopportabile.

Era sempre sé stessa, sempre, colma delle sue parole e colma dei suoi perché per ogni cosa. Insopportabile… e meravigliosa.

Se l’avesse capito prima, se l’avesse conosciuta davvero ad Hogwarts, se fosse stata una Serpeverde, se… e quanti se sarebbero arrivati a questo punto.

La rabbia, sotto quelle ipotetiche constatazioni, crebbe ancora di più con l’inutilità di quesiti senza risposta. Riuscì quella rabbia, a fargli tingere gli occhi di cinerea consapevolezza, di disgusto ben esibito e crudeltà perfettamente cesellata.

“Helena è sempre qui, nel mio cuore, a farmi sentire il divario inesauribile che c’è tra te e lei… e, se il mio bisogno di lei, potrebbe farmi accontentare anche della sua immagine malriuscita che vedo in te, non può invece farlo quello che ancora provo per lei…”.

Immagine malriuscita, perfetta come parola. Le avrebbe spezzato il cuore in due, ovviamente. Il suo lo aveva fatto in milioni di frammenti.

Lei continuava a guardarlo, incredula, sbatteva le palpebre, gli occhi erano cristallo color dell’oro. Si tratteneva dal piangere, come sempre.

Draco era contento che non piangesse, probabilmente se lo avesse fatto, non ce l’avrebbe fatta più. Ma sapeva che era troppo orgogliosa per piangere.

Sapeva che, poi, dopo, quando l’avrebbe fatto, sarebbe stato un pianto inestinguibile, proprio perché l’aveva trattenuto fino a quel punto.

Strinse i pugni violentemente.

“Nonostante tutto, non posso autenticamente ancora desiderare, come semmai mi è accaduto in passato, che tu soffra per me… non sai niente dei miei e nemmeno di Helena, non è stata colpa tua… e non sei mai stata nella mia lista. Forse davvero nemmeno ti odio più… ma devi capire che tutto quello che è accaduto fino ad ora… è stato solo per questi motivi…”.

Non odiarla più… tremò sotto il peso di quelle parole. Traballò il suo coraggio, mentre concludeva: “Quindi, adesso, Granger… vattene via… davvero… Serenity se ne farà una ragione… e tu magari te ne andrai con Hayden o come diamine si chiama… e mi scorderai facilmente… ogni solo secondo che resti qui, ti fa soffrire inutilmente, e senza senso. E mi ricorda lei, senza poterla avere mai più. … vattene via…”.

Era stata una preghiera, vattene via e non tornare più… e lei restava immobile, ferma, grondava sangue dalla ferita che gli aveva inferto, ma restava lì. Come sempre aveva fatto. Lui le aveva fatto di tutto… aveva fatto di tutto… ma lei era sempre rimasta lì. Accanto a lui.

Piccola adorabile testaccia dura…

Scappò lui fuori da quella stanza. Lontano dai suoi occhi e lontano da quel dolore.

Diede un calcio violento alla porta d’ingresso ed uscì nella pioggia che cadeva fuori, urlando con quanto fiato avesse in gola.

Corse per la strada, bagnandosi dalla testa ai piedi, fino a fermarsi senza respiro, appoggiandosi ad un palo della luce.

Ricordo di lei, tra le sue braccia. Gli aveva detto… e se fossi io a voler restare?

Colpì ferocemente il palo con un pugno. La mano indiscutibilmente rotta, prese a sanguinare.

Rise di quel dolore piacevole e rise di quel vuoto dentro, del buco, dove prima c’era Hermione.

Adesso… era finita. Adesso… lei era salva.

Adesso, lei non era davvero più come Helena… adesso non c’era più niente che le unisse.

Helena era morta. Hermione era viva.

La pioggia sugli occhi, le lacrime mai piante che erano solo pioggia, guardò la mano e le nocche sanguinanti.

Adesso non c’era più niente che le unisse. Nemmeno lui. Nemmeno quell’amore.

Quello, per Helena, era stato egoista, insensibile, sordo, cieco.

E l’aveva uccisa.

Quello, per Hermione, era stato supremo, inconfessabile, nascosto, luminoso.

E l’aveva salvata.

Sussurrò alla pioggia e al vento il suo segreto, lo sussurrò al passante distratto che passava velocemente, non degnandolo di uno sguardo.

Lo sussurrò a sé stesso e si impose di dimenticarlo subito dopo.

“Ti amo Hermione Jane Granger… e cercherò di amarti il più a lungo possibile… fino a quando sarai lontana da me…”.

 

Il ricordo svanisce in un lampo di luce violetta.

Il suo sguardo è ancora su di me, lo sento addosso, crepitano i miei occhi a contatto con i suoi.

Non ci credo…questo deve essere un sogno…

Non posso atteggiare il mio sguardo a nulla di diverso, l’immobilità che mi rende una statua di sale mi aiuta a non dovermi sforzare di rendere i miei occhi specchio di una cosa qualsiasi. So che, se anche potessi muovermi o parlare, probabilmente non riuscirei a fare lo stesso nulla. La gola secca, sento le labbra come se si spaccassero per una sete perpetua, bramando la goccia d’acqua in mezzo al deserto. La rivoluzione copernicana, ecco che mi sembra.

Il sole al centro, e io che ci giro attorno, gravitata come un pianetino impazzito.

Non ci credo. Non può essere vero.

Mi ha sempre… non riesco nemmeno a pensarlo, per quanto mi sembri assurdo ed impossibile.

Ed è assurdo ed impossibile… devono averlo incantato in qualche modo, per mostrarmi questa scena che, in realtà, non è mai esistita.

Sì, deve essere così, deve essere per forza così.

Vogliono farmi impazzire, decisamente.

Distolgo i miei occhi, per quanto me lo conceda la mia prolungata stasi, da quelli di Draco, eco nelle mie iridi di lui che mi guarda preoccupato, stringe le labbra, cercando di interpretare i miei occhi assenti e probabilmente lontani.

No, no, stanno solo cercando di farmi impazzire… non può essere vero.

Muto il mondo e muta la vita stessa, la mia mente si capovolge, confondendosi e diventando polvere. Turbinano i mesi come frazioni di secondo, e gli attimi stessi come scaglie di tempo fugace, mulinano nei miei pensieri come carta straccia, sospinta da un vento sudicio e fastidioso. Per qualche secondo, non mi sembra nemmeno di vedere, come se i miei occhi nemmeno vedessero, appannati dalla quantità abnorme di pensieri che si assiepano dentro la mia mente.

Le orecchie, sempre attente, nonostante il rombo sordo che sembra averle colpite e che viene direttamente dal mio petto, non sentono Astoria ridere, e nemmeno Pucey e Montague. Sono tutti in silenzio in questo secondo che sembra non passare mai.

Nel rumoroso silenzio che mi circonda, colgo solo un respiro un po’ più forte, come se fosse stato trattenuto per qualche istante e poi rilasciato all’improvviso, tutto assieme. Ed è quello di Draco, non so come riesco persino a riconoscerlo. Ne sento quasi l’odore, impercettibile, fugace, velocissimo, il respiro di menta che ha lambito il mio viso in una sera di maggio, in una veranda priva della salvifica luna, per poi mescolarsi caldo ed umido con il mio, scivolando nelle mie labbra serrate.

Piano, come una crepa nel muro, qualcosa si sbriciola lentamente nel fango che mi contamina i pensieri.

Ad ogni passo, ad ogni moto di quell’alluvione progressiva di ricordi e di emozioni, qualcosa viene lasciato niveo e pulito, con una nuova e perfetta nitidezza, fino a quando ogni cosa è come se fosse illuminata dalla luce del sole, sorto con prepotenza dopo ere di nuvole.

Torno a guardarlo, senza nemmeno accorgermene, come un magnete che mi spingesse inesorabilmente verso di lui.

Draco è ancora lì, a cercare i miei occhi, senza trovarli, aspettando, attendendo, una speranza timida e tremula sotto le palpebre insanguinate. Ha le labbra dischiuse, come se delle parole si fossero gelate nella sua gola, sembra che abbia aspettato persino per respirare. Una folata di vento improvviso, freddo, gli sposta i capelli dagli occhi, rendendomi visibili i suoi occhi ed, improvvisamente, ne sono investita completamente, sono catturata dalla potenza di quegli occhi, madreperla di una conchiglia che chiama il mare. Fluttuo lieve, proprio come un’onda capricciosa, mi infrango contro qualcosa, provo un dolore lacerante al petto, si allarga a dismisura una voragine allo stomaco, eppure non riesco a smettere di guardarlo. Sentirmi persa.

Non ci siamo mai guardati così, perfetta chiarezza, dolce consapevolezza, un dolore assurdo che frinisce come un pianto che muore, sotto le lacrime che non posso piangere e sotto quelle che lui non sa piangere.

Il suo sguardo sono risposte alle mie domande. Al perché della mano fasciata, al perché della tensione continua del suo corpo, alle sue parole in macchina, al suo volermi mandare via e al suo non averlo mai davvero fatto compiutamente.

Il suo sguardo è una risposta semplice e chiara, diretta, sincera, cristallina, così luminosa da bruciarmi gli occhi.

Ed è una risposta che io conosco da sempre, perché conosco quei suoi occhi. Sono velluto di nuvola, tenera, soffice, morbida.

Li ho sognati, ogni notte, mordendomi le labbra a sangue, rotolandomi nelle mie lenzuola fresche, impazzendo come se fossi febbricitante.

Li ho desiderati, spasimati, cercati, amati, idolatrati quasi.

Li ho visti sfiorarmi, per dirigersi altrove, rifuggire la mia pelle, farmi sentire sbagliata accanto a lui mentre andavano cercando il loro autentico destinatario. Ne ho goduto di un riflesso sfuggito per caso, mai diretto davvero a me, ma sempre rifratto in un gioco di specchi dall’elemosina di chi da lui era guardato così, e poi, per pura carità, decideva di guardare me. 

Inondandomi dell’amore che aveva per loro… inconsapevolmente, mi mettevano davanti ciò da cui ero esclusa. Per sempre.

Sono gli occhi che accarezzano Serenity. Gli occhi che baciavano Helena.

E sono miei. Oggi sono tutti miei.

Ma sono anche diversi, da come guarda Serenity… affetto di padre mancato…

E da come guardava Helena… amore di marito negato…

Sono unici… ora che li vedo davvero… ora che me li mostra davvero…

Perfetta completezza… non è più un pezzo incompleto di qualcosa.

È interamente combaciante con me.

Tutto cessa all’istante di essere assurdo, il sole è effettivamente al centro dell’Universo e a me non resta che girarci, placida, attorno.

Sembra assurda la vita di prima. Sembra una clamorosa bugia.

Vedermi attraverso i suoi occhi, attraverso i suoi pensieri, sentire l’affetto prima, la tenerezza, la dolcezza con cui mi guardava, e poi sentire dirompente il desiderio che aveva di me… il mio viso, nonostante l’incantesimo, arrossisce senza difficoltà e vorrei distogliere lo sguardo da lui, evitare che mi veda in queste condizioni, come un’adolescente qualunque alla prima cotta. Ed, invece, sono i suoi occhi stessi che mi reclamano, mi chiamano ed impediscono che me ne allontani.

E nemmeno me ne voglio allontanare, anche se mi fanno scoppiare il cuore, anche se mi tolgono il fiato, anche se non si può essere così felici in una vita sola e in un corpo solo da non implodere improvvisamente.

Come se improvvisamente i miei occhi indossassero la veste candida di questa nuova rivelazione, potente come un prodigio che trasforma il mare in una strada asciutta dove è possibile camminare, anche i suoi occhi tornano sereni, sorride quasi, guardandomi, come se non fossimo qui, legati, vicini alla morte, prigionieri. Come se si vergognasse di non averlo mai detto, come il bambino a cui è stato estorto un segreto. Le mie gambe formicolano nella loro immobilità, bruciando dalla voglia di muoversi e di correre verso di lui, perché è la sola cosa che vorrei. Averlo tra le mie braccia, stringerlo e baciarlo, ora so che posso farlo. Ora, riconosco la dipendenza dal suo profumo, l’assoluta friabilità di me stessa al suo viso, l’inconcepibile voglia che mi sfiori e mi faccia sua.

Erano sempre qui, ovviamente, ma legate, tenute sottovuoto, per impedire che facessero male.

Ora, libere, sono deflagrate con forza inaudita, tanto da farmi tremare, anche se in teoria nemmeno dovrei poterlo fare. E non oso immaginare, se fossi libera di muovermi, che cosa mi sarebbe successo.

Forse, ora, se non fossi immobilizzata, scoppierei a ridere senza senso e senza perché.

Canterei, persino, e troverei nei passi una danza che non so nemmeno se sia aggraziata o meno.

Mi incepperei nel ballarla, imbranata come sono, ma stavolta tu saresti accanto a me, a darmi un buffetto sulla guancia.

Perché non sono più sola ai margini di questo amore impossibile.

Esso non è mai stato impossibile.

È sempre stato ad un passo da me.

Sei sempre stato ad un passo da me.

Tremano le sue labbra, come se si ricordasse improvvisamente di dove siamo, la magia si interrompe e il suo sguardo vaga sui nostri carnefici. Tornando a me, piange quasi, perché di quel segreto, sa che presto io ne pagherò il prezzo.

Morendo.  

Non voglio che perda quegli occhi. Non posso perderli adesso. Non adesso… che sono solamente miei.

Voglio che li abbia, per sempre, per tutta la vita. O forse anche solo per un secondo, che mi ami anche solo per un secondo.

Dio, se mi basterebbe anche per mille reincarnazioni…

Con acuta disperazione, mi rendo conto che è questo che Astoria vuole portarci via. Prima di ucciderci.

Farci rendere conto di che cosa avevamo tra le mani e di che cosa abbiamo sprecato.

L’angoscia di Draco si trasmette immediatamente anche a me. Questo è niente… è ancora niente.

Lo Zahir… adesso, nella sua improbabile scaletta, tocca a questo. Ne sono certa.

Astoria, infatti, senza una parola, sorpassa Pucey e Montague, avvicinandosi a me. Con un’alzata del capo, fa allontanare il Dissennatore che, evidentemente, non serve più. Il ghiaccio si scioglie, così come era nato, e la sera scura, senza luna, torna tiepida di colpo, lasciandomi un calore furibondo sulle braccia. Draco ha perso ogni traccia di calma ben esibita, furiosamente cerca di liberarsi mentre Pucey e Montague lo tengono fermo, sghignazzando: “Certo, ora, non fingi più che non te ne importi nulla di lei… te l’ho già detto, Malfoy, sarà la seconda volta che vedi morire la donna che ami per mano nostra...”.

Draco urla con quanta voce ha in corpo di lasciarmi andare, Montague gli assesta un altro calcio, ma lui non cessa di gridare.

“Non la toccare!” ringhia all’indirizzo di Astoria, che, fredda come il ghiaccio, mi si avvicina.

Vorrei aver paura di lei, lo vorrei davvero… ma non ci riesco.

Draco… sentire la sua voce, adesso, fosse anche l’ultima volta che accade… sentirla così… sentire che mi ama…

… è comunque il paradiso al centro esatto dell’inferno. Fosse anche che ne sarò scacciata a breve.

“Malfoy, se avessi voluto ucciderla… o perlomeno se avessi voluto ucciderla subito… l’avrei già fatto, non credi?”sussurra Astoria, chinandosi su di me e puntandomi contro la bacchetta, si ferma all’altezza del mio petto. Lo stomaco si contorce.

“Potrei ordinare adesso al suo cuore di non battere più… lo sai?”.

Potrebbe davvero farlo, ne sono sicura…

Draco ammutolisce, sbiancando, seguendo i movimenti della sua bacchetta come un serpente incantato da un domatore.

“Già… lei è mia… non tua, Malfoy… rassegnati all’idea…” bisbiglia Astoria, guardandomi e facendo scorrere la punta della bacchetta sul mio polso, la cicatrice dello Zahir sembra riaprirsi. Sanguina come se l’avesse aperta lei stessa, obbedisce la mia carne a lei. Persino il mio stesso sangue, sembra doverle cieca ed assoluta fedeltà, mentre gli comanda di riversarsi sulla seta viola del mio vestito.

Pucey e Montague continuano a ridere.

“Tu hai cercato di salvarla… encomiabile da parte tua…” continua Astoria, facendo scorrere la bacchetta su tutto il mio braccio, sembra che si stia spezzando in due, il respiro mi aumenta come dopo una lunga corsa mentre impazzisco dal dolore “… ma anche lei ha cercato di salvare sé stessa… magari, se le avessi detto che eri innamorato di lei, non sarebbe in queste condizioni, non credi? Non ti sei chiesto perché non ci ha deliziato con la sua adorabile voce da quando è qui?”. Sorride acidamente, guardandolo.

“Tu…” Draco serra la mascella, anche se dubito che non si fosse accorto che non riuscissi a fare assolutamente nulla. Mi guarda con espressione sofferente, dando strattoni alle catene che lo imprigionano. Pucey gli assesta un altro calcio nello stomaco.

“Vabbè, certo, non riesce a fare nulla…” prosegue ovvia Astoria, agitando la mano con noncuranza “Ma era la voce, quella che mi dava più fastidio… era sempre pronta a dire la sua, in ogni dannato momento. E tu pendevi dalle sue labbra… quanto mi hai disgustato… lei parlava e tu ti tormentavi per tutto quello che diceva… facevi finta di nulla, fingevi davanti a lei e davanti a me che non te ne importasse, ma qualsiasi cosa dicesse, ecco qua che ti cambiava l’umore… quindi ecco il primo motivo per cui, ora, invece, non ci sta tediando con le sue inutili parole…”. La guardo con odio puro, sperando che lo riesca a percepire, ma lei mi dà le spalle, fissando Draco.

È stata davvero lei…

“Non è un’Imperius…” prosegue lei, poggiando il braccio sullo schienale della mia sedia “E’ pur sempre il capo degli Auror, anche se Dio solo sa come ci sia riuscita… lo avrebbe sciolto facilmente, e, in più, mi sarei anche dovuta avvicinare a lei… e tu, nonostante tutto, eri sempre nei paraggi… anche se lei fosse effettivamente andata via dopo le tue parole, ci scommettevo che avresti trovato il modo di tenerla sotto controllo… specie dopo che ti avevo fatto capire che avrei trovato il modo per farla pagare a te e a lei…”.

Lo aveva minacciato. Ecco perché aveva cercato di mandarmi via…

Draco ascolta imperturbabile, senza la benché minima emozione sul viso, solo le mani serrate testimoniano che è ancora vivo.

“E quindi mi sono messa a cercare… un modo per controllarla… il mio sommo desiderio era che fosse lei ad ucciderti…”. 

Sussulto, ogni mio sospetto che diventa incommensurabile certezza. Draco gela, rabbrividendo e guardandomi.

“Era difficile, ma non impossibile… e, alla fine, l’ho trovato… ti dice nulla la parola Zahir?” completa con un sorriso ovvio Astoria, dall’espressione di Draco mi rendo conto che lui lo conosce perfettamente, anche se pensavo che invece non gli fosse noto.

Mi guarda con un dolore così insopprimibile che vorrei essere schiantata piuttosto che continuare a subirlo.

“Zahir, sì, Malfoy…” mi accarezza con finta dolcezza i capelli come se fossi una bambina da compatire “Le era così insopportabile l’idea di amarti che, alla fine, ha scelto questo… ed il bello è stato che sei stato tu a spingerla a farlo, non io… io le ho solo indicato la via…”.

Non guardarmi così… per favore…

“In ogni caso, avrei vinto…” prosegue, contando sulle dita “Non ci fosse riuscita, sarebbe morta nel tentativo… e tu ne saresti stato devastato. E se ci fosse riuscita… ero perfettamente in grado di rendermi conto che lo Zahir non sarebbe riuscito a sedare del tutto il suo sentimento per te… lo avrebbe trasformato nel suo opposto… avrei vinto lo stesso, lei ti avrebbe odiato…”, prende una ciocca dei miei capelli tra le dita, tirandola e portandola all’attenzione di Draco, ridendo: “Vedi i suoi capelli? Sono neri… è l’odio… lei ti odia…”.

Non è vero. Non è vero.

Non guardarmi così… non è vero. Io ti amo, Draco.

Indipendentemente dal fatto che lei sappia o meno che non odio più Draco, glielo sta dicendo apposta per fargli del male.

E ci sta riuscendo, perfettamente. Impietrito peggio di come sono io, ha lo sguardo fisso nel vuoto.

Se tornerò mai libera… le farò pagare tutto quello che ci sta facendo…

Vorrei mettermi a gridare, interrompere le parole di Astoria, sostituirle con le mie, frenare con un sobbalzo il silenzio sconvolto di Draco e vedere i suoi occhi tornare quelli di prima. Farmi accarezzare da quello sguardo, di cui già sento la mancanza come il respiro nei polmoni. Ed invece pigolo solo come un pulcino, sovrastata dalla voce di Astoria.

“Ho studiato come funziona lo Zahir… quello d’amore della Regina di Atlantide ne causò la fine… perché lei, alla fine, posseduta dall’odio, uccise il suo amato… e si suicidò a sua volta…” enumera Astoria senza partecipazione “L’amore non si può sedare con uno Zahir… a meno che non sia un sentimento di poco conto, ma dubito che allora porterebbe alla creazione dello Zahir stesso, no? Lei invece ti amava così tanto…”, scimmiotta con voce trillante, Pucey e Montague ridono senza ritegno, lui invece è come se lo avesse direttamente schiaffeggiato in viso: “… quindi ovviamente ti avrebbe odiato altrettanto intensamente…sono entrata nei suoi sogni, la sera stessa in cui le dicesti quelle parole… piangeva come una fontana con quel idiota di Seth… avresti dovuto vederla… era così debole che non si è nemmeno accorta che c’era qualcosa di enormemente strano, in quel sogno… l’ho persino Confusa, senza che se ne accorgesse… ”.

L’odore dei nontiscordardime.

Come ho fatto a non accorgermene?

Draco, immobile, continua ad ascoltarla senza un parola, gargoyle incapace di parlare, dalle fattezze di essere umano. 

“Nel sogno le sono sembrata Lily Potter… e ci ha creduto come una povera imbecille… le ho mostrato Piton che ci parlava dello Zahir… l’aveva effettivamente fatto, una volta, ma alla mia classe, non alla vostra… è stato così facile farle credere che fosse stata semplicemente distratta e se ne fosse scordata… ci ha messo pochissimo a trovare il modo per fare la pozione, mi affidavo alle sue conoscenze al Ministero, e lei addirittura conosceva un’Indicibile, Helder Cassidy Bode… l’ho seguita, l’ha incontrata ed ha ottenuto la pozione… dopo dieci giorni, era apparentemente libera dal suo sentimento… ma è durata poco, vero, Granger?” la gelo con lo sguardo, lei ride senza ritegno rendendosene conto e non facendosi minimamente impensierire.

“Ben presto, ha preso ad odiarti… ha cambiato persino aspetto… te ne sei anche accorto, scommetto, ma avrai pensato che volesse solo darci un taglio con te, che avesse reagito d’orgoglio come speravi, scommetto che ne sei stato anche felice, vero, Draco? Ed invece, lei, non era assolutamente in sé…”, fa una pausa ad effetto prima di continuare con voce colma di gioia: “… ti avrebbe ucciso. Lo sentivo. Il suo odio lo percepivo fino alla mia pelle, mi teneva compagnia… era persino peggio del mio, scommetto che è ancora così…”.

Non è vero. Sta mentendo… non la ascoltare, Draco…

Lui non sembra vederla neppure la mia preghiera negli occhi. È cieco, perso nei suoi pensieri.

Astoria improvvisamente cambia espressione, torna gelida e mi fissa con ribrezzo: “Ma la Mezzosangue ha rotto lo Zahir, prima di ucciderti… non so come diamine abbia fatto, ma ha rotto lo Zahir…”, seda immediatamente il tenue calore che ha acceso gli occhi di Draco, mordendosi le labbra e continuando: “… l’odio non ha abbandonato il suo corpo, li vedi i suoi capelli, no? Ma ora, probabilmente, non ti avrebbe ucciso lei, di sua spontanea volontà… dovevo agire, altrimenti tutto quello che avevo fatto sarebbe stato inutile… ed è qui che ho scoperto che potevo usare quella macchia dentro che ancora aveva, per controllarla… io l’avevo indotta a creare lo Zahir, quindi già ero riuscita ad aprire un varco con la sua mente… se lo avessi sfruttato meglio, sarei riuscita a cancellare ogni sua volizione e controllo su sé stessa… e, per sfruttarlo, ho sincronizzato il mio odio con quello che ancora restava in lei. Erano diretti contro la stessa persona, creavano quasi risonanza l’uno con l’altro… ed, alla fine, era come se dovessi controllare me stessa, e non più lei. Ho fatto diversi tentativi, da lontano lei perdeva coscienza e non si rendeva conto di ciò che stava facendo. Ma le ho ordinato di vestirsi, di prendere una bacchetta e l’ha fatto… e le ho ordinato di ucciderti in macchina. È riuscita a ribellarsi, però, credo perché tu le abbia detto qualcosa che l’ha toccata… l’odio si è incrinato e ha evitato di ucciderti. Ma era lontana da me… ora è vicinissima… e posso controllarla come voglio…”. La sua spiegazione si conclude con un sorriso falso e con un ironico applauso di Pucey e Montague.

Draco non si muove di un millimetro. Diafano, sembra non guardarla neppure.

“La tua condanna sarà averla avuta tra le mani, ed averla condotta a questo… lei ti amava e l’hai costretta ad odiarti…” ride ancora Astoria, guardando Draco, poi guarda me, reggo il suo sguardo con foga: “… e la tua, schifosa Mezzosangue, sarà aver vanificato ogni sforzo di lui per renderti libera…”, abbassa la voce con crudeltà: “… ma non sarà solo questo. Ovviamente. Se sei vestita così, è perché lui ti doveva desiderare da impazzire, cosa che mi schifa ancora… la mia teoria è che si sia innamorato di te, la sera del Tourquoise Party, e casualmente indossavi il mio vestito… quindi credo che con uno dei miei, ti avrebbe di nuovo voluta come allora… diamogli questo contentino prima di morire…  e prima di morire, per mano tua…”.

Sgrano gli occhi, terrorizzata, il sudore mi inzuppa la schiena nuda, mentre lei mi guarda dolcemente, come un’amica del cuore comprensiva e fedele. Solo le sue narici fremono come quelle di un rettile.

Ora, davvero, ne sono terrorizzata. Perché riuscirà a farmelo fare, ne sono certa.

Il corpo, ancora immobile, mi suggerisce l’infausta conclusione a cui sono destinata.

Draco, abbandonato al suolo, l’ha finito Astoria con le sue ultime parole. Non solleva più gli occhi dal suolo, ha perso ogni speranza.

La fronte, coperta di sangue aggrumato, si piega sulle sue ginocchia, si piega lui stesso, come se non avesse più la benché minima traccia di forza nel corpo. Mi si offusca la vista, guardandolo. Se mi guardasse, solo un’altra volta, magari riuscirei a fargli capire che Astoria ha mentito, che io invece sono innamorata di lui e che non è vero che lo odio. Magari, riuscirebbe a reagire.

Ma lui evita di guardarmi, ovviamente. Credo che eviterei anche di guardarlo, se fosse successo il contrario.

Ma che dico, è già successo il contrario… temendo di vedere l’odio nei suoi occhi, non l’ho guardato per mesi.

Non ha mai avuto grandi motivi per vivere, solo Serenity… e poi salvare me.

I pensieri di quel giorno, mentre rievocava la morte di Helena… che non mi erano sembrati ricordi, ma pensieri di adesso.

… il coraggio non è degli agnelli che indossano le spoglie del leone, dei serpenti solo costretti a diventare grifoni.

Probabilmente, un giorno avrebbe conosciuto quella spinta dentro, il calore del cuore che, di fronte alla prospettiva di perdere qualcosa di amato, diventa mobilità del corpo, slancio dell’azione e velocità del pensiero.

Draco, un giorno, avrebbe conosciuto il coraggio. Difendendo una persona che ama.

… era la sua molla per agire. Era la sua ragione di vita. Proteggere me e Serenity.

Ma, ora che sa che tutto è perduto, ora che anche io lo penso, ora che è sicuro di aver fallito, ora che persino pensa che lo odi e non ha nemmeno la consolazione di sapermi al sicuro, ora… per lui davvero ha perso tutto senso.

Un calore assurdo mi raggiunge le mani, formicolando inconcepibilmente.

Guardami, dannazione, Malfoy. Guardami, maledizione.

Devi smetterla di arrenderti, ogni dannata volta che le cose vanno male. Smettila…!

Hai diritto di vivere come tutti, smettila di portare questa maledetta croce addosso.

Non hai tradito i tuoi: ti hanno tradito per primi loro.

Non hai ucciso Helena: Pucey e Montague l’hanno fatto.

Non hai condannato me: io sono ancora viva, dannazione, Malfoy!

Non posso farcela da sola. Sono stanca di essere sola. Se ci sei tu, dall’altra parte, ce la possiamo fare. Ce la faremo.

E ti dirò anche io il mio segreto inconfessabile, che sono pazzamente e follemente innamorata di te.

Ma, alzati, maledizione. Guardami…  stramaledetto furetto che non sei altro!

Ti giuro che, se usciamo vivi da questa storia, sarò io ad ammazzarti personalmente, dopo quello che mi hai fatto passare…!

Solo io posso avere l’onore di ucciderti, te lo ricordi?

Guardami… per favore… Draco…

Si sciolgono di lacrime i miei occhi a quest’ultima preghiera, sento le guance bagnate mentre Astoria mi punta la bacchetta contro, ordinandomi di alzarmi in piedi e porgendomi un’altra bacchetta.

Un attimo… le lacrime… io sto piangendo… lei non me l’ha ordinato… sto piangendo, di mia spontanea volontà. L’ho fatto anche prima.

Con un brivido, mi rendo conto che il suo controllo non è così assoluto, come potevo pensare, qualcosa può sfuggire da questa cosa…

Come posso sfruttare gli occhi a mio vantaggio, specie se Draco non si decide a guardarmi?

Guardami, dannazione…

Frustrata, mi rendo conto che lui non mi guarderà mai, fino a quando non sarà morto. E sarà stato tutto inutile.

Come posso fare, maledizione? Astoria mi guarda, ridendo e urlando altre cose che non capisco e non mi sforzo di capire. Probabilmente insulti soddisfatti all’indirizzo mio e di Draco…

Spalanco gli occhi, mentre mi rendo conto la sola cosa che posso fare per farmi guardare da lui.

… era la voce, quella che mi dava più fastidio…

La mia voce. Devo riuscire a parlare… anche solo per un secondo. Basta che mi senta e capisca che sono ancora qui dentro.

Più facile a dirsi che a farsi, ma ci devo riuscire in qualche modo.

Mi sforzo con tutte le mie forze, ma come prima ne esce fuori solo un pigolio incerto, impercettibile. La faringe brucia, graffiata, come se la stessi lacerando, sotto sollecitazione. Draco non mi guarda, come prima, resta a testa bassa, aspettando che lo uccida.

Dio, quanto lo odio… quando fa così…

Il fiume che mi ha contaminata, quando ero a contatto con lo Zahir, echeggia nelle profondità di me stessa. È ancora lì, arenato nei miei capelli ed occhi neri. Sussulto, mentre Astoria sta per formulare il suo ordine. Ma certo… lo devo assecondare…

Prima che Astoria se ne renda conto e prima che riesca ad impedirmelo con la sua connessione ancora aperta con la mia mente, la gola mi esplode di un fiotto d’aria incandescente, le parole danzano su per la mia laringe, sospinte dal fiume in piena di rabbia e di dolore. Con tutto il fiato che ho nei polmoni, riesco ad aprire la bocca ed a urlare: “Svegliati, dannazione, Draco!”.

Lo sforzo mi fa cascare in ginocchio, mentre cado dalla sedia. Astoria, atterrita, smette di ridere e mi punta la bacchetta sul polso, riprendendo il controllo del mio corpo. La gelatina che immobilizza il mio corpo, diventa di nuovo cemento armato.

Pucey e Montague si affrettano a raggiungerla, mentre blatera qualcosa, sussurrano che bisogna sbrigarsi perché l’effetto dello Zahir sta svanendo. Quindi sanno anche loro che sta cessando di fare effetto… sanno che sono innamorata di Draco, che sono perfettamente in me… hanno mentito per ferirlo. Ma, sorrido con gli occhi, ormai non importa più.

Lui è tornato.

Il viso, che aveva sollevato repentinamente appena aveva sentito la mia voce, si irrigidisce, diventa duro, si guarda le mani insanguinate come se si fosse davvero risvegliato da un lungo sogno. Poi guarda me, annuendo leggermente con il capo e sorride piano, come se mi stesse silenziosamente rimbrottando come al suo solito. Socchiudo gli occhi, se non ci stavo io, eri già morto, furetto.

Draco assume un’espressione annoiata, il volto terreo ed una strana luce negli occhi: “Greengrass, nella tua opinione contorta e malata, io devo combattere con la Granger, vero? E ci dobbiamo anche scannare o roba simile, vero? Quindi, se non ti dispiace, io devo sentirmi anche a mio agio… ti ha mai detto nessuno che Draco Lucius Malfoy è il maestro degli incantesimi senza bacchetta?”.

Astoria lo fissa terrorizzata, mentre diventa improvvisamente livido in volto, sudando come se fosse in fiamme. Le catene scivolano dai suoi polsi, cadendo inermi al suolo. Con il respiro corto, si risolleva faticosamente in piedi, asciugandosi la fronte imbrattata di sangue e sudore. Lo guardo scettica, li conosco quegli incantesimi, non li ho mai imparati compiutamente, ma so anche che non si possono eseguire tante volte. La bacchetta è un coadiuvante del potere magico del mago o della strega, questo è vero, ma è necessaria.

Usare tutta la propria energia magica, senza bacchetta, significa perderla del tutto, prima o poi.

Dubito che ne possa fare molti.

Intanto, comunque, è libero.

Poteva anche farlo prima… dal fiato corto e dal suo barcollare, mi rendo conto che l’aveva lasciata come ultima possibilità.

L’ha lasciato praticamente senza energie. Astoria, presa dal panico, non si rende conto di questo e mi punta contro la bacchetta, il polso geme sotto la fiamma che lo avvolge come sempre e il mio corpo si riempie di scariche elettriche.

“Uccidilo!” mi urla contro, e non riesco ad impedirmi di alzarmi e di sguainare la bacchetta.

Draco mi si para di fronte, apparentemente sicuro e tranquillo, solo la sua mano trema leggermente, mentre la serra in un pugno doloroso. Investita dal suo rigido sguardo grigio, carico di scintille lucenti, lo vedo concentrarsi mentre mi guarda, fino a quando i capelli mi si drizzano sulla testa, mentre libera il suo potere. Per fare, cosa? La mia pelle geme di brividi.

Non ha la bacchetta, possibile che non se ne renda conto? Che cosa altro vuole fare? Vuole morire per mano sua, invece che mia?

Lieve e leggera, improvvisamente distinguo appena la sua voce nella mia testa, come quella volta al Petite Peste, quando pensavamo di essere attaccati dai Mangiamorte. È come se parlasse sottovoce e devo sforzarmi per intendere quello che dice. La mia mente è paralizzata da Astoria, difficile non rendersene conto. L’ha resa impermeabile a qualsiasi intromissione.

Draco forza, però, quella resistenza, anche se in modo debole, lo vedo portarsi una mano sul petto ansante per lo sforzo.

Rabbrividisco per quell’intrusione, eppure è quasi un sollievo sentirlo di nuovo così vicino. Dentro di me.

Magari non puoi rispondere… ti tiene così in pugno che forse nemmeno mi senti.

Gli occhi…  li puoi muovere. Chiudili quando stai per attaccarmi, credi di riuscirci?

Con enorme sforzo, cercando di concentrarmi come prima, ma senza agitarmi troppo in modo da non attirare l’attenzione di Astoria, li chiudo faticosamente. Mi manca il fiato, la milza mi punge come se avessi corso per chilometri, ma ci sono riuscita, anche se non so davvero per quanto tempo possa farlo. Le labbra di Draco si piegano leggermente all’insù.

Basta questo, Hermione… fai solo questo…

Non capisco come possa salvarci tutto questo. Ma mi resta solo fidarmi di lui. 

Una pausa lieve nella mia mente, ed è come se indovinassi un’esitazione, un respiro trattenuto, un pensiero pronto a sfuggire.

Ce la caveremo… non permetterò che ti facciano del male…

Un brivido sulla schiena sentirlo parlare così, di me. Non riesco ad abituarmi ancora a quel pensiero. Lo tengo impacchettato come un regalo di Natale, in una carta luccicante, con un fiocco rosso in cima. È innamorato di me.

Lo guardo, cercando di sorridergli con gli occhi, ma lui volta il viso dall’altra parte, prima che io possa farlo, irrigidendosi e dedicando ogni barlume di luce che ha nelle pupille, per concentrarsi su Astoria, Pucey e Montague. Sfugge i miei occhi come se lo scottassero.

Certo, come dimenticare…

È convinto che io lo odi.

Ne è stramaledettamente convinto.

“Uccidilo!” mi urla di nuovo Astoria, e stavolta la sua voce la sento fino nei nervi, come un impulso elettrico che comanda le mie braccia e impone alla mano che regge la bacchetta di stenderla dritta davanti a me. Un ultimo, vano, disperato ed inutile tentativo di bloccarmi, poi la mia voce, divenuta metallica e gutturale, recita stentorea: “Avada Kedavra”. Le parole mai dette.

Chiudo disperatamente gli occhi, un attimo prima che un fiotto di luce verde sgorghi dalla punta della mia bacchetta, attraversando con un sibilo l’aria, che si carica di elettricità statica, mentre cerca il cuore dell’uomo che amo. La caccia è aperta.

Il mio cuore trema nel mio petto, il torace lo trattiene appena mentre quasi schizza via, batte alla velocità della luce, mentre ho gli occhi chiusi. Riesco però a tenerli, per poco, così. L’istinto di combattere che Astoria mi impone, ovviamente, vuole che li apra.

Sospiro di sollievo, Draco scarta di lato, puntando alla balaustra della veranda dove ci troviamo. L’incantesimo si infrange contro un angolo della balconata, facendo esplodere una parte della ringhiera, già abbondantemente consumata dal tempo. Il contraccolpo mi sferza il viso, odore di bruciato e di polvere. Astoria e gli altri si coprono il volto, mentre lei, tossendo, mi urla di attaccare ancora.

La scossa nei muscoli, stavolta, è più forte, è come se me li stesse tirando a viva forza, distendendoli fino al limite massimo. Anche la voce diventa ancora più roca, come se non fosse la mia.

Avada Kedavra!”, prima che il braccio si tenda, chiudo gli occhi. Ad ogni tentativo, il cuore reclama ossigeno.

Ancora Draco, in modo insperato, evita la maledizione, slanciandosi dalla parte opposta rispetto a prima.

Ed ancora, ancora. Ancora.

Astoria, Pucey e Montague gemono innervositi, come fiere codarde ed indispettite, Draco danza agile come una gazzella inespugnabile, si piega all’indietro, facendo forza con le braccia, salta, corre. L’ho sempre saputo di che cosa era capace, dai tempi dei duelli ad Hogwarts. È sempre stato agile come un leopardo, veloce, dai riflessi pronti ed attenti. È talmente rapido che, di lui, poco prima di chiudere gli occhi, riesco solo a focalizzare la chioma bionda balenare veloce, e poi più nulla. Ecco, perché liberarsi delle catene.

Difficilmente riuscirebbero a prenderlo, adesso, con o senza bacchetta.

Mentre lancio un altro anatema, mi chiedo che diamine abbia in mente. Agile sì, ma prima o poi, rinunceranno ad affidarmi esclusivamente il suo omicidio. E lo colpiranno anche loro, non può scappare per sempre.

Chiudendo ancora gli occhi, che stanno per cedere, come se mi stessi addormentando, per via dello sforzo che ci sto mettendo, noto però che, quando si accorge che sto per colpirlo, scarta sempre di lato. Perché? Improvvisamente, ad un nuovo schianto dell’anatema contro gli angoli della veranda, comprendo: sta cercando deliberatamente di far rimbalzare l’incantesimo contro gli angoli della veranda, che oramai sono crollati e che, dal rumore di pietre che sento, stanno continuando a franare. Sotto, scommetto, ci sono le colonne portanti.

È questo il suo piano.

Vuole fare crollare il balcone.

Saremo liberi così… anche se chissà come ci salveremo allora, se crollasse tutto.

Ma effettivamente, forse è l’unica cosa da fare. Nella migliore delle ipotesi, li distrarremmo al punto tale da poter tentare di fuggire.

E, nella peggiore, almeno non ci ammazzano loro.

La veranda è sospesa sul lago, a circa tre metri d’altezza. Non ce la faremmo mai.

Potrebbe salvarsi da solo. Ed invece sta facendo tutto questo, per salvare anche me.

Di fronte all’assenza assoluta di possibilità, sta scegliendo quella che ne ha anche solo una su un miliardo di salvarci entrambi.

Sono stata davvero io, la sua rovina.

Chiudo ancora gli occhi, mentre lo colpisco. Il granito, sotto i miei piedi, sembra vacillare. Draco salta ancora, verso il limite opposto. Ma, quando li riapro, Astoria è ad un centimetro dal mio volto, mi stringe il braccio dietro la schiena, facendomi male.

Guarda prima me, e poi lui, con gli occhi socchiusi. Poi li sgrana furiosa. E capisce.

“Puttana!” urla con tutta la voce che ha in corpo, sguainando la bacchetta e puntandomela contro.

“Stupeficium!”. Il potere che richiama a sé, prima della Maledizione, è così potente che probabilmente mi ucciderà semplicemente con quello. Il lampo di luce rossa mi colpisce in pieno alla schiena, ne avverto il dolore solo per un istante, prima di sentire i sensi venire meno. Cerco di restare vigile, ma il dolore è così forte da farmi chiudere gli occhi, specie dopo l’enorme sforzo che ho fatto. 

La potenza dell’incantesimo mi fa volare dalla parte opposta.

“NOOOOOOO!!” sento la voce di Draco urlare, mentre cado oltre la ringhiera. Lo vedo slanciarsi repentino verso di me, correre per la breve distanza che ci separa, il mio polso scivola dalla sua mano, mentre la forza di gravità mi richiama giù. Nei miei occhi socchiusi, vedo Hogwarts scivolare veloce, le luci confondersi negli occhi, il rombo sordo del vento nelle orecchie, mentre la superficie dell’acqua nera si avvicina. Il vento, assurdamente, cerca quasi di trattenermi nel mio volo disperato, ma la legge che mi attira verso il basso è più forte di tutto il resto. Il vento riesce solo a farmi ruotare su me stessa, come se fossi una bambola di pezza. La testa mi scivola all’indietro, guardo le stelle per l’ultima volta, sapendo che la pastoia che mi gela il corpo, mi impedirà persino di nuotare. Draco è lì, sospeso nel cielo muto di stelle, appoggiato alla balaustra, la mano inutilmente protesa verso di me, il volto una maschera di cera.

La paura di morire, che si insinua rapida come il vento nel mio sangue, non mi impedisce comunque di sperare che perlomeno lui si salvi da questo folle delirio.

Devi tornare da Serenity. E crescerla come tua figlia. Non darla a nessuno, non allontanare chi ti ama, specialmente lei.

E non allontanare nemmeno Seth. Non hai mai avuto un fratello, fa che sia lui.

Vorrei averti potuto dire… prima di… che ti amo.

Dio, se ti amo Draco Malfoy…

Chiudo gli occhi, presagendo l’impatto imminente con l’acqua ghiacciata, li riapro ad un metro dall’acqua, solo per guardarlo per un’ultima volta.

Non lo vedo.

Non lo vedo più.

Terrorizzata, lo cerco, il vento negli occhi che mi impedisce di mettere a fuoco la balaustra.

Poi, improvvisamente, di nuovo un baluginare biondo.

Draco, in piedi sulla balaustra, flessuoso come un nuotatore professionista, si tuffa dietro di me. Astoria tenta inutilmente di fermarlo, urla di frustrazione. Draco vola come un angelo, a pochi metri da me. Agghiacciata, lo vedo seguirmi.

Dimmi che non lo stai facendo… ti prego…

L’acqua gelida inonda le mie orecchie, arriva ai miei polmoni. Cerco di trattenere il fiato, mentre il tonfo di Draco mi raggiunge pochi secondi dopo. Il buio che mi circonda è totale, non vedo ad un palmo da me. Urto contro qualcosa, il poco fiato che avevo preservato, scivola fuori dalle mie labbra serrate, disperdendosi in piccole bolle argentate. I polmoni bruciano per lo sforzo, poi non sento più nulla.

Nulla.

 

 

Quando si muore, dicono che ti passa tutta la vita davanti.

La rivedi, pezzo per pezzo, secondo dopo secondo, affannarsi nel cervello che muore.

Bambina il primo giorno di scuola, ragazzina con il primo reggiseno, donna con il primo ragazzo.

Tutto si mescola in quei pochi, fatali secondi.

Ho rischiato di morire tante volte, forse troppe per una persona sola.

E mi è sempre accaduto. In un modo rapido e veloce, d’accordo. Ma ogni volta, ho rivisto tutta la mia breve vita.

Tutta.

Davvero.

Non sto scherzando.

Mi si scolpivano a fuoco, però, pochissime cose. Sempre le stesse. Come se la mia vita, in fondo, si riassumesse solo in quelle.

Harry che mi abbraccia alla fine della guerra. Odore di sangue e di speranza.

Ron che mi sposta i capelli dal viso, dopo aver fatto l’amore per la prima volta. Odore di resina e ancora di speranza.

Ginny che mi dice che sarò la sua testimone. Odore di lavanda e di gioia trattenuta.

Solo queste.

Oggi… solo una cosa. Solo una. Come se la mia vita avesse perso improvvisamente ogni dimensione e si fosse riassunta solo in questo.

L’attimo più bello della mia vita.

 

La luce del sole.

Io che affondo il viso nella sua camicia, imbarazzata, arrossendo. Serenity che sonnecchia accanto a me.

E lui che mi stringe dopo avermi detto che lotterebbe per diventare il motivo che cerco. Il motivo per farmi restare.

Quello è stato il momento più bello della mia vita.

 

E ora, so che stai lottando per esserlo. Stai lottando per farmi restare nella tua vita.

Ti sei buttato in acqua per questo.

Ma tu lo sei già, Draco.

Sei il motivo per restare io stessa in vita.

 

Ed ecco qua, il nuovo capitoletto!! E premetto che come sempre è stato un parto plurigemellare!! Il motivo è evidente se l’avete letto, succede una cosa così importante che dovevo assolutamente descriverla in modo perfetto o quasi!! Finalmente dopo la bellezza di 28 capitoli, Draco è uscito dal suo gelo perpetuo ed ha finalmente ammesso, anche se praticamente sotto tortura, di essere innamorato di Hermione, evvaiiiii!!! Ma siccome nulla è facile in HALFT, chiaramente non siamo ancora a nulla… nel senso che i problemi iniziano adesso…muahahaahh!!!

Allora prima di tutto io devo fare una menzione particolare!! E cioè per Ginsan89 che ha praticamente azzeccato tutto quello che stava per succedere!! Io sono rimasta a bocca spalancata, quindi d’ora in poi chiedete a lei così vi dice praticamente tutta la trama…:D:D:D:D scherzo, comunque volevo sottolineare questa cosa e soprattutto volevo comunque scusarmi con te se non ho potuto darti conferma dei tuoi sospetti, perché altrimenti ti avrei spoilerato tutto…:D comunque davvero sei stata bravissima!! Sono rimasta attonita!!:D

Chiedo anche scusa se per lo scorso capitolo non ho inserito i ringraziamenti, nemmeno su FB, ma purtroppo il mio pc dà da tempo i numeri, come sanno coloro che mi sentono via msn, quindi spesso sono costretta a sparire causa connessione assente!! Quindi ringrazio tutti coloro che mi seguono, sia che leggano solamente, sia che mi contattino su Fb, sia per altre vie, sia coloro che mi stanno aiutando a rendere questa storia più bella di quanto già non sia… come avrete forse notato, dal primo capitolo ora stanno anche comparendo delle immagini, tutto merito di Dalia 91 che ringrazio ancora… e forse tra poco potrete vedere anche un video!!:D bene, prima di iniziare a delirare procedo ai ringraziamenti consueti!!

Grazie davvero a Punkinetta (ho cercato di fare prima possibile, ma con gli esami spesso è davvero difficile raccogliere le idee e scrivere…L grazie dei complimenti!!), Helder Black (la mia cara Helder!! Non ti sento da parecchissimo!!:D spero che tu abbia desistito dal tuo proposito di uccidere la povera Herm, alla fine si è ripresa!! Un grande bacio e grazie!!), Rorothejoy (con mia somma fortuna non esiste un sindacato a difesa dei lettori…J altrimenti sarei morta più e più volte!! Per il concepimento del pupetto che premetto io già adoro in modo sviscerale, ci vuole molta pazienza!! Ma come puoi vedere, Dracuccio è vivo e vegeto!! Solo che se mi tieni in vita fino a quando finisce la storia, allora la aggiorno tra settant’anni!! scherzo!! Ancora grazie!), Vanilla_sky (tesoro!! Ti prego non piangere!! Sono davvero felice, e non è crudeltà, che tu abbia provato queste cose leggendo il chappy! Spero che almeno questo ti abbia fatto provare cose più positive, anche se stiamo sempre nella tragedia andante… :D tranquilla, come hai visto, Draco è vivo e vegeto… non sono ancora così deviata da far concepire Alex per opera dello spirito santo!!:D grazie davvero per i complimenti!! Se hai qualche dubbio o mi vuoi contattare anche se non hai fb usa pure la funzione contatta autori di EFP, e ti rispondo volentieri!! Un bacio!!), Haley James (anche tu mi vuoi uccidere!!!ç_ç come vedi ho sistemato tutto, con una serie di capriole mentali, ma ce l’ho fatta!! Seth purtroppo sarà assente per un bel po’… e già mi manca!! Un bacione!!), Herm26 (ciao tesora! Ho cercato di aggiornare prima possibile, sono felice che tu abbia sentito così tanto la parte dello Zahir, cercavo di renderla realistica ma non sapevo fino a quanto ci fossi riuscita!! Davvero grazie grazie!! Un bacione), Valaus (la mia compagna di depressioni facebookiane!! Che è bravissima e dice che non è vero!! Ci hai visto stragiusto che la faccenda dello Zahir non si poteva risolvere così facilmente, eh no!! Se quella testaccia dura non l’avesse fatto!!! il momento languido e strappalacrime l’ho recuperato qui, ma siccome non hanno capacità di muoversi, alla fine è stato quello che è stato!! Ma spero che ti abbia fatto riprendere dallo shock dello scorso capitolo!! Grazie davvero di tutti i tuoi complimenti, sono arrossita!!) Liven (ho rischiato uno strangolamento!!!:( spero che tu abbia cambiato idea con questo chappy!! Un grande bacio e grazie!!!), Seven (la mia cara compagna di anticipazioni e di domande nevrasteniche, ma va bene, secondo te va bene??? Tu sei unica, come sempre quindi nemmeno mi prodigo in ringraziamenti sennò ci metto mezza giornata!! Un bacio, tvb!!), Danino (tu vinci il premio dell’ipotesi più tragica, addirittura Draco voleva farsi uccidere? No, per fortuna le cose stavano in modo leggermente più semplice!! Ma solo leggermente… sono abbastanza tragica anche io!!Grazie tantissimo!!), Stellale (mamma mia, grazie davvero!! Sono commossa…ç_ç magari mi cogli su questo capitolo il passo falso, visto che sono stra in dubbio di come sia venuto!! Effettivamente quando ho pensato allo Zahir, non ho necessariamente pensato a qualcosa di magico, in senso stretto. Mi ha successo parecchie volte di vivere la situazione di Hermione, non essere corrisposta e covare un odio simile, anche se non con quegli effetti, ovviamente… quindi era una cosa facile da immaginarmi… sono diventata decisamente pessima in quei momenti…L Draco è un maledetto, perché ha taciuto tutto questo tempo!! Ma non sa che cosa lo aspetta…:D:D:D un bacio e grazie!!) Giulia Malfoy (anche tu mi vuoi morta!!ç_ç questa storia mi sta creando tanti nemici…ç_ç un po’ della perplessità su Draco te l’ho sciolta oggi, spero!! Poi un giorno saprete tutto quello che pensa!! E Seth io lo amo… anche se penso che lui mi preferirebbe Beckham!!:D un bacio!! Grazie!!), Eldariel (grazie tantissimo!! Purtroppo i miei tempi restano sempre lunghi, sorry!), Ginsan 89 (io con te non ci parlo!! Profetessa della mia storia, tutta l’hai azzeccata!! Scherzo, tesoro, scusami ancora se non ti ho risposto su fb!! Baci), Only V (ciao tesora! Tranquilla, io sono una donna contorta, ma non crudele… e anche le pagine del diario di cinque anni in avanti sono anche fatte apposta… :D e mo mi sto zitta…:D La tua teoria numero uno si è rivelata corretta, Hermione alla fine non ha ucciso Draco e tutto per la frase che lui le ha detto. E la sua schizofrenia è Astoria che gliela sta facendo venire!! Quindi in questo ci hai preso!! La seconda teoria invece con nostra enorme fortuna, non era corretta, vi posso assicurare, e questo davvero lo faccio senza problemi, che Alex è davvero davvero il figlio di Draco… !! Draco diciamo che allora non ci ha capito molto, ma ora penso che abbia capito che è stata tutta colpa di quella brava donna di Astoria… e tra Hermione e Seth è solo un arrivederci, tranquilla, lo amo troppo per farlo sparire di scena così!! Un bacio), Lady Sly (tu hai bramato la mia morte più di tutti!!! Devi avere fiducia nella Cassie tua!!:D no, non sono congetture strampalate: Draco tecnicamente deve restare in vita fino a concepire Alex… poi al massimo lo uccido… scherzo, ho troppa paura di te!!ç_ç un bacio!!), Eruanne (mi è piaciuta molto la tesi di Draco, terrorizzato da Hermione che la sposa per calmarla!! La userò prima o poi!! Ahahahah!! Povero Draco, davvero… ç_ç un bacio!! Grazie!!), Payton Sawyer (tesoro!! Voglio anche io lo Zahir per avere i capelli neri e dritti!!:D Tu dunque pensi che il marito di Hermione sia Hayden!! E chissà… mamma mia poverina, alla fine davvero che mi ammazzi!! Un bacio)

 

Un bacio a tutti!! Ciao ciao da Cassie chan!!:D

 

 

 

 

 

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Capitolo 29
*** Sinners purify sin ***


Capitolo 29 – Sinners purify sin

Capitolo 29 –  Sinners purify sin

 

Ricordo di aver letto una volta che il diamante è la pietra dei matrimoni, perché è quella più dura e solida. Quella che, si presuppone, non si dovrebbe scheggiare mai.

Non si dovrebbe incrinare, piegare, rompere in alcuna ragionevole maniera.

La realtà, però, non è un reticolo cristallino di atomi di carbonio. Non che questa sia una novità, anzi.

L’ho sempre saputo, non l’ho ignorato nemmeno per un attimo della mia vita. O meglio, la vita stessa non mi ha permesso di ignorare questa cosa.

È fatto di carne e sangue, un matrimonio. Pertanto, è debole, friabile, attaccabile da qualsiasi morbo che attenti alla sua funzionalità fisiologica.

Si insinuano presto le malattie, in un matrimonio. All’inizio, sono deboli ed isteriche come un raffreddore, poi si cronicizzano, accompagnate da un endemico silenzio.

E diventano incurabili.

Ci si convive, come con qualunque cosa. Si va avanti, si assumono palliativi, ci si riempie delle cure del caso. Si urla al miracolo e alla risoluzione di ogni problema, quando una nuova medicina, corroborata da medici dell’ultima ora, viene immessa sul mercato.

Si spia lo stato di salute delle altre coppie, ci si dice che non si è in quelle condizioni, ci si dà di gomito, guardando le metastasi degli altri, mentre si dissolve un altro diamante, sigillo di un amore eterno finché dura.

Ho sempre odiato tutto questo sfacelo, lo vedevo nei miei, che pure si amavano. Mi ero progressivamente convinta che fosse una cosa naturale, un decorso sistematico ed inevitabile, e, testarda, dicevo che non ne avrei mai fatto parte. Non mi sarei mai sposata.

Che senso mai avrebbe avuto?

Pranzi di Natale ipocriti, coperti dalla polvere di rapporti formali. Stessa cosa per decine di altre ricorrenze.

Il matrimonio mi ha sempre terrorizzato, anche se, come qualsiasi altra donna sulla faccia della Terra, ci ho sempre fantasticato sopra. Ma forse, più su quel giorno da vivere come una principessa, piuttosto che su quello che sarebbe successo dopo. Perché, scrollati di dosso i chicchi di riso e deposti i confetti, la sposa veniva deposta dalle braccia del suo sposo e si trovava davanti la vista di una nuova casa, pregna dell’odore di vernice fresca e foriera di promesse presto dissolte.

La fantasia del mio giorno ideale, includeva me, il mio futuro marito, i miei testimoni, ed una spiaggia al tramonto, come quella dove trascorro le mie attuali giornate.

Niente pranzi luculliani tra parenti serpenti e falsi amici.

Quando è arrivato il mio momento, anche solo per un attimo, io ho sognato quel giorno. Vorticava come all’interno di una sfera di cristallo, tipica di una fattucchiera.

E vedevo chiaramente chi volevo che ci fosse. I miei, Harry, Ginny, Seth e il personale del Petite Peste, Helder, ovviamente Serenity.

Ma è stata una fantasia fugace, repentina, come se temessi di guardare in quella sfera come quando andavo a Divinazione… ed è stato il più grande errore della mia vita.

La vita ha sempre un senso dell’ironia sottile e perverso. E mi ha concesso il matrimonio intimo che volevo.

Mi ha concesso Helder ed Harry… e ha escluso gli altri invitati.

Mi ha concesso l’aria tranquilla che volevo… ma ha escluso la spiaggia al tramonto. Mi ha dato una chiesa gotica in una notte piovosa di febbraio.

E mi ha concesso anche di avere un figlio alla cerimonia… ma un figlio non nato, ancora nel mio ventre per pochi giorni. Ed ha escluso la figlia nata da un’altra madre.

Ma soprattutto ha escluso il solo che avrei visto al mio fianco come marito, sebbene lo avessi negato fino alla morte.

Il mio matrimonio, oggi, è una macchina perfetta. Oliata, rodata, ben funzionante.

Fa invidia, desta stupore, ha l’odore di biscotti fatti in casa e di risate trattenute alla vista di estranei.

Scorre nelle mani unite mie e di mio marito che fanno volteggiare Alex che ride contento.

Mi guardo l’anulare sinistro, dove sottile luccica nel sole del primo mattino il cerchio d’oro giallo che mi candida come moglie.

Sopra di esso, un altro cerchio dello stesso colore regge una pietra piccola di colore rosso. Non un diamante.

Lo scelse mio marito, oramai cinque anni fa. Disse che era perfetta per me e, forse, oggettivamente gli diedi anche ragione. Ma sapevo che era il solito modo per legarmi a lui tramite un colore, un suono, un odore. Un qualsiasi cosa che stabilisse il filo rosso spezzato.

Difatti, non fece cenno ai diamanti. Forse disse che costavano troppo, o forse disse che erano antiquati. O forse non disse davvero nulla.

E, forse, quel suo silenzio fu, come sempre, manna dal cielo, perché meno parole cercava, più cose potevo ignorare. O fingere di ignorare.

E lui lo stesso.

È il regalo più bello che ci siamo fatti, in questi cinque anni. Parole luccicanti e sterili, silenzi pesanti e vitali.

Guardo il suo anello, luccica come una goccia di sangue, resa di cristallo scarlatto. Lo sfilo, trattenendolo nella mia mano.

Cerco nelle mie tasche e trovo il compagno della mia fede nuziale. O meglio quello che sarebbe dovuto essere il suo compagno e che, chissà per quale astruso motivo, ho ancora io.

O meglio per chissà che ironia della mia vita, ho ancora io.

Ci ho pensato spesso a questa cosa, specie quel giorno, quando, dopo quasi un anno dal giorno che mi ha rovinato la vita, mi decisi a fare il cambio di stagione, cercando indumenti più chiari e leggeri per l’estate che iniziava, sperando che avessi ancora qualcosa che mi andasse dopo essere diventata mamma di Alex.

E l’anello era esattamente dove l’avevo lasciato. Dopo tutto quel tempo e dopo tutto quello che era successo… era ancora nella tasca del mio cardigan azzurro.

Lo stesso che, nella fretta, avevo indossato quel giorno.

Chissà se Draco l’ha mai cercato… e chissà se avrebbe voluto trovarlo, perché aveva un’altra mano più docile della mia, a cui farlo indossare.

Quel giorno, quando lo ritrovai… il dolore mi ottenebrava ancora la mente, e ferivo mio marito di rancore inconscio, e mio figlio di malinconica cura negletta.

Con rabbia, pensai che ce l’avevo ancora io, semplicemente perché mi era destinato. Era il mio destino averlo.

Ora, dopo cinque anni, in cui il mio fantomatico destino ha perso la strada di casa, penso solo che sia un caso.

È così labile la linea tra destino e caso, tra fato e coincidenza, che ne sposto spesso l’argine a seconda della giornata e del momento.

Protetta dal silenzio della spiaggia e dalla mancanza di persone, infilo l’anello al dito delle promesse. Anulare sinistro. Poco sopra la fede.

Scintilla il diamante, come se fosse una stella nel primo sbocciare della sera. E, per un momento, penso quasi che c’entri ancora il destino.

È un anello sfortunato, è un anello destinato ad essere sempre nascosto… l’anello dei matrimoni che sarebbero perfetti, ma a cui manca qualcosa.

L’anello dei matrimoni che non sono reali. 

L’anello del matrimonio tra Narcissa e Lucius Malfoy. Forse falso, e comunque finito prematuramente.

L’anello del matrimonio tra Danny Ryan e Rachel Leigh. Falso, perché di due persone mai realmente esistite.

… ed infine l’anello del matrimonio tra Hermione Jane Granger e Draco Lucius Malfoy.

E non ho nemmeno alcun aggettivo da poterci aggiungere.

E questa, se possibile, è la cosa peggiore tra tutte.

 

 

L’acqua è nera, scura, vischiosa. Qualcosa mi tocca la caviglia, mentre affondo ancora più in profondità. Anche se l’incantesimo mi consentisse di fare qualcosa, probabilmente non potrei nemmeno… troppo densa l’acqua per essere tale, troppo gelida, troppo scura.

Il vestito zuppo che si apre come una medusa, il ghiaccio prima nelle vene e poi nei polmoni, le mani inutilmente tese verso qualcosa. L’asfissia.

Morire. 

Fluttuare in quel pensiero, stanca di qualsiasi cosa. Inutile respirare… ed inutile ed impossibile ogni altra cosa.

Dolce naufragare in questo mare… chi era che lo diceva?

Non importa. Chiudo gli occhi.

 

Il sapore della torta alla fragola.

Il colore del mare di gennaio.

L’odore di un libro appena comprato.

Il graffiare di una penna su una pergamena.

La leggerezza cartacea delle ali di una farfalla.

 

Serenity. Seth. April. Harry. Ginny. Helder. Mia madre. Mio padre.

 

… ciò che amo…

 

Draco… Draco… Draco…

 

Caldo alla mano, strattone, dolore alle braccia attraversate da fitte. Acqua scorre nelle orecchie, mentre scivolo in direzione opposta.

Qualcos’altro che mi tocca velocemente, mentre è come se sfuggissi via.

Impatto violento con l’aria. Ancora più gelo, dita ghiacciate tamburellano sulla mia testa.

Scroscio d’acqua. Strattoni.

Vento, ancora più freddo, pelle d’oca e brividi.

Qualcosa di compatto sotto la schiena. Gli occhi chiusi, riesco a tossire acqua. Ossigeno cercato riprende a circolare nei polmoni.

La gola raschia come se ci strofinassi sopra carta vetrata. Rischio di soffocare adesso, più che prima. Forse sanguina.

Vengo sollevata di peso. Calore, lieve, lontano, soffuso come quello prodotto da una tremula candela.

Braccia che mi cingono…. Il profumo di Draco.

Altre voci. Concitazione.

Cado dolcemente nel velluto nero di un sonno profondo cento anni.

 

La prima cosa che sento, appena sento di essere di nuovo cosciente, è il freddo.

Intenso, pungente, anche se mi sembra di non sentire più i miei vestiti bagnati. È come se fosse… interno. Un gelo interno.

I miei capelli li sento ancora umidi, si attaccano al collo, asciugandosi. Sicuramente, per essere oramai quasi asciutti, deve essere passato un bel po’ di tempo… cerco di ragionare, ma il freddo è così forte che a fatica mi trattengo dal battere i denti.

Le labbra mi bruciano, come se fossero scottate. Cerco disperatamente una fonte qualsiasi di calore, ma le mie mani, mollemente abbandonate, non sono ancora in grado di muoversi da sole. Primo, perché sembrano anche esse dei pezzi di ghiaccio, secondo perché sono ancora sotto effetto del maledetto controllo di Astoria, terzo, credo di essere così debole che se anche lo facessi, ci morirei sul colpo. Sotto la schiena, non avverto più il pietrisco come prima… anche se non so esattamente quanto tempo fa… ma la sensazione di una superficie liscia, morbida, contro la schiena, probabilmente un letto, considerando che sono distesa e che sento con una parte della mia pelle ancora in grado di sentire qualcosa, il fresco di un lenzuolo poggiato sul mio corpo, che però comunque non riesce a riscaldarmi.

Le mie riflessioni riprendono, come un fiume in piena, mentre, inspirando profondamente, sento il curioso ed inconsueto odore che mi circonda. Un profumo di donna, forte, carico, impossibile da ignorare. Sembra il profumo alla violetta che metteva sempre mia mamma.

Non sembra quello di Astoria… ed è a quel nome che i miei sensi ritornano improvvisamente vigili, anche se i miei occhi restano chiusi, come se fossero incollati e non riuscissi a forzarli per aprirli.

Una scossa elettrica.

Nulla a che vedere con lei, ma ugualmente forte.

Draco.

Con le mie forze residue, faccio forza sui miei occhi per aprirli, ma riesco solamente a socchiuderli, non riuscendo ad identificare praticamente nulla dalla minuscola lama di luce che filtra alle mie pupille. Dietro le mie palpebre chiuse, non si è affacciata alcuna luce aranciata quindi penso che sia ancora notte. Dalla mia esigua prospettiva, non riesco a vedere nulla, il panico mi avvolge come un manto pesante e soffocante. Il pensiero che non ce l’abbia fatta, mi serra la gola, gemo silenziosamente, deglutendo. Posso fare solo questo, altrimenti urlerei e mi alzerei per cercarlo, dovunque mi trovo. L’insofferenza alla mia prigione silenziosa, mi fa tremare di frustrazione e dolore, il gelo che penetra ancora più profondamente nelle mie ossa.

Mi sembra evidente di essere al coperto, non sento rumori di qualunque tipo, solo qualche suono attutito dalle pareti.

E, probabilmente, sono anche al sicuro. Ma non posso ragionevolmente sentirmi al sicuro, se non lo sento, se non lo vedo. Dov’è Draco?

Improvvisamente, un bruciore inaudito sulla fronte, come se mi avessero messo del sale sulla ferita che ho poco sopra l’occhio, tranne che sembra provenire da qualcosa di morbido e contemporaneamente di bagnato che preme alternativamente sull’escoriazione. Sembra… l’odore di un disinfettante… facendo forza sugli occhi, cerco di aprirli del tutto, ma non c’è nulla da fare. A parte l’oramai ben nota sensazione che il mio corpo non mi appartenga e che galleggi in una collosa immensità, sento le membra così deboli e fiacche che persino il respiro è diventato doloroso e faticoso. Ogni volta che il torace si abbassa e rialza, fitte acute mi raggiungono al cuore.

Forse sono in un ospedale… o al San Mungo… ma non sarebbe così silenzioso.

Non mi interessa dove sono, perché continuo a chiedermelo?

Draco… dove è, maledizione? Il ricordo di tutto ciò che ci è successo, non so esattamente quanto tempo fa, mi sommerge ad ondate. I particolari sono chiari, netti, vividi nei loro colori ed odori, ma sembra… tutto… così assurdo… forse ho sognato tutto…la scoperta del suo sentimento per me, le bugie di Astoria, il suo piano per farci capitolare… rabbrividisco, possibile che sia stato tutto reale?

Possibile che mi sia stato mostrato che Draco Lucius Malfoy è innamorato di me, Hermione Jane Granger?

Come diamine può essere successo? È impossibile…

Il resto, stranamente, mi sembra più reale, più possibile… il volo oltre la ringhiera, il lago, l’acqua nei polmoni… il freddo ritorna prepotente attorno a me, come se ci fossi ancora dentro quel lago. Tremo a quel ricordo… l’acqua… al solo pensiero, mi assalgono le vertigini e il panico.  E poi… faccio fatica a ricordare… ma certo, l’angelo biondo… lui che si tuffa.

Sono certa di averlo sentito… sono certa che è stato lui a salvarmi. Con un brivido, ricordo il calore del suo corpo contro il mio.

Il suo profumo era penetrante come non è mai stato prima… ero certa… di essere morta. E di essere finita in Paradiso, anche se non potevo nemmeno muovermi o aprire gli occhi. Ero certa che fosse lui… mi ha stretto e portato in salvo. E poi? Dov’è andato?

Possibile che mi abbia abbandonato qui, dovunque sono, e se ne sia andato?

La paura che sia andata davvero così, mi stringe il cuore in una morsa.

I gesti dell’ignota persona che mi sta disinfettando la ferita, cessano all’improvviso, sento gettare lontano la garza che mi stava medicando e sento anche distintamente sbuffare la suddetta persona, mentre borbotta qualcosa a mezza bocca. Non riesco ad intendere che cosa stia dicendo, ma non sembrano cose molto gentili e carine. Che darei per aprire gli occhi, anche mezzo secondo, ma, nonostante non smetta di sforzarmi, non c’è modo che si decidano ad aprirsi. È come sbattere ripetutamente la testa contro un muro di cemento armato. Con il risultato che sono frastornata esattamente come se lo avessi fatto sul serio.

Improvvisamente, sento il rumore distinto di una porta che si apre cigolando, e la persona che è accanto a me, seduta sul letto, si alza. Il materasso infatti va su e giù, tornando al suo volume originario. La sento sbuffare ancora, ma la mia attenzione non è già più rivolta nei suoi confronti.

Draco.

Sono diventata peggio di un cane da tartufo, quando si tratta di lui.

La pioggia nel mese di settembre, la terra che langue un’intera stagione per il caldo e ritrova l’abbraccio umido dell’acqua, rifiorita vivifica dal cielo.

Non lo posso vedere, non ha nemmeno parlato, eppure so che è lui. Ne sento l’incomparabile pienezza che avvolge già la stanza, comprendendo anche me. Il nodo in gola che non mi faceva respirare, si disfà, ispirandomi curiosamente a piangere per il sollievo di sentire che è vivo, libero, accanto a me. E’ una sensazione così primordiale ed appagante che adombra tutto il resto, ogni domanda ed ogni pensiero. Mi fa sentire come sempre una ragazzina al primo batticuore, ma, come sempre, non ci posso fare assolutamente nulla.

Oramai, non ci voglio nemmeno fare nulla. Sia anche sconveniente, assurdo ed umiliante…

Come una botta in testa, ricordo qualcosa. Un pensiero. Un mio pensiero. Di tanto tempo fa… quando Dean mi lasciò.

Sin da bambina, sognavo l’amore senza aggettivi, quello passionale, intenso e, per una come me, assolutamente illogico. E non importa se mi dovesse mandare in corto circuito il cervello, con mia grande ansia ed angoscia, ma basta che sia così grande, bello e meraviglioso che io non possa rimpiangere nulla di quello che ho fatto o che sto per fare.

Se potessi sorridere, lo farei… a pieni polmoni.

L’amore per Draco è sempre stato illogico al punto tale da farmi creare uno Zahir per liberarmi del suo pensiero.

Ed ora, oggi, dopo tanto tempo e dopo tante negazioni, non mi interessa di lui. Davvero.

Fosse stato anche un meraviglioso sogno sentirlo dire che mi ama, non mi importerebbe.

Sono solo felice di sentirmi viva, per questo sentimento che mi squarcia il petto. Felice, sul serio. Di amarlo e che lui sia vivo.

Soffrire è sempre meglio del niente.

E forse c’è chi ha ragione a dire che è meglio amare e perdere, che non amare affatto. Ora ne capisco appieno il senso.

Vale davvero la pena essere innamorata di Draco Malfoy.

“Come sta?” come prevedevo, è la sua voce a raggiungermi. È vistosamente stanca e vibrante. Mi chiedo angosciosamente come stia.

Quando l’altra persona, quella che mi stava disinfettando le ferite, parla, ne riconosco la voce, ma non riesco di primo acchito a distinguere distintamente a chi appartenga. È una voce pastosa, di donna, abbastanza isterica nel tono.

“Quando esattamente ho detto che mi interessa del suo stato di salute?”. Ecco… è una che non mi sopporta. Chi diamine è? La voce… la conosco… ma non mi viene in mente dove l’ho sentita.

I passi di Draco risuonano cupamente nella stanza silenziosa, si siede sul letto accanto a me, sospirando. Sento il peso del suo corpo sul materasso ed arrossisco nel sentirlo così vicino, il calore del suo corpo è così percettibile che mi sembra di non sentire più freddo, rovente il sangue che il cuore impazzito pompa nelle vene.

“Credo, quando ti sei ricordata che mi vuoi tanto bene…” risponde a tono Draco, la stanchezza non cancella l’ironia della sua risposta.

“Anche questo l’ho fatto, quando?!!”.

“Quella è una tua amara consuetudine, Pansy…”.

Trasalgo nella mia immobilità. Se fossi in grado di muovermi, lo picchierei a sangue con una vanga… mi ha portato a casa di Pansy Parkinson??? Ecco chi diamine era… ed ecco anche perché non mi sopporta… ampiamente ricambiata, ovviamente.

Faticosamente ricordo che cosa Draco mi disse, quando mi raccontò della sua copertura come Danny Ryan.

In pochi sanno che sono ancora vivo… Blaise, Pansy…

Perché diamine se aveva bisogno di nasconderci, non mi ha portato da Harry? Là, saremmo davvero stati al sicuro… e in compenso avremmo anche potuto denunciare Astoria, Pucey e Montague… perché, invece, è venuto qui?

L’odierna esperienza con Astoria mi ha però insegnato che l’agire di Draco Malfoy, anche se apparentemente criptico, ha sempre una sua intrinseca motivazione. Quindi, probabilmente, anche questa volta ce l’ha.

O realisticamente sono arrivata al punto di fidarmi completamente di lui.

In ogni caso, appena torno in possesso delle mie capacità fisiche, questa me la spiega… eufemismo per dire che se non ce l’ha una spiegazione, finisco il lavoro che ha iniziato Astoria.

“Allora… come sta?” chiede di nuovo Draco con un filo di voce, lo sento improvvisamente più vicino, anche se non mi sembra che si sia mosso. Ringrazio, per la prima volta, la maledizione che mi rende una statua di sale… è davvero imbarazzante stare qui, mentre parla di me, e, se dovessi solo fingere di essere addormentata, mi sarei sicuramente tradita. Ma, se il mio corpo non può reagire in alcun modo, nemmeno alla sua vicinanza, allora posso chiaramente diventare un’attrice da Oscar.

“Credo… bene…” replica controvoglia la Parkinson, schioccando la lingua “Le ferite sono superficiali, niente di serio… e, per l’immobilità, chiaramente non so nulla, sembra una cosa potente, oscura… qualsiasi cosa sia, sicuramente non sarà facile da sciogliere… comunque, ha ragione… alla fine, è lei la persona più esperta a riguardo… o perlomeno la più esperta a riguardo, che non abbia avuto rapporti tali con il Signore Oscuro da ammazzarti, appena ti dovesse vedere….”.

Draco annuisce, senza partecipazione.

Chi, esattamente, hanno chiamato? Una persona esperta, a riguardo… dello Zahir, ovviamente, e forse di faccende oscure… ma non direttamente legata a Voldemort… chi diamine è?

Che razza di nervoso…

“Si è solo lamentata poco fa…” conclude atona Pansy, la sento stiracchiarsi come un gatto annoiato “Forse per il freddo…”.

“Metterle una coperta addosso, no, eh?”.

Pansy Parkinson sospira noncurante, prima di replicare piccata: “Non penso che me l’avessi detto… e il pensiero che le mie preziose lenzuola di damasco la stiano toccando, è già qualcosa di aberrante per me…”.

Giuro che, se un giorno dannato mi riprendo da sta storia, l’ammazzo con le mie mani.

“Non crederai ancora alle sciocchezze dei Mezzosangue e simili?” chiede con un vistoso sospiro Draco.

“No, ma credo ancora al potere fortemente infettivo delle Grifondoro saccenti e che fanno di cognome Granger…”.

Draco, inaspettatamente, ride leggermente. La sua risata costringe anche Pansy ad imitarlo e, sebbene lo stiano facendo di me, sento il cuore più leggero. Sentirlo ridere… non mi accadeva da tanto.

Certamente la Parkinson può farlo stare decine di volte meglio di quanto faccia io…

Tra me e lui, invece, è sempre tutto così dannatamente difficile… forse è davvero così… che io e lui non siamo destinati a starci accanto…con una come la Parkinson, sembra facile come respirare… e forse magari lei lo ama ancora, per questo lo sta aiutando. 

Mentre, per me e per lui… è come… se forzassimo il destino…

Quel pensiero, vero come non c’è mai stato nulla e razionale come solo un sillogismo potrebbe essere, mi fa annaspare, facendo salire le lacrime ai miei occhi morti, che non le liberano, lasciandole incagliate lì. Le ricaccio indietro a fatica.

Quando Pansy riprende a parlare, ha la voce più calma e serena, meno isterica.

“E la bambina?”.

“E’ di là…sta dormendo… c’è Blaise con lei…”.

La bambina? Serenity… ha portato qui anche lei…

Ma certo, sarebbe stato abbastanza semplice per Astoria prenderla e ricattare Draco per farci uscire allo scoperto, se effettivamente, come sembra, siamo riusciti a sfuggirle. Dubito che si sia arresa all’idea di ucciderci entrambi, constato con un fremito.

Spero che Draco abbia pensato anche a Seth e agli altri.

Blaise… quindi anche Zabini è qui… di bene in meglio…

È la voce di Pansy a rompere nuovamente il silenzio. La voce scende di tono, diventando bassa e roca: “Sembra così assurdo…”.

“Cosa? Che Astoria voglia uccidermi?”.

“Anche…” replica Pansy, si siede anche lei sul letto, la sua voce mi arriva più vicina “Ma soprattutto credo che sia assurdo che sia tu a non voler uccidere lei…”. Questa me la spiega… credo che Draco se avesse Astoria tra le mani, altro che ucciderla. Non penso che la perdonerebbe per pura bontà divina… ed, anche se lo facesse, mi trasformerei io nella peggiore delle serial killer.

Se penso a come diamine mi ha ridotta… anche se mi consente di stare qui a sentirli parlare, senza problemi…

Capisco che non stanno parlando di Astoria, solo quando Draco riapre bocca.

“Già… è assurdo…” la sua voce sembra sorridere in modo quasi doloroso. Il suo eco è straziante come il canto di milioni di dolori sconosciuti, mi allarga il cuore, vinto dalla tenerezza e da uno strano calore dalle parti dello stomaco.

Sta parlando di me… non ho sognato… è davvero… ancora, non riesco nemmeno a pensarlo. Ancora, la parola innamorato, anche se la ripetessi mille e mille volte nel cervello, non renderebbe davvero quello che sento al pensiero che lui provi anche solo la metà di quello che io provo per lui. E’ solo gettare un sasso in un lago limaccioso e torbido.

Ringrazio Dio di aver creato le orecchie in modo che funzionassero in modo completamente autonomo dalla volontà, e continuo ad ascoltare, il cuore in gola, il respiro corto. Cerco di calmarmi in modo che non capiscano che sono cosciente.

“Ma sai qual è la cosa più assurda?” chiede Draco, quasi più che parlasse con sé stesso che con Pansy. La voce è assente e persa nei suoi pensieri, distratta. Lei rimane in silenzio, esortandolo a continuare.

Delicatamente come se fossi una bambola di porcellana, sento una mano sul viso che mi accarezza piano gli zigomi, le guance, fino alle labbra. Sotto le sue dita, la pelle del mio viso fiorisce di brividi freddi e caldi, assieme. Lungo il collo, scivola ghiaccio e lava.

Mi chiedo come faccia a non accorgersene, come faccia a non rendersi conto di come mi riduca ogni volta che mi sfiora.

La pelle delle sue dita è calda, sembra lasciare tracce e solchi incandescenti sulla mia, come guide luminose per la prossima volta in cui si approprierà di nuovo del mio viso. Sfiora le mie labbra, per poi fermarsi all’improvviso come se si ricordasse solo allora di Pansy.

Riprendo a respirare, quando si stacca da me. Ma non è un anelito di vita… no. È solo morte non sentire più la sua pelle sulla mia. 

“La cosa più assurda è che lei è insopportabile… te la ricordi no?”, una piccola pausa quasi divertita, ostaggio di memorie lontane. Dovrei sentirmi offesa, ma quel insopportabile, il tono con cui l’ha detto… è come se mi avesse ricoperta di lodi e onori per secoli.

Basta davvero così poco, se lo fa lui… basta sempre anche una briciola di pane, lasciata distrattamente per terra.

Mi sfama per mille e mille anni.

Il singhiozzo che mi preme per uscire, diventa come sempre un solo minuscolo sospiro che, nel silenzio, rimbomba come un tuono. Eppure non credo che l’abbiano sentito. Draco riprende a parlare di nuovo, senza apparentemente accorgersene.

Un piccolo movimento impercettibile.

E solo qualche parola.

“… eppure, se non tornasse più quella di prima, io sarei pronto a togliermi la vita…”.

Tum.

Un solo rombante, cupo e potente battito del cuore. Un colpo al cuore. Riecheggia nelle orecchie come l’eco in una valle deserta, si ripete all’infinito ed anche oltre. Tum. Perdere un battito… e questo per sempre. Sistole e diastole che si susseguono, asimmetriche, disuguali, disarmoniche, perché hanno perso quel solo ed unico battito. Milioni di secondi dopo, quando si fermerà del tutto il mio cuore, ricordarne la melodia a partire da quel momento. Tum.

Il cuore accelera, impazzisce, esplode nel petto, ma è quel battito che io continuo a sentire nelle orecchie. Come uno schioppo che esplode sordo, come il grilletto che cambia la vita di una persona, o forse di due. E che si preme in un secondo.

Le sue parole scivolano lungo le mie spalle, come un vestito di seta che sfugge leggero, scorrendo sulle braccia, fermandosi alle mani, che iniziano a tremare, senza che me ne accorga. Sulla pelle, scaglie gelate che bruciano come l’inferno.

La dolcezza mi stringe un nodo in gola, pesante, opprimente, soffocante, gli occhi sempre chiusi, a malapena riesco ancora a distinguere la presenza di Draco accanto a me, persa nella dimensione fantastica dove le sue parole mi hanno portato.

Quel contrasto tra il significato delle sue parole, e il tono indiscutibilmente suo della voce, è ancora un miracolo per me.

Parole dolci, parole tenere, parole… innamorate… fatte di iperboliche dichiarazioni di morte prematura, di promesse ridondanti eppure meravigliose… e poi la sua voce, sempre roca, dura, graffiata, solo più triste, tremula e sospesa. Il mio Draco. Sempre lui, sempre odioso e saccente, sempre arrogante e indisponente… ma innamorato.

Di me.

È come se un paio di mani calde e leggere avessero preso il mio cuore e lo tenessero assieme, raccogliendo e facendone combaciare i pezzi, creatisi dopo anni di delusioni e fallimenti. Quel calore si irradia per tutto il mio corpo, lo riscalda, infiamma il mio viso, brucia i miei occhi, mi gonfia il petto di un dolore piacevole e struggente come una canzone colma di nascosta nostalgia.

La mano si contrae nervosamente, stringendo un lembo del lenzuolo.

“Me ne sono resa conto… se penso che vuoi… per la Granger… assurdo…” inveisce Pansy disgustata e quasi arrabbiata.

Lui continua a parlare, come se fosse un fiume in piena a cui hanno tolto adesso un argine scomodo e fastidioso.

“E’ stata colpa mia, quello che le è successo… io l’ho portata a questo… la volevo proteggere e…”, lo sento deglutire pesantemente, fremere e colpire piano, forse con il pugno, la spalliera del letto. Trema la mia schiena.

Trema tutto, come se crollasse su sé stesso.

“Lei aveva ragione, Astoria aveva ragione… la mia condanna… sarà… questa… sapere di averla avuta, sempre, e aver permesso che mi sfuggisse dalle dita, e solo per colpa mia… ma non importa…”, la sua voce si spezza ancora, lasciando sfuggire un debole quanto silenzioso singhiozzo. Non sono nemmeno certa di averlo sentito davvero.

Le mie dita tamburellano nervose, il cuore minaccia di uscirmi dal petto.

“Se mi odia… se l’ho persa…va bene … finché sia al sicuro… è il mio solo pensiero, vivo solo perché lei e Serenity siano al sicuro…”, si lascia scappare una risata nervosa, greve, pesante, finta: “… mi dispiace di averti dovuto coinvolgere, ma come ben ricorderai, non avrei mai dimenticato che mi devi circa cinquanta milioni di favori… e per lei li avrei anche sfruttati…”.

Gli occhi pizzicano ancora, la mano supera il lenzuolo e gratta il materasso.

Odiarti… l’ottavo peccato capitale… e pensare che l’ho fatto per una vita…

Dio… se un giorno potessi parlarti ancora… anche solo una volta…

Poi accetterei anche di essere un vegetale per tutta la vita… basta che sia accanto a te…

Si muove ancora, lo sento spostare il peso da una gamba all’altra e riprendere ancora, la voce adesso di nuovo rauca e strozzata: “Mi va bene che mi odi… va bene… in fondo, l’abbiamo fatto per una vita…”, e qui ancora una pausa sofferta, prolungata, piena zeppa di ricordi che aleggiano come pipistrelli nello spazio che ci separa.

Ricordi di insulti che le parole odierne riescono a dissipare a fatica, come raggi di sole in un cielo plumbeo.

 “… e non sarebbe così inconsueto che continuasse così per lei… anzi, come mi dimostri pienamente tu, sarebbe anormale il contrario… probabilmente Potter la rinchiuderebbe in manicomio, se… scegliesse me…”.

Stringo la mano a pugno, le unghie feriscono il palmo ghiacciato. Fremono le narici ed accelera il respiro.

“Non gliene farei una colpa… mai… mi basta solo una cosa…”.

Un’altra pausa, più lunga stavolta. La mia mano rilascia la sua tensione, rimane appoggiata sulla gonna del vestito.

Deve tornare da me, Pansy…” aggiunge con un filo di voce “Hermione deve tornare com’era… insopportabile, odiosa, saccente, presuntuosa, acida, arrogante… ma lei, come è sempre stata… rivoglio la donna che amo detestare… poi, lei sarà libera di fare quello che vuole…”, quasi come tentasse disperatamente di convincere sé stesso, prosegue con tono deciso e caparbio: “… ho perso Helena e tu sai quanto l’amassi… e ho perso anche i miei… ma sono sempre sopravvissuto… se perdessi anche lei, se lei restasse per sempre così, so che potrei sopravvivere ancora. Ci sarebbe sempre Serenity, Seth… te e Blaise… potrei vivere per la vendetta, per uccidere Pucey e Montague… ed Astoria, a questo punto… potrei vivere per milioni di motivi, persino per non infastidire Potter con la mia morte…”, le sue parole sono fredde e aride, eppure mi spingono ancora più inspiegabilmente ad avvertirne il vuoto lacerante dentro “Ma il problema è che non so se lo vorrei ancora… non so se davvero sarei ancora così codardo da vivere in un mondo dove lei non c’è più, anche se fosse presente fisicamente, ma non più con l’anima… ci vorrebbe troppa energia…e, ora, dopo tanti anni… sono troppo stanco per farlo ancora…”. Trema ancora tutto il mio corpo, sotto il peso di quelle parole, sotto il tono rassegnato con cui le sta pronunciando, sotto il silenzio della Parkinson. Come se guardassi dal buco della serratura, come se leggessi una pagina di diario… la cosa più intima di lui che potessi mai udire… e il cuore mi sembra esplodere dall’emozione di sentirlo.

Specie, per come sta parlando di me… specie, per come, al di là di quel ricordo che gli è stato strappato e mi è stato mostrato, percepisco la dimensione del suo sentimento per me… puro, disinteressato, come è sempre stato… come non avrei mai pensato sarebbe stato…

Respira a pieni polmoni, lo sento sistemarsi meglio sul letto accanto a me, un suo fianco sfiora distrattamente il mio.

La mia mano sussulta, aprendosi piano.

“Ho quasi ventiquattro anni… ma è come se ne avessi trecento…” sussurra fiaccamente, così debole e stanco da sembrare assolutamente incurante di me o di Pansy “… e se lei morisse, sarebbe facilissimo per me morire a mia volta… finalmente…”.

Il tono assolutamente serio delle sue parole, mi fa rabbrividire di paura ed angoscia, improvvisamente presa in modo spasmodico dal ritmo del mio respiro cadenzato e doloroso come sola garanzia del suo permanere in vita.

Si muove ancora, nervoso, riprende a parlare con più energia: “… ma a questo non voglio pensare… oggi non ci voglio pensare… sai quando è capito di essere innamorato di lei?”. Pansy, che è rimasta in muto silenzio da quando ha iniziato a parlare, erompe con tono di voce caustico: “Se ti dicessi di sì, mi risparmieresti il resto? Sono già abbastanza nauseata…”.

“Probabilmente no…” commenta lui, una lieve increspatura ilare della voce.

“E allora prosegui, caro amico…” scimmiotta lei, fingendo partecipazione. Muto il cuore, aspetto che prosegua.

“Quando l’ho vista con un altro…” sussurra lui con malinconia, mi si spezza ancora il cuore al ricordo del suo sguardo, il giorno in cui baciai Hayden. La gola mi sembra che voglia andare a fuoco, per le lacrime trattenute a stento dalla magia che mi imprigiona.

“E sembrerebbe la trama di uno schifoso romanzetto… ma non è stato perché ero geloso… ok, d’accordo, lo volevo ammazzare solo perché si azzardava a respirarle vicino… ma alla fine non era solo questo…”, si ferma a disagio, schiarendosi la voce prima di continuare: “… ero invidioso di quel patetico babbano… era un idiota, ma intanto poteva starle vicino. Ripensavo a lei, a lui e mi sembrava di impazzire, non riuscivo a sopportarlo… perché lui viveva e lei anche. Il babbano non era un cadavere che cammina… come me… la portava in giro e lei stava bene… e io non avrei mai potuto farlo. E non solo perché era rischioso, perché stando con me rischiava la vita… o perché magari nemmeno l’avrebbe voluto… no. Perché non sapevo farlo… perché non so da anni che cosa significa vivereesisto… non vivo… peggio di una fottuta pianta ornamentale…”. Lo sento contrarre il pugno nervosamente, poggiandolo sul materasso, il suo dolore satura l’aria come un miasma tossico e velenoso.

“Per la prima volta, da quando ebbi a che fare con il Signore Oscuro… ho desiderato vivere… prima che per lei, per me stesso… e per Serenity…” lo sento esitare, cercare le parole “… e so che non sarà facile… ma lo farò… sono convinto che cercherò sempre la morte… ormai è per me come un’amica, come una consolazione, sapere che esiste la possibilità di fuggire, quasi come un’uscita di sicurezza, ma voglio cercare di non farlo più, voglio chiudere questa storia una volta per tutte. Prima di tutto, con Pucey, Montague e la Greengrass… e poi con me stesso. Lo devo prima di tutto ad Helena… lei che voleva disperatamente vivere, è morta, e io ho sprecato tutto questo tempo. Lo devo a Serenity, perché si merita la vita colorata che non ha avuto sua madre… e non gliela devo negare io, perché sono mortalmente ferito dalla vita stessa. E, poi, lo devo ad Hermione… per esserne stata l’artefice… ed, se andrà via, cercherò solo di esserle grato per aver messo piede al Petite Peste quel giorno… anche se chissà se saprò essere sempre così razionale…”.

Bisogno. Uno scomodo, urgente e sconveniente bisogno.

Un nodo di ansiosa apprensione mi serra la gola, cerco quasi un anelito di respiro, come se stessi ancora annegando, la sua disperazione che si confonde con la mia, diventando una sola. Grande, immensa, sconfinata, rappresa sulle sue parole come sangue aggrumato su una ferita. Mi manca il respiro, forse sto soffocando davvero…

Ma il bisogno di respirare… e il bisogno di lui… non sono minimamente comparabili.

Spilli sotto il palmo della mia mano, come se mi stessero conficcando milioni di piccoli aghi invisibili…vorrei accarezzarlo, vorrei che la mia mano lo attirasse vicino a me, vorrei che le mie labbra si schiudessero, vorrei parlare e dirgli che lo amo…vorrei…

Ogni cosa, pur di sentirlo vicino. Come un bisogno, come mangiare, bere, respirare, dormire, avere amici, provare gioia, essere lodati.

Un bisogno, più grande di tutto il resto.

Il mio corpo brucia nella sua inerzia, gli arti sono come rami secchi arsi vivi dalle fiamme, ogni articolazione mi duole come se avessi la febbre. Persino le ossa le sento consumarsi, diventare cenere. Le corde invisibili che tengono ferme le mie braccia lungo il corpo, si tendono impercettibilmente, trattenendomi, mentre cerco di forzarle con tutta l’energia possibile. Si tendono come elastici allungabili, arrivando quasi al punto di rottura e costringendomi a perdere il fiato nello sforzo di tirare ancora. Il sudore mi inzuppa la schiena.

“Non potrò esserci quando Raissa arriverà… glielo ho detto…” riprende Draco, dopo aver respirato profondamente, la voce che torna asettica, Raissa deve essere la persona che hanno chiamato per guarirmi “Devono restare qui, il Ministero non è sicuro, anche Potter lo sa… e mi ha detto che, qualora fosse successo qualcosa, perlomeno nei primi giorni, non sarei dovuto andare da lui…Pucey e Montague forse hanno dei contatti lì… anche se allora parlava solo di me e di Serenity, non di Hermione… comunque qui sono più al sicuro…”, registro le sue parole con una parte cosciente della mia mente, piccola, minuscola.

Tutto il resto va a fuoco come il mio corpo. Rogo di silenzio fermo.

“… non sapevo dove portarle… per questo sono qui, so che vi sto mettendo in pericolo… ma ho fatto il patetico Grifondoro fino ad ora, poi posso tornare anche il solito Serpeverde e ricattarti in qualche modo…”, una risata fatta solo per abitudine. Pansy sbuffa per abitudine.

“Per favore, prenditi cura di loro…” aggiunge alla fine con un sospiro “So che sarà difficile per te…”.

“Difficile non è minimamente comparabile a quello che davvero sarà avere la Granger per casa…” sbuffa ancora Pansy, poi sospira preoccupata: “E pensi di tornare?”. Sussulto impercettibilmente, statica nell’incendio che mi mette a soqquadro.

Dove sta andando?

Lui annuisce sovrappensiero, biascicando: “Non dipende da me, ma ho la volontà di tornare… e questa, al momento, è la sola cosa che posso sinceramente promettere…”. Pansy non replica nulla.

Dove diamine sta andando, dannazione?

Le corde cedono di qualche millimetro, nervosamente mi rendo conto di poter muovere le dita del piede. Cerco di fare forza per quanto mi sia possibile, ma sembra non avere effetto. Dietro le palpebre chiuse, le lacrime premono per uscire.

“Non mi dire che la vuoi salutare! Guarda che vomito sul serio!!” urla arrabbiata Pansy, alzandosi dal letto.

Draco sussurra con un sospiro, spaccandomi dentro: “Dopo averla avuta una volta, non ne potrei più fare a meno…fin quando sono forte a sufficienza da tenerla lontana, devo continuare a farlo…”.

“Sei diventato troppo melodrammatico, lasciatelo dire… un tempo avresti persino approfittato che era incosciente per toglierti lo sfizio…” dice convinta Pansy, ma la sua voce trema in modo impercettibile.

“Hai ragione… non sarebbe una cattiva idea…”.

“Basta che lo fai lontano da me… quindi possibilmente quando non è in casa mia...”, un debole ed inespressivo bisbiglio: “Stai facendo una cosa davvero idiota…e meriteresti di morire per questo…ma vedi di tornare… Blaise non me lo devo sorbire io, se crepi…”.

Gli occhi, forzati fino ad essere rossi, riescono faticosamente ad aprirsi. Ma Draco mi dà le spalle e non se ne accorge. Lo osservo con disperazione, non riuscendo a capire che cosa stia accadendo, temendo che stia andando incontro alla morte, solo per colpa mia. Le spalle larghe sono tese e contratte, mi perdo nel fissarlo. È persino più bello di quanto me lo ricordassi, i ricordi non gli rendono giustizia, nemmeno con uno sforzo incredibile di concentrazione e precisione. Ed, anche se ha ancora i capelli bagnati, arruffati come quelli di un pulcino, e il viso sporco di terra, mi si mozza il respiro, come se soffocassi. Arrossisco, guardando la camicia nera aderire perfettamente alla sua pelle, rivelando ciò che soltanto la mia fervida e lussuriosa fantasia può aver immaginato. Ha delle bende che gli coprono un braccio, e qualche altra sulla fronte, ma sembra stare bene. Cerco disperatamente i suoi occhi, è un controsenso cercare calore da quelle due lame ghiacciate, eppure oramai per me sono diventati questo. Calore. Come quando tocchi il ghiaccio ed il tuo cervello recepisce dapprima la sensazione di freddo, ma dopo il bruciore per quel contatto, diventa quasi infuocato, non sapresti più dire se hai caldo oppure freddo, come sarebbe logico. Ecco, Draco, per me è questo. Un controsenso. Mi ha sempre gelato con i suoi occhi, ma dopo sentivo che andavo a fuoco.

I suoi occhi, però, restano ostinatamente rivolti davanti a sé, non si accorge di me. Al rallentatore quasi, lo vedo aprire le labbra e pronunciare piano la formula di smaterializzazione, la bacchetta in pugno. La cupa disperazione e la paura per dove si stia recando, da solo, senza di me a potergli fare da scudo, si traduce in un’ultima sferzata di energia che spezza definitivamente i legacci invisibili.

Come un elastico teso che viene finalmente rilasciato, mi sollevo seduta sul letto, allungando la mano verso di lui.

Afferrando solo l’aria… quel tragicomico pop ancora nelle orecchie. Un solo secondo dopo… che è andato via.

Le lacrime che non piango da ore, forse da giorni, o da mesi, rovinano dai miei occhi, scoppiando in singhiozzi acuti. Mi piego in due, poggiando il viso sulle mie ginocchia raccolte al petto. Sento la Parkinson parlare, e mi ricordo della sua presenza… lei può richiamarlo indietro, lei può… fare qualcosa… può riportarlo da me… lo deve riportare da me… adesso, non mi importa che cosa ne pensa…

Apro le labbra, imponendomi di urlare, ma dalla gola non esce alcun suono. Nulla.

Cerco di farmi forza, ma, se il controllo di Astoria sembra avermi liberato il corpo, la voce comunque non esce. Sotto lo sguardo inorridito della Parkinson, mi porto una mano sul collo. Nulla. La voce non esce. Ogni altro movimento, adesso, mi riesce, constato lucidamente.

Ma la voce, no… la voce era la cosa che le dava più fastidio… forse me l’ha tolta per sempre…

“Granger, ma tu non eri tipo immobilizzata?” commenta malignamente la Parkinson, guardandomi storto “I patti erano che mi dovevo prendere cura di una specie di bambola di pezza, non della Granger in tutta la sua ingombrante presenza… sei ingrassata in questi anni, lo sai?”. Sorride con finta comprensione, la guardo stringendo gli occhi. Concentro la mia attenzione sulla stanza, scarsamente illuminata adesso da una lama di luce, proveniente dal sole che sorge. Le pareti avorio si colorano di riflessi rosa ed arancio, rendendomi visibile tutta la magnificenza del letto a baldacchino sul quale sono ancora semisdraiata, decorato da drappi preziosi cobalto ed oro. In un lato della stanza, una specchiera è parzialmente coperta da una serie di boccette di vetro colorato e vari cosmetici, tra cui un rossetto rosso carico lasciato distrattamente aperto.

Con un balzo, mi alzo furiosamente dal letto, mentre la Parkinson continua ad inveirmi contro. La testa mi gira e il passo è molle e fiacco, ma riesco a camminare, anche se devo subito appoggiarmi alla specchiera per non cadere, in preda alle vertigini. Chiudendo gli occhi e respirando a fatica per vincere la sensazione di venire meno, afferro il rossetto e mi affretto a scrivere sullo specchio, a caratteri cubitali: Dov’è andato Draco?

“Perché diamine non parli, razza di idiota?” biascica nervosamente la Parkinson, scuotendo la testa piena di riccioli ardesia. Roteo gli occhi con espressione ovvia, indicando la mia gola e poi negando con il capo. Lei si illumina e sorride malignamente: “Che bello, almeno sei senza voce! Posso dire quello che voglio e non puoi rispondere! Dio, che bel regalo di Natale in anticipo!”.

Sospirando rumorosamente, indico con un dito il messaggio sullo specchio, picchiettando un paio di volte per attirare la sua attenzione.

“Santo cielo, anche Draco lo chiami?” vomita lei con disgusto “Lui, Hermione, tu, Draco… il mondo è decisamente andato a scatafascio…”. Picchietto ancora sullo specchio, ignorandola, ma lei non si dà ovviamente pena di rispondermi prima che mi scoppino le coronarie dall’angoscia, ma continua a tergiversare e ad esporre le sue teorie sul presunto capovolgimento dell’ordine costituito, che prelude sicuramente ad un cataclisma di proporzioni bibliche. Mentre conta i giorni che ci separano dal 21 dicembre del 2012, penso irritata e sconvolta: “A mali estremi, estremi rimedi…”.

Inizio come un ossessa a far cadere tutte le boccette di vetro per terra, una dopo l’altra. I flaconi si rompono, cadendo al suolo, una serie di frammenti di diamante che luccicano nella luce del primo mattino con un fragore assordante, parzialmente coperto dalle urla della Parkinson che tenta inutilmente di fermarmi. L’aria si satura di odori e profumi preziosi, mescolati in un olezzo poco gradito.

Alla facciaccia sua…

Agli strepiti e alle urla della Parkinson che continuano a proferire epiteti irripetibili contro la mia persona e tutti i miei antenati, la porta della stanza si apre di scatto, sbattendo contro la parete. Mi giro di scatto, il cuore in gola, sperando che sia Draco, ma ovviamente non si tratta di lui, ma di Blaise Zabini, accorso alle urla. “Mione!”, Serenity che è in braccio a lui, si divincola cercando di venirmi in braccio.

Le corro incontro, strappandola non molto gentilmente dalle braccia dell’impietrito Zabini, stringendola forte a me.

“Si può sapere che diamine sta succedendo?” sussurra lui con voce esile e modulata, osservandomi con la testa inclinata di lato. I capelli neri gli coprono parzialmente i sottili ed allungati occhi verdi da felino. Distolgo lo sguardo da lui, indicando lo specchio con un dito e sperando che perlomeno lui si degni di rispondere. Cosa che, ovviamente, non avviene. Zabini si affretta ad avvicinarsi alla Parkinson, sentendo la sua versione dei fatti che riporta più o meno il mio stato mentale fortemente disturbato e reso peggiore dal mutismo.

“Quindi almeno adesso si può muovere…” constata lui freddamente, guardandomi dall’alto in basso. Sollevo il mento con espressione di superiorità, stringendo meglio Serenity. Zabini rotea gli occhi nervosamente, dopo aver guardato Pansy ed averle detto con voce potente e stentorea: “Lo sai meglio di me che glielo abbiamo promesso…”. La sua attenzione torna a me, non prima di essersi riempito gli occhi di freddezza: “Stiamo aspettando una persona che potrebbe aiutarti a riacquistare il controllo di te stessa… ma vedo che già siamo ad un ottimo punto…”, mi scocca un’occhiata accondiscendente, proseguendo: “… se Draco ti avesse visto prima di partire, sicuramente si sarebbe tranquillizzato…”.

Al mio ulteriore cenno verso lo specchio, proferisce rapido: “Sono affari suoi…”.

Come diamine farò a resistere qui per più di un’ora, con questi due che non vogliono dirmi nulla?

Abbasso il viso, le lacrime che mi appesantiscono lo sguardo, rendendo tremulo tutto ciò che vedo. Serenity mi poggia una mano sul viso, dandomi un piccolo colpetto e pronunciando il mio nome con l’accenno di pianto. Respiro profondamente e le sorrido.

“Cosa mi tocca fare…” borbotta Zabini con voce incolore, prima di dire: “Ascolta, Granger… Draco non è un idiota… o meglio non lo era prima di innamorarsi di te, ma perlomeno in queste cose è ancora il migliore… ricorda che è sempre il traditore di Voldemort… e se non l’ha fatto fuori l’Oscuro Signore, dubito che ci riesca qualcun altro…”. Sollevo gli occhi, guardandolo; apparentemente sembra sincero. La mascella gli si indurisce, mentre continua: “E se ci tieni a lui, invece di spaccare cose e preoccuparti della sua sorte, dovresti pensare alla tua… riposarti e riprenderti, soprattutto se non sei nemmeno in grado di fare magie…”, e qui un’odiosa risata gli curva le labbra, sicuramente, dato che lavora al Ministero, ricorda perfettamente la mia condanna “… sei totalmente inutile… ma se almeno fossi capace di parlare e di dirgli che sei…”, un moto di disgusto gli deforma il viso in una smorfia “… insomma, che… sei innamorata di lui… come credo che sia evidente a tutti, tranne che a lui… ne acquisterebbe forza… ed è questo che gli serve adesso, forza… non la tua isteria…”.

Le sue parole hanno un che di indiscutibilmente vero che mi fa abbassare lo sguardo di vergogna, arrossandomi le guance.

Effettivamente mi sto comportando decisamente da isterica. Che cosa penso di fare? Al momento, io non servo assolutamente a nulla. Io sono la magia.

Sono ritornata, anche se parzialmente, nel mio mondo, quello a cui davvero appartengo.

Ma da cui sono ancora mortalmente divisa, e non solo perché ho ancora la condanna che grava sulla mia testa.

Al momento, non ho nemmeno la voce… sarei solamente un peso, per lui. Dovrebbe pensare solo a difendermi.

E io, invece, non posso difendere lui, né tantomeno Serenity.

Per questo… devo tornare me stessa, quanto prima possibile…

Inoltre, se non mi libero del tutto del controllo di Astoria… probabilmente lei troverà il modo di controllarmi ancora.

Annuisco con il capo, sedendomi sul letto e poggiando Serenity sul copriletto.

“Ecco… meno male…” sospira Zabini, estraendo la bacchetta e facendo sparire i frammenti di vetro dal pavimento. La Parkinson si siede nervosamente su una sedia, agitando la gamba elegantemente accavallata avanti ed indietro.

“Al momento, siamo uniti da Draco… nostro malgrado…” ribatte Zabini con decisione “Quindi al momento è meglio deporre le armi… non siamo amici, né mai lo saremo… ma lui ti ha affidato a noi, quindi è meglio che ti dai una calmata…”.

Sbuffando, annuisco ancora, distogliendo lo sguardo da lui per guardare Serenity.

“Stessa cosa vale per te, Pansy…” aggiunge, guardando in tralice la ragazza mora che immediatamente sgrana gli occhi neri, arrabbiata.

“Stai per caso parlando con me? O mi stai rimproverando?!” inveisce lei, alzandosi e stringendo rabbiosamente i pugni.

“Mi sembrava di sì…”.

“Tu e Malfoy avete dei seri problemi! Io non ho alcun dovere nei confronti suoi o della Mezzosangue…” urla a squarciagola, il volto livido “Se ne è andato per anni, si è innamorato della Granger, e ora lo dovremmo aiutare! L’ha portata anche a casa mia! Non se ne parla proprio!”. Attraversa la stanza a grandi passi, i tacchi che battono sul pavimento di legno, per poi aprire la porta e chiuderla bruscamente alle sue spalle. Mi chiudo nelle spalle, imbarazzata, mentre Zabini sospira ancora.

Entrare nelle dinamiche degli ex Serpeverde, non era una mia priorità nella vita. Decisamente.

Sono persone che ho sempre ignorato, abbondantemente ricambiata.

Invece, adesso, per il solo fatto di essere così legata a Draco, ci sono in mezzo. Queste sono, in fondo, le persone di cui lui si fida di più nella sua vita, tanto da sapere anche il suo segreto, cioè che è ancora in vita. Inoltre, da come ha parlato prima Draco, sembrava chiaramente che Pansy sapesse tutto anche di Helena e di Serenity… ed ora anche di me.

Mentre il viso mi va a fuoco, ricordando ciò che ha detto poco fa, di cui ogni parola mi si è incisa dentro come un comandamento scavato nella roccia, tra me e Zabini cala un pesante silenzio. Lui guarda distrattamente fuori dalla finestra con sguardo assente, lucciole nella giada. L’unico rumore è prodotto dal lenzuolo che va giù e su, strattonato da Serenity che ha inventato un nuovo gioco.

Sorrido, guardandola. Sono contenta che ci sia almeno lei…

Sul comodino di legno intarsiato, intravedo una penna lunga e flessuosa, di colore nero, accanto ad un calamaio di inchiostro rosso ed un foglio di pergamena. Mi sporgo per afferrarli, sicuramente mi saranno utili visto che non posso parlare.

Poi, spinta da quel silenzio imbarazzante che prosegue, mi faccio coraggio e scrivo poche righe sulla carta, porgendole poi a Zabini.

Mi dispiace… fosse stato per me, non saremmo nemmeno venuti qui… ma saremmo andati dal Ministro…

So quello che ha detto Draco, che il Ministero non sarebbe sicuro e che anche Harry gli avrebbe consigliato di non andare da lui, in caso di difficoltà con Pucey e Montague che potrebbero avere delle spie, all’interno. Ma… insomma… se avessimo parlato direttamente con Harry… forse avremmo arginato i rischi…

Zabini afferra il foglio di carta e le legge, appallottolandolo subito dopo con stizza.

Ma chi diamine me l’ha fatto fare? Figurati che mi frega delle paturnie di Blaise Zabini… come se non avessi abbastanza problemi…

Lo osservo con la coda dell’occhio, cercando di non farmene accorgere. Era da parecchio tempo che non lo vedevo, almeno da due anni, esattamente da quando ebbi la celeberrima condanna. Lui era nell’ufficio di fronte al mio, ma comunque non abbiamo mai avuto alcun genere di conversazione. È sempre stato la tipica persona che, nonostante la scuola fosse finita e nonostante la mia posizione si fosse fatta decisamente importante nel Mondo Magico, continuava a trattarmi come faceva a Hogwarts.

Quando mi incrociava nei corridoi, oppure se per qualche motivo ero costretta a rivolgermi a lui per lavoro, mi guardava con la stessa espressione che mi riservava sempre alle riunioni che Lumacorno allestiva al sesto anno tra gli studenti che riteneva migliori.

Lo sguardo, per la serie, che diamine ci fa lei qui?! 

Uno sguardo che mi ha sempre profondamente irritato, anche quando andavamo a scuola e, a lezione, rispondevo correttamente alle domande dei professori o collezionavo E una dopo l’altra… i Serpeverde continuavano a guardarmi come un enorme errore di valutazione del sistema scolastico, come la pecca, la macchia, la magagna che guastava il metro di giudizio di tutti gli altri.

Draco mi ha sempre guardato così, ora fa quasi male ricordarlo. E, dietro di lui, venivano immediatamente la Parkinson e Zabini.

Ma, giunta ad un certo punto della mia crescita, quando oramai tutte le chiacchiere dei Purosangue e dei Mezzosangue, mi erano state spiegate e ne avevo compreso i meccanismi malati e contorti, perlomeno per me, quegli sguardi mi lasciavano indifferente.

Sapevo chi ero e non avevo bisogno di dimostrarlo a loro.

Questo, però, ovviamente, mi ha sempre impedito di osservarli bene, come invece mi è tipico per mia stessa natura con tutte le altre persone. Potevo anche restare indifferente a quello sguardo o sbuffarci sopra con insofferenza, come una pioggia imprevista in una splendida giornata di sole, ma intanto, non essendo masochista, cercavo di evitarli per quanto mi fosse possibile, specie se incrociarli implicava automaticamente la possibilità che Ron ed Harry finissero in punizione fino alla prossima era geologica. Di conseguenza, se per i Grifondoro, i Tassorosso e i Corvonero, ero in grado di rendermi conto di tutto, dalle relazioni più segrete ad improvvisi cambiamenti di umore e carattere, con i beniamini di Piton non poteva ovviamente andare così.

Blaise Zabini, quindi, è al pari di tante altre persone, un illustre sconosciuto.

In fondo, lo era anche Draco. Lui, potevo conoscerlo meglio per via della sua collaborazione con l’Ordine o perché era l’oggetto di ogni indagine di Harry a partire dal secondo anno, ma mai avrei potuto dire che cosa lo legava a Blaise oppure a Pansy, e come si fosse evoluto il loro rapporto nel corso degli anni. Ora, chiaramente, il mio sentimento verso Draco, mi rende sensibile anche a questo.

Nella smania di conoscere ogni cosa di lui, rientra anche Blaise Zabini.

E mi chiedo automaticamente come mai Draco abbia scelto, quando ha deciso di fingere la propria morte e di sparire dal mondo magico, di preservare comunque un rapporto con loro due, tra l’altro un rapporto tale da spingerlo a venire qui a nascondere me e Serenity.

Tralasciando Serenity, che è una Purosangue, è sempre di me che si parla. La Mezzosangue Granger, Grifondoro fino al midollo e cocca dei professori, nonché amica stretta di Harry Potter. Insomma, come parlare dell’aglio per un vampiro.

Eppure, nonostante le rimostranze e gli sbuffi, sono rimasta qui. Draco ha chiesto e loro hanno obbedito. Anzi, non hanno obbedito.

Hanno accettato.

Hanno persino accettato che lui sia innamorato di me e io di lui… anche se continuano a pensare che Draco si sia impazzito. E questo sicuramente è il minimo… eppure lo stanno aiutando.

Cosa è così forte da legare tre persone in modo così assoluto?

Osservo attentamente Blaise Zabini, quasi cercandone risposta. Non è molto cambiato in questi anni: è sempre molto alto, molto più di me ed anche di Draco, sembra sfiorare il metro e novanta. Il viso è sempre spigoloso, duro, la mascella volitiva, le labbra carnose atteggiate in una smorfia continua di fastidio aristocratico, probabilmente immatricolata in Serpeverde. I capelli sono lunghi, legati in una coda non molto lunga, sembrano la criniera di un cavallo nero dal manto estremamente lucido e nobile; gli occhi verdi completano l’aspetto da pirata del settecento, ulteriormente suggerito dal fatto che indossa una camicia bianca con degli sbuffi sul davanti e un paio di pantaloni neri. Apparentemente perso nei suoi pensieri, apre un cassetto della specchiera di Pansy, estraendone un pacchetto di sigarette lunghe e sottili. Ne esce una, le dita sottili l’accendono con un gesto risoluto, diffondendo nell’aria un odore voluttuoso di liquirizia e gelsomino. Storco il naso, voltando il viso dall’altra parte, non sono nelle condizioni di parlare o meglio di gettargli pile di messaggi minatori, dato che dipendo dalla sua volontà di tenere ferma la Parkinson, quindi me ne rimango zitta e ferma al mio posto.

Ma come faceva a sapere che c’erano lì le sigarette?

Quella domanda passa decisamente in secondo ordine, quando la porta di acero bianco si apre di nuovo, immediatamente seguita da un passo flessuoso e leggero che sembra solo sfiorare il pavimento. Comprendo immediatamente che non può trattarsi della Parkinson che, nonostante i vestiti lussuosi e i tacchi da gazzella, non ha mai avuto quel portamento, come me del resto.

Anzi, forse, io sono persino peggio della Parkinson. Io, con i tacchi, ho la decisa tendenza a schiantarmi dopo cinque passi e mezzo.

Ad entrare, avvolta da una nube di costoso profumo francese, è forse una delle donne più belle che abbia mai visto.

Alta, dagli zigomi pronunciati e dal volto affilato, il corpo snello e sinuoso come quello di una modella, non ha però assolutamente nulla in comune con la sola modella che, al momento, mi viene in mente, e cioè ovviamente Helena.

Helena aveva una bellezza solare e radiosa, che ispirava un senso di tenerezza e dolcezza soffusa. Ti faceva venire voglia di prenderti cura di lei, come se la vedessi troppo piccola e fragile per affrontare il mondo da sola. Non sono ovviamente i miei di pensieri o sensazioni alla vista di Helena… sono quelli che provava Draco quando la vedeva, ricordo con una piccola fitta al cuore.

Me le ha fatte vivere sulla mia stessa pelle.

Questa donna, invece, incute solo timore e deferenza.

Ha i capelli corvini, tagliati in un caschetto particolare, come quelle ballerine di charleston degli anni Trenta, appena sotto le orecchie.

Gli occhi sono quasi coperti da una frangia dritta che ne copre un po’ il sinistro bagliore grigio verde con cui mi osserva con apparente curiosità. Infreddolita quasi, prendo in braccio Serenity come scusa per poterne rifuggire senza vergogna.

A completare il tutto, indossa un pesante mantello di velluto nero, bordato d’argento, sopra un vestito che riprende la trama del mantello stesso. Tintinnano alle orecchie dei pesanti pendenti di perle e diamanti.

Sembro la piccola fiammiferaia a confronto. L’abito viola di Astoria è strappato in più punti, sono ferita sul viso ed anche sporca di terreno, per non parlare dei miei capelli che sembrano un vespaio impazzito. Li osservo con vergogna nello specchio nell’angolo, le forcine hanno ceduto in più punti, liberando ciocche ribelli di colore ancora nero che vanno arricciandosi.

Fantastico… la conoscesse una racchia per una volta quel dannato di un Malfoy…

Ora capisco perché si è innamorato di me: quando uno ha tutte queste bellissime donne davanti agli occhi per tutta la vita, ovviamente ne diventa insensibile e si va ad invaghire di quelle senza niente di speciale.

Se non si fosse capito, sono fortemente sarcastica.

E fortemente innervosita.

Ed anche fortemente desiderosa di cavargli gli occhi una volta che l’avrò rivisto. Così smette di chiamare sedicenti Miss Inghilterra per curarmi… perfetto, sono diventata anche gelosa marcia di lui…  l’aggettivo patetica ormai mi calza decisamente a pennello.

Che poi… voglio proprio vedere che diamine potrà fare una tipa simile per guarirmi… rientrasse almeno la Parkinson e il suo grugno da carlino inferocito, e potrei sentirmi meno imbarazzata. Ed invece no… deve essere emigrata in Lapponia…

Zabini, cavallerescamente, si alza prontamente dalla sedia, avvicinandosi a lei e baciandole la mano guantata di raso sempre nero. Non fa per niente freddo… anzi… è piena estate… da dove diamine viene vestita così? Anche se… Raissa… mi sa che prima Draco l’ha chiamata così, se effettivamente si tratta di lei e non della sua gemella bellissima ma inutile… sono proprio acida, accidenti a lui… Raissa… nome decisamente russo.

È come legare due concetti troppo simili per non poter essere accostati, pensare alla parola Russia e Durmstrang. Certo, lo so che quella scuola non è in Russia, ma in Europa orientale… eppure quel collegamento non so perché mi appare improvvisamente ovvio e normale. Il suo abbigliamento… mi ha ricordato immediatamente come erano bardati gli studenti di quella scuola, quando arrivarono per il torneo Tremaghi. Le ulteriori considerazioni che dovrei avere di fronte un’esperta di arti oscure, ma non direttamente legata a Voldemort, e il ricordo che Lucius Malfoy voleva mandare Draco a Durmstrang ma che poi Narcissa Malfoy vi si era fieramente opposta per avere il figlio vicino, mi persuadono ancora più di quell’idea. Potrebbe tranquillamente avere dei contatti, con qualcuno di lì.

Cosa che, beninteso, non mi lascia decisamente tranquilla. Non mi fido granché di questa donna.

Ha uno sguardo strano, troppo… curioso. Mi squadra dalla testa ai piedi, rispondendo a monosillabi alle domande cordiali e gentili di Zabini. Sembra cercare qualcosa nel mio aspetto che evidentemente non la persuade del tutto.

Se avessi la mia voce, ovviamente le avrei già risposto a tono. Ma, non potendolo fare, inarco un sopracciglio, fissandola interrogativa.

“E’ lei, dunque?” la sua voce ha un accento duro e marcato sulle consonanti, mi ricorda vagamente il timbro vocale di Viktor. Al contempo, è ugualmente monocorde e fintamente disinteressata. Gli occhi continuano a scrutarmi come se fossi uno strano pezzo da museo, mettendomi a disagio e facendomi salire il nervosismo.

Zabini annuisce, con un’alzata di spalle: “Sì, sì, è lei… Hermione Granger…”.

“Credevo che fosse immobilizzata…” osserva in modo volutamente assorto, gettando il mantello su una sedia e guardandomi ancora dall’alto in basso “Draco aveva detto così…”.

Stringo un pugno con crescente nervosismo. Draco… l’ha chiamato per nome…  anche lei sa che è vivo e forse tutto il resto.

Si fida anche di questa donna. Perché, maledizione?

Il suo sguardo si impunta sulla mia mano serrata, mi affretto a distenderla, accorgendomene, girando il capo verso sinistra. Sto diventando, oltre che patetica, ridicola. Ci manca essere gelosa a questo punto? Chi diamine me ne dà il diritto? E soprattutto è il momento? Draco non c’è, per quanto ne so potrebbe essersi incamminato a grandi passi verso una fine prematura e cruenta, e ho al momento la capacità comunicativa di un delizioso pesce rosso. Devo aggiungere anche la gelosia, cosa che peraltro non ho mai provato in vita mia per nessuno? Non sono mai stata gelosa di Ron, di Dean… non sapevo nemmeno che cosa volesse dire. Sentivo le sfuriate di Ginny di fronte alle innumerevoli fan di Harry, e mi scoppiava da ridere con superiorità. Le chiedevo persino di descrivermi che cosa provasse, per darle dei consigli, perché non sapevo proprio che cosa significasse essere gelosi di qualcuno.

Ed invece nel meraviglioso pacchetto Innamoramento per Draco Malfoy rientra anche questo.

Avere la voglia di sottoporre questa tipa ad un terzo grado di due ore e mezzo… e non tollerare nessuno che condivida anche un solo respiro di quell’insopportabile ragazzo biondo, come se fossero tutti miei per il solo fatto di amarlo. Assurdo. Non sono davvero più io.

Un brivido freddo mi raggiunge il polso, quando la donna, oggetto delle mie fantasie tormentate, fa scorrere l’indice sulla cicatrice dello Zahir. Mi volto, trovandola seduta sul letto accanto a me, completamente concentrata sulla ferita che deturpa la mia pelle.

Ritraggo il braccio, infastidita, stringendolo al petto con l’altra mano. Zabini mi squadra, vistosamente irritato dalla mia reazione

“La cicatrice c’è ancora… ed anche i capelli sono ancora neri…” si rivolge a Blaise, risollevandosi in piedi “Dunque, non è assolutamente libera del controllo dello Zahir…”. Come se non lo sapessi… non ho nemmeno la voce. Che grande luminare…

“Infatti non ha nemmeno recuperato la voce…” aggiunge Zabini al posto mio, appoggiandosi al davanzale della finestra, il sole lo illumina da dietro come su un palcoscenico. Il fatto che debbano parlare come se io non ci fossi, mi infastidisce ulteriormente.

“Ho bisogno di sapere tutto di questa cosa…” soggiunge lei piatta, per poi guardarmi con sguardo insofferente: “… ma immagino che solamente lei, potrebbe dirmi tutto quello che c’è da sapere…”. Incrocio le braccia al petto, annoiata.

Estrae la bacchetta dal vestito e me la punta contro, mi ritraggo quasi spaventata.

“Devo usare la Legilimanzia su di te… altrimenti non potrei sapere tutto ciò che voglio… o comunque ci metterei troppo tempo…” ingiunge perentoria, gli orecchini che tintinnano per un attimo, illuminando gli occhi verdi di riflessi di ghiaccio.

Sospiro, socchiudendo gli occhi. Ovviamente, in modo razionale, so che non c’è altra via se non posso parlare. Irrazionalmente sono fortemente tentata di alzarmi, darle un calcio e scappare da questa stanza a gambe levate, pur di non sottopormi a questo stillicidio della mia privacy e dei miei sentimenti. Tentando di essere anche ragionevole, mi lascio convincere dal pensiero che non è colpa di questa donna se, come una cretina, sono caduta nella trappola di Astoria e ho creato uno Zahir. E dovrò pur liberarmene prima o poi.

Il pensiero che, se Astoria riuscisse a riaprire il contatto con la mia mente, potrebbe indurmi a fare del male persino a Serenity che ora gioca serena accanto a me, rompe definitivamente i miei indugi. Faccio un breve ed affrettato cenno con il capo, mentre lei, senza troppe cerimonie, preme la bacchetta contro la mia fronte, pronunciando la formula per la Legilimanzia. Serro gli occhi, non sono mai stata una bravissima Occlumante, non mi è mai servito esercitarmi molto e quindi è un qualcosa che non ho mai potenziato appieno. Compio perciò ogni sforzo possibile per indirizzare i miei pensieri solo sullo Zahir, sul sogno che mi ha indotto Astoria e sulla preparazione della pozione, cercando di escludere il ricordo di Helder in modo da non metterla nei pasticci. Mi concentro anche sui diretti effetti dello Zahir, sul senso di onnipotenza e di indifferenza, diventato velocemente odio letale, e ripenso in modo automatico sia ad Hayden che a Draco stesso. Censurando quello che ho fatto a loro due, cerco di indirizzare la sua ricerca ed indagine sul controllo del mio corpo e sullo scontro con Astoria, oltre che poi sul modo in cui prima avevo rotto lo Zahir e poi mi ero parzialmente liberata della magia, eccetto per la voce, solo pochi minuti prima. La sensazione di intrusione non cessa, però, lì. Sento che sta cercando qualcos’altro, quasi con scetticismo e meraviglia, convinta intimamente che non sia tutto lì. La respingo indietro con l’ultimo accenno di forza che mi rimane, una fitta improvvisa e lancinante allo stomaco che mi ferma il respiro. Parte dei suoi pensieri travalicano la barriera della sua mente, giungendo a me estremamente confusi ed incerti. Ma, tra essi, una cosa appare netta e chiara. Il suo nome.

Raissa Karkaroff.

Riapro gli occhi meravigliata, seguita immediatamente da lei stessa che mi guarda allo stesso identico modo. Ovviamente per motivi diversi dai miei. La squadro senza pudore, ecco perché mi era venuto automatico collegarla a Durmstrang. È la figlia di Igor Karkaroff.

Propendo per questa tesi, visto che mi è sembrato di intravedere un frammento di lei con suo padre, Igor, dove si rivolgeva a lui, chiamandolo appunto padre. Come faccia Draco a fidarsi di una donna simile, figlia di un Mangiamorte, è ancora un autentico mistero. Certo, se lui fosse qui, probabilmente replicherebbe con stizza che anche lui è il figlio di un Mangiamorte e che quindi questo non qualifica automaticamente Raissa come una seguace delle Arti Oscure. Già me lo vedo inarcare un sopracciglio perfettamente cesellato come l’oro ed incrociare le braccia, sbuffando… e già mi vedo, a mia volta, lanciargli contro qualcosa di estremamente pesante e possibilmente anche acuminato.

So perfettamente che Lucius Malfoy era anche peggio di Karkaroff: quest’ultimo scappò al ritorno di Voldemort, finendo barbaramente ucciso per il suo tradimento di tanti anni prima, quando, con le sue testimonianze, aveva riempito le celle di Azkaban di seguaci del Signore Oscuro… mentre Lucius restò al servizio di Voldemort praticamente sempre, fino ad essere ucciso dagli Auror stessi.

Ma Draco tradì i suoi molto prima della loro morte… mentre, per questa donna, Raissa… chissà com’è andata… Draco, a quanto pare si è potuto rivolgere a lei perché conosce abbastanza le arti oscure, ma non era legata a Voldemort, quindi non bramerebbe la testa di Draco su un piatto. Eppure… non mi fido… mi guarda in modo troppo curioso… e cercava qualcosa nella mia mente…

Come se, al pari di ogni Serpeverde, non credesse che io sia stata davvero capace di creare uno Zahir…

Socchiudo gli occhi, fissandola, sporgendomi automaticamente a prendere Serenity in braccio, come se la volessi difendere. Lei osserva incuriosita la mia manovra, sorridendo quasi divertita. La fulmino con gli occhi, esortandola con il mio silenzio a darmi un responso.

Lei comprende l’antifona ed inizia a parlare, ovviamente non guardando me, ma Zabini, che ha osservato tutta la scena senza fiatare, sbuffando solo ogni tanto e gettando occhiate in tralice alla porta chiusa, quasi come se volesse scappare.

“Non credevo che avesse effettivamente creato uno Zahir…” sibila in modo malevolo, sedendosi a gambe accavallate su una sedia, alzo gli occhi al cielo, incurante che mi possa vedere, e te pareva “Pensavo che Draco avesse esagerato… e che lei fosse semplicemente sotto qualche tipo di Imperius potenziato… ma invece si tratta effettivamente di uno Zahir… incredibile…”.

La fiducia che hanno nelle mie capacità, è sempre commovente.

Si riavvia i capelli con gesto distratto, portandoli dietro le orecchie e continuando: “Se non è facile crearlo, immagina che cosa sia distruggerlo… è semplicemente impossibile… eppure è riuscita in entrambe le cose... anche perché, come ti è stato spiegato, Granger, lo Zahir d’amore è quello più instabile e pericoloso… si basa su un sentimento troppo potente ma al contempo troppo variabile nella sua stessa natura… di conseguenza lo Zahir deve essere molto forte per gestirlo… e ancora non capisco come diamine abbia fatto…”.

“Hai una spiegazione per questo?” chiede senza reale interesse Zabini, mordicchiandosi un pollice.

“Certo…” risponde Raissa ovvia, come se le avesse chiesto se sapesse come mai l’acqua dell’oceano evapora sotto la luce del sole “Credo che sia stato, perché il sentimento che prova per Draco è effettivamente molto forte… ed essendo in contraddizione con tutto quello che lei pensa e prova, ci ha messo molto per accettarlo… e questo l’ha fatto radicare profondamente in lei… mettiamola così, è come quando ha di fronte un teorema che neghi e non accetti, ma che poi ti viene dimostrato come assolutamente reale e logico… bene, quando comprendi la sua veridicità, qualsiasi obiezione o negazione dello stesso sarebbe per te inconcepibile, proprio perché sai quanto ci hai messo ad accettarne la natura e ne conosci ogni possibile riflesso, ogni possibile obiezione che potrebbe essergli mossa contro, perché a suo tempo sei stato tu il primo ad opporti ad esso… a qualsiasi negazione, insomma, avresti l’argomento per controbattere… capisci che cosa voglio dire? Lo Zahir doveva lottare con la sua stessa natura che, dopo incredibili tentativi di diniego, aveva accettato di amare Draco Malfoy…”.

Imbarazzata, mi schiarisco la voce, cercando di riportare la loro attenzione sul fatto che, oltre ad essere presente, non è di vitale importanza discutere di come si sia evoluto il mio sentimento per Draco. Zabini annuisce, stranamente crucciato.

“Nonostante questo, però… resta comunque assurdo che, oltre a crearlo e a non esserne uccisa, sia anche riuscito a romperlo… ma la spiegazione credo che sia come sopra… quando lo Zahir le imponeva di fare del male a Draco, la sua stessa natura si è opposta… ed è stata più forte dello Zahir stesso… che alla fine si è rotto… Astoria contava sullo Zahir per uccidere Draco ed effettivamente, come accadde alla regina Artemisia, l’esito sarebbe stato scontato… ma lei lo ha rotto… e quindi Astoria ha dovuto collegare la sua mente con quella della Granger per riuscire a controllarla e farle fare quello che voleva… ha sfruttato l’odio ancora presente in lei per entrare in contatto con la sua mente, e questo le ha permesso di renderla sua schiava… l’odio è difficile da eliminare in tempi veloci, quando ti avvelena può abbandonare il tuo corpo solo con grandi sforzi… ma questo penso che fosse già chiaro sia alla Granger che a Draco, no? Ve l’ha spiegato Astoria stessa…”. Annuisco senza partecipazione. Fino ad ora non mi ha detto nulla che non sapessi già.

“Veniamo ora alla rottura del controllo…” continua, enumerando con le dita “In altri casi, vi direi di non preoccuparvi… quando si ha a che fare con faccende oscure come queste, si deve sempre ringraziare di essere ancora in vita per poterlo raccontare… lo Zahir fa a pezzi le anime, isolandone pezzi che distrugge e controlla… in questo, è quanto di più simile esista all’Horcrux… se questo concede una relativa immortalità, lo Zahir consente di controllare sé stessi da qualsiasi pericolo esterno legato a sentimenti, sensazioni, emozioni… crea statue di sale, prive di qualsiasi forma emozionale, pronte a tutto, insensibili al dolore, al piacere, al sentimento… crea insomma un essere intangibile ed invulnerabile…”. Rabbrividisco, sentendo le sue parole.

Sono così simili lo Zahir e l’Horcrux… ha ragione lei…  ho mutilato la mia anima… in questo, sono diventata come Voldemort…

“Era usato più per questo che per altro… grandi condottieri, spaventati dalla possibilità di essere distratti nelle loro spedizioni e guerre, usavano lo Zahir per essere liberi da ogni pastoia dello spirito… per avere quella che potrebbe essere chiamata pace… ma che assomiglia solo alla morte…”.

La ricordo perfettamente quella sensazione… ero intoccabile… ma ero anche… morta dentro…

“Per questo, ripeto, rompere uno Zahir dovrebbe già essere considerato un miracolo… e l’odio che la avvelena ancora probabilmente, con il tempo, abbandonerà il suo corpo, specie se è stata così forte da non farlo mai vincere del tutto, infatti, contrariamente a quanto pensava Draco e a quanto mi ha riferito, il suo cuore non ne è toccato, infatti è evidente che ne sia ancora innamorata… ma il problema è il collegamento con Astoria… basta solo una goccia di quell’odio, rimasto dentro di lei, per permettere ad Astoria, qualora fisicamente si avvicinasse al luogo dove la Granger si trova, di riprendere il suo controllo… dovrebbe esserne completamente purificata per poterla dire al sicuro… e il segnale evidente sarebbe il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli che ritornerebbero normali… cosa che, come è evidente, non è ancora successo…”. Fa una pausa ad effetto, guardandosi le unghie laccate di nero, mentre arrossisco di sdegno a causa del suo silenzio prolungato ed assolutamente ingiustificato.

“Da un esame sommario, però, ho capito che la soluzione è più semplice di quello che credessi… Astoria le ha imposto due tipi di controllo, uno sul corpo e uno sulla voce… il secondo è più potente e recente, e, da come è andata la battaglia, me lo spiego in virtù del fatto che è la Granger è riuscita a ricontrollare la voce, come prima cosa… quindi Astoria ne ha dovuto intensificare la potenza, distinguendola dal resto del corpo… ma la chiave per farle ritornare la voce, come per purificarla, è Draco stesso…”. Sgrano gli occhi, non riuscendo a seguire il ragionamento di Raissa che si affanna a spiegare.

“Quando Draco ha parlato con Pansy… lei era cosciente… e ha sentito tutto…” spiega Raissa con un filo di voce, Zabini si volta a guardarmi con un espressione irritata e scandalizzata, sollevo il mento, sebbene il viso mi vada a fuoco per la vergogna “Le parole di Draco… quello che ha detto… e la disperazione provata al pensiero che lui andasse via… le hanno consentito di rompere il controllo del corpo… deduco quindi automaticamente che, per rompere il controllo sulla voce, è necessario ancora che la Granger si concentri sull’amore che Draco nutre per lei…”.

“Tutto qui?” erompe Zabini quasi deluso.

“Tutto qui…” conferma Raissa smortamente, alzandosi in piedi “Il problema è il tempo, deve accadere molto velocemente… perché l’odio è ancora presente nel suo corpo… è come una malattia messa parzialmente a tacere, localizzata nella sua gola e che ora colpisce solo la voce… ma se non viene debellata del tutto, esploderà come un cancro, riprendendo la sua antica potenza, perché comunque sarà sempre indotta da Astoria, anche a distanza, a riacutizzarsi… e lei tornerebbe esattamente come era prima… una morta… e se arrivasse al cuore, probabilmente ucciderebbe nuovamente il suo amore… e lei riprenderebbe ad odiarlo… oppure perderebbe completamente il controllo di sé stessa, anche la coscienza… sarebbe come un vegetale… ed allora, anche se Draco le decantasse un poemetto stile amor cortese, lei non lo ascolterebbe nemmeno più…”.

Le parole di Raissa mi gelano il respiro, sebbene sotto lo sguardo dell’algida donna, cerco di mostrarmi calma e serena. Ma sento la pelle del viso diventare fredda e cinerea, le mani sudare incontrollabilmente e l’animale, mai placato ma sempre rannicchiato dentro di me, torcermi le viscere come se mordesse. Mai come ora, sento il bisogno inesauribile di avere Draco vicino… e mai come ora ne avverto la mancanza come se soffocassi. Non solo perché da lui, ora, dipende la mia vita in senso stretto, ma perché ricevere una notizia simile, senza la consolazione di averlo vicino… mi uccide.

“Quindi, se lui ora non c’è…” commenta scialbamente Zabini, guardando intensamente Raissa che completa a suo posto: “…è molto probabile che, quando ritornerà, non la troverà più…”. Stringo Serenity tra le braccia, come se fosse una bambola e io mi fossi fatta piccola piccola, incapace della benché minima forma di coraggio. O perlomeno di finto coraggio, specie davanti a Zabini e a Raissa.

“Glielo ho promesso, Raissa… fino a quando lui torna, deve restare in vita…” dice tonante Zabini, guardandola, ancora non si danno minimamente pena e pensiero che io sia lì ad ascoltarli. Raissa annuisce riflessiva: “Draco non tornerà tanto presto… lo sai… e quel che è peggio, è che non c’è alcun modo per rintracciarlo…”. Un barlume di ragione mi raggiunge in quella disperazione.

Persino lei… sa dov’è… e che cosa sta facendo… perché io, no?

Che sta facendo da non poter essere raggiunto? E soprattutto che sta facendo che, evidentemente, non vogliono dirmi?

Cala un pesante silenzio, rotto solo dai gorgheggi di Serenity che gioca contenta e beata, ignara di ciò che sta accadendo. Zabini si muove nervosamente avanti ed indietro, quasi preda di un profondo conflitto che lo fa a pezzi. Raissa, invece, resta immobile e fredda come una statua di granito, bellissima e spenta, gli occhi accesi da scintille di pensieri e riflessioni tutte sue.

Mi rannicchio su me stessa, spaventata. Ormai le possibilità rimaste sono: ritornare un demone che lo vuole morto; diventare un burattino nelle mani di Astoria che uccida sia lui che Serenity; oppure congelarmi per sempre come la bella addormentata. Solo che io non sono così bella da suscitare il bacio del principe…specie se, poi, quel bacio, non lo sentirei nemmeno.

Nella mia fiaba, nessun incantesimo si romperà con un bacio.

Asciugo velocemente le lacrime cadute dai miei occhi, quando Zabini riprende a parlare, incerto e titubante: “Se ci fosse un modo… per mostrarle i pensieri di Draco… credi che funzionerebbe?”. Tremo di sorpresa, guardandolo con gli occhi sbarrati.

I pensieri di Draco…

Raissa, stupita a sua volta, sgrana gli infiniti occhi verdi, dicendo sgomenta: “Parli dei suoi ricordi? Hai i ricordi di Draco?”.

Diecimila anni tra la domanda di Raissa e la sua risposta incerta e flebile: “Sì… Draco, da quando è diventato babbano per sua scelta, mi ha sempre dato a scadenze i suoi ricordi… l’ha fatto perché temeva che gli accadesse qualcosa, mentre cercava Pucey e Montague, e, se questo fosse avvenuto, io e Pansy avevamo il compito di cercare qualcuno di babbano che si prendesse cura di Serenity… e, a tempo debito, quando lei fosse stata in grado di capire, probabilmente quando avesse sviluppato già le prime doti magiche, le avrei mostrato i suoi ricordi per farle conoscere la sua vera storia… di Helena, di Draco… ed anche della Granger… non li ho mai guardati… e non dovrei nemmeno parlarne… ma gli ultimi me li ha affidati stamattina… quindi penso che ci sia tutto di lui… e della Granger…”. La gola mi si secca, guardandolo, pensando alla possibilità.

Prima… ho parlato di spiare una pagina di diario… qui, si parla della cosa più intima possibile.

I suoi ricordi su di me, i suoi pensieri… le sue più intime sensazioni… come quando mi mostrò i ricordi di Helena… io… vidi tutto.

Anzi… non vidi tutto… sentii tutto… come se fossi nella sua carne e nel suo sangue…

Mentre attendo la risposta accigliata di Raissa, che immagino già essere positiva, sospiro senza accorgermene.

E si tratta anche di rispondere alla domanda da un milione di sterline…

Come diamine ha fatto Draco Malfoy ad innamorarsi di Hermione Granger?

 

Un capitolo di una difficoltà estrema e che nemmeno mi piace del tutto!! Ho avuto una specie di crisi mistica quando l’ho scritto, perché mi sono convinta di scrivere in maniera pessima e HALFT è stato molto vicino ad essere seppellito nei meandri delle cose mai finite!! Ma poi ho ripreso coraggio e, cambiando qualcosa qua e là dal piano originario, mi sono riuscita a sbloccare… grande merito di ciò va a Raissa Karkaroff che mi ha salvato decisamente la vita con la sua presenza…J diciamo che è un capitolo di transizione, nel senso che prelude al vero e grande capitolo!! I ricordi di Draco su Hermione!! E qui necessito di un consiglio!! Quando si tratta di Draco divento disgustosamente logorroica… quindi potrei ricanalizzare tutta la storia dal suo punto di vista, ovviamente andando anche a ritroso nel tempo, quindi ricordi di scuola o della guerra, ma non voglio essere troppo prolissa… che cosa mi consigliate? L Ora, diciamo che in questo capitolo la cosa più importante è il discorso di Draco… l’ho immaginato come la fine di un percorso, quello che beninteso vedrete nel prossimo chappy… e forse questo capitolo è effettivamente questo. La fine del percorso di entrambi… se Hermione ha compreso il valore di un sentimento anche qualora sia non corrisposto o doloroso, Draco ha compreso l’importanza di riprendere a vivere anche senza Hermione, dato che è convinto che lei lo odi… volevo insomma che, da questa esperienza, entrambi crescessero prima come persone e poi come coppia che credo che sia la cosa più normale ed ovvia per due che sono rimasti mortalmente delusi dall’amore stesso, nonché dalla vita, nel caso di Draco. Spero di aver reso tutto questo nel capitolo, lo spero davvero…:D

EFP e la nostra carissima Erika ha introdotto una nuova funzione, RISPONDI ALLE RECENSIONI! Quindi stavolta non vi risponderò nel mio spazio al termine del capitolo, ma in tale forma… credo che ci sia un link per la risposta al termine della vostra recensione… risponderò a tutti!! J purtroppo ho sempre il pc abbastanza fregato quindi non so se riuscirò a farlo per tutti con gli stessi tempi, ma prometto di rispondere!! Un enorme bacio a tutti coloro che leggono questa fic, che la commentano, seguono o inseriscono tra i preferiti… e a chi mi segue su FB! J

Al prossimo capitolo!

Cassie!

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Capitolo 30
*** Love song requiem step one ***


Capitolo 30 – Love song requiem step 1

 

Alla mia amica Chloe, una dedica con tanto affetto

Ti voglio tanto bene…!

 

 

La mattina, bevo sempre il succo di ananas, ma, se sono terribilmente nervosa, senza accorgermene, ingurgito caffè amaro, nero e soprattutto bollente.

Quando c’è il sole, mi viene automatico indossare qualcosa di colorato, fosse anche una semplice sciarpa vivace e luminosa.

Il mio colore preferito è il rosso, ma in realtà tendo ad indossare maggiormente il bianco e l’azzurro, perché penso di attirare troppo l’attenzione con il rosso.

Ho rivisto “Moulin Rouge” dodici volte, ma mi fermo sempre quando Christian e Satine si riuniscono sul palco; il finale l’ho visto solo la prima volta, perché odio che lei muoia. 

Se mi taglio e vedo il sangue macchiarmi la pelle, chiudo gli occhi, tamponando la ferita, perché ho sempre paura che non finisca più di scorrere.

Quando è finita con Ron, ho evitato di guardarmi allo specchio per mesi, convinta di essere orrenda, e, da allora, resto davanti allo specchio massimo per trenta secondi.

Odio le barbabietole rosse da quando sono stata male per tre settimane, dopo averle mangiate, anche se, secondo ogni test ed analisi, avevo invece preso la mononucleosi.

Cerco di tenere acceso il cellulare massimo sette ore al giorno, perché mi illudo che così possa dedicarmi solo a me, ma poi metto la deviazione di chiamata per il numero di casa.

Il mio libro preferito è “Orgoglio e Pregiudizio”, amo il finale e che stiano assieme per sempre, ma rileggo sempre quando Lizzie rifiuta Darcy, perché mi ricorda me stessa.

D’estate quando mangio il gelato, prendo sempre il cono, mai la coppetta, e, se le calorie sono troppe, prendo anche la panna dicendo che oramai il danno è fatto.

Se sento “My sharona”, ho la bruttissima abitudine di mettermi a canticchiare, muovendo la testa come un pupazzetto da macchina, è più forte di me.

Se sto dicendo una bugia, mi mordicchio la pellicina attorno alle unghie; se invece dico una cosa ovvia nella sua verità, inarco sempre il sopracciglio destro. 

Sbatto sempre troppo violentemente le porte, le finestre, gli sportelli delle macchine, le ante degli armadi e delle dispense, i cassetti e le portelle dei generatori di corrente.

Dimentico sempre dove lascio le pantofole, ne ho già dodici paia per questo motivo, perché le ricompro e puntualmente poi le ritrovo.

Sollevo il mento, raddrizzo la schiena, allineo le spalle parallelamente al bacino, rilasso l’addome, punto il petto in fuori, mantengo i piedi uniti con i calcagni ben piantati…

… ma sono sempre gli occhi a tradirmi.

Particolari che non valgono a conoscere una persona, ovviamente. Sono quelle cose piccole, sciocche, minuscole, che fanno di un individuo quello che è.

Non valgono a conoscere una persona… ma valgono ad individuare quanto ne sai di quella persona. Se sai queste cose, così piccole, di quelle grandi devi per forza avere una conoscenza plenaria ed esaustiva. Sono come segnali luminosi, cartelli stradali, minimi indizi di ciò che sei. E chi sa decifrarli, o li ha saputi perlomeno notare, è come se avesse un accesso privilegiato alla tua persona, alla tua anima… al punto dove giace il tuo cuore segreto, come un tesoro da tirare fuori dalle viscere oscure della terra.

Quando mio marito mi guarda con sguardo assente, chiedendomi con un filo di voce perché, dopo tante volte, adesso invece mi rifiuto di fare l’amore con lui, vorrei rispondergli questo. Sebbene sembri il contrario, il sesso non è il modo più sublime di unire due persone. È solo uno dei tanti modi, meraviglioso, appagante, totalizzante. Ma non unico.

E io so che potrei anche fare l’amore con lui, senza problemi, lasciandomi andare ad una logica meccanica e primordiale, soddisfando l’istinto di ogni corpo, compreso il mio.

Non mi sentirei nemmeno in colpa, in fondo è di mio marito che si tratta… e poi si può davvero tradire una persona che, probabilmente, ormai ti ha sradicato del tutto da sé?

Ma non sarebbe ciò che mio marito vuole, penserebbe che sono finalmente di nuovo sua… e sbaglierebbe. E, quel che è peggio, è che stavolta io non sono in grado di spiegargli il perché del suo sbaglio.

Come ho sempre fatto. Come faccio da una vita… spiegare le cose a lui, fino a quando le capisca senza incertezze.

E Ron stavolta non potrebbe capire. Mio marito non potrebbe capire.

Perché lui, quelle cose piccole piccole… non le conosce. Nessuna, me ne sono già accorta. Anche se è stato con me per anni… ed è mio marito da cinque.

Quelle cose… vederle, scorgerle, intuirle, capirle… quando nemmeno io sapevo razionalmente che ci fossero… quelle cose le ho viste per la prima volta,tramite gli occhi di un altro, che dapprima le derideva, le ridicolizzava, le odiava… ma le vedeva. Le ha viste, fino ad accarezzarle con gli occhi. Fino ad amarle.

Ed esse mi hanno resa sua, per sempre.

Sua.

Per sempre.

Mi posso anche chiamare Hermione Jane Granger in Weasley… ma per sempre qualcosa, dietro la mia superficie, mi impone di chiamarmi Hermione Jane Granger in Malfoy.

In Malfoy.

Alexander Leo Malfoy. Esattamente come per mio figlio. Restiamo entrambi nell’essenza al di là di questa finzione, suo figlio, lui. E sua moglie, io.

Alex ha il sangue ad unirlo.

Io ho me stessa ad unirmi a lui. Perché, prima di essere sua nel corpo, prima di unirmi a lui nella carne… io sono stata sua nella sua mente.

Come lui è stato mio nella mia mente.

Perché tutte quelle cose… piccole, insignificanti al punto di non saperle nemmeno io… le ho viste tutte nei ricordi di Draco.

 

 

Come diamine ha fatto Draco Malfoy ad innamorarsi di Hermione Granger?

Quella domanda frana nei miei pensieri, rovinando come una valanga che non si può fermare, mentre Raissa dice pigramente di sì.

Mi mordicchio l’interno della guancia, nervosa, stringendo ancora Serenity che si divincola per continuare il suo gioco innocente. Zabini continua a parlare, sempre più irrequieto, misurando la stanza in grandi falcate e diffondendo un profumo acerbo di liquirizia, proveniente dalla quinta sigaretta che ha acceso in pochi minuti. Ciancia di tradimento. Non sa se tradirà Draco, non impedendo che io mi consumi lentamente ma inesorabilmente, oppure mostrando i suoi ricordi che lui gli ha affidato per ben altri motivi.

Sospiro, se avessi saputo che i Serpeverde hanno tutte queste crisi di coscienza…

La cosa peggiora con l’ingresso della Parkinson, che si sente in ovvio e discutibile diritto di esporre anche le sue tesi senza che nessuno glielo abbia chiesto. Tutto con una voce da gallina strozzata che mi fa rimpiangere di non essere, oltre che muta, anche sorda. Zabini, poi, che in un primo momento aveva preso in evidente considerazione l’idea di mostrarmi i suddetti ricordi, adesso cambia personalità all’arrivo di Pansy versione cornacchia urlatrice, e dice che non esistono ricordi che Draco gli ha dato e che stava solo parlando di una possibilità, remota ed assolutamente poco confacente al vero. Prima di iniziare a gettare di nuovo tutto all’aria, Raissa perde il controllo ed inizia ad urlare a sua volta, facendo tacere gli altri due.

“Io non ho promesse da rispettare, in palese contraddizione tra loro… ne ho solamente una… guarire la Granger… e dato che la mia sembra essere molto più attendibile della tua, Zabini, considerando che l’ho fatta solo un’ora fa, mi sento in dovere di considerarla prioritaria… ma se vogliamo rispettare la democrazia con grande tatto ed assoluta inappropriata eleganza, facciamolo pure… ma mi riservo che la stessa fedeltà la usiate per comunicare a Malfoy, non appena sarà tornato, che la donna che ama è ormai un cadavere… e si sarebbe salvata se voi non fosse stati così pedantemente fedeli da proteggere i suoi ricordi…”. 

Dopo quelle parole, accade tutto velocemente, troppo velocemente.

Compare il Pensatoio, assieme ad una bottiglia intarsiata di fiori d’oro, vorticante di una nebbia argentata. Zabini ci punta contro la bacchetta e, dopo aver sillabato una specie di parola d’ordine che non riesco a sentire, essa si apre con uno stridio fastidioso. Il flusso di ricordi scorre nel Pensatoio velocemente, come l’acqua di una cascata, Zabini la richiude prima che scorrano del tutto.

Nella bottiglia, restano evidentemente solo quelli di Helena.

Stavolta essi mi sono risparmiati… stavolta… ci sono solo io…

L’eccitazione mi fa sudare le mani, le stringo freneticamente una dentro l’altra. Non penso alla possibilità di tornare libera. Non ci riesco.

Penso solo a Draco. Al mio desiderio di capire.

E, senza nemmeno rendermene conto, il mio viso già infrange la superficie densa come mercurio e rilucente come diamante.

L’inferno di porte chiuse, che è la mente di Draco, si riapre di nuovo ai miei occhi.

 

 

La mente di Draco è cambiata dall’ultima volta, in cui ci sono stata. Quando era lui a guidarmi, nel corridoio immenso pieno di porte di ogni dimensione e colore, esse erano quasi tutte chiuse, sigillate, inaccessibili. Ora, invece, al mio silenzioso passaggio, esse si aprono tutte, dalle più piccole alle più grandi.

Potrei entrare in ciascuna di esse, se solo lo volessi… incredibile

Allora, Draco mi aveva indirizzato in modo frettoloso e spedito per mostrarmi i ricordi di Helena in modo che capissi di non avere speranze con lui, oltre di essere stata usata tutto il tempo da quando ero arrivata al Petite Peste. Adesso, invece, mentre scivolo come un fantasma, argentea come un pensiero, non ho alcun limite. Guardo per qualche istante le porte disposte in fila, improvvisamente incerta su quale varcare e su come trovare me stessa in quel labirinto, curiosa dei ricordi di Draco, eppure contemporaneamente quasi timorosa di invadere la sua privacy per cose che non mi sono state concesse. La mia ricerca si ferma, quando, dritto davanti a me, rivedo il portone della scorsa volta.

Quello di legno chiaro, inciso di rose che descrivevano voluttuosamente le iniziali di Helena.

Devo essermi persa, arrivando di nuovo qui… o Zabini mi ha mandato nei ricordi sbagliati. Sto già per innervosirmi e per tornare indietro con passo marziale, quando il portone frana su sé stesso, come se si fosse fatto di sabbia. Spaventata, mi ritraggo su me stessa, pensando di aver fatto io qualcosa di sbagliato, mentre i chiavistelli, le serrature e i pannelli si sgretolano, diventando polvere chiarissima e luminescente. Come sotto una tempesta di vento, la sabbia si solleva, soffiando contro il mio viso. Stringo gli occhi irritati, coprendomi il viso con le braccia, mentre delle strane parole prendono forma nella mia mente, respirando nelle mie orecchie.

 

“E’ un maschio, signora Malfoy! Uno splendido maschio! Come avete intenzione di chiamarlo?”.

“Draco… Draco Lucius Malfoy…”.

“E’ un nome potente mia signora… si dice DRACO DORMIENS NUMQUAM TITILLANDOS…”.

“Spero che gli insegni appunto ad essere forte ed implacabile… quando lo sottoporrete al rito? Il Signore Oscuro ne ha richiesto immediatamente l’esecuzione… vuole accertarsi che Draco gli sia destinato…”. Una pausa incerta e sofferta.

“Suo marito ne ha dato già esecuzione… aspettano il risultato della cera a momenti…”.

“Non capisco come faccia una cera sciolta nell’acqua a decretare il destino di una persona… delle forme casuali possono guidare un bambino? E se non uscissero le iniziali del Signore Oscuro? Non vorrei che…”.

Un’affrettata rassicurazione. Una porta che si apre, sbattendo. Una domanda concitata. Una risposta addolorata.

“La cera non ha assunto le forme delle iniziali del nostro Signore …”.

“E cosa, allora?”. Materno sollievo malcelato.

“Tre lettere incomprensibili… H.J.G… è in esse il destino di vostro figlio Draco, mia signora…”.

 

Riapro a fatica gli occhi. Il giorno della nascita di Draco… le iniziali…

Avevo letto da qualche parte di questo rito, compiuto ancora dalle famiglie Purosangue di più antica tradizione. Si scioglie la cera di una candela accesa dentro un catino d’acqua fredda, e, dalla forma assunta dalla cera medesima, si determina il destino del neonato.

Può prendere la forma di un qualche oggetto, indicando una qualche propensione futura, oppure appunto le iniziali di qualcuno che sarà determinante nella vita del bambino. Ron è l’unico che conosco, fino ad ora, che lo avesse subito da piccolo, e mi disse che assunse la forma di un triangolo, probabilmente già testimone del rapporto tra me, lui ed Harry che gli ha decisamente cambiato la vita.

Lessi anche che, nei tempi dell’ascesa di Voldemort, i figli dei Mangiamorte si auguravano segni quali le iniziali del loro Signore, sia come Tom Orvoloson Riddle che come Voldemort, o altri simboli ugualmente nefasti che avrebbero inequivocabilmente testimoniato che il loro figlio era legato a Voldemort. Lui stesso se ne accertava personalmente, dando molta importanza a tale rito, ma, alla sua seconda ascesa, non ci dette più alcun peso, sempre meno convinto di persone che gli potessero essere fedeli a vita, se non per calcoli utilitaristici più che per un improbabile destino forgiato da cera liquefatta.

Draco… l’ha subito anche lui da piccolo, ovviamente… Voldemort era ancora al potere quando nacque… e si auguravano le sue iniziali…

Invece… quelle di Helena… e lei effettivamente gli ha cambiato la vita…

Ma… quelle sono anche… le mie…

Per questo, sono arrivata qui… dietro a quel portone, non c’è mai stata solo Helena… ma… anche io…

Assurdo… ogni cosa, da giorni, mi sembra sempre più assurda.

Sono sempre stata nel destino di Draco. E, di conseguenza, lui nel mio. Incredibile anche solo pensarlo… l’implicita conferma mi viene quando vedo dall’altra parte della soglia, dove prima c’era quel mastodontico portone, lo specchio in cui avevo visto la storia di Helena e Draco. Esso si illumina di luce azzurrognola, splendendo come la superficie di un mare illuminato dalla luna. Mi avvicino cautamente, quasi temendolo, e le prime immagini che riesco a distinguere, mi lasciano senza fiato.

Il treno rosso di Hogwarts. Il primo settembre di quasi tredici anni fa.

Sono nei ricordi di Draco già allora…

 

 

Il colore rosso dell’Espresso per Hogwarts lo irritava profondamente, l’aveva già deciso Draco Lucius Malfoy, undici anni, non appena lo aveva visto per la prima volta.

Certo, ne aveva sentito parlare nei racconti di chi era andato ad Hogwarts prima di lui, o lo aveva visto nelle fotografie dei suoi genitori, ma lì, dal vivo, con la nuvola di vapore tutt’attorno e il sole che lo illuminava rendendolo come un fuoco notturno, ne passava di acqua sotto i ponti. E Draco aveva già deciso che non lo sopportava.

Perché, poi, era rosso come i Grifondoro? E non verde come i Serpeverde? Si chiese con una punta di ulteriore disprezzo e fastidio. 

Doveva essere sicuramente un’idea di quel babbanofilo di Silente, quello si fa venire idee che nemmeno la più stupida delle mezzosangue si farebbe venire. Questo, almeno a sentire suo padre. E Silente, per quello che ne sapeva lui, era maschio e purosangue.

Camminava impettito lungo il binario 9 e ¾ , l’elfo domestico alle sue spalle che spingeva a fatica il pesante baule verde smeraldo. Draco lo guardò stomacato, mentre sudava accaldato in quell’ancora calda mattina di settembre, e si fermava a riprendere fiato, rimproverato immediatamente con un gelido sibilo da Lucius Malfoy. Il piccolo elfo, la cui pelle grinzosa era imperlata di piccole gocce di sudore, prese a tremare violentemente, riprendendo immediatamente il suo lavoro a ritmo più sostenuto. Draco si sentiva così importante, mentre camminava a fianco di sua madre e suo padre, il mento fieramente alzato.

Sua madre era la più bella tra le altre mamme, gettò un’occhiata divertitamente sprezzante a quella che sembrava la madre dei Weasley, impegnata a trattenere per un braccio una piccola furia dai capelli rossi che strillava come un’ossessa. Narcissa invece volteggiava come una sirena, stretta nel suo abito blu oltremare che faceva risaltare gli occhi chiari e la criniera bionda. Draco la guardò orgogliosamente, fiero della sua famiglia, stringendo nella manina paffuta la sua bacchetta nuova di zecca, imitando il contegno aristocratico di suo padre, che la impugnava sempre sotto il mantello leggero come una nebbia di vento.

Le occhiate che la gente, al loro passaggio, li scoccava, li sembravano un degno e scontato coronamento.

Narcissa, a quegli sguardi, però, stringeva freneticamente la spalla del figlio, sospingendolo in avanti, mentre Lucius accelerava il passo, inarcando in avanti la schiena.

Improvvisamente, Draco intercettò il cenno ossequioso di saluto di una donna alta, dal viso arcigno. Narcissa sorrise nella sua direzione, avvicinandosi a lunghe falcate.

“Buongiorno Cissy, cara…” la salutò amichevolmente la donna, baciandola su entrambe le guance. Alle sue spalle, comparve un uomo tarchiato e brizzolato che prese a parlare con Lucius.

“Ciao Charisma…” rispose educatamente Narcissa, distaccandosi alla manifestazione d’affetto decisamente troppo calorosa per una donna fredda come lei.

Draco sospirò, guardando i due adulti parlare con i suoi genitori. Per un attimo se ne era dimenticato ed aveva sperato di passare indenne per il binario, salendo di soppiatto sul treno.

Ed, invece,  se c’erano loro, voleva dire che c’era anche…

“Ciao Draco!!” una voce squillante gli perforò immediatamente le orecchie, attirando l’attenzione per il suo spropositato volume di un gruppo di ragazzine del quinto anno.

Per un tremendo ed imbarazzante minuto, gli parve persino che ne fosse sovrastato ed ammutolito anche il cicaleccio dell’intero binario. 

“Ciao Pansy…” rispose con poco calore Draco, roteando il capo per guardarla in viso, mentre spuntava oltre la schiena di sua madre Charisma. La bambina, che aveva un viso severo come quello della madre, lo salutò con la mano, avvicinandosi immediatamente a lui e prendendo a chiacchierare con confidenza. Era vestita di tutto punto, indossava un costoso vestito di velluto rosso che fece aumentare l’emicrania di Draco ancora di più.

Si conoscevano da anni, lui e Pansy, e spesso a Draco era capitato di intercettare discorsi strani dei suoi genitori che avevano a che vedere con parole sconosciute come “dote” e simili. Spesso, infatti, i Parkinson venivano a casa sua e peroravano la tesi che la “loro dote” era sicuramente maggiore di quella di Astoria, un’altra ragazzina odiosa che Draco conosceva di vista. Era troppo piccolo per capire che cosa si celasse dietro quelle parole, ingenuamente pensava che si trattasse di un paragone tra le qualità delle due bambine.

Ed era una bella lotta, considerando quanto fossero odiose entrambe.

I suoi genitori erano molto amici dei Parkinson, e lo avevano sempre pregato di trattare bene Pansy, anche se a Draco era sempre sembrato abbastanza difficile: troppo appiccicosa, chiacchierona e soprattutto aveva la precipua caratteristica di pretendere da lui attenzione assoluta.

Pretesa che Draco, dall’alto del suo cognome, non riusciva assolutamente a giustificare.

Ma, anche quel giorno, al momento di salutarlo, la madre lo aveva pregato di essere sempre gentile con Pansy e di fare amicizia con lei. Draco replicò infastidito di sì e meditò di seminarla quanto prima una volta salito sul treno, quando avrebbe cercato i suoi veri amici. Blaise, Vincent, Gregory. E soprattutto avrebbe cercato anche Potter…si diceva che sarebbe venuto a scuola quest’anno.

Era una celebrità, anche se Draco non aveva capito esattamente che diamine avesse fatto per esserlo. Si diceva che fosse sopravvissuto all’Avada Kedavra di un mago molto potente… e se quello lo avesse semplicemente mancato?

Boh… comunque, i suoi avevano piacere anche che legasse con lui. O meglio che lo controllasse. Chissà perché…

Lucius lo salutò con una semplice alzata di capo, dicendogli di fargli sapere se qualcosa andava storto. Draco inarcò scetticamente un sopracciglio, dandogli le spalle. Le porte del treno si chiusero con un cigolio e il mezzo partì, sbuffando. Affacciato dal finestrino, Draco vide i suoi genitori diventare sempre più piccoli, fino a sparire del tutto in un lampo biondo. Pansy continuava a parlare e lui fece molta meno fatica a negare la stretta al cuore che provava a vederli allontanare, con lei che non gli avrebbe comunque fatto dire mezza parola.

Era contentissimo di andare ad Hogwarts, sicuro che sarebbe stato smistato a Serpeverde come sua madre e suo padre, certo che sarebbe stato il bambino più lodato e stimato, come era avvenuto in quella stazione… ma al contempo, era la prima volta che si ritrovava senza i suoi genitori, e questo gli faceva un po’ paura.

Certo, suo padre lo aveva rassicurato a suo modo, dicendogli che qualsiasi sgarro che avesse subito, glielo avrebbe dovuto comunicare e lui avrebbe agito di conseguenza.

Ma questo aveva aperto nuove voragini nei pensieri del figlio… perché doveva subire dei torti?

“Andiamo a cercarci gli altri, che ne dici?” cinguettò Pansy guardandolo, e Draco annuì, più preso dalla possibilità di scaricarla che dalla eventualità di restare solo con lei, come lei probabilmente sperava. Ovviamente, Pansy riprese a parlare con voce forsennata, contribuendo alla confusione che già Draco sentiva e che veniva amplificata dal vociare concitato dei ragazzi che correvano, entravano ed uscivano dagli scompartimenti o che si riabbracciavano dopo l’estate. Draco li guardava con curiosità, chiedendosi se l’anno prossimo anche per lui sarebbe accaduta la stessa cosa. In questo, Pansy continuava a parlare di migliaia di cose assieme, senza che lui si desse la benché minima pena di ascoltarla attentamente. Era così presa dal suo discorso da non accorgersi nemmeno di una figura accovacciata per terra, a qualche passo da loro. Draco l’aveva notata prima di lei e riuscì a fermarla in tempo, prima che la calpestasse, prendendola per un braccio. Pansy lo guardò attonita, poi si accorse al suo cenno del capo dell’ostacolo.

“Si può sapere che diamine ci fai per terra?” chiese Pansy, innervosita, guardando la bambina accucciata per terra e mettendosi le mani sui fianchi “Potevo cadere…!”.

Draco alzò gli occhi al cielo, quante tragedie inutili…

La bambina si alzò in piedi, rivelandosi completamente alla vista di Draco, scuotendosi la polvere di dosso alla divisa nera di Hogwarts che già indossava. Guardò Draco per qualche secondo, sbattendo le ciglia con espressione confusa e sorpresa, per poi alzare orgogliosamente il capo.

Era una bambina assolutamente ordinaria, come ce ne sono tante. Aveva i capelli cespugliosi, ispidi ed elettrici, che sembravano un vespaio impazzito di riccioli e boccoli disordinati. Lo ispirava curiosamente a ridere, per quanto sembrasse buffa, specie quando aprì la bocca rivelando anche due ugualmente ridicoli incisivi, grandi più del normale. Per Draco, doveva essere una di quelle persone che si dovevano solamente nascondere dalla faccia della terra, per non subire il ludibrio altrui. Eppure, notò, dopo qualche momento, che invece la sua espressione era altezzosa ed orgogliosa, non c’era nulla in lei che presagisse che si vergognasse di qualcosa del suo aspetto, anzi ne sembrava esageratamente fiera.

Che razza di controsenso… gli occhi apparivano curiosi, attenti, sgranati su ogni particolare di chi si trovava di fronte. Era fastidiosamente irritante anche nel modo di stare in piedi, con la schiena dritta e i piedi uniti.

Sembrava la figlia di qualche Mago potente e nobile, conscia completamente del suo ruolo nel mondo. Draco sospirò in modo quasi teatrale, allontanandosi. Probabilmente doveva aspettarsi che i suoi chiamassero anche i genitori di quella bambina ridicola per compararne la “dote”.

Spiccava persino nella folla di ragazzini che salivano al castello, dopo aver attraversato il Lago nero sulle piccole imbarcazioni. La sua chioma vaporosa era impossibile da ignorare.

Era come il treno rosso di Hogwarts nella sua testa, li irritava i nervi ottici.

La chiamarono prima di lui, per lo Smistamento. Tese le orecchie per sentirne il cognome, l’elemento di discrimine di ognuno di loro, in quella Sala.

Due sillabe, dal suono liquido e duro. Granger.

E Draco capì di essere caduto nell’errore più grande e umiliante della sua brevissima vita. Era una Mezzosangue.

Alla fine della giornata, nel suo nuovo letto, confuse la nostalgia per casa con la prima irritazione per la neo Grifondoro.

 

La tenerezza di vederci di nuovo così piccoli, per un attimo, mi attanaglia il pensiero, confondendomi. Appoggio la fronte sullo specchio palpitante di colori ed immagini che vorticano per mostrarsi già ai miei occhi. Mi viene da sorridere, curiosamente, dopo essermi rivista. Ero buffa, davvero… e pensare che ero anche convinta di essere bellissima ed intelligentissima.

Porto entrambe le mani sullo specchio, sofferente.

Quel giorno abbiamo messo la prima pietra del mondo che ci avrebbe divisi…

 

L’urlo di dolore ruppe il silenzio perfetto e riverente che godevano i sotterranei, durante le lezioni di Severus Piton. Un gruppo di venti studenti contrasse contemporaneamente le spalle, sollevando gli occhi dalle pagine ingiallite del manuale di Pozioni e dai calderoni che ribollivano ingredienti mescolati in modo più o meno preciso. Passarono pochi secondi che l’intera stanza fu avvolta da un fumo acre di colore nero scuro che aveva una consistenza densa e pesante, tanto da indurre tutti a tossire con prepotenza.

Un lampo di luce verde-oro e la nube si dissolse velocemente, come era nata. Severus Piton ripose la bacchetta con un gesto lento e annoiato, gettando un’occhiata raggelante dietro gli sporchi capelli neri per individuare il responsabile del disastro. Dopo aver appurato che stranamente non si trattava di Neville Paciock, che era ancora intento a tagliare la radice di Mandragola in un modo così goffo e grossolano che non avrebbe potuto utilizzarla nemmeno per un minestrone di dubbio gusto culinario, percorse la stanza con uno sguardo obliquo, vagando tra fronti volutamente abbassate ed occhi desiderosi di scoprire la nuova vittima sacrificale di Piton.

Potter e Weasley erano anche loro ancora intenti all’aggiunta della Polvere di Girilacco, si erano fermati con le mani a mezz’aria, le espressioni cupe e nervose. Con una punta di dispiacere, Piton si rese conto che quindi non era stato nessuno dei Grifondoro. Andò quindi con estrema riluttanza a scandagliare le file dei Serpeverde, scoprendo in fretta il colpevole dell’esplosione. Vincent Tiger, infatti, si teneva la mano sinistra ustionata con l’altra, gemendo silenziosamente. Draco Malfoy, accanto a lui, sospirava rumorosamente, guardando il calderone che divideva con lui parzialmente esploso.

“Signor Malfoy, la pregherei di andare in infermeria a prendere un medicamento per il signor Tiger…” ingiunse Piton con voce melliflua, guardando il suo pupillo “… e per voialtri, non credo che nessuno vi abbia detto di fermarvi… cinque punti in meno per Grifondoro…”. Gli studenti rosso-oro ripresero immediatamente a lavorare, riempiendo nuovamente il freddo scantinato di chiacchiere sussurrate, ferme imprecazioni contro il professore e risate trattenute all’indirizzo di Tiger che, intanto, continuava a tenersi la mano ferita.

Draco uscì dalla stanza con un lieve sospiro, intimando a Tiger di riprendere immediatamente a preparare la Pozione. Il ragazzo con foga riprese a tagliare la radice di Mandragola con una mano sola. Draco si chiuse la porta alle spalle, risalendo le scale ed attraversando i corridoi deserti, attraversati solo da gruppi nutriti di studenti che andavano da una lezione all’altra, accompagnati rigorosamente da insegnanti e prefetti. Uno di essi, uno sciocco Tassorosso del secondo anno, lo guardò obliquamente, chiedendosi sicuramente come mai lui invece se ne andasse libero e tranquillo per la scuola. Poi il suo sguardo si distese, diventando gelido, mentre voltava il capo, riprendendo a parlare con una ragazzina dalle trecce bionde.

Passando accanto a lui, Draco sentì distintamente la ragazzina sussurrare: “Ovvio, Ernie… quello è Draco Malfoy… figurati se il Basilisco va ad attaccare lui… Serpeverde e Purosangue …!”. Draco scrollò le spalle con indifferenza, sentendosi fiero di quelle definizioni che lo ponevano una spanna sopra i comuni studenti, costretti invece a farsi accompagnare a lezione come dei poppanti. Lui, lì dentro, non rischiava nulla. Anche se avesse incontrato l’Erede di Serpeverde in persona, probabilmente sarebbe stato lui ad inchinarsi di fronte a Draco… o almeno lo avrebbe sicuramente lasciato tranquillo.

Draco continuò a camminare pigramente verso l’infermeria, le mani in tasca, godendosi la sensazione di quiete e silenzio. Quella scuola doveva essere sempre così, altro che quella feccia che la infettava costantemente. Forse, dopo che il Basilisco avesse fatto pulizia e quell’incapace di Silente se ne fosse andato, la scuola avrebbe riaperto con un nuovo ordinamento.

Niente più mezzosangue e babbani.

Suo padre lo sperava più di ogni altra cosa.

E Draco con lui.

Il ragazzo biondo si fermò a guardare fuori dal porticato, gli occhi grigi pigramente poggiati sui ritagli di sole che bagnavano il cortile come oro liquido, filtrando dalle nuvole che attraversavano velocemente il cielo primaverile.

Tante cose stavano per cambiare… e lui doveva essere pronto.

Poggiò un braccio piegato su una delle colonne di pietra che delimitavano il porticato, sospirando lievemente e socchiudendo gli occhi.

Quasi spaventato da quel gesto, girò bruscamente su sé stesso, bussando alla porta dell’infermeria alle sue spalle. Dall’interno, non proveniva alcun rumore e nessuna voce.

Imprecando per l’assoluta incompetenza del personale di quella scuola e maledicendo sua madre per non avergli permesso di andare a Durmstrang, il ragazzo entrò cautamente nella stanza, accostando immediatamente la porta alle sue spalle. L’infermeria, come aveva previsto, era assolutamente vuota, Madama Chips era chissà dove, all’anima sua.

Draco roteò gli occhi, innervosito, guardandosi attorno tra i letti parzialmente celati da tende immacolate, sospinte dal vento che entrava dalla finestra lasciata aperta. Il silenzio era assoluto, completo, alle orecchie del ragazzo giungeva solo il vociare soffuso dell’aula vicina e il rumore metallico degli anelli che reggevano le tende che, al muoversi delle stesse, battevano contro le aste che sormontavano i letti.

Si mosse indolentemente annoiato verso una serie di mensole, ingombre di boccette piene di strani liquidi colorati, su cui torreggiavano delle etichette che ne spiegavano sommamente il contenuto; se quella dannata donna non si muoveva, almeno cercava di fare da solo. Una volta, la stessa Madama Chips, quando si era recato in infermeria per una ferita post partita di Quidditch, gli aveva detto di fare da solo, dato che era impegnata a medicare una bimbetta del primo anno. Che non lasciasse tutto per porgere le sue solerti cure al rampollo dei Malfoy, era parso ovviamente strano all’undicenne Draco, che quindi aveva combinato un pasticcio con le pozioni, in modo da farla rimproverare duramente, mentre lui ghignava con soddisfazione. Ma dubitava che stavolta sarebbe successo… l’infermiera era impegnata oltremisura in quei giorni, a causa del Basilisco e delle sue vittime.

Quindi, nessuno si sarebbe sognato di muoverle un rimprovero di qualsivoglia natura.

Inoltre, la cosa poteva anche tornagli utile… la solita emicrania che lo colpiva sempre all’assoluta mancanza di efficienza della gente che lo circondava, gli stava perforando il cervello, quindi, provvedendo da solo, avrebbe trovato un rimedio anche per quella, senza che l’infermiera lo ammorbasse con inutili domande di circostanza. 

Attraversò la stanza silenzioso, acclimatandosi perfettamente alla quiete che lo circondava, superando la fila di letti e raggiungendo velocemente la libreria dove le boccette splendevano di luce colorata, rinfrangendo i raggi bianchi del sole in gocce arcobaleno. Scorse con il dito i vari nomi delle pozioni, cercando di ricordarne le funzioni e le proprietà, la sensazione d’intrusione al cervello che aumentava di minuto in minuto. Si portò una mano sulla tempia, sofferente, era talmente intensa e fastidiosa che si era tradotta nella sensazione che qualcuno lo osservasse, quando invece la stanza era ovviamente e vistosamente deserta. Il respiro gli accelerò in preda ad un’ingiustificata ed assolutamente anormale ansia, mentre, frettolosamente, cercava il medicamento per le bruciature, trovandolo alla fine, con enorme e poco celato sollievo, in una boccettina panciuta che conteneva un liquido denso di colore arancione. Si voltò su sé stesso, smanioso di tornare nel buio eppure accogliente sotterraneo di Piton, chiedendosi come mai sentisse quel senso assurdo di oppressione al petto, come una premonizione improvvisa che gli faceva persino dubitare di essere immune ed al sicuro in quella scuola, come pensava da quando il Basilisco aveva preso ad attaccare babbani e mezzosangue.

Ma, quando si voltò, lentamente, quasi come se temesse davvero di incontrare gli occhi gialli del mostro leggendario a pietrificargli lo sguardo, il sollievo curvò le sue labbra in un sorriso sardonico e soddisfatto.

Era solo… lei.

Il passo di un predatore della notte, implacabile eppure leggiadro, si avvicinò all’ultimo letto, prima della finestra, reso visibile dalla tenda lasciata distrattamente aperta. La gola bruciava di una risata urticante, come sapone negli occhi, mentre guardava il corpo immobile della ragazza, distesa su quel letto, una mano sollevata in alto come se tentasse disperatamente di stringere qualcosa, i tratti congelati in una perenne e nefasta sorpresa.

Erano passate alcune settimane da quando il Basilisco aveva pietrificato la Granger. E, quella sera, Draco aveva dato una festa nella sua camera, ridendo sguaiatamente con Blaise e gli altri Serpeverde ed improvvisando persino un balletto tribale sul suo letto, a cui era seguita una pomiciata appassionata con Pansy. Dio, era così felice che non si era nemmeno accorto di quello che faceva… e il giorno dopo, con lei convinta di essere diventata ormai a tutto diritto la futura signora Malfoy, era stato decisamente seccante rimettere le cose a posto e convincerla che si era trattato solo di un errore.

Ma, nonostante quell’indubbio fastidio, non avrebbe mai rinnegato quel momento di assoluto e perfetto godimento… il momento in cui tutta la scuola aveva saputo dalla voce impastata di dolore e pianto della Mc Granitt, che Hermione  Granger era l’ultima vittima del mostro. L’aveva sperato, se l’era augurato diverse volte parlando con Tiger e Goyle, e finalmente era stato accontentato.

La guardò con divertimento, schernendola nel pensiero.

Della Granger, odiava tutto… tutto. Non c’era cosa che non gli desse fastidio, considerò guardandola.

Il tempo si era fatto più caldo nelle ultime settimane, preannunciando l’arrivo celere e veloce di spruzzi d’estate, ma lei indossava ancora un pesante maglione di lana grigia, sopra la gonna a pieghe della divisa, che le lasciava scoperte le gambe fasciate in un paio di calze nere molto coprenti. Seguì le linee del suo corpo, fino a quell’odiosa mano che ancora era protesa in alto, come lei faceva sempre in classe, facendola scattare ancora prima che il professore di turno finisse la sua domanda. Adesso, invece, nelle aule regnava il silenzio ammantato di paura e timore che Draco tanto adorava. E che non gli faceva scoppiare la sua solita emicrania.

Che soddisfazione… l’avrebbe pagato il Basilisco, se lo avesse visto.

Chissà che diamine di pagamento, poteva desiderare una bestia del genere, poi… 

I capelli, impreziositi da minuscoli fili di bronzo dorato creati dalla luce del sole, indoravano il cuscino bianco latte, sparsi come se lei fosse in tutto e per tutto morta. Draco si chinò guardandoli, per un attimo curioso della loro consistenza. Chissà se assomigliavano a quelli delle statue, cesellati fino ad ogni ricciolo e boccolo, in modo da suggerire l’idea di una morbidezza che era solo un’illusione di freddo marmo liscio. Sembravano così reali… eppure, come il resto del corpo della Mezzosangue, erano immobili come il suo respiro, come qualsiasi cosa di lei… si chiese, guardandola con disgusto, se dietro la pelle granitica, lei fosse effettivamente ancora in grado di sentire. Se, insomma, lo vedesse, lo sentisse, ma fosse solo incapace di muoversi.

Infantilmente, fu quasi preso dalla smania di farle un dispetto qualsiasi, tipo tapparle il naso tra il pollice e l’indice per vedere se reagiva in un qualche modo, o rovesciarle qualcosa di liquido addosso.

Qualsiasi cosa…

… di lei lo disgustava qualsiasi cosa. Il corpo ancora così acerbo come quello di una bambina, piegato spesso dal peso dei tomi che si portava avanti ed indietro. Le mani dalle unghie rosicchiate e malcurate, le cui dita stringevano sempre con foga quasi smaniosa le penne intinte d’inchiostro, che solo lei sapeva far scorrere a quella velocità sovraumana, mentre scriveva. Le labbra che celavano a fatica quegli odiosi incisivi, che sfuggivano un respiro articolato in suoni e parole sempre irritanti e sempre pronunciati a sproposito. La zazzera di capelli che, sebbene cercasse di domare in ogni modo con fasce e fermagli di dubbio gusto, era sempre disordinata e incolta, come se alla fine si arrendesse e semplicemente non le importasse più.

Ma di lei, le dava assoluto fastidio il nome.

Hermione Granger.

Il nome… constatò, stringendo i pugni e serrando la mascella mentre la guardava. Nulla di lei era cambiato in quegli istanti, nulla, nemmeno il colore terreo della pelle del viso.

Quel nome, che recava ancora la colpa inconfessabile di quel giorno di un anno prima, quando, per via del suo assolutamente ingiustificato contegno e rigore aristocratico, gli era sembrata una Purosangue… era diventato sinonimo di una condanna. Era il nome che suo padre inseriva nei discorsi per farlo sentire in colpa, paragonando con scherno le doti della Mezzosangue alle sue.

Se Draco falliva, Lucius chiosava che persino la Granger ci sarebbe riuscita. Oramai era il paragone assoluto, il contraltare di ogni cosa che facesse.

Ovviamente, Lucius usava il nome della ragazza con irrisione, facendo scivolare le consonanti dure e liquide con grazia disgustata e instillando nell’animo di Draco l’adeguato senso di inferiorità che sperava lo spingesse a migliorare, nel sentirsi, non solo paragonato, ma anche perdente, di fronte ad una lurida Sanguesporco. 

Ma, anche a scuola, quel nome era dappertutto. Sulle bocche dei professori, ad eccezione di Piton ovviamente, sulle quelle degli studenti, che si chiedevano come diamine facesse ad essere sempre così preparata in tutto. E se quella domanda era colma di ammirazione sincera nei Grifondoro, nei Tassorosso e nei Corvonero, nei Serpeverde, che pure non sfuggivano al suo dannato incantesimo di perfezione, diventava piena di invidia e risentimento.

Ma sempre c’era… sempre… in ogni cosa che facesse, fosse anche perfetta e meravigliosa, lei c’era.

Poteva anche avere E in un compito, ma lei avrebbe permesso di inventare una nuova valutazione che avrebbe reso il suo voto obsoleto e ridicolo.

Era come un’ossessione… e la odiava. La detestava. Voleva che il suo nome sparisse dalla memoria di tutti. Voleva che fosse Draco Malfoy, quello che ripetevano genuflettendosi, non il suo nome sporco e ridicolo.

Era una cosa assurda… assurda, decisamente. Quella piccola strega ridicola… gli stava rovinando la vita.

Ma, adesso, si disse con gioia, era finita. Finalmente se ne stava zitta e al posto suo… quello che le spettava. Fuori dalla vita e dalle menti di tutti.

Un giorno, l’avrebbero scordata. Rimpiazzando l’assordante vuoto che lei aveva lasciato con la ridondanza del suo di nome. Sorrise ancora, era solo questione di tempo… ed anche suo padre avrebbe smesso con i suoi paragoni cretini.

Avrebbe smesso anche lui.

“Addio Granger, riposa in pace…” ghignò all’indirizzo della fanciulla immobile, guardandola in volto. Aveva evitato di farlo fino a quel momento, quasi spaventato dal colore vitreo delle sue pupille. Fu in quel preciso momento, al contatto con l’agata spenta dei suoi occhi, che si accorse con un brivido di come lei sembrasse seguirlo con lo sguardo, da qualsiasi parte si muovesse in quella stanza.

Era stato quello, prima, a farlo sentire curiosamente osservato.

Gli occhi… lo seguivano, anche se si spostava. Era come averli direttamente nel cervello.

Era come se vivessero di vita propria… o era la luce del sole a renderli luminosi come la prima volta che l’aveva vista?

Sudando freddo sotto quello sguardo che gli appariva contemporaneamente di rimprovero e pietà, cercò di dirsi razionalmente che era solo una stupida impressione, che la Granger era oramai come un fantoccio, ma la sensazione proseguì, paralizzandogli le membra ed impedendogli di muoversi come se fosse sotto lo stesso incantesimo della ragazza. Divenne un calore insopportabile, una debolezza fiacca ed una nausea inammissibile che lo fece fuggire lontano da quella stanza, tacendo al cuore ed alla mente una probabile motivazione che non implicasse che stava male per il contatto visivo prolungato con la Granger stessa.

Lo nauseava così tanto da farlo stare male fisicamente, dannata Mezzosangue.

Trascorse giorni a letto in preda ad una febbre che non si poteva curare in alcun modo e che solo il tempo e l’indebolirsi del ricordo dei suoi occhi nella sua mente, fece sparire.

Non sapeva Draco Malfoy che quella febbre era il primo segno del destino.

Quello che l’avrebbe separato dalla sua famiglia per sempre… perché la prossima volta, non avrebbe avuto la scusa della Granger per coprire pateticamente gli effetti di quell’inspiegabile malattia.

La prossima volta… quattro anni dopo… si sarebbe trattato di Silente e del suo omicidio.

E allora il silenzio con cui ammantava ogni cosa che non capiva e non accettava, compresa Hermione Granger e l’effetto terribile che gli aveva causato, si sarebbe miseramente infranto sotto la scure delle parole del professore che aveva sempre indorato di lodi il suo nome, non quello della nemica.

Poche e semplici parole. Letali… come strappargli la carne dalle ossa.

Draco non poteva essere un Mangiamorte.

 

Ero già stata pietrificata, me ne ero completamente dimenticata. Al secondo anno, dal Basilisco.

Già… ma allora fu diverso, rispetto a quanto è accaduto adesso con lo Zahir. Completamente diverso.

Non me le ero andata a cercare, tranne per il fatto che vagavo da sola per i corridoi. 

Ne avevo parzialmente evitati gli effetti, ricorrendo a quel piccolo specchietto.

E, soprattutto, da statua, non ero stata minimamente cosciente… mi era solo sembrato di dormire, per settimane, senza che ne preservassi il benché minimo ricordo.

Infatti, non avrei mai immaginato che Draco mi avesse visto… che fosse stato lì, a pochi passi da me…

I suoi ricordi... sospiro dolorosamente… il bambino viziato che mi perseguitava a scuola, che detestavo. E che mi infastidisce ancora adesso, se ci ripenso. Ma aveva un motivo.

Suo padre.

Ero, in fondo, quella che gli impediva di ricevere le lodi che pensava di meritare tanto dai suoi genitori, tanto dai professori.

ma già da allora, già da quel giorno, in Draco Lucius Malfoy, c’era qualcosa di profondamente diverso.

Già, da quel giorno, Draco aveva in sé il germe della sua redenzione. Di quella che era una malattia del corpo, ma era il disagio dell’anima.

Per un cuore buono, in un corpo destinato al male.

 

Era accaduto davvero?

Draco continuava a chiederselo ininterrottamente da ore, guardando il tessuto verde bottiglia del baldacchino del suo letto. Seduto a gambe incrociate sul materasso, aveva tirato le tende pesanti, rimanendo nel buio, gli occhi aperti, spalancati, progressivamente acclimatati alla mancanza di luce, tanto da distinguere persino che le torce si erano accese e che quindi era scesa la sera. Si mosse solo quando si rese conto che un piede si era addormentato.

Si stese quindi supino, poggiando la testa sul cuscino e chiudendo gli occhi.

Non era preoccupato. In fondo, riflettendoci, non lo era affatto. Aveva chiaramente detto a Tiger e Goyle di non dire nulla a nessuno e contava sulla memoria paludosa dei due che, ben presto, si sarebbero dimenticati di tutto.

Non era nemmeno preoccupato del Trio delle Meraviglie… se avessero diffuso troppo la voce, sapevano che probabilmente sarebbe giunta alle orecchie di qualche professore che non avrebbe visto la cosa come un’impresa eroica, ma come un qualcosa da punire. O perlomeno lo credeva. Ma, trattandosi della Mezzosangue, dubitava che avrebbe rischiato la sua pulitissima carriera scolastica.

Quindi, a conti fatti, non era preoccupato che si sapesse. Non esageratamente, in fondo.

Era arrabbiato?

Di primo acchito, sì, lo era stato. Aveva meditato di ucciderla, per aver osato sfiorarlo con quella sua mano ripugnante. Aveva pensato di scrivere una lettera a suo padre, dicendogli tutto… aveva anche preso un pezzo di pergamena ed una penna, già intinta nell’inchiostro. E poi, una nuova riflessione lo aveva fatto velocemente desistere, ed aveva lasciato il materiale per scrivere sulla sua scrivania, rifugiandosi a letto.

La rabbia era scomparsa al pensiero che suo padre ridesse di lui, per essersi fatto schiaffeggiare da una piccola e tutto sommato debole Mezzosangue. Certo che ne avrebbe riso… e sicuramente si sarebbe vendicato con lei, ma che soddisfazione ne avrebbe avuto lui? Nessuna. Perché ora, la Granger aveva conquistato un ulteriore punto nella loro personale guerra sotterranea.

Era stata la sola, dopo suo padre, a schiaffeggiarlo. E suo padre lo aveva fatto solo una volta, per quel dannato libro del Piccolo Principe.

La guancia, sebbene il colpo non fosse stato fortissimo, specie per un tredicenne come lui che cresceva in fretta, modellato dall’attività fisica e dallo sport, bruciava ancora. Forse era ancora rossa… eppure la rabbia non tornava.

Non arrivava più.

E allora che cosa era che provava? Schifo?

Certo, lei lo aveva toccato… e sì, si era lavato quindici volte, mentre Tiger e Goyle annuivano comprensivi. Poi li aveva cacciati, dicendo che doveva studiare.

Ma anche lo schifo era passato, ad un certo punto…

… era rimasto… solo…

Sorpresa. Meraviglia. Stupore.

Da dove diamine l’aveva trovato il coraggio lei, quella stramaledetta Mezzosangue, per schiaffeggiare lui, Draco Malfoy?

Non aveva pensato che suo padre le avrebbe potuto far passare le pene dell’inferno? Contava tanto sulla sua presunta impunità davanti a Silente? Non poteva essere così sciocca e non sapere CHI suo padre era… e che cosa poteva farle, fuori da quella scuola… no… sebbene gli costasse fatica anche solo pensare di ammetterlo, sapeva che non era così stupida.

Lo aveva fatto e basta, quella lurida e sporca Mezzosangue.

Gli occhi fiammeggianti d’ira, il viso deformato dal livore… lo aveva fatto e basta. Convinta di poterselo permettere… convinta che fosse in suo potere.

Diede un pugno forte alle colonne intarsiate che reggevano il baldacchino, che tremò leggermente.

… la rabbia ritornò come un fiume in piena.

Non sarebbe successo mai più. Nessuno lo avrebbe toccato mai più, tantomeno quella piccola sciocca. Mai più sarebbe stato così debole da concedere anche a quella idiota della Granger di schiaffeggiarlo.

Sarebbe stato così potente, un giorno, che persino lei avrebbe dovuto baciargli l’orlo della veste.

Rise di quell’immagine e si alzò dal letto con un flessuoso salto. Uscendo, gettò un’occhiata in tralice alla pergamena ancora sulla scrivania. Recava solo l’incipit “Cari padre e madre”.

Restrinse le pupille con fastidio, afferrandola e stracciandola.

E sussurrò con un ghigno: “Cari padre e madre, mi dispiace… ma la partita con la Mezzosangue, è solamente mia…”.

 

Vederlo crescere sotto i miei occhi… vedermi crescere attraverso i suoi occhi… nonostante la durezza dei suoi pensieri e l’odio percettibile che vi sento, è come inseguire un filo rosso.

Trovare il bandolo della matassa... è netto, evidente, visibile, nei suoi pensieri.

Lo vedo e lo seguo, mentre turbina nello specchio la sera del Ballo del Ceppo.

 

“La Granger deve aver utilizzato un filtro d’Amore su Krum… non c’è altra spiegazione…” asserì Pansy per la settima volta nella serata, guardando con occhi ridotti a fessure il campione bulgaro volteggiare al centro della sala, completamente perso della sua accompagnatrice.

Il volto della Serpeverde, impiastricciato da adolescenti mani inesperte, sparì e ricomparì sotto un riflesso iridescente, proveniente da un fascio di luce che aveva colpito un addobbo di cristallo.

“E allora come mai sembra… decente… a tutti, e non solo a Krum?” ribatté con espressione nervosa Daphne, sistemandosi una ciocca di capelli platino dietro le orecchie e sistemandosi meglio il vestito di satin grigio, che aveva appena scoperto con evidente disappunto essere identico a quello della campionessa di Beauxbatons. Le due ragazze, acquattate in un angolo della stanza dove un centinaio di ragazzi ballavano spensierati, gettarono un’occhiata disgustata ad un gruppo di Serpeverde che sbavavano a bocca spalancata, guardando Krum e la sua dama.

Alle parole più che logiche, Pansy tacque sconfitta, incassando il colpo e facendo cadere il suo braccio dal gomito di Draco, che aveva toccato per attirare la sua attenzione.

Inutilmente.

Draco non aveva detto una parola, da quando era entrato. Non aveva voluto ballare, non aveva voluto parlare, si era appoggiato ad una colonna con la schiena, osservando con occhi pigramente annoiati la sala ingombra di persone. Pansy gli gettò un’occhiata in tralice, cercando di indovinarne i pensieri, cosa che mai le era riuscita e tantomeno poteva riuscirle adesso. Gli occhi del ragazzo erano persi nei suoi pensieri, inaccessibili, splendevano solo dei riflessi delle luci colorate che giocavano a disegnargli le iridi di lapislazzuli e diamante. Improvvisamente, Draco sbuffò senza ritegno e si allontanò, alzando gli occhi al cielo e dicendo a Pansy che andava a prendersi qualcosa da bere.

La ragazza, confusa, annuì senza replicare, fissando la schiena del ragazzo che si allontanava per qualche istante, prima di scrollare le spalle e ritornare a parlare con le sue amiche.

Draco fendé con la solita flessuosa eleganza la folla che ballava accaldata, nonostante fosse una sera gelida di dicembre, sguardi femminili che carezzavano il suo completo di velluto nero con il collo alto e che non potevano minimamente presagire quanto il principe azzurro delle loro notti, fosse in realtà profondamente irritato e seccato.

Primariamente, per quel ridicolo abbigliamento che lo faceva somigliare ad un vicario, ma che la madre gli aveva ingiunto di indossare con la clausola che fosse un abito d’alta moda. Come se a lui importasse… non era mica una ragazzina sciocca, interessata alla moda… quel commento poteva interessargli come sapere che Albus Silente adorava le caramelle al limone.

Ma, contrariamente a quanto gli era tipico, non aveva detto nulla. Aveva indossato il completo senza una parola, senza nemmeno una riga in cui redarguiva pesantemente la madre, certo di ottenerne il consenso e le scuse immediate.

La verità era che voleva evitare quanto più possibile le discussioni con i suoi genitori, già ampiamente nervosi negli ultimi periodi.

Giravano voci strane in merito ad un probabile ritorno del Signore Oscuro, cosa che aveva messo tutti in subbuglio. Compreso Draco che, però, dal basso dei suoi quattordici anni, non capiva come mai quella notizia fosse accolta più che con gioia, con evidente sgomento.

Per questo, evitava di gravare troppo sui suoi, fosse anche con il racconto di ciò che accadeva a scuola durante il Torneo Tremaghi… la frustrazione per il nuovo ruolo di spicco di Potter come campione di Hogwarts e sulla mancata applicazione delle regole, quando si trattava del celeberrimo ragazzo, era diventata una consuetudine da sfogare in privato, o con amici sempre più accondiscendenti e sempre meno effettivamente partecipi.

Aveva gioito, quindi, quando aveva saputo che quell’anno avrebbe passato il Natale ad Hogwarts e non a casa, nel castello diventato silenzioso come una tomba.

Ma non aveva immaginato che ciò significasse partecipare a quella pagliacciata.

Urtò una ragazzina che lo guardò, schioccando la lingua infastidita, e si diresse velocemente verso il tavolo dei rinfreschi, afferrando un bicchiere di Burrobirra e trangugiandone in pochi sorsi il contenuto. Si riappoggiò ad un’altra colonna, incrociando le braccia, attento che Pansy si mantenesse sempre a debita distanza, completamente assorbita dalle chiacchiere sciocche con le sue amiche.

Quella sera, era più insopportabile del solito.

Il vestito che portava, era di un ridicolo rosa pallido, che la faceva sembrare una specie di meringa venuta su male. Lei aveva cianciato per giorni sul fatto che fosse identico a quello di una famosa cantante o roba simile, ma su di lei non faceva decisamente l’effetto che lei aveva sperato.

Ci ballava dentro, nelle sue forme ancora virginali, mentre il vestito era pieno di spacchi e scollature. Era assolutamente ridicola… e odiava vederla al suo fianco in quelle deplorevoli condizioni.

L’aveva invitata, perché così era stato deciso dai suoi… figuriamoci… ed aveva accettato sempre per non contraddirli, ed anche perché di quel ridicolo ballo, gliene importava ben poco.

E poi, scegliendola, aveva troncato sul nascere il cicaleccio delle ragazzine Serpeverde che filosofeggiavano sulla possibilità che, dietro ogni suo sguardo, si nascondesse un invito in ginocchio, accompagnato da sguardi adoranti e promesse d’amore eterno. Ma ovviamente, Pansy si era rivelata sempre sé stessa. Non che sperasse, peraltro, che un vestito la facesse cambiare. Sperava almeno che il volume della musica fosse troppo alto per farla parlare.

Ma era ovvio che, se si indossava qualcosa di diverso dalle soliti uniformi nere, la capacità oratoria diventava decisamente superiore in un’oca simile. 

Specie se poi, l’ultima persona al mondo che si aspettava potesse fornire spunti di conversazione di quel particolare tipo a Pansy, aveva invece segretamente concordato per fornire materiale alla Parkinson di cianciare in eterno.

Un altro motivo per detestarla, se mai ce ne fosse stato bisogno, concordò tra sé e sé, stringendo i pugni. Una coppietta che sostava accanto a lui, si allontanò, bisbigliando spaventata.

La guardò di nuovo, cercando facilmente un lampo azzurro in mezzo alla sala. Non era la prima volta in quella serata, se ne era già abbondantemente reso conto, ma ogni volta si era dato una spiegazione ineccepibile.

La prima volta, quando era entrata, l’aveva guardata per rivolgerle un insulto carico di disprezzo, immaginandola alla stregua della Mc Granitt e dei suoi barbari tentativi di sembrare un essere di sesso femminile.

… e non ne aveva trovato nessuno…

La seconda volta, quando erano iniziate le danze, l’aveva guardata, sperando che inciampasse nel suo vestito, rovinando faccia a terra, suscitando l’ilarità generale e l’ispirazione per un insulto che non riusciva a formulare.

… ma lei, leggera come una gazzella, non aveva sbagliato un passo.

La terza volta, quando gli era passata distrattamente accanto, l’aveva guardata, mentre Pansy la indicava senza ritegno, sostenendo che era ovvio che lei ci fosse qualcosa di diverso che doveva essere assolutamente magico.

… e lui aveva trovato circa sette cose che la facessero sembrare diversa.

I capelli lisci e lucenti, legati in una crocchia elegante.

Il sorriso più aperto e malizioso, senza ombra dell’imperfezione degli incisivi che, solo qualche giorno prima, le aveva fatto crescere a dismisura.

L’andatura spedita e sicura, persino su quelle scarpe alte.

La schiena dritta e le spalle aperte, forse perché non aveva tutta quella massa di libri che si portava sempre dietro.

Le labbra più rosse del consueto, che si aprivano solo per sussurrare.

Il colore più roseo del viso, mentre Krum si chinava sempre casualmente su di lei.

Gli occhi che saettavano su Weasley più volte di quanto non lo facesse normalmente.

… ed ovviamente il vestito. Non sembrava uno spaventapasseri, come aveva immaginato quando aveva saputo che qualcuno, Paciock probabilmente, l’aveva invitata.

Dio, quanto si era immaginato il momento in cui l’avrebbe vista e si sarebbe piegato in due dalle risate… ma nulla del genere era successo. Come diamine era possibile?

Doveva aver fatto qualcosa, non c’è dubbio… qualcosa… ma cosa? E poi, nessuno, a parte lui, lo trovava anormale… c’erano una sfilza di professori che avrebbero riconosciuto un maleficio da chilometri.

E se Silente o la Mc Granitt, sicuramente, non avessero voluto smascherarla, Piton non ne avrebbe perso l’occasione. Ed invece, tutti si limitavano a guardarla e a dirle con tono ammirato quanto fosse bella.

Possibile… che lo fosse sul serio?

No, no, che non era possibile… insomma, non era suo padre a sostenere che le donne babbane sono quanto di più orrido esista sulla faccia della Terra?

Pansy passò in quel momento accanto ad Hermione Granger, urtandola deliberatamente. Lei fece un passo indietro, perdendo l’equilibrio, ma Krum l’afferrò prontamente per un gomito, impedendole di cadere.

Ecco, appunto, sospirò, acquattandosi dietro la colonna per impedire che Pansy lo vedesse. Appena lo sorpassò, uscì dal suo nascondiglio, la Granger stava parlando con Krum e sorrideva come se nulla fosse successo. Era evidente che sorridesse in maniera più nervosa di quanto l’avesse vista fare in altre circostanze, e si era separata da Krum imbarazzata… ma non era la solita Granger. No, dannazione, non era la solita Granger.

La breccia nel muro, iniziò lentamente a spaccare la granitica convinzione che lo permeava come un dogma sacro.

Draco sentiva le parole di suo padre affastellarsi nel suo cervello, pronunciate dalla sua voce autoritaria, come se lo avesse lì, davanti agli occhi, intento a fare la sua filippica.

Le sue risposte erano timide, pronunciate a mezza bocca, con incertezza, come se non ci credesse nemmeno lui. Ma, per la prima volta, c’erano.

Guardava Hermione Granger e gli appunti per le risposte fiorivano come primule di marzo. 

Le donne babbane sono quanto di più stupido esista sulla faccia della Terra.

Aveva davanti la studentessa migliore di Hogwarts, quella che non aveva mai preso un voto inferiore al suo.

Le donne babbane sono quanto di più frivolo esista sulla faccia della Terra.

Aveva davanti la chiave delle vittorie dello Sfregiato di fronte a tutti i suoi nemici, compreso suo padre.

Le donne babbane sono quanto di più orrido esista sulla faccia della Terra… la Granger rise ancora, scuotendo il capo, i riccioli che tintinnarono come campanelli.

Sussurrò qualcosa nell’orecchio di Krum, poi indicò l’angolo dove c’era Draco. Il cuore in gola, le mani sudate, la vide avvicinarsi, passando leggera come una farfalla di seta tra le persone avide del suo tocco.

Che diamine voleva adesso? Si agitò Draco, spostando il peso da una gamba all’altra, un magone sul petto.

Dando le spalle a Krum, la Granger si concesse un respiro più forte del solito, che la fece somigliare più a quella che era di solito. Non guardava lui, comunque, Draco se ne accorse subito. Voleva allontanare i suoi occhi da lei, ma era ipnotizzato dalla magia che sembrava averla trasformata, come una principessa, al grande ballo. Ridicolo, si disse ancora, doveva aver fatto sicuramente qualcosa.

La Granger si avvicinò al tavolo delle bevande, si versò del succo di frutta e lo bevve lentamente, dando le spalle a Draco stesso. La sua schiena scoperta, a pochi centimetri da lui, sembrava tremare, facendola sembrare un pesce fuor d’acqua. Un ricciolo era sfuggito dall’elegante acconciatura e le sfiorava delicatamente la pelle morbida delle spalle, ora contratte, mentre guardava la sala distrattamente, le labbra accostate al bicchiere che non svuotava.

Si avvicinò piano alle sue spalle, sostandole a pochi passi. Se lei si fosse voltata, lo avrebbe sicuramente urtato, Draco sentiva il profumo sconosciuto di lei, sapeva di un fiore di vaniglia.

Quella vicinanza… era la voce del padre che smetteva di parlare nella sua mente. Per la prima volta, suo padre aveva torto nella mente di Draco.

Avvertendo la presenza di qualcuno alle sue spalle, la Granger si voltò bruscamente, girando su sé stessa e trovandolo lì, a pochi centimetri da lei.

“Malfoy?” chiese interrogativa, un’ombra di sorpresa che era sopravvissuta all’avversione per lui, restando nei suoi occhi, prima di focalizzare chi fosse.

Draco, come se si svegliasse improvvisamente, spalancò gli occhi, scuotendo il capo ed abbandonando la sala. Inutilmente, la voce di Pansy cercò di richiamarlo indietro.

Corse per i corridoi deserti, evitando sporadiche coppiette che cercavano privacy, e raggiunge di corsa i sotterranei, spalancando la porta della sua camera. Se la chiuse furiosamente alle spalle, l’eco risuonò per tutta la sala comune, come lo scoppio di un colpo di fucile. Si gettò sul letto, respirando a fatica, una mano piegata sugli occhi, il petto che andava su e giù.

La breccia nelle sue convinzioni, diventava sempre più friabile.

Non chiuse occhio, tutta la notte, gli occhi di quell’incantatrice di serpenti attaccati ai suoi pensieri.

Spaventato, salì a colazione la mattina dopo. Temendo di incontrarla, temendo che lei fosse ancora così… temendo che tutto fosse definitivamente falso… tutto quello che gli aveva detto suo padre.

Ma, la mattina dopo, Hermione Granger era di nuovo sé stessa, i capelli solo un po’ più lisci, il carico di libri tra le braccia, la gonna dell’uniforme sempre più lunga di quella delle sue coetanee.

Draco la guardò, cercando traccia della principessa della sera prima, e non ne trovò. Rise tra sé e sé, sollevato, e dandosi dello stupido per tutto quello che aveva passato quella notte.

… lei era di nuovo la stessa…

Si avvicinò a Pansy e Blaise con un sorriso. Sciorinò convinto la sua teoria, addentando un pezzo di muffin e seppellendo ogni altro pensiero fallace nella palude di una memoria che avrebbe sempre negato.

La Granger aveva decisamente usato qualcosa per incantare Krum.

 

Sorpresa, porto una mano sullo specchio, ancora incantata da quello che ho visto. Non mi ha guardato quel giorno né affascinato, né incantato, né attratto, né chissà in che modo romantico. No, assolutamente, constato con le mani sudate. Era solo… spaventato. Autenticamente terrorizzato.

È in questo preciso momento che mi rendo confusamente conto di come le chiacchiere sui Mezzosangue siano state così assolute nella sua mente, fin dall’infanzia, che qualsiasi cosa che uscisse da quell’assioma incontestabile, gli apparisse come demolire l’immagine stessa di suo padre.

Mentre mi guardava, sebbene potesse constatare in modo superficiale che fossi più graziosa del solito, questo per lui rappresentava indirettamente… tradire suo padre.

Gli occhi che vedevano una cosa, trasmettendo un impulso che il cervello non poteva ignorare… ed intanto lo spirito di sopravvivenza delle sue idee, cresciute negli anni come rampicanti a cui aggrapparsi in ogni caso, di fronte a qualsiasi cosa, di fronte a qualsiasi palese contraddizione.

Sono sempre stata la palese contraddizione di quello che pensavano i suoi e che li avevano inculcato nel cervello.

Mi ha sempre odiato più per questo, che per altro… fossi stata orribile, stupida e frivola come diceva suo padre… non avrebbe speso mai il suo odio su di me…

Non mi ha mai odiato perché ero una Mezzosangue in sé… ma perché ero la prova vivente che le cose che diceva suo padre, erano bugie.

Ero la soluzione inammissibile dell’equazione che riassumeva il resto della sua vita.

La prova del nove che non riusciva mai. La quadratura del cerchio che stonava. Il teorema di Pitagora che diceva il contrario di quanto scritto nei libri.

… a scuola… mi ha sempre odiato per questo.

Vedermi attraverso i suoi pensieri… mi sta facendo capire… anche quell’odio. Me ne sta facendo capire l’origine e la ragione… al punto, impossibile anche solo da spiegare, che riesco persino a capirlo per quello che provava. Accarezzo lentamente la sua immagine in quel vetro, lontana nel tempo e nella memoria, mentre parla accalorandosi con Zabini.

La libertà che mi hanno sempre dato i miei per le mie scelte, mi sembra qualcosa di così scontato che non vederla in altre persone… mi sembra solo impossibile.

Ma adesso… capisco quanto sia stato difficile per te, più di quanto lo sia mai stato per me.

… che cosa avrai provato il giorno in cui hai scoperto che eri innamorato proprio di me?

Tremo dall’ansia di scoprirlo, la mano che scivola sul suo riflesso come se fosse ghiaccio. Le immagini passano velocemente, frammenti di me e di lui, lievi, leggeri, perlopiù frasi mozzicate, silenzi carichi di tensione e sguardi colmi di risentimento e sospetto. Sparisce completamente la piccola breccia nel muro, e il ricordo della sera del Ballo perde completamente definizione e consistenza, schiacciato sotto il peso del ritorno di Voldemort nella sua vita. Io appaio e scompaio come una fastidiosa meteora, come una macchietta nel coro, sullo sfondo della massa di persone che lo circonda. Lentamente, con il passare di quei flash fugaci, mi rendo conto di come perda progressivamente interesse per tutto, per la scuola, per la sfida aperta con Harry, spinto da necessità che avverte più impellenti e più importanti del mero itinerario scolastico. Nei suoi pensieri, il desiderio di emergere, di vincere la guerra con quel mondo magico che l’ha sempre rifiutato, anche se non ne ha mai avvertito né il motivo né tantomeno il rimedio, si incarna nell’immagine di Voldemort stesso, il signore che lo renderà potente e rispettato… anche agli occhi di suo padre, sempre più distante e sempre più preso dai suoi intenti egoistici. La madre è anch’essa una cometa, di rara bellezza, ma comunque evanescente e volubile nel cielo dei suoi giorni. Vedo anche il rapporto con gli altri Serpeverde cambiare, li vedo crescere sotto i miei occhi come non hanno invece mai fatto sotto il mio autentico sguardo, perso a quel tempo in orbite che non erano sicuramente le loro.

Vedo Draco allontanarsi progressivamente da Tiger e Goyle, bollandogli come due idioti senza cervello e con cui non ha alcun genere di confronto, ed avvicinarsi invece sempre di più a Blaise e Theodore Nott, con cui parla molto e trova molte affinità. Anche il suo rapporto con le ragazze cambia, lo vedo con una punta di gelosia ingiustificata, mettersi seriamente con Pansy Parkinson, a seguito di un’effettiva crescita fisica e mentale della ragazza. Distogliendo lo sguardo imbarazzato, li vedo fare l’amore per la prima volta il giorno del quindicesimo compleanno di Draco, nella sua stanza. Eppure, seguo ancora con lo sguardo, dopo quello, in modo quasi automatico, entrambi si rendono conto di essere uniti solo dall’amicizia e non dall’amore. Si lasciano serenamente e pacificamente, e lei diventa praticamente la sua ombra. La sua migliore amica.

Non avrei mai immaginato che ne fossero successe tante, proprio sotto i miei occhi…

Lo vedo anche aderire alle squadre d’Inquisizione della Umbridge, entusiasta del suo potere e della possibilità di punire. Marcia per il castello come un generale, a capo dei suoi fidati soldati, cercando di scovare il luogo dove noi dell’ES ci riunivamo, la buon vecchia Stanza delle Necessità, ma, sebbene comprenda la somiglianza che quella situazione abbia con la vita reale, prende tutto come un gioco, come la giusta vendetta nei confronti di quel Potter che gli ha sempre rubato la gloria e l’onore sotto il naso, che ha sempre creduto gli fosse dovuta. E contro di me, ovviamente… conserva di me solo il frammento del giorno in cui fummo portati nell’Ufficio della Umbridge e dell’espressione di puro disprezzo con cui lo guardai.

Se ne compiace, ovviamente, e medita che finalmente anche io ho avuto quello che mi merito e che devo solo ringraziare di aver messo piede in quella scuola.

Le sue convinzioni, al quinto anno, sono più granitiche che mai.

Cambia tutto con l’arresto di suo padre e con la sua missione di uccidere Silente. Persino i suoi ricordi diventano stranamente foschi, cupi, monocromatici. Passano velocissimi, come lame di luce perlacea che squarciano come tagli una nera oscurità perfetta.

Sono in bianco e nero, con pochissimi particolari colorati. Pochissimi.

L’oro di un boccino, nascosto sotto un letto, con un’ala spezzata.

La copertina azzurra del libro di Pozioni, che Piton gli porge con un’occhiata significativa.

Il cuore rosso di cioccolata che Pansy gli porge con un sorriso triste, il giorno di San Valentino.

E poi… sgrano gli occhi… la mia nuca… ed un fermaglio fucsia.

Mentre siamo in coda per ritirare un compito corretto di Incantesimi, lui è poco dietro di me. Lo sguardo perso nel vuoto, la solita sensazione di cupo terrore, l’angoscia che gli permea la fronte di sudore freddo, mentre ogni rintocco è l’avvicinarsi del calare della scure del boia su di lui e sulla sua famiglia.

Io procedo serena, scocco un’occhiata innervosita a Ron che è davanti a me e che si sbaciucchia con Lavanda, mi sistemo i capelli trattenuti dal fermaglio fucsia.

Lui, dietro di me, segue le mie mosse con distrazione. E prova invidia. Invidia. Mi ha invidiato.

Invidia la mia nascita, invidia la mia famiglia, invidia il destino non segnato che possiedo. Invidia i miei genitori al sicuro in una casa calda ed accogliente, invidia i miei sogni ancora intatti, invidia Voldemort che tange di striscio la mia vita, invidia i miei pensieri pieni di sciocche preoccupazioni inutili. E mi odia di nuovo, ricacciando quel pensiero scomodo.

Si dice che ce la farà, ucciderà Silente e tutto andrà a posto. E si dice che la tensione gli gioca brutti scherzi, se sta persino invidiando la Granger.

Nella sua mente, il desiderio di onnipotenza ed onore sta scomparendo lentamente.

Si affievolisce sotto la domanda ossessiva del perché, da quando è stato marchiato, la sua vita non è diventata migliore… affatto. Anzi fa sempre più schifo.

Passano poi ricordi che già conosco, l’omicidio di Silente, la fuga con Piton, la sua malattia incurabile causata dal rimorso, la decisione dei genitori di venderlo agli Auror, l’arrivo a Grimmuald Place. Sono una carrellata rapidissima di sensazioni ed emozioni che immagino così fulminei da non traumatizzare Serenity, la vera destinataria di queste memorie.

Finché le immagini riprendono a ritmo normale, attorno ad una data. 5 giugno.

Si ferma di nuovo tutto su quella data, e comprendo che di nuovo ci sono anche io. Ma anche stavolta, non ricordo perché.

È sempre stato un’ombra tale nella mia vita, come io una meteora nella sua, che ancora non mi capacito di quanti ricordi preservi di me…

Poi, mentre le immagini acquisiscono forma, ricordo vagamente qualcosa, assieme a ricollegare quella data.

Il 5 giugno… di quell’anno… il diciottesimo compleanno di Draco…

 

I suoi vestiti erano ancora impregnati dell’odore di sua madre.

Violetta di Parma, che lei faceva arrivare direttamente dall’Italia. Se lo spruzzava sempre copiosamente sul collo, sulle clavicole e sulle lunghe braccia, intrecciate di perle bianche e nere.

Negli anni, quell’odore aveva significato casa. Ora significava tradimento. Il loro, non il suo; a quello, Draco Malfoy ci pensava raramente.

Vedeva la sua, come giustizia. Il tradimento era quello dei suoi.

Quella parola, dalle lettere scandite e difficilmente equivocabili, era diventata come un picchio nella sua testa. Martellava costantemente, senza mai apparente sosta, disarmonica e stonata, qualsiasi cosa facesse, ed essa calava sulle sue palpebre come un velo opprimente e scuro. Filtrava anche il reale, mostrandolo attraverso quella lente opaca.

Persino la sua stessa pelle ne acquisiva un qualcosa di diverso. Era la pelle di seconda scelta di uno che meritava di essere venduto.

Anche a quella parola, non cessava mai di pensare. All’inizio gli era parsa esagerata, troppo poco abituato a considerare sé stesso alla stregua di una cosa, avvertendo quello che aveva dentro come un segno tangibile di una dimensione ben lontana da quella immateriale. Pulsava dentro di vita e forza… e quindi non era una cosa da vendere.

Ora, la rabbia stantia di quei giorni aveva anche reso quel mero segno di riconoscimento come essere umano, abbastanza inutile.

E vendere, come verbo, era diventato oltremodo calzante. Caratura, peso, valore commerciale… ne enumerava infiniti corollari nella mente. Quelli che gli avevano fatto meritare di essere venduto.

E, poi, arrivava la chiusura del cerchio. Meritava di essere venduto, come una cosa vecchia, sciocca ed inutile? Benissimo. Meritava anche di tradire.

Un attimo… non tradire… espressione scorretta… meritava giustizia.

Sua madre lo aveva abbracciato il giorno prima, quando era tornato a Malfoy Manor per raccogliere delle nuove informazioni da portare a Potter e agli Auror. Aveva aspirato il profumo di lei, ed aveva sperato come un bambino idiota, che Narcissa non si staccasse mai da lui, mentre chiudeva lentamente gli occhi. Ma era rimasto rigido come un pezzo di ghiaccio e lei gli aveva chiesto ancora una volta, perché non tornasse a vivere a casa con loro.

Ma lui aveva ribadito, non senza una nota dura nella voce ormai da uomo, che era grande abbastanza per vivere da solo. Gli occhi di sua madre si erano illuminati di un pigro bagliore azzurro, cercando nell’impettito giovane davanti a lei, il piccolo principe che correva a nascondersi dietro la sua gonna ad ogni accenno di pericolo.

Non l’aveva trovato.

Draco avrebbe voluto sputarle in faccia che era stata lei ad ucciderlo, ma non lo faceva mai.

Avrebbe compromesso il suo ruolo di doppiogiochista, certamente.

Ma intuiva che ovviamente, c’era dell’altro, l’ancora assurdo desiderio di non farle del male, quando invece lo stesso modo in cui aveva scelto di vivere, era praticamente un ucciderla in modo costante.

Ma, anche a questo, Draco Lucius Malfoy, non pensava quasi mai.

Si limitava a salutare sua madre con un affrettato cenno del capo, mentre suo padre, immobile sulla scalinata di marmo nero, stringeva con forza il corrimano, fino ad avere le dita bianche. Si guardavano negli occhi per qualche istante, nubi d’ottobre gemelle, prima che Draco inforcasse l’uscita, l’inconcepibile ed inspiegabile certezza che suo padre, Lucius, in qualche strano e confuso modo, sapesse tutto.

Di lui e di quello che stava facendo.

Anche quel giorno, era andata così. Anche quel giorno, era alla fine tornato a Grimmuald Place, nella sua polverosa stanza in soffitta, con il minuscolo oblò che fungeva da finestra.

All’inizio, disgustato dal suo ruolo e smanioso di non condividere troppo la casa con Potter e compagni, ci tornava solo una volta alla settimana, trascorrendo il resto del tempo in giro per bettole e locande, smanioso della libertà che aveva perso per qualche settimana, dopo essere stato venduto agli Auror. Ne voleva sempre di più, voleva l’ossigeno che premeva contro i suoi polmoni, fino ad urticargli la laringe.

Poi, passata quella normalissima sensazione, aveva invece desiderato mura sulla sua testa, a raccogliere e comprimere i suoi pensieri.

E, quindi, ignorando sommamente quasi tutti gli abitanti di quella casa, ci tornava sempre più spesso. Ci era tornato anche quel giorno, il 5 giugno… il suo compleanno.

Sua madre aveva insistito per farlo rimanere molto più del solito, ma lui aveva scrollato le spalle, irremovibile, ed aveva sibilato che non aveva tempo per quelle sciocchezze.

La mente correva ai diciassette compleanni prima, sfarzosi, bellissimi, da suscitare invidia e meraviglia. Fontane di cioccolato, piccoli draghi addomesticati da cavalcare, scope volanti e mini tornei di Quidditch.

Ed aveva anelato, come non mai, tornare nella sua piccola e gelida stanza, dove il 5 giugno era solo un giorno tra il 4 e il 6 giugno.

Dove nessuno gli avrebbe fatto gli auguri, o gli avrebbe messo in mano pacchetti luccicanti di cose inutili. Dove ogni cosa aveva il sapore del sangue, detestabile, orribile, ma sincero.

Gli occhi della gente che incontrava per casa, specie di quelli che erano solo di passaggio, erano vuoti e spenti, e a Draco stranamente davano una calda sensazione di familiarità, come qualcosa che riconosci e ti conforta nella sua somiglianza. Razionalmente, sapeva che difficilmente quelle persone avevano qualcosa in comune con lui, eppure era sempre così che si sentiva. Rincuorato. Rinfrancato, e non ne poteva fare a meno.

Ognuno là dentro aveva perso qualcuno che amava e, sebbene non fosse vero, Draco amava fingere quello stesso sguardo con facilità impressionante, dicendosi che anche i suoi, per lui, erano morti.

Ne piangeva un lutto silenzioso, fatto di lacrime soffocate nel cuscino che, di giorno in giorno, si erano sempre più diradate. Un lutto che si confondeva con il sospetto e la sfiducia che, nonostante quello che stava facendo, sembrava circondarlo come un alone incancellabile. Di sera, quando la sola compagnia era la luce della finestra della casa di fronte, pensava con sarcastica amarezza che avrebbero avuto davvero fiducia in lui solo il giorno in cui sarebbe morto per mano di Voldemort, cosa che non poteva escludere e che, anzi, era molto più che probabile.

E allora, fuoco alle polveri, se non sarebbe diventato un eroe… con tutto quello che ne conseguiva.

Ma non gli interessava. Ormai nulla gli interessava davvero.

Nulla… persino la vita stessa, indossata come una scomoda ed ineliminabile abitudine, scevro d’ogni inclinazione a piangere, a ridere o a provare qualsiasi cosa di diverso da un guasto rancore.

Irritato da quell’odore che sembrava attaccarsi addosso, contaminandolo fino alle ossa, si sfilò velocemente la maglia azzurra, gettandola con rabbia per terra, restando a torso nudo. La calpestò violentemente con il piede, dopo aver incontrato il riflesso diafano della sua pelle nello specchio di fronte a lui.

Linee più scolpite del torace per l’esercizio fisico da traditore che doveva fare ogni giorno. E cicatrici, piccole, chiare, impercettibili, ma che facevano tutte male come il primo giorno.

Improvvisamente, i sensi affinati dagli allenamenti a cui lo sottoponeva Lupin, Draco sentì un rumore soffocato fuori dalla sua porta. Afferrò prontamente la bacchetta, ancora vestito solo dei jeans, non preoccupandosi che, molto probabilmente, doveva trattarsi di uno degli abitanti della casa, piuttosto che di un autentico nemico. Si appoggiò contro la porta, la bacchetta sguainata, cercando di ascoltare i rumori che provenivano da fuori.

Un tramestio di passi, che scendevano le scale. Poi più niente.

Deciso a prendersela con qualcuno, aprì di scatto la porta, sperando di cogliere in flagrante il molesto avventore. Ma, davanti alla porta, non c’era nessuno.

Sospirò, inarcando un sopracciglio, facendo un passo per rientrare dentro, ma, nel farlo, notò qualcosa appoggiato per terra. Si chinò leggermente, raccogliendo un piccolo involto di colore verde bottiglia.

Un pacchetto.

Un pacco regalo, con un piccolo fiocco rosso in cima.

Draco lo teneva in mano, come se temesse di vederlo esplodere da un momento all’altro. Sotto il fiocco rosso, un biglietto bianco recava poche scarne parole, scritte con una calligrafia panciuta e precisa.

Tantissimi auguri di buon compleanno, Draco.

Che sua madre avesse scoperto dov’era e gli avesse mandato quel regalo?, si chiese chiudendo la porta con un piede. Sì come no… scopre che sono un traditore e la prima cosa che fa, è mandarmi un regalo, a meno che non fosse davvero un modo per farlo fuori. Pronunciò automaticamente qualche formula con la bacchetta, controllando il contenuto del pacchetto, ma non ne venne fuori nulla.

Inoltre, era abbastanza scontato che nessuno sarebbe potuto entrare nella casa, arrivare fino alla sua stanza, depositare un pacchetto ed uscire senza che nessuno se ne accorgesse… e poi, ammesso e non concesso che ci fosse riuscito, che senso avrebbe dovuto avere usare un mezzo del genere per ucciderlo, e non farlo fuori direttamente, una volta arrivato a pochi metri da lui?

No… era stato qualcuno della casa… quindi uno dei buoni… quindi qualcuno… che si è ricordato del suo compleanno…

Scartò sospettoso il pacchetto, uscendone fuori una sciarpa di colore verde anch’essa. Semplicissima, con delle frange alle estremità. Nulla di speciale, insomma, non sembrava nemmeno di grande qualità.

Forse l’aveva fatta Molly Weasley, dubitava che qualcuno fosse uscito a comprarla… certo che regalare una sciarpa a giugno aveva del geniale, constatò caustico, gettandola sul suo letto.

Si distese a sua volta sul letto, esaminando il biglietto che aveva accompagnato il regalo. Chi diamine era stato? Non riconosceva la scrittura del biglietto.

Doveva essere stata Molly Weasley, concluse alla fine con un sospiro, chiudendo gli occhi. Quella sera, a cena, in maniera volutamente casuale, aveva fatto scivolare nel suo piatto una razione in più di torta alle ciliegie.

Quando lui l’aveva guardata interrogativo, aveva solo sorriso, non replicando nulla.

Sì, sì, doveva essere stata lei… i pensieri divennero sempre più foschi, fino a che il sonno lo cullò, portandolo nel velluto dolce di un riposo senza sogni.

Si svegliò che il sole era sorto già da qualche ora. O perlomeno così pensava, visto che dalla sua misera finestrella non si vedeva nulla.

Per fortuna, quella mattina non aveva nulla da fare, quindi poteva anche restare a letto un po’ di più… che fortuna, davvero. Voleva fare disperatamente qualcosa, qualsiasi cosa per evitare di pensare ad una cosa qualunque.

Come ogni giorno, era la prima sensazione che lo coglieva appena sveglio.

E, se questo significava aiutare Molly Weasley a liberarsi di Mollicci, lo avrebbe fatto con enorme e disgustoso piacere.

Si vestì velocemente, scendendo di sotto, la casa completamente avvolta nel silenzio, cosa abbastanza strana. Doveva essere in corso qualche operazione che implicava la presenza di tutti… aveva sentito parlare di qualcosa di grosso, dovevano catturare due Mangiamorte dei peggiori ed interrogarli per sapere dove si trovava Voldemort. Cosa che nemmeno lui era riuscito a sapere.

Chissà a chi sarebbe toccato morire, stavolta … a qualcuno che era suo amico una vita fa, o ad uno dei volti scavati che transitavano lì, come anime di un infinito purgatorio?

Fece qualche passo, entrando in cucina. Sulla tavola c’era solo una brocca di latte freddo e un paio di muffin, lasciati sicuramente per lui da Molly.

Quella donna, appuntò mentalmente Draco, addentando un muffin, lo trattava come un figlio.

Doveva essere una sua dote naturale, o forse vagamente indotta dal fatto di avere così tanti figli. E Draco la lasciava fare anche con lui.

Ogni gesto d’affetto che accettava da Molly Weasley, era un gesto che non concedeva di fare a sua madre.

Si appoggiò stancamente al muro, continuando a mangiare e guardando pensosamente il vuoto davanti a sé, finché un rumore per le scale lo fece dapprima sobbalzare, poi, riconoscendone l’origine, meditò di fuggire di sopra, ma ovviamente non faceva in tempo. Quindi restò al suo posto, stoico come il capitano di una nave che affonda, aspettando l’inevitabile.

L’inevitabile… che aveva una massa di capelli ricci ed una lingua lunga come poche. E che, ovviamente, aveva nome Hermione Jane Granger.

L’aveva già riconosciuta per la serie di rumori che aveva fatto per le scale, le scendeva sempre come un elefante, la grazia femminile non sapeva nemmeno dove abitava. Inoltre, da quando stava con Weasley, doveva aver anche attaccato qualcuna delle malattie infettive di cui soffriva il rosso a livello celebrale. Insomma, ci voleva un’ischemia seria per stare con un tipo del genere.

A Draco, che pure poco importava delle vicende sentimentali di Grimmuald Place, non era certo passato inosservato del fatto che stessero assieme, sebbene sembravano nasconderlo alla onnipresente madre Weasley… il motivo, pensava Draco, risiedeva forse nel fatto che li avrebbe fatti sposare seduta stante.

Ma bisognava essere abbastanza ciechi per non accorgersi dei sussurri a mezza bocca, l’uno nell’orecchio dell’altra, o delle mani strette sotto il tavolo, o del fatto che, di sera, lui spesso andava nella camera di lei, attraversando con un passo non propriamente felino il pianerottolo tra le varie stanze, svegliando spesso anche lui che imprecava gli ormoni di quei due.

Quindi Molly Weasley doveva essere davvero la mamma migliore del mondo… anche cieca era…

Da bravo Serpeverde ed ex Mangiamorte, si aspettava con soddisfazione il momento in cui sarebbero stati scoperti dalla corpulenta signora. Anche se sicuramente Molly Weasley agognava non tanto velatamente avere la Granger come nuora, non sarebbe stata sicuramente contenta di ciò che facevano sotto il suo stesso tetto. Insomma, perlomeno Draco lo pensava… vai a vedere che quella lì già smaniava per avere un nipotino…

La Granger irruppe in cucina con la sua solita innata eleganza, spettinata come se si fosse appena svegliata, anche se era vestita di tutto punto. Indossava una camicia bianca sopra un paio di pantaloni azzurri, ed era vistosamente trafelata, il viso rosso dalla corsa che aveva fatto per le scale. Non era sfuggito ad un osservatore attento come lui, quanto la ragazza fosse cambiata nel corso dell’anno, in cui non si erano visti.

Se lui infatti era passato da una parte all’altra delle barricate in cui era diviso il mondo magico, lei aveva invece viaggiato alla ricerca degli Horcrux, assieme a Potter e Weasley.

Immaginava che tipo di viaggio fosse stato… ed immaginava che non fosse stata una semplice passeggiata nei boschi.

Non erano tornati da moltissimo tempo da quel viaggio, circa tre settimane, in cui al comando di tutte le operazioni, c’era sempre stato Lupin, ma non appena Potter era tornato, era come se in modo immediato ed automatico, il scettro del comando fosse passato a lui. Difatti, Lupin stesso aveva conferito con Potter per ore sulla situazione di Draco stesso, convincendolo della sua buona fede.

Un tempo, questa cosa avrebbe dato estremo fastidio a Draco, si sarebbe impuntato… ora, come per molte altre cose, non gli importava più.

Era Potter l’eroe… e lui, al massimo, poteva ambire ad essere una squallida spalla e controfigura. Ma non importava, come sopra insomma.

Non avrebbe, però, potuto negare l’aura diversa che aveva il magico Trio, da quando era tornato. A parte le cose evidenti come la relazione tra Weasley e la Granger, abbastanza scontata e prevedibile, piccoli particolari avevano cambiato notevolmente i tre. Potter era cambiato fisicamente, più alto, più robusto, ma anche più silenzioso e malinconico. Weasley era più serio e posato, ed aveva preso l’abitudine di seguire con lo sguardo la Granger dovunque si spostasse.

E lei, la Granger… bisognava essere alla stregua dell’ipovedente Cooman per non accorgersi dei suoi cambiamenti.

Quando l’aveva rivista, si era meravigliato non poco. C’era ben poco della ragazzina saccente che conosceva a scuola. O meglio, era sempre saccente, ma fisicamente c’era ben poco. Era molto dimagrita, ma a questo aveva sopperito il fatto che fosse cresciuta in altezza, portava finalmente i capelli ordinati e coordinava persino vestiti ed accessori. Un miracolo, insomma.

Ma era sempre insopportabile, anzi forse lo era più di prima, ora che era anche spalleggiata dal suo Re straccione.

Quindi, i duelli verbali con lei non erano certo venuti meno, ma adesso la parola MEZZOSANGUE era abolita, ovviamente. Sarebbe stata fuori luogo per un traditore convertito.

Anche se, pensava Draco, non l’avrebbe mai potuta usare come l’aveva usata a scuola… la breccia della sera del Ballo del Ceppo era diventata una voragine, fatta apposta per ferire anche quel ricordo del padre nella sua testa.

Quindi si poteva riconoscere che lei fosse intelligente e persino decente… ma non era il sangue sporco a renderla insopportabile. No, era proprio lei così, sospirò.

Manco quell’attenuante le poteva riconoscere.

La Granger entrò quindi in cucina con passo marziale ed esaminò la stanza per tutta la sua larghezza e, non trovando chi cercava, emise un lungo sospiro lamentoso.

Poi, lo sguardo si incupì, notando Draco appoggiato contro la credenza; il ragazzo, in tutte quelle sue manovre, aveva finto abilmente di non essersi minimamente accorto di lei.

La Granger lo guardò sospettosamente sotto le lunghe ciglia nere, poi, alzando gli occhi al cielo, sospirò ancora, avvicinandosi di qualche passo ed inserendosi nel suo campo visivo, in modo che non potesse continuare ad ignorarla.

“Malfoy, dove sono gli altri?” chiese impaziente, battendo il piede per terra con nervosismo.

“Che vuoi che ne sappia io?” rispose lui a tono, continuando a mangiucchiare senza darsi la benché minima pena di sollevare anche lo sguardo “Non mi sembra di essere diventato una sorta di portinaio… non ci dovrebbe essere un elfo domestico o qualcosa del genere?”. La Granger parve trattenere a stento un pensiero che le aveva attraversato gli occhi scuri e che le aveva curvato il viso in un accenno di fastidio represso, ma si morse la lingua e non disse nulla, limitandosi a sospirare ancora con teatralità.

“Non sai dove potrebbero essere andati?” chiese ancora con un filo di voce, guardandolo.

Draco sembrò pensarci per qualche momento, poi finse un’espressione di improvvisa consapevolezza che accese lo sguardo di Hermione. Poi, scosse il capo con un ghigno, mormorando che non lo sapeva. La Granger, ovviamente irritata, sbuffò ancora, non dandosi però pena di rispondergli. Era sempre così con lei, constatò Draco, non gli rispondeva mai a meno che non fosse necessario. E generalmente non lo trovava mai necessario.

Draco intuiva il perché, e lo trovava estremamente fastidioso.

La Granger era buona. Molto più di Potter. Lo era sempre stata.

E, da buona, non poteva avere null’altro che pena e compassione per lui. Era evidente nei suoi occhi, quando lo guardava e quando tratteneva le risposte piccate che le sue provocazioni le suggerivano.

Hermione, davanti a lui, fece qualche passo, afferrando un pezzo di pergamena da una mensola ed una penna babbana. Scrisse poche righe e poggiò il foglietto sul tavolo, accanto alla colazione di Draco, prima di voltarsi per uscire.

Il ragazzo, sospirando perché finalmente se ne stava andando di sopra, gettò un’occhiata distratta al biglietto che era ovviamente un messaggio per Weasley.

Poi, con un piccolo sussulto, vide qualcosa che non lo convinceva ed afferrò il foglio, rigirandoselo tra le dita. La consapevolezza glielo fece stringere tra le mani, facendolo accartocciare.

La grafia, la scrittura del biglietto della sera prima… era la stessa. Era stata la Granger a scriverlo.

D’accordo la pena e la compassione e non rispondergli per le rime, quando la provocava… ma arrivare a fargli anche i regali, qui si esagerava.

Salì le scale velocemente, due gradini alla volta, fermandosi solo quando arrivò davanti alla camera di Hermione, la cui porta era socchiusa. Non dandosi pensiero di bussare o altro, la spalancò violentemente. La Granger, che si stava mettendo una giacca, probabilmente per uscire, sobbalzò spaventata, poi, riconoscendolo, sospirò di sollievo, urlando: “Che diamine vuoi?? Ti sembra il modo di entrare nelle stanze delle persone?!”.

“Scusa la mancanza di galateo, Granger…” replicò Draco sarcasticamente, guardandola dall’alto in basso “Ma ero troppo sconvolto all’idea che mi avessi fatto un regalo per il mio compleanno per badare all’educazione… come diamine te ne sei uscita??? Faccio così pena??!”. La sua voce si era fatta fastidiosamente acuta sulle ultime parole, aumentando di tono e rivelando la rabbia enorme che gli era montata addosso.

Come accadeva da anni, però, la Granger non reagì come lui si aspettava e come avrebbe fatto qualsiasi persona sana di mente al suo cospetto. Non lo aveva fatto a scuola quando era il rampollo dei Malfoy, figuriamoci se l’avrebbe fatto adesso… non si piegò, quindi, chiedendogli scusa e prostrandosi ai suoi piedi, non fosse altro per il quieto vivere. Anzi, quelle parole ebbero il preciso effetto che Draco si era augurato poco prima.

Aveva stretto gli occhi, abbandonando ogni tenerezza per il ragazzo abbandonato dai suoi genitori e ogni forma di riguardo per il doppiogiochista da cui materialmente dipendeva il loro destino, in quella guerra.

Aveva riassunto il solito cipiglio severo e il solito ardore furibondo, guardandolo con astio. A Draco venne curiosamente da sorridere, dovette trattenersi con tutte le forze per non farlo, specie perché non ne capiva l’origine.

“Veramente era da parte di tutti, razza di furetto ingrato…” replicò atona, perdendo ogni forma di contegno “Ma a nessuno andava di scrivere un biglietto, e sono stata costretta a scriverlo io… capisci il senso della parola costretta, o devo tipo mimarlo per fartelo comprendere?!”. Aveva le guance rosse per l’irritazione, le mani strette a pugno, sembrava una bambina piccola in posizione di combattimento.

A Draco si persero ancora le parole in gola, non riusciva a parlare. E non perché non avesse argomenti, o fosse tipo affascinato da lei, o spaventato… no. Si stava trattenendo dallo scoppiare a ridere.

Era così buffa… ma non nel modo ridicolo con cui lo era a scuola. Non le faceva venire voglia di prenderla in giro, le faceva venire solo voglia di stuzzicarla di più.

Una sensazione nuova. Una sensazione piacevole.

Lo faceva sentire di nuovo… vivo. Voglioso di qualcosa, che non fosse la vendetta.

“E sai che c’è?!” continuò Hermione la sua invettiva, finendosi di infilare la giacca “Visto che le serpi come te non hanno evidentemente un collo idoneo a sentire il freddo, me la prendo io la tua sciarpa…! Ovviamente con le dovute scuse per averti trattato da essere umano!”. Soddisfatta dal silenzio, di cui fraintendeva abbondantemente l’origine, Hermione inforcò l’uscita, sbattendo la porta e scendendo velocemente le scale.

Dietro la porta della sua camera chiusa, Draco Lucius Malfoy, traditore di ogni parte del mondo, venduto dai suoi genitori agli Auror per la sua evidente incapacità di essere un Mangiamorte, scoppiò infine in una risata liberatoria e colma di sentimenti inespressi e scordati. Piegandosi in due dal gran ridere, riascoltando il cuore battere per qualsiasi di diverso dalla mera inedia o dal rancore, ebbe un sussulto di speranza.

Il primo, da quando era stato marchiato… l’ultimo, prima di molti anni dopo.

Quando il suo destino e quello della ragazza più buffa che avesse mai conosciuto, ancora insopportabile come poche, si sarebbero intrecciati di nuovo, ma in un modo che Draco Malfoy non poteva nemmeno lontanamente immaginare.

 

La speranza… quel giorno, con la mia celeberrima imitazione di pesce palla, ti ho ridato la speranza.

La speranza di trovare ancora motivi per ridere.

Incredibile… con un gesto così piccolo…

So quanto labile sia stata quella speranza, conosco in parte i suoi ricordi di quello che è accaduto dopo.

E so che sarà stato solo un breve momento, questo, che mi è stato concesso di vedere.

Eppure… quel pensiero… di essere stata questo, anche solo per un secondo in un momento del genere della sua vita, mi riempie il cuore.

Scappa da ridere anche a me, osservando il mio riflesso. Sono buffa davvero, quando faccio così… e pensare che ho sempre pensato di essere tremenda ed implacabile.

Prova ulteriore di quante cose io stia scoprendo, guardandomi attraverso i suoi occhi.

Il mio sorriso si congela, quando le immagini riprendono, velocemente, forse perché la mia stessa volontà ha impedito che diventassero più nette e precise.

Non voglio più rivederlo quel ricordo. La sera a Grimmuald Place, lui che piangeva la morte dei suoi genitori e io che, irritata dal suo modo di rispondermi, gli avevo augurato di morire in quella tremenda guerra. Come sono stata capace di dargli la speranza, così sono stata capace di togliergliela.

I ricordi turbinano ancora, portandosi via per fortuna quell’immagine odiosa che spero la stessa Serenity non debba conoscere mai, e giungono ad una calda notte estiva, piena di gioia.

Forse la notte più bella della mia vita… il mio futuro era così radioso che sembrava risplendere… la notte della sconfitta di Voldemort.

E ci sono ancora io, nel ricordo di Draco. Stavolta questa scena la ricordo anche io… fu l’ultima volta che lo vidi, prima di rivederlo al Petite Peste.

 

Un unico enorme corpo, con centinaia di facce, ognuna delle quali faceva una cosa diversa… come uno di quei mostri mitologici dal corpo di serpente che, ad ogni colpo infertogli, creava un’altra testa.

Draco Malfoy, quasi diciannove anni, sopravvissuto alla grande battaglia finale contro Voldemort, si chiese scioccamente se quell’ultima riflessione non fosse l’esito di un profondo trauma celebrale non diagnosticato, piuttosto che di pensieri normalmente sconnessi e comprensibilmente sconvolti, dopo tutto quello che aveva subito. L’infermiera, però, nella tenda di soccorso adibita alla cura dei feriti, continuava a garantirgli che non aveva nulla di grave. La guardò meglio, mentre lo medicava. Era Madama Chips, da un passato lontano secoli ne riemerse l’immagine fumosa e sbiadita, assieme alla scarsa considerazione che aveva sempre avuto di lei, quando era a scuola.

Draco si ripromise, vedendola allontanarsi ondeggiando, di recarsi da un vero Medimago, non appena si fosse potuto alzare. Quella, doveva essere anche ubriaca…

Non che non fosse giustificata… probabilmente metà dell’Inghilterra magica, ora che Voldemort era morto, era sotto l’effetto di litri d’alcol…

Draco Lucius Malfoy era abbastanza restio a credere di essere ancora vivo.

La bassissima soglia di sopportazione al dolore, che lo aveva contraddistinto quando era ancora un bambino, si era notevolmente alzata e razionalmente sapeva che, a parte la ferita alla testa, la gamba rotta e una serie di escoriazioni superficiali, stava discretamente bene. Era anche imbottito di antidolorifici, quindi era abbastanza lucido. O meglio, lucido, perché non sentiva il dolore, ma per il resto, difficilmente lo si poteva definire in possesso di tutte le sue capacità mentali, sensoriali e cognitive. E questo, per un piccolo ed impossibile rompicapo che lo affliggeva… lui era vivo. Non era morto.

A meno che l’inferno non avesse uno sgraditissimo senso dell’ironia, facendogli credere di essere ancora in vita quando in realtà era morto… ma doveva essere davvero un inferno di quinta categoria.

E lui, il traditore di ogni parte del mondo, si meritava un inferno con i controfiocchi.

Draco Malfoy non si capacitava di essere ancora vivo. Questo era il punto.

Era convinto, certo e sicuro di morire quella sera, e si era preparato molto, nei giorni precedenti a quello.

Non aveva spinto il suo pensiero nel programmare nemmeno un minuto dopo quella fatale giornata in cui avrebbero attaccato il covo di Voldemort.

Alla fine, qualcun altro aveva parlato, rivelando la collocazione del nascondiglio.

Sembrava che fossero stati Pansy, Blaise e Nott. Si era chiarito anche con loro, prima di affrontare la battaglia. Nott non ne aveva voluto sapere, rintanandosi nella cella oscura in cui era stato rinchiuso, anche se non c’erano grandi prove contro di lui. Blaise e Pansy avevano accettato le sue spiegazioni di buon grado.

Aveva detto addio alla vita, facendo sesso con la sua pseudo fidanzata Denise… ed aveva aspettato di morire. Ma la bastarda, la Morte, non se l’era portato via.

Non che si potesse dire che non l’avesse sfiorato durante la battaglia.

Nelle prime concitate fasi dello scontro, quando i Mangiamorte disorientati si erano visti attaccare dagli Auror così all’improvviso, ogni colpo aveva più lui come obiettivo, piuttosto che lo stesso Potter, a cui sembrava mirare solo Voldemort. Non che non l’avesse immaginato… era il traditore, ci mancava anche che non lo facessero.

Meno ovvio era stato, invece, che era stato protetto da ogni parte. E questo gli faceva abbondantemente propendere per la tesi che fosse stato un sogno e che lui fosse morto.

Lupin, i Weasley, lo stesso Potter… e persino la Granger che, poche settimane prima, gli aveva augurato di morire… ognuno di loro si era scagliato in sua difesa, evitandogli la morte quando gli attacchi erano semplicemente troppi e Draco aveva ormai sentito la fine prossima, fino al punto che i Mangiamorte avevano deciso di lasciarlo momentaneamente perdere per riprendere lo schema dell’attacco originale, così come inveiva Voldemort.

E lui era stato libero di muoversi come meglio gli competeva, come sapeva meglio, come il serpente elegante ma implacabile, che aveva imparato ad essere.

Specie, quando avevano cercato di disarmarlo… perché Draco Malfoy era il maestro degli Incantesimi senza bacchetta.

Ne aveva fatti fuori parecchi, anche di gente che conosceva e con cui aveva riso per anni, ma che ora lo volevano morto nella maniera peggiore possibile. Primi tra tutti, Tiger e Goyle.

Ed aveva anche restituito il favore che aveva avuto, quando era stato protetto. E questo, se possibile, era ancora più assurdo. Doveva essere morto, decisamente, all’anima della Chips e delle sue ferite superficiali.

Ricordava distintamente sua zia scaraventarsi su Molly Weasley, come una bestia ferita, pronta ad ucciderla.

E ricordava anche distintamente sé stesso colpire il sangue del suo sangue, alle spalle. Era stata lei, Bellatrix, poi, a lanciargli un anatema che gli aveva rotto la gamba.

Ma, prima di allora, aveva anche salvato la Piattola Weasley da Pucey… e lui l’aveva guardato con un odio tale che, per un attimo, non era stato più in grado di muoversi.

Ovvio… sua sorella marciva ad Azkaban per colpa sua.

Aveva persino aiutato Potter ad infliggere il colpo finale a Voldemort… se questa non era fantascienza, non sapeva che cosa altro poteva esserlo…

Non che la sua vita non si fosse trasformata progressivamente in una patetica commedia degli errori… ma pensava che il palcoscenico calasse quella sera.

Lo pensava… e forse lo sperava pure. Draco si portò una mano tra i lunghi capelli biondi, stringendone una ciocca con rabbia, piegandosi in due sul lettino su cui sedeva da quando la battaglia era finita.

Attorno a lui, la gente si muoveva come un corpo solo, dotato di mille teste. C’era chi piangeva qualcuno che era morto, chi rideva, chi cantava, chi gemeva per il dolore. Era come un coro stonato in modo macabro e perverso, a cui si aggiungeva e mescolava l’odore del sangue che, come sempre, lo faceva stare male, e quello del disinfettante, che gli faceva arricciare il naso.

Perché non era finita quella sera? Che razza di senso dell’umorismo aveva quel Dio che lo aveva risparmiato?

Non sapeva che farsene della sua vita. Non sapeva che farsene.

Sarebbe dovuto morire quella notte, come un eroe… non vivere come un fantasma… attendendo di morire per mano di qualcuno, desideroso della sua testa di traditore…

Gli avrebbero proposto di cambiare identità, lo immaginava… ma Draco Malfoy gli sarebbe sempre venuto dietro… per sempre… l’unico modo per chiudere i conti con lui, era morire.

Morire, quel giorno… ed ora? Che avrebbe fatto?

Era meno che niente… non era nulla… non aveva nessuno da riabbracciare, alla fine di quella guerra. Era solo un uomo morto che camminava. Che cosa avrebbe fatto, adesso, ora che non era più utile a nessuno?

Come una risposta materializzatasi a quella domanda, si sentì chiamare leggermente a bassa voce da qualcuno: “Malfoy…”.

Sollevò gli occhi umidi, incontrando quelli castano chiaro della Granger che lo guardava lievemente preoccupata. Si tirò immediatamente a sedere composto, come se fosse stato punto da un’ape, raddrizzando la schiena.

Lei seguì quelle manovre in silenzio, limitandosi a spostare il peso da una gamba all’altra, visibilmente a disagio. Doveva averla costretta qualcuno, probabilmente Potter, a venire lì a parlare con lui.

In fin dei conti, ricordò Draco serrando la mascella, l’ultima volta si era augurata caldamente che morisse… ed invece non era successo. Se avesse saputo lei, la Granger, che per lui era una maledizione essere ancora vivo…

“Che diamine vuoi?!” inveì con rabbia, guardandola e desiderando avere il braccio rotto, piuttosto che la gamba, almeno si sarebbe potuto alzare ed andarsene in modo dignitoso.

All’anima di Bellatrix, che marcisca all’inferno, lei che è morta sul serio…

La Granger non rispose ancora, abbassò gli occhi e rimase in silenzio, dondolandosi pensosamente. Sembrava vittima di un profondo conflitto interiore, come se nel suo corpo si scontrassero due volontà diverse che le imponessero di fare due cose diametralmente opposte. Non le era tipico quell’atteggiamento silenzioso e sommesso: piuttosto le era tipico che iniziasse ad urlare e a sbraitare, dicendo assurdità. Invece se ne stava ferma, in silenzio, contraendo le mani.

Avrebbe voluto battere il piede per terra, richiamando la sua attenzione ed esortandola a muoversi, ma non lo fece. Gli venne piuttosto da osservare come stesse, nel caso avesse subito qualche colpo che le impedisse di ragionare.

La camicetta rosa che indossava, era sporca di sangue e terriccio, ma lei non sembrava ferita; anche i pantaloni fustagno erano macchiati allo stesso modo, ma ancora non sembrava ferita.

Doveva essere il sangue di qualcun altro, non il suo.

Aveva comunque le braccia magre coperte di lividi ed ematomi, un labbro spaccato su cui si era aggrumato del sangue e le mani coperte di piccoli tagli.

Ma, rispetto ad altri, si poteva dire che stesse bene.

Draco sospirò lungamente, niente traumi cranici… ed allora che diamine voleva ancora?

Alla fine, lei scosse il capo leggermente, sospirando lievemente, e sollevò gli occhi che avevano riassunto il solito cipiglio autoritario. Sorrise in modo nervoso ed automatico, prima di dire: “Scusami se ti ho disturbato… volevo solo riferirti che il Ministro mi ha chiesto di dirti che vorrebbe incontrarti la settimana prossima… per parlare della tua… situazione…”. La sua voce si era piegata a disagio sull’ultima parola, facendole distogliere lo sguardo da lui.

“Certo… la mia situazione…” replicò lui, per nulla interessato al messaggio. Non era venuta a fare l’ambasciatrice… la Granger era dannatamente cristallina quando ci si metteva. Era venuta… per altro.

Cosa, lo sapeva solo lei…

Rimase ancora in silenzio, poi, quasi preda di un’ispirazione improvvisa, Hermione gli chiese distrattamente, non guardandolo ancora in viso: “Stai bene?”.

Doveva essere davvero morto, constatò sorpreso, visto che la Granger gli chiedeva anche come stesse… voleva risponderle male, irritandola e facendo sparire quel fastidioso contegno che stava mostrandogli, ma non ce la fece ancora.

“Sto bene… me la caverò…” sussurrò, e fu quasi un riflesso automatico chiederle: “E tu?”.

Lei sembrò sorprendersi davvero per questo, serrò le spalle e lo guardò interrogativa. Poi, qualcosa le curvò lo sguardo in modo quasi dolce e sorrise in un modo che non le aveva mai visto fare: “Me la caverò anche io…”.

Draco, imbarazzato, voltò il capo dall’altra parte, concentrando tutta la sua attenzione sulle operazioni di bendaggio di Madama Chips.

“Sarebbe stupido, allo stadio attuale delle cose, dirti: teniamoci in contatto o cose simili, visto che non siamo mai stati in contatto…” la sentì bisbigliare ancora, la voce che si perdeva nel vociare confuso che li circondava.

Draco non riuscì ancora a voltarsi per guardarla in volto: “Ci mancherebbe…”.

Lei rise piano, poi proseguì: “Stammi bene allora… salutami Denise…”.

“E tu non salutarmi Weasley, Granger…” replicò infine, ghignando. Lei borbottò qualcosa, ma gli sembrò più farlo per abitudine che per effettiva irritazione.

Draco si voltò, infine, solo quando sentì i suoi passi allontanarsi. Ne seguì la chioma riccia, come quel primo giorno ad Hogwarts, sparire attraverso la folla di malati e degenti, per poi prendere l’uscita. Vedendola uscire, provò una fitta acuta allo stomaco… nel bene e nel male, dire addio alla Granger era dire addio ad un pezzo della sua vita.

La guerra era finita… anche con lei.

Chi aveva vinto, non l’avrebbe mai ammesso compiutamente… perché era lei che aveva vinto, inutile girarci attorno.

Aveva davanti a sé un futuro radioso e luminoso… lui non sapeva nemmeno se ce l’aveva un futuro… sarebbe diventata una donna importante, potente, con ruoli di responsabilità e comando.

Ci giurava che sarebbe diventata il Capo degli Auror.

Ma soprattutto era una donna amata… da Lenticchia, certo, e questo poteva essere solo una disgrazia, ma intanto era amata da qualcuno.

Poi, ovviamente, c’erano Potter e gli altri Weasley…

Sorrise, chiudendo gli occhi… non voleva essere amato, mai più… specie da tipi del genere… ma, intanto, dopo anni di scomoda lotta intestina, poteva decretare il risultato di quello scontro.

La piccola Granger aveva sconfitto il grande Draco Malfoy.

Si stese di nuovo a letto, chiudendo gli occhi. La guerra aveva avuto il pregevole dono di tirare fuori la vera natura delle persone. Comprese le loro.

Aveva tirato fuori la sua, nera come la pece e dannata più dell’inferno. Ed aveva tirato fuori quella della Granger, luminosa, chiara, trasparente come un paradiso che a lui era solo dato di guardare.

E la guerra aveva anche deciso quella che sembrava una battaglia eterna.

Lui non poteva assolutamente competere con Hermione Jane Granger.

 

Ero andata a chiedergli scusa, quel giorno.

Non mi aveva costretto Harry… ero andata a chiedergli scusa per avergli augurato di morire.

Stringo il pugno sulla superficie gelida dello specchio, immaginandomi ad un tratto in modo chiarissimo anche quello che sta succedendo, dopo che Draco mi ha visto uscire.

Sono rimasta fuori dalla tenda per una decina di minuti, una mano sul petto, andando avanti ed indietro innervosita.

Perché non ce l’avevo fatta… era stata la prima volta che mi ero sentita in imbarazzo, davanti a lui.

Non mi era mai successo, e questo mi rendeva confusa. Poi, me ne scordai ovviamente, specie perché non avevo spiegazioni.

Spiegazioni che avrei trovato sempre a fatica, quando non avrei potuto più ignorare quella sensazione, vivendo con lui.

Quella sensazione… il legame, il filo rosso… è sempre esistito. Sempre.

Già da quel giorno… certo non ci sopportavamo, ma già non ci odiavamo più. È incredibile che io lo capisca solamente adesso.

Il vero odio, contrariamente a quanto ho sempre pensato, non nacque in quegli anni, ma dopo. Quando divenni il Capo degli Auror… perché divenni quella che copriva il silenzio sulla morte dei suoi genitori. E perché, ai suoi occhi, fui la complice omertosa dell’uccisione di Helena ed Amos Diggory, visto che nessun Auror intervenne quel giorno, essendo coinvolto lui. 

Dopo, quelle cose si sono rivelate infondate…

… ma intanto avevano avuto l’enorme potere di spazzare via quel germe positivo, che mettemmo quel giorno.

L’avrei inseguito, poi, per settimane, non appena lo rividi, pensando che fosse ancora uno vetusto orgoglio Purosangue a separarci. O semplicemente la tesi che eravamo troppo diversi per stare assieme, anche solo come amici.

Quel germe, però, era già esistito.

Astoria aveva ragione, è sempre stato tutto più semplice di quello che credevamo... e forse la condanna per chi calpesta un legame del genere, di cui si dovrebbe solo essere grati, è proprio questa. Sforzarsi con la stessa forza, con cui si è negato quel legame, di ricostruirlo… e, non riuscendoci, vivere con la consapevolezza di averlo perso solo perché lo si è distrutto con le proprie mani. Questo, ha scelto Draco. Vivere con questa condanna, con questo pensiero, convinto come è, di avermi perso per sempre.

Ma oggi, Draco, anche questo finisce…

Quel legame è sempre esistito… esiste ancora oggi… e sempre esisterà…  possiamo fare qualsiasi cosa, andare, tornare, svegliarci ed addormentarci, ma esso sarà sempre lì.

Di negarlo, oramai, sappiamo entrambi che è impossibile…

E se tu hai accettato di vivere con il tormento di averlo perduto, io non lo farò mai. Mai più.

Perché è sempre lì, intero, bello, splendente, come è sempre stato anche quando non lo vedevamo.

E se vivere significa negarlo, e morire significa che esso è parte di noi… se devo morire, sapendo che è inevitabile e fatale che sono destinata ad essere tua…

… così sia.

 

Questo capitolo è stato un autentico parto!! Non so nemmeno io da quanto lo state aspettando, povere stelline mie!! Purtroppo di mezzo c’è stato, nell’ordine, un esame, le vacanze di Natale, una crisi d’ispirazione senza precedenti e tutta una serie di piccole cose rompiscatole che mi hanno distratto il cervello…J Inoltre sono troppo egocentrica per avere una beta, quindi rileggere il capitolo e scovare i mini errori è stata una pena senza precedenti…L Ma a parte questo, finalmente iniziamo a fare un po’ di ordine in questa matassa di eventi che ho messo a cuocere, entrando nella testa del bel Serpeverde!:D Devo dire che Draco mi affascina molto come personaggio e spero di essere riuscita a renderlo anche se solo in parte… voglio, come sempre, che resti assolutamente IC, credo che sia la mia prima priorità nella storia, stessa cosa ovviamente per Hermione. Quindi, siccome la mia storia segue l’andamento di quella canon fino al sesto libro, volevo assolutamente che Draco non sembrasse innamorato di Hermione già dal primo anno, cosa che ho letto in alcune fic e che, a parte alcune, non ho trovato molto convincente. Sono dell’opinione infatti che, se guardassimo solo la storia originale, Draco ed Hermione sono colmi di potenzialità l’uno nei confronti dell’altra, ma bisognerebbe introdurre un evento davvero traumatico nella vita di entrambi per farli avvicinare. Ma, lasciando le cose come stanno, non riesco proprio ad immaginare un Draco innamorato di Hermione già dal primo anno, quando la chiamava Mezzosangue e simili… insomma volevo creare una connessione tra di loro che fosse indipendente da un comune sentimento d’amore, inteso in modo tradizionale. Mi piace molto l’idea di un rapporto fatale che esiste indipendentemente da etichette come AMORE, ODIO, AMICIZIA, ecc… e mi piaceva molto anche l’idea di due persone che hanno vissuto la vita, l’una accanto all’altro, ma senza toccarsi davvero mai… questo, ripeto, è la mia personalissima idea e spero di averla resa al meglio!! Ovviamente sono aperta a qualsiasi nuova tesi…:D nel prossimo capitolo, invece, entreremo più nel vivo della vicenda, scorrendo i ricordi di Draco al Petite peste, quindi della mia “vera” storia!

Il titolo del capitolo è preso da una canzone dei Trading Yesterday, a mio dire, davvero stupenda ed adattissima a questa coppia… per chi la volesse ascoltare questo è il link di un video DRAMIONE proprio con questa canzone in sottofondo!

 

http://www.youtube.com/watch?v=DuLYt7GOmBk

 

Ora passo velocemente ai ringraziamenti e alle risposte di rito:

SHINKORO: che bello una nuova lettrice!! Ti ringrazio tantissimo dei tuoi complimenti, mi hanno fatto davvero piacere!!:D sono contenta che la storia ti sia piaciuta e che tu te la sia divorata!! Sono cose che, ad una pseudo scrittrice come me, fanno sempre piacere!! Purtroppo come avrai potuto leggere da questo capitolo, Hermione cinque anni dopo è effettivamente sposata con un’altra persona… ma in HALFT le cose non sono mai come sembrano e, tranquilla, ho sempre garantito l’happy ending tra la nostra Herm e Draco!! Grazie ancora, un bacio

SLAB: “Come diamine ha fatto Draco Malfoy ad innamorarsi di Hermione Granger?”, è la domanda da un milione di dollari, anzi di galeoni!! J ma spero che da questo e dal prossimo capitolo di dare finalmente risposta a questa domanda!! Grazie tantissimo dei tuoi complimenti, e non ti preoccupare, recensisci quando puoi e vuoi!:D un bacio!!

LADY_SLY: Ciao cara Ale!! Grazie davvero dei tuoi complimenti, lo scorso capitolo effettivamente mi è stato abbastanza difficile da scrivere, nel senso che Hermione immobilizzata in un letto, non era il massimo della vita per una descrizione accurata, ma volevo effettivamente che arrivasse quello di cui mi hai parlato tu, cioè la sensazione quasi di sentirsi soffocati dalla voglia di parlare, di fare qualsiasi cosa e di non poterlo fare.  Mi è piaciuto tantissimo il tuo paragone della mia storia ad una pianta d’edera, è un’immagine davvero affascinante e poetica!! Grazie ancora, un enorme bacio!

ERUANNE: ciao carissima!! Hermione effettivamente, soprattutto per come l’ho resa io, può rompere le scatole anche se fosse muta e sorda! In questo assomiglia molto alla sottoscritta…! Grazie della fiducia anticipata per questo capitolo, spero che ti piaccia anche dopo averlo letto… come infatti hai visto, ho seguito il tuo consiglio e ho vagato un po’ nel passato dei nostri cari Herm e Draco!!:D Non ti preoccupare dell’Hermione del futuro, già dal prossimo capitolo avrai una bella sorpresa…! Un bacio Cassie!!

PICCHIBAU: ciao cara!! È sempre bello trovare nuove lettrici! Tranquilla, in tantissime occasioni ho ribadito di non farvi “Spaventare” dall’apparente futuro nero di Hermione! Andrà tutto bene, ve lo assicuro! Un bacio e grazie a te di aver letto la mia storia! Un bacio!

STELLALE: ciao tesoro!! Grazie davvero dei tuoi complimenti, me ne fai davvero tanti tanti, me felice!! Le parti del futuro sono effettivamente un po’ laceranti anche per me, nel senso che è difficile scriverle sapendo che c’è dietro, ma davvero, dal prossimo capitolo le cose andranno meglio anche per la Herm del futuro! Per quanto riguarda la parte sul presente, anche io ho adorato (pure se l’ho scritta da sola!) la dichiarazione di Draco, rispecchia l’idea dell’amore che ho io, qualcosa di puro, totale e che non ti porta mai a cambiare te stesso, e che ti rende più libero, non più prigioniero. Volevo che si avvertisse quanto Draco fosse cambiato per merito più o meno palese di Hermione… e l’uscita di scena mi serviva così, anche se sono stata effettivamente cattivella! Pansy e Blaise volevo lasciarli come sono, due Serpeverde, odio quelle storie dove familiarizzano  subito con Hermione, anche se sono anni che non si sono mai filati di striscio. Per quanto riguarda Raissa, avrà un ruolo molto importante in futuro, e sono i segreti del mestiere spiccio che faccio lasciarla per il momento in ombra!!:D Una cosa: correggimi pure quanto vuoi!! Merito fior fior di strigliate per certi pasticci che combino!! Quindi dimmele tutte che, progressivamente, quando si spera, riuscirò a rivedere la storia che è piena di contraddizioni insopportabili, toglierò anche quegli errori! E sono stata così logorroica che il capitolo viene persino diviso in due parti!!:D grazie ancora!! Un bacio!!

VERONIC 90: grazie tantissimo dei tuoi complimenti, questi capitoli sono daaaaavveero importantissimi!! Un bacio!!

SINGER: credo che la domanda : “Come diamine ha fatto Draco Malfoy ad innamorarsi di Hermione Granger?”, sia la più quotata al mondo!! Grazie dei complimenti, un bacio!!

OPHELIA: ciao tesorina!! Tu mi fai troppi complimenti, addirittura un genio??!! Se fossi così geniale non avrei aspettato tanto tempo per scrivere ed avrei circa due miliardi di recensioni!!:D ti ringrazio davvero tantissimo, anche di tutti gli spot via facebookiana!! Raissa non convince nemmeno me che l’ho creata, ed è tutto dire… sarà lei a dirmi in che direzione vuole andare!!:D come avrai letto, alla fine ho scritto anche dei ricordi di scuola e per questo il capitolo lo dovevo per forza dividere in due…:D spero che non ti dispiaccia!!:( un bacio, tesorina!!

HELDER BLACK: ciao carissima! Sono contenta che la scena della dichiarazione ti abbia scaldato il cuore, è una cosa bellissima da sentire considerando, come sempre, quanto fossi dubbiosa al riguardo…:D grazie ancora tantissimo, un bacione!

VANILLA SKY: no, no, non tralasciare lo spagnolo per me!! Bisogna studiare!! (lo dice una che dovrebbe studiare diritto commerciale ed invece sta scrivendo da ore!!)!! grazie davvero tantissimo dei tuoi complimenti!! Hai davvero ragione, me ne ero dimenticata!! Questa storia era anche pubblicata sul sito Every little thing dedicato alle Dramione, ma poi, come centinaia di altre cose mie, mi sono dimenticata di aggiornare anche lì, sono contenta allora di averti ritrovato qui…J un enorme bacio, Cassie!!

LYLI ROSE: ciao cara, grazie dei tuoi complimenti!! Purtroppo il futuro dei cinque anni dopo si avvererà, ma non per il momento, e comunque avremo sempre il lieto fine!! Posso anticipare però che la colpa di tutto sarà di Hermione stavolta, non del povero Dracuccio!! Grazie tantissimo del tuo consiglio, effettivamente l’ho trovato molto utile, specie nell’ultimo ricordo…! Draco è veramente prolisso quando ci si mette, è un personaggio molto complesso…L grazie ancora!! Un bacio!!

SEVEN: la mia carissima Nadia!! Inutile che ti stia a dire quanto adoro le tue recensioni, sono delle vere e proprie analisi del testo, farcite delle tue riflessioni. Come dico sempre, sei il sogno di ogni pseudo scrittrice come me!! Grazie davvero della pazienza che hai nell’ascoltare tutte le mie paranoie sulla storia e simili!! Lo dico e lo ripeto, metà di HALFT è del tutto MERITO TUO!!! (ps: ho di nuovo msn andato, ma è una cosa passeggera, la risolvo in poco!) un bacio, tvb!

HALEY JAMES: Haley, ciao!! Mamma mia, grazie davvero, addirittura un libro? J Sinceramente non lo so, diciamo che questa storia è troppo legata al fandom di HP per poterla rendere autonoma ed indipendente come storia originale, dovrei stravolgere un sacco di cose e alla fine non sarebbe più la stessa… ma il fatto che tu ci abbia seriamente pensato mi ha davvero colpito e fatto piacere!! Raissa mi piace ed inquieta allo stesso tempo, mentre Hermione mi è sempre facilissima da descrivere perché, ripeto, in questa mia versione, non ho dovuto fare altro che modellarla su me stessa!! :D Blaise e Pansy li ho voluti lasciare volutamente così, diciamo che ho cercato di pensare a come si comporterebbero nella realtà due persone che vedono un loro amico mettersi con una che odiano (anche se tecnicamente non stanno ancora assieme) e penso che troppa “comprensione” mi sarebbe sembrata forzata…J un grandissimo bacio!!

Un ringraziamento particolare va alla meravigliosa SWEET TAIGA che ha realizzato una bellissima copertina di HALFT che potrete vedere se entrate nel mio profilo FB , Cassie chan EFP!! E che mi ha anche davvero pubblicizzato in modo meraviglioso nella sua storia, dateci un’occhiata, è davvero carina!! Si chiama SHE CALLED IT LOVE!! Ecco il link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=607470&i=1

Un enorme bacio anche a coloro che leggono soltanto la storia, siamo a quota 162 preferiti, 228 seguiti e 38 da ricordare!! Grazie a tutti!!

 

 

 

 

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Capitolo 31
*** Love song requiem step two ***


Capitolo 31 – Love song requiem step two

 

L’uomo non può volare… è un assioma scontato nella sua ovvietà. O perlomeno, lo dovrebbe essere.

In fondo, io, adesso, contro ogni legge fisica ed anatomica, sto effettivamente volando. In ogni senso metaforico e letterale. Quindi, come insegnano tante cose nel nostro mondo, nulla è mai troppo scontato, ovvio o banale.

La vita ha sempre lo straordinario talento di rendere tutto imprevedibilmente realizzabile.

E il bambino biondo, che si dimena sul sedile accanto a me, cercando di sporgersi dal finestrino chiuso, ne è una concreta e tangibile testimonianza.

Non avrei mai pensato, nemmeno come ipotesi remota suggerita da un pazzo con un discutibile senso dell’umorismo, di avere un figlio da Draco Malfoy.

Non ci credo nemmeno adesso, se ci ripenso… ma non perché sia assurdo, come comunque è. 

Ma perché l’incontrovertibile dato che lo rende mio e suo figlio, quel dato che porta i suoi capelli biondi, la sua aria nobile, la sua fossetta sul mento, il suo naso arricciato…

… lui è lontano da me migliaia di chilometri, milioni di secondi e miliardi di flagelli di emozioni.

È difficile concretamente ricordarmelo… ripetermelo nel cervello, per renderlo reale, per non relegarlo in una dimensione quasi onirica, dove non sono sicura che tutto sia successo sul serio.

Ogni giorno, ho fatto questo sforzo, aggrappandomi con le unghie e con i denti a Draco, per non permettere che mi scivolasse via dalle dita e dalla memoria. Era come stare aggrappata ad uno spuntone di roccia, sospesa sull’oceano ribollente, cosciente che sarebbe bastata una sola esitazione per cadere di sotto, in un oblio nero e denso, dove sarei stata rivestita di ogni giustificazione.

Quanto siamo stati assieme io e Draco, davvero? Pochissimi giorni. Da quanto siamo divisi? Cinque anni.

Voleva un figlio da me? Forse. Sa che ha già un figlio da me? No.

Che cosa ha fatto in questi cinque anni? Non lo so.

Ogni risposta era un invito a ricadere in quell’oceano, che sarebbe stato miele sulle ferite che porto dovunque per essermi attaccata al suo ricordo.

E io ho scelto il sale, invece, sulle mie ferite. Ho scelto che me le aprisse il vento. Ho scelto che me le infettasse la terra. Ho scelto che me le lavasse indolente la pioggia, senza farle mai sparire.

Contro tutto… e contro tutti.

Fino ad oggi.

Fino alle sei e trentanove di stamattina.

È stato come se il mio cuore fosse esploso in mille pezzi, sottoposto ad una deflagrazione potentissima che ha generato un calore tale da rinsaldarne, poi, i frammenti in modo compatto ed inespugnabile. O meglio… il mio cuore non è mai stato intero, da quando l’ho perso. Oggi ne sento di nuovo il confortante peso dell’interezza nel mio petto, quasi come un cucciolo addormentato sul mio torace che riscalda il mio stesso respiro.

Come quando tengo in braccio Alex, fino a quando si addormenta.

Non… mi sento… sola.

… ecco, come se si fossero venuti a ripescare dopo anni, sospesa su quella rupe, mi portassero in una casa accogliente e mi dicessero che oramai quel mare non mi ghermirà più.

Dimenticare… scordare… mai più.

Ho sempre odiato volare, sin da quando ero bambina e mia madre voleva venire a trovare mia nonna in Sicilia d’estate. Prendevamo l’aereo e io mi muovevo sul sedile tutto il tempo, agitandomi e piangendo, scatenando le reazioni scioccate dei miei genitori che non erano abituati a queste mie intemperanze, visto che ero sempre abbastanza tranquilla e posata.

Ad Hogwarts, la situazione non migliorò con la possibilità concreta di staccare i piedi dal suolo, non all’interno di un uccello di metallo solido e resistente, ma a cavallo di una fragile asta di legno: credo che la mia repulsione naturale per le scope sia ancora tramandata agli studenti di quella scuola, come l’eccezione tangibile della regola che vuole i maghi e le streghe grandi amanti delle scope.

L’uomo non può volare… è così scontato che credo che, persino da bambina, ogni cosa che ne dimostrasse minimamente il contrario, mi sembrava illogica e priva di senso.

Ergo, l’aereo, la scopa o qualsiasi altro mezzo volante, doveva schiantarsi prima o dopo, come se la forza di gravità improvvisamente si ricordasse di fare il suo ancestrale dovere.

Ed anche da adulta, sebbene cercassi sempre razionalmente di dirmi che non correvo rischi e che ci sono mezzi tecnici capaci di prevenire qualsiasi tipo d’incidente, sia a bordo di una scopa che di un aereo, mi tremavano sempre le gambe se dovevo affrontare delle prove del genere, come se io stessa fossi ancorata alla terra da una forza più forte di quella di gravità e che, staccandomi da essa, io perdessi appoggio e rifugio.

Quindi, anche se ero costretta per ipotesi a salire su un aereo o su una scopa, restavo immobile, gli occhi socchiusi, e cercavo di concentrarmi intensamente, così da convincermi di essere seduta comodamente sul mio letto, piuttosto che su un trabiccolo volante.

Fino ad oggi.

Fino alle nove e diciotto di stamattina.

Non ho smesso un secondo di guardare fuori dal finestrino, tenendo Alex in braccio che mi indicava case, alberi, palazzi, colline, montagne… e specchi d’acqua, illuminati per un attimo dal sole. Diventavano schegge di luce liquida per un secondo, poi si spegnevano mentre l’aereo se li lasciava alle spalle. Come tante schegge di vetro…

… come le schegge di vetro del vaso che Ronald ha rotto ieri sera, facendo rovinare una cascata d’acqua e fiori sul tappeto cremisi del salotto.

Attonita, l’ho sentito prendere la giacca, inforcare l’uscita ed andarsene, sbattendo la porta. Sapevo che sarebbe tornato la mattina dopo, le orecchie rosse d’ira e lo sguardo glaciale, cercando poi ogni pretesto per fare pace mediante piccoli contatti fortuiti, oppure parole sfuggite casualmente, o ancora usando Alex come ambasciatore che non può portare pena. E io avrei riso rassegnata, lasciando perdere il motivo della litigata, dicendo che non importava.

È stato questo il punto, il lasciar perdere perché non importava. Per me ha sempre avuto un motivo quasi imbarazzante nella sua indubbia chiarezza.

A me non importa più avere ragione in una discussione con lui, perché in fondo Ronald non è mio marito nel senso comune del termine.

Ovvio. Che diamine me ne dovrebbe importare allora di avere ragione, in questo caso?

Ma lui ha scambiato questo “lasciar perdere perché non importava”, decisamente per altro.

Credevo che lui lo avesse capito… l’ho sempre pensato. Insomma, come avrebbe potuto pensare il contrario? Sa perfettamente che cosa ha portato al nostro matrimonio, sa perfettamente che Alex non lo chiama nemmeno papà, sa perfettamente che persino mio figlio sa di avere un padre di nome Draco Malfoy, che ha i suoi stessi occhi e che ride nella sua stessa identica maniera.

Sa perfettamente Ronald, dei cinque regali di Natale per Draco, nascosti in soffitta, che ogni anno ho accuratamente incartato, messo sotto l’albero e portato via con le lacrime agli occhi, quando Natale passava ed era tempo di mettere a posto le decorazioni. Stessa cosa per i regali di compleanno. Cinque regali ancora incartati.

Sa perfettamente Ronald, delle novecento e tredici lettere che ho scritto a Draco in questi cinque anni, tenute assieme da un nastro verde come sarebbe piaciuto a lui, e che non ho mai potuto spedire.

Sa perfettamente Ronald, del saluto che faccio a lui ogni mattina, appena apro gli occhi: “Buongiorno Draco…”. E della buonanotte, ogni sera, alla fine della giornata che non mi ha riportato da lui: “Dormi bene, Draco…”.

Solo un sussurro, perso nelle lenzuola di cotone. Un trillo festoso che va ripetendo, invece, Alex, appena si alza da letto, da quando ha scoperto per caso che lo facevo io, ed ha preteso di imitarmi.

“Buongiorno mamma!! Buongiorno Ron!! E buongiorno anche a te, papà!!”.

Ronald sa anche di questo diario, di queste parole che scrivo ogni sera prima di addormentarmi. Lo sa, perché mi vede scrivere. Lo sa, perché me ne ha chiesto il motivo, quando ho iniziato a scriverlo quattro anni fa.

E io gli ho risposto: “Draco deve sapere tutto di questi cinque anni, quando torneremo da lui…”.

Quel giorno, corrugò la fronte ed arricciò le labbra, ma non disse nulla. E io pensavo che avesse capito. Non che ci volesse tanto, ma forse Harry gli aveva messo altre idee in testa… e comunque era meglio chiarire.

Deve aver capito, ovviamente. Questo, ho pensato.

Fino al vaso rotto.

Fino a ieri.

Fino alle ventidue e quarantasette di ieri sera.

Ronald non ha mai capito. Lui mi ha sempre seriamente considerato sua moglie, in ogni senso comune, metaforico ed anche poetico del termine.

Ha sempre seriamente pensato che, in fondo, non fosse vero che io amassi Draco Malfoy. Forse, non è nemmeno convinto che Alex sia davvero nostro figlio, anche se somiglia a Draco così tanto.

… non ha mai seriamente pensato che sarei tornata da lui, appena avessi potuto. Nessuno l’ha mai davvero pensato. Forse nemmeno i miei, Helder ed Hayden che sono stati con me in questi anni, l’hanno mai davvero creduto possibile.

Forse, pensavano che mi abituassi in fretta alla mia nuova vita da neo signora Weasley, ed accettassi fino in fondo il sacrificio da madre che mi era stato imposto e che avevo accettato.

Anche loro, forse, l’hanno sempre pensata come Ron.

Non importa.

Perché, poi, è arrivata la discussione e il vaso rotto delle ventidue e quarantasette di ieri sera. E Ronald se n’è andato, sbattendo la porta.

È arrivata la lettera in filigrana delle sei e trentanove di stamattina. Ed Helder ed Hayden mi hanno salutato, abbracciando forte me ed Alex.

Ed è arrivato l’aereo delle nove e diciotto. Ed ogni paura di volare mi è evaporata dal cuore, come se librassi io stessa per la gioia.

Mentre intravedo dopo cinque anni Londra, mentre mi si avvicina con i suoi colori e suoni che non ho mai smesso di ricordare, stringo forte mio figlio tra le braccia e la mia borsa da viaggio.

Il mio solo bagaglio.

Cinque regali di Natale, cinque regali di compleanno e novecento tredici lettere.

 

 

La mia tenue ma decisa pressione sulla superficie liscia dello specchio, impedisce alle immagini successive di prendere consistenza e forma, mentre scivolano veloci come vagoni di un treno notturno, illuminati da grappoli di luci tremule mentre sfrecciano a tutta velocità. Sotto i polpastrelli, sento il freddo che mi suscita lo specchio, propagarsi come una serie di piccoli crampi fastidiosi, anche se so che quello stesso specchio non è altro che una forma mentale data da Draco ai suoi ricordi, e che quindi, tecnicamente, nemmeno esiste.

Ma la logica, la razionalità, in questo posto, mi hanno già dato ampia prova di non esistere.

Lo specchio non è reale, ok… eppure, provo comunque quella sensazione di freddo sotto le dita, come se stessi indugiando su un pezzo di ghiaccio.

E non c’entra nulla il fatto che questo specchio abbia una fattezza così tangibile da farmi dubitare costantemente sul fatto che non sia reale. Il freddo è per quelle immagini che, nonostante la mia volontà faccia scorrere rapide come se avessi premuto un invisibile tasto di avanzamento veloce, mi sembrano sempre troppo lente, troppo cariche di dettagli e particolari che riesco comunque a cogliere, mio malgrado.

Dettagli carichi di odio, repulsione, violenza.

E di cui io sono il centro vorticante e tenebroso, nella mente di Draco.

Piego la testa come vessata da un carico opprimente ma invisibile sulle mie spalle, che mi curva la schiena come una supplice vestita solo di stracci. So che tutto questo è cambiato, ma la vividezza di quelle immagini è così sconcertante e potente da darmi le vertigini.

Draco, l’ultima volta che mi ha condotto nei suoi ricordi, mi ha persino protetto da essi, anche se aveva intenzione di farmi del male in modo da allontanarmi da lui.

Adesso, che lui non c’è a filtrarli, mi arrivano tutti, prendendomi in pieno e tagliandomi il respiro.

Sono gli anni di Helena, certo, rivedo a sprazzi ancora la loro amicizia complice trasformarsi in amore, le notti proibite, i giorni rubati, la nascita di Serenity, la morte di Amos ed Helena stessa, la disperazione e l’inerzia di Draco, l’arrivo nella sua vita di Astoria. E, rapido, vedo persino l’incontro con Seth, quando Helena era ancora viva ed aveva deciso di fondare il Petite Peste per avere una carriera alternativa alla vita da modella. Vedo, rapidi come lampi, particolari che non ho visto la prima volta, ma non mi concentro troppo, perché tutto è avvolto da una patina grigiastra, scura, come lanugine che vela ogni pensiero.

Tutto filtra dall’amore per Helena prima, e per Serenity, poi. Ovvio. Ma nulla sembra più forte dell’odio.

… dell’odio per me.

Ora non sono più la ragazzina saccente che, confrontata con lui, vinceva sempre e che lo spodestava dal suo trono in modo illegittimo, e che quindi era ovvio odiare, specie se non aveva nessuna delle doti che lui riconosceva come fondanti quella supremazia. Non sono più nemmeno la giovane donna che, per un solo ed avventato attimo, lui ha quasi stimato in quella tenda di soccorso sul campo di battaglia.

Non sono più nessuna di quelle persone.

Ora lui mi vede coperta del sangue delle persone che ha amato di più, i suoi genitori, Amos ed Helena. Sono il simbolo incarnato di tutto ciò che detesta, di tutto ciò che esiste di opposto a lui e che gli ha causato dolore e sofferenza. Pensa spesso a me, mi vedo nella sua mente dipinta di colori scuri e glaciali, un ritratto in calce di un demone travestito da angelo.

Serro il pugno, chiudendo gli occhi sotto le palpebre che tremano. Sogna di uccidermi.

Al mattino, quando si risveglia, la sua umanità lo fa riscuotere e dimenticare quelle fantasie nefaste, ma ogni notte sogna di nuovo di uccidermi. Con Harry, non riesce a prendersela, perché chiaramente lui l’ha aiutato enormemente e si sente legato a lui da un sentimento frammisto di gratitudine, invidia ed avversione.

Ma, con me, è diverso. Quella purezza che mi aveva riconosciuto, diventa per converso il mio personificare tutti quei valori estremamente bigotti ed inquadrati che hanno portato alle morti delle persone che ama. Sono pregna di quella giustizia, priva di sfaccettature, che, quando decreta un sentenza di morte, la esegue senza nemmeno battere ciglio.

In fondo… ha ragione. L’avevo già notato e pensato. Ed è il motivo per cui ho deciso da tempo che non sarò più il Capo degli Auror.

Cosa avrei fatto, solo un anno fa, se avessi saputo di tutto questo? Che Draco Malfoy mi riteneva la diretta responsabile della morte dei suoi genitori e della donna che amava?

Probabilmente nulla, lo so. Avrei replicato con tono borioso e colmo di acrobazie dialettiche, che io non ero ancora il Capo degli Auror, quando furono uccisi Lucius e Narcissa… stessa cosa per Helena. Non ero più il Capo degli Auror già da un anno. Eppure, nulla avrebbe impedito che Draco vedesse quel sangue sporcarmi le mani.

Perché l’Hermione, capo degli Auror, convinta fautrice di quella giustizia, forse avrebbe trovato milioni di giustificazioni ad entrambe quelle uccisioni.

Narcissa e Lucius erano Mangiamorte e dovevano morire, poco importa come. Se Helena era senza protezione, la colpa era di Draco e del suo aver rifiutato gli Auror.

Non ci avrei mai creduto fino in fondo, e dentro ne avrei subito un tormento lacerante… ma, di fronte a lui, come sempre è stato, dovevo vincere. Granitica come sempre.

Ora, con infinità consapevolezza, mi rendo conto che solo il mio abdicare a quel ruolo, mi ha consentito di avvicinarmi davvero a Draco.

Prima di tutto, per ragioni logistiche… se fossi stata ancora il Capo degli Auror, non avrei mai cercato un lavoro. Ma soprattutto mi sarei sentita in dovere di difendere il mio mondo e il mio ruolo, e so che avrei chiuso gli occhi davanti al suo dolore e alla sua rabbia.

… e non avrei mai capito che cosa c’è di sbagliato nell’ergersi giudice del mondo intero, segnando spartiacque di fuoco tra il vizio e la virtù, la bontà e la cattiveria… il bene e il male.

Me l’ha insegnato lui, Draco… senza volerlo ovviamente. Ma l’ha fatto.

Ed oggi non essere più io a ricoprire quel ruolo, per cui comunque ho sudato e faticato, oggi… è una benedizione.

Non saprei più essere quella persona… e non sopporterei il modo con cui Draco mi guarderebbe. Non lo potrei reggere e sopportare.

All’inizio, non me ne resi nemmeno conto, scambiai quello sguardo per il disgusto solito che aveva per me, da quando andavamo a scuola. Ma sapevo, dentro, che era diverso.

Poi, quando inquadrai la cosa… come tu sei lieto di essere Draco, io sono lieta di essere Hermione. Me stessa con le mie idee e i miei pensieri... e sono davvero stanca che tu sconti su di me colpe altrui… fu il tormento dell’inferno, non appena iniziai a provare qualcosa per lui.

Poi… un giorno… lo sguardo sparì. Cambiò, mutò, si trasformò, come un soffio di aria gelida diventa una brezza calda e soffice.

Sono qui, per quello sguardo. Per capire come fece a cambiare.

Sono qui, per questo.

Le immagini si fermano, riprendono a ritmo normale, come se rispondessero alle mie domande, individuando il lontano bandolo della matassa che ha intrecciato i nostri destini slegati.

 

A mai più arrivederci anche a te, Granger…” rispose a tono in maniera falsamente educata Draco, mentre la guardava scendere le scale.

La vide dall’alto ripercorrere con la schiena dritta la sala piena di tavolini, fermandosi solo davanti alla saracinesca abbassata, per poi chinarsi con attenzione. Sembrò indugiare qualche secondo sulla soglia, la mano di Draco si contrasse ferocemente sul corrimano. Si rilassò solo quando sentì i passi veloci di lei allontanarsi in fretta, correndo quasi. Un rivolo di sudore freddo gli scese lungo la schiena, facendolo rabbrividire.

Era stato bravo a restare calmo nel rivedere la Granger davanti a lui, dopo circa due anni che non la vedeva… l’aveva vista l’ultima volta con Weasley, quel giorno che era corso al Dipartimento degli Auror per rinunciare alla loro protezione.

L’errore più grande della sua vita… l’errore che aveva ucciso Helena.

Il respiro divenne agitato, convulso, affannato, mentre la sua schiena scivolava sulla parete su cui si era appoggiato per sostenersi, dopo la tensione che gli aveva riempito le vene di urgenza e dolore. Seduto sul pavimento, un gomito poggiato sul ginocchio piegato, si portò pensosamente una mano tra i capelli biondi, stringendone con livore una ciocca.

Era stato bravo… ma forse non sarebbe dovuto esserlo. Avrebbe dovuto ucciderla, appena l’aveva vista. Puntarle una bacchetta alla gola, vedere i suoi occhi riempirsi di lacrime, gioire del tremore nelle sue membra… poi un lampo verde e finalmente lo avrebbe lasciato in pace. Brividi freddi lo assalirono ancora e dovette serrare le labbra per fermarli. I soliti segni che conosceva bene, i segnali che il corpo gli mandava, quando si trattava di uccidere.

La febbre… la solita febbre, che non conosceva la giustizia di uccidere l’assassina di Helena.

Gli occhi grigi rotearono con fastidio, lo sguardo fisso sulle travi del pavimento.

Non era solo questo, ovviamente. In fondo, aveva già ucciso. Mangiamorte, nemici. Ed ogni giorno pianificava la morte di Pucey e Montague. Sapeva combattere oramai quella malattia, che aveva decretato il suo destino.

Avrebbe ucciso la Granger, senso di colpa, febbre altissima, rimorso… ma, dopo un po’, sarebbe stato bene. Avrebbe seppellito anche lei nel cimitero della sua mente, sempre pieno zeppo di cadaveri putrescenti.

Ma c’era Potter, ricordò con una smorfia, lui non l’avrebbe mai accettato. Ed addio protezione del ministero, garanzie con Astoria.

Ed addio anche a Serenity. E non era ancora il momento di rinunciare alla bambina.

A meno che non fosse stato proprio Potter a mandarla… e perché, poi? Non sapeva come viveva…? E la Granger sembrava effettivamente sorpresa di vederlo lì. O aveva solamente recitato? Probabilmente era così… voleva indagare. Sicuramente.

Forse su come trattava Serenity… la mano strinse il ciuffo di capelli, fino a fargli male. Erano convinti che non fosse in grado di prendersi cura di Serenity… ovvio, lui era Malfoy, non poteva fare da padre adottivo ad una bambina di un anno.

Sentiva già le loro voci, nella testa. Probabilmente pensavano, nella migliore delle ipotesi, che la trascurasse… e nella peggiore, che la maltrattasse.

Gli sovvenne il ricordo del viso di Hermione, nitido, preciso, come se ce l’avesse davanti agli occhi. Le palpebre lievi sopra le ciglia lunghe e nerissime, gli occhi castano chiaro, la pelle del collo lasciata scoperta dalla canotta rossa che indossava, le spalle magre che avrebbe potuto afferrare con una mano. Arrivò immediatamente il ricordo della sua voce, tenuemente soffusa mentre nell’oscurità della sua stanza sussurrava: “Harry non mi ha mandato qui, Malfoy… e, se questo può consolarti, io non so minimamente chi sia questa Serenity…”.

Stava mentendo… stava mentendo quella dannata Mezzosangue… avrebbe dovuto ucciderla, altroché… ed invece le aveva anche retto il gioco.

“Dannazione!” urlò, picchiando violentemente il pugno contro il pavimento. Le nocche si graffiarono, perdendo qualche flebile goccia di sangue.

Si riscosse immediatamente, quando sentì dei passi su per le scale, alzandosi in piedi e scuotendo la polvere dai jeans neri. In una manciata di rapidissimi secondi, il suo volto perse tutta l’angoscia e la preoccupazione che, assieme con la rabbia e l’odio, avevano scavato di profonde rughe la sua espressione. Liscia come l’avorio, la sua pelle riassunse un colorito normale e un cipiglio tranquillo, mentre fingeva di attardarsi annoiato sulle scale.

“Eri qui, Danny? È andata via la tua amica?” chiese Seth con tono gentile, salendo le scale e guardando il ragazzo biondo. Draco irrigidì le spalle, l’espressione raggelata, mentre un groppo pesante in gola gli impediva di respirare e parlare normalmente.

Respirò profondamente, cercando di dissimulare nonchalance e tranquillità: “Certo… possiamo finire l’inventario…” ed iniziò pigramente a scendere le scale, il magone che non passava.

Superò Seth, mentre diceva scherzando: “E’ una ragazza carina! Un po’ nevrastenica, ma sembra simpatica… non so se avrebbe mai potuto fare la cameriera, è troppo poco paziente. Purtroppo non ho potuto assumerla, non aveva referenze… e per il party abbiamo bisogno di una ragazza esperta” soggiunse Seth con voce contrita, mentre Draco capiva con ulteriore rabbia, l’inganno che aveva ordito la Granger. Fingere di essere alla ricerca di un lavoro e circuire quell’ingenuo di Seth.

Strinse i pugni, mentre il ragazzo chiedeva con voce tranquilla: “La conosci da tanto?”.

Draco sospirò lungamente, chiedendosi se Seth stesse solo tentando di fare conversazione oppure se stesse effettivamente indagando sulla Granger e sul loro inesistente legame. Avrebbe voluto urlargli tutto contro, rivelando che lei era l’indiretta responsabile della morte della sola donna che avesse mai amato e la complice degli assassini dei suoi genitori, e, per un attimo folle, ci pensò seriamente. Seth era un buon amico e, sebbene tutta la sua vita per lui fosse un mistero e un carico cospicuo di bugie, sapeva che il giorno in cui si fosse deciso a dirgli la verità, Seth avrebbe capito. Dalle questioni sui Purosangue e Mezzosangue, fino al suo destino segnato di futuro Mangiamorte, arrivando persino al suo tradimento.

Era convinto Draco, che Seth avrebbe capito entrambi i tradimenti, che ancora bruciavano nelle sue vene come lava incandescente.

Quello verso i suoi genitori, quando era diventato una spia per l’Ordine.

Quello verso Amos Diggory, quando era diventato l’amante di sua moglie.

Seth avrebbe capito e lo avrebbe giustificato, assolto, scagionato dalle sue colpe. E lui non lo voleva. Era questo il punto. Voleva restare quello che era, anche agli occhi di Seth… la finzione di quel Danny Ryan, che era un uomo senza passato.

Puro, candido, innocente, come solo una finzione può essere.

Dentro, invece, sarebbe rimasto Draco Malfoy, il traditore di ogni parte del mondo. Quell’uomo non meritava alcun ristoro o alcun sollievo alla sua condizione.

Draco, spesso, concepiva il tutto come un qualcosa di clamorosamente scontato… quell’uomo meritava di morire, non appena avesse affidato Serenity a chi ritenesse degno di crescerla e non appena avesse ucciso Pucey e Montague.

E la Granger? Era un’altra vita che doveva prendere?

Probabilmente sì… più realisticamente no.

Per Potter, certo… e poi non desiderava realmente ucciderla. Non era un mostro, non lo era mai stato.

Una vita fa, avrebbe aggiunto a quel “non lo era mai stato” un “suo malgrado”. Non saper uccidere era stata la condanna sulla sua testa, in fondo.  Il motivo per cui i suoi genitori lo avevano rifiutato e scacciato.

Non amava prendere delle vite, non lo aveva mai amato nemmeno in guerra. Ma se fosse stato costretto, le cose sarebbero cambiate.

La Granger non doveva mai più avvicinarsi a lui, se aveva cara la pelle.

Sibilò freddo come il vento, ricordandosi della presenza di Seth e della sua ancora sospesa domanda: “Era una mia compagna di scuola, Seth… ma non ci siamo mai sopportati…”.

Divennero un sussurro di minaccia le sue ultime parole, mentre si voltava guardando fisso l’amico negli occhi con espressione raggelante.

Seth trasalì, non abituato a quel viso, così strano sul guscio vuoto che rispondeva al nome di Danny Ryan, ma perfetto come se fosse nato solo per quello, se lo si legava al nome Draco Malfoy.

“… non voglio più vederla qui dentro…”.

 

Se avessi saputo tutto questo, se avessi saputo di questo suo viso… e persino della sua risolutezza ad uccidermi, se mi fossi avvicinata troppo a lui e a Serenity…

Sicuramente non avrei davvero messo più piede al Petite Peste… e io che pensavo che era il solito odio dei tempi della scuola…

Devo ringraziare di come siano andate le cose… e di come questo odio così raggelante, un giorno, si sia trasformato in amore.

Non riesce la paura a scalfirmi, ovviamente. Non potrei mai temerlo adesso. Per come lo amo e come ho sentito distintamente lui confessare di amare me, non posso averne paura.

Ma non riesco a smettere di chiedermi come sia potuto tutto questo cambiare…

… dato che io, ingenua, il giorno dopo, ero già di nuovo davanti ai suoi occhi.

 

Draco Lucius Malfoy non aveva un gran numero di giornate da enumerare, come “le più belle della sua vita”. Erano poche, da potersi contare sulle dita di una mano.

Nemmeno i giorni con Helena, constatò con un lieve sospiro che si perse nel vento, potevano essere considerate tali. Certo, era meraviglioso stare con lei, ma nel sottofondo della sua anima, il pensiero di Amos e l’angoscia per il loro futuro, gli impediva di essere felice appieno, di godersi quei momenti che, ancora non lo sapeva, avrebbero avuto breve durata. Inoltre, Helena era sempre stata bravissima nel lasciarlo in un perenne stato d’insoddisfazione, che lo consumava fino alla volta in cui l’avrebbe avuta di nuovo. Non era solo il sesso, ma era soprattutto la distanza che comunque preservava nei suoi confronti, ed il fatto che, nel bene e nel male, aveva sempre rifiutato di considerarsi sua.

Era la moglie fedifraga di Amos Diggory, ma intanto, ci teneva sempre a sottolineare con un gesto, con una parola, con una curva delle labbra, che era comunque sua moglie.

Draco sospirò ancora, afferrando una manciata di sabbia ed osservandone poi i minuscoli granuli disperdersi nel vento, mentre le sue dita si aprivano lentamente. Gettò un’occhiata in tralice a Serenity, che, seduta sulla sabbia accanto a lui, contemplava affascinata il volo dei gabbiani, frecce d’argento nel cielo turchino e riflessi di luna nell’acqua cobalto del mare. Gli occhi di Serenity erano identici a quelli di Helena, quando venivano lì, su quella spiaggia dove era stata per la prima volta con Cedric Diggory e dove aveva conosciuto per la prima, e forse l’unica volta, la speranza di un destino diverso.

Ci tornava spesso Helena, se lo ricordava ancora, forse perché ne traeva quella speranza, assente ora nel suo corpo e nella sua mente. E Draco, dalla sua morte, aveva preso a venirci anche lui spesso, traendone solo il beneficio di un nitido ricordo di lei.

La speranza era annegata da anni… da un ricordo che non sapeva nemmeno di possedere ancora. Sciarpa calda e guance rosse.

La speranza spariva con i ricordi di Helena. Persino la villa che lei amava guardare, era stata messa in vendita.

I ricordi di Helena, profumati di ciliegia, perdevano definizione ogni giorno. Cercava di trattenerli come poteva, ma sapeva che presto sarebbero stati sempre meno netti. 

Era il meccanismo della sua mente per continuare a sopravvivere, dimenticando in parte quel dolore. La sua mente agiva così, senza una sua specifica volontà in proposito. Non gli interessava sopravvivere, era disperato all’idea di dimenticarla.

E nemmeno il quadro vivo di lei, era una consolazione. Non dipingeva un tratto, da quando lei era morta.

Helena si era augurata per lui, una sequela di giornate da chiamare le “più belle della sua vita”, quando gli aveva lasciato il suo ultimo messaggio. Si era augurata anche una donna, che gliele facesse vivere.

Assurdo, constatò come sempre, stendendosi sulla sabbia, le braccia piegate sotto la nuca, e chiudendo gli occhi, le voci di rari bagnanti nella testa come un eco morente.

Anche quel giorno, il conteggio delle giornate più belle della sua vita era fisso sul numero tre.

Una mattina in cui suo padre aveva trascorso tutto il tempo con lui e sua madre, insegnandogli il Quidditch. Il sorteggio come Serpeverde. Serenity che diceva la sua prima parola: “Danny”.

La consolazione magra che poteva darsi e raccontare allo spirito di Helena, quasi come una giustificazione, era che anche quelle “più brutte” erano ferme da qualche mese al numero tre.

Le parole di Piton che dicevano che non poteva essere un Mangiamorte. Il ricordo della morte dei suoi genitori. La morte di Amos e quella di Helena.

Draco aveva invece un’invidiabile serie di giornate da definire “fastidiose”, al punto che, se avesse dovuto fare una sintesi dei suoi ventitré anni di vita, quell’etichetta era applicabile ad una buona metà dei suoi giorni.

Sapeva che era anche il suo carattere, poco incline a sopportare la gente in generale, ad infastidirlo più del dovuto di fronte ad una sequela innumerevole di cose. Ad alcune giornate, poteva attribuire quell’appellativo, anche se una ragazza lo aveva fissato per strada, o se un commesso aveva cercato di vendergli qualche cosa di più. E nonostante non potesse negare di essere anche sollevato di vivere da babbano, aveva anche notato che il fastidio era aumentato da quando era senza poteri, visto che doveva usare mezzi pubblici, avere a che fare con il traffico londinese e così via.

Eppure, se avesse dovuto dare una pole position alla sua giornata più “fastidiosa”, quella odierna vinceva assolutamente su tutte. E la cosa meno confortante era che non era nemmeno finita.

Stilò una lista di sufficienti argomenti che perorassero questa sua ultima tesi e quel poco auspicabile primato, gli occhi ancora chiusi mentre restava supino, di lui restava attento solo l’udito per verificare che Serenity non iniziasse a piangere.

Punto primo, la Granger. Si era ripresentata al Petite Peste, a quanto pare ancora con la recita della ricerca del lavoro in piedi.

Quando se l’era rivista davanti, aveva fatto eco a tutta la sua forza per non schiantarla all’istante. Ma ovviamente non poteva farlo, perché era in una stanza piena di babbani, con cui viveva e lavorava ogni giorno: l’incantesimo di memoria, poi, non era mai stato il suo forte e nessuno, tantomeno la Granger, lo avrebbe messo nelle condizioni di chiedere aiuto ad Astoria, che invece sapeva fare quasi solo quello.

Aveva retto ancora il gioco all’Auror, solo per difendere la sua copertura, ed era rimasto oltremodo sconvolto dalla faccia di bronzo della Granger. Non soltanto continuava nella recita del posto di lavoro, ma si era persino meravigliata che lui non glielo avesse dato sul serio! Il fastidio per la Granger in generale era, poi, anche acuito da molti punti che non gli tornavano della vicenda.

Lei aveva accennato ad una condanna, che doveva aver ricevuto e su cui lui si sarebbe potuto fare due risate… che diamine voleva dire? Era stata condannata? E da chi? E per cosa?

Perché poi, se voleva fare delle indagini su di lui, continuava con quella messinscena, sicuramente poco positiva visto che lui comunque non le avrebbe dato il lavoro? Poteva benissimo fare irruzione al suo locale con una decina di Auror, fare delle perquisizioni e liquidare in fretta la vicenda. Invece, no, evidentemente aveva optato per la tortura mentale.

Si morse il labbro inferiore, forse la vita della Granger era così patetica da volerlo indurre ad ucciderla… lui sarebbe stato arrestato, Serenity gli sarebbe stato tolta e lei sarebbe morta come un’eroina.

Altrimenti non sapeva come spiegarsi come si azzardava anche a nominare suo padre… “sei identico a tuo padre”… magari lo fosse stato, pensò stringendo le labbra. Lucius l’avrebbe uccisa con una semplice scrollata di spalle.

Lui, invece, era riuscito a resistere, anche dopo quel commento. Certo, aveva immaginato con sublime soddisfazione di ammazzarla sul serio ed aveva sentito il viso infiammarsi di collera così tanto da credere di esplodere, ma ce l’aveva fatta.

Ne andava dei suoi progetti di vita: la sua vendetta e la cura di Serenity. Solo pensando a quelle due cose, era riuscito a darsi forza sufficiente.

Ma la Granger, sebbene in modo incomprensibile, aveva anche in parte ragione. E con questo si arrivava al punto secondo: Seth Green.

Sì, perché se la Granger si era sentita in dovere di presentarsi nuovamente da lui, era stato anche per lui, che l’aveva assunta a sua insaputa.

Quando lei se ne era andata, gli aveva urlato contro per ore, lui che assumeva la sua espressione da cucciolo abbandonato sotto la neve, ma gli occhi verdi del ragazzo continuavano a scintillare ispirati.

Ergo, qualsiasi cosa avesse in mente, assumendo la Granger, non gli era ancora passata.

Draco sospirò a lungo, non che fosse un mistero che cosa volesse da lei… e nella sua mente maledisse ancora quella dannata strega. Seth aveva un’adorazione per lui, era evidente, e conoscere una ragazza del suo passato, doveva essere stato come un imprevisto regalo di Natale. Da quando lo conosceva, si era sempre profuso in miliardi di domande su di lui e sul suo passato, non sapendo quanto scavava nel torbido. Per fortuna, di Helena aveva un tenue ricordo e non aveva avuto modo di collegarla a lui, credendo solo che fosse la sorella di Summer. Quindi, ora che si era trovato davanti una ragazza che sicuramente sapeva molte cose su di lui, era chiaro che avrebbe sfruttato la cosa. Inoltre, Seth era fondamentalmente buono, era capace di affezionarsi a chiunque ed infatti tutti gli volevano bene; Draco non era pertanto sorpreso che sembrasse nutrire una certa simpatia anche per la Granger. Come diamine facesse ancora non era chiaro…

Punto terzo: ovviamente Astoria, che aveva montato un teatrino assurdo quando aveva visto la Granger. L’aveva incantata, costringendola a credere che lei fosse davvero Summer Breeze Layton, e questo aveva evitato a Draco che la Granger fosse ulteriormente insospettita dalla presenza della sorella minore di Helena. Ma ovviamente, aveva evitato una parte del problema, perché Astoria, che già non aveva mai visto di buon occhio la Granger come qualsiasi Serpeverde che si rispetti, aveva fatto una scenata pazzesca dato che era convinta che fosse stato lui a farla venire, in modo da trovare un modo per spezzare la Promissio Gemina. Non ci aveva tenuto a sottolinearle che, se così fosse stato, avrebbe accolto la Granger spargendo petali di rosa per aria ed intonando canti propiziatori, visto che quella farsa dell’essere fidanzati doveva durare ben sette anni. Ne era passato solo poco più di uno, e già si era pentito amaramente di come si fosse lasciato incastrare.

E, con questo, per collegamento di idee, si arrivava al punto quarto: Potter. Erano giorni che cercava di contattarlo, innervosendosi di volta in volta alle sue mancate risposte e ai vari messaggi della segretaria che, schioccando la lingua con fastidio ed irritazione, ripeteva che il Ministro era occupato. Come diamine si azzardava Potter ad ignorarlo in quel modo? Una parte razionale della sua mente sapeva che Potter, in fondo, era il Ministro, era anche abbastanza normale che fosse occupato.

Ed una vocina estremamente fastidiosa, che parlava anche curiosamente in modo molto simile alla Granger, insinuava anche che il suo ex nemico di scuola avesse fatto davvero tanto per lui, in quegli anni.

Ma la sua propensione allo sdegno aristocratico, non gli impediva comunque di sentirsi quasi offeso dal fatto che, nonostante avesse lasciato decine di messaggi, Potter non si decideva a richiamarlo.

Si levò bruscamente a sedere, piegando un braccio sul ginocchio. Inoltre, se Potter lo stava evitando, questo deponeva decisamente per la tesi per cui sapesse perfettamente della Granger e del tormento che gli stava dando.

Sperava solamente che con quell’ultimo sgradevole incontro, la parentesi Granger si fosse finalmente conclusa… chiuse gli occhi sofferente, stava cercando di evitare di farle del male, ma forse la prossima volta il tormento dell’inferno, che per colpa anche sua stava vivendo, lo avrebbe travolto al punto tale da rendergli impossibile rispettare la sua vera natura, che in fondo non era malvagia.

L’avrebbe uccisa. E sapeva anche che avrebbe potuto ucciderla in un modo terribile.

Respirò a fondo l’aria dell’oceano, cercando di ricavare dal profumo penetrante dello iodio una calma che non possedeva e che sperava che sarebbe giunta dal paradiso, dove si trovava Helena. Ma lei, come sempre, non lo ascoltava mai, taceva nella sua culla turchina, sorda alle preghiere sue e di sua figlia. Quasi lo derideva nel suo silenzio, mostrandogli a cosa lui invece fosse simile… non alla placida assennatezza del mare, ma al torbido carnevale della pioggia.

Lontano, risuonò un tuono, che squarciò il silenzio di voci di gente che iniziava ad affannarsi per evitare il vicino fortunale, mentre iniziavano a cadere pesanti gocce dal cielo, improvvisamente ricolmo di nubi.

Draco riaprì gli occhi gemelli di quel cielo spezzato, mentre la pioggia aumentava di intensità, affrettandosi a raccogliere Serenity per riportarla in macchina. La bambina aveva messo su un pianterello isterico e innervosito, sicuramente indotto dalla paura che aveva dei tuoni, che oramai si susseguivano velocemente, incalzando la pioggia con il loro rombare. Sistemò la bambina sul seggiolino, sistemato con cura sui sedili posteriori, assicurandosi che non si fosse bagnata, mentre Serenity continuava a piagnucolare, tirando su con il nasino. Draco cercò di rassicurarla come poteva, ma alla vista della coda che si stava formando per tornare in città, decise di tornare subito al posto di guida per ripartire, prima di trovarsi imbottigliato nel traffico crescente. Cosa che comunque non riuscì ad evitare, la pioggia iniziò a cadere sempre più forte mentre si avvicinava quasi a passo d’uomo a Londra, le strade completamente intasate.

Draco cercava ancora di rassicurare Serenity, ma la bambina non ne voleva sapere di stare tranquilla.

Quando arrivò finalmente al Petite Peste, oramai un’ora dopo, era già scesa la sera e la pioggia non aveva smesso un secondo di scendere, anzi dal grado di allagamento delle strade, a Londra doveva aver iniziato a piovere molto prima. Tamburellando sul volante all’ennesimo semaforo rosso e cercando di far concentrare Serenity sulla versione storpiata della favola del Brutto Anatroccolo, dato che non ricordava assolutamente come finisse, Draco si chiese per l’ennesima volta come diamine aveva fatto ad arrivare a vivere quella vita, la vita di un ragazzo padre babbano, con un locale sulle spalle, un amico iperprotettivo e una fidanzata nevrastenica.

Era stata Helena, era tutta dannatamente colpa sua. La vedeva persino ridere di quel sorriso dolce, accucciata in un angolo del cielo, lei che magari l’aveva anche rimpianta una vita simile. E lui, invece, non aveva nessuna vita da desiderare.

Non desiderava tornare alla Magia, se non per strette esigenze concrete e funzionali, tipo la Smaterializzazione che mai come ora, sarebbe stata utile.

Non desiderava tornare ad essere Draco Malfoy… ma non desiderava nemmeno continuare ad esistere in quella bugia incarnata, il cui stesso nome era un altro di quelli che aveva posseduto Helena. Danny Ryan, l’originale.

In fondo, pensò seguendo con lo sguardo una goccia di pioggia che cadeva lungo il vetro, tingendosi del verde della luce del semaforo, non desiderava esistere affatto.

Fosse evaporato come l’acqua che il cielo riversava sull’asfalto… sarebbe stata la giusta fine, per uno come lui. Silenzio. Pace. Quiete. Li agognava come miele dorato.

Dallo specchietto retrovisore, gli occhi colmi di lacrime di Serenity furono come sempre la corda che lo legavano alla vita, che lo riportavano a galla dal mondo gonfio di morte, in cui annegava la testa, annaspando nel sangue che aveva versato per essere ancora lì. Respirò profondamente, giungendo infine nel cortile esterno del Petite Peste e parcheggiando la macchina. Armeggiò con la cintura di sicurezza, liberandosi infine, ed uscì fuori, cercando di non bagnarsi mentre prendeva Serenity, avvolgendola nel suo cappottino verde. La bambina, dal pianto leggero e tutto sommato ignorabile che aveva mantenuto fino a poco prima, proruppe in una serie di schiamazzi umanamente impossibili in un esserino così piccolo, dimenandosi come una  furia tra le braccia di Draco. Stranamente nella sua psiche infantile, non voleva uscire dalla macchina… magari, aveva capito che tra poco avrebbero dovuto rincontrare Astoria… afferrando tra le manine una ciocca di capelli di Draco e tirando forte, Serenity cercò ovviamente di far intendere a “suo fratello” che non era poi così d’accordo con l’idea di tornare a casa da quella strega e che potevano benissimo intraprendere un viaggio in Cina.

Il risultato fu che Draco ci mise circa tre ore a trovare la chiave di casa, bagnandosi completamente i piedi, coperti dalle scarpe leggere di tela, e, solo all’interno, quando evidentemente si rese conto che Astoria non c’era, Serenity finalmente si calmò, erompendo in trilli estatici. Draco sospirò, era peggio di sua madre quando ci si metteva… doveva essere nata, come sua madre, per rendergli la vita un inferno.

Si rendeva conto confusamente di essere vagamente negativo in quella giornata, come sempre del resto, perché sapeva anche di adorare Serenity e di aver amato profondamente sua madre Helena.

Ma era in giornate come quelle, fastidiose come quelle, che riviveva inconsciamente lo strazio dei giorni senza di lei… e tutto quindi era inferno. Lui, Helena, Serenity, la sua vita.

Tutto.

Con quel pensiero, aprì la porta di scatto, sbattendola subito alle sue spalle, bofonchiando a mo’ di saluto: “Serenity deve essere nata decisamente per rendermi le serate un inferno!”. Le scarpe, completamente zuppe, gocciavano sul pavimento, ne osservò le travi di legno bagnarsi progressivamente. Quando sollevò lo sguardo, inizialmente non notò la presenza incuriosita e divertita di Seth che sostava pigramente davanti a lui. I suoi occhi furono catalizzati completamente da qualcosa alle sue spalle.

La Granger. Ancora.

Per un attimo lunghissimo e sciocco, Draco si chiese sbigottito se non se la stesse semplicemente immaginando, se il fastidio di quella giornata non si fosse tradotto in una visione assolutamente molesta e sgradita. Ma la visione era troppo reale per non immaginare che fosse lei, sul serio… la ragazza era seduta a gambe incrociate sul letto di Seth, una mano sospesa per aria mentre portava alla bocca delle patatine. A questo, si aggiungeva il fatto che non indossasse lo stesso vestito azzurro della mattina, ma un paio di shorts neri ed una maglia rossa; come se non bastasse, poi, aveva i capelli vistosamente umidi e sembrava che si fosse appena fatta una bella doccia.

Ancora una volta, come se fosse stata chiaramente invitata a restare, A CASA SUA.

Il nervosismo gli tinse il viso di rosso, facendolo sentire accaldato e vagamente claustrofobico, sensazione che aumentò al sospiro malcelato di lei, mentre alzava gli occhi al cielo. Lei si permetteva di alzare gli occhi al cielo?? Lei??!! Il perenne ospite sgradito???!! Si può sapere che razza di interesse masochistico aveva sviluppato nei suoi confronti da stargli costantemente davanti ai piedi? Non ce l’aveva una vita sua? E poi… se voleva controllarlo, non poteva essere diretta come sempre e smetterla con tutte ste sceneggiate? Ovviamente, sperava di fargli perdere la pazienza… dimostrando quanto del Mangiamorte che non era mai stato, c’era ancora in lui.

Non sapeva quanto fosse vicina a rincontrarlo, le dita fremevano di rabbia, mentre ostentava indifferenza, stringendo Serenity con il terrore di vederla sparire. La bambina, quasi come se stesse percependo la tensione che si era venuta a creare nella stanza, era rimasta in un muto silenzio, non proferendo più nemmeno l’ombra di un sospiro o di una risata.

Improvvisamente, il viso della Granger cambiò repentinamente, mentre sbatteva le palpebre un paio di volte, assumendo un’espressione incredula mentre lo fissava, le labbra leggermente dischiuse nella forma quasi di una piccola “o”.  E Draco, con una stretta gelata attorno al collo, ricordò repentinamente della presenza di Serenity ancora tra le sue braccia. Il senso di possesso su quella che considerava alla stregua di sua figlia, si mescolò con l’imbarazzo, quando Serenity lasciò perdere le vicende dei grandi che ovviamente non poteva decifrare, e mise su di nuovo il broncio, biascicando: “Danny! Danny! Fame!!!”. Era così assurda quella situazione, paradossale… al punto da desiderare di fuggire pur di non continuare a viverla.

Sentiva il peso del suo stesso corpo inchiodarlo al suolo, come quelle farfalle trafitte da collezionisti sempre troppo poco consci della loro evidente crudeltà.

E lui quello era, al momento… infilzato in bella mostra davanti alla Granger, sadicamente interessata ai colori della sua vita, alla ricerca spasmodica di quel tono scuro che lo avrebbe fatto gettare nella spazzatura del mondo. Di nuovo.

Lo sguardo che lei possedeva, aveva come sempre qualcosa di clinico, di chirurgico, nel modo che aveva di scandagliargli il viso, i tratti, le espressioni, come se fosse sempre sotto una lente d’ingrandimento.

Una parte tremolante del suo pensiero, gli ricordava che era sempre così con lei… la Granger era proprio fatta così, non lo faceva apposta. Era nata con quello sguardo d’agata, che ti perforava il cervello.

Ma, ovviamente, la maggior parte del suo riflettere non poteva essere razionale e lucido, andando anche a recuperare quel particolare che aveva sempre conosciuto di lei.

Notò piuttosto che gli occhi della Granger trasudavano sorpresa e, con un fremito delle dita nervose, Draco immaginava quello stesso stupore perfettamente cesellato sul suo volto, con la maestria di uno scalpellino o di uno scultore formidabile.

Esibito ad uso e costume, della risoluzione incomprensibile che aveva preso, da qualche giorno. E cioè quella di rovinargli la vita.

Era inutile la sorpresa, visto che sapeva perfettamente che quella era la figlia di Helena, anche se non l’aveva mai vista in viso. Chiunque avrebbe potuto riconoscere in Serenity sua madre.

Ma se la sorpresa era inutile e fastidiosa, l’ilarità, che cercava di trattenere a fatica e che evidentemente doveva essere per lei massima nel vederlo nelle vesti imbranate e poco abili di giovane padre, fu la cosiddetta goccia che fece traboccare il vaso.

Fu quell’espressione a gelargli il pensiero ed il cuore, facendogli percepire persino Serenity come un corpo estraneo tra le sue braccia, come se nelle sue vene ormai scorresse solo il ghiaccio di un solo pensiero.

Doveva finire oggi… quella patetica sceneggiata… in quel momento… lei non era nessuno per starsene lì, sul suo solito scranno da Regina del Mondo, a giudicare la sua vita…

Poco importava il modo, poco importava il mezzo… ma oggi doveva finire. Si sarebbe pentita di aver rimesso piede lì.

“Un attimo, Serenity…” sentì Seth rispondere al posto suo, evidentemente comprendendo che non era aria. Sperava che si fosse finalmente reso conto che mettere quella ragazza nella sua stessa stanza, significava evidentemente che la voleva morta.

La Granger, alle scarne parole di Seth, sembrò riassumere un’espressione pensierosa, che le curvò il viso in uno sguardo di profonda riflessione, venandolo di improvviso sospetto. Draco la ignorò palesemente, restando immobile al suo posto, incapace di muoversi, finché di fronte al prolungato silenzio, Seth pensò bene di prendere in braccio Serenity, togliendogliela dalle mani gelide e trascinarsela dietro, chiudendosi la porta alle spalle.

Fu quel rapido contatto a farlo ritornare in sé, come se fosse ritornato da una dimensione lontanissima, la decisione di farla finita oggi ancora nel suo corpo, mentre cercava una soluzione che non implicasse l’idea di ucciderla. Sospirò vistosamente, poggiando una busta della spesa sul tavolo della cucina e prendendone a sistemare il contenuto, fingendo di non accorgersi minimamente di lei. La testa macinava alla velocità della luce, alla ricerca di una risposta, di una soluzione, gli occhi grigi apparentemente persi nelle sue faccende. In realtà, la soluzione c’era ed era semplicissima… ucciderla… ma ancora per chissà quale motivo, non voleva.

E non c’entrava nulla l’avere a che fare con il Capo degli Auror, o il dover affrontare Potter, se le avesse fatto del male.

Ancora, qualcosa lo teneva fermo nella risoluzione di non torcerle un capello, nonostante lei fosse la diretta responsabile del male di cui era piena la sua esistenza.

Ancora… era più facile convincersi a non toccarla, piuttosto che ad ucciderla. Come sempre, era quella la malattia che non lo lasciava mai in pace, nonostante i suoi propositi. La malattia del non uccidere.

Quella, per cui non era un Mangiamorte. Quella, per cui trovò un’altra soluzione, non appena, dalla stanza accanto, sentì uno sbuffo impaziente e il rumore di cose spostate. Se ne stava andando… di nuovo…

“Non questa volta, Granger…” pensò, voltandosi su sé stesso per ritornare sui suoi passi.

E, in pochi secondi, le arrivò davanti, fermandosi a pochi centimetri da lei, che era china a raccogliere le sue scarpe.

“Che c’è?!” replicò la Granger nervosa, sollevandosi, l’orecchio allenato di Draco colse un’incertezza strana della sua voce, quasi come l’eco di un pianto, ma non ci si soffermò nemmeno per un secondo.

La vicinanza improvvisa di lei, al punto da sentirne il profumo di vaniglia e tè nero, gli fece ricordare i giorni del suo passato… compresa l’ultima volta che l’aveva vista.

Il Ministero, lei con Weasley che rideva della risata di Helena…

Helena…

La rabbia fu così forte nel suo petto, da non permettere nemmeno al ricordo o al rimpianto della donna amata di farsi strada dentro di lui.

Ne soppesò con lo sguardo tutta la figura, quei tratti che, per chissà che curioso controsenso della sua psiche, a volte sembravano assomigliare a quelli di Helena. Non quando parlava con lui, ovviamente, ma quando il suo sguardo era posto in qualsiasi altra direzione. Quella stessa mattina, mentre parlava con gli altri, prima di accorgersi della sua presenza… quei pochi attimi, la piega strana delle sue labbra o il bagliore degli occhi… sembrava… quasi lei… perché, dannazione?

Perché, dannazione, se adesso invece era così diversa da Helena da ricordargli costantemente il loro divario inesauribile, il divario che Helena avrebbe avuto con qualsiasi donna esistente, soprattutto con lei?

Lei che continuava a mantenere quell’espressione da Regina del Mondo… aggrottava le sopracciglia e stringeva gli occhi di risentimento. Ora… non era lei… ora, Draco, si chiedeva come diamine avesse visto Helena anche per un secondo, in lei.

Lei, che come uno scherzo della natura, indossava persino la maglia da calcio che gli aveva regalato Seth, ma che lui non aveva mai indossato, specificando che detestava il calcio.

Testimonianza, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Seth aveva già preso in simpatia la Granger: Seth idolatrava quella maglia e non la faceva indossare a nessuno, visto che lui, Draco, l’aveva indossata una volta. E quindi lo aveva sorpreso, spesso, a sniffarla come se si trattasse di cocaina.

Ora l’aveva data alla Granger.

I suoi occhi grigi tornarono al suo viso e le sue labbra si arricciarono in una smorfia di repulsione, per il pensiero che ora la stesse indossando lei.

Lei sollevò ancora gli occhi al cielo, riprendendo a raccogliere le sue scarpe. Fu allora, vedendola così indifesa e al contempo ancora pregna di quell’ostinazione cocciuta che era stata la vera responsabile della morte di Helena, che Draco perse le ultime resistenze, decidendo di agire. La afferrò brutalmente per il polso, la sua pelle era calda, quasi bollente, ma Draco non se ne accorse neppure. Nelle orecchie, il tonfo sordo dei sandali bianchi di lei che ricadevano sul pavimento di marmo.

Mentre era ancora china, la Granger sollevò autenticamente sorpresa i suoi occhi, come se davvero non se lo aspettasse da lui. La sua pelle tremò per il dolore, ne percepì la tensione forte sotto le dita, mentre lei continuava a guardarlo, una nebbia fosca di lacrime negli occhi. Si sarebbe fermato se l’avesse vista piangere? Probabilmente no… o forse sì.

Ma le lacrime della Granger non erano per il dolore. Appariva solo frustrata, nervosa, impotente. E questo non bastò a farlo fermare, mentre nella mente ripeteva la formula per la Legilimanzia. Per violarle la mente.

La soluzione per non ucciderla… ma si aspettava che lo fermasse da un momento all’altro. Quindi rimase concentrato, cercando di leggerle i pensieri quanto prima possibile.

“Malfoy, nel caso in cui la tua ristretta scatola cranica non l’abbia immagazzinato come concetto, me ne sto andando…” sussurrò lei tagliente, cercando di mantenere ferma la voce, ma ancora lui non se ne dette pena.

Continuando a tenerla per il polso, con un strattone la sollevò violentemente dalla posizione accovacciata in cui era, facendola ritrovare in piedi davanti a lui che continuava a trattenerla per il braccio sollevato, guardandola negli occhi. Doveva restare immobile, fermo, e non perdere la concentrazione. Era senza bacchetta e doveva usare tutta la sua forza magica, senza peraltro garanzia di riuscire a violarne la mente.

Da un momento all’altro, si aspettava infatti che lei reagisse, sguainasse la bacchetta e lo allontanasse da sé, presagendo che cosa stava per fare.

Ma una parte remota della sua mente, registrò che invece lei non stava assolutamente reagendo. Cercava di divincolarsi, ma chiaramente non era forte quanto lui, e prese anche ad urlare, graffiandolo: “Lasciami Malfoy! Ho capito, me ne sto andando!”, ma, oltre a quello, nient’altro. Nemmeno nella sua mente.

E Draco si ritrovò nei suoi pensieri, senza che nulla lo ostacolasse.

La mente della Granger era un labirinto intricato, impervio, che si arrampicava in miliardi di pensieri scintillanti. Tutto, però, contrariamente a quanto Draco aveva rinnegato fino a quel momento, era bianco, puro, quasi accecante.

La mente di Hermione era il pieno e perfetto simbolo di quella che lei era; ci scommetteva Draco che, al contrario di molte altre donne, lei ascoltasse sempre prima la sua testa, e poi il suo cuore. E la sua testa era intricata di ragionamenti, idee, congetture che affollavano il suo cervello, ma al contempo, era anche una mente semplice, pura, incapace di concepire il male. Magari era sospettosa, diffidente, ma era sempre pronta a ricredersi.

Draco sentiva già dentro il pensiero della Granger contaminarsi al suo, si chiese ancora perché lei non lo fermasse, facendolo vagare indisturbato. Che fosse un’altra delle sue tattiche? Ma nella mente non poteva mentire, non poteva fingere cose false… doveva essere sincera. E quel candore, da bambina… con sgomento, si rese conto che doveva essere vero. Frugò nella sua mente, incontrando ricordi che non capiva e che non riusciva ad interpretare.

Un fiore giallo, sullo sfondo di una Firenze in piena estate.

Una collana d’oro giallo con un ciondolo quadrato, smaltato di un bel rosso acceso.

Uno spesso braccialetto d’argento, con una piccola piastrina di metallo piatto e liscio, che recava le sue iniziali.

… tutti ricordi, permeati di tristezza, di malinconia, di un’insicurezza che non ricordava che la Granger avesse mai avuto.

Cercando di non farsene sopraffare, continuò la sua ricerca, cercando di indirizzare il corso dei suoi pensieri verso Serenity e verso il nome Helena Jasmine Greengrass, comprendendo che così avrebbe capito perché fosse qui e quanto stesse cercando di capire del collegamento di lui, con loro. La risposta fu buia, oscura. La mente della Granger si offuscò, diventando nera come la pece.

Le tenebre sopraggiunte, per Draco, furono come sbattere la testa contro un muro. Furono uno shock, paragonabile alla scoperta rinascimentale che la Terra era tonda.

Scavò meglio, più a fondo, quasi arrivando al suo subconscio, ma la risposta era sempre quella. Chiara, netta, precisa.

Hermione Granger non era il Capo degli Auror, il giorno della morte di Helena. Lo era Beckwith, il suo vice. E non lo era da un po’.

Non conosceva il nome di Helena, era convinta che le Greengrass fossero solo due e non sapeva nulla nemmeno di Amos Diggory.

Meno che meno, di Serenity. Era insospettita dalla presenza di quella bambina, ma ammetteva che stava bene. Si chiedeva solo che diritto avesse Draco di tenerla con sé.

Basta. Nient’altro. 

Hermione Granger non sapeva nulla di lui. Perché allora era lì? Cercò di arrivare a quella risposta, ma penetrò troppo in fondo nella sua mente. Ne percepì il dolore al braccio, l’insicurezza… e la paura che aveva di lui.

E quel pensiero terrorizzato…Mi ucciderà così, come niente, senza nemmeno un urlo, e io me ne andrò, senza fare assolutamente niente…”.

Pensava che stava per ucciderla…non si era accorta che stava violando la sua mente…

Un conato di vomito lo costrinse quasi ad uscire dai suoi pensieri, quasi come se stesse fuggendo da lei. Se ne sentiva sporcato, come se l’avesse violentata. Come uno che tocca qualcosa di intoccabile e puro, di illibato e vergine, senza averne alcun diritto… perché lei non era l’assassina di Helena.

Hermione non ne sapeva nulla. Quel giorno, per chissà quale motivo, c’era Beckwith al suo posto… ed intuiva dai suoi pensieri che c’era stato anche prima di quel giorno, ed anche dopo.

Fino insomma a quel momento… lei infatti di Helena non sapeva nulla.

Forse, non era nemmeno più il Capo degli Auror… possibile?

Batté le palpebre con foga sorpresa, ritornando in sé e lasciandole infine il polso, dopo averla guardata con un misto di curiosità e sollievo. La Granger si massaggiò piano il polso con l’altra mano, poi accorgendosi delle sue guance bagnate, cercò goffamente di asciugarsi, senza farsi vedere da lui. Un vuoto allo stomaco, l’aveva anche fatta piangere. Tremava persino, come un pulcino bagnato.

“Davvero non sapevi nulla di Serenity, Granger…”. La sua non fu una domanda, fu una constatazione. Una constatazione meravigliata, se ne rendeva conto. Era come se gli avessero rovesciato tutti i pensieri, la osservava immobile, incapace di fare qualsiasi cosa.

 “Te lo dovevo dire in ebraico antico, Malfoy?” aggiunse lei, massaggiandosi ancora il polso, gli occhi che scintillavano, roteando lontani, quasi a cercare una via di fuga “Non so nulla di Serenity, né tantomeno mi interessa… “.

Il labbro inferiore le tremava innaturalmente, battendo quasi sui denti, e Draco cercò di dirsi che era perché l’idiota non l’aveva fermato, mentre violava la sua mente, affrettandosi poi a distogliere lo sguardo da lei.

“Si può sapere perché sei qui allora? Di nuovo, aggiungo…”.

“Non ti devo alcuna spiegazione, Malfoy…” rispose ancora la Granger, la voce che non cessava di tremare “Me ne sto andando e comunque è stato Seth a chiedermi di restare…”, ecco, tutto quel casino per Seth.

Hermione guardò ancora il polso rosso e buttò fuori cattiva: “…e poi non mi venire a dire che non sei come tuo padre…”.

“Lui t’avrebbe ucciso, Granger… io ho solamente letto i tuoi pensieri…” sputò fuori Draco, con espressione ovvia, roteando gli occhi annoiato dall’ennesima frase dello stesso tono della Granger.

Fu già allora, a rendersi conto, di che cosa stava cambiando lentamente.

Noia.

Non rabbia.

Era bastato assolverla dall’omicidio di Helena, per rendere quel commento della Granger innocuo. Anzi, quasi giustificato, visto che lei aveva pensato di morire. Come, lo poteva sapere solo lei.

Certo, quella constatazione lo lambì appena, morendo nel mare di insulti che si stavano già scambiando… restando interrotta come tre punti di sospensione, come una frase che non avrebbe mai completato per mesi.

Lui… come non avrebbe fatto probabilmente nemmeno lei.

Perché, anche se lei lo avrebbe chiamato Danny, accettando già da quella sera di reggergli un gioco che nemmeno conosceva…

Perché, anche se lei era lì per motivi che lui non poteva nemmeno immaginare e che avevano tutto della predestinazione…

… per tanto, troppo, tempo, la sua mente avrebbe sempre concepito solo un pensiero.

“I segreti dei Grifondoro non saranno mai quelli dei Serpeverde, eh Granger?”

 

Cerco ossessivamente di riflettere, di pensare, di fermare quelle immagini nella mia mente, ma lo specchio è di parere contrario. Il turbinare dei ricordi, riprende immediatamente.

 

La ragazza dormiva scomposta, agitata, muovendosi continuamente nel letto che non le apparteneva.

Draco si avvicinò sospettoso, guardandola con astio anche se lei non poteva accorgersene. Trasalì, una fitta improvvisa al cuore, quando lei si mosse e fece una piccola smorfia da bambina infastidita, spostando la coperta con un piede. Nella luce della luna, i capelli spettinati gli parvero più cespugliosi del solito in evidente contrasto con la maglia rossa da calcio che portava, e le ciglia recavano tracce di lacrime lontane che doveva aver pianto. Draco si sedette accanto, non riuscendo a smettere di guardarla, un dejà vu continuo nei sensi che lo frastornava. Sembrava… era del tutto identica a… lampo di consapevolezza.

Ancora.

Era la seconda volta che gli accadeva… perché?

O meglio, oramai, era indubbio che le volte in cui la Granger gli era sembrata Helena, stavano diventando decisamente troppe. Decisamente troppe, per non pensare che gli stesse venendo una specie di Alzheimer precoce e giovanile.

O evidentemente quel Dio che rinnegava dalla mattina alla sera, maledicendolo, aveva deciso un raffinato metodo per punirlo: mostrargli l’immagine più chiara della donna che amava, in quella che invece detestava.

Certo, ora sapeva perlomeno che la Granger non era la responsabile della morte di Helena e la collera eccessiva per lei, si era un po’ calmata, quasi accucciandosi in un angolo della sua mente. Ma, in fondo, lei era sempre l’incarnazione di tutto quello che detestava e che gli aveva rovinato la vita. La cieca virtù dei buoni, il patetico buonismo ipocrita degli Auror, colmo di procedure e inghippi burocratici, nelle cui maglie morivano centinaia di persone sotto l’egida di un’ingiusta giustizia.

Era pur sempre, il Capo degli uomini che avevano trucidato i suoi… e sebbene per quel fatto, la rabbia fosse inferiore rispetto a quella che provava per la fine di Helena, questo non significava che rivedere quest’ultima nei lineamenti seri e morbidi della Granger, non fosse un pensiero che disarmava la sua mente, lasciandolo prostrato alla ricerca di una qualsiasi forma di spiegazione.

Continuò a guardarla, sporgendosi leggermente su di lei nel buio della stanza, analizzandone il viso con attenzione quasi maniacale.

Il mistero di quella somiglianza, non si ripeteva mai quando era cosciente di sé stessa, quando cioè era attenta al suo agire, impostata, rigida nelle sue regole di comportamento e nei suoi prescrittivi codici morali. Allora, assumeva la posa della cocca dei professori di Hogwarts, che tanto odiava, con la schiena dritta, le spalle aperte e l’espressione insofferente. Nulla di nuovo, e nulla di diversamente detestabile rispetto agli anni passati.

Ma, ora, per chissà che motivo, era uscito qualcosa da lei che non aveva mai riconosciuto in quegli anni. Ne trovava tracce pallide, dietro di sé, non le aveva mai notate veramente, senza impedire che si disperdessero nel tempo occorso tra di loro.

Forse aveva visto semplicemente visto la “vera” Granger. Quella, oltre quell’atteggiamento saccente e supponente, da Regina del Mondo. E forse quella Granger… assomigliava ad Helena.

Era una sensazione quasi impalpabile, lieve come un miraggio, che lo prendeva solo quando Hermione si comportava in modo naturale, senza freni e senza inibizioni.

Quando era sé stessa… ancora quella constatazione quasi fastidiosa lo raggiunse prima che lo potesse impedire a sé stesso.

Draco si prese la testa tra le mani, seduto ancora all’angolo estremo del letto, dove Hermione finalmente si era calmata un po’ e respirava con regolarità. Le gettò ancora uno sguardo, dopo aver distolto forzatamente lo sguardo da lei, assicurandosi che stesse ancora dormendo, soffermandosi ancora sui particolari del suo viso e quasi sincerandosi che quella somiglianza non fosse una specie di ictus del suo cuore, che oramai voleva vedere Helena ovunque.

La Granger non le somigliava affatto, se uno la guardava bene.

I capelli potevano essere quasi dello stesso colore, forse quelli di Helena erano leggermente più chiari, ma la loro forma era completamente diversa. Helena era sempre ordinata e perfetta, la Granger invece era sempre in disordine. Un disordine che però la rispecchiava appieno, che non appariva sciatto come a scuola e che la rendeva semplicemente ridicola.

No, adesso Hermione Granger era una donna, fatta e finita, e, come per molte altre cose, sembrava semplicemente superiore all’idea di una messa in piega perfetta.

Gli occhi, anche se adesso erano chiusi, erano il punto di maggiore difformità tra le due. Helena aveva occhi più allungati, quasi da gatta, e di quel turchino che incantavano tutto il mondo. Aveva inoltre un’aria sempre dolce, sempre indifesa, che la faceva apparire tremendamente friabile, sempre sul punto di rompersi o spezzarsi. La Granger, no. Gli occhi di Hermione Granger erano grandi, di un castano anonimo, che però si illuminava per i particolari più sciocchi. Si sorprendeva di tutto, per tutto… ma aveva già notato tantissime volte, da quando la conosceva, che erano semplicemente occhi curiosi, che rispecchiavano un’intelligenza vivace e dinamica. Per questo, erano occhi forti, serrati sotto palpebre sempre frementi di capire, occhi che ti scandagliavano alla ricerca del particolare che le sfuggiva. Lo aveva guardato così, per ore, prima a cena, dato che Seth aveva avuto la brillante idea di costringerlo a farla restare, oltre che imporgli persino di pensare all’idea di assumerla.

Come se cercasse davvero un lavoro… chissà che diamine voleva da lui…

Gli aveva dato sui nervi quello sguardo, aveva avuto la tentazione di schiantarla ogni secondo. Quello di Helena, invece, lo rimpiangeva come l’acqua in un deserto.

Eppure, c’era qualcosa, in lei… in Hermione Granger… che la rendeva tanto simile ad Helena. Qualcosa, nel modo di comportarsi, nell’aria da bambina, negli atteggiamenti aperti e limpidi, nei sorrisi luminosi. Qualcosa che, in Hermione Granger, usciva fuori solo quando non era con lui… ovvio. Lo vedeva adesso, mentre dormiva… lo aveva visto quel giorno al Ministero… lo aveva scorto nella sua mente… lo aveva intravisto, mentre giocava con Serenity o parlava con Seth.

Quando abbassava le difese, quando si sentiva sicura e tranquilla… quindi, con somma pace, quando non era con lui.

Le era uscito fuori solo un attimo, forse perché troppo spiazzata per rendersene conto, quando le aveva chiesto nervoso di non reggergli il gioco e lei aveva sbattuto le palpebre, confusa.

Gli era sembrata più piccola, con quelle spalle serrate a rinnegare chissà che pensiero nascosto. Gli era sembrata Helena, di nuovo.

Draco scivolò seduto sul pavimento, reclinando indietro la testa e poggiando la nuca sul materasso, lo sguardo fosco catturato dal soffitto, un cielo artificiale fatto apposta per lui, che oramai il cielo vero non lo guardava nemmeno più. Nel buio, solo una lama di luce argentea dalla finestra, proveniente da una falce di luna, sottile e affilata come la lama di un assassino, pronto a squarciargli la notte. Perfetto il silenzio, solo il respiro lieve di Hermione che dormiva alle sue spalle, una mano sotto il cuscino, le gambe rannicchiate in posizione fetale e le labbra rosse dischiuse. L’aveva guardata talmente tanto, cercando il motivo di quell’assurda somiglianza, che ne ricordava perfettamente le fattezze, dai piedi piccoli e nudi alle gambe tornite e scoperte, fino al collo bianco impreziosito da qualche ciocca di capelli… fino alle ciglia che sembravano più nere, bagnate di quelle lacrime che chissà perché aveva pianto.

Mentre dormiva, aveva bofonchiato qualche parola, agitandosi, qualcosa che curiosamente assomigliava alla parola “caminetto”. Poi aveva sorriso piano e si era calmata, addormentandosi profondamente. Ne aveva seguito ogni movimento, come quando guardava Serenity, nel cuore della notte, assicurandosi che stesse bene. Anzi… quella era la prima notte, che aveva trascorso senza guardare la bambina, cercando di scorgere in lei un ricordo nitido di Helena.

In compenso, ne aveva avuti decine di centinaia, quella sera, guardando la sua antica nemica.

Distogliendo lo sguardo da lei, Draco si rese conto, guardando in quel soffitto bianco, che l’immagine di Helena nel suo ricordo si era fatta più netta e chiara. Turbato, il cuore in gola, il respiro corto, si rese conto che la ricordava meglio, guardando Hermione. Poteva… poteva finire il ritratto di Helena, se l’avesse avuta lì tutto il giorno, se avesse potuto guardarla dormire, facendosi dominare da quella magia che non sapeva da dove provenisse. Avrebbe terminato il quadro di Helena… il surrogato della donna che amava e che avrebbe preso vita, dal suo amore ancora intoccabile per lei. Come Amos che ogni sera parlava con il ritratto di Daisy, anche lui avrebbe potuto vedere Helena e parlarle come prima.

Stringerla, baciarla, accarezzarla, no… sapere che era viva e reale, non più… ma al momento, si doveva accontentare di quello per andare avanti. Si doveva accontentare di Hermione Granger, della copia malriuscita di Helena, per andare avanti.

Restò lì, fino alle prime luci della giorno, lo sguardo fisso sul soffitto, le orecchie catturate dai rumori soffici di Hermione che aveva ripreso a rigirarsi nel letto. Quando lasciò la stanza, era freddo del piano per trattenere la Granger lì, assieme a lui, cieco e sordo dei soliti motivi che l’avrebbero spinto a gettarla in mezzo alla strada, appena si fosse svegliata, aggiungendo persino nuovi di segno opposto, come il fatto che avere un’Auror per casa poteva essere utile anche per proteggere Serenity.

Ogni particolare era perfetto, ognuno fatto apposta per legare Hermione a lui, a doppio filo. Un filo spesso, come non avrebbe mai nemmeno immaginato.

Un filo… rosso.

 

Il sole sorge e tramonta tre volte. Passano tre giorni.

… tre giorni, in cui, nonostante le sue premesse e il suo piano apparentemente perfetto, Draco si logora nel senso di colpa per i suoi genitori. E mi tiene alla larga.

Lo seguo nelle sue stanze vuote e deserte, accompagnato solo dai gemiti di Serenity e da una turba di pensieri con il medesimo tono e colore.

Tradimento, voltafaccia, inganno, imbroglio, truffa, raggiro, frode, doppiezza, defezione, abiura.

…solo quella parola, declinata in infiniti modi diversi.

Lo taglia come una lama sottile, insinuandosi rapidamente nei suoi pensieri, proiettando ombre lunghe sul ricordo di sua madre e di suo padre. Si accascia al suolo, si porta le mani nei capelli e si dice che ancora una volta, Helena è più importante di tutto.

E, se lui vuole dipingerla, deve tenermi lì, anche contro il mio volere. Anche contro la veste accecante di Auror, alias assassino, che mi vede addosso.

Anche contro i suoi, che da quegli stessi assassini, sono stati trucidati nella peggiore delle maniere.

E si sforza di non pensarci, rimane immoto ed immobile in una stasi prolungata, un’inerzia che non ha senso, una contraddizione di gesti e parole.

Non mi parla per tre giorni, se non per rade istruzioni sul lavoro, e non si interroga sul reale motivo per cui sono lì. Non mi guarda dormire, non prova a dipingermi, evita persino il mio sguardo, illudendosi quasi che io sia una specie di accessorio, che ha messo in casa costretto da qualcuno ed accanto al quale passa controvoglia, inarcando un sopracciglio.

Chiedendosi quasi: “Ma è ancora qui?!”, oppure dicendosi con le labbra arricciate: “Certo che è davvero disgustoso… me ne libererò un giorno…”.

La pigrizia di una cacciata definitiva, esibita ad arte ai suoi stessi pensieri, soccombe al sangue che ribolle nelle vene, sempre alla mia vista.

Non sono un accessorio, non sono una lampada kitsch, una scrivania di dubbio gusto estetico, una coperta dalla cromaticità imbarazzante.

Sono un passo sempre troppo pesante, fuori dalla sua porta. Sono una parola sempre troppo urlata, oltre un muro. Sono un respiro sempre troppo greve, attraverso il silenzio.

Sono… sempre troppo viva.

E sono anche nell’affetto di Seth e Serenity, sono anche nell’avversione di Astoria, che continua a litigare con lui per la mia inspiegabile permanenza.

Sono lo sguardo di Helena, che ancora non capisce da dove mi viene.

E, allora, colpa su colpa, rimorso su rimorso, disgusto su disgusto, trascorre le notti nel pianerottolo che divide l’appartamento di Seth dal suo. Le braccia conserte sul davanzale di una finestra, gli occhi ritagli di stelle, i pensieri avviluppati attorno al mio respiro, dietro una porta chiusa.

Un respiro così ordinario da poterlo scambiare con quello di un’altra. Con quello dell’altra. Helena.

Un respiro che, però, è essenza di un’espressione che può già figurarsi come troppo simile a quello di un’altra. A quello dell’altra. Ancora Helena.

Poi qualcosa si spacca, si spezza, con il tonfo di una ceramica rotta. Non riesco a coglierne i particolari precisi, sono come tagli su una tela da cui filtra una luce rossastra.

Cessa la pigrizia celata, cessa il rimorso, cessa anche l’inerzia.

E tutto, inspiegabilmente, cambia.

 

Poche, pochissime parole, pronunciate con voce affrettata e tagliente. Senza nemmeno una presentazione, un saluto.

Subito dopo che lo squillo del telefono aveva rotto il silenzio perfetto di quel pomeriggio sonnacchioso, avendo l’effetto di sconquassarlo fino alle ossa. Non aveva nemmeno visto chi era.

Aveva solo risposto.

Solo cinque parole.

“Non avrebbe dovuto scoprirlo così…”.

Il sospiro, lieve, leggero, sfuggito quasi per caso, per una malaccorta dimenticanza. L’irritazione a quello sbuffo, come se pesasse tonnellate.

“Dì la verità, Potter… non avrebbe dovuto proprio scoprirlo… altro che non avrebbe dovuto scoprirlo così…”.

Ancora un sospiro, stavolta studiato a tavolino, pathos e tormento. La sosta di un oggetto afferrato e spostato, solo per nervosismo.

“Immagino come sia andata… potrai ingannare lei, ma non me…”. La voce non ne voleva sapere di bloccarsi, continuava come il fiume che spaccava una diga.

Lui, ancora non parlava, Harry Potter ancora restava in silenzio, i minuscoli sospiri come tracce di vita neglettamente sfuggita.

E lui, Draco Malfoy, il traditore di ogni parte del mondo, scopriva la loquacità che non aveva mai avuto. E che avrebbe negato, dopo tre secondi netti.

“Il segreto di Stato, le indagini in corso… stronzate, Potter… lei avrebbe fatto storie… questa è la realtà. E vi serviva, la Granger… vi serviva…”.

Il pugno si contrasse, senza che lo potesse fermare. Lo guardò quasi a disagio, sgranando gli occhi grigi ed imponendo alle dita di aprirsi, dissimulando indifferenza. Ma restavano serrate, tremanti, livide.

“E’ perfetta, per quello che fa, no, Potter? Così pura, così ingenua, così pronta a credere che il mondo sia bianco e nero… è perfetta, no? Se avesse saputo, le avresti istillato il dubbio, e non sarebbe servita più… ovvio, naturale, potrai ingannare lei, ma non me, te lo ripeto…”. Assenso espresso in sospiri. Chi tace acconsente. E il pugno non ne voleva sapere di riaprirsi, di sciogliersi in una mano distesa, rilassata, noncurante.

“Lei non ha mai avuto nulla a che fare con questa storia… né con me…”. Esitazione, prima che se ne rendesse conto. Sentirsi perso, afferrare un angolo del tavolo come per reggersi, come se il mondo si rovesciasse.

Sfuggirono le parole, lasciarono un silenzio attonito dall’altra parte, muto anche di sospiri.

“Avrei dovuto saperlo…”.

Improvvisa fretta, dall’altro capo, come di angosciosa ansia, come di desiderio di strappargliela dalle dita, anche sotto la forma di quelle parole innocenti ed assolutamente innocue.

Draco sorrise senza accorgersene, amaramente, senza allegria. A Potter, era andata bene che, per anni, lui avesse maledetto la Granger, accusandola di ogni sciagura, ma ora che ammetteva che avrebbe sempre dovuto sapere che lei non c’entrava nulla con la morte dei suoi, come per quella di Helena, il Ministro si agitava, come se stesse per cadere dalla sedia.

“Malfoy, voglio solo sapere dov’è…”.

“Mi sembrava che ti sentissi tu in vena di fare conversazione…”.

“Sai dov’è?” ripeté lui monocorde, Draco poteva giurare di aver anche sentito la presa diventare più forte sulla cornetta del telefono.

Con il pollice già sul tasto rosso, pronto a riagganciare, il ragazzo biondo replicò atono, il pugno che ancora non ne voleva sapere di distendersi: “Non lo so Potter, ma anche se lo sapessi, non te lo direi…”, una piccola pausa per gustarsi quell’ansia crescente nel silenzio del Ministro, prima di concludere, riagganciando: “E’ la volta buona che io e la Granger parliamo seriamente, ci buttiamo il passato alle spalle e diventiamo amici del cuore, che ne dici, eh?”.

Non attese alcuna risposta, chiuse la conversazione, una risata di scherno sulle labbra sottili. Poggiò il cellulare sul tavolo, ovviamente aveva mentito. Chissà dov’era adesso, la Granger… era impossibile pensare di rivederla. E di parlarle ancora.

Lo aveva detto solo per fare innervosire Potter, con lo spettro di una assolutamente sgradita amicizia tra loro, figuriamoci. In un mondo perfetto, adesso lui starebbe a cercarla, per poi chiedergli di perdonarlo, per quello che aveva detto.

Anche se era solo la verità: schifosa, orribile, nauseante, crudele. Ma sempre tale.

Nel mondo perfetto, però, anche della verità si chiedeva scusa e lui avrebbe dovuto farlo, compito, come uno scolaro che svolge un tema sulle vacanze estive. E lei, magnanima come un’improbabile maestrina dalla penna rossa, ne avrebbe sorriso. E lo avrebbe perdonato, e tutto sarebbe andato a posto. Sarebbero diventati amici, e sarebbero solo state risate su confidenze, sorrisi su complicità.

Ma, nel mondo vero, che non aveva nulla della perfezione, lui scrollò le spalle e poggiò il cellulare sul tavolo, accarezzando il capo di Serenity che, spensierata, giocava nel suo box.

Controllò se Seth fosse tornato, ma si ricordò che era andato a trovare sua madre, incontrò April per le scale e le chiese di controllare la bambina per qualche attimo, mentre lui si faceva la doccia. April arrossì, annuì con il capo e salì nell’appartamento di Seth, dove aveva lasciato Serenity. Draco scese nel sotterraneo, osservando il dipinto di Helena, ancora incompleto. Si rammaricò di non aver fatto nemmeno uno schizzo della Granger. Salì di sopra, nel suo appartamento.

Gettò la camicia bianca e i jeans su una sedia, senza curarsene, e si infilò immediatamente in bagno, lasciando che l’acqua scorresse liberamente sul suo corpo, tappandogli le orecchie da milioni di pensieri che non voleva ascoltare, e che serrava dietro gli occhi chiusi. Perché, nel mondo vero, che non aveva nulla della perfezione, a Draco Malfoy importava solo di non poter completare il ritratto di Helena, senza che la Granger gli gironzolasse attorno, e stava già cercando un altro modo per farlo.

Ma ne era quasi sollevato, constatò con un sorriso rotto dalla cascata d’acqua, perché lei, la Granger, con quella assurda somiglianza stava diventando peggio di una droga, che non poteva finire bene.

Astoria parlava di un debole… che lui aveva per Hermione. Non parlava di cotta, attrazione o innamoramento, no.

Però sosteneva, urlando in tutti i modi che conosceva, graduando in un’ampia gamma di toni che andavano dallo stridulo all’acuto, che avesse un debole per lei.

Debole.

Un debole… non per la Granger, così stramaledettamente insopportabile, saccente, con le sopracciglia sempre aggrottate e l’espressione da Regina del Mondo.

No.

Decisamente, non per quella.

Ma, ancora, per quella che somigliava ad Helena… quella che non immaginava esistere nel corpo dell’amazzone, della guerriera Granger, quella che, tanto per intenderci, pur di non piangere, si mordeva le labbra a sangue.

Recettivo come sempre era stato, si era accorto dell’insolito silenzio che la coglieva a tratti, o della piega insolita delle sue labbra in determinati discorsi, o della nebbia vorticosa che ne velava lo sguardo in alcuni momenti. Ma poi lei indossava di nuovo la maschera dell’eroina del Mondo, ostentando cinismo ed indifferenza, nascondeva i segni delle crepe e tirava diritto. Come sempre… anche se era palese che le fosse successo qualcosa, nei giorni precedenti.

Qualcosa che l’aveva persino convinta a lavorare per lui.

Ed era in quei momenti, rari, fugaci, come stelle cadenti, che la Granger le somigliava ancora di più. E sapeva, Draco Malfoy, che un miracolo simile non poteva esistere due volte su quella Terra.

La magia di rivedere la donna che amava, in una che invece detestava.

E ora pensava solo a come ritrovare qualcosa di simile. Solo a quello. Perché lui era nel mondo vero, che non aveva nulla della perfezione.

Pensava solo a quello…

Solo a quello.

Solo a quello.

Solo a quello.

Non al perché la Granger fosse improvvisamente diventata così insicura.

Non a cosa le fosse successo per renderla così.

Non alla sua espressione, quando le aveva detto la verità sui suoi.

Non al modo infantile che aveva di negare con il capo, mentre lui parlava.

Non alla preoccupazione di Potter su dove fosse.

Non al fatto che il Ministro l’avesse usata per anni, come la scintillante rappresentante di un presunto mondo vero, che doveva avere tutto della perfezione.

Lui, il solo orbo in un paese di ciechi, vedeva il mondo vero, che non era perfetto. E quindi di tutte queste cose, a lui non importava nulla.

Gli importava solo del quadro che non poteva terminare.

L’acqua scorreva sul suo corpo in lunghi ed ampi rivoli ghiacciati, facendo fiorire brividi tremuli lungo la sua pelle, giungendo a lambire l’ampia schiena dritta, le natiche, le gambe e i calcagni.

Con stizza, gli occhi chiusi, cercò di girare ancora il rubinetto, ma si rese conto che era giunto al limite. Sconcertato, si allontanò dal getto della doccia, valutando se semplicemente la caldaia non si fosse rotta e quindi non uscisse acqua calda. Inequivocabilmente, nuvole dense di vapore acqueo si sollevavano fuori dalla cabina di vetro trasparente, appannandola. L’acqua era bollente… era lui, Draco, che continuava a sentire freddo.

Con un gemito di fastidio, si rinfilò sotto la cascata ghiacciata d’acqua, cercando di fare in fretta e frizionando i capelli con energia, la voglia di mettersi persino a battere i denti per il gelo che sentiva. Forse aveva la febbre… la pelle tirava, come se si fosse fatta troppo piccola per contenere il suo corpo, come il vestito di un bambino cresciuto troppo velocemente da risultare ridicolo in panni troppo striminziti e stretti. La pelle, poi, era incandescente. Bruciava semplicemente, facendogli quasi salire le lacrime agli occhi, una sensazione fisica senza spiegazione, come se fosse stato al sole per decenni. A questo si aggiungeva un pizzicore diffuso sotto le piante dei piedi, simile ad un solletico di fastidio, che si propagava lungo gli arti inferiori in crampi quasi dolorosi.

Draco piegò la nuca, l’acqua che continuava a scorrere, non portando alcun refrigerio alla pelle congestionata, poggiando la fronte contro la parete di mattoni e dando dei piccoli colpi ritmici, che gli rimbombavano nel cervello. La gola gli stringeva una morsa soffocante, quasi come due mani serrate attorno alla sua pelle, come un serpente che la ostruisse completamente con la mole del suo corpo liscio e piatto.

Ma la cosa che gli dava più fastidio, era quella sensazione alla base del collo.

Impronta. Un’impronta. Come un segno che poi era bruciato come una malattia, su tutto il suo corpo. Letale, contagioso, e gli venne ancora da credere alle baggianate sui Mezzosangue e sul potere infettivo che avevano. Perché era meglio credere a quello, che ad altro, anche se sapeva che non era stato quel minuscolo contatto, il tutto, la causa, il momento determinante.

Credere che la Granger fosse infettiva, era meglio che ricordare che non era mai stata così vicina. Mai, in dodici anni.

Era più… reale.

Ma, dopo quel ricordo di dita affusolate, dalle unghie corte, che si artigliavano alla sua camicia, fu impossibile tornare indietro al mondo vero, che non aveva nulla della perfezione.

Quello dove davvero gli importava solo di non poter finire il quadro di Helena.

Gli importava anche di quello… ma non solo di quello.

Il mondo vero, era diventato un altro.

Si era insinuato lento, subdolo nei suoi pensieri, in quei cinque secondi netti. O forse era accaduto anche prima, quando aveva scoperto che la Granger non c’entrava nulla con la morte di Helena.

Anzi, nemmeno la conosceva… quella rivelazione, effettivamente, aveva aperto un mondo, molto prima del fugace e furtivo contatto fisico che avevano avuto.

Nel primo caso, era stato un caso, ecco, in un ordine perfetto, composto dalle loro vite che erano sempre corse parallele.

Parallele, sì… perché, sebbene la loro distanza a volte fosse stata minima, mentre condividevano le stessi classi a scuola o la stessa casa a Grimmuald Place, lui ed Hermione Granger erano sempre stati due rette parallele.

Destinate a restare ognuno nel campo visivo dell’altro, ad ascoltare con l’orecchio disinteressato il rumore dei giorni altrui, a percepire un odore diverso contaminarsi a quello dell’altro… ma ferocemente destinate a non incontrarsi mai.

E quel contatto, quando quella mattina, lei gli era franata addosso, mentre apriva la porta della sua stanza, e si era aggrappata alla sua camicia per evitare di cadere, era stato. come un’ombra di vento.

Fugace, rapido, senza conseguenze, se non quella che, come sempre, Hermione Granger gli era parsa Helena. Ma era stato un secondo, sui cinque di quel contatto.

Un secondo che faceva franare il cuore, minava la sua ragione e resuscitava il suo dolore, ma sempre un secondo era stato.

Dopo quel secondo, era arrivato il solito profumo della Granger, tè nero e vaniglia, così diverso dalla ciliegia dolce di quello di Helena, perché era forte, penetrante, impossibile da ignorare, come era la stessa Granger.

E, riaprendo gli occhi, aveva scorto i suoi capelli annodati in una coda alta sul capo, da cui sfuggivano delle ciocche che le accarezzavano le spalle e che non sarebbero mai sfuggite al rigore di Helena. Ed anche quella vicinanza si era rivelata per quella che era, perché ogni spigolo, ogni incavo, ogni curva del corpo della Granger, incastrato anche per un millesimo di secondo con il suo, non combaciava per nulla.

Non era nata per questo Hermione Granger. Era nata per questo Helena Jasmine Greengrass, per essere il pezzo mancante.

Non era stato quello, il Big Bang, il momento determinante… il nuovo mondo era sorto, come un’alba violenta di colori e di luci, quando aveva letto nella sua mente, dove sapeva che non poteva mentire, della sua estraneità assoluta alla morte di Helena.

Certo, quella rivelazione era stata come avere avuto sempre davanti agli occhi un bersaglio ben visibile nel buio, luminoso, tinteggiato di colori accesi, ed aver aspettato ogni minuto di scagliargli contro un dardo infuocato, aspettando che si avvicinasse al punto di poter colpire, per poi scoprire, in quel momento fatale, che non era il bersaglio che cercava. Ma, una parte non così piccola di lui, soffocata dai giorni intossicati d’odio per lei, forse non ci aveva mai creduto davvero che lei ne avesse colpa, lei, Hermione Granger, ingenua e trasparente come un’insopportabile mocciosa. Non avrebbe avuto quel viso così pulito e quella mente così candida, se ne avesse avuta colpa. Ed era anche certo che Hermione Granger non sarebbe mai riuscita ad ingannarlo, nemmeno volendo, contraffacendo il contenuto della sua memoria, in modo da indurlo in errore.

Ora, nel nuovo mondo, era scontato e banale che fosse Beckwith ad avere colpa dell’omicidio di Helena ed Amos.

Quella stessa piccola parte di lui gli suggeriva subdolamente, in un modo troppo confacente al vero per non crederci, che, se ci fosse stata davvero la Granger al suo posto, lei sarebbe intervenuta per fermare quell’omicidio, prima di tutto per il suo innato e detestabile spirito di giustizia, secondo, per mettersi le mani sui fianchi, guardarlo con superiorità e dirgli con aria saccente: “Te l’avevo detto io, che avevi bisogno degli Auror!”.

Ed Helena forse ne avrebbe riso…

Draco rabbrividì ancora, sotto il getto d’acqua bollente, c’era qualcosa di enormemente strano nell’immaginarle tutte e due assieme. La Granger… ed Helena.

Di primo acchito, poteva dire che era assurdo immaginarle assieme, così diverse, così lontane, contemporaneamente legate da lui e dal bisogno per una e per l’altra, e divise nettamente dai sentimenti che provava per una e per l’altra.

Ma dopo un attimo, curiosamente gli parve giusto immaginarle assieme… giusto… perché?

Evitò i suoi pensieri irrazionali, passandosi una mano tra i capelli bagnati, la sensazione di freddo che si ostinava a non passare.

I segnali del nuovo mondo, erano continuati come un’epifania divina, nei passi che li avevano legati da quella mattina.

Hermione Granger si era staccata, imbarazzata da lui, era rimasto sconcertato nel vederla arrossire davanti a lui. Doveva avere la febbre… in fondo, aveva anche gli occhi lucidi, scintillavano quasi, ma lei, come sempre, aveva tirato su con il naso ed aveva finto abilmente che le lacrime non fossero assolutamente presenti, nei suoi occhi d’agata. Come sempre.

Dopo pochi secondi era già lì a rispondergli a tono e a ritornare all’autentico motivo che l’aveva condotta lì: sapere la storia di Danny Ryan, quello che si era inventato, in modo da poter raccontare qualcosa di una sua presunta vita babbana a Seth, senza tradirlo.

Chiacchiere. Voleva indagare, tipico, era dannatamente cristallina, le si leggeva tutto in fronte, come se lo avesse stampato a caratteri di fuoco.

Ed infatti si era opposto, palesandole che non era decisamente il piano geniale che credeva. E lei, sorpresa, gli aveva rivelato il suo grande segreto.

Non era più una strega da due anni, interdizione all’uso della magia per abuso di potere… quindi non era più non solo il Capo degli Auror, non era proprio una strega. E quello collimò perfettamente con il ricordo chiaro che aveva visto nella sua mente, ossia che nel giorno della morte di Helena, la Granger non era al comando. Era vero, se mai avesse avuto bisogno di una conferma.

Aveva riso come un pazzo alla confessione della Granger, l’ennesima prova che viveva in un mondo nuovo. Lei che veniva punita per chissà quale motivo… e lui che viveva da babbano.

C’era un’ironia tale in quella vicenda, che gli aveva offuscato i ragionamenti, cosa a cui aveva contribuito anche l’espressione di lei, simile a quella di un pesce palla in posizione di combattimento.

Era rimasta sempre buffa la Granger… e già si stupì Draco di quel pensiero. Aveva pensato… buffa… non ridicola.

Il mondo nuovo.

Istintivamente, quando Hermione aveva cercato di allontanarsi, infastidita dalla sua risata, Draco l’aveva afferrata per il polso. Senza accorgersene, senza rendersene conto, quasi d’istinto. E si era chiesto perché, sbattendo le palpebre, mentre lei guardava la sua mano che la tratteneva.

L’aveva fermata, quando invece sarebbe stato meno scocciante che se ne fosse andata, magari offesa mortalmente. L’aveva fermata, quando non aveva alcuna intenzione di parlarle di Danny Ryan. L’aveva fermata, e si era stupito del fatto che, sotto la sottile pelle del polso, sentisse il suo cuore battere forte, come se avesse sempre creduto e pensato che la Granger non ce l’avesse un cuore, come se fosse invecchiata dai ragionamenti e dai pensieri, come se funzionasse con una serie di complicati ingranaggi.

Il mondo nuovo.

E poi lei lo aveva guardato e lui aveva acconsentito anche a parlarle di Danny Ryan, in fondo, con le sue domande curiose, Seth poteva oggettivamente metterla in difficoltà e costringerla a dire cose che poco avrebbero collimato con la sua versione dei fatti. Quindi, anche se era palese che lei voleva indagare su di lui, utilizzando lo schermo della sua identità babbana, era meglio darle comunque qualche particolare.

Draco chiuse velocemente il rubinetto dell’acqua, continuando a rabbrividire ed uscendo velocemente dal box doccia. Si annodò un asciugamano attorno ai fianchi, restando per qualche istante immobile, attonito, completamente catturato dal riflesso nello specchio, dai suoi occhi grigi che sembravano persino sillabare quelle tre parole, la chiave del nuovo mondo.

Avrebbe dovuto saperlo.

Che Hermione Granger non c’entrava nulla. Né con i suoi, né tantomeno con Helena.

Se comunque si sentiva la coscienza pulita, a posto, convinto com’era che fosse solo una colpa della ragazza non sapere nulla del posto dove lavorava, qualcosa, però, dietro di lui continuava a contorcersi. Il mondo nuovo.

Mentre fissava i suoi occhi, nel riflesso dello specchio, la madreperla parve quasi eclissarsi, tingersi di riflessi cioccolato, diventare una nebbia di lacrime e delle parole balbettate, con il pianto in gola.

Il mondo nuovo, anche se era stramaledettamente vero, non era ancora perfetto. Forse, non lo sarebbe mai stato. E Draco Malfoy, nonostante quel riflesso castano nei suoi occhi, pallido come un ricordo, ma vivido come un rimorso, si disse che non importava. Non era colpa sua, non era suo dovere trattenerla lì, spiegarle le cose, farle capire quanto fosse stata usata dai suoi amici.

Poteva anche dispiacergli, averle fatto del male così, specie ora che sapeva quanto lei fosse dannatamente innocente di tutte le colpe che le aveva riversato addosso, ma il senso di colpa era un nonnulla rispetto a quello che, di solito, provava per Helena e la sua morte; quindi sapeva ignorarlo, scansarlo, evitarlo.

Ma il mondo nuovo era di altro parere. Il mondo nuovo non poteva ignorarlo, scansarlo, evitarlo, ora che si era compiuto. Nemmeno quella sera. Specie quella sera.

Quando finalmente, assicurandosi che Astoria non fosse in giro per casa, Draco si decise ad uscire dal bagno, si rese conto che era già tardi, erano quasi le undici di sera. Il tempo era passato così velocemente, senza che se ne rendesse conto, e la cosa lo stupì alquanto, visto che, invece, le sue giornate avevano la strana abitudine di essere eterne e di non finire mai. Dopo essersi rivestito, andò a controllare ancora se Seth fosse tornato, ma in segreteria c’ era un suo messaggio che diceva che sarebbe rimasto a casa della madre, per quella notte. Anche Serenity dormiva già, comodamente distesa nel suo lettino, un pollice in bocca e l’espressione rilassata. Draco sorrise nel guardarla, accarezzandole lievemente i riccioli biondi, la bambina si spostò di lato nel sonno, continuando a respirare regolarmente. April evidentemente doveva averla messa a letto, dopo averle dato da mangiare, sul tavolo della cucina c’erano infatti dei residui di un omogeneizzato.

Aveva anche lasciato l’armadio aperto, mancava una coperta… non se ne preoccupò più di tanto, forse al locale non c’era molta gente e i suoi impiegati avevano pensato bene di trascorrere la serata, chiacchierando sulle scale, e magari faceva freddo. 

Draco ciondolò un po’ per casa, non aveva molta fame, quindi decise di prendere una boccata d’aria. Non aveva voglia di andare in giro, però, in fondo non era stato con Serenity tutto il giorno e non voleva che, se si fosse svegliata, non l’avesse visto di nuovo. Quindi, decise di uscire un po’ sul tetto, stranamente per la sua natura… quella sera, aveva voglia di stelle e di luci, anche striminzite ed artificiali.

Salì pigramente le scale, fino alla porta di metallo del tetto, che era accostata. Se ne chiese il motivo, ma pensò che doveva averla lasciata aperta qualcuno, senza darsene troppa pena.

L’aria della notte soffiò sul suo viso, spostandogli i capelli biondi dalla fronte, scompigliandoglieli. Aveva un odore buono quella notte, come di erba bagnata e fiori di glicine, anche se non immaginava nemmeno da dove potesse venire un profumo del genere in piena città. Probabilmente dai parchi di Notting Hill… e quella curiosità inconsueta, ancora nella sua natura, lo costrinse a fare qualche passo per affacciarsi alla ringhiera e strizzare gli occhi per vedere se effettivamente provenisse da lì.

Fu solo un attimo, ed un lieve bagliore aranciato, alla sua sinistra, catturò la sua attenzione. Sembrava venire dall’intercapedine tra la ringhiera e la caldaia. Si era subito spento, così come era nato, durando solo un secondo, eppure ancora quella strana curiosità non lo lasciava in pace. Era inconsueto per lui, abituato all’inerzia, essere invece quel giorno, così curioso di stelle, fiori e lucciole, ma non era una sensazione sgradevole.

Era solo diverso, vecchio come un ricordo ed, al contempo, nuovo.

Il mondo nuovo.

Si sporse leggermente verso la rientranza, invisibile per chiunque entrasse, a patto di avvicinarsi, e di primo acchito pensò solo che April si doveva essere impazzita, se lasciava le coperte in giro, senza alcuna spiegazione logica.

Fu alla seconda occhiata, che quel qualcosa dentro che si contorceva da quella mattina, riprese a muoversi nel suo stomaco con maggiore foga, inarcandosi, distendendosi, come un animale in gabbia. Draco trattenne uno spasmo involontario della mano, che si stava già di nuovo serrando, sorda alla sua volontà, mentre puntava lo sguardo sulla chioma castana che spuntava fuori dalla coperta a scacchi rossi e verdi.

Hermione non l’aveva visto, aveva il viso chino, probabilmente teneva la fronte poggiata sulle ginocchia. Ancora, con estrema certezza, seppe che, in quella sua morbida fortezza, non stava piangendo, ma probabilmente teneva gli occhi aperti, spalancati, fissi nei suoi pensieri. Incatenati ad una moltitudine asciutta di considerazioni. Desiderò, per un solo attimo, scavarle attorno un fossato, costruirle un muro alto, rendere davvero quella fortezza da bambina, una roccaforte inespugnabile.

Chiuderla a chiave, tenerla sottovuoto, in un castello dove nessuno la toccasse più. Toccare, non in senso fisico… non c’era possesso nel suo pensiero. C’era piuttosto la considerazione di tenere una creatura pura come lei, in una teca di cristallo.

Come la rosa della Bestia, nella favola babbana che raccontava a Serenity prima di dormire.

Non era possesso, era pietà umana. Impedire che un altro le facesse male… a costo di tenerla prigioniera.

Si riscosse da quel pensiero, sbattendo le palpebre, la Granger che ancora non si accorgeva di lui. Vide per la prima volta, nettamente, il mondo nuovo. Ne distinse i limiti, i confini, la spinta rivoluzionaria che stava imprimendo ai suoi pensieri.

Scorse persino fino a dove quella storia poteva portarlo.

Il suo primo pensiero, sgomento, da seccare la gola ed inaridire la bocca, fu: “Che diamine mi stai facendo, Hermione Granger?”.

Il suo secondo moto, istintivo, da bloccare il respiro e imprigionare le membra, fu di prendere la porta e di andarsene, lasciandola lì.

Ma il terzo momento, inevitabile, al punto di rinfrescare gola e bocca, e di sciogliere respiro e membra, furono quelle parole: ““Hai parlato con Potter, quindi…”.

Lei non parve nemmeno averlo sentito, come se si fosse congelata, il silenzio che non era silenzio che pesava su di loro, come una lapide di mille tonnellate. Fu di nuovo tentato di andare via e non tornare più, sensazione gemella di quel sentirsi stupido per averle chiesto qualcosa che già sapeva essere successo. Finalmente, dopo quelli che sembrarono anni, arrivò la sua voce.

Flebile, lieve, come un pigolio: “Perché farebbe qualche differenza?”.

“Credo che sia rilevante per me sapere se sono ancora il più grande bugiardo della storia del mondo magico… ho appena liberato uno spazio per la targa sul camino… Potter me la deve da tempo…”.

L’ironia venne fuori, senza controllo. Assieme al sollievo malcelato per sentire la sua voce, quasi come se avesse temuto per un solo secondo, che Hermione avesse perso per sempre la voce. Ancora, come in una fiaba, quella della Sirenetta, con lui al posto di quella strega, che le estirpava la parola dalle corde vocali, per fargli conoscere il suo grande segreto. Ma lei parlava ancora… ma non alzava il capo, restava a testa china, come se portasse semplicemente un peso troppo grande.

“Non credi di sopravvalutarti troppo?” aggiunse scettica, sempre immobile “In fondo, c’è sempre Peter Minus in lizza… Zabini, la Parkinson e mezza casata Serpeverde… un sacco di Mangiamorte… la concorrenza è notevole, non sono affatto certa che tu sia il migliore…”.

“Invece io ne sono sicurissimo… sarebbe un duro colpo per la mia immagine… e comunque non c’è nessuno abbastanza abile come me… la targa la vincerei più e più volte… il sangue conterà qualcosa, no? Sono sempre il figlio di Lucius Malfoy e quella è una polizza sulla vita…bè, ripensandoci, non è esattamente una polizza sulla vita, credo più su un’orribile morte e su tormenti eterni, ma nel multiforme mondo della menzogna è indubbiamente una garanzia…”.

Non riusciva a sentire che cosa stesse dicendo. Nella testa, aveva solo un pensiero. Una preghiera.

Alza il capo, guardami, inarca il sopracciglio ed ostenta ogni tua dote, Granger. Dimmi che sono un idiota, dimmi che non mi credi, dimmi qualsiasi cosa che mi faccia innervosire. O che mi faccia sorridere, mentre cerchi di essere implacabile, e sembri solo un buffo pesce palla in posizione da combattimento. Fammi desiderare di sbatterti per strada, fammi smettere questa ironia fastidiosa anche su mio padre, che non so da dove mi venga. O meglio, lo so da dove mi viene.

Mi viene dal pensiero che tu mi liberi da questo senso di colpa. Stupido, inutile, lercio. E dal desiderio. Che tu sorrida ancora.

Sii il dannato tormento dell’inferno, sii una schiavitù immorale, sii una droga insulsa… ma sorridi, Granger, dannazione.

Che diamine mi stai facendo, Hermione Granger?

“Questo si chiama nepotismo, Malfoy…”  la sentì obiettare contrariata, quasi come ci stesse credendo sul serio. Fece un passo, avvicinandosi e replicando convinto: “Questo veramente si chiama DNA, Granger…” .

“Credo di essermi persa nel sottotesto della conversazione…” chiese sconcertata, un’ombra di sorriso mentre finalmente sollevava gli occhi, anche se rifuggiva dal guardarlo “Stiamo per caso parlando in maniera civile? Anche se comunque in un modo alquanto contorto?”. Fu sufficiente. Quel sorriso fu sufficiente per farlo tornare in sé, per abbandonare quell’ansia senza senso e senza motivo. Vederla al sicuro nel suo castello di stoffa.

Nemmeno lui riusciva a guardarla.

Poteva dire che era vergogna, per la sofferenza che le aveva causato… il nuovo mondo avrebbe detto così? Il vecchio, sicuramente, avrebbe replicato che non si vergognava di guardarla, assolutamente. E perché, poi?

Lui aveva detto la verità, anche se faceva male… ma era lui, la vittima, non viceversa. Quindi poteva guardarla da un’altitudine di milioni di metri, con il mento alzato che sollevava sempre lei.

Ed invece… non ce la faceva. Temeva di vedere un segno qualsiasi sul suo volto… una prova, una traccia, un’orma delle sue parole.

E non c’entrava Helena… per la prima volta, nemmeno lei c’entrava nulla, non c’entrava pensare che, così, Hermione le avrebbe somigliato meno, ed addio progetto di dipingerla … c’entrava solo che non voleva lasciarle segni, non lui.

Non in quel modo. Non, dopo esserle entrato nella mente così. La sporcassero gli altri, con i loro ragionamenti e le loro congetture, ma non lui.

Ne aveva sporcate troppe, di persone pure.

Si sedette accanto a lei, che non parve nemmeno muoversi, per poi scrollare le spalle, dicendo, lo sguardo fisso davanti a lui: “Assolutamente no, Granger, sarà una tua impressione… stiamo parlando solo in modo contorto…”.

“Credo che questo sia al massimo che ci possiamo aspettare l’uno dall’altra, no?” la sentì sorridere ancora, una stretta tiepida al torace, la sensazione che, in fondo, non stesse poi così male. O che comunque poteva andare avanti.

Recuperò parte del suo autocontrollo, inarcando un sopracciglio e mormorando quasi offeso: “Sicuramente è il massimo possibile… e ti informo che è già stato un enorme sforzo… ne potrebbe andare della mia salute fisica e mentale…”.

“Lo capisco…” la sentì sospirare, guardando davanti a sé, esattamente come faceva lui, fingendo un’espressione seriamente preoccupata. Non cercava di guardarlo, nemmeno per sbaglio. Teneva le iridi puntate davanti a sé, come una statua di pietra, imitando il contegno rigido del suo corpo. Sicuramente, ora si sentiva debole, vulnerabile… o forse si vergognava per quello che aveva sostenuto per anni… le poteva essere tipico, conoscendola.

Si stupì per un istante di quante cose, suo malgrado, sapesse di lei, prima che Hermione riprendesse a parlare: “Deduco che adesso sia al momento per me di fare l’enorme sforzo…”, poi la sentì appena bisbigliare piano: “Scordati la targa per quest’anno, Malfoy… penso che la vincerà il Ministro Potter…sì, Harry Potter… il Ministro della Magia e il più grande bugiardo del mondo…”.

“Il Ministro?!!! No, non è possibile!” mormorò autenticamente scioccato, era così strano sentire quelle parole sulle labbra della Granger, era tipo come sentir dire a Voldemort che i mezzosangue erano dei validi elementi della Comunità magica. La sentì sorridere, ma poi fermarsi di botto, come se improvvisamente si fosse ricordata che non era il caso di stare lì, con lui, a ridere di Potter. Giusto, che fosse il mondo nuovo, non implicava ugualmente che non fosse un mondo assurdo ed illogico.

Come era assurda ed illogica quella vicinanza, da vecchi amici…

Non erano vecchi amici, dannazione… non erano nulla. Perché erano lì? Assieme? Perché era ancora lì, lei? Perché era ancora lì, lui?

Non lo sapeva… ed era un fastidio atroce, non saperlo.

Poggiò il braccio piegato sul ginocchio, sospirando e sentendo lo sguardo di Hermione addosso. Per la prima volta, sembrava solo curiosa, non arrabbiata, non irritata verso di lui. Ed anche lui, in fondo, era solo curioso.

Una curiosità, l’uno per l’altra, scoperta dopo anni… quando si dice, un mondo assurdo… si erano passati accanto per anni, e solo adesso erano curiosi l’uno dell’altra.

Ma c’era una cosa che lo incuriosiva più di tutto… ora, in quell’istante, che forse era il massimo della confidenza tra di loro ed in cui doveva sembrargli Helena più di tutte le altre volte, Hermione non le assomigliava affatto. Le gambe ancora piegate, il mento poggiato sulle ginocchia, gli occhi rossi ma asciutti, i capelli spettinati ed agitati dal vento… non le somigliava più. Ma era soprattutto l’atteggiamento, ora, a renderle diverse.

Helena avrebbe pianto, se la sarebbe presa con lui, probabilmente se ne sarebbe andata via.

Hermione non piangeva, era stranamente gentile, non accennava a muoversi di un passo.

Cercò di cancellare quei pensieri, tornando a concentrarsi su di lei, aggiungendo in tono noncurante: “Nel suo caso, si dovrebbe parlare di omissione, non di bugia vera e propria…”. Gli era venuto anche di difendere Potter, incredibile… ma ovvio.

In fondo, era davvero difficile avere a che fare con una donna del genere, diamine… come la si faceva a guardare in faccia, con quegli occhi indagatori che aveva, e dirle la verità?

Si riscosse, però, da quel pensiero, Potter era pur sempre il suo migliore amico. Era un suo compito. Inoltre dubitava anche che fosse stata solo una dimenticanza, anzi… sicuramente non glielo aveva detto, perché era utile averla al suo servizio.

“Non pensavo davvero che non lo sapessi… ero convinto, insomma, che il Capo degli Auror le sapesse queste cose…” aggiunse dopo un po’, la voce che si piegava in un accento di scusa, prima che lo potesse impedire.

“Teoricamente sì…” rispose lei senza esitazione, sollevando il mento e raddrizzando la schiena “Ma Harry mi ha spiegato che Scrimeogeor ne ha combinate molte per mettere tutto a tacere. Nessuno ne ha mai parlato, nonostante alla fine della guerra di cose simili ne venivano fuori ogni giorno. Abusi di potere, violenze, razzie. Ma mai sugli Auror… soprattutto per quanto riguardava loro, il Ministro fu molto prudente. Seppellì ogni cosa, voleva che la gente avesse fiducia negli Auror e nella loro rettitudine. Una cosa del genere avrebbe tolto anche questo alla gente, anche quella residua fiducia. Quando Harry l’ha scoperto, ha deciso che sarebbe stato meglio lasciare le cose com’erano per evitare ulteriori scandali… ormai era passato del tempo ed alla fine Harry la pensava come Scrimeogeor. Mi ha detto che c’era la guerra e, se dovessimo condannare ogni persona per ogni tipo di crimine, bè non la finiremmo più… tutti sanno che gli Auror hanno ucciso i tuoi, non è accusare qualcun altro, questo ha detto… e ha aggiunto che non è propriamente utile in questo momento che tutti sappiano come li hanno uccisi… quindi, gli Auror sono rimasti al loro posto e nessuno ha più parlato di questa storia. Quando sono subentrata io nella carica di Capo degli Auror, hanno logicamente supposto che non sarei stata d’accordo con la decisione del Ministero, quindi non mi hanno detto nulla in modo da impedire che creassi problemi o avessi remore verso i responsabili…”.

“E’ quello che avresti fatto?” le chiese, senza nemmeno accorgersene, le parole che fluirono veloci, mentre si voltava verso di lei, puntando gli occhi nei suoi. Nel buio che li circondava, non riusciva a distinguere nettamente i particolari del suo viso, quelli che, per tante ore, aveva scrutato alla ricerca di quelli di Helena. Ma, ora più che mai, non sembrava Helena, ed ancora si chiese quando e perché gli sembrasse lei. La Granger aveva gli occhi lucidi, spalancati, ma colmi delle solite luci che risplendevano come lucciole impazzite. Il solito sguardo da Granger, simile a quello di una bambina curiosa, che a volte inteneriva, a volte innervosiva, sempre faceva sentire a disagio, perché sembrava che stesse sempre alla ricerca del particolare che le sfuggiva, il pezzo che non tornava. Era lo sguardo di una maestrina, che impartisce le lezioni… ma adesso stranamente era più soffice, più lieve, mentre sembrava quasi arrossire. Era lui, forse, che la stava mettendo a disagio, adesso, guardandola.

Ma, come sempre, lei non l’avrebbe mai ammesso, infatti si limitò a deglutire, ma restò con gli occhi fissi nei suoi, come se cercasse di trasmettergli qualcosa, al di là delle sue parole.

Sussurrò serissima, le labbra rosse si aprirono appena: “Non sarei nemmeno diventata un’Auror, se avessi saputo una cosa del genere…”.

“Non è vero…” le rispose d’istinto, distogliendo di nuovo lo sguardo da lei. Non le credeva… non fino a quel punto. Stava mentendo, era sempre stata brava con le frasi d’effetto. Era nata per fare l’Auror e non poteva essere così idiota da non farlo solo per un episodio. Stava esagerando… ovvio. Evidentemente era in vena di spararle grosse, in modo che lui si fidasse di lei.

Era il mondo nuovo, d’accordo, ma non era ancora arrivato il tempo della fantascienza. Non la odiava più, d’accordo, poteva stimarla, va bene… arriviamo anche che le faceva tenerezza, al pari di Serenity… ma da qui, alla fiducia, ne correva di acqua sotto i ponti… e soprattutto ne correvano di parole non così assurde come quelle.

Ma lei non si arrese, figuriamoci, non si arrendeva mai. Le ritornò la cadenza autoritaria consueta: “E’ verissimo, invece…ho deciso di essere un’Auror per impedire che tutto quello che avevo passato durante la Guerra capitasse a qualcun altro… volevo disperatamente che tutto quello che Voldemort e i Mangiamorte hanno fatto, fosse solamente un ricordo. Se un Auror è capace di fare cose del genere, se è tenuto al suo posto perché in fondo non ha fatto niente di così grave, se tutti hanno pensato che si poteva chiudere un occhio, se persino Harry ha concluso che a creare problemi potevo essere solamente io e non tutti gli altri… bè, allora vuol dire che non era decisamente la mia strada…”.

Ingenua, stupida dannata ingenua… ti faranno a pezzi, un giorno o l’altro…

Loro ti avrebbero fatto a pezzi… sai, quante volte ho raccontato a mio padre di quello che mi facevi passare a scuola? Sai quanto avrebbe voluto ucciderti lui? Sai quanto avrebbe riso, se ti avessero catturato?

Avresti avuto lo stesso destino di mia madre, idiota… anzi peggio… perché sei ancora giovane… e sei anche carina, Granger… ti avrebbero violentato fino alla pazzia… cresci, dannazione, prima che ti facciano a pezzi…

“Anche se hanno ucciso due persone che, se ne avessero avuto la possibilità, ti avrebbero fatto fuori senza tanti complimenti?” replicò arrogante, guardandola ancora.

Avrebbe voluto prenderla a schiaffi, per farle entrare quei concetti basilari nella testa, spiegandole che non era compito suo salvare il mondo, ma cercò di calmarsi e di far filtrare via quel nervosismo, che lei gli metteva addosso.

In fondo, non era la sua balia.

“Soprattutto in quel caso…” mormorò lei, abbassando lo sguardo “Volevo dimostrare che non sono come loro… ed invece alla fine non c’è nessuna differenza… uccidere una persona fa parte del pacchetto. E sembra quasi che non ci si possa tirare indietro, nemmeno volendolo… quindi, se è così, è chiaro che non è più quello che posso fare… non voglio uccidere nessuno, né ora né mai… chiunque egli sia…”.

La ferita c’era, nell’anima, fresca. Era solo lei che non la dava a vedere… ma non significava che non ci fosse.

Che uno non mostri le ferite… non significa che non le subisca.

Hermione Granger, forse, veniva anche ferita più volte delle persone comuni, visto com’era fatta… sempre a difendere valori, in cui non credeva più nessuno… ma non lo dava mai a vedere.

“E adesso? Che cosa farai?” le chiese lui, ancora, tornando a guardarla in viso. Ancora curioso.

La vide inarcare un sopracciglio, mentre lo guardava con espressione assolutamente sconvolta: “Ma stai bene, Malfoy? Non è che hai contratto qualche rarissima malattia infettiva? Ti stai davvero interessando a che cosa ho intenzione di fare?”.

Ecco, accidenti alla curiosità… se la doveva segare quella lingua…

“Non mi sto assolutamente interessando a te, Granger…” aggiunse calmo e freddo, incrociando le braccia e distogliendo ancora lo sguardo da lei “Mi sto interessando alla mia cameriera, non ad altro… e alla mia salute, se Seth dovesse scoprire che ti ho licenziato di nuovo…”. Già, soprattutto alla sua salute… tra l’emicrania post Astoria che inveiva perché lei lavorava ancora qui, e quella post Seth che uggiolava perché lei non lavorava più qui… era peggio la seconda.

Almeno Astoria la poteva far tacere, minacciando davvero di rompere la Promissio Gemina… con Seth non aveva armi di ricatto.

“Vuol dire che lavoro ancora qui?” chiese lei meravigliata, spalancando gli occhi, avvicinandosi quasi a lui, come se non credesse alle sue orecchie “Ma non avevi detto che…”.

“Ricordo perfettamente che cosa ho detto…” la interruppe lui, velocemente. Ovvio, non si poteva accontentare di quattro parole in croce, bisognava ricordare che l’aveva licenziata… e mettere il dito nella piaga sul senso di colpa di averle rovinato la carriera da aspirante omicida... lei però non aggiunse altro e le fu quasi grato per questo. Quasi, ovviamente. Ci mancava esserle grato, oggi.

“Almeno per il momento, la decisione è sospesa, Granger… è solo per il party, sia chiaro… è tra pochi giorni e non farei mai in tempo a trovare un’altra cameriera, ammesso che Seth non mi ammazzi prima…” aggiunse risoluto e deciso a chiudere immediatamente quella conversazione imbarazzante.

“Non avevo pensato a nulla di diverso da questo” sorrise lievemente, guardandolo.

… la ferita è ancora lì… ma almeno sorride, di nuovo. 

“Ecco, appunto…” trattenne tutto sé stesso, per non sorriderle in risposta. Che diamine, si stava rincretinendo del tutto, se si metteva anche a sorriderle… qualcosa filtrò sul suo viso, ma si affrettò ad alzarsi e a voltarsi prima che se ne accorgesse.

Ispirazione improvvisa… sorrideva, certo, ma in modo più debole. La ferita c’era, che non la mostrasse non significava nulla.

Non voleva essere stato lui ad infliggerla… avrebbe dovuto pensarci Potter, non lui. Ancora.

“E comunque, Granger…” aggiunse di spalle, poco certo di voler vedere che cosa avrebbero riflesso i suoi occhi. Al suo cenno d’assenso, proseguì:  “Ero davvero convinto che tu lo sapessi…”.

 “Non importa…” sussurrò lei, in un flebile sospiro gemello del suo.

“Smetterai di essere un’Auror?”. Dannata curiosità idiota.

“Non lo so… in fondo, ho due anni per decidere… la condanna finirà allora… finalmente qualcosa di positivo in questa storia…”.

“Fai come vuoi, sei libera di farlo, ma…” esitò, non voleva dire più nulla, ma non poté impedirlo a sé stesso, inspirò profondamente: “… ma non farlo per questa storia… non se lo meritano…”.

L’avrebbero fatta a pezzi, se avessero potuto. Cresci, dannazione, Granger.

“Sarò io a giudicarlo questo, Malfoy…” replicò fredda “So solamente una cosa… se dovessi tornare, non avrò pace finché non avrò gettato ad Azkaban i responsabili della fine dei tuoi… e questa è una promessa…”.

Non sapeva che farsene delle sue promesse. Specie di quella, poi.

“Non è necessario…” le disse, voltandosi nella sua direzione, sibilando gelido come il vento che gli scompiglia i capelli biondi: “A me non interessa che siano morti, non mi interessa come sia successo, né chi sia stato a farli fuori… meritavano quello che gli è successo ed è giusto che sia finita così… non me ne frega nulla di questa storia… e tu non mi devi niente… come non mi doveva nulla il Ministero… ho accettato quello che mi stavano dando perché mi conveniva, non per altro… non voglio essere risarcito per qualcosa che forse avrei finito per fare io stesso se le cose fossero andate avanti… e comunque non voglio essere in debito con nessuno, tantomeno con te… spero che questo sia chiaro…”.

“Cristallino, Malfoy…” ribadì a sua volta, guardandolo dal basso, ma con uno sguardo da far dubitare che fosse ancora seduta “Con una sola obiezione… anche a me non interessa nulla, ma di quello che potrai dirne tu… lo farò per me, non per te. Tu non mi dovrai nulla, mai… perché lo farò soltanto per me e per quello che dovrebbero essere gli Auror… non per te. Questo, scordatelo, Malfoy…”.

“Fai come ti pare…” le rispose acido, prima di voltarsi. Figuriamoci, fa sempre come gli pare…

Sparì, chiudendosi la porta alle spalle, sospirando per la fine di quell’estenuante conversazione. Era assurdo tutto quello che era successo… l’aveva trattenuta di nuovo lì… e nemmeno con la certezza, dopo quella sera, che lei somigliasse effettivamente ad Helena. Quella sera, non l’aveva più rivista in lei. Era peggio dell’enigma della Sfinge, accidenti a lei.

Solo a letto, si concesse il lusso di un nuovo sorriso, ripensando a quella situazione.

Afferrò il cellulare, scorse l’ultima chiamata, quella che aveva rotto il silenzio perfetto di un pomeriggio sonnacchioso, avendo l’effetto di sconquassarlo fino alle ossa. Spinse il tasto verde, attese in linea, prese fiato quando qualcuno rispose.

Poche, pochissime parole, pronunciate con voce affrettata e tagliente. Senza nemmeno una presentazione, un saluto.

“… la Granger è qui, Potter… ma ci resta…”.

 

Ed ecco qua, il nuovo capitoletto!! E premetto che come sempre è stato un parto plurigemellare!! Il motivo è chiaro, è passato tantissimo tempo dal mio ultimo aggiornamento… ma a parte i soliti problemi di ispirazione e di immedesimazione in Draco, cosa che mi riesce sempre difficile dato che non voglio trasformarlo in un personaggio melenso, ho avuto anche alcuni casini fastidiosi che mi hanno impedito di scrivere… oltre che lo studio…! Lasciamo perdere, J ma adesso sono tornata con vostra gioia, spero…! Mi sono fermata qui nei ricordi di Draco, per due motivi: il primo strettamente pratico, e che chi mi segue su FB già conosce… c’era un altro ricordo da inserire, che io ho definito “tenero” e che mi piace alquanto… ma purtroppo mi sta prendendo tempo ed è passato davvero troppo dall’aggiornamento. Secondo motivo, più teorico: volevo che il chappy finisse qui, concludendo la fase dell’odio di Draco per Herm, mentre dal prossimo apriremo la parentesi della progressiva amicizia, stima ed amore. Nell’ultimo ricordo, infatti, ne ho messo le premesse, come vedete…J Purtroppo i ricordi mi prenderanno ancora molto tempo, non ne posso tralasciare molti e soprattutto devo rivedere che cosa ho scritto, ai tempi, dal punto di vista di Hermione, per far collimare il tutto… e sono passati quasi 2 anni dal primo capitolo! J Chiedo scusa se non riesco ad inserire i ringraziamenti per le scorse recensioni, ma ho come sempre il tempo contato, ma davvero ringrazio tutti coloro che mi seguono, sia che recensiscano, sia che leggano solamente, sia che mi contattino su Fb, sia per altre vie, sia coloro che mi stanno aiutando a rendere questa storia più bella di quanto già non sia… in particolar modo, mi sento di ringraziare la mia cara Nadia che come sempre mi ha dato tanti consigli per questo capitolo (oltre che ascoltarmi in decine di crisi esistenziali diverse!) e Ophelia che con il suo affetto è riuscita a tirarmi su in parecchie occasioni… grazie davvero!! Un enorme bacio Cassie!:D

 

 

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Capitolo 32
*** Love song requiem step three ***


Questo capitolo necessita di una premessa, che spero leggerete tutti. Credo che sia un passo obbligato, considerando che l’aggiornamento arriva dopo più di cinque mesi.

Non posso dire di non aver aggiornato per mia pigrizia, o per mia mancanza di tempo, anche se sicuramente lo studio, gli esami e quant’altro hanno influito. E sicuramente, come molte altre volte, ho avuto delle crisi d’ispirazione tali da bloccare il mio lavoro, ed infatti leggendo forse noterete che c’è qualcosa di particolare che non ne era previsto e di cui ho dato conto via Fb e che ora non riprendo per non spoilerare troppo…J . Credo di non aver aggiornato per la profonda mancanza di stimoli che mi ha causato il ricevere pochissime recensioni nello scorso capitolo, a fronte di un numero di visite sempre molto alto . 8 recensioni (di cui alcune negli ultimi tempi) contro 1528 visite. Ora ovviamente so che molte di queste visite non sono veritiere, nel senso che basta aprire il capitolo per far scattare il contatore, ma comunque il numero è molto alto, considerando che questa storia ha comunque 176 preferiti e ben 274 seguiti. Ora è chiaro che io non pretendo commenti da tutti, ad ogni capitolo, e specie da persone meravigliose che mi fanno sempre sapere il loro punto di vista anche per altra via. Ma queste sono cose che non fanno molto piacere. Sarò dura, ma io non nessun dovere di pubblicare questa storia, potrei benissimo continuare a scriverla e mandarla via mail a coloro che mi seguono. Sarebbe semplicissimo no? E so perfettamente di essere magari impopolare o ripetitiva con questo discorso, ma per pseudo autrici come me che comunque non hanno moltissima fiducia nelle proprie capacità e credono sempre di non essere all’altezza, questa è stata una bella botta. E ripeto, non mi sono mai lamentata, quando le recensioni erano una quindicina, perché non credo nemmeno di meritare duecento recensioni a capitolo, ma credo che questo discorso fosse comunque doveroso, perché la recensione può anche servire a dire che la storia sta prendendo una piega sgradita, io lo accetterei. Ed invece nulla.

Se sono stata convinta non solo a pubblicare, ma anche a continuare questa storia, lo devo all’entusiasmo di alcune ragazze straordinarie, che davvero mi hanno riempito il cuore. Ovviamente sapete che parlo di voi, Francesca, Turchese, Nadia, Ale Stella, Sandra, Anna, Rosa e tantissime altre che adesso probabilmente e, con somma colpa, sto dimenticando. Le prime due, in modo particolare, mi hanno davvero incoraggiato tanto. Hanno creato un gruppo su FB su cui invito davvero tutti, perché è meraviglioso, e si chiama Put a spell on her eyes (http://www.facebook.com/groups/209545025766521/) e mi hanno sostenuto in ogni modo possibile ed immaginabile, dai consigli ai disegni alla realizzazione di video; e al di là di questo, mi hanno fatto sentire che la mia storia era arrivata a qualcuno, che avevo trasmesso qualcosa e che non avevo mai smesso di farlo. Davvero, sono stata fortunata a trovare persone come loro… ed è per loro che questa storia è ancora qui, in piedi.

Certo, può darsi che ora dopo tanti mesi, la mia storia non sia nemmeno più seguita come prima, oppure non piaccia più. E lo accetterò, tranquillamente. Ma se la situazione dell’ultima volta dovesse ripresentarsi, chiaro che sicuramente potrei reagire in qualsiasi modo. La mia non vuole essere una minaccia, ma una constatazione.

So che è un problema segnalato tantissime volte su EFP, e so anche che forse non c’è soluzione. Ma non dirlo, non sarebbe stato da me, come ho già detto altre volte.

Detto questo, ringrazio come sempre coloro che hanno recensito, che mi hanno fatto sapere il loro parere su FB e in altre maniere, grazie davvero.

Vi lascio alla lettura del capitolo, con un breve riassunto, nel caso vi foste persi qualcosa!

 

 

Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi, dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le sta facendo vedere i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Nella parte iniziale, come sempre, c’è un pezzettino del futuro lontano cinque anni che sta vivendo Hermione: dopo aver ricevuto una lettera, Hermione torna a Londra dopo cinque anni, intenzionata a trovare Draco con il figlio Alex.

E in questo capitolo, sta parlando con qualcuno…

 

 

 

Capitolo 32 – Love song requiem step three

 

“Sei cambiata… non che non lo immaginassi, ma… insomma… anche esteticamente… vederti è tutto un altro paio di maniche…”.

“Bè, ci sta… sono passati cinque anni, in fondo…”.

“Non credo che sia per quello…”.

“Lo so, d’altronde portavo la stessa acconciatura da quando avevo diciotto anni… ma all’asilo, sai, quelle mamme tutte agghindate… mi facevano sentire a disagio…”.

“Un tempo, non ci avresti dato peso…”.

“So anche questo… ma fare contemporaneamente la mamma e il papà, cambia molto della tua prospettiva…”.

“E Ronald?”.

“Troppo permissivo, non credo che sia nato per questo… se doveva negare una cosa ad Alex, lo spediva difilato da me… non che volessi il contrario, insomma. Credo di aver sottolineato in ogni modo conosciuto che doveva comportarsi da amico, da zio, da qualsiasi cosa, tranne che da suo padre…”.

“Sei stata dura…”.

“Sono stata giusta… e visto com’è andata a finire, potresti darmi torto?”.

“No, onestamente no”.

“Questi anni sono stati una specie di prova continua di resistenza… per me, certo. Ma soprattutto per lui, per Ron… non lo ringrazierò mai abbastanza per aver accettato tutto questo, per proteggere me ed Alex. Specie, sapendo che è figlio di Draco… lui non l’hai mai accettato, credo che nel profondo di sé stesso, nonostante quanto Alex somigli a Draco, non ci creda nemmeno. Se vi facevo accenno, lui rifiutava anche solo di sentirne parlare, sai quante volte ho cercato di condividere con lui il dolore per averlo perso? O ricordare cosa mi aveva unito a lui?”.

“Sei stata ingenua a pensare che potesse comportarsi da amico con te, allora…”.

“Hai ragione, appena l’ho capito ho smesso, mi sono tenuta tutto dentro… e va bene così… ma, anche se credo che la sua segreta speranza fosse che Alex lo considerasse suo padre un giorno, in modo da convincere anche me a considerarmi sua moglie, le cose non cambiano. Né mai cambieranno. Sono stata vera, sono stata onesta. Sapeva che sarei tornata da lui. Ci vuole più forza per fare questo che per rimanermene tranquilla in Italia con lui… ci vuole una forza che nemmeno so se possiedo ancora, dopo tanti anni passati a resistere. Ma lo devo ad Alex… e a me… nessuno credeva che l’avrei fatto, ma lo sapevano tutti…”.

“Parli dei tuoi… o di Helder e Hayden?”.

“Di tutti… credo che a tutti avrebbe fatto più piacere che fossi rimasta in Italia, con Ron… ovvio, vogliono che sia felice, e li ringrazio per questo. Peccato che io non lo fossi, ero solo sicura, non felice… e, tornando indietro, forse non mi sarei sottoposta a tutto questo. Avrei protetto Alex in un altro modo… e sarei tornata da Draco, subito. Perché io posso essere felice solo con lui… e il loro proteggermi è impedirgli di farmi male ancora. Questo pensano, sono convinti che Draco mi manderà via, se anche riuscissi a trovarlo… cosa che nemmeno io posso escludere completamente, anzi. Molto probabilmente andrà davvero così… e se mi tratterà sarà solo per Alex, quindi è chiaro che sperassero che andasse diversamente…”.

“Tutti, tranne me…”.

“Lo so… e ti ringrazio per questo…”.

“Che cosa farai adesso? Ho fatto tutto il possibile… anche Kevin per quanto conti… sai, alla centrale… ma nulla… sono anni che non lo vedo, da quella mattina che…”.

“Io lo troverò… in qualche modo, troverò lui e Serenity… non potrei vivere sapendo di non averci nemmeno provato. Fosse anche l’ultima volta che lo vedo, io devo trovarlo…”.

 

Un piccolo seme. Piccolo, minuscolo, fragile. Timoroso, soprattutto.

Draco lo vede, lo scorge, mentre trova una culla nei suoi pensieri, un incavo di friabili convinzioni e di volubili idee. È piccolo, è fragile, ma, giorno dopo giorno, mette radici.

Mette foglie brillanti e verdi. Germoglia di colori mai visti. Fruttifica.

Giorno per giorno.

 

Quando Draco, per la settima volta in circa dieci minuti, si ritrovò a leggere la stessa riga dell’estratto conto mensile delle spese del locale, capì che c’era decisamente qualcosa che non andava. Alzò gli occhi al cielo, sospirando, togliendosi gli occhiali dalla montatura di metallo che usava per leggere, e poggiandoli sul bancone nel cono di luce della lampada verde che illuminava le carte. Si passò pensosamente un dito sul mento, cercando di recuperare il filo dei suoi conti, ma un nuovo urlo proveniente dalle cucine, lo fece desistere completamente dal suo malsano proposito di controllare l’economia del locale. Guardò l’orologio, le undici e trentacinque… se fosse stata una serata normale, a quell’ora ci sarebbe stata gente che andava avanti ed indietro, cibi e bevande portati in processione, con somma gioia delle sue tasche. Ed invece no… i babbani dovevano inventare una cosa chiamata Champions League, attinente ad un’altra cosa infernale, chiamata volgarmente calcio… e quindi, dato che c’era una partita importante, tutti erano rimasti a casa o si erano attrezzati per andare a vedere il match in un altro locale, non come il suo, che rifiutava categoricamente di proiettare le partite di calcio.

L’ultima volta che si era azzardato a fare una cosa del genere ci aveva rimesso, oltre che un buon quarto del suo autocontrollo a non usare la magia e a restare il penitente Draco Malfoy sotto mentite spoglie non magiche, anche cinque sedie ed un tavolino, dato che ad Ashley Cole era venuto in mente di arpionare con un calcio volante Steven Gerrard, che aveva praticamente già segnato.

Non che i maghi fossero da meno… le ricordava ancora le partite di Quidditch, viste con Blaise e Theodore. Là volavano Schiantesimi da far impallidire persino l’algido Piton.

Quel ricordo, ora così lontano gli fece stringere il cuore per un momento, ma poi intervenne un altro urlo sovraumano dalle cucine che ebbe, perlomeno, il positivo effetto di distrarlo da quel pensiero. Le spalle afflosciate, decise di alzarsi alla fine, per rendersi conto di che diamine stesse succedendo ancora. Non che non lo immaginasse… la colpa era la sua, certe cose uno se le doveva anche aspettare.

April aveva un esame l’indomani, ed aveva chiesto di poter fare solo il turno mattutino. Gail aveva biascicato qualcosa sul trigono di Giove con Orione, ed era fluttuata fuori qualche minuto prima. Lorna e Corinne, ovviamente, avevano inventato una serie di balle spaziali per non lavare i piatti. Lawrence, da clausola contrattuale, non aveva l’obbligo di lavare i piatti, Trey idem. Non era nemmeno venuto quella sera, dato che la discoteca era chiusa. Con somma pace delle sue orecchie, anche Astoria non c’era. Doveva incontrare quella che prendeva il suo posto a casa sua per darle la solita scorta settimanale di capelli per la Pozione Polisucco, cosa che durava tendenzialmente tutta la serata visto le lagne che faceva per strapparseli.

Ergo, gli unici due rimasti è che potevano urlare in quel modo, nelle cucine, erano ovviamente la Granger e Seth.

Si sporse, sospirando oltre la soglia, guardando all’interno. Immersi tra pile di pentole e nuvole di schiuma, mentre davano le spalle alla porta, Seth ed Hermione non si resero conto della sua presenza.

Lei era intenta a lavare i piatti, un paio di guanti azzurri di gomma che le arrivavano quasi al gomito, i capelli raccolti e tenuti goffamente assieme con l’ausilio di una matita a mo’ di fermaglio, da cui cascavano delle ciocche che lei continuava a spostare con fastidio, inarcandosi come un gatto dato che aveva le mani bagnate. Era una serata calda e nelle cucine faceva ancora più caldo, quindi si era tolta la divisa da cameriera per il solito paio di shorts neri e la maglia da calcio rossa, che, a dispetto di quello che diceva, aveva quasi adottato. Come sempre, era scalza: le ballerine nere di velluto che indossava durante il turno, erano in un angolo, ma evidentemente doveva ancora perso le ciabatte.  

Seth era alla sua sinistra, anche lui immerso nel lavabo, mentre brandiva pericolosamente il tubo dell’acqua per risciacquare le pentole, lavate da Hermione. Pericolosamente, perché lo agitava come un’arma nella foga della conversazione con l’amica, schizzando dappertutto e provocando le urla di Hermione che Draco aveva sentito da fuori. Seth era ancora vestito di tutto punto, come poco prima, troppo preso dalla conversazione per rendersi conto di avere la camicia di Armani a cui tanto teneva, zuppa fino al gomito. Senza contare la macchia di schiuma sui jeans neri.

Draco alzò gli occhi al cielo per l’ennesima volta, dire che quei due avessero legato era un pallido eufemismo… come facessero ad andare d’accordo due persone così diverse, era un autentico mistero. Draco poteva azzardare che fossero semplicemente complementari: la Granger così realistica, cinica e poco dedita alle pratiche femminili, che invece affascinavano il sognatore e vanesio Seth.

“Punto primo, uno così perfetto non può esistere! È insano, malato e fuorviante dare un messaggio simile alle ragazzine! E a te, per quello che conta, visto quanto sei ingenuo, Seth!” stava sostenendo la Granger, ad ogni parola il suo volto si faceva più rosso, specie ai tentativi di Seth di prendere la parola “Punto secondo, lei è un’idiota! Diamine, cade anche in una buca larga ottocento chilometri e visibile dallo spazio! Ma è ovvio, altrimenti quel tomo non si sarebbe mai interessato a lei se non fosse così imbranata da necessitare della scorta anche per andare in bagno!”, la Granger proseguì senza nemmeno prendere fiato, sbuffando all’ennesima ciocca di capelli che le era caduta sulla schiena “Punto terzo, è una saga profondamente anti femminista!    

Lei fa sempre tutto quello che dice lui, parola per parola, e non si ribella mai…!.Per non parlare di quando lui la abbandona. Cade in una depressione non umana!”. All’ennesimo tentativo di Seth di interromperla, assunse un cipiglio severo, inarcando un sopracciglio, prima di replicare: “E punto quarto, e per pietà non aggiungo altri duecento motivi di biasimo, un amore del genere non è amore… e basta…”.

La sua voce, su quelle ultime parole, aveva assunto un colorito più tenue, soffuso, quasi triste. Draco, ancora seminascosto dietro la porta a spinta, la vide distintamente serrare le spalle, quasi in una contrazione involontaria. Tacque per qualche istante il rumore anche delle stoviglie e dei gorgheggi d’acqua, e il suo viso si chinò leggermente, mentre probabilmente fissava senza vederlo realmente, il lavabo ancora ingombro di piatti sporchi. Seth si voltò repentinamente verso di lei, guardandola preoccupato. Doveva aver capito che cosa le fosse passato per la mente, perché le posò una mano sulla spalla e sussurrò: “Herm, tutto ok?”.

Lei, come se fosse stata attraversata da una scarica elettrica, inarcò la schiena, tornando dritta, come se fosse stata colta in una colpa capitale. Non era l’espressione di Helena, quella della bambina colta con le mani nella marmellata, che lui adorava tanto… no, era un’espressione completamente diversa. Helena, quando era colta in fallo, semplicemente sorrideva teneramente, piegando la testa di lato.

La Granger, no. Mai. Sbarrava gli occhi, serrava le spalle, contraeva le dita, come se fosse terrorizzata. Ecco, come terrore puro… di rivelare qualcosa di troppo segreto.

Forse, di rivelare che anche lei fosse fallibile come ogni persona. Era semplicemente terrorizzata che qualcuno capisse che non era perfetta.

Draco sospirò tra sé e sé, più conosceva Hermione Granger, più studiava le sue espressioni, e più esse diventavano dissimili da quelle di Helena. Di primo acchito, infatti, ancora le avrebbe potute confondere, ma stava diventando sempre più difficile. Si assomigliavano ancora come due sorelle, ma lentamente l’incanto stava svanendo. Era facile, prima, fraintendere le espressioni della Granger. Per esempio, lei abbassava lo sguardo e lui ripensava ai momenti di tristezza di Helena.

Ma Hermione era come un foglio di carta in controluce. Dietro, si vedeva che cosa pensava davvero. E la maggior parte delle sue preoccupazioni, dei suoi pensieri, non avevano nulla in comune con quelli di Helena.

E conoscerli, intuirli, faceva sì che la vedesse diversa.

Gli era rimasto solo il sonno della ragazza, quando non era cosciente. Era il solo momento in cui riusciva ad ingannarsi, le palpebre di lei chiuse su quegli occhi scuri, follia di domande che affastellavano la sua mente.

“Comunque tu, Twilight, stasera non lo vedi! Non nel mio spazio vitale, almeno… che comprende una superficie di almeno quindici chilometri quadrati…” esplose alla fine lei, la voce più stridula del solito. Cambiava discorso, evidente. Le spalle si erano aperte di botto nel suo solito contegno quasi militaresco, Draco si sorprese di come aveva preso ad annotare e riconoscere tutte quelle cose di Hermione, senza nemmeno rendersene conto.

Seth iniziò ad uggiolare, implorandola, dando vita ad una serie di strepiti intensificati dalla voce di lei, che continuava a perorare la sua causa con la tenacia di un avvocato.  

“Stasera nessuno vede niente di niente…” Draco, alla fine, uscì allo scoperto, pensando che solo la sua presenza avrebbe fatto terminare le lamentele di Seth, cosa che infatti accadde quasi immediatamente, mentre l’amico si voltava a guardarlo sorridendo, con il solito sguardo dolce e mieloso. Al suono della sua voce, anche la Granger si era voltata su sé stessa, guardandolo per qualche secondo, mentre un ulteriore ciocca di capelli sfuggiva dalla presa della sua acconciatura, sfiorandole una guancia. Non appena mise completamente a fuoco che si trattava di lui, Hermione abbassò gli occhi imbarazzata, restando a testa bassa.

Draco sospirò leggermente, quella era una novità degli ultimi giorni. Da quando le aveva detto dei suoi e lei si era scoperta assolutamente ignara delle trame che avvenivano alle sue spalle, Hermione era sempre timorosa di guardarlo negli occhi, abbassava il mento che prima soleva sollevare ad ogni piè sospinto, nel cipiglio orgoglioso che le era tipico. Ora, si vergognava quasi di guardarlo.

Anzi… togliamo il quasi… Hermione Granger, la Regina del Bene, si vergognava davvero di guardarlo. Si vergognava di sé stessa. Come sempre, aveva preso sulle sue spalle sottili e magre colpe non sue, le stesse colpe che, da quella sera su quella terrazza, lui le aveva definitivamente tolto, assolvendola. Era innocente anche per Draco, come era sempre stata per chiunque altro.

Ma Hermione Granger, agli occhi del suo implacabile tribunale interiore, era colpevole e meritevole di una pena esemplare. La immaginava tormentarsi nelle notti insonni, chiedendosi cosa avrebbe potuto fare per impedire quello che gli era accaduto, oppure mentre si chiedeva se avrebbe potuto sapere qualcosa di più, di fronte al silenzio omertoso del Ministro.

In attesa del supplizio e della redenzione, tingeva le guance di un rossore inquieto, serrava le parole in gola, taceva gli occhi del bagliore fiero che aveva sempre.

A Draco venne curiosamente da sorridere. Non da ridere, non di lei… solo da sorridere. Ne soppesò la figura per qualche istante, trovandola ormai curiosamente familiare, in quella cucina, con quell’abbigliamento comodo, persino in quella posa che la faceva apparire più piccola, mentre restava scalza sul pavimento della cucina e tormentava il labbro inferiore con i denti. Dopo i primi giorni di spaesamento, quando, emergendo dai suoi pensieri, la vedeva davanti ai suoi occhi e doveva fare uno sforzo immane per non chiederle che cosa diamine ci facesse ancora lì, ora era naturale vederla lì. Naturale, già. Con una semplicità che disarmava, Hermione Granger era diventata una presenza naturale attorno a lui. La guardò ancora, lei che stringeva le spalle, quasi incassandole dentro il petto, come a volersi rendere invisibile. La curvatura delle labbra sottili di Draco fiorì sul suo viso, senza che lo avesse premeditato.

Era bella.

Un tonfo nel petto, e si corresse automaticamente, senza traumi o confusione.  Non era lei che era bella: era bella la sensazione di averla lì.

Poteva essere insopportabile come poche, ma Hermione aveva il dono di illuminare e riscaldare l’aria attorno a sé. Lei non ne era minimamente consapevole,  anzi si stupiva non poco nel rendersi conto che aveva un qualunque effetto sugli altri.

Hermione spingeva tutti a migliorare, perché scandagliava dentro le persone e vedeva quello che loro non riuscivano a vedere… dove potevano arrivare, chi potevano essere, cosa potevano conquistare. Iniettava fiducia, speranza, coraggio.

In questo, non è che fosse dolce, beninteso: spesso era dura, perché odiava la gente che sprecava sé stessa, il proprio tempo, le proprie doti. Diventava quindi autoritaria, caparbia, orgogliosamente fiera e supponente.

Eppure, non c’era nessuno che non l’adorasse, come se tutti leggessero dietro quell’apparente ruvidezza, il sentimento profondo che nutriva per chi era oggetto di quelle attenzioni.

Seth e Serenity conoscevano un’allegria che Draco non li aveva mai visto addosso, ed anche gli altri colleghi le volevano bene sinceramente. Solo Astoria, ovviamente, non poteva sopportarla e chiedeva a Draco ogni giorno perché la tenesse lì.

Lo scrutava alla ricerca del particolare che le sfuggisse, memore dei celeberrimi litigi tra lui e la Granger, che avevano incontrato l’eternità tra i ricordi degli studenti di Hogwarts.

Draco non le diceva del ritratto, ovviamente, Astoria non avrebbe capito. Dall’alto della sua enorme superficialità ed egocentrismo, era convinta che lui non amasse più sua sorella, che si fosse rassegnato e lui, per quieto vivere ed inedia, glielo lasciava credere. Ma, del resto, non si sforzava di darle nessun’altra spiegazione che non fosse un vago: “La Granger è un’ex Auror… è per proteggere Serenity…”. Astoria alzava gli occhi al cielo, sbuffava, ma per ora non controbatteva, aveva troppo da perdere per farlo, ma era cristallino che la sua spiegazione si reggeva in piedi come un castello di sabbia. E se un giorno Astoria, per puro coraggio o masochismo, avesse davvero fatto quella domanda in più, che avrebbe risposto?

Non lo sapeva, Draco Malfoy non sapeva che rispondere alla domanda sul reale motivo per cui tratteneva lì Hermione Granger. Parlava di un ritratto che non sapeva nemmeno se poteva finire, per nascondersi la coscienza. E di questo se ne rese conto compiutamente in quel momento, mentre guardava Hermione incastrarsi perfettamente nelle sue abitudini e nella sua routine, con la calda e soffice sensazione di essere parte del suo mondo, di quella piccola famiglia costruita sull’argilla del dolore e sul limo delle menzogne.

Cosa li univa esattamente?

A volte, sembrava che lei agisse anche su di lui, come faceva con gli altri. Come se lo spingesse a… essere migliore.

Allontanò questo pensiero con fastidio, quasi come fosse una mosca molesta, agitando il capo con noncuranza. Figuriamoci, era solo per il ritratto. Non c’era altro dietro.

E ci mancherebbe che, a volte, persino Hermione Granger non diventasse a suo modo piacevole… in caso contrario, doveva essere davvero un errore divino che fosse nata. Non poteva avere solo difetti, no?

Riprese a parlare più sereno, convinto dai suoi ragionamenti, ma non al punto tale da non lasciarsi sfuggire un vigoroso sospiro mentre incrociava le braccia: “C’è da chiudere cassa… e io devo stare con Serenity… quindi uno di voi deve farlo, considerando anche che il vostro quieto e pacato interloquire ha reso i miei neuroni una marmellata informe…”.

Draco terminò la frase con un silenzio eloquente, guardando i due che li sostavano di fronte. Seth si dibatteva tra la voglia di assecondarlo e la noia di doversi occupare delle scartoffie, mentre in Hermione passavano migliaia di pensieri diversi.

Era facile leggerle dentro per lui, era facile in un modo quasi scontato. Anzi, più che scontato… era… naturale, ecco. Ancora. “Naturale” era la parola giusta.

Perché sembrava che lui, Draco Malfoy, fosse venuto al mondo provvisto del manuale d’istruzioni di Hermione Jane Granger.

Tanti anni fa, una constatazione simile gli avrebbe provocato ribrezzo e repulsione, poi ne avrebbe cercato un evidente tornaconto da sfruttare a suo favore.

Ora, invece, nel celeberrimo mondo nuovo che fungeva da etichetta consolatoria a tutto ciò che non aveva risposta, accoglieva quel fatto con rassegnazione perché era un altro mattone che cementava quel legame incomprensibile che li univa.

Per esempio, ora sapeva come se fosse ovvio, che Hermione stava pensando di assecondarlo, ma solo per far piacere a Seth. Era visibile negli occhi nocciola che saettavano da lui a Seth, ma ovviamente Draco sapeva di infastidirla con le sue parole e con il suo tono di voce autoritario, quindi lei respirava forte un paio di volte, inarcando le spalle. Eppure, Hermione non si sentiva in grado di contraddirlo, visto che si sentiva ancora in difetto con lui, quindi l’istinto da ribelle, che ben sopiva davanti alle regole ma che non per questo non esisteva in lei, le sigillava sulle labbra parole cariche di livore e frecciatine sarcastiche.

Draco, reprimendo ancora un sorriso, vedeva quelle parole astiose quasi premere contro la sua gola, facendo pulsare la giugulare sotto la pelle candida del collo rimasto scoperto.

Alla fine, mentre le si rilassavano le spalle, Draco capì ancora prima che parlasse che lui aveva vinto. Dietro, però, quel sorriso di circostanza, sapeva che la Regina dei Grifondoro aveva fatto vincere solo  l’affetto per Seth ed il rispetto del dovere. Nemmeno nella sua mente (anzi, forse, soprattutto in essa) gliela avrebbe data vinta in qualche modo. Accettò di chiudere lei cassa, a patto che, quando fosse risalita, Seth l’avesse piantata con Twilight.

“La fine te la registri, chiaro?!” borbottò, uscendo dalla cucina e sorpassando Draco in una lunga falcata nervosa, raggiungendo velocemente la cassa. Draco si voltò un secondo dopo che lei gli passò davanti, seguendo senza accorgersi la scia ramata dei suoi capelli disordinati. Aveva ancora lo stesso odore tenero di quando era a scuola, profumo di vaniglia, come quello di una bambina. Era la prima volta che si rendeva conto che era sempre lo stesso di tanti anni fa.

Gli faceva tornare in mente tante cose quel profumo, si srotolavano giorni e giorni davanti ai suoi occhi, sentendolo. Quando era a scuola, era come un campanello d’allarme, gli sembrava di fiutare la Granger come un animale  da caccia.

Ovviamente non era cosciente di conoscerlo, ma lo avrebbe riconosciuto subito. La percepiva immediatamente, quando era vicina.

Era sempre la stessa, negli anni lei non era mai cambiata. Era come una di quelle montagne immutabili, che conoscono le stagioni come qualcosa di capriccioso ed instabile, restando sempre identiche a sé stesse in modo fiero e nobile.

Era… una roccia. Si chiedeva che cosa potesse spezzarla davvero.

Persino la scoperta dell’inganno ordito alle sue spalle da Potter, aveva aperto delle crepe in lei, ma l’aveva lasciata in piedi.

Ci doveva essere qualcosa… ma cosa?

“Danny, che cosa c’è?” la voce di Seth lo raggiunse alle spalle, facendolo sobbalzare. Seth seguì lo sguardo di Draco vedendolo puntato su Hermione che si era appena seduta al bancone del ristorante, cercando di mettere ordine tra le carte sparse. Il ragazzo moro gettò un’occhiata in tralice a Draco, sorridendo appena, mentre lui si affrettava a replicare che stava andando di sopra. I suoi passi conobbero una fretta che non aveva mai, mentre saliva le scale a due a due.

Fremiti, tremori, sospiri, magoni… da quando c’era la Granger, conosceva dimensioni del sentire umano che aveva dimenticato.

Si stese a letto, era un bene? No, non lo era. Non c’era nemmeno bisogno di farsela quella domanda.

Non aveva bisogno di sentirsi vivo… aveva bisogno di esistere abbastanza da prendersi cura di Serenity, controllare Astoria ed uccidere Pucey e Montague.

Chiuse gli occhi nella penombra crescente, non aveva bisogno di Hermione Granger e della curiosità che gli metteva addosso. O dell’ansia di scappare dalle stanze dove c’era lei. O del nervosismo che gli trasmetteva, camminandogli vicino.

Non aveva bisogno di chiedersi che cosa avesse il potere di spezzarla, o di accorgersi che il suo profumo era lo stesso di tanti anni fa, o di conoscere a menadito le sue espressioni e i loro significati.

Non aveva bisogno di lei.

Si alzò da letto con un piccolo balzo, il passo che non ne voleva sapere di tornare largo e disteso, sebbene fosse impercettibile la sollecitudine che imprimeva i suoi movimenti in modo nuovo, febbrile, ansioso, mentre raggiungeva Serenity. Cercò di saturarsi degli occhi della bambina, immergendosi nel ricordo ceruleo di quelli di Helena, cercando di scavarsi quel colore nella memoria, il pezzo del suo ritratto che non sarebbe mai potuto provenire dalla Granger.

Serenity si addormentò, dopo aver mangiato, e Seth rientrò, accasciandosi sul divano, e lui, a quel punto, sarebbe andato a letto, chiudendo gli occhi sui suoi pensieri neri.

Avrebbe sognato alberi di Natale in fiamme, spiagge grigie dal mare spento, rose dall’odore di ciliegia che gli marcivano tra le dita. E sarebbe andato bene, perché era un modo di avere vicina Helena, nel rimpianto e nel rimorso che non lo lasciavano mai.

Era un modo per continuare a punirsi della sua morte, ed andava bene così.

Invece, continuava a marciare per casa, senza sapere che cosa fare, né che cosa dire, guardando l’orologio piegare le ore in minuti pigri e secondi indolenti. Per converso, le vertebre, le ossa, persino la sua pelle, fremevano di impazienza, di inquietudine e di una forma continua di cupa eccitazione, che non gli facevano chiudere occhio. Non riusciva nemmeno a stare a letto disteso, senza sentire l’improvviso impulso di alzarsi, come se fosse steso su un cumulo di rovi ed ortiche.

Alle tre, quando oramai tutta la casa dormiva e Seth aveva finalmente spento la tv, decise di andare di sotto per farsi una passeggiata. Già che c’era, poteva controllare il locale, accertarsi che le luci fossero tutte spente, cose così… impiegare il tempo.

E già mentre lo pensava, la sua mente considerava strana quell’occupazione. Impiegare il tempo… non ne aveva mai avuto bisogno.

Il dolore e la noia del vivere erano una spugna che assorbiva tutto il tempo, impregnandolo di lercio.

Pazzesco, aveva bisogno di impiegare il tempo… e di notte, poi… assurdo…

Scendendo le scale, intravide un bagliore rosato provenire dalla sala ristorante. Il suo respiro si distese, trovando un ideale bersaglio a quel fremito delle ossa che lo stava facendo impazzire. Poteva inveire contro lo spreco di energia, tacciando qualche incauto dipendente di mancanza di riguardo per le sue risorse finanziarie e per l’intera gestione del locale; avrebbe borbottato un po’, risalendo le scale, magari avrebbe anche dato un calcio a qualche sedia ed, infilandosi nelle coperte, avrebbe fatto sbollentare la rabbia nell’aristocratica consapevolezza che non tutti potevano essere come lui. Non tutti erano lui.

Il suo passo si gelò sull’ultimo gradino, mentre la sua mano si artigliava al corrimano.

L’ansia inspiegabile si sedò come sotto l’effetto di un anestetico, acquattandosi come un predatore nella boscaglia, mentre i suoi occhi, acclimatandosi alla penombra, inquadravano l’unica zona luminosa della stanza.

Aveva i capelli color dell’oro rosso sotto quella luce, scivolavano invisibili gocce di riflessi, mentre dormiva. Sembravano quasi attingere da una fonte sotterranea e poi scrosciare liberi, percorrendone tutta la lunghezza.

Hermione si era addormentata con la testa china sul bancone, le braccia incrociate come uno scomodo cuscino e le labbra semiaperte. Sulle spalle, aveva messo una felpa stinta e consumata, forse perché aveva freddo, ma ora stava scivolando di lato. Le palpebre chiuse fremevano leggermente ad ogni respiro, che sembrava più frettoloso del solito. 

Draco sospirò, sgradita calma nel petto, e fece qualche passo, avvicinandosi di più a lei. Meditò sull’idea di salire di sopra e prendere carta e matita, in modo da andare avanti con il suo lavoro sul ritratto di Helena, ma non ne aveva voglia. Improvvisamente, quel tumulto interiore, per cui avrebbe pagato milioni di galeoni pur di fare qualcosa, si era congelato in una bonaccia priva di alcuna volizione o intenzione.

E poi, diamine… quella sera gli parve davvero assurdo cercare Helena in Hermione Granger.

Assurdo, già, perché oramai il delicato filo rosso che le univa ai suoi occhi, si stava disgregando come nulla, persino mentre le guardava dormire.

Helena dormiva del sonno di una creatura da fiaba, la immaginava ancora così nel sonno della morte, anche se non l’aveva voluta vedere al suo funerale. Impalpabile il respiro, immobile il viso, perfetta nella sua aurea serenità e pace. Il giorno poteva portarle dolore, angoscia, senso di colpa, ma di notte Helena rinasceva come un fiore dorato, cullandosi in una quiete che la faceva somigliare ad una principessa addormentata, in un mondo che peccava se non si addormentava assieme a lei.

Hermione, invece, era sempre agitata, anche quando dormiva. Raramente, dormiva di filato per un’ora, la sentiva spesso svegliarsi ed andare in giro per casa, a meno che non fosse stanchissima. I suoi sogni erano sempre pieni di particolari che la facevano sobbalzare, spaventare e muovere con ansia. Spesso, quando la ritraeva, si era dovuto allontanare di scatto, perché si stava risvegliando di soprassalto. Aveva pochissimi attimi, in cui dormiva tranquilla, e quindi assomigliava ad Helena.

E quella notte non era tra quelle tranquille.

La sentiva addirittura mormorare qualcosa, con voce quasi incrinata dal pianto. Voce spezzata. Lei che si spezza. Qualcosa che la spezza.

Quel flusso di pensieri diedero impulso alle sue gambe di muoversi ancora, fisso sulle sue labbra rosse che si aprivano e si chiudevano, sillabando con dolore qualcosa. Qualcosa che si ripeteva, continuamente, e qualcosa che lui non conosceva.

Qualcosa, che la stava lacerando dall’interno e che non aveva nulla a che fare con lui. Già, perché quel qualcosa non sembrava avere a che fare con la morte dei genitori di Draco e sull’inganno di Potter, che pure l’avevano tanto prostrata.

Era qualcosa di diverso… e come sempre il manuale d’istruzioni di Hermione Granger, tornò utile come non mai. Lo pronunciava con colpevole affezione, lo ripeteva come qualcosa che conosceva bene, lo assaporava anche nel sonno come un caldo conforto che racchiudeva in poche sillabe tutto un senso che Draco non conosceva. Un senso che si era spezzato, tra le sue mani.

Scommetteva che fingesse che non fosse importante… ma nel sonno lo rincorreva, chiedendosene il motivo.

Si sentiva  un sonnambulo, camminava a passi piccoli ed incerti, la distanza da lei sembrava allungarsi a dismisura. Era come trascinarsi dietro una catena di domande, legate alla caviglia, che lo rendevano più lento.

Tra quelle, primeggiava in pesantezza quella più ovvia: che cosa gli interessava delle parole che Hermione Granger pronunciava nel sonno?

Quella constatazione fu provvidenziale, perché lo fermò un attimo prima che Seth scendesse le scale, stropicciandosi gli occhi. Draco finse un’espressione scocciata alla vista della ragazza addormentata, come qualsiasi datore di lavoro che vede il suo dipendente dormicchiare sul posto di lavoro. La indicò con il capo a Seth, alzando le sopracciglia con aria annoiata.

“La prossima cameriera che assumiamo, dovrà avere la particolare qualifica di restare sveglia dopo mezzanotte…” commentò Seth con voce che voleva essere sarcastica, ma uscì solo tenera, guardando Hermione “Ieri sera mi sono spaccato la schiena a riportarla in camera… stasera ci pensi tu Danny?”. Draco, che era profondamente perso nei suoi pensieri, sussultò: “E che, non può dormire qua?! Peggio per lei che si è addormentata… oppure la sveglio e tanti saluti…”.

“Ti sconsiglio entrambe le cose…” sbadigliò Seth, salendo di sopra con nonchalance “Domani sarebbe intrattabile… e ti giuro che non è bello che sia intrattabile…”. Pronunciò le ultime parole con il giusto tono sospeso tra la minaccia e la paura.

Gettando un’ultima occhiata divertita alle sue spalle, mentre fingeva un improvviso colpo di sonno tale da non lasciarlo nemmeno finire il discorso, si chiuse la porta alle sue spalle, gettandosi sul letto.

L’armadietto di Summer poteva sicuramente contenere almeno dieci delle sue camicie di Armani, rifletté sogghignando prima di addormentarsi profondamente, a bocca spalancata.

Draco imprecò tra sé e sé, mentre la porta della camera di Seth chiudendosi, produceva un rumore sordo, amplificato dal silenzio della notte. Passeggiò nervosamente avanti ed indietro per qualche minuto, misurando la dimensione della stanza con i lunghi passi infastiditi, maledicendo nell’ordine la letargia della Granger, la solerzia di Seth nel presentarsi sempre quando non era il momento e, non da ultimo, il fatto che lui, Draco Malfoy, invece di dormire della grossa, si fosse messo in testa di andarsene in giro a quell’ora. Poteva lasciarla lì, eccome se poteva… Seth non era nessuno per dargli ordini. E se ne era quasi persuaso, girandosi bruscamente su sé stesso e dando le spalle alla ragazza ancora addormentata. Poi una voce estremamente molesta e fastidiosa che, tanto per gradire, parlava esattamente come la Granger, gli sibilò nella mente: “Hai forse timore di Hermione Granger, Draco? Continui a scappare davanti a lei… che c’è? Temi anche lo sfiorarla adesso?”.

Ma certo che non temeva il toccare quella piccola sciocca… che se dormiva in camera sua, come tutte le persone normali, avrebbe fatto meno danni. Anzi se dormiva proprio in un altro Stato, ne faceva ancora meno… la vocina pigolò ancora che lei era lì, perché lui aveva messo in piedi quella farsa del lavoro da cameriera, quindi non era colpa della Granger, ma la mise a tacere con stizza. La colpa era della Granger, a prescindere!

Dal nervosismo stava quasi per battere il piede per terra, in modo che lei si svegliasse e risolvesse quell’incresciosa situazione, ma, rendendosi improvvisamente conto del suo atteggiamento quantomeno infantile e recuperando un po’ di autocontrollo, Draco sospirò lungamente come per darsi coraggio, avvicinandosi rassegnato a lei e berciando con voce perentoria: “Granger, se ti azzardi a svegliarti, giuro che ti do una botta in testa… ci manca anche che mi veda…”.

Cercando di fare attenzione e sfruttando la flessuosità dei movimenti che aveva appreso negli anni, Draco spostò cautamente Hermione, spingendole indietro il busto contro lo schienale della sedia. Lei mugugnò un po’, ma continuò a dormire con il capo inclinato mentre Draco la sollevava, afferrandola per la vita e poi sotto le ginocchia. Accoccolata tra le sue braccia, Hermione appoggiò il viso nell’incavo della spalla di Draco, scambiandolo forse per un caldo cuscino.

Ancora augurandosi che lei non si svegliasse o che ad Astoria non fosse venuto in mente di fargli una visitina notturna, salì le scale sempre con Hermione in braccio, il respiro di lei che gli solleticava il collo, procurandogli un brivido caldo lungo la schiena. Si sentiva circondato dal profumo di lei come se ne fosse stordito, come se non fosse rimasta una sola molecola d’aria che non ne fosse impregnata. Era leggerissima tra le sue braccia, la ricordava più grassottella quando erano a scuola.

Invece solo ora si rese conto che era dimagrita molto, diventando longilinea come una gazzella. Figuriamoci, conoscendola, era capace di saltare anche il pranzo, se aveva delle cose da fare…

Ma che gliene importava?

Spingendo la porta con un piede, entrò nella sua camera, reggendola ancora in braccio, la matita che le teneva buffamente assieme i capelli scivolò di lato, liberandoli, mentre faceva quell’operazione. L’odore di vaniglia si fece ancora più forte, mentre Draco cercava di ignorarlo. Finalmente, nella penombra, intravide il suo letto e la appoggiò delicatamente su di esso, facendo sempre attenzione che non si svegliasse. Hermione si accucciò in posizione fetale, mettendo una mano sotto il cuscino e continuando beatamente a dormire.

Ancora, gli venne da sorridere.

Stava diventando un riflesso condizionato, quando le era vicino, tipo una paresi delle labbra che non smettevano di piegarsi quando incrociavano la Granger.

Si sedette sul letto accanto ad Hermione, la scusa che si era stancato a salire le scale con lei in braccio e voleva riprendere fiato. Il suo sguardo, acclimatatosi alla semioscurità, si volse attorno alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui sapeva di stare cercando. Lei continuava a respirare tranquilla, mentre lui esaminava la sua camera. Era più o meno come sempre, come quando era vuota settimane prima ed Astoria la usava quando voleva dormire da lui.

La libreria d’acero bianco, il comodino con la lampada azzurra, l’armadio con lo specchio dalla cornice dorata.

Unici segnali che lei ci fosse, che Hermione Granger davvero vivesse in quella stanza, erano una valigia ingombra di vestiti ai piedi del letto, che lei non aveva mai evidentemente disfatto, ed un libro sul comodino, con una foto come segnalibro. Sembravano lei e la Weasley, ma non poteva dirlo con certezza. Aveva fermato le sue dita, prima che corressero curiose a guardare meglio anche quel particolare sciocco.

Era saturo dei particolari sciocchi di quella piccola sciocca.

Non aveva disfatto la valigia, perché voleva darsi l’impressione di essere di passaggio. Allo stesso modo, non aveva personalizzato quella camera con nulla di suo, così da non rendersi compiutamente conto che viveva lì sotto il suo stesso tetto. Doveva essere per lei insopportabile, quando se ne rendeva conto. Scommetteva che ignorava quel pensiero, ma quando esso tornava, nelle mura di quella stanza, sotto quel soffitto, si sentiva soffocare dalla dipendenza materiale che aveva maturato nei suoi confronti, in quanto suo padrone di casa e datore di lavoro. Gettò un’occhiata distratta alla valigia stessa, ingombra di felpe, jeans e t-shirt.

Il suo abbigliamento la rispecchiava pienamente, mai nulla di aderente, di scollato, di vistoso. Colori chiari, tenui, che non dessero nell’occhio, così da passare inosservata. Non aveva mai cercato di mettersi qualcosa di più provocante, nemmeno quando erano a scuola e forse, ricordò con una punta di disgusto, voleva fare colpo su Weasley.

Figuriamoci adesso… non credeva che stesse con qualcuno, ma era evidente che non lo stava nemmeno cercando. Era dannatamente brava ad ingolfarsi in mise comode e pratiche che facevano inorridire Seth.

Non conosceva nessuna donna che, in sua presenza, si fosse comportata come lei.

Sapeva di non lasciare le donne indifferenti, era successo a scuola e succedeva ancora oggi. April, Lorna, Corinne e persino Gail, nel momento in cui sapevano che lui c’era, sfoggiavano sempre i loro look migliori, sbattevano ciglia, dispensavano sorrisi.

Non c’era una che fosse fuori posto, quando sapeva di doverlo incontrare.

Ne aveva fatto quasi un motivo di vanto Draco Malfoy, perché almeno venivano al lavoro in ordine. E una parte remota della sua mente registrava anche che, ognuna di esse, sarebbe stata disponibile nei suoi confronti, in senso prettamente carnale.

Cosa, al momento, poco rilevante, ma comunque esistente.

Invece, Hermione Granger era come sempre la dannata eccezione a tutte le regole della sua vita. 

Passava accanto a lui, sfoggiando fiera la sua maglietta da calcio o la sua felpa azzurra, se non indossava la divisa da cameriera. Lasciava i capelli spesso bagnati dopo la doccia, lasciandoli arricciare in piccole onde ribelli, senza acconciarli in alcun modo particolare. Niente smalto, niente trucco, se non quando era necessario, e questo non corrispondeva mai a quando lo incrociava.

Lesinava i suoi sorrisi, le sfumature calde dei suoi occhi e, anche se adesso non lo guardava più con odio, certo non vedeva mai nei suoi occhi qualcosa che potesse lasciar presagire un qualche effetto di lui su di lei.

Anzi, sembrava sempre contenta di essere ignorata da lui.

Strinse i pugni… quando, invece, lei, Hermione Granger era semplicemente impossibile da ignorare.

Non riusciva mai ad ignorarla. Lo infastidiva, lo innervosiva, lo faceva arrabbiare, o diventare scontroso… lo faceva pensare… fino ad arrivare a farlo sentire in colpa, a farlo intenerire persino, ma non riusciva mai ad ignorarla.

Ad ignorarla, come lei, invece, sembrava fare con lui…

Ed ancora le cose si capovolgevano come sempre… ed era lui che notava cose che non avrebbe voluto mai notare. Chiuse gli occhi nervosamente, lasciando andare una riflessione a lungo repressa, ma oramai, anch’essa, impossibile da ignorare.

Non aveva la bellezza di Helena o di Astoria, eppure, ora come ora, si rendeva conto che non era mai stata così bella.

Era bella in modo buffo, distratto, nervoso, ma lo era davvero, era quel qualcosa dentro, quella scintilla di speranza e bontà, nascosta sotto strati di cinismo, a trasfigurarle il viso di una luce perfetta e pura, che nemmeno Helena aveva mai avuto.

Perché Hermione era soprattutto certa di sé e di quello in cui credeva, e il mondo si plasmava sotto i suoi occhi castani, come se fosse creta ai suoi ordini.

L’aria stessa di quella casa  era cambiata, da tramontana fredda a scirocco tiepido, come se lo stesso respiro di quelle stanze fosse diventato nuovo… come se fosse diventato suo, di Hermione Granger.

Persino ora, che dormiva, la sentiva respirare attorno a lui, sentiva ancora quel lieve calore sul collo, dove era appoggiata poco prima. Si portò la mano su quel punto, come a fermare il pulsare incontrollato di quel punto incandescente sulla sua pelle fredda. Lieve come se fosse fatta apposta per non essere vista né sentita, sentì sotto le sue dita una piccola goccia d’acqua.

Ritrasse la mano, guardandola meglio. Sull’indice, sentiva indiscutibilmente la frescura di una goccia d’acqua. Intuendo che cosa fosse, portò l’indice alle labbra.

Salata. Una goccia d’acqua salata.

Come poco prima, quel formicolio leggero che avvertiva sempre sotto la pelle e che, per ora, non sapeva fare altro che chiamare curiosità, lo fecero muovere senza accorgersene, mentre si chinava sul corpo addormentato della Granger. La sua mano le sfiorò leggermente una guancia, la pelle sotto le sue dita era morbida… e bagnata. Indiscutibilmente bagnata. Aveva pianto.

“Piangi anche tu, allora…” sussurrò al silenzio, le sue dita che continuavano a percorrere la superficie liscia della sua pelle. Lei mugugnò qualcosa, facendo spaventare, senza che però la sua mano riuscisse a spostarsi dal suo viso.

Non riusciva a staccarsi dal suo viso.

Non riusciva a farlo, dannazione.

Le palpebre di lei si mossero di nuovo nervosamente, nel sonno si morse il labbro inferiore, altre lacrime caddero sulle dita di Draco che ne sentì il peso umido addosso.

Fu rapido, improvviso, brusco.

Lei aprì le labbra e quel qualcosa che la stava spezzando, venne fuori, come se non ce la facesse più a restare sottovuoto. Era la stessa parola di poco prima, piena di senso ed affezione nel pronunciarla, perché era qualcosa effettivamente che andava ripetuto. Più e più volte, in stanze che ridevano e letti che si baciavano. In una casa ora troppo grande, da non far nemmeno patire la sistemazione sotto il tetto di un antico nemico.

Una parola… che non era una parola… ma che lei doveva aver ripetuto chissà quante volte, riempiendola di un significato adesso perduto.

Quella parola era un nome.

E tra l’istante, in cui Draco lo udì, e quello dopo, in cui finalmente i pezzi vennero a combaciare perfettamente, Draco si chiese ancora come si stesse abbandonando alla curiosità per Hermione Granger, quando le loro stesse vite reclamavano un fossato incolmabile che le tenesse separate.

La sua mano si ritrasse mentre Hermione pronunciava l’ultima sillaba del nome “Dean”.

Si alzò in piedi, fuggendo da Hermione come faceva sempre, come avrebbe continuato a fare.

… ma i pensieri, da quelli non si poteva scappare. Specie da uno.

Dean Thomas avrebbe dovuto solo ringraziare di stare con una come lei.

 

Quante cose sono successe, senza che io me ne accorgessi? Senza che lui se ne accorgesse? Le nostre parole, i nostri gesti, ci hanno scavato dentro, come l’acqua che divora la roccia. Abbiamo dato a quello che ci stava accadendo la dimensione di una pioggerellina stupida, quando avevamo tra le mani le avvisaglie di un uragano. Nei suoi pensieri, nei suoi ricordi, avverto la stessa confusione che ha attanagliato me, mentre scoprivo un legame con l’ultima persona al mondo con cui credevo di averlo.

Nei suoi ricordi, passano rapidi sprazzi di fiducia e quella curiosità che cresce giorno per giorno, sembrano macchie di luce che filtrano da una foresta oramai non più scura ed inaccessibile. Arriva all’ammissione compiuta di non odiarmi più, quella mattina in cui pensammo di essere attaccati dai Mangiamorte, ma invece si trattava solo di Astoria con la sua varicella. Sento nei suoi pensieri, incatenante come una marea argentea, il desiderio di abbandonarsi a me, di vedere il peso che porta sulle spalle alleggerirsi, sempre grazie a me.

Ma lo nega, sempre. Annaspa sotto quel peso, il rimorso per la morte di Helena, la preoccupazione per Serenity, la rabbia per la morte dei suoi, ma inspiegabilmente, anche se man mano sembra comprendere quanto io potrei aiutarlo, decide sempre di più di lasciarmi fuori.

E non lo sa, sembra non capirlo, ma vuole solo…  proteggermi.

I ricordi turbinano ancora dietro lo specchio, ma, dopo qualche attimo, mi accorgo immediatamente che qualcosa è cambiato.

Sta succedendo qualcosa di strano, di diverso.

Il loro stesso colore sta cambiando, sta diventando molto più scuro e tendente al grigio. Aggrotto le sopracciglia, non riuscendo a capire ed avvicinandomi di più allo specchio.

Ho visto spesso ricordi cambiare in base all’emozione del loro possessore, ma questa… cosa… sembra diversa.

È come… se stessero perdendo definizione. Come se stessero scomparendo.

La mia impressione si rivela esatta quando mi rendo conto che anche il loro ritmo sta incalzando, scorrono molto più velocemente, senza che io ne possa visualizzare nessuno.

Poggio la mano sullo specchio nella sciocca quanto insensata aspettativa che questo li arresti, ma, con orrore, mi accorgo che, sotto le mie dita, si apre una leggera crepa. Corre velocemente lungo la superficie dello specchio, tagliandola nettamente a metà.

Stacco la mia mano come se scottasse e me la stringo al petto. Sta succedendo qualcosa… decisamente… e non è un buon segno.

Draco…

Sta succedendo qualcosa a lui… con sofferenza, mi rendo conto della verosimiglianza del mio pensiero. I suoi ricordi… se stanno scomparendo… sta succedendo qualcosa a lui.

Qualcosa di serio, di grave… la morte non li cancella, constato con razionalità, cercando di non farmi sopraffare da quel pensiero così straziante.

Eppure, anche se escludo la cosa peggiore fra tutte, non riesco comunque a calmarmi. Non ci può essere nulla di buono dietro.

Ed ha a che fare con quello che sta facendo, lontano da me.

Mi guardo attorno con disperazione, cercando un modo per andarmene e per riprendere coscienza. Sarà anche che io rimanga muta per sempre e che questa fosse la mia sola possibilità di liberarmi dello Zahir, ma devo assolutamente capire che cosa sta succedendo. Il mio sguardo vaga sperso nell’immenso spazio vuoto, senza trovare nulla, la nuca che mi si inzuppa di sudore freddo. I miei occhi tornano senza volerlo alla sola cosa reale, lo specchio; come una videocassetta con il tasto dell’avanzamento veloce, vedo ormai solo frammenti di immagini che passano rapidissimi, diventando sempre più invariabilmente indistinguibili, fino a quando la superficie diventa completamente grigia.

Sotto il mio sguardo attonito, lo specchio si infrange in mille pezzi. Nascondo il viso dietro le braccia, urlando e temendo la cascata di frammenti che rischia di rovinarmi addosso. Cado in ginocchio, mentre li sento colpirmi la pelle come una scarica di piccoli dardi appuntiti, anche se so perfettamente che non esistono nemmeno.

Il mio urlo si infrange nel silenzio circostante con una nettezza così chiara che capisco che non è più la mia mente ad immaginarlo, ma è davvero reale.

E la cosa mi si conferma quando, riaprendo gli occhi dietro un bagliore rosato, mi accorgo di non essere più nella mente di Draco, ma nella camera a casa di Pansy Parkinson.

Mi sollevo immediatamente seduta con uno scatto brusco dalla posizione distesa in cui ero, il Pensatoio ancora accanto a me sul letto. Lo guardo distrattamente, la sua superficie non è più argentea, ma scura, al pari dello specchio e dei ricordi di Draco. Non c’è niente di buono in questo. Nulla, niente di buono.

La testa mi gira paurosamente e la stessa stanza vortica su sé stessa, vittima della mia ansia che non riesco a tenere a freno. Chiudo gli occhi, ispirando profondamente e cercando di calmarmi, sovrapponendo la luce del sole al tramonto, che filtra dalla finestra, rendendo le pareti rosa, alle immagini orribili su che cosa può essere successo a Draco.

Picchietto le dita sulla tempia, cercando di concentrarmi e, al contempo, di calmarmi, restando ancora con gli occhi chiusi, come se la terribile paura che mi sta assalendo possa arrestarsi dietro le mie palpebre.

Cercherò una bacchetta… la strapperò anche a morsi da Zabini o dalla Parkinson se dovessero impedirmelo e farò un Incantesimo di Localizzazione per trovare Draco.

Poco importa se Astoria mi trova, stavolta ho la bacchetta e non riuscirà a controllarmi di nuovo… e se dovesse farlo… non lo farà, basta, non mi troverà. Prenderò strade poco battute e lo riporterò a casa, dovunque diamine si è andato a cacciare.

La mia risoluzione si gela su sé stessa, afflosciandomi le spalle. La voce… mi sarà tornata?

Se non mi è tornata, se quei pochi ricordi di Draco non sono stati sufficienti a farmi tornare in me, non posso fare nessun incantesimo, nemmeno volendo, nemmeno ignorando la condanna che, comunque, mi farebbe localizzare immediatamente dal Ministero, se facessi una magia. Cosa che nemmeno è auspicabile, se Pucey e Montague hanno effettivamente degli infiltrati al Ministero stesso. Sospiro, a questo penserò dopo. Se non ho la voce, questo problema non si pone.

Riapro gli occhi stancamente, sospirando e pronta alla prova del nove.

È solo in quel momento che mi accorgo che, nella stanza, non sono sola.

Di fronte a me, seduto sul letto, c’è qualcuno; rabbrividisco al contatto con il suo sguardo gelido e, per un folle attimo, nella penombra della stanza al tramonto, penso che sia Draco. I miei occhi si inumidiscono immediatamente, mentre cerco di metterlo al fuoco, concentrata sulla luce dello sguardo di fronte al mio, che solo apparentemente assomiglia ad una penombra assoluta. La stessa luce oscura degli occhi del mio Draco.

Ma è solo un attimo, un attimo bellissimo e crudele assieme, che mi lascia sconvolta e senza fiato. Uno spasmo mi blocca il cuore, mentre trattengo le lacrime.

Mi chiedo come diamine abbia fatto a non rendermi conto di non essere sola, la presenza dello sconosciuto di fronte a me è così totalizzante da essere percepita persino ad occhi chiusi.

Ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, che, quando si tratta di Draco, io divento muta, sorda e cieca di tutto il resto.

Il giovane uomo di fronte a me non può avere più di venticinque anni, è alto ed imponente, mi sovrasta con la sua altezza anche da seduto. Le spalle larghe sono coperte dal tessuto pesante di una giacca grigia, portata in modo neglettamente elegante su una camicia bianca, chiusa sotto il collo da una medaglia d’oro che luccica di rubino nella luce del tramonto. La sua aria severa ed impettita è completata da un viso dai tratti duri, le labbra carnose e piene sono aggrottate in una smorfia arcigna, parzialmente celata da una lieve barba scura. Scuri sono anche i capelli ricci che porta spettinati e che coprono la fronte spaziosa. Gli occhi sono color del mare in tempesta.

L’uomo, che non ho mai visto in vita mia, è pericolosamente vicino, sento quasi il suo respiro sul viso. Mi ritraggo per quanto me lo consenta la distanza tra me e lui, arretrando fino ad incontrare la spalliera del letto. Il timore che sia un altro sgherro di Astoria, venuto a farmi fuori, mi colpisce in modo inaspettato, ma, sebbene non so minimamente chi sia, sento che non a che fare con lei. Anzi… il suo cipiglio e il suo sguardo… me lo fanno collegare immediatamente a Raissa. Le somiglia. Deve essere un suo parente.

Quindi, tecnicamente, se il mio collegamento non è inesatto, non dovrei avere nulla da temere.

Eppure, il suo sguardo, dopo la prima fugace impressione che me l’ha fatto confondere con quello di Draco, mi mette terribilmente in soggezione. La bocca impastata, cerco di distogliere lo sguardo da lui. La mano fredda del giovane si muove improvvisamente dopo il mio gesto ed io mi ritraggo ancora con timore, ma lui si limita a sollevarmi con due dita il mento, come se mi stesse studiando. Sulla mia pelle calda, le sue dita sembrano ancora più fredde, rabbrividisco a quel contatto, incapace di reagire.

Il suo sguardo mi scava sotto la pelle, come aveva fatto anche Raissa, provocandomi un brivido, accentuato dal fatto che si morda il labbro inferiore con aria contemporaneamente sensuale e cacciatrice.

Mi sento un topolino in trappola.

Mi volta il viso da una parte all’altra, lo sguardo azzurro fisso su di me, come se stesse cercando qualcosa. Ancora, allo stesso modo di Raissa. Di secondo in secondo, sembra rapire qualcosa dai miei occhi, che va ad illuminare i suoi di ghiacciate lucciole cobalto. Sotto quello sguardo, avverto qualcosa che non mi piace… e che difficilmente potrei fraintendere… era in ombra in Raissa, era meno evidente. In quest’uomo, sembra invece un riflesso così evidente da trasfigurare il viso.

Si confonde ad una voglia di conoscere, di sapere… e assume un carattere quasi sessuale. Quest’uomo mi vuole.

Quel pensiero, scuotendomi la schiena di brividi freddi, mi fa ritornare in me, dopo qualche secondo di spaesamento.

Allontano con stizza la sua mano dal mio viso, riscuotendomi. Lui sbatte gli occhi un paio di volte sorpreso, gli occhi tornano opache sfere di ametista, il blu si fonde con il rosso del sole.

“Chi diamine sei?!” chiedo con voce scocciata,  cercando di allontanarmi ancora da lui “E ti dispiacerebbe non trattarmi come un pezzo di carne in vendita?!”.

Solo dopo averla sentita nelle mie orecchie, spalanco gli occhi e mi porto le mani alla bocca, accorgendomi che la mia voce è tornata.

Più roca del solito, ma… è tornata.

Dovrebbe esserne completamente purificata per poterla dire al sicuro… e il segnale evidente sarebbe il colore dei suoi occhi e dei suoi capelli che ritornerebbero normali…

Mi alzo di scatto dal letto, dirigendomi verso lo specchio alla mia destra, dove ancora ci sono delle boccettine di profumi rovesciati nel mio impeto di prima contro la Parkinson.

Il mio riflesso è pallido, sfatto, indebolito. Ho le occhiaie, indosso ancora il vestito di seta viola che mi ha fatto indossare Astoria, ho le mani sporche di terreno.

Ma i miei occhi e i miei capelli sono di nuovo gli stessi. Castani dorati, come li ho sempre conosciuti, sin da piccola.

Sono libera…” mormoro più a me stessa, che all’uomo alle mie spalle, portandomi una mano a coprire le labbra che tremano.

In tutta quella manovra, lui non ha smesso un secondo di fissarmi.

Cercando di ignorare la sensazione perforante del suo sguardo sulla schiena, avvicino il polso al mio viso: persino la cicatrice sembra essere scomparsa.

Sono tornata completamente me stessa. Ho di nuovo il mio libero arbitrio, il mio cuore, la mia mente.

Il labbro inferiore mi trema dal sollievo, mi stropiccio gli occhi davanti allo specchio per impedirmi di scoppiare a piangere, dopo la fine di quest’incubo.

… o meglio, dopo la fine di una parte di quest’incubo.

L’angoscia mi riprende ad ondate, unita alla consapevolezza che adesso non c’è niente che mi possa fermare. Niente, nemmeno quest’uomo.

Mi volto bruscamente su me stessa, pronta a scagliarmi su di lui e a strappargli la bacchetta di dosso, pur di correre a cercare Draco.

Invece sussulto, ritrovandomelo ancora ad un centimetro dal mio viso, non mi sono nemmeno accorta che si è alzato. Con un gesto rapido e flessuoso, quasi senza respirare, mi prende per un braccio, piegandomelo dietro la schiena ed avvicinando il mio corpo al suo, fino a quando aderiscono perfettamente.

Terrorizzata, visto che è molto più forte di me e mi sta facendo decisamente male, tento di divincolarmi, non riuscendo ad indovinare le sue intenzioni.

Mi giunge infine una nota profonda e roca, mentre finalmente si degna di parlarmi: “Non ci pensare neanche…”.

La sua voce ha l’effetto di farmi drizzare i capelli sulla nuca. “A far che?!” pigolo spaventata, cercando ancora di liberarmi, gli occhi colmi di lacrime di frustrazione.

Mi sovrasta ancora in altezza, quindi non devo guardarlo in viso, riesco solo a fissare lo sguardo impietrito sulla medaglia appuntata al collo.

Il braccio che piegava senza sforzo il mio, si sposta sulla mia schiena. La stretta non si fa meno salda, anzi impedisce ancora di più i miei scarni movimenti. Con durezza, stringe la mano libera sul mio viso, costringendomi a sollevarlo fino ad incontrare il suo. Trattengo le lacrime solo per orgoglio, perché mi sta facendo davvero male. Lo guardo con espressione feroce dritto negli occhi, ma lui non se ne accorge nemmeno. Ha lo sguardo fisso sulle mie labbra, sento la tensione del suo corpo contro il mio.

Per un secondo, penso che mi stia per baciare, e l’impercettibile movimento del suo viso verso il mio, mi fa sussultare ancora, mentre tento disperatamente di allontanarmi.

Ma, invece, si limitare a sussurrare sulle mie labbra: “Non ci pensare neanche a muoverti da qui, o a fare qualsiasi altra cosa tu abbia in mente, sei anche sotto la mia custodia adesso, Granger… e fin quando ci saremo io, Raissa, Zabini e la Parkinson, tu non ti muovi da qui… soprattutto per andare a cercare Malfoy…”.

Sussulto, sentendo il nome di Draco.

Anche lui deve sapere dov’è… e ha capito subito che voglio andare da Draco… perché stanno facendo di tutto per trattenermi qui e per non dirmi nulla?

Incurante della mia situazione e della vicinanza con quest’uomo, bisbiglio, ormai in lacrime, cercando di guardarlo negli occhi: “Per favore, dimmi dov’è…”.

Come sempre, ogni orgoglio ed ogni dignità evaporano come acqua, quando si tratta di Draco…

Qualcosa nello sguardo dell’uomo sembra addolcirsi, e finalmente molla la presa. Respirando a fatica, indietreggio di qualche passo, fino ad urtare il muro alle spalle, le ginocchia che mi tremano e la sensazione ancora del suo corpo contro il mio. Mi stava per baciare, ne sono certa.

Mi guardo attorno terrorizzata, cercando una via di fuga, ma le sue parole successive riescono a farmi perdere ancora ogni volizione e intenzione di agire.

“I suoi ricordi sono scomparsi, vero?” la sua voce sembra quasi sorridere in modo sardonico, guardandomi con la testa inclinata di lato e studiandomi con lo stesso interesse di poco prima. Combattendo con l’imbarazzo che mi provoca, biascico un sì.

“Sei stata fortunata, allora, a tornare in te, prima che sparissero del tutto…” sorride ancora comprensivo, appoggiandosi con una spalla al muro accanto a sé ed incrociando le braccia “Io e Raissa avevamo intuito che sarebbe andata così, era così dannatamente scontato, così dannatamente da Malfoy… offrire i suoi ricordi, come prezzo… sinceramente credevo che avessi più tempo, ma Malfoy come sempre mi ha sorpreso, evidentemente ce l’ha fatta prima del previsto… ma fortunatamente ce l’hai fatta anche tu…”.

Non mi piace il tono della sua voce, non mi piace che sembri soddisfatto, non mi piace nulla del desiderio che ha negli occhi, non mi piace che mi guardi ancora inumidendosi le labbra.

E non mi piacciono le sue parole, che continuo a non capire.

Offrire i suoi ricordi come prezzo… se quest’uomo non mente, Draco ha offerto i suoi ricordi come prezzo a qualcuno. Ma a chi? E significa forse che… quando tornerà, non si ricorderà più di me? L’angoscia mi stringe un nodo in gola, stringo con la mano il collo, sentendomi soffocare.

Dopo tutto quello che ho fatto… dopo tutto questo… lui non si ricorderà di me? Non può essere…

Il nodo blocca l’aria nei miei polmoni, tossisco forte come per liberarmi da un corpo estraneo, ma la sensazione non passa, anzi sembra diventare sempre più opprimente.

“Se tornerà da te, sarà probabilmente il più grande Mago dei nostri giorni…” sussurra ancora il ragazzo con voce mielosa, provocandomi una fitta allo stomaco.

“Come?!” chiedo attonita, stringendo i pugni. La paura e il terrore, a quelle parole e, soprattutto a quel se tornerà, mi danno coraggio insperato al suo cospetto. La rabbia per quello che potrebbe, invece, aver fatto Draco, sacrificare i suoi ricordi, mi fanno tremare come una foglia.

“Malfoy voleva solo una cosa: avere la forza sufficiente per proteggere te e la bambina, e si è rivolto a me e a mia sorella… penso che tu abbia capito che sono il fratello di Raissa, Dimitri…” continua lui con voce ovvia, la preoccupazione che cresce ad ogni secondo. Non mi fido di quest’uomo e non mi fido nemmeno dell’aiuto che può aver dato a Draco.

Come diamine gli è saltato in mente di rivolgersi a lui? L’angoscia mi impregna la schiena di sudore, il vestito mi si attacca sulla pelle in modo scomodo e fastidioso.

“Non mi interessa chi diamine tu sia…” biascico, sollevando il mento e guardandolo con espressione di sfida. Se l’ha messo in pericolo…

Dimitri sorride sornione: “Dovrebbe, invece… visto che, se Malfoy tornerà da te con un potere enorme, sarà solo per merito mio…”.

“Dimmi immediatamente dov’è…” sibilo con voce fredda, gli occhi che scintillano pericolosamente e i pugni contratti “Dimmelo!” ripeto a voce alta, graffiandomi le corde vocali di fronte al suo perdurante ed ironico silenzio.

Al mio urlo, finalmente nella stanza irrompono la Parkinson, Zabini e Raissa. Pansy ha i capelli spettinati e lo sguardo sconvolto, mentre si allaccia la vestaglia rossa. Espressione simile ha anche Zabini, sembra che stesse dormendo profondamente, anche se non è ancora calata la notte.

Gli occhi di entrambi sono profondamente cerchiati, si guardano un istante, prima di concentrarsi su di me.

Raissa, invece, è esattamente perfetta come prima. Mentre i primi due restano sulla soglia, quasi timorosi di entrare, lei fa immediatamente qualche passo, riempiendo immediatamente la stanza della sua glaciale presenza. Dimitri li guarda con sguardo sarcastico, indicandomi alla sorella con un cenno affrettato del capo.

Raissa non replica nulla, guarda il fratello con espressione incolore, facendo ancora qualche passo e ponendosi tra me e lui.

“Dimmi immediatamente dov’è Draco…” ripeto ancora, ignorando Raissa, le narici che fremono, la rabbia che confonde i loro lineamenti davanti ai miei occhi, colmi di lacrime.

“Sei tornata te stessa, dunque…” constata lei con freddezza, guardandomi “E, se sei qui così presto, scommetto che i ricordi di Draco sono spariti… ovvio, deve aver scelto quelli…”, sospira lungamente, prima di rivolgersi a Zabini e la Parkinson: “… controllate la bambina, non deve mai restare da sola…”.

I due, evidentemente sollevati, lasciano correndo la stanza per andare da Serenity.

Lo sguardo di Raissa s’indurisce, voltandosi alle sue spalle e fissando Dimitri che non ha mai perso l’espressione ironica del volto: “Cerca di rintracciarlo… se sapesse che la Granger è di nuovo in sé, forse si tirerà indietro…”.

Il volto di Dimitri diventa una maschera di cera, pura elettricità scorre nel suo sguardo mentre fissa Raissa, e poi me: “Sai meglio di me che è impossibile…”.

“So meglio di te che è improbabile, non impossibile…” replica lei decisa, dandogli le spalle.

“E’ quello che voleva, no?” replica lui monocorde, fissandomi ancora. Sostengo lo sguardo con livore. “Gli abbiamo dato solo quello che voleva…”.

Raissa prende fiato, prima di soffiare rigida: “Nessuno sa mai davvero che vuole, nemmeno Draco… la sola cosa che vuole davvero è lei… se sapesse che lei è già sua, credi che non tornerebbe indietro? O non hai notato il modo in cui si appartengono, Dimitri?”.

Le parole di Raissa mi colpiscono al cuore, anche se apparentemente asettiche ed impersonali. E la stessa cosa accade a Dimitri, anche se in modo completamente diverso. Sento distintamente il livore dell’uomo crescere come il turbinare di una tempesta di vento. Le spalle contratte e il passo marziale, lascia la stanza sbattendo la porta.

Il rumore sordo mi fa tremare, prima di respirare di sollievo ora che è andato via.

Raissa sospira lungamente, portandosi una mano alla tempia che massaggia piano, come se avesse una terribile emicrania, e mi dà l’impressione di essere abituata al comportamento del fratello. Poi, scrollando le spalle, torna a concentrarsi su di me. Mi ingiunge di sedermi sul letto con un cenno brusco della mano, le ginocchia mi reggono a stento mentre faccio quei pochi passi, prima di crollare seduta. Il petto mi si alza ed abbassa così velocemente che temo di scoppiare, da un momento all’altro.

Raissa mi dà le spalle, fissando il panorama fuori dalla finestra, il cielo che si tinge di viola, mentre il sole scompare all’orizzonte. I piedi mi fremono d’impazienza e di ansia, fatico a restarmene ferma al mio posto, mentre lei resta in silenzio, apparentemente assente. Tento di calmarmi, cercando di respirare a fondo, cosciente che, se dovessi irritarla, perderei l’unico autentico appoggio in questa casa. Un appoggio friabile e poco saldo, d’accordo, dato che è evidente che anche Raissa fatica a credere alle mie capacità e mi vede come una semplice ragazzina fortunata, finita in una storia più grande di lei… eppure le sue parole di poco fa, il fatto di avermi quasi difeso davanti a Dimitri e di avergli ordinato di cercare Draco, mi fanno avere maggiore fiducia in lei. Certo, molta di più di quanta ne possa avere in suo fratello, o nell’assoluta inettitudine di Zabini e della Parkinson.

Dopo qualche secondo, Raissa finalmente si decide a parlare, continuando a darmi le spalle. La sua voce è un lieve sussurro, la intendo a malapena.

“Stai molto attenta a Dimitri…”.

“Perché?” chiedo con voce atona alle sue spalle, le mie parole sembrano esse stesse stanche, come se fossi sfiancata dopo aver percorso chilometri a piedi. Si reggono nell’aria, riuscendo ad arrivare a lei, per miracolo. Mi sembra persino che stia perdendo di nuovo la voce, anche se so che non è vero.

In realtà, è la forza che sto perdendo.

Raissa si volta finalmente e sospira, non rivolgendo però lo sguardo verso di me. Gli occhi restano puntati contro una parete: “Draco non aveva considerato l’interesse che avrebbe maturato Dimitri per te: una donna, per di più mezzosangue, che crea uno Zahir, non ne rimane uccisa e riesce persino a distruggerlo e, ora, si libera anche del suo potere oscuro… Credo che ti voglia come non ha mai voluto niente nella sua vita… e credo che, adesso, il suo più grande desiderio sia che Draco non torni mai più, sarebbe facile, allora, averti tutta per sé…”.

Balbetto le parole successive, portandomi le mani nei capelli: “Avermi… in che senso?”. Le mie parole mi sembrano stupide, già mentre le pronuncio.

Come se non avessi già capito che cosa vorrebbe Dimitri da me…

“Averti in ogni senso…” aggiunge Raissa con nonchalance, quasi come se fosse scontato “Dimitri è uno scienziato, un esperto di Arti Oscure… la sua vita è conoscere, sapere, indagare… ora sarà arso dal desiderio di capire come funziona la tua mente, a cosa attinge la tua magia, come tu abbia fatto a creare uno Zahir… sei un’eccezione ai suoi teoremi. Ma sei anche una donna, potente, intelligente… e sei innamorata di Draco. Credo che non esista per lui sfida più appagante di strapparti a lui…”, il tono delle sue parole diventa più leggero: “Non sei la prima, e non sarai nemmeno l’ultima, è già accaduto, so come funziona… quando coglie la dimensione scientifica di una determinata persona, perde completamente interesse per lei… accadrà anche con te…”. Respiro più sollevata, cercando di non concentrarmi sul buco nello stomaco che avverto al ricordo degli occhi di Dimitri.   

“Non è pericoloso, specie se ci sono io nelle vicinanze…” aggiunge incolore “Lui e Draco non sono mai stati propriamente amici, anzi… ma lui ha salvato la vita sia a me che a Dimitri, e questo per me conta più di tutto. E per lui, per Draco, ora tu conti più di tutto… quindi non permetterei in ogni caso che Dimitri ti facesse del male, anche se è mio fratello…ammetto di capirlo, anche io continuo ad ossessionarmi con le domande sul tuo conto… ma ho fatto una promessa a Draco, quindi, anche se non mi sei esageratamente simpatica, devo lealtà alla promessa fatta a lui prima di tutto…”.

Calmata la mia preoccupazione per Dimitri e rassicurata della effettiva fiducia che posso riporre nel legame tra Raissa e Draco, la mia mente viene di nuovo invasa in modo totale dal pensiero di Draco stesso. Come sotto una nebbia corrosiva, i miei pensieri si sfaldano in mille pezzi minuscoli, scivolando dalla mia comprensione. Draco ha sacrificato i suoi ricordi per avere più forza, secondo quello che dice Dimitri. Ma a che pro? Se anche ottenesse maggiore potere, non ricorderebbe più nulla di me.

E non potrebbe proteggermi.

E poi non posso credere che davvero sceglierebbe di dimenticarmi…

Mi mordicchio pensosamente l’unghia del pollice, anche se lui non sa che io sono innamorata di lui e magari vuole smettere di soffrire, proprio come ho fatto io, creando lo Zahir.

Chiudo gli occhi, una lacrima che sfugge fuori, in fondo io non posso dare lezioni a nessuno.

Sono stata una sciocca… anzi una sciocca fortunata, visto com’è andata a finire.

Riapro gli occhi, fissando Raissa, la voce che balbetta: “Per favore, Raissa, dimmi dov’è Draco… dove l’ha mandato Dimitri? Perché i suoi ricordi sono scomparsi?”.

“Io e mio fratello non saremo d’accordo su tante cose, Hermione Granger…” scandisce bene lei, incrociando le braccia, il mantello ondeggia alle sue spalle “… ma tu da qui non ti muovi… non potresti aiutare Draco, nemmeno volendo… e ripeto, devo lealtà solo alla promessa che ho fatto a lui… e gli ho promesso di non farti muovere da qui, fino a quando non fosse tornato… o non fosse morto…”.

Deglutisco pesantemente all’ultimo inciso, non ci devo pensare.

“Ma non gli hai promesso di non dirmi nulla, vero?” prego ostinata, alzandomi in piedi e fronteggiandola “Per favore… dimmi almeno dov’è…”.

Me ne frego della promessa che ha fatto a Draco… appena saprò dov’è, lo andrò a cercare. Non mi conoscono ancora bene, se pensano di tenermi qui buona e ferma.

Raissa sorride lievemente, è la prima volta che la vedo sorridere e mi dà un brivido freddo, invece di riscaldarmi. Sembra che sia solo un sorriso amaro, velato da una consapevolezza altrettanto penosa. Mi intima ancora di sedermi, poi estrae la bacchetta dal mantello e fa comparire due tazze, di cui una tra le mie mani.

La guardo senza capire, è piena di un liquido caldo color verde scuro.

“Sarà una lunga spiegazione…” snocciola, sedendosi accanto a me, la tazza tra le mani “E inizia a far freddo… è tisana ai fiori di menta…”.

Annuisco, contenta di averla convinta, e porto la tazza alle labbra. Il liquido scivola nella mia gola, caldo prima e dopo freddo, dandomi una bella sensazione alla bocca dello stomaco.

“Io e Dimitri siamo al momento i più grandi studiosi al mondo sulle Arti Oscure…” inizia a spiegare, descrivendo piccoli cerchi sulla superficie della tazza “… ma non è stato sempre così. Siamo i depositari di una conoscenza che forse nemmeno Voldemort possedeva…”, sussulto nel sentirla nominarlo per nome, chiaro sintomo che non ne ha mai avuto paura, contrariamente a suo padre.  

“Questa conoscenza ci è stata donata, quando avevamo tredici anni io e quindici Dimitri…” continua, guardando un punto fisso davanti a sé, ancora quel sorriso storto le curva il viso bellissimo “Dico, donata, perché non l’abbiamo ottenuta in modo tradizionale, consultando libri per anni o facendo ricerche… e l’abbiamo ottenuta in pochi mesi, non in anni… ma non è stata una passeggiata… è stato difficile, duro, lacerante… aggiungici pure tutti gli aggettivi che vuoi…”. Sorseggia un po’ di tisana con un sospiro, non capisco che c’entri Draco con questo racconto, ma continuo ad ascoltarla, restando in silenzio.

“Io e Dimitri abbiamo un vecchio debito verso Draco… ci ha salvato la vita, durante la Guerra, nascondendoci dai Mangiamorte che ci volevano dalla loro parte, proprio in virtù della nostra conoscenza… ed ora stiamo saldando il nostro debito. Quando Draco ha spiegato a me e a Dimitri che cosa voleva, farti tornare te stessa e diventare più forte, sapevo che il solo modo era… portarlo da lui… ma non glielo ho detto. Io ho perso troppo per quella scelta, non avrei voluto che lui la subisse… che nessun altro la subisse… Dimitri, no. Per lui, era come sempre una sfida… e gli ha rivelato tutto, più per vedere se poteva riuscire, che per altro… è tipico della sua natura…”.

La salivazione mi si azzera del tutto a quelle parole, la tazza mi trema tra le dita.

Raissa prende ancora fiato, prima di parlare. Stavolta si volta e mi guarda dritto negli occhi: “Scommetto che conosci Gellert Grindelwald…”.

Il cuore perde un battito nel petto, non può essere. Chiunque nel mondo magico, sa chi è ovviamente e pensare che me lo stia anche solo nominando, in riferimento a Draco, mi ghiaccia il sangue nelle vene. Gellert Grindelwald era un potentissimo mago oscuro vissuto prima di Lord Voldemort, aveva frequentato la scuola di Durmstrang, da cui venne espulso per i suoi esperimenti malvagi. Ricordo di aver letto, in una serie di rapporti segreti del Ministero che non sono mai stati resi pubblici, che conobbe il giovane Albus Silente, di cui divenne molto amico, tanto da pianificare con lui una sorta di "nuovo ordine" mondiale, in cui i maghi avrebbero dovuto regnare sui babbani. Silente sembrava approvare queste idee, ed era in procinto di metterle in pratica, quando suo fratello Aberforth lo accusò di trascurare la loro sorella malata, Ariana. Questo litigio indusse Grindelwald a torturare Aberforth, ed Albus Silente ebbe così la prova definitiva della crudeltà del suo amico. Tra i tre scoppiò una lotta, durante la quale Ariana venne uccisa. Dopo questo episodio Grindelwald scappò all'estero, dando inizio ad una stagione di terrore. Silente inizialmente cercò di evitare di combatterlo, poiché temeva che Grindelwald sapesse chi aveva scagliato l'incantesimo che aveva ucciso Ariana, e non poteva sopportare l'idea di scoprire di averla uccisa lui stesso. Infine, spinto dalle atrocità commesse da Grindelwald, lo attaccò e lo sconfisse, facendo si che venisse rinchiuso.

E sono anche sicura che sia stato ucciso da Voldemort stesso, il quale voleva dimostrare di non aver avuto mai alcun eguale nella storia della Magia.

Perché allora Raissa l’ha nominato?

Assorbito il colpo, Raissa finalmente prosegue, la voce più incerta: “Io e Dimitri siamo alcuni dei pochi al mondo a sapere dell’esistenza di un suo parente, non sappiamo esattamente se sia suo fratello minore, suo figlio o altro… ma è l’unico suo parente rimasto in vita. Si chiama Adamar… al momento, credo che associarlo ad un uomo, è come associare un deserto ad una città come Londra. Non è rimasto nulla in lui, che possa chiamarsi umano. È in tutto e per tutto, un demone…”.

Rabbrividisco a quelle parole. E Draco adesso è con lui. La tazza rischia di scivolarmi dalle dita, a causa del tremore che mi ha assalito le mani. Sbatto le palpebre un paio di volte, per rendere più nitida la mia vista, offuscata dalle lacrime che non voglio piangere. Si è messo nelle mani di un demone. Per me e per Serenity… solo perché io mi sono fatta usare da Astoria… se gli accadesse qualcosa per colpa mia…

Raissa accende le luci della stanza con un colpo di bacchetta, strizzo gli occhi per la luce improvvisa, non mi ero accorta che oramai si fosse fatto buio. Poi continua: “Adamar ha rinunciato alla sua umanità… molto peggio di come fece Voldemort, perché Adamar non crede in niente. Odia gli uomini, odia il mondo… e vive segregato da qualche parte, in un luogo che non può essere trovato…percepisce la gente che ha bisogno del suo intervento… e solo allora si fa trovare… altrimenti è impossibile che venga da te…”, Raissa fa una pausa, sicuramente pensa alle parole che ha detto a Dimitri sul trovare Draco. A lui aveva detto che era improbabile, ma capisco che l’ha fatto solo per far andar via suo fratello.

In realtà, era davvero impossibile.

“Adamar ha dei poteri immensi, proprio perché oramai è una sorta di cardine tra il mondo umano e le dimensioni demoniache… e non c’è nulla che non possa farti ottenere, se impegni qualcosa di te stesso…”.

“I suoi ricordi…” bisbiglio, lasciando scivolare la tazza al suolo. Il fragore ingombra la stanza di rumore, ma non rompe il silenzio tra me e Raissa.

Esso è la sola difesa che impedisce al mio corpo di spezzarsi in due.

Raissa annuisce, dopo aver gettato uno sguardo distratto alla tazza distrutta e alla macchia verde che si espande sul tappeto.

“Vuole la cosa più preziosa che hai… in pegno… e ti sottopone a delle prove durissime… anzi, durissime è un pallido eufemismo…”, la voce si piega mentre soggiunge: “… io e mio fratello ci siamo quasi uccisi tra noi…”. La guardo in tralice, non riesco a smettere di tremare. Che cosa starà affrontando Draco?

“Adamar detesta la natura umana, spesso mi sono chiesta che cosa gli sia successo, ma ovviamente non ci è dato saperlo. A chi chiede il suo aiuto, vuole testimoniare quanto sia infame, meschino, sciagurato, come essere umano. Se superi le prove, trattiene quello che hai impegnato come una sorta di prezzo… e lui ha vinto…”.

“E come avrebbe vinto?”.

“Ti ha fatto perdere la tua umanità…e tanto gli basta… ha dimostrato che esisteva qualcosa di più importante di ciò che credevi prezioso nella tua vita…”.

“Tu e Dimitri avete superato quelle prove, vero?” chiedo con un filo di voce, cercando di trovare un qualsiasi segnale che possa alleviare l’enorme macigno che mi si è depositato sul petto “La conoscenza… l’avete ottenuta… che cosa avete perso?”.

“L’amore per nostro padre…” sussurra lei stentorea, senza traccia di emozione, gli occhi non brillano nemmeno “Non ho versato una lacrima quando è morto… non so nemmeno perché lo amassi tanto…”. Gelo su me stessa, portandomi le mani ai capelli, disperata.

“C’è ancora speranza, però…” sussurra Raissa, guardandomi. Sento un’onda rovente sulla schiena, mi trattengo dall’impulso di scuoterle le spalle affinché si muova a parlare.

“Ed è una speranza che mi auguro caldamente… perché se Draco perdesse i suoi ricordi, dovrei proteggere io te e la bambina… o comunque dirgli di farlo, quando probabilmente non gliene fregherà più nulla… e voglio essere fuori da questa storia prima possibile… altrimenti Dimitri si ossessionerà sempre di più su di te…”.

Giusto, come dimenticare…

“Adamar è un demone, ma è equo…” chiosa Raissa, annoiata “Se non superi le prove, ti restituisce ciò che hai dato… ammette di aver perso. Ammette che la tua motivazione non era così forte da farti rinunciare alla tua umanità… se Draco supera le prove, perderà i suoi ricordi per sempre… ma, se fallisce, li avrà indietro… è meglio sperare in questo che nella possibilità di contattarlo prima che porti a termine il rituale, dicendogli che stai bene, come ho detto a Dimitri… Adamar non lo permetterà mai…”.

Già nel momento in cui pronuncia queste parole, so perfettamente che non sarò in grado di aspettare che il rituale si concluda, sperando che Draco non lo superi. Raissa ha detto di aver raggiunto la conoscenza, in mesi… un tempo troppo lungo per attenderlo, qui, in questa casa, pregando e crogiolandomi nell’angoscia.

Anche se è impossibile, cercherò di contattare Adamar… magari, chiederò ancora l’aiuto di Helder… oppure, potrei andare al Ministero e vedere di rintracciare notizie su di lui.

Anche se Raissa ha detto che solo in pochi sanno dell’esistenza di Adamar…

Ma sicuramente, ricercando, si potrebbe scoprire qualcosa… è sicuro… nessuno sapeva nulla degli Horcrux, eppure io, Harry e Ron li abbiamo trovati e distrutti. Ed anche se stavolta sono sola, ce la farò anche questa volta. Troverò Adamar, interromperò il rituale e riporterò a casa Draco, da me.

Devo solo trovare un modo per andare via, per scappare, senza che loro se ne accorgano…

Tutto… farò di tutto, affinché Draco torni sano e salvo da me… e non perderà i suoi ricordi… non posso permetterlo…

Raissa improvvisamente si alza in piedi, gettando uno sguardo all’orologio a pendolo che batte le otto di sera. Sembra soppesare qualcosa nella mente, poi si volta su sé stessa, tornando a guardarmi con espressione enigmatica: “Sarà meglio che rimani seduta…”.

“Perché?” non ho nemmeno finito di pronunciare queste parole che un’enorme debolezza mi coglie all’improvviso, rendendo il mio corpo pesante come se fosse fatto di piombo. Faccio fatica persino a restare seduta, l’impulso di lasciarmi andare alla gravità e di cadere supina sul letto è così forte che a stento riesco a tenere gli occhi aperti.

Una consapevolezza folle e disperata, mi raggiunge alle parole successive di Raissa, pronunciate con un sorriso sarcastico.

Non sono più tra i Grifondoro… un serpente può essere leale, ma è sempre un serpente…

“Tu non conoscerai bene me, ma io conosco bene te…” sorride Raissa, premendo contro una mia spalla. La debolezza mi fa ricadere istantaneamente sul letto, fisso gli occhi sul soffitto a cassettoni, comprendendo finalmente. La tisana… ha messo qualcosa nella tisana…

“Dormi adesso… e intanto trasformo questa casa nella tua bellissima prigione dorata…”.

Le parole di Raissa e il rumore dei suoi tacchi sul pavimento di legno, sono l’ultima cosa che sento, prima di scivolare in un sonno denso, privo di sogni.

 

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Capitolo 33
*** Rising roses part I ***


Capitolo 33 –  Rising roses part I

 

Forse, in fondo, le rose hanno sempre saputo tutto.

Quel pensiero così apparentemente privo di senso, si insinua rapido nella mia mente, rapendomi dai ricordi, mentre strizzo gli occhi per la luce forte del sole. L’assurdità di quel pensiero è assoluta, ma è un attimo dolce e liberatorio, al tempo stesso. Riprendo respiro, la mano sul petto, chiudendo forte le dita sulla camicia che indosso. L’altra mano, stringe forte quella più piccola di Alex, che si guarda attorno incuriosito.

Mi indica qualcosa sorridendo, annuisco con il capo, mentre le sue parole si perdono nel cupo ronzio che mi affolla le orecchie.

Le rose sembrano non essere mai cambiate, anche se so che, in cinque anni, migliaia di milioni di fiori sono nati, hanno bevuto il sole e sono appassiti, reclinando gli steli e perdendo i petali.

Eppure, sembra tutto così maledettamente uguale da darmi le vertigini.

Sapevo che sarebbe andata così, era scontato, questo viaggio è in fondo un calvario, fatto di stazioni obbligatoriamente destinate a ferirmi la mente, come delle spine acuminate e crudeli.

Ma soffrire è sempre meglio del niente. E dopo cinque anni di niente, a me va anche bene così.

Il dolore, il rimpianto dentro, è Draco. È riaverlo vicino, anche se in una forma diversa e lacerante. Ma fa nulla… il dolore rende le cose più reali di quanto non siano mai state in questi anni.

Nulla, tranne Alex, è stato reale in questi anni.

Spesso, la notte, quando Alex aveva pochi mesi, mi svegliavo e andavo silenziosamente in camera sua.

Se Ron si accorgeva che mi ero svegliata, dicevo che ero solo preoccupata che si svegliasse. Oppure che volevo controllare che stesse bene, che non ci fosse nulla che non andasse.

Balle.

Colossali.

Sebbene io sia la più ansiosa delle madri, trascorrevo le notti guardando Alex per convincermi che fosse reale.

Quando guardavo i suoi pugnetti chiusi, mentre dormiva nella sua culletta, e la luna illuminava i suoi capelli dorati, respiravo di nuovo.

Aveva il naso di Draco, aveva i suoi capelli. Se si svegliava, aveva anche i suoi occhi. Era vero, era suo figlio, non mi ero sognata tutto, non stavo vivendo la vita di un'altra donna con le memorie di un’altra ancora.

Oggi, oltre a mio figlio, anche le rose sono reali. Il loro odore è sempre lo stesso, mi ferisce la memoria con implacabile dolcezza, suggerendomi anche l’angosciosa sensazione di attesa, con cui le ho guardate per tanto tempo.

Sono passati cinque anni, eppure la prima cosa che vedo, non appena chiudo gli occhi, sono sempre le rose. Mi capita di sognarle spesso.

Boccioli, petali, corolle dischiuse o fasci ben legati da nastri di seta. Credo di sognarle anche di colori che nemmeno esistono.

Le ho evitate per anni.

Il giorno del nostro primo anniversario di matrimonio, Ron mi aveva portato in camera un mazzo enorme di rose rosse.

Era stata la prima volta che avevo pianto davanti a lui, sciogliendo infine il segreto che portavo nel cuore.

Era stata la prima volta che avevo parlato di Draco direttamente davanti a lui, nonostante ovviamente sapesse tutto e fingesse soltanto di non ricordarsene.

Avevo torturato le rose tra le dita, ne avevo staccato i petali uno ad uno sotto lo sguardo sconvolto di mio marito, volutamente mi ero ferita con una spina.

E, guardando il sangue che mi sporcava le dita, avevo trovato le parole giuste.

Come il sangue.

“Io, Draco ce l’ho dentro, Ron… e ce l’avrò dentro per sempre…”.

Ron non mi aveva più nemmeno nominato le rose. Aveva preso ad evitarle anche lui. Persino se le vedeva su un giornale, voltava la pagina con fastidio.

Le rose sono i fiori messaggeri dei segreti.

Perché hanno un cuore segreto esse stesse: in alcune specie, la rosa appassisce prima di rivelare il suo nettare, che rimane protetto in un guscio di petali morbidi, ma inaccessibili.

Per questo, la metafora. Regalare una rosa, dovrebbe essere come regalare un segreto.

Non avevamo più segreti da regalarci, o meglio da rovinarci addosso, io e Ron.

Io e Draco, forse, non potremmo nemmeno regalarci questo intero giardino, per quanti ancora ci pesano dentro.

Busso con decisione alla porta, oggi inizio a scioglierli tutti, uno ad uno.

Ed il primo so che sarà con lei.

La porta si apre, la vedo sgranare gli occhi e reggersi allo stipite della porta, come a ripararsi dalla sorpresa che la sta investendo. Alex la guarda senza capire, cerca il conforto della mia mano.

Aspetto volutamente che guardi in viso mio figlio. Aspetto che guardi i suoi occhi, i suoi capelli, il suo naso.

E poi finalmente le mie labbra si aprono.

“Ciao Pansy”.

 

 

La mente funziona in modo strano, nei momenti di crisi.

Quando si sostiene un esame, spesso l’adrenalina reclama conoscenze, che uno non penserebbe mai di aver memorizzato.

Quando ci si trova in mezzo ad una tragedia, si riscopre forza e coraggio e si fanno cose che, a mente fredda, non ci si sognerebbe nemmeno di poter fare.

In guerra, ricordo donne delicate come fiori in boccio, chiudere ferite aperte dei loro compagni con le loro mani nude, premendo le dita su vene che sgorgavano copiosamente sangue, concedendosi solo lacrime di terrore e sguardi atterriti, mentre cercavano aiuto.

E, al contempo, ricordo uomini alti e nerboruti scappare terrorizzati al primo accenno di incantesimi e di lotte, anche se avevano sostenuto allenamenti durissimi.

Io stessa avevo scoperto che la mia resistenza al dolore, al disgusto e alla paura, erano molto più alte di quanto avessi mai creduto.

Quando la guerra è finita e ho avuto tempo per pensare, trascorrevo sere intere con Ron a ricordare che cosa avevamo fatto durante il nostro viaggio. Ed eravamo sempre increduli, mentre mettevamo a posto i pezzi di quegli atroci ricordi. Come eravamo riusciti a farcela?

Per mesi… forse per anni… io mi sono creduta forte come una roccia. Ero persino preoccupata di questa mia forza; temevo che alla fine mi rendesse impermeabile a tutto.

Ho dato a quella forza la colpa di non farmi innamorare di Dean. Ero diventata insensibile.

Ovviamente, poi, ho finito per cambiare idea quando mi sono scoperta innamorata di Draco Malfoy.

La mia forza è sempre stata un castello di carte, poggiato su pile di sale. Si è sbriciolata come niente.

Non ho mai sofferto così tanto, in vita mia.

Uno non può mai sapere come funziona la mente in un momento di crisi, quando senti che persino le ossa si spezzano per il dolore, la rabbia, l’angoscia, e chissà che altro.

Nemmeno io posso saperlo… ma la mente è un meccanismo molto diverso dal cuore, per quello io ho sempre affidato me stessa alla prima piuttosto che al secondo.

Il mio cuore si è spezzato decine di volte… ancora adesso, è a pezzi. Sento persino lo spazio esistente tra ogni singolo pezzo del mio cuore, dentro il mio petto, come se fossero immensi buchi d’aria che mi succhiano via l’ossigeno dai polmoni, impedendomi di respirare.

La mia mente, invece, ha trovato il modo di resistere. Ancora.

Tenendomi in piedi, nonostante tutto, consentendomi di esistere ancora, sotto il peso di questa terribile ed immensa paura.

Non pensavo che avrei retto per un solo minuto. E invece sono rimasta sana di mente non solo per un giorno… ma per ben ventitré.  

23 giorni e 8 ore, senza Draco. Con il pensiero costante che lui stia affrontando le prove di Adamar, e stia quindi, nella migliore delle ipotesi, perdendo ogni ricordo di me.

La peggiore delle ipotesi è scontata. Ed impossibile persino da pensare con il suo nome completo.

Razionalmente, questi pensieri avrebbero dovuto condurmi alla follia.

Ed invece la mente ha uno straordinario meccanismo difensivo.

Ci si abitua a tutto. Ci si abitua anche all’impossibile, all’insopportabile, all’insostenibile.

O ci si racconta altre verità, sussurrandosi a voce bassa quelle che prima erano menzogne, facendole diventare certezze.

Ma in fondo credo che sia la stessa cosa.

Semplicemente, non considero l’ipotesi che lui non torni. O che perda tutti i suoi ricordi.

Non sono opzioni contemplabili… e per smettere di contemplarle, devo smettere di pensare in toto.

Anestetizzandomi la mente.

Mi alzo dal letto, dove, come ogni notte, non ho fatto altro che fissare ad occhi spalancati il soffitto, mettendo a tacere le voci ossessive e le domande continue che non hanno mai risposta. Da quando Draco è andato via, ho dormito circa un’ora a notte, se sono fortunata o esausta.

Il giorno è facile da mandare avanti.

La notte è un tormento eterno.

Il buio suggerisce immagini, sussurra parole, echeggia ricordi, accarezza cose mai avute e che forse non vivrò mai.

Come sarebbe sentirlo dirmi, occhi negli occhi, che mi ama. Come sarebbe vederlo ridere perché ho detto una cosa divertente. Come sarebbe ballare con lui, anche una volta soltanto.

Come sarebbe riaverlo anche un giorno soltanto. Forse accetterei anche di tornare indietro, al Petite Peste, di nuovo con il pensiero che non mi amerà mai.

Accetterei di rivivere tutto daccapo. L’odio, la rabbia, il livore.

A piedi nudi, attraverso la stanza ancora al buio. Il pavimento è piacevolmente gelido contro la mia pelle. Raggiungo la finestra, spalancando di scatto le tende scure.

Un uccello vola lontano, spaventato. Le cicale continuano a frinire, per nulla intimorite.

Il sole è appena sorto, su un nuovo giorno senza Draco.

Lo vedi tu il sole, da dove sei? Fa freddo o fa caldo come qui? Riesci a respirare, pensando che sono lontana?

Mi appoggio con le braccia incrociate sul davanzale, chiudendo gli occhi. L’aria è già umida ed opprimente, è la più calda estate degli ultimi anni qui in Inghilterra, sembra soffocarmi con la sua morsa sudata ed appiccicaticcia. Ma forse non fa nemmeno caldo, come penso. Forse fa freddo, e il caldo è solo angoscia, qualcosa che sopravvive alla stasi dei miei pensieri.

Sono giorni che non so dire se faccia caldo o freddo, se piova o se ci sia il sole, se esisto o vivo.

Il vento scompiglia i miei capelli, sparsi disordinatamente sul lino della mia camicia da notte bianca, mentre riapro gli occhi sul giardino che circonda la casa di Pansy Parkinson. L’odore delle rose è così forte da darmi la nausea, splendono umide di rugiada le corolle mezze dischiuse, ferendomi la vista di rosso, rosa e bianco. Disposte su due filari a costruire un complicato sentiero che gira tutt’attorno alla villa in stile imperiale, proprio sotto alla mia finestra si aprono in un voluttuoso cerchio colorato, al cui centro torreggia un piccolo gazebo di pietra bianca. Le colonne sono piene di rampicanti, ancora rose color rosso sangue che si avviluppano in altezza, come se volessero fare a pezzi la pietra bianca e liscia.

Al centro del gazebo, c’è un piccolo divanetto foderato di damasco, dove Pansy spesso intrattiene i suoi ospiti, decantando per ore la bellezza del suo giardino, sempre fiorito anche d’inverno, e tutto grazie ad incantesimi di sua invenzione. L’ultima volta che l’ho vista chiacchierare amabilmente con Millicent Bulstrode, mi sono trattenuta a stento dall’urlare dalla finestra che le piante dovevano essere massacrate da questo ciclo eterno di fioritura.

Ovviamente, mi sono morsa le labbra a sangue per non parlare. E solo perché nessuno ovviamente sa che Pansy mi nasconde a casa sua. È stata la scelta migliore, mi ha confidato Raissa, perché Pansy è la sola che sa di Draco ma che Astoria non conosce. Draco stesso, non fidandosi completamente di lei, non le ha mai detto che Blaise e Pansy sapevano di lui. Blaise, però, vive con i suoi. Quindi si trattava di una scelta obbligata farmi restare qui, tutto per la mia sicurezza.

Ed effettivamente in quasi un mese, Astoria non ci ha mai attaccati.

Ho spesso sentito, nei miei sogni, ancora aperto un legame con lei, l’ho sentita anche cercare nuovamente di controllarmi a distanza, ma si tratta di tentativi deboli ed incerti e che avvenivano solo se non ero cosciente. Se ero totalmente presente a me stessa, non l’ho mai sentita. 

Nei miei sogni, l’ho dapprima percepita distante e disperata, presa da una furia cieca. Poi è completamente scomparsa.

Ovviamente non credo che si sia arresa, ma credo che oramai abbia capito che l’energia dello Zahir è del tutto morta. Quindi dovrebbe affidarsi a sistemi più tradizionali per adempiere ai suoi piani. Insomma, credo che si stia solo riorganizzando. Ed è ovvio che quindi io debba rimanere qui.

Ma, al di là della mia sicurezza, ci sono altri motivi per cui non è conveniente che qualcuno sappia che io sono qui. Motivi taciuti, ma solo perché sono scontati.

Credo che la maggior parte dei Serpeverde considererebbe Pansy pazza, se lo sapesse; ma avremmo il primo caso di completa armonia di vedute con gli ex Grifondoro, Tassorosso e Corvonero. Sarebbe più o meno come dire che un cane ed un gatto vivono sereni, tenendosi la zampetta di notte mentre dormono, ed anche quel caso sarebbe più probabile.

L’unico legame tra me e Pansy Parkinson, è Draco Malfoy. E sarebbe difficile spiegare anche l’accostare il mio nome a quello di Draco, assieme al termine legame.

Draco è morto per tutti. Draco non mi avrebbe mai guardata senza insultarmi. Draco non starebbe mai rischiando la vita e la mente per Hermione Granger.

Sarebbe difficile spiegarlo a chiunque, anche a Ginny. Persino ad Harry.

Così, quando mi hanno detto che era molto più prudente che nessuno sapesse che fossi qui, sono stata d’accordo.

Ho detto che avevo bisogno di qualche tempo per stare un po’ da sola, senza dare alcuna indicazione su dove mi trovassi.

Hanno persino truccato i risultati del concorso a cui dovevo partecipare, facendo credere a tutti che avevo regolarmente sostenuto la prova con risultati eccellenti, in modo da non insospettire nessuno, cosa aberrante per le mie orecchie. Mi hanno garantito che tengono sotto stretto controllo tutte le persone a cui voglio bene, così che Astoria non possa vendicarsi trasversalmente su di loro. Mi hanno anche chiesto precisamente dove si trovi la casa dei miei, così da non tralasciare nessuno.

In generale, sono oggetto delle migliori e più sollecite cure.

Non l’avrei mai detto.

Come non avrei mai detto che, giunta ad un certo punto, questa cosa, invece che infastidirmi, mi procuri solo sollievo. Per tutta la vita, mi sono sempre presa cura di me stessa e degli altri. Ora, avere qualcuno che si prende cura di me in tutto, mi fa sentire protetta. Anche se per farlo, mi hanno praticamente chiuso in una scatola.

Mi hanno sistemato in una stanza che si affaccia sul retro della casa, probabilmente per impedirmi di vedere Draco, qualora dovesse arrivare ed entrasse dall’ingresso principale, forse perché temono che io possa fare qualcosa di stupido vedendolo e rendendomi conto che magari non si ricorda di me… o che è ferito mortalmente ed è tornato solo per dirmi addio… respiro profondamente, asciugandomi la fronte sudata.

Non lo fanno per proteggermi, ovviamente. Se ne fregano di me. Lo fanno solo per rendere onore alla promessa fatta a Draco, come per tutto.

In questo, rientra darmi una delle più camere più belle della casa, rilucente del marmo rosa e della seta delle tende e dei tappeti. Oppure, mettermi a disposizione libri, musica, vestiti, persino una piccola elfa domestica, che ogni giorno mando via con un paio di galeoni. Ho un immenso bagno personale, pieno di boccette dei più costosi bagnoschiuma e profumi, oltre che di una decina di creme diverse. Inutile dire che le ho guardate tutte con fastidio, aprendo solo quello che sembrava il più anonimo dei saponi.

Pansy mi concede persino di andare in giro per casa, curiosando nella biblioteca antica, oppure di girovagare senza meta nel giardino con Serenity. E so perfettamente che, in circostanze normali, mi avrebbe messo alla porta o al più sistemato comodamente nella cuccia del cane, nella calorosa compagnia di pulci e zecche.

Si vede che questa è la sua fantasia proibita, i suoi occhi castani si restringono sempre quando mi vede e le sue narici fremono di fastidio ed irritazione, ma mi lascia fare più o meno quello che voglio. Del resto, non hanno bisogno di controllarmi a vista.

La mia mente sterile, nel corso dei giorni, ha perfettamente inquadrato tutte le abitudini degli avventori di questa casa.

Ed ogni sei ore precise, con i ritmi di un orologio, Raissa fa il giro della proprietà, delimitata da una schiera di altissimi pioppi bianchi, e muove distrattamente la bacchetta, producendo scintille nere e rosse. A tappe, si ferma pensosamente, sussurra qualche parola ed agita la bacchetta con nonchalance, sigillandomi all’interno della proprietà.

Compie quelli incantesimi con una tale facilità, che sembrerebbero banali Appello o Wingardium Leviosa.

Invece, sono Incantesimi Oscuri, persi da chissà quante generazioni. Il loro potere, se mi affaccio alla finestra, è così forte da farmi drizzare i capelli sulla nuca.

Non sono trappole, non sono botole segrete o elettrificazioni che mi farebbero morire fulminata, appena li tocco.

Semplicemente, se mi avvicino al cancello, o alla recinzione, o ai pioppi bianchi, mi svuotano della volontà di tentare la fuga. Sento le forze abbandonarmi, sento qualsiasi volizione venir meno e sento distintamente che sono troppo potenti, anche per cercare di convincermi a forzarli. Tutto qui.

Nei primi giorni della mia prigionia, ho cercato in tutti i modi di scardinarli. In fondo, la mia volontà era stata sufficientemente forte da creare e spezzare uno Zahir, potevo farcela se mi fossi concentrata adeguatamente. Ma stavolta non c’era nulla da fare.

Anche perché, con il passare dei giorni, credo che una parte di me, quella più stanca e provata dagli eventi, abbia semplicemente smesso di provarci.

Vivo dell’inerzia che qualcuno pensi al posto mio, agisca al posto mio, prenda decisioni al posto mio.

Mi dicono quando mangiare, quando bere, quando dormire, ed in fondo, alla mia mente va bene così.

Strano a dirsi, vero? E forse con questo intendevo che la mia mente ha reagito in un modo che non mi aspettavo assolutamente.

I primi giorni sono stati terribili. Non terribili, in un senso pallidamente esagerato di qualcosa di oggettivamente sopportabile.

No.

Terribili in senso stretto.

Mi sono svegliata nella camera che Pansy mi aveva destinato, dopo che Raissa mi aveva addormentato con la tisana, ed erano passate già più di sedici ore. Ero corsa giù, avevo percorso il giardino sempre come un’ossessa, non rendendomi nemmeno conto che sicuramente avevano già pensato a murarmi viva lì dentro. Mi ero fermata alla vista dei pioppi bianchi, come se ci fosse un muro invisibile. Non ce la facevo nemmeno a muovere un passo.

Avevo iniziato ad urlare, a graffiarmi il viso, a rivolgermi a loro con i peggiori epiteti, ma non si erano dati pena nemmeno di uscire dalla casa, avvolta nelle tenebre notturne.

Solo quando, cascata in ginocchio e rannicchiata in posizione fetale, mi ero arresa almeno per quella sera, Raissa era uscita. Mi aveva sollevato con malagrazia per un gomito ed, in silenzio, mi aveva ricondotta in camera mia senza nemmeno dirmi una parola.

Il giorno dopo, ci avevo riprovato, stavolta concentrando tutta la mia volontà nel tentativo di spezzare l’incantesimo. A gambe incrociate, ero rimasta ore ed ore seduta davanti ai pioppi, concedendomi solo il lusso di sbattere le palpebre ogni tanto, mentre convogliavo ogni mio tentativo mentale per forzare la resistenza dell’incantesimo.

Avevo rifiutato il cibo, avevo rifiutato di dormire, avevo rifiutato qualsiasi cosa. Per tre giorni.

Finché avevo capito che la mia volontà era forte, rocciosa, granitica, ma ogni pietra si spezza contro il diamante. E lì, davanti a me, invisibile come un miraggio, c’era una parete di diamante. Sarebbe caduta solo quando Raissa l’avesse deciso. Potevano passare anche mesi interi, fino a quando si fosse saputo qualcosa di Draco, ma io intanto dovevo restare lì.

Avevo anche cercato di convincerli a mandarmi da Harry, o da Ginny, persino da Helder, ma niente.

Raissa scrollava le spalle e Pansy taceva con espressione riverente, al suo cospetto. Credo di aver odiato la parola “promessa”, più di qualsiasi cosa al mondo.

Al quarto giorno, avevo tentato un altro approccio.

Adamar.

Dovevo farlo venire da me. Se avesse percepito che in me c’era qualcosa che poteva interessargli, forse si sarebbe fatto vivo. Ed avrebbe lasciato in pace Draco.

Avevo fatto ricerche nella biblioteca sterminata dei Parkinson, facendomi bruciare gli occhi mentre decifravo lingue antiche e rune di ogni tipo, addormentandomi sui testi polverosi non appena spuntava il sole, e risvegliandomi per ricominciare, quando la luna ricompariva nel cielo. Anche in quel caso, mi avevano lasciato fare.

Dimitri aveva fatto molti tentativi per contattare Adamar ed ancora, a suo dire, ci stava provando, chiuso nel suo castello in Bulgaria. Ovviamente dubitavo che stesse tentando sul serio. In ogni caso ero sollevata che non ci fosse, ma sicuramente potevo riuscirci meglio io, dato che, al contrario suo, volevo davvero trovare Adamar, fermare il rito e far tornare Draco indietro.

Avevo provato con le pozioni, con gli incantesimi, con le antiche rune, con la telepatia. Avevo versato sangue dalle ferite su calderoni ardenti, avevo pianto lacrime su formule ancestrali, avevo tagliato ciocche di capelli ed avevo rievocato ricordi e rimpianti. Ma nulla, nessuna tecnica aveva funzionato.

La sera del settimo giorno, Raissa mi aveva sollevato di nuovo di peso dal pavimento, dove mi ero prostrata in preda allo sconforto, e mi aveva trascinato in camera.

Chiudendo la porta, mentre mi abbandonavo alla stanchezza, aveva sussurrato al buio nero della mia camera: “Adamar non può voler niente da te. Non ti sei mai chiesta perché non ha abbia mai cercato Voldemort? Non voleva nulla da lui… e nemmeno da te. Entrambi avete già dimostrato che le vostre anime sono deboli. Tu con lo Zahir. Lui con gli Horcrux. Non può volere nulla da persone come voi.”. Ancora, ero stata paragonata al mago più crudele di tutti i tempi. Dov’è finita la mia forza?

Quella notte, era stata la peggiore.

Avevo di nuovo sognato Voldemort che mi violentava, come quando ero sotto la maledizione della luna nuova.

Ma stavolta, c’era anche Draco che non faceva assolutamente nulla per fermarlo. Aveva lo sguardo disgustato nel guardarmi, bello e lontano come un dio pagano.  

Avevo trascorso i successivi tre giorni a letto, senza muovere nemmeno il viso, senza nemmeno aprire le tende. Ancora, avevo rifiutato da mangiare. La debolezza mi chiudeva gli occhi e mi faceva precipitare in un oblio paludoso, dove i suoni si confondevano ovattati con i ricordi e dove mi sembrava di vivere mille vite in una.

Poi, un pomeriggio assolato, avevo sentito Serenity piangere dalla camera accanto.

Ero uscita fuori scalza, ero scivolata in camera sua, l’avevo abbracciata ed avevo pianto senza ritegno per ore.

Solo a quel punto, mi ero lasciata convincere a mangiare, a dormire, a prendere in mano un libro che non avesse a che fare con Draco, a vedere un film.

E da quel giorno, mi sono imposta di andare avanti, di alzarmi ogni mattina trascinando il mio corpo alla ricerca di qualcosa da fare, cercando inevitabilmente di sopravvivere.

Non ho più pianto una sola lacrima da quel momento.

Distrazione.

Continua distrazione da me stessa.

Mi prendo cura di Serenity, leggo libri su libri, memorizzo particolari stupidi sugli abitanti della casa.

La mia mente, per resistere, è diventata particolarmente recettiva a tutto ciò che non sia Draco, riempiendosi di cose che io considero inutili, ma che invece sono vitali per colmare i vuoti lasciati nei pensieri, dalla mia imposizione di non pensare a lui e a che cosa gli possa accadere.

Mi sono ritrovata a conoscere con perfetta chiarezza tutte le abitudini di Pansy e Raissa, le mie carceriere.

Raissa che si sveglia la mattina alle sei precise, attiva gli incantesimi di controllo e non fa mai colazione.

Pansy che si alza da letto alle dieci passate, annaffia le sue rose ed immediatamente manda un gufo a qualcuno.

Dopo quel gufo, generalmente o ne arriva un altro, o compare Blaise Zabini.

Si materializza sempre sul retro della casa, poco sotto la mia finestra ed anche se mi vede affacciata, ovviamente non fa il benché minimo cenno di saluto. Corre via, il mantello che si agita alle sue spalle, e sparisce dentro la casa. Poco dopo, sento sempre i suoi passi affrettati sulle scale, mentre raggiunge la camera di Pansy, che è all’ultimo piano.

Ne escono due ore dopo, lei con le labbra rosse e gonfie, gli occhi castani colmi di lacrime, l’andatura incerta. Cammina davanti a lui, non lo degna di uno sguardo e lo accompagna silenziosamente alla porta. Lui esce lentamente, cerca sempre di toccarla prima di andarsene, talvolta una mano, un braccio, una spalla. A volte, se vede che sono soli, le prende il viso tra le mani senza una parola, lei si divincola e singhiozza, e lui se ne va, i passi che riecheggiano nel giardino.

So che Pansy resta immobile davanti alla porta aperta per qualche minuto, fissando i passi che lui ha lasciato nella polvere, mentre i petali di rosa mulinano nell’aria calda.

E poi esce in giardino, coglie una rosa e la calpesta sotto i piedi, con freddezza, come se nemmeno l’avesse curata per mesi o settimane.

Sarebbe impossibile non capire che cosa ci sia tra loro, dopo quella scena avevo facilmente fatto due più due.

Quella strana familiarità che Blaise sembrava avere con la casa, la prima sera che mi portarono qui, quando aveva perfettamente indovinato dove fossero le sigarette nella camera di Pansy. L’arrendevolezza che dimostrava sempre verso di lei. L’aria stravolta che avevano, quando mi ero risvegliata dai ricordi di Draco.

E quattro più quattro fa otto, in qualsiasi lingua del mondo. È stato facile capire anche il resto.

I Parkinson sono caduti in rovina con la guerra, ormai hanno poco più che un nome stantio da difendere.

Sono spariti dalla circolazione, lasciando la figlia in Inghilterra in questa enorme casa a salvare le apparenze di viaggi d’affari, che sono solo mere fughe dai creditori.

Gli Zabini, invece, abili calcolatori che non si sono mai fatti sorprendere come aperti sostenitori di Voldemort, sono all’apice della gloria e della ricchezza.

Non potrebbero mai concretamente volere che il loro unico figlio maschio frequenti la reietta Parkinson.

C’è sempre stato un mondo, che non mi sono mai data pena di vedere.

Ripareremo mai agli errori che abbiamo fatto in anni ed anni?

Lo stupore che provo oggi è emblematico: è come se avessi sempre pensato che loro non amino, che, siccome non fanno di cognome Potter o Weasley, non abbiano diritto di soffrire… pensare che non sono la sola a stare male, è consolante in modo crudele eppure fatalisticamente inevitabile.

Un giorno, quando mi ha sorpresa a guardarla mentre Blaise andava via, Pansy ha chiuso gli occhi, come se non mi volesse nemmeno vedere, come se persino la mia vista le fosse improvvisamente insopportabile. E mi ha detto solo poche parole, che non scorderò mai.

“Draco è il mio migliore amico, lo sarà per sempre… e io spero davvero che torni, sano e salvo. Per tutta la vita, ho desiderato che tornasse ad essere sé stesso e che smettesse di vivere come Danny Ryan, perché quella non è la sua vera vita. O meglio… ho sempre voluto che tornasse da me e da Blaise. Lui non avrebbe permesso che io…”, la sua voce si è spezzata ed ho capito simultaneamente che voleva dire che Draco non le avrebbe permesso di innamorarsi di Blaise, vista la loro situazione. Ha ripreso con forza, guardandomi con odio: “Eppure, oggi, grazie a te, è la prima volta nella vita che spero che ritorni nel vostro sporco mondo babbano… perché, se decidesse di tornare nel nostro, nessuno gli perdonerà mai di amare te… nessuno, Granger, né quelli come noi, né quelli come voi… tu gli hai rovinato l’esistenza, spero che ne sia consapevole…”.

Ho alzato il mento ed ho replicato fredda: “E lui ha rovinato la mia esistenza, se è per questo… ma rovinare qualcosa che già non andava, non è un peccato mortale… è stata la più grande benedizione che mi abbia rovinato la vita, quella patetica vita che portavo avanti ed indietro, Parkinson… e il fatto che tu possa pensare che la sua non fosse altrettanto patetica, è il sintomo chiaro che non ne capirai mai nulla… e quando tornerà, perché lui tornerà, arriverò a cambiare anche tutto il mondo pur di restare con lui, senza bisogno dei consigli di una come te... subite pure il mondo che vivete, io ho smesso di farlo…”.

Da quel momento in poi, Pansy mi ha evitato come la peste. In compenso, Blaise non è più tornato nemmeno una volta.

Non so se sia perché abbia ripensato alle mie parole. Mi piacerebbe pensare che sia per questo, mi piacerebbe pensare che sia per merito mio che lei abbia preso una decisione definitiva, la stessa che le avrebbe suggerito anche Draco stesso. Ma ovviamente è troppo pensare che questo sia concretamente vero.

Spero davvero di averle dato la spinta nella direzione giusta, almeno mi libererebbe da un po’ del senso di colpa che provo, per essere stata così maledettamente piena di pregiudizi nel corso degli anni. Oppure, utopisticamente, io voglio già costruire un ponte con la vita di Draco.

E la voglio affrontare per intero la vita assieme a lui, senza scappatoie.

E se decidesse di tornare ad essere sé stesso, lo sosterrei, gli farò scudo con tutta me stessa.

E vorrei anche che i suoi amici non lo lascino solo, perché sta con me.

Reprimo un singhiozzo a fatica, inclinando il capo, mentre le ginocchia mi tremano. Stare con me implica che lui sia tornato. E lui tornerà, vero? Tornerà da me, vero?

Posso avere un segno qualunque, Dio? Uno qualsiasi?

Corro velocemente al comodino, versandomi un bicchiere d’acqua dalla brocca di vetro anticato che ho sempre vicino al letto. La bevo velocemente, cercando di inghiottire il groppo in gola che mi impedisce di respirare ed imponendomi di stare calma.

Finalmente mi tranquillizzo superficialmente, dicendomi che non so ancora nulla di lui e che non devo pensare che stia andando tutto male.

Andrà tutto bene.

Sospiro a lungo, tornando indietro sui miei passi e chinandomi in silenzio sul lettino di Serenity, che ho preteso immediatamente che portassero in camera mia, appena mi sono ripresa dalla mia paralisi emozionale. Le accarezzo dolcemente i riccioli biondi, mentre le continua a dormicchiare, un pollice in bocca.

Non te lo perdonerò mai, mai e poi mai… non hai lasciato solo me, ma anche Serenity. Se tornerai, non te lo perdonerò mai.

Apro distrattamente le ante dell’armadio, pieno zeppo di abiti costosi e pregiati, che Pansy continua a far portare ogni giorno in camera mia. Sicuramente con i soldi di Draco, figuriamoci se puoi permetterseli lei. Come se me ne facessi qualcosa. Dovevi esserci qui tu, non i tuoi soldi.

Prendo una gruccia a caso, senza nemmeno vedere che cosa ho scelto, tranne per il colore, un bel blu oltremare. I vestiti di colori accesi e vivaci sono tutti ammonticchiati in un angolo, non riuscirei a vedermeli addosso.

Dopo essermi fatta un bagno ed essermi vestita, apro la porta per scendere di sotto. Incrocio Lyria, l’Elfa dei Parkinson, e le chiedo gentilmente di controllare Serenity e di avvisarmi non appena si dovesse svegliare. La casa è ancora in silenzio, sebbene le tende siano già tutte aperte.

Ovviamente Pansy sta ancora dormendo, mentre Raissa forse è in giro a trovare modi per non farmi nemmeno uscire dalla mia stanza.

Scendo in silenzio le scale di pietra bianca ed esco in giardino, chiudendomi la porta alle spalle con un sospiro. Non accenno nemmeno ad avvicinarmi ai pioppi bianchi, già so che sarebbe un’inutile perdita di tempo ed un’ulteriore botta alla mia autostima ed al momento non ne sento estrema necessità.

O non sarà piuttosto che, se dovessi scoprire una falla nell’incantesimo, sarei costretta a prendere una decisione? Dovrei affrontare la realtà finalmente, sapere che è successo a lui… e non voglio. L’ignoranza è la più grande delle beatitudini umane.

Mi siedo per terra, sull’erba umida, chiudendo gli occhi alla luce del sole, ancora tiepida. Il vento stormisce tra le rose, fruscii di velluto nelle mie orecchie e profumo mielato nelle narici. Lo faccio ogni mattina, mi sembra di sentirmi parte della natura, se faccio così…parte dei suoi ritmi giusti e necessari, che hanno un senso profondo, un nocciolo indispensabile da non mettere in discussione mai. Mi dà l’illusione di calmarmi. Svuota la mia mente ancora di più. Sono ombra, luce, acqua, terra.

Divento tutto, tranne che me stessa.

Un brivido mi scuote la schiena, facendomi rabbrividire, mi stringo nelle spalle, riaprendo gli occhi.

“Lo sai anche tu che non tornerà…”.

Gelo su me stessa, alzandomi in piedi di scatto e facendo qualche passo indietro. Rischio anche di scivolare per terra, inciampando, ma riesco all’ultimo a restare in equilibrio. Senza fiato per lo spavento, mi porto istintivamente una mano sul petto, il cuore minaccia di schizzarmi fuori.

La mano di Dimitri resta immobile, ancora protesa verso il punto dove ero seduta io fino a poco fa, come se avesse voluto aiutarmi ad alzarmi. Si raddrizza immediatamente, riassumendo il suo consueto contegno militaresco, con le spalle dritte e la schiena eretta. Mi guarda con espressione indagatrice, trapassandomi da parte a parte. I riccioli neri sono più scarmigliati del solito, ma gli occhi chiari splendono della solita ferrea rigidità e bramosia. Non porta più la giacca con la medaglia, ma solo una camicia bianca su pantaloni grigi. Inclina la testa leggermente di lato, osservandomi, perso in pensieri e fantasie segrete, che non mutano in nulla la sua espressione gelida. 

Da quando è tornato, circa cinque giorni fa, ribattendo che aveva fatto ogni tentativo per cercare di contattare Draco senza riuscirci, ho tentato in ogni modo di evitarlo.

Ma le sue abitudini non sono così scandite, come quelle di Pansy o di Raissa.

Anzi, di notte spesso non dorme, ma di mattina è sempre in giro dalle primi luci dell’alba, come se oggettivamente non gli servisse riposare. Si assenta per lunghe ore, tornando agli orari più disparati, e trascorre la maggior parte del suo tempo in biblioteca, impedendomi quindi anche la più proficua e piacevole delle mie occupazioni.

Ha spesso cercato di avvicinarmi, tenta sempre il contatto con me in ogni modo, sfiorandomi casualmente oppure cercando di intavolare discorsi che celano, sotto abili perifrasi, domande sulla mia magia, sulla creazione dello Zahir e sulla sua distruzione. Ovviamente, al momento, anche solo sentire la parola Zahir mi fa reagire malissimo.

Se sento nominare quella parola, la mia prima reazione è di alzarmi ed andarmene.

Se non avessi creduto al sogno mandatomi da Astoria, Draco forse sarebbe ancora qui. 

A questo, necessariamente, si aggiunge anche la sensazione di pericolo che Dimitri mi comunica, nonostante tutte le rassicurazioni di Raissa. Non sono abituata a uomini così, a uomini il cui potere non sta negli incantesimi che potrebbero scagliarti, ma nella loro mente, colma di conoscenze e di ragionamenti ineccepibili dal punto di vista logico.

Il suo sguardo mi studia come se fossi un curioso esperimento scientifico, che lui si sforza di comprendere in ogni sua parte, come se fossi l’incarnazione di una teoria a cui non hai mai prestato fede, ma che ora si dimostra fisicamente come vera. Forse, stando a contatto con lui, riconosco in minuscola parte quello che gli altri, a scuola, provavano ad avere a che fare con me, quando fingevo in modo verosimilmente perfetto di conoscere ogni cosa ed ogni risposta.

Una sorta di terrore reverenziale, una paura che si stempera in un senso di muta ammirazione e di fascino sottile.

Il gioco del gatto con il topo, con l’aggravante però della preda che resta paralizzata davanti al predatore, inebetita. Io non riesco a fare nulla, quando gli sono vicina.

Annulla le mie resistenze, annienta la mia forza, mi indebolisce. Non c’è nulla di erotico o romantico, in questo. È un bell’uomo, ma non vedo neppure come è fatto.

È la sua mente, che gioca con la mia.

È quasi un flusso di energia continuo che scorre da lui a me, una prova di resistenza continua, un’estenuante lotta sotterranea di sguardi e di parole mozzicate, dove non è previsto che lui perda, dove ogni pronostico sancisce il mio capitolare. Nei suoi occhi, vedo distintamente la mia immagine. Mi vede fragile, inerme, indifesa, bisognosa di lui e della sua protezione.

Il suo sguardo mi spoglia di tutto, in ogni senso. Ritrosia, imbarazzo, terrore, paura, inquietudine, preoccupazione.

È come se, solo guardandomi, mi dicesse decine di cose, mi comunicasse tremila messaggi diversi con l’intento evidente di aprire il mio guscio.

Non c’è nulla di male, se cedi. Sono un uomo potente e ti amerò molto più di quanto faccia Draco. Cosa è Malfoy, in confronto a me?

Non permetterò che Astoria ti faccia del male, la ucciderò con le mie mani e sarai serena.

Sei piccola, sei senza magia, sei prigioniera. Nessuno ti farà una colpa se cedi, se diventi mia.

A Malfoy ci penserò io.

Affidami il tuo corpo, la tua mente, la tua magia… e diventerai una regina.

Tutto solo con uno sguardo, ogni giorno più intenso, ogni giorno più divertito, ogni giorno più sicuro. Ogni giorno che passa senza notizie di Draco, sente che mi sto spegnendo poco a poco. E allora sarà facile, secondo lui, manovrarmi a suo piacimento. E rendermi sua. Non sa quanto si sbaglia…

Reprimendo a stento quel senso pungente di timore che mi comunica, mentre mi rendo conto che è la prima volta che concretamente siamo soli, mi volto di spalle, non degnandolo di uno sguardo ed iniziando a muovermi per tornare dentro. Il mio passo è malfermo, ma lo tengo volutamente lento per non fargli pensare che ho paura di lui.

Anche se, in realtà, vorrei solo mettermi a correre…

Lo sento muoversi velocemente come sempre, assomiglia alla nebbia che avanza in una giornata di novembre. Nemmeno i petali, sparsi copiosamente sul selciato, si spostano al suo passaggio. Sembra muoversi come potrebbe fare solo un alito di vento. Rabbrividisco, sentendolo alle mie spalle.

Le sue braccia mi cingono alla vita, senza violenza, senza forza eccessiva, abbracciandomi da dietro. È un gesto inusuale da parte sua, sembra che si pieghi su di me.

Come se per un attimo, abbia io il potere e non lui…  come se fossi di nuovo io quella forte, e lui quello debole. Come se fossi davvero io la regina, qui.

Poggia il viso contro la mia guancia, la mia schiena si adagia contro il suo petto. Lo sento respirare accanto a me in modo lento, come se aspirasse il mio profumo, come se tentasse di imprimerselo nella sua mente. “Sai di vaniglia…” sussurra, poggiando le labbra sul mio collo. Vado a fuoco, le sue labbra lasciano un segno rovente sulla mia pelle, quando si stacca.

Non mi ha baciato, ha solo appoggiato le labbra. Certo… ancora una sfida… devo essere io a pregarlo di baciarmi… non farà più nulla senza che io non voglia…

Tremo al pensiero che Pansy si affacci e mi veda, mentre mi auguro che Raissa se ne accorga e che mi venga a salvare.

Questo non è da me. Non è da me aspettare di essere salvata e restare inerme.

Non è da me.

Che cosa diamine mi sta succedendo?

Non riesco a scacciarlo… il riflesso di una mente che non vuole pensare, è cercare ansiosamente chi mi annulli del tutto la volontà. Dimitri mi annulla la volontà.

È questo che mi spinge verso di lui.

Dimitri, dopo qualche attimo di silenzio in cui sembra essersi solo bellamente gloriato della mia reazione, mi sussurra tra i capelli in tono persuasivo ma deciso: “Lo sai anche tu che non tornerà… perché lo aspetti ancora?”. Il tono roco delle sue parole è quasi divertito, specie nel sottolineare il perché io aspetti ancora Draco.

In fondo, credo che abbia solo sottolineato che lo sto aspettando, ma intanto lascio che lui mi faccia questo.

La mia mente si sveglia come sotto una cascata gelida. Riprende a pensare tutt’assieme, fluisce il terrore che quello che Dimitri dica sia vero, si spaccano come cocci tutte le mie resistenze, tutte le mie tesi, tutti i miei ragionamenti tesi a dimostrare che Draco tornerà sicuramente, senza ombra di dubbio. Non devo nemmeno pensarci al fatto che lui non torni.

Ed invece no…

Potrebbe anche essere che Draco…

Sussulto improvvisamente, in preda ai brividi, e cerco di allontanare Dimitri, divincolandomi come posso. Mi disgusta tutto di lui, il calore del suo corpo, il suo respiro, la sua pelle. Improvvisamente, un solo secondo in più tra le sue braccia mi farà rimettere.

Innervosito dalla mia reazione, che oramai non si aspettava più, la sua stretta si fa più salda, mentre mi serra le braccia attorno alla vita. Fatico anche a respirare, il mio torace non riesce nemmeno a sollevarsi, figuriamoci a tentare un qualsiasi movimento. In gola, trattengo le urla di panico che vorrei lasciar uscire.

Se Pansy mi vedesse, sarebbe la fine.

Lui respira tra i miei capelli, stringendomi ancora, le sue braccia si chiudono sotto il mio seno. Mi dibatto disperata, come un uccello in gabbia, mentre lui riprende a parlare: “Malfoy non tornerà, piccola Granger, lo vedrai da te… e se anche tornerà, non si ricorderà più nulla di te…”.

Cerco ancora di spingerlo via, non emettendo un solo fiato, la tensione del suo corpo contro il mio che mi suggerisce che, sebbene sia irritato dalla mia reazione, essa lo rende più bramoso della sua conquista. Mi rovescerebbe per terra e mi prenderebbe contro la mia volontà, se potesse. Forse teme solo Raissa e il fatto che io inizi finalmente ad urlare.

La paura mi confonde la vista, mentre con facilità impressionante, come se fossi una bambola di pezza, mi volta su me stessa, portandomi a tiro dei suoi occhi. Una delle due mani lascia libero il mio fianco, mentre trova il mio viso che solleva, mentre cerco di tenerlo rivolto verso il basso. L’altro braccio mi trattiene con forza, mentre continuo a spingere le mani contro il suo torace, cercando di spingerlo via, cosa che non lo impensierisce assolutamente.

La mia mente, atterrita, richiama energia dall’adrenalina che mi intossica il sangue.

Fingere

Abbandono le braccia lungo i fianchi, fingendo spossatezza, mentre fisso i suoi occhi come se mi ipnotizzassero, come se stessi per arrendermi e lui mi incatenasse senza possibilità di remissione, come se le sue parole sussurrate siano la sola cosa che percepisco attorno a me. Come se persino Draco non esistesse più, quando il mio petto squarciato continua a ripetere e ad urlare il suo nome. Si morde il labbro inferiore, soddisfatto, ed accarezza piano i miei capelli, con aria pensosa e riflessiva. Chiudo gli occhi, sperando che non si accorga del tremore delle mie palpebre oppure che lo fraintenda, scambiandolo per desiderio ed eccitazione.

Quando poggia la sua fronte sulla mia, li riapro, mentre mormora ancora, fissandomi dritto negli occhi con tono dolciastro: “Posso aspettare anche tutta la vita che tu lo capisca, posso aspettare anni vedendoti scrutare l’orizzonte, mentre lo attendi. Ma lui non tornerà ed un giorno lo capirai anche tu…”, la sua stretta si fa meno forte, mentre porta le sue mani sul mio viso, attirandolo vicino al suo. Sfiora le mie labbra, bisbigliando suadente: “…e quando quel giorno arriverà, sarai tu stessa ad implorarmi di entrare nel mio letto…”.

Chiude gli occhi, preparandosi a baciarmi. Mi trattiene debolmente, certo di avermi oramai in pugno.

Un formicolio mi solletica la nuca, adesso o mai più...

Con disgusto e con rabbia, mi allontano di qualche centimetro e gli sputo in faccia. Approfitto del suo momento di smarrimento per divincolarmi, faccio ancora fatica a respirare, il vento caldo sembra soffiarmi solo polvere addosso, senza alcuna forma di refrigerio.

Dimitri mi guarda con odio puro, pulendosi il viso con la manica della camicia. Prima che pensi a qualcos’altro, ringhio a denti stretti, stringendo i pugni: “Mettitelo in testa una volta per tutte… io, Draco ce l’ho dentro…  sarò per sempre sua… e se verrà il giorno in cui sarò di qualcun altro, specialmente tua, avverrà solo in un modo: da morta…”.

Non lasciandogli il tempo di replicare, mi volto bruscamente su me stessa, correndo dentro casa, salendo le scale, fino a barricarmi in camera mia, chiudendo la porta a chiave.

Scivolando per terra, dopo giorni, mi concedo il lusso di piangere di nuovo.

 

 

La notte è calata, senza che io nemmeno me ne sia accorta.

Ha sparso il suo velluto nero e lucido sulla valle, avvolgendo ogni cosa in una quiete ovattata ed irreale, pesante come un’attesa sfibrante, come se la stessa terra avesse smesso di respirare e fosse rimasta in apnea, asfissiata. Il caldo continua ad essere opprimente, schiaccia ogni cosa sotto una coltre umida, mentre un caldo vento di scirocco spazza le piante e fa stormire le rose del giardino. Il vento ha un odore di carta bruciata, che mi irrita il naso, porta l’eco di terre lontane riarse dal sole.

Le montagne, all’orizzonte, sembrano giganti guardiani di questa quiete prima della tempesta.

È un caldo anormale, quello che precede un temporale violento, già le nuvole si addensano scure in direzione di Londra, tingendosi di un lieve bagliore aranciato, causato dalle luci artificiali. Londra è alla mia destra, lontana, distinguo solo il baluginare delle luci che rompono la monocromia cobalto del cielo notturno.

Quando inizio a vedere i primi lampi vividi in quella direzione, mi abbraccio le ginocchia.

Seth si sarà messo a correre per casa, cercando di chiudere tutte le finestre, che intanto stanno iniziando a sbattere per il troppo vento. Imprecherà contro quella della cucina, la cui chiusura è difettosa, e maledirà la pioggia che gli bagna la camicia di Fendi. Mediterà di lasciare tutto così e tornerà indietro sui suoi passi, fino a quando April lo rimprovererà e farà sbuffante marcia indietro. Non lo seguo oltre con gli occhi della mia mente, perché so perfettamente che, quando Seth ritornerà in camera sua, sarà solo.

E lui odia essere solo. Dormire da solo è in cima alla classifica delle cose più odiose al mondo, per lui.

E, in pochi giorni, lui ha perso me, Draco e Serenity.

Seduta sul patio della villa di Pansy, cercando refrigerio sulle fresche assi di acero bianco, poggio il mento sulle ginocchia piegate e chiudo gli occhi.

A Seth, ho dato la stessa versione propinata a tutti quanti, lui al telefono ha annuito gravemente, approvando. E mi ha chiesto di Danny, se sapessi come stessero lui e Serenity e se le cose a casa loro, in America, si stessero risolvendo. Mi ha spiegato che l’aveva chiamato una sua amica di nome Pansy, dicendo che era morta una loro vecchia e cara zia e che sarebbero rimasti in America per un po’.

Ho evitato di dire nulla, ogni parola sarebbe stata un’ammissione del ruolo che avevo avuto in quella chiamata. Ero stata io a dire a Pansy di farla.

Ed invece ho cambiato bruscamente discorso e Seth non ha fiatato, pensando che, dopo la mia confessione sui miei sentimenti non corrisposti per Danny, io stessi semplicemente evitando di parlare. Cosa vera, a conti fatti… ma Seth non sa quanto tutto sia cambiato, in poco tempo.

Lui mi ama, Seth. Ha cercato di proteggermi, sempre. Summer è sempre stata la strega che pensavi, ma si chiama Astoria. E ci vuole morti, entrambi.

Bugie, su bugie. E ho smesso di rispondere anche ai suoi messaggi, se non con monosillabi e frasi mozzicate.

Non gli dirò mai una bugia, mai più.

Se lo rivedrò, se un giorno accadrà, gli racconterò tutta la verità, dal principio.

Un’ombra alle mie spalle mi fa trasalire, strappandomi ai miei pensieri. Sono sicura a chi appartenga, dato che ho aspettato ore, chiusa in camera mia, che Dimitri uscisse, ma comunque gli eventi di questa mattina mi impediscono di ignorare il sobbalzo del cuore e la stretta dello stomaco.

Sinceratami che si tratta di Raissa, che si siede accanto a me in silenzio, riprendo a fissare le nuvole che si avvicinano sempre di più.

“Draco potrebbe non tornare mai più…”.

Sgrano gli occhi, sono stata io a parlare. Era la mia voce, era indiscutibilmente la mia voce, le corde vocali vibrano ancora nella mia gola.

Ho aperto le labbra per dire una cosa fredda ed impersonale, una frase fatta del tipo che sta per piovere e che forse è meglio che do un’occhiata a Serenity. Ho aperto bocca solo perché odio il silenzio e perché Raissa, invece, non parla mai, se non interpellata.

Ed, invece, mi è uscita una cosa completamente diversa.

La verità… non più una bugia.

Il pomeriggio è corso tutto tra le pareti della mia camera, tinte prima di luce chiara e poi di un lieve bagliore rosato. Ho contato le ore ed i minuti passare, come se stessi solo allora imparando i numeri ed avessi bisogno di tutta l’attenzione del mondo per memorizzarli, restando cosciente solo per i piccoli suoni inarticolati, che uscivano dalle labbra di Serenity.  

Mi sono lavata la faccia più e più volte, perché gli occhi mi bruciano ancora dopo aver pianto stamattina, e non riesco a farli ritornare limpidi.

E quando Serenity si è addormentata e ho sentito sia Pansy che Dimitri uscire di casa, mi sono spinta fuori dalla porta.

Non ho passato un solo secondo ferma, immobile, come se, smettendo di muovermi, potessi interrompere il battito del mio cuore. O il piede andava avanti ed indietro, mentre leggevo, o le dita della mano tamburellavano ininterrottamente. Vittima febbrile, mi sono calmata solo sedendomi qui fuori, osservando la natura che si preparava al temporale e che mi sembrava vicina a me stessa e ai miei sentimenti. Perché, dentro, da questa mattina, si è insinuato qualcosa, una spina sottopelle come quelle delle rose, se non fai attenzione a coglierle.

Non sono riuscita a capire che cosa fosse, fino ad ora.

Draco potrebbe non tornare mai più.

Gli occhi si inumidiscono all’istante, il giardino davanti a me, illuminato solo da decine di piccole candele tondeggianti sparse sul selciato, diventa liquido anch’esso, tremolando nelle mie iridi. È un pensiero così scontato che fa quasi ridere, eppure, fino a stamattina, fino alle parole di Dimitri, io concretamente non ci ho mai pensato.

La mia mente è risorta e non c’è più nulla, ora, a farla tacere.

Nessun pensiero consolante, nessuna frettolosa rassicurazione, niente di niente.

Draco potrebbe non tornare mai più… o tornare senza alcun ricordo… o tornare morto.

Sospingo il dolore a quel pensiero, lo seppellisco a fondo cercando di ignorarlo, e penso solo alle cose più concrete, più materiali.

Devo occupare la mente, occuparla ora che non è più in grado di restare vuota. Altro meccanismo per impedirmi di impazzire.

Raissa annuisce gravemente, con la coda dell’occhio vedo che ha chiuso gli occhi e ha serrato le labbra rubino.

“Che cosa accadrà a me e a Serenity?” aggiungo, mantenendo calma la mia voce prima che mi dilani la disperazione alla sua mancanza assoluta di reazione.

Non ha detto di no, non ha detto: “Tranquilla, Draco tornerà…”, non mi ha contraddetta.

“Per Serenity, credo che sappiano Blaise e Pansy che cosa fare…” commenta incolore Raissa, le dita che giocherellano con la sua bacchetta.

Una scintilla viola sfugge dalla punta, la seguo mentre vola qualche istante e poi si spegne, cullata dal vento.  

“Certo” sospiro, cercando ancora di reprimere quel nodo che impedisce alla mia voce di non suonare troppo bassa.

Blaise aveva i ricordi di Draco, proprio per mostrarli un giorno a Serenity, qualora a lui fosse capitato qualcosa. La daranno in affidamento a qualcuno di babbano, così da rispettare la volontà di Helena. Potrò rivederla io? Una lacrima ribelle scivola lungo il mio viso, la nascondo con il palmo della mano, prima che Raissa se ne accorga.

“Serenity è giusto che stia qui… il tuo caso è diverso…” sospira Raissa, come se stesse parlando da sola e non più con me. Seguo le sue parole, senza interromperla.

“Ho promesso di proteggerti… questo lo sai…” prosegue lei, sospirando ancora “Ma non posso chiuderti a chiave in una stanza… non è auspicabile per te, ma soprattutto per me. Ho una mia vita… mi pare ovvio…”. Non obietto al suo egoismo, in fondo viene enormemente a mio vantaggio.

“E la situazione con Dimitri sta peggiorando…” sussurra preoccupata, prima di fissarmi dritto negli occhi: “Vi ho visti stamattina…”.

Sussulto, ricordando la paura provata e il terrore che mi stesse per violentare. Mi assale anche l’incertezza, perché Raissa non l’ha fermato?

Riprendo fiato, non volendomi mostrare ancora più debole di quanto già non sia: “Se avessi una bacchetta, gli farei passare tutta la voglia di avvicinarsi a me, ma ovviamente dubito che me la darete…”.

Raissa sorride amara: “Se pensassi che tu, con una bacchetta, potresti fermarlo, te l’avrei già data… non potresti rompere gli incantesimi della proprietà nemmeno volendo… ma il guaio è che, anche se ti dessi la Bacchetta di Sambuco, non riusciresti comunque ad allontanare Dimitri… ogni giorno in più che passa, senza avere notizie di Draco, per lui è una vittoria… stai perdendo la speranza che ritorni ed è giusto. E lui approfitterà della tua debolezza…”.

“Io non starò mai con lui, se è questo che intendi…” borbotto offesa, serrando le spalle. O meglio starò con lui, ma con la forza. La prossima volta non sarà tenero come oggi.

L’angoscia mi inzuppa la schiena di sudore freddo, mentre Raissa tace persa nei suoi pensieri, confermandomi implicitamente che la mia non è semplice paura.

Raissa, alla fine, sospira di nuovo e dice: “Tre giorni… aspetta solo tre giorni. Poi ti accompagnerò io stessa al Ministero e ti affiderò a Potter… è rischioso, lo so, ma lo è molto di più farti restare qui… specie per me…”, non capisco che cosa tema così tanto, ma annuisco pensosamente. In fondo mi sta dando quello che chiedo da settimane. E poi tutto, pur di andarmene da qui. Dimitri la preoccupa. E non la preoccupa solo per me… la preoccupa anche per sé stessa.

“Intanto sarà meglio che tu resti sempre con me, siamo intesi?” soggiunge ancora, alzandosi in piedi “Non ti farà nulla, se ci sono io…”.

Annuisco, alzandomi in piedi a mia volta e scrollandomi la polvere dai jeans chiari.

Però, la dimensione del potere che Dimitri ha su sua sorella continua ad incuriosirmi ed, incapace di trattenermi, chiedo con voce strozzata: “Raissa, io non capisco… ma perché lo temi così tanto? In fondo, lui…”. Un tuono violento interrompe le mie parole, sembra provenire da molto vicino e mi fa sobbalzare, seguito da una folata di vento che spegne alcune delle candele del vialetto. Adesso distinguo appena il viso di Raissa. Non mi sono accorta che il temporale si è avvicinato così velocemente.

“Sarà meglio che vada a controllare Serenity… ha paura dei temporali…” aggiungo velocemente, guardandola. Ha il viso rivolto verso il giardino, gli occhi sono immobili, ma non distinguo la sua espressione. Sembra una statua congelata.

“Raissa…” la chiamo leggermente, scuotendola per il braccio. Lei copre la mia mano con la sua, come se volesse al contempo trattenermi e ricavare forza da me. Continua a restare in silenzio, la sua mano è gelida, il viso è immobile, fisso in un punto che vede solo lei. Dopo qualche secondo, finalmente le sue labbra si aprono. Scuote la testa incredula, fa un piccolo sorriso e poi bisbiglia, lasciandomi la mano: “Non ci sarà nessun temporale stasera… anzi forse potrebbe essere la notte più bella della tua vita…”.

Improvvisamente, inizio a capire. Un calore assurdo si espande nel mio addome, mentre mi volto lentamente, guardando in direzione del vialetto d’ingresso.

 

Capitolo forse un po’ morto, ma necessario!! Sono enormemente di fretta quindi ringrazio velocemente tutti coloro che hanno risposto al mio appello, recensendo la storia, grazie! Sto rispondendo a tutti, ma purtroppo ho sempre il tempo risicato quindi lo sto facendo piano piano…-.- un bacione! Cassie!!

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Capitolo 34
*** Rising roses part II ***


NEI CAPITOLI PRECEDENTI:

Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni, sperando che fallisca le prove o si ritiri preservando le sue memorie. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. Intanto nel futuro di cinque anni dopo, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson.

 

 

Capitolo 34 – Rising roses part II

 

“Fai ancora a pezzi le rose, Pansy? No, vero? Ora ti sembra persino un crimine… io non ne sopporto nemmeno la vista. La capisci adesso la differenza tra me e te?”.

Pansy distoglie forzatamente lo sguardo, gli occhi scuri che vagano nel salotto verde smeraldo della sua casa.

È cambiato tutto da quando vivevo qui. L’arredamento, i colori, l’odore quieto delle stanze. Il sole che sta tramontando tinge tutto di una stasi dorata, bagnando i muri e i mobili di liquida luce immobile.

Davanti a noi su un basso tavolino i residui di un tè preparato solo per educazione e solo per il mio compagno di viaggio. Non avrei mai pensato che Pansy Parkinson l’avrebbe mai guardato così mentre io parlavo.

Cercava conferme, interpretava respiri e cenni del capo, stava più attenta a quello che mostrava lui sul viso che io nelle mie parole.

A conti fatti mi rendo conto che va benissimo così.

Pansy non si sarebbe mai fidata di me. E dopo cinque anni è chiaro che si fidi più di Seth.

Quando il mio racconto si faceva frastagliato o quando mi scappava da piangere, Pansy spiava semplicemente la mano che Seth continuava a stringermi, come se le sue considerazioni le dicessero di non credermi e quella mano invece la esortasse sempre a mettersi in dubbio. Non ha mai parlato mentre io spiegavo che cosa mi è accaduto. Il suo viso si è tinto di incredulità, ma ha continuato a tacere.

Dietro i suoi occhi apparentemente disinteressati, i pensieri sembravano ricorrersi, mettendo a posto tessere e pezzi del mosaico mio e di Draco.

Quando mi ha visto, mi ha ovviamente intimato di andare via.  Mi ha messo alla porta senza troppi complimenti. Poi è arrivato Seth e ha acconsentito ad ascoltarmi.

In silenzio, senza spiccicare parola… solo ora, quando ho accennato alle rose, si è stretta nelle spalle, ha chiuso gli occhi e ha trattenuto un fremito leggero, fingendo di sistemarsi il vestito ocra.

La sua risposta silenziosa è stata quella di accarezzare il petalo di una rosa caduto da un vaso posto sul tavolino, di stringerlo tra le dita come un tesoro prezioso e di riporlo in un libro dimenticato aperto sul divano dove siede.

Ad interrompere il silenzio, ci pensa di nuovo suo marito che entra trafelato, tenendo in braccio Charisma, la loro unica figlia. Alex trotterella accanto a loro, mi sorride e mi saluta: “Hai finito, mamma?”.

“Un attimo tesoro…” gli rispondo, stringendo forte la mano di Seth.

Lui mi osserva meditabondo, sporgendo in avanti le labbra in una buffa smorfia pensierosa, lo bacio sulla fronte sperando di rassicurarlo.

Pansy prende in braccio la bambina, la culla lievemente avanti ed indietro, motteggia all’indirizzo del marito qualche frase di rimprovero e gli dice di avere pazienza.

L’uomo sbuffando prende di nuovo in braccio la figlia ed Alex per mano, ed esce dalla stanza non prima di dire caustico: “Questa me la paghi, Granger…!”.

Nonostante tutto mi viene da ridere, è sempre stato così e sempre così sarà. Ed è un po’ di calore in questa giornata estenuante.

“Ti sono sempre piaciuti i bambini… ma ora capisco che erano quelli degli altri a piacerti!” replico leggera, sorridendo a mia volta . Pansy guarda entrambi, ma non replica nulla.

“Infatti tuo figlio mi piace…” borbotta lui, cercando di trattenere Charisma che rischia di cadergli dalle braccia mentre Alex giocherella con lei  “Ma quando i bambini non li molli alla fine della giornata, diventi lievemente misantropo…” .

Dean chiude la porta, sorridendomi ancora. Gli sorrido a mia volta, negando con il capo, mentre ancora mi chiedo che cosa sarebbe successo se quel giorno non avessi sbagliato stazione in metropolitana, arrivando al Petite Peste.

Lui non avrebbe sposato Pansy ed io non avrei un figlio con Draco. Forse io e Dean saremmo marito e moglie. E saremmo infelici.

Anche se, nel mio caso, l’infelicità sembra una costante se si mette assieme la parola “matrimonio” e la mia persona. Fisso la porta chiusa, cercando di tenere gli occhi limpidi.

“Siete una bella famiglia…” sussurro a Pansy che sorride appena fiera ed orgogliosa “Ed immagino quanto sforzo ci sia dietro. Tu e Dean… se me l’avessero detto anni fa… ma ce l’avete fatta. Tu sei stata forte a sufficienza per reggere un peso del genere… sei andata contro il tuo mondo ed hai vinto…”, la mia voce si spezza senza che me ne rendo conto, le lacrime scivolano via dai miei occhi: “Spesso penso a come sarebbe andata per me, se mi avessero dato una sola dannata possibilità di avere tutto questo. Magari io e Draco avremmo mandato lo stesso tutto all’aria ed avremmo fatto soffrire sia Alex e Serenity. Poteva succedere, no? Era forse la cosa più scontata che avvenisse, visto com’è andata. E magari è giusto che io non abbia mai questa risposta, Pansy, e che continui a vivere nel dubbio, perché in fondo ora come ora, come da cinque anni a questa parte, ha senso solo pensare a quello che è rimasto della mia famiglia… Alex… e magari hai ragione tu, siamo andati tutti avanti, tu, Seth, Dean, forse Draco stesso. E io non ho diritto di venire e distruggere degli equilibri che avete creato. È giusto, Pansy… ed è egoista e falso e ipocrita che io mi celi dietro mio figlio per nascondere che sono io, solo io, che ho bisogno di ritrovarlo. Perché io la voglio quella risposta, deve dirmelo lui che non avevamo possibilità di stare assieme, che non c’è stato tolto niente… deve dirmelo lui… e devo sapere che sta bene… che lui e Serenity stanno bene… solo questo… mi basta solo questo…”.

Mi piego sulle mie ginocchia, singhiozzando, il braccio di Seth cerca di tirarmi su e di farmi stare dritta, ma io ricado giù come un burattino privato di fili.

“Io vi ho visti, Granger… vi ho visti…” sussurra Pansy tra le mie lacrime, la voce flebile come un sospiro “E so quanto ti amava… e so quanto lo amavi tu… ma davvero non so dove sia. Non lo vedo da quel giorno di cinque anni fa… non siamo più Serpeverde, Grifondoro, babbani o mezzosangue… la vita ci ha strappato quelle etichette di dosso. Siamo solo noi stessi. Te lo direi se lo sapessi… ma non lo so… io non so dove sia…”.

La mia esile speranza cade come un petalo di rosa che scivola su un tavolino ingombro di tazze oramai gelide.

Ma quel petalo ha prodotto il suono del velluto.

La mia speranza frana dal mio cuore con il rombo di un tuono.

 

 

Il cuore mi batte in gola come se effettivamente mi fosse salito quasi alle labbra.

La pelle del mio collo si tende cercando di trattenerlo, pulsano gelide le vene bluastre, mentre gli occhi corrono lungo il viale d’ingresso che porta alla villa di Pansy. È molto lungo, poco distinguibile nel buio setoso di questa notte strana, resa ancora più avvolgente dalla mancanza di stelle e luna. Le nuvole continuano a borbottare.

Solo piccole candele tondeggianti permettono di distinguere qualcosa.

Un’ombra, solo un’ombra che avanza piano verso di noi.

Un’ombra che può essere tutto e può essere niente.

Un’ombra inghiottita dal buio.

Un tramestio di foglie secche che può essere solo il vento.

Un fruscio di petali sollevati che può essere anche l’esplorazione di un qualche animale notturno.

Un rumore di passi, lunghi, distesi, misurati. Non affrettati, ma sempre controllati.

Passi che con lentezza divorano la distanza del vialetto, come un nastro che si disfa scucendosi in fili sottili e impalpabili.

Il cono di luce di una candela ondeggia nel vento, illuminando fiocamente l’ombra che avanza.

Come se fossi arrivata all’atto finale di una tragedia che ha solo i contorni plumbei di una commedia, l’ombra rivela piano le sue fattezze.

Un capogiro mi coglie indolente, mi reggo allo stipite della porta di acero bianco alle mie spalle smettendo di respirare.

L’ombra continua a camminare, come se non fosse soggetta alle leggi del tempo. Un lampo brusco la rende del tutto evidente ai miei occhi che pure ne avevano già intuito i contorni e i confini. Ma il lampo non ha nulla della delicatezza sobria della candela, è uno squarcio aperto nella memoria e nel cuore che mi violenta i sensi, le membra e l’anima.

In un secondo mi dà un’immagine netta e precisa, poi l’inghiotte di nuovo nel buio misericordioso delle candele e della notte torbida.  

Abbasso lo sguardo, reggendo convulsamente lo stipite della porta. Le unghie grattano la vernice bianca che si scrosta, graffiandomi di sangue le dita.

È sempre stato così alto, Draco Malfoy?

Ha sempre avuto gli occhi tendenti all’azzurro come adesso?

Ha sempre avuto i capelli così spettinati da sembrare che l’abbia fatto apposta?

E le spalle sono sempre state così aperte?

Ha sempre avuto le labbra sottili, tese e contratte?

È sempre stato così bello?

La mia memoria è sempre stata allenata a ricordare formule, incantesimi, nozioni, ricorrendo a meccanismi calibrati nel corso di anni ed anni. Eppure, non ricorda bene adesso, non ricorda il volto di Draco così distintamente. Ne aveva un’immagine ormai quasi grigia, negletta nell’averlo fissato da un’impressione diretta ormai lontana di giorni e giorni. Ed ora i miei occhi ricolmi di lacrime urlano alla mia memoria di essere bugiarda, perché celava un’immagine nemmeno lontanamente simile a quella che adesso ho davanti. Mi mordo il labbro inferiore, ricordavo un bel ragazzo biondo, con l’aria arcigna, gli occhi grigi e l’espressione arrabbiata.

E mi trovo a pochi passi da me un uomo fatto e finito, dal passo sicuro e per nulla teso. Un uomo che ha gli occhi quasi celesti e niente dell’ansia e dell’agitazione che dovrebbe avere, sapendo che la donna che ama è qui, in questa casa, e sta per incontrarla.

Draco potrebbe non tornare mai più.

Ora so che sbagliavo… Draco è tornato.

Uno che si chiama Draco Malfoy, che ha amato Helena Jasmine Greengrass in Diggory e che ora si fa chiamare Danny Ryan.

… ma il mio Draco… forse lui non è tornato.

E se fosse morto sotto la scure di Adamar?

I passi diventano sempre più veloci, sempre più vicini, le mie unghie raschiano via altra vernice dalla porta, si sbriciola sotto le mie dita.

Ed il mio cuore scoppia. Letteralmente. Ma che dico, il cuore… tutto esplode.

Vado in frantumi, come un pezzo di vetro sotto un calcio ben calibrato.

Il mio volto resta terreo, congelato, mentre conto i passi che lo separano da me.

Venti passi… diciannove… diciotto…

Mi volto furiosamente verso Raissa, non mi ero accorta che è ancora vicina a me. Sorride ancora lei e mi chiedo che diamine abbia da sorridere. Non può distinguere i miei occhi allucinati e ai miei singhiozzi risponde con una carezza affrettata ed imbarazzata sulla mia spalla.

“Io non ce la faccio…” dico con un filo di voce piangendo e Raissa mi guarda non riuscendo a capire. Stacca la sua mano dalla mia spalla come se scottasse.

Ancora le mie parole sono detonate senza controllo. Senza che me ne rendessi conto.  

“Se non si ricorda di me… io… io non voglio vederlo…” singhiozzo ancora, Raissa è sconvolta, la sua freddezza non riesce a celarlo “Per favore, lasciami andare…”.

Una decina di passi.

Senza aspettare che mi risponda, mi volto su me stessa correndo via in casa. Senza fiato, apro la porta e me la richiudo alle spalle, continuando a correre, superando il corridoio e poi il lungo salone della casa dei Parkinson. Tutto mi spinge in avanti come un elastico sotto tensione rilasciato improvvisamente. La mia mente è esplosa, non esiste più, esiste solo l’istinto e la paura. Sono sempre stata una persona razionale, saggia, integerrima. E ora vaneggio, del tutto.

Forse sono stata sana di mente troppo a lungo… questa è la realtà.

Io non sono fatta per questo amore, che mi piega le ossa e mi distrugge la mente.

Io sono fatta per un piccolo amore senza rischi, consolante come un gatto accucciato in grembo, non per questa passione atroce che scardina l’anima.  

Lode a chi ci riesce. Lode a chi ce la fa.

Ma io non sono mai stata Catherine Earnshaw che muore in un letto, desiderando e maledicendo il suo unico amore.

Io sono sempre stata Elizabeth Bennet:  nascondo l’amore in frasi pungenti, pregando che nessuno venga mai a scavare sotto la mia pelle. 

Non posso ritrovarmi davanti il vecchio Draco, non ce la farei.

Non posso più tenere da sola il filo di quest’amore impossibile, vedendo dall’altra parte il capo estremo cadere nel vuoto.

So che scappare non serve… ma l’ignoranza è la più grande delle benedizioni.

Non voglio saperlo, non voglio sapere che cosa abbia fatto… e che cosa ricordi.

Non voglio saperlo.

Abbasso velocemente la maniglia della porta sul retro, ritrovandomi di nuovo in giardino proprio sotto la finestra della mia camera. Faccio in tempo solo a pensare che è meglio che torno indietro, che qui sono troppo esposta, che devo chiudermi nella mia stanza. Prima che il mio corpo si fermi dalla sua folle corsa e prima che la mia mente rinsavisca, qualcosa mi ferma di botto. Una mano sul mio polso, una stretta decisa, un respiro affannato, il profumo dell’erba bagnata nel mese di settembre.

Come lo riesca a distinguere è sempre un mistero. Come persino quel calore sul polso sia familiare e non assomigli alla mano di nessuno, è sempre un mistero.

La memoria torna indietro. Veloce, si srotola come un gomitolo di lana. Dejà vu, croce e delizia, incanto e maledizione.

Mi volto piano, spaventata, non riuscendo a smettere di piangere, vergognandomi profondamente di me stessa. Un coro di voci fastidiose ed indistinguibili nella mia mente mi spingono alla calma, al tornare in me, allo smettere di piangere.

Perché io sono Hermione Granger e piuttosto mi graffio i palmi delle mani con le unghie, ma non piango mai, davanti a nessuno, da sola sì, ma davanti a qualcuno mai.

Specie davanti a chi potrebbe farmi a pezzi…

E lui può farlo, può distruggermi in un colpo solo.

L’ha già fatto.

Ma questa voce assomiglia al ronzio di una vecchia radio rotta. Dà notizie vecchie di secoli con tono arrugginito e metallico, parla di guerre combattute e perse, ciancia di battaglie che non sono sopravvissute alla morte dei loro soldati. Io sono morta. La mia vecchia me stessa è morta il giorno in cui si è innamorata di lui.

Ho rinnegato nome, storia, carne, sangue. Tutto, per amare lui.

Continuo a piangere, perché io, oggi, adesso, non conosco nemmeno il senso della parola orgoglio.

Che senso ha impormi di non piangere? È sempre stato più forte di me.

I miei occhi gonfi corrono al mio polso, quello che portava la cicatrice dello Zahir e che ora è chiuso dalle dita di Draco. Le sue mani sono piene di tagli, sporcano la mia pelle di sangue e terra, eppure restano fredde e livide.

Se mi concentrassi su questo calore esso mi scioglierebbe il cuore. Perché è di nuovo la pelle dell’uomo che amo sulla mia. Ed è già un miracolo che sia qui. Che sia vivo. Che mi tocchi anche solo per sbaglio… ma non riesco a pensarci.

Perché potrebbe essere solo un contentino.

E io lo voglio tutto, l’uomo che amo. Sono stanca dei contentini. Sono egoista, insaziabile, affamata come una leonessa abbandonata nella foresta.

Ho fame di un abbraccio, ho fame di un “ti amo” premuto contro le mie labbra, ho fame di fare l’amore con lui finché mi manchi il respiro.

Una vita di compromessi… e ora sono arrivata a questo. O tutto, o niente. O sei mio, o non sei niente.

Ma non sono ancora pronta al fatto che lui sia per me niente. E non credo lo sarò mai.

Per questo, lasciami andare. Non darmi questa risposta. Perché la metà delle possibilità che tu non sia più mio non vale il rischio di sapere.

Le sue dita, improvvisamente, scivolano lungo il mio polso, stringendo infine le mie. Una presa forte, salda, che lascia una scia tiepida sulla mia pelle fredda.

Sussulto e tremo ancora, mentre un lampo illumina a giorno il giardino.

Sollevo lo sguardo piegato dalle lacrime, il mio corpo più forte di qualsiasi cosa. Gli occhi corrono ai suoi e le dita si allacciano alle sue.

Draco è davanti a me ed è ancora diverso da qualsiasi ricordo che avessi su di lui.

È bellissimo.

Esplodono i fulmini lontani nel cielo dei suoi occhi, rendendoli macchie cobalto. Guarda le nostre mani unite, trattenendomi e basta, non fa nulla. Dura la mascella, l’espressione sembra scolpita nella pietra. Rabbrividendo, mi chiedo se non sono stata io a stringergli la mano senza accorgermene e lui adesso ne è disgustato. Mi tremano le labbra, mentre cerco di staccarmi da lui, presagendo l’occhiata estremamente nauseata che potrebbe destinarmi e a cui sono tristemente abituata, ma non rassegnata. Non adesso, non più.

Ma Draco solleva lentamente il viso con un sospiro che il vento cattura, portandoselo via. La luce molle di una candela rischiara le mie lacrime riflesse nei suoi occhi, mentre contrae le labbra sottili. Ora assomigliano ad un taglio nitido nella pelle diafana del viso.

Piano si aprono, come se facesse fatica a parlare, come se rompere il silenzio fosse già un’onta infamante.

“Hermione…”.

Il mio cuore è un tamburo sincopato che non conosce alcuna legge ritmica. 

Non Granger… Hermione… come sa dirlo solo lui… il vecchio Draco non mi avrebbe mai chiamato Hermione.

Dimmi che dietro quei occhi sei ancora tu, dimmi che non sono più sola, dimmi che ci sei ancora…

Annuisco solo con il capo.

Non voglio né dire, né fare altro, il terrore che tutto si infranga come cristallo è così forte e reale da farmi solo asciugare le lacrime con una manica della camicia.

La sua mano nella mia rabbrividisce ancora, le dita si serrano più forte attorno alle mie.

“Hermione…” ripete ancora, la mano che diventa sempre più gelida “Sei tu?”.

Resto immobile, non riuscendo a capire che cosa voglia dire, lo guardo interrogativa, le lacrime che non smettono di bagnarmi il viso.

Il suo sguardo mi inchioda al cielo pieno di lampi, scandaglia i miei occhi come se fossero trasparenti, vagano sulla pelle del mio viso cercando pallori e rossori alla ricerca di una risposta. Improvvisamente capisco, vacillo nella consapevolezza. Un altro lampo squarcia prima la mia mente e poi il cielo su di noi.

Come seguire un filo rosso… come ricucire uno strappo all’altezza del cuore… come chiudere un cerchio… come trovare finalmente la chiave.

Leggo i suoi occhi come se li conoscessi da tutta la vita, non sono più la pioggia di meteore veloci di una vita fa, dove lui era sempre davanti a me di un passo e dove non riuscivo mai a capirlo. Sono uno specchio che riflette me stessa, dove leggo la risposta che sta cercando nei miei.

Se sono di nuovo io… se sono libera dallo Zahir… mi sta chiedendo se sono tornata me stessa…

“Ti… ricordi?” sussurro instupidita, intorpidita, cosciente di me stessa solo per la mano che continua a stringere la sua. È come un’ancora che mi impedisce di annegare, come il filo di un palloncino legato alla terra. La mia testa è leggera, come se fosse oggettivamente piena di elio. Lentamente la pelle della sua mano diventa calda.

Draco copre la distanza che ci divide con un passo rapido come il vento. Nel buio, vedo i suoi occhi non lasciare un attimo i miei, mentre mi lascia la mano. La punta delle mie dita ritorna gelida per un attimo, mentre tremo guardandolo. Nessuna oscurità, nessun temporale, nessuna pioggia potrebbe renderlo più luminoso di come è adesso.

Un sole caldo, bellissimo, splendente di una luce pronta ad esplodere.

Cercando quasi conferma nei miei occhi, Draco poggia le mani sul mio viso, la pelle brucia come se avessi la febbre. Cancella le mie lacrime con le dita, mentre tutto nel mio corpo batte dello stesso ritmo del cuore. Depongo le armi, tutta me stessa per un attimo si arrende. Fisso le sue labbra, senza percepire nulla del resto, anneghi il mondo, muoia la vita, la terra esploda, e io non smetterei di esistere fino a quando lui è qui. Mi accarezza piano la nuca, fremo rabbrividendo.

Sollevo il viso, cercando i suoi occhi, e ripeto annebbiata: “Ti ricordi?”.

Draco sorride come non l’ho mai visto fare, mai, mai, con nessuno. Con Helena, con Serenity, con Seth, nei ricordi, nel presente, nella speranza, nella passione, nel dolore, in ogni momento della vita in cui l’ho visto e in cui l’ho sognato. La mia immaginazione non è mai stata nulla in confronto a questo. E sorrido anche io, senza accorgermene, senza capire il perché, solo perché sorride lui e solo perché sorride a me, la mia mente prolissa è muta e il mio cuore sbriciolato è sordo. Sorrido e basta, anche se non mi ha ancora risposto.  

“Ogni cosa…” bisbiglia la sua voce al silenzio della notte, mentre poggia la fronte sulla mia e chiude sofferente gli occhi.

Un altro tuono spezza il silenzio, non ho visto il lampo. La luce se la sono presa gli occhi di Draco, adesso vicinissimi ai miei, chiusi. Le sue palpebre tremano, come le sue dita che tengono ancora in ostaggio il mio viso.

Ogni cosa…

Una folata di vento spegne un paio di candele vicino a noi, un’oscurità rotta solo dalla luce livida dei lampi ammanta il mio respiro che accelera. Le lacrime continuano a scendere dai miei occhi, bagnando le sue dita. Sbatto le palpebre, cercando di schiarire la vista, ma il volto di Draco resta nebuloso. Solo il suo sorriso è ancora netto e chiaro, perché anche se gli occhi non lo dovessero vedere più, è scolpito a sangue e fuoco nella memoria.

Ogni cosa…

Carrellate di ricordi scivolano via con le mie lacrime, mentre abbasso il viso piegando di poco il collo. Le sue mani, sorprese, lasciano il mio viso e ricadono lungo i fianchi. Non so come, sento che non sta sorridendo più. Non so come, sento che rabbrividisce. Non so come, sento che guarda il mio labbro tremare e cerca di capire.

So solo una cosa… che improvvisamente tutto si rovescia, di nuovo, ancora, anche se è qui.

Ogni cosa… ogni cosa va a pezzi.  

Sono un ossimoro incarnato. L’osmosi è completa, sono la terra che ha aspettato tanto la pioggia, arsa dal sole.

E che, ora che essa finalmente sta per erompere dal cielo, pensa a mettere a riparo i suoi figli, temendo che si facciano del male.

È forte abbastanza da sopportare il suo impeto? Non lo sa. Rabbrividisce per i tuoni, geme per i fulmini, impallidisce per i lampi.

Sa che accetterà la pioggia, perché la pioggia è il suo destino. Draco è il mio destino.

Eppure, si chiede se non la farà franare come fango se si affida ad essa completamente. Affonda le radici per non farsi trascinare via, anche se ama la pioggia più di ogni cosa al mondo. Anche se ti amo più di ogni cosa al mondo.  

Anche se annaspavo aspettandoti, anche se mi prosciugavo senza te, anche se sarei morta se fossi mancato per un altro secondo…

… anche se tutto mi spinge ad anelarti come acqua, anche se fai rifiorire la vita dentro di me, anche se disseti un deserto affamato ed assettato…

Ricordare ogni cosa… significa ricordare davvero tutto.

Guardare i pioppi bianchi fino a farmi dolere gli occhi. Cercare nei libri risposte senza senso. Piegarmi vessata e accoccolarmi al suolo. Affidarmi a chi ho sempre odiato. Inventare parole false e sterili, pur di rassicurare Serenity. Mentire ai miei amici. Essere attratta dal fatto che, piegandomi a Dimitri, tutto sarebbe finito.

E non piangere più, perché non era detto che tu non tornassi. E piangere ancora, perché non era detto che tu tornassi.

Ed aspettare, aspettare, aspettare.

Aspettare te, che sei ogni cosa.

Sollevo lo sguardo, improvvisamente asciutto, i suoi occhi sono atterriti e sconvolti, il viso è livido, le labbra dischiuse in una domanda che è insieme una preghiera.

La luce è spenta e fa male, fa un male atroce.

Draco ha i capelli biondi che ricadono sugli occhi coprendoli. Sembra piegarsi sotto il peso del suo stesso corpo: sembra piccolo ed indifeso, come se davvero io fossi in grado di fargli più male di quanto possa subire. Sembra tutto tranne che sé stesso.

Per un attimo le lacrime mi affannano di nuovo la vista e mi chiedo perché non lo abbraccio e basta, perché non la faccio finita.

Eppure la mia voce non si ferma, eppure io non mi fermo. Sull’orlo del precipizio, sono condannata a non essere mai felice se non seguo prima la mia mente…oppure stavolta è il cuore che sto seguendo… quello che lui ha fatto a pezzi.

Le labbra si aprono appena, le parole sembrano strozzate, la gola mi graffia le corde vocali.

“Non mi fido di te…” suonano così forti quelle parole che arrivo a battere i denti come se stessi congelando “Sei diventato il mio motivo per restare e io non sono mai stata il tuo…”.

“Hermione…” sussurra ancora lui con la voce spezzata, facendo un cenno nella mia direzione. Non riesco a smettere di piangere, le parole che ho appena detto mi feriscono le orecchie come aghi appuntiti, e vorrei cancellarle, negarle, metterle a tacere al mio stesso cuore. Invece restano lì, aleggiano come fantasmi inquieti, drammaticamente vere e scontate.

Lo fermo con gli occhi, sollevando un palmo ed imponendogli di restare dov’è.

“Per favore…” lo prego, sbattendo le palpebre e distogliendo lo sguardo “Fammi finire… ti prego…”.

Lo vedo con la coda dell’occhio rimanere immobile.

“Questa è la notte più bella della mia vita…” mormoro con un filo di voce, portandomi indietro i capelli con una mano così da nascondere il rossore che mi ha preso le guance. Respiro a fondo e balbetto a disagio: “Sei tornato e sei qui con me… siamo vivi, entrambi, e siamo noi stessi. Abbiamo sfidato forze più grandi di noi e non so nemmeno come, ma abbiamo vinto…”. Fisso per un attimo il cielo, un lampo rende le nuvole livide come se fossero in fiamme. Chiudendo gli occhi riprendo: “… io ho creato uno Zahir, mi sono votata alla stessa forza oscura che ha dominato Voldemort in vita. Ed è un pensiero che non smette di tormentarmi nemmeno per un secondo… ho visto che cosa potrei diventare e che cosa non sono forse solo per un puro caso…”.

“Non dire sciocchezze…” tuona la sua voce e rabbrividisco nel sentire di nuovo l’accento duro, freddo, deciso, che mi ha fatto innamorare di lui.

Per un attimo, percepisco quanto sia vicino e un’eco del suo corpo caldo mi fa venire i brividi.

“E’ così, Draco, mettila come vuoi…” bisbiglio, voltandomi finalmente a guardarlo. Ha la mascella serrata e i pugni stretti.

“Sono diventata un demone… e se penso a che cosa potevo farti…”, la mia voce si curva in un nuovo accenno di pianto, la freno con tutta la forza che mi è rimasta.

Il suo sguardo si addolcisce, piega lievemente le spalle, ma non osa fare un passo nella mia direzione.

“Ma è un mio errore e ci devo fare i conti da sola …” sospiro ancora, stringendomi nelle spalle “Eppure se penso a che cosa ho fatto…a che cosa ti ho fatto, a quello che tu hai fatto a me da quando ci siamo rincontrati…”, una goccia di pioggia mi cade sul viso, la asciugo con una mano: “Astoria aveva ragione. Ci siamo fatti così male, probabilmente è il nostro destino farci per sempre del male, continueremo per sempre. Tu sei in un modo e io sono fatta in un altro, non cambieremo mai… e malediremo ogni giorno di esserci… ”, mi interrompo imbarazzata, arrossendo ancora, peggio di una bambina di dieci anni che parla con il primo fidanzatino. Malediremo ogni giorno di esserci innamorati.

Volevo dire questo e, certo, io non sono capace di parlare d’amore, non sono capace di alluderci con tranquilla nonchalance, come se non fosse una cosa così imprevista e erosiva da avermi fatto letteralmente a pezzi. Ma probabilmente più che il mio solito contegno in queste cose, sto lasciando volutamente che l’amore sia il grande assente di questa conversazione.

Perché se ci alludo, se ci penso anche solo per un attimo… non smettere di baciarmi mai…

“Non posso sopportarlo ancora…” sussurro, una goccia d’acqua mi colpisce di nuovo il viso e non so se sta iniziando a piovere o se sto piangendo “Farmi del male, facendone a te… e permettere che tu faccia ancora del male a me…”.

Il fiume in piena si arena improvvisamente, seccandomi la bocca impastata. Per qualche secondo, sento solo il rumore del vento che agita le rose del giardino, le fisso incapace di guardare Draco. Come libri sfogliati dal vento, le rose si disperdono in un turbinio di petali violentati nell’aria che monta di pioggia.

Non guardo Draco perché ora io capirei che sta pensando, leggerei subito le linee del suo viso, la linea indurita della mascella, quella tagliente delle labbra, la piega storta dello sguardo.

E, dopo tutto, non c’è bisogno di guardarlo. Perché sento già salire la sua rabbia in questo silenzio che ci avvolge.

Perché se io sono terra, Draco è sempre stato mare.

Mare in tempesta, fortunale, rara calma mai del tutto assopita.

Movimento eterno, abbandono estatico che non può mai essere assoluto. Fidarsi che l’acqua sia calma è il più grande errore del marinaio.

E io mi accorgo subito che qualcosa cambia immediatamente in lui, come se gli abissi ruggissero sotterranei un attimo prima di esplodere in onda e spuma.

Esito ancora nel guardarlo, mentre sento scintille di calore farmi rabbrividire la schiena, presagendo il temporale vicino. Sospirando, mi do coraggio e torno a guardarlo.

È calmissimo.

Pessimo segno.

Non si muove di un passo, non alza la voce, non fa nemmeno un cenno nella mia direzione. Eppure gli occhi sono tornati grigi come il cielo che continua a piangere pioggia su di noi.

“Granger, non è questo il punto… ci stai girando attorno e mi stai stancando…” sibila, incrociando le braccia.

“Che diamine vuol dire questo?!” chiedo autenticamente irritata, aggrottando le sopracciglia.

La sua voce cala di tono, diventando roca e soffusa: “Significa quello che ho detto, hai capito benissimo… se non sono più per te il motivo per restare, non farlo diventare come sempre il contrario… cioè, che non lo sei tu per me…”.

“Dovrei capire qualcosa dopo questa vitale precisazione?!”.

Ignorandomi riprende duro, stringendo le labbra: “C’è una domanda che non mi stai facendo, Granger…  e mi sto chiedendo il perché, conoscendoti…ma forse già lo so, quindi in quel caso risparmiami tutta la tiritera…”.

“Che domanda?” replico sinceramente sorpresa, sbattendo le palpebre.

Draco fa una smorfia e contrae le dita della mano impercettibilmente, prima di soffiare a voce bassa: “Non mi hai chiesto perché sono qui adesso… come faccia ad essere qui, con tutti i miei ricordi, senza che nessuno mi abbia richiamato indietro…”, sgrano gli occhi alle sue parole, un tonfo nel petto.

È vero, ha ragione… non mi è saltato in mente nemmeno per un attimo di chiederglielo…

La voce di Draco continua impersonale, completamente disinteressata: “Immagino che tu mi consideri solo un idiota fortunato, vero? Uno che per miracolo ce l’ha fatta anche questa volta…”, le sue parole mi rimbombano nelle orecchie, fatico ad intenderle mentre fisso il suo volto inespressivo: “Quindi non ha senso fare domande, sarà stata la solita fortuna di Draco Malfoy... ma soprattutto non ha senso fare domande, perché hai già decretato nella tua testa che non c’è da fidarsi di me. Non è di te che sei preoccupata, del fatto che tu non cambierai mai. Sono io quello che non cambierà mai, vero? Ti farò soffrire e ti farò piangere, perché sicuramente avrai pianto anche adesso…”, le sue mani si contraggono lievemente, le fisso senza fiato per non guardarlo in viso: “Anche se non lo dici, la verità è sempre la stessa… scommetto che persino i tuoi amici, Potter, la Piattola te lo ripeterebbero a gran voce...”.  Fa una pausa, inconsciamente torno a guardarlo: “Essere innamorata di me è la più grande sciagura che ti potesse succedere… e se Astoria aveva ragione in una cosa, aveva ragione solo in questo: ti era così insopportabile l’idea di amarmi che, alla fine, hai scelto di creare uno Zahir…”, resto immobile come se mi avesse dato uno schiaffo in viso, il gelo mi assale facendomi rabbrividire.

“Sii onesta e dillo…” mormora guardandomi fisso negli occhi, un’espressione allucinata e colma di risentimento “Dillo che ti odi per esserti innamorata di me… dillo, dannazione… ammettilo una santissima volta… sta tutto qui il punto. Non ti sei mai fidata di me e mai ti fiderai… ma sei innamorata di me… e questo ti uccide…”.

Il suo sguardo mi agghiaccia come se fossi la vittima di un assassino che dopo una folle corsa, mi ha braccato in un vicolo oscuro e deserto.

La lama che sta calando nella mia carne, riluce nel buio, mentre affonda dentro di me. Sanguino, letteralmente, avevo pensato di ferirlo ed invece come sempre tra i due, è sempre più bravo lui a questo gioco al massacro. Inizio di nuovo a piangere, la pioggia rompe gli argini ed inizia a cadere copiosa dal cielo, come pesanti gocce di mercurio. Tremo come una foglia dalla testa ai piedi, ma nulla di me lo intenerisce, il suo sguardo se possibile diventa ancora più duro ed inaccessibile. Si limita a chiudere i pugni sollevando il mento. La pioggia gli bagna i capelli, scivolando lungo il suo collo.

“Non odio me stessa…non più…” bisbiglio tra le lacrime, guardandolo “E’ te che odio…”.

“Siamo sempre lì, non credi?” soggiunge piccato con un sorriso sarcastico.

Abbasso gli occhi, le parole sanguinano dentro, riempiendomi di dolore come tanti piccoli taglietti sulla pelle nuda, esposti all’acqua salata. Poi si aggrumano nella mia gola, restringendosi, compattandosi, diradandosi. Il fiume diventa ruscello, io divento roccia e le parole diventano poche nella mia bocca.

“Io non odio te, quello che sei, l’idea che non cambierai mai… ti avrei voluto indietro anche se mi avessi odiato, anche se non avessi ricordato nulla… bastava che fossi tu… mi sei sempre bastato tu… ti odio perché io, invece, non ti sono bastata… io e Serenity non ti siamo bastate. Hai di nuovo desiderato morire, rischiare la vita, punirti, affidarti ad un demone invece che accettare di vivere… con me. Io ti avrei voluto anche se non avessi ricordato più nulla… ma tu mi hai lasciato prima di sapere se fossi tornata me stessa…”, sorrido tristemente, chiudendo gli occhi, lasciando che la pioggia mi scivoli sul viso: “E la cosa più imbecille è che non riesco a sopportare che magari, morendo, volevi raggiungere Helena…”.  

Gli sorrido ancora, piangendo: “Vedi, forse mi dovrei odiare per questo non per altro… perché sono diventata una cretina…”.

Nonostante le mie gambe si siano fatte di cemento, mi impongo di voltarmi su me stessa e di allontanarmi da lui. Non guardo il suo volto, non sento sospiri o sussurri, solo il rumore delle mie scarpe nell’acqua che sta allagando il giardino. Eppure, come la forza delle maree, ho solo la forza di mettere qualche metro tra me e lui. Mi siedo sugli scalini del gazebo di Pansy alle mie spalle, i gomiti sulle ginocchia e la testa tra le mani. Chiudo gli occhi, confondendo pioggia e lacrime e stringendo i capelli umidi con le dita.

Non afferro i pensieri, lascio che anneghino nella pioggia che cade. Dovrei stare in piedi ed invece mi sono piegata come un giunco… ma almeno non mi hai spezzata.

Acqua calpestata, spostamento d’aria, odore di settembre e un calore vicino. Non mi sollevo, non potrei farlo ancora. Lascio che Draco si sieda accanto a me.

“Ricordi quando eravamo a Wonderland?” mi chiede improvvisamente, la sua voce è tersa, tintinna nel silenzio umido che ci circonda. Non gli rispondo, la mia gola articola un cenno d’assenso. “Quel giorno… credo di aver voluto che tu capissi… che tu mi fermassi…”, incerta improvvisamente nelle parole, la sua voce indugia nelle mie orecchie, riempiendomi di scariche calde sulla schiena “Non ho sopravvalutato te o la tua intelligenza. Forse avresti capito prima o poi… è me che ho sopravvalutato. La forza che potevo avere…”.

La pelle d’oca al contatto con le sue parole mi fa ritornare seduta. I suoi occhi continuano pigramente a guardare il giardino che si riempie d’acqua, sembra che stia parlando con sé stesso, non più con me.

Sospira lievemente, prima di dire pacato: “Non ce l’ho fatta a mandarti via… mai… anche se sapevo che era giusto, perché mettevo in pericolo te e mettevo in pericolo me stesso. Perché interrogarmi su di te, sul fatto che potessi piangere la sera chiusa nella tua camera, sul perché fossi diventata così cinica, sul perché bevessi come una drogata quel dannato succo d’ananas, era un pericolo per me, più di quanto non lo fosse per te. Ti ho odiata, tanto. E non c’entra Helena, i miei o il fatto che tu fossi una Mezzosangue. Ti ho odiato perché tu mi rendi migliore. E io volevo restare uguale, forse lo voglio ancora. E tu invece mi costringevi a prendermi cura delle cose o delle persone, e io non sono così…”. Lo ascolto avida, non osando nemmeno respirare. Mi specchio di stupore, il cuore in gola, nei suoi occhi lontani.

Sorride lievemente e riprende: “Da quando ci sei, mi sono chiesto per la prima volta se non fosse giusto per me crescere Serenity come se fosse mia figlia, come Helena stessa si era sempre augurata. Invece io, prima di te, non l’avevo mai pensato. Ho capito che non potevo farmi ricattare da Astoria… che si sarebbe presa tutto il buono di me. E io pensavo che non avessi più nulla che mi potessero togliere. E mi sono scoperto, invece, ricco. Perché avevo te, avevo Serenity… avevo Seth, Pansy, Blaise. La capisci l’assurdità della cosa per uno come me?”.

“Un pochino…”.  

“Tu hai ragione… io non cambierò mai, Hermione. E stare con me, per te, sarà sempre un rischio…” soggiunge duro, stringendo i pugni “Ti spezzerò il cuore, ti farò piangere, ti prometterò cose che non manterrò… e maledirai di avermi incontrato. E maledirò di aver incontrato te… ti ho rassicurato adesso quando hai ammesso di non fidarti di me? No, anzi ti ho anche aggredito…io non sono Weasley o Thomas, Hermione. Tu non ti puoi fidare di me…  e forse il mio desiderio più grande sarà sempre che un giorno arrivi a pensare all’amarmi come una sciagura. Saresti libera e non potrei davvero più farti del male. E soprattutto sarebbe più comodo raccontarmi che tu non mi hai mai voluto, piuttosto che cambiare, come tu mi costringi a fare… ma tu questo non me l’hai permesso, vero?”.

Si volta finalmente a guardarmi e un sorriso lieve aleggia nei suoi occhi, mi stringo nelle spalle, imbarazzata, non reggendo quello sguardo di diamante sulla mia anima di vetro.

Le sue mani improvvisamente si portano sul mio viso, sollevandolo e trattenendolo tra le sue palme. Mi mordo il labbro inferiore, non riuscendo a smettere di guardarlo.

È una solitudine d’oro e d’argento dei nostri sguardi uniti, che ci unisce isolandoci da tutto il resto, come una bolla luminosa.

È una sensazione che mi riscalda e mi raffredda assieme, come la terra che ha aspettato la morsa umida della pioggia e continua a ruggire insoddisfatta, volendone di più

I suoi occhi incatenano i miei, i nostri sguardi sono uno lo specchio dell’altro. Persi, alla ricerca della chiave per quel mondo nuovo che abbiamo solo scorto, ma che non abbiamo mai davvero conosciuto. Il solo mondo dove potrei vivere adesso, esule di un ogni altro Universo che non sia il nostro.

Il suo sguardo sfugge i miei occhi, cercando le mie labbra, prima di dire: “Io non posso farti promesse, Hermione… non posso. Posso solo darti questo… una sola cosa. Tu sei tutto ciò che mi è rimasto da credere. Se non credo in te, in cosa altro dovrei credere? Dio? Il destino? La gente? O peggio in me stesso? Io credo in te, e credo nel fatto che sono egoista, codardo, vigliacco, ma il solo pensare di proteggere te, mi ha fatto affrontare Adamar. Credo in te e nel fatto che hai rotto lo Zahir, e ora sei qui, sei mia, sei mia per sempre… se non puoi credere in me, credi in te…puoi farlo… tu… puoi credere in questo? Riesco… a… bastarti anche così?”.  

Le parole sono morte in qualche parte del suo discorso, sono nella profondità di me stessa e si lacerano e si putrefanno, di fronte all’incanto del suo viso e alla magia delle sue parole. Un viaggio che è concluso, una meta che ho ammirato da lontano per mesi e che ora è ad un passo, calda come una scoperta, dolce come una conquista, inebriante come una rivelazione. Non c’è nulla che possa dire, ha imbavagliato il mio cervello e ha reso signore il mio cuore.

Tu non mi basterai mai…” sussurro ad un soffio dalle sue labbra, la pelle che diventa carta danzante nel fuoco. Nebuloso diventa il suo viso e perde definizione, sommerso da una calugine voluttuosa che ho rinnegato per mesi, ma che ora erompe in tutta la sua forza, piegando persino la mia voce in un accenno più strozzato e timido.  

Draco spalanca prima gli occhi, ne distinguo ogni pagliuzza di diamante in quel mare di perla, mi sembra persino di sentire il suo cuore battere più forte. Ma forse è solo il mio che ha travalicato ossa, carne e pelle, e mi è esploso addosso. Sento una gioia inquieta pervadermi, un’ansia febbricitante darmi le vertigini e la sensazione di un’attesa appagante che sta per finire. Le sue dita accarezzano la mia pelle, un lampo azzurro lambisce i suoi occhi e vedo le mie parole riflettersi ed echeggiare in lui. Come se finalmente le capisse, le assaporasse, le condividesse, accettasse, pregasse. Ed è un attimo, prima che annulli il respiro che ci divide, chiudendo le mie labbra con le sue.

La mia bocca riconosce subito la sua, mentre chiudo gli occhi, tremando. È un sapore che emerge dalla memoria come una nebbia di menta e limone, che, nonostante mi abbia appena sfiorato, è impressa come un calco nella pietra. Le sue labbra accarezzano lievemente le mie, è un contatto lieve, delicato, quasi timoroso, eppure destabilizzante.

Mi aggrappo alla manica della sua camicia bagnata, come se fosse il solo appiglio rimasto in un mondo fattosi d’acqua.

Draco trattiene le mani sul mio viso, è come il fremito delle ali di una farfalla, i polpastrelli sembrano saggiare la mia pelle con attenzione e cura come se reggesse un artefatto prezioso. E piango e non so che cosa ci sia da piangere, perché se senti scoppiare il petto per la gioia o per qualsiasi cosa abbia trasformato il mio cuore in questa argilla calda che pulsa sotto i miei vestiti, non dovresti comunque piangere. Eppure il sapore salato delle mie lacrime sulle mie labbra e sulle sue, è giusto, necessario, terribilmente consono a quello che siamo.

Non è un bacio al sapore di caramella, dolce come fragola e liquido come miele, non scivola come una delizia innocente. È un bacio salato che fa bruciare le ferite, le apre ancora se possibile, le fa sanguinare… ma le cura, le disinfetta.

Non ha niente di una languida dolcezza da cartolina, ma tutto del rimedio amaro ed inevitabile. 

E rende le mie, le sue, le nostre labbra lo specchio del bacio di quel giorno al Petite Peste, sotto la luna nuova. È ricordo costante, ma in continuo movimento ed evoluzione.

Piano, come se il tempo fosse morto e il mondo ci avesse concesso di andare avanti ad un ritmo tutto nostro, le mie labbra si schiudono assieme con le sue, come due fiori gemelli aperti ad un’inattesa primavera, la mia mano lo porta più vicino a me, attirandolo dalla nuca. I suoi capelli tra le mie dita sono bagnati, li stringo forte tra le dita, non riuscendo a smettere di piangere. Non temo di fargli del male, non temo più niente. Draco lascia il mio viso per un attimo, lo rimpiango ad occhi chiusi come se fosse andato dall’altra parte del mondo, prima che le sue braccia si chiudano attorno alla mia vita. Esploro il sapore della sua bocca con l’esasperante lentezza che non mi sono mai concessa nella mia vita e che ora mi sembra un dono, un dovere, un diritto inalienabile. Lui asseconda il mio ritmo, stringe tra le dita la mia camicia bagnata sui fianchi. Quando il tessuto fradicio conosce la carezza bollente della sua pelle sulla mia, rabbrividisco come se il freddo di questa notte e il caldo del suo corpo stessero generando un tornado dentro di me.

Ma non so fermarmi, non potrei fermarmi. Volute di seta sono le sue labbra sulle mie, che quando per un attimo si allontanano, mi soffocano in una lontananza che non posso sopportare. Torna mio, sii sempre mio, non andartene mai più, e sia sbagliato, e sia giusto, e sia folle, e sia qualsiasi aggettivo, ma basta che tu sia tu e che io sia io, qui, per sempre, per domani, per oggi soltanto. Per un altro secondo ancora. Un altro secondo ancora.

Persa. Fin dal primo momento in cui ho rivisto Draco, questo è l’effetto preciso che mi ha fatto.

Avevo ragione. Dovevo perdere me stessa per trovare lui.

Le mie mani conoscono d’improvviso ansia febbrile, divorante, insaziabile come un incendio d’agosto. Tu non mi basterai mai. Per tutta la vita ho represso il desiderio come qualcosa di sconveniente e pericoloso, come qualcosa da sigillare in fondo al ventre e da non mostrare mai a nessuno. Fallibile statua di granito, ho conosciuto carezze di amore dolce che mi arrivasse a malapena al cuore. Adesso, persa me stessa, divento nuova, generata da un bacio come una principessa delle fiabe. Ho una foresta oscura alle spalle, rovi e spine che hanno graffiato di sangue il tulle di un vestito scomodo e stretto, ho superato trappole come voragini e fiumi come oceani… ma è stato poco.

Il cuore dice che è stato poco se era questo quello che mi aspettava fuori.

Stringo le mie braccia attorno alle sue spalle, non è mai abbastanza, nulla è mai abbastanza. Le mani di Draco si rincorrono lungo la mia schiena bagnata, mi inarco senza accorgermene, gli mordo il labbro inferiore. Tu non mi basterai mai. Sentendo il sapore ferrigno del sangue sulle mie labbra, spalanco gli occhi spaventata e mi stacco da lui respirando a fatica. Draco ha gli occhi confusi, pieni di nebbia e stelle, restano socchiusi guardandomi come se fosse sotto una luce troppo forte.

“Ho paura…” sussurro timidamente, poggiando la fronte sotto il suo mento “Tutto… questo… c’è… troppa… ecco, foga… io non sono mai stata così…”.

La pelle del collo di Draco, bollente e pulsante contro la mia, trema un po’, lo sento ridere leggermente. Le sue braccia mi stringono più forte, le mani si aprono sulla mia schiena nuda. Rabbrividisco ancora, trattenendo l’istinto di implorarlo come la peggiore delle donne di strapparmi tutti gli indumenti di dosso.

“Nemmeno io sono mai stato così…” mi bisbiglia, accarezzandomi ancora la schiena, gioca con l’allacciatura del mio reggiseno. Chiudo gli occhi, mordendomi le labbra. Lo sta facendo apposta? È Malfoy, Hermione, certo che lo sta facendo apposta.

Draco prende il mio viso tra le mani, allontanandomi gentilmente da sé e mi guarda con un sorriso rapace, eppure dolce. Lo guardo imbambolata, dimentica di tutto. Come fa ad essere così? Come fa ad essere… mio… adesso? Come faccio a piacergli io? Non sono Helena e i suoi occhi da cielo di primavera. Non sono Astoria e la sua bellezza quasi sfrontata. E non sono nemmeno la Parkinson e il suo destino gemello incatenato del suo. Sono… solo Hermione Granger. Che diamine ci vede in me? Non sto con un uomo da tanto tempo, non sono mai stata un’amante capace e fantasiosa, sono goffa ed impacciata, spesso fredda e scostante. Che cosa ci vede in me?

“Se fossi stato sempre me stesso con te…” sussurra ancora, lo sguardo che diventa di nuovo fosco e nebuloso mentre guarda le mie labbra “… ti avrei baciata dal primo momento che ti ho visto…”, deglutisco più rumorosamente di quanto vorrei, abbassando lo sguardo. Draco sorride ancora, tornando a guardarmi negli occhi prima di aggiungere leggero: “Non posso crederci di essermi privato di tutto… questo… fino ad ora. Tu mi hai fatto perdere me stesso… e devi esserne consapevole… sei tu, adesso, che non mi basterai mai…”.

I miei occhi, prima esplosi di calore e luci, scivolano malamente in basso, la forma di un pensiero scomodo che li grava come pesi da mille tonnellate. Ma prima ancora che dia forma a quel pensiero, prima ancora che mi renda conto del suo contenuto, prima che lo apra come uno sgradito regalo, Draco mi solleva il viso e mi dice poche parole, sfuggite con tono di voce scontato, banale, ovvio. Ma il mio cuore, quell’argilla in fiamme in cui si è trasformato, schizza nel petto come un lapillo di lava.

“E non mi basterai mai non solo perché ti voglio come non ho mai voluto nessuna altra donna: non mi basterai mai perché ti amo. E spero che tu la sappia la differenza, perché la stiamo sprecando fin troppo questa notte…”. Come sempre, la sua voce arrogante completa i suoi pensieri, ma per una volta le mie labbra conoscono una risposta nuova, assolutamente silente. Lo bacio ad occhi chiusi, le mie dita sul suo viso che sussultano mentre bisbiglio, accavallando le parole che moriranno sulle sue labbra: “Ti amo anch’io”.

A quelle parole, a sentirle rotonde nella mia bocca, a sentirle naturali e facili come mai sono state per nessuno, mi viene quasi da ridere, mentre mi apro ancora alla bocca di Draco. Lui stesso mi pare sorridere, mentre chiude gli occhi e mi abbraccia di nuovo. Sorrisi neonati, mai scoperti, mai indovinati, mai nemmeno profetizzati. È d’improvviso rilasciare la spuma argentea di un’onda marina repressa e sentire l’acqua ruggire, raggiungendo e cingendo la riva di una spiaggia assolata. La completezza assoluta mi avvolge, come se davvero Draco fosse sempre stato il pezzo mancante, il tassello del mosaico che è sempre mancato per avere una visione completa. Sono nuova, dalle punte delle dita fino ai capelli, ed esisto in me stessa solo perché esisto in lui. È terribile, ma sublime. È sempre mancato lui, ora riconosco quel senso di incertezza dell’infanzia, di inadeguatezza dell’adolescenza e di insicurezza di questi ultimi anni, come la mancanza di qualcosa che non avevo mai vissuto: lui, Draco Malfoy. Mi mancava, senza conoscerlo, il sapore delle sue labbra, aspro, forte, fresco. Mi mancava il modo che hanno le sue mani di intrecciarsi alle mie, collimando perfette negli spazi tra le dita. Mi mancava la carezza calda del suo corpo contro il mio in una sera d’inizio estate fredda e piena di pioggia. Mi mancavano le sue spalle forti che quasi non si fanno cingere dalle mie braccia. Mi mancava la sua lingua che danza con la mia, come se fosse nata solo per quello. Ed ora esisto finché tocco, bacio, accarezzo, amo lui. È terribile… ma come si fa tornare indietro?

Se scopri che ti piace il fuoco, se scopri che è la sola cosa che ti fa sentire viva, cosa importa bruciare come una foglia secca?

Con un movimento improvviso, Draco, senza smettere di baciarmi, chiude con la sua mano il mio polso, poco prima che io senta uno strappo all’altezza dell’ombelico. Uno spostamento feroce d’aria fredda, il rumore della pioggia che si attutisce e un calore piacevole sulle braccia scoperte.

Apro piano gli occhi, scoprendomi in piedi nella mia camera a casa di Pansy. Draco ci ha smaterializzati all’interno. La pioggia continua a ticchettare contro le finestre, la camera è semibuia, illuminata dai riflessi rosso-oro del camino che proiettano ombre scure sulle pareti.

Piano, senza dire una parola, Draco mi prende per mano, guidandomi nella penombra accogliente della stanza. Il cuore mi batte nel petto all’impazzata, mentre si siede sul letto invitandomi a fare altrettanto. Immediatamente riprende a baciarmi in modo più febbrile rispetto a prima, le sue mani giocano con i miei capelli bagnati sulla nuca, passandoci attraverso, sciogliendo ogni boccolo, ogni riccio scomposto dall’acqua. La mia schiena scivola indietro, incontrando la superficie morbida del letto e della coperta damascata. Draco, sopra di me, puntellandosi sui gomiti per non gravarmi addosso, scende dalle mie labbra al mio collo, lasciandomi esanime ad occhi spalancati contro il soffitto violaceo.

Chiudo gli occhi rabbrividendo, sentendo le sue labbra calde scivolare sulla mia pelle fredda e bagnata, mentre le sue mani aprono bottone dopo bottone la mia camicia. È lento, indiscutibilmente lento, è un supplizio dolceamaro sentirlo ancora così lontano nonostante sia così vicino. Tutto di me implora pietà, implora resa, implora barriere di stoffa fatte cadere una dopo l’altra, come roccaforti conquistate. Ogni pressione delle sue dita su di me mi rende cosciente solo in quel punto del mio corpo, addormentando il resto, finché lui magnanimo non mi concede altro del suo benefico calore, ed allora dimentico ciò che era vivo, pulsante, fulgido fino a poco prima. Tu non mi basterai mai.

Mi sfila la camicia, ne sento il fruscio ai piedi del letto. Draco accarezza le mie braccia infreddolite, come a volerle riscaldare, mentre, senza staccarmi da lui, lo libero della parte superiore dei suoi vestiti con la solita timidezza maledetta che non ho mai dismesso da quando ero ragazzina. Le mani tremano contro la pelle nuda del suo torace, mentre scoprono le linee del corpo che avevo sempre e solo immaginato, Draco stringe la mia mano, portandola sul suo cuore. Batte forte, sembra scoppiare quasi quanto il mio.

Sotto i lampi fulgidi che filtrano dalla finestra, come spruzzi della luce di un faro visti da una nave naufraga, mi ritrovo passo dopo passo, vestito dopo vestito, tessuto dopo tessuto, pelle dopo pelle, nuda sotto i suoi occhi. Nascondo imbarazzata il viso contro il suo petto, Draco sorride ancora e non smetterei mai di sentirlo sorridere. Certo, ho paura, ho paura come sempre: io avrò sempre paura di tutto quello che non so spiegare. Come si fa a spiegare il sangue che ardendo scorre nelle vene, i fiori di fuoco che sbocciano dove mi tocca lui, le scintille d’acciaio sotto le palpebre chiuse, la voglia che mi faccia sua, adesso, subito, domani, oggi, per sempre. La chiamo paura, perché se la chiamo solo amore, io uso un termine inflazionato che tutti hanno già usato e che non può descrivere me e lui assieme. Nessuno ha avuto quello che abbiamo io e lui assieme.

La chiamo paura perché forse davvero sarei stata più sicura e salva nelle braccia di Hayden, nell’amore immaturo di Ron, in quello confortante di Dean. Nelle braccia di Draco, io sono piccola, sparisco, divento schiava del cuore, divento un’altra. Ma divento me. Torno me. Sono me stessa. Ora, adesso. Sono la vera me stessa, non quella che fingo sempre di essere.

Torno ad essere me stessa in un modo in cui non mi sono mai saputa.

E lui lo sa, Draco se ne accorge, perché sa chi sono io davvero.

E lo sa perché adesso mi accarezza i capelli e mi sussurra: “Guardami, Hermione…”. E sa che io lo guarderò, vincendo imbarazzo e timidezza, senza che lui lo chieda una seconda volta. E capirà, adesso, che in fondo, dopotutto, io mi fido di lui.

Perché, non appena lo guardo, non appena riconosco i suoi occhi argento, non appena vedo davanti a me l’uomo più bello che abbia mai visto, nudo, mio, piegato dal desiderio, ma che comunque si trattiene, ancora aspetta che sia io a dargli l’ultimo cenno d’assenso, riconosco in fondo e finalmente quanto Draco mi ami.

Tanto, troppo: molto di più di quanto gli sarebbe naturale e normale, come accade a me. Amarsi così tanto non è normale o naturale. Eppure è vero. Adesso so che è vero.

Lo attiro più vicino a me di nuovo, si separano le mie ginocchia e lo lascio entrare nel mio corpo, come è entrato nel mio cuore tanti mesi fa.

Ogni colore cessa di esistere, ogni rumore soffoca di silenzio, ogni cosa esplode di calore mentre annego ed annaspo, trovando infine salvezza. Come se fosse davvero un miracolo, come se questo momento fosse stato già scritto, come se chiunque altro abbia disposto di ostacoli il nostro percorso solo per farci arrivare a questo assieme, moriamo l’uno nell’altra nello stesso identico momento. Stringo forte la sua schiena sudata, soffocando i gemiti contro la sua spalla, Draco infine mi bacia ancora, forte, senza remore, ed è un bacio nuovo, diverso, mio, suo, che abbiamo appena inventato con la gioia spavalda dell’amore appena spartito. L’amore che credi immortale, l’amore che non può essere altro che immortale.

L’amore che ha il tocco di velluto soffice di un petalo di rosa che scivola dai miei capelli, riposando sul mio seno e respirando del respiro di Draco, addormentato su di me.  

 

Allora, questo capitolo è ingiustificatamente in un ritardo colossale! Se mi seguite sul gruppo “Put a spell on her eyes” su FB ne sapete parzialmente i motivi! Oltre ai miei soliti impegni personali (mi manca poco alla laurea quindi sono abbastanza impegnata) sono stata selezionata per un contest per Collection of Starlight e ho “dovuto” scrivere una one shot che mi ha mangiato moltissimo tempo, anche perché il pc si è divorato la prima versione e quindi l’ho dovuta riscrivere. Non sono stata ammessa alla seconda fase ma è stata un’esperienza molto importante, specie perché mi ha insegnato molte cose sul mio modo di scrivere, quindi è andata bene così. Inoltre non credo meritassi di vincere o di accedere alle fasi successive, ma sono comunque contenta così. Mi sono solo pentita di aver trascurato molto Halft per questo. Questo capitolo sarebbe potuto essere pubblicato molto prima, perché sostanzialmente da Natale era quasi completo, ma come avete potuto leggere, accade qualcosa di molto importante che, per molto tempo, non ho saputo come descrivere, essendo più o meno la prima volta che lo facevo. Spero solo che ci sia ancora qualcuno che segue questa storia, purtroppo non posso promettere aggiornamenti molto ravvicinati nel tempo, oramai sono nelle condizioni di non fare più promesse ingiustificate ed ingiustificabili di migliorare, perché forse andrà sempre così. Ma prometto, e questa è una vera promessa, che Halft non sarà mai lasciata incompleta e non oltre spero i tempi di questo aggiornamento. Che dire? Come sempre ringrazio tutti coloro che ancora leggono e recensiscono questa storia, nonostante i spaventosi ritardi. Risponderò a tutte le recensioni ma come sempre non prometto puntualità in questo. Ringrazio ancora e come sempre le ragazze fantastiche del gruppo Put a spell on her eyes che come sempre mi hanno sostenuto ed incoraggiato in tutti questi mesi in tutte le iniziative che ho portato avanti, in particolar modo Francesca, Turchese, Nadia, Anna e Sandra. Davvero, rischio sempre di ripetermi ma siete uniche, speciali e sono stata fortunatissima nel conoscervi. Per questo vi invito (sperando che lei non mi uccida) a vedere la meravigliosa preview del video trailer che ha realizzato Francesca per Halft, vi giuro che ne sono innamorata! Non metto qui il link per rispetto a lei e al suo lavoro, ma se entrate nel gruppo, lo troverete! J Voglio ringraziare anche un’altra persona, Erika, già proprio la nostra Erika! :D So che con Halft non c’entra nulla, ma lavorare con lei mi ha dato un aiuto notevole e così grande che mi sento nuova e stimolata come mai prima. È una persona speciale. E tutto questo, poter scrivere qui, è merito suo. Quindi è doppiamente speciale, sarebbe da ringraziare sempre. Ringrazio anche chi ha recensito la one shot per il contest, Thema probandum.  E, credo, che sia tutto.:)

Un grosso bacio, cassie chan!

 

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Capitolo 35
*** Decaying rosebud ***


Piccola premessa a suo modo necessaria: questo capitolo come sempre mi capita è abbastanza lungo. Purtroppo devo ancora elaborare il significato dell’espressione “dono della sintesi”, ma sto cercando di migliorare. All’inizio avevo pensato di dividerlo in due, ma alla fine significava spezzare qualcosa che ancora nella mia mente, concepisco come unito. Quindi a chi ancora segue questa storia, chiedo scusa da adesso per il tempo che perderete leggendo…L

 

NEI CAPITOLI PRECEDENTI:

Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia. Non lo vede anche lei da cinque anni. Hermione affranta perde l’ultima speranza di trovarlo.

 

 

 

 

Capitolo 35 – Decaying rosebud

 

Ai luoghi della memoria non è concessa amnistia dal tempo.

Anzi, forse lo subiscono molto di più di qualsiasi altro posto esistente al mondo. È un dissidio incolmabile come un denso fluido che galleggia sull’acqua: un luogo della memoria sarà sempre diviso a metà. Gli occhi vedono come è cambiato, il cuore si muove nel diniego di ciò che resta tutto uguale. E quasi strizzi la vista per dirti che deve esserci altro, ancora qualcosa del tempo sepolto. Invece non c’è più niente.

Pansy è cambiata: dalla ragazza acidula e cinica che conoscevo si è trasformata in una creatura più malleabile e meno dispoticamente concentrata su sé stessa. Forse, anche prima di essere la mamma di Charisma, diventare la moglie di Dean ha influito molto nel processo. Del resto, tranne che nel mio caso, quando una diventa madre e moglie, tendenzialmente smette i panni adolescenziali dell’egocentrismo, diventando irrimediabilmente altruista.

Quindi sebbene Pansy amasse il suo giardino ed amasse ovviamente il gazebo di pietra in cui sostava con le sue amiche, ad un certo punto deve esserle sembrato inutile, scomodo. Uno spreco di spazio che poteva essere meglio dedicato alla sua famiglia.

Lì, io ho baciato Draco per la prima vera volta.

Al suo posto, ora c’è un’altalena di corda magica che non ha bisogno di essere spinta e che, in caso di caduta, ti accoglie su un tappeto di petali bianchi comparsi dal nulla.

L’incantesimo si attiva ad ogni fruscio dei miei piedi, mentre sicuramente Charisma ancora non tocca il suolo con i suoi minuscoli arti.

I petali volano via, leggeri nel tramonto, creando un contrasto sanguigno con il cielo rossastro. Splendono quasi rosei e poi spariscono alla mia vista.

“Credo che le ricordasse Zabini…”. La voce leggera di Dean mi raggiunge da un punto imprecisato alla mia destra. Gli sorrido stancamente, sospingendomi sull’altalena avanti ed indietro mentre lui si avvicina a me. Si appoggia alla struttura di ferro battuto con una spalla, gli occhi sabbia malinconiche onde rese brillanti dalla luce del sole morente.

“Come lo sai?” chiedo con un sospiro. Il profumo dei petali di rose è soffocante ma non riesco a fermarmi, continuo a spingermi avanti ed indietro. Dean scompare e riappare accanto a me.

“Stringeva le labbra quando veniva qui…”.

“E da lì hai capito? Come?” chiedo, fermandomi all’improvviso. Lo guardo implorante, come se dalla sua risposta potrei avere cose che io non so e non ho mai avuto. Quotidianità, ecco. Le piccole abitudini affastellate giorno dopo giorno, i riti inanellati continuamente: io e Draco non abbiamo fatto in tempo ad averli. Abbiamo avuto una passione bruciante, un amore inesausto, ma non abbiamo potuto assistere al momento in cui le farfalle nello stomaco si sarebbero riposate, dismettendo le ali.

Dall’innamoramento, intenso ma passeggero, non siamo mai arrivati all’amore, carsico nel sottosuolo di noi stessi.

Io non conosco Draco come Dean conosce Pansy.

Dean sorride leggero: “Stringe sempre le labbra quando qualcosa le dà fastidio… quando la incontrai a Parigi, aveva quell’espressione praticamente sempre. È difficile dimenticarsela, è molto simile a quella che avevi tu quando nominavo Ron…”.

“Davvero? Non me lo ricordo più…”.

“Ho una discreta esperienza” commenta Dean presuntuoso, incrociando le braccia “Vengo sempre dopo un cosiddetto grande amore…”.

“Cosiddetto, appunto…” sorrido amaramente, incassandomi nelle spalle “Pansy ti ama molto, spero che tu non l’abbia messo mai in dubbio…”.

Dean sorride, ha gli occhi profondamente persi nei suoi pensieri come se non guardasse me, il tramonto o il giardino, ma qualcosa che sta avvenendo solo nella sua testa e che probabilmente è lontanissimo anche nel tempo.

“No, non l’ho mai messo in dubbio…” acconsente con sicurezza stentorea, per poi proseguire con voce soffice: “Ma è difficile dimenticare quello che siamo stati per tutta la vita, Hermione. Amare Pansy mi ha reso un altro… credo che tu lo capisca meglio di chiunque altro. Sai quante volte al giorno sento dentro una lotta intestina tra quello che ero e quello che sono diventato? Tra il Grifondoro mezzosangue che avrebbe potuto amare solo una come lui, e il marito di Pansy Parkinson, la migliore amica di Draco Malfoy?”. La sua è una domanda retorica, ovviamente. Sa già che cosa risponderò. È una frattura come la cesura in un osso rotto che sento circa duecento volte al giorno.

“Quindi è normale che spesso la mente non mi viene dietro…” prosegue, socchiudendo gli occhi e stringendosi nelle spalle “E mi sembra più ovvio che il suo grande amore sia stato Zabini, piuttosto che io…”.

“E a me sembra più normale che con Draco sia finita, piuttosto che sia continuata…” aggiungo con un filo di voce, Dean mi poggia una mano sulla testa facendomi una carezza affettuosa. Riconosco le sue dita, la sua mano, la sua pelle, ed è assurdo pensare che mi abbia amato, che io abbia pensato di amarlo. Mi abbandono a quella dolcezza nostalgica che ora è solo fraterna.

“Sarebbe più normale che tra me e lui non sia mai successo nulla…” riprendo con un nodo in gola che strozza le mie parole “Poi vedo Alex e ricordo quello che è stato. Non posso più tornare indietro, Dean. Tu potresti?”.

“No… fa paura talvolta, anche se la mia situazione con Pansy è diversa … ma… no. Non ce la farei a tornare indietro.”.

“Mi capisci adesso?” riprendo, voltandomi finalmente a guardarlo. Dean ha gli occhi più chiari di quello che ricordo, mi fissano con espressione sofferta, tra una tenerezza difficile da smussare e una pietà impossibile da nascondere.

“L’ho sempre fatto…” Dean prende fiato e sospira profondamente, tutti i miei sensi improvvisamente si risvegliano. La sua espressione è cambiata. Il sole improvvisamente, da morto diventa rovente, e mi infiamma il viso. Dean abbassa lo sguardo e io rincorro i suoi occhi, esortandolo silenziosamente a parlare.

“Pansy non ti ha mentito…” dice con voce atona, a malapena muove le labbra “Lei non sa dove è Malfoy. Ha sofferto forse quanto te in questi anni. Era il suo migliore amico…”.

Deglutisco, la testa che pulsa ininterrottamente e il volto accaldato. Le mie mani stringono convulsamente la corda dell’altalena.

Dean sospira ancora, guardando il cielo: “Ma non ti ha detto una cosa… non so perché. Mi piace credere che non voglia farti soffrire… ma non li conosceremo mai fino in fondo, Hermione. Mai.”.

Mi si svuota la mente da ogni pensiero, come se affogassi. Mi aggrappo alla sua bocca e alle sue parole come se fossero pane ed acqua in una deserto di fame.

Dean si piega in ginocchio, giungendo alla mia altezza. Mi accarezza una spalla con dolcezza, poi chiude gli occhi e mi stringe una mano.

“Pansy mi ha raccontato tutto. Di quel giorno di cinque anni fa. Malfoy andò via di qui con Serenity… dopo che…”. Mi stringo nelle spalle, chiudendo le labbra, cercando di non ripensare a quanto avvenne quel giorno. Lo prego in silenzio di non proseguire, il pensiero del dolore di Draco mi spezza fiato e cuore e non lo posso sopportare ancora. Per fortuna Dean capisce e si interrompe dal ricordarmi quel maledetto giorno di cinque anni fa.

“Non andò via da solo…” lo aggiunge quasi senza voce, inconsciamente serro la sua mano nella mia “E anche di lei non sappiamo più niente da cinque anni… deve essere ancora con lui…”.

“Di lei?” pigolo spaventata, sbarrando gli occhi “Di chi stai parlando, Dean?”.

“Raissa… quel giorno Draco è andato via con Raissa. E crediamo che siano ancora assieme”.

 

 

Ai ricchi piace la seta viola.

Che in un momento del genere io riesca a pensare una cosa simile, non è una cosa che mi sorprende. Ho il cervello che se ne va sempre per conto suo nei momenti topici della mia esistenza. Non che questo lo sia, un momento topico intendo, ma pensare ad altro sarebbe quantomeno provvidenziale vista la mia attitudine ad infilarmi costantemente in situazioni senza uscita.

E questa è forse la regina madre delle situazioni senza uscita.

Astoria mi ha fatto vestire di seta viola, quando voleva farmi uccidere Draco. Pansy mi ha messo a disposizione una serie di pigiami tutti rigorosamente viola e tutti di seta, che io mi sono rifiutata categoricamente di indossare, e non a caso adesso indosso solo una camicia bianca da uomo che mi copre a malapena le gambe.

Concludere in modo netto che la seta viola è in cima alle preferenze d’abbigliamento facoltoso è la logica conseguenza del fatto che anche Dimitri Karkaroff ha una camicia di tale colore e tessuto.

Certo, capisco la seta, è un prezioso involto proveniente da un comunissimo baco, ma il viola… io lo detesto il viola, peggio di un’attrice alla prima di uno spettacolo teatrale.

Lo evito come c’è gente che evita gli specchi rotti, o i gatti neri, o le crepe sui marciapiede.

E non sono superstiziosa, figuriamoci! Mi trasmette solo disagio.

E vedermi parare in corridoio alle sette del mattino Dimitri con tale abbigliamento doveva essere un segnale divino, come se improvvisamente si fosse messo a piovere fuoco dal cielo. 

Ma, ovviamente, io che sono una persona razionale e ragionevole, non ci ho fatto caso. Sbagliando!

Ho solo cercato di allungare quanto più possibile la camicia che indossavo, per coprirmi almeno fino al ginocchio, faccenda sicuramente importante ma che mi ha distratto dall’apparizione del colore nefasto. Che poi, a rifletterci bene, anche se lo avessi visto bene il colore della sua camicia, figuriamoci se ne avrei ricavato un qualche presagio di sventura.

Ero, e sono, nel bel mezzo della mattina più bella della mia vita.

Ho gli occhi gonfi di sonno, i capelli spettinati, il labbro inferiore con un piccolo taglietto, un segno violaceo sul collo e la testa che pulsa come un martello pneumatico.

Eppure sono la donna più felice del mondo.

Ciò implica che ho la capacità visiva e cognitiva di una lumaca sgusciata.

Ergo, mi sono accorta a malapena di Dimitri, figuriamoci della sua maledetta camicia…!

Se mi fossi accorta anche solo della sua presenza, tanto per dirne una, probabilmente al momento non sarei rimasta con la mano ferma a mezz’aria e la bocca lievemente spalancata, mentre la garza imbevuta di disinfettante scivolava via dalle mie dita, ricadendo soffice sul letto su cui sono seduta a gambe incrociate.

E questa mattina sarebbe rimasta del colore dell’oro e della perla, invece che tingersi di un indaco fastidiosamente irritante.

E certamente non mi sarebbe stata fatta questa domanda, dopo la quale le vene del mio collo si sono pericolosamente gonfiate, facendomi riassumere la ben nota espressione da pesce palla… anche se poi, a conti fatti, non è che sia così inconsueto che io stia passando nell’arco di quattro secondi dal disinfettare amorevolmente lo zigomo tumefatto del mio quasi fidanzato-amante-compagno-frequentatore di letto-non-so-come-altro-chiamarlo-in-attesa-che-lui-definisca-esattamente-quello-che-siamo, meglio noto come Draco Lucius Malfoy, alla voglia spasmodica di aprirgli una serie di altri tagli sulla faccia, dove spargersi sopra del sale che fa molto stile “Attila flagello di Dio”.

Fare l’amore con l’uomo che amo, non cambia che l’uomo che amo sia sempre Draco Malfoy.

E non cambia che, dopo una manciata di minuti silenziosi, in cui si è lasciato passivamente curare da me che straragionavo ed inveivo con una serie di anatemi e maledizioni, abbia sospirato, abbia allontanato con la sua mano ingrata la mia e mi abbia guardato negli occhi con il livore di un cane a cui hanno tentato di rubare un osso. E già vedermi paragonare mentalmente ad un osso mi fa venire voglia di spalmargli la faccia di soda caustica.

Però la sensazione di trallalà in cui mi trovo al momento, mi ha impedito di reagire male, l’ho solo guardato con gli occhi dolcemente appannati, chiedendo: “Che cosa c’è?”.

E lui, seriamente, calmo come solo lui può esserlo (ossia nella sua testa ha già ucciso qualcuno in una dozzina di modi diversi), ha proferito stoico la domanda da maschio imbecille, insicuro, immaturo, illogico ed un’altra sequela di aggettivi che iniziano per “i”, ma che non sarebbero adeguatamente offensivi. 

“Sei stata a letto con Dimitri?”.

Cinquanta secondi dopo, Draco Malfoy aveva un nuovo livido sul braccio.

Ed Hermione Granger, la sottoscritta, era in giardino che camminava avanti ed indietro, indossando un stramaledetta vestaglia di seta viola.

 

 

Tutto inizia e finisce con il gelato fritto. 

Gelato fritto, avete capito bene.

Quando vivevo con Dean, non avevamo molti soldi. Certo, anche se era il solo a lavorare, aveva uno stipendio abbastanza decoroso, ma sicuramente io non ero una di quelle fidanzate che passa la vita sulle spalle del suo uomo. Anzi, ero più il tipo che, se avevo la necessità impellente di comprarmi qualcosa, preferivo ricavarla di risulta da qualcos’altro. Sono andata a tre matrimoni con lo stesso vestito, modificato in modi più o meno decenti dalla bacchetta di Ginny, pur di non ammettere che avevo bisogno di un nuovo abito. Dean mi rimbrottava, si arrabbiava, era anche capace di mettermi nel portafoglio di soppiatto delle banconote, ma allo stesso modo io gliele ridavo con tanti saluti. Ebbene, per questo mio esibito trionfo di parsimonia, c’era sempre ben poco con cui festeggiare a casa nostra: niente champagne, niente torte di compleanno se non striminzite ed al sapore di plastilina, niente coriandoli colorati.

Un giorno qualsiasi, Dean si alzò da letto dicendo che non aveva voglia di andare a lavorare, che faceva troppo freddo, che preferiva restare a letto. Mi arrabbiai, tirai le lenzuola cercando di farlo muovere, gli tolsi il cuscino, gli gettai un bicchiere d’acqua ghiacciata in faccia, ma niente. Anzi, per tutta risposta, ebbe anche il coraggio di afferrarmi per i fianchi e trascinarmi a letto, intimandomi di non muovermi. Mi dimenai per un’ora, dicendo che avevo delle cose da fare, anche se non lavorando era abbastanza non credibile. Alla fine mi arresi.

Restammo a letto tutto il giorno, senza fare assolutamente niente se non ridere e mangiare schifezze ordinate dal ristorante cinese che c’era vicino a casa, vedendo telenovele argentine sottotitolate di cui cambiavamo i dialoghi. Non ho mai riso tanto in vita mia ed anche se il giorno più bello della mia vita resta e rimane questo, quello è stato sicuramente il più spensierato. Non avevo davvero pensieri, preoccupazioni. Durò poco, certo, la mattina dopo Dean tornò a lavorare e io tornai a deprimermi, ma fu davvero un giorno speciale.

Speciale, senza che avesse granché per esserlo. Credo perché era Dean ad essere una persona speciale. Che io non l’abbia mai davvero amato e che ora sia persa di quel furetto maledetto, non cambia nulla. Mi ha insegnato il valore delle piccole cose, Dean. Il valore del gelato fritto, quando si è felici.

Su quel letto, pieno di briciole, mentre lo mangiava riempiendosi la bocca di morbido ripieno alla nocciola, mi disse solo sorridendo: “Non si è mai troppo poveri per un gelato fritto! Dovremmo farne un rito per quando accade qualcosa di meraviglioso! Tanto costa solo tre sterline!”. Sorrisi a mia volta, annuendo e commentando che meno male che le cose meravigliose accadono raramente, altrimenti il mio fegato sarebbe raddoppiato di volume nel giro di un paio di mesi. Mi baciò, ridendo.

Da allora, da quel momento, non ho più mangiato il gelato fritto. Non mi ritenevo mai abbastanza felice da doverlo mangiare, da dover celebrare quello che al massimo era un momento di serenità o di tranquillità. E poi è arrivata la notte scorsa.

Draco è tornato. Draco è vivo, è riuscito (anche se non so ancora come) a scampare da Adamar. 

Ma soprattutto Draco mi ama, io lo amo. E ho fatto l’amore con lui.

Ho passato quasi tutta la notte ad occhi spalancati, senza una minima traccia di sonno, guardando il soffitto che piano cambiava colore mentre la pioggia apriva il cielo. Ha albeggiato nel mio cielo d’intonaco e i miei occhi non si sono socchiusi per un secondo, perché quando vivi da sveglia un sogno qualsiasi immagine scoppi sotto le tue palpebre chiuse, avrà sempre la consistenza di un contentino. Draco era accanto a me addormentato, ogni tanto mi giravo a guardarlo, perché poteva anche essere volato via come un’impalpabile nebbia, poteva essere davvero un sogno che, adesso, pavidamente evaporava alla luce del sole. Il giorno è crudele, si sa, con i sogni innamorati della notte.

L’ho guardato per tutta la notte, mordendomi l’interno della guancia, senza battere le ciglia, una mano sotto il cuscino.

Lui dormiva e io lo guardavo.

Ha l’aria corrucciata anche quando dorme, aggrotta spesso le sopracciglia, biascica parole incomprensibili, si muove spesso scalciando. Timidamente, come se fosse uno sbaglio che lui adesso mi appartenga, al primo raggio di sole che spezzava il pulviscolo dell’aria della stanza gli ho accarezzato piano la guancia ispida di barba. Si è svegliato subito.

“S-scusami, non ti volevo svegliare…” ho biascicato stupidamente, stringendomi il lenzuolo al petto. Lui, senza nemmeno riaprire gli occhi, ha sorriso, attirandomi vicino a lui.

“Non mi sono mai addormentato…” mi ha detto, mentre mi adagiavo nell’incavo tra la sua spalla e il collo, chiudendo a mia volta gli occhi “Ma ho fatto riposare il mio ego ferito… è stato ritemprante sentire che mi mangiavi con gli occhi per tutta la notte…”.

Prima ancora che reagissi stizzita, negando e spergiurando, Draco mi ha letteralmente tappato la bocca baciandomi. Le mie labbra sono remissive come io non sono mai stata, e subito si sono piegate, aprendosi a lui. Ha scoperto, inventato, creato un metodo perfetto per impedirmi di parlare a vanvera e di argomentare per ore. Mentre scivolavo sotto di lui, le mani sul suo viso, si è riappropriato di me per la seconda volta ed è stato persino meglio della prima. La timidezza si è accucciata nel velluto della notte appena passata, risorgendo nuova come esperta conoscenza della sua pelle, della mia, di tutto quello che fa la geografia di un corpo. La luce del sole, che lentamente sorgeva, mi ha permesso di vederlo meglio, di sentirlo meglio, mentre stringevo tra le dita i suoi capelli che sembravano rilucere come la fiamma di un fuoco dorato. Le sue mani oramai scandagliavano insenature e penisole della mia pelle con il piglio spavaldo del veterano navigatore, riconoscendo sentieri e rotte come se gli fossero appartenuti da sempre. E io stessa ho scoperto di me stessa una dimensione nuova, riflessa in lui, che di minuto in minuto mi rende scevra da quella che sono sempre stata, avvicinandomi a chi volevo sempre essere.

Coraggiosa, temeraria, non superficialmente, ma davvero, dentro, nel profondo, senza che una sciarpa rosso-oro lo debba dire per me.

In giardino fa ancora freddo.

Mi siedo per terra, dietro una siepe di rose bianche e rosse. Ne tormento una con le dita, giocando con il tesoro di una goccia d’acqua che racchiude tra i petali. Stringo le ginocchia al petto, perché, per quanto ora io sia arrabbiata e stizzita, mi sento esplodere ed è come se mi dovessi tenere faticosamente tutta assieme, per impedirmi di schizzare via in mille direzioni differenti. Non era mai stato così, fare l’amore con qualcuno… non che io abbia una grandissima esperienza, sono stata solo con Dean e Ron. Ma con loro ricordo sempre di quanto fossi rapida, di quanto volessi che tutto finisse in fretta, di quanto mi imbarazzassero i loro corpi nudi, per non parlare del mio. Cercavo angolazioni e coni di luce impossibili, pur di non far notare i miei difetti. Con Draco, è tutto diverso.

Già, me lo immagino che direbbe lui: “Ovvio, sei stata solo con Weasley e Thomas, ci manca pure che ti metti a paragonare loro e me…”. Ma non è questione di paragonare loro, Draco è chiaramente esperto, si vede, mio malgrado, che è stato con molte donne. La questione è paragonare me: mi abituo a prendere, senza chiedere, pretendendo nulla di meno di quanto so che lui mi possa dare. E lui non se lo fa ripetere due volte.

Arrossisco come una scema a quei ricordi, poggiando la fronte sulle ginocchia. Ne sono perdutamente, disperatamente, inesorabilmente, innamorata persa. Anche se è un imbecille.

Mi sono svegliata di soprassalto dopo un’oretta scarsa, e il letto era vuoto. Le lenzuola erano gelide, ma la mia solita razionalità calma ha finalmente preso il sopravvento, suggerendomi che Draco probabilmente era sceso a fare colazione, oppure era andato da Serenity, o ad avvisare Pansy e Raissa del suo ritorno. Ho respirato profondamente, mi sono alzata da letto e ho aperto le tende chiuse: una dolcissima luce dorata mi ha avvolto, il sole è tornato. L’aria profumava ancora di pioggia, gemme di diamante sulle piante e sulle rose del giardino.

E in quel momento di assoluta perfezione, mi è tornato in mente il gelato fritto.

Non c’era nulla di maggiormente corrispondente all’aggettivo “meraviglioso” per descrivere quel momento.

In pochi secondi mi sono pienamente convinta che se non avessi mangiato immediatamente quel involto grasso e zuccherato, sarebbe imploso lo stesso pianeta Terra.

Mi sono infilata velocemente una camicia che era gettata sulla poltrona, registrando sommamente che era di Draco. Ed ecco, se uno poi ci ripensa, sono io che da sola mi infilo nelle peggiori delle situazioni per le mie considerazioni cretine: ora non sarei qui seduta per terra in giardino, se non avessi semplicemente ripensato al fatto che Draco aveva lasciato la sua camicia sulla poltrona. Assieme agli altri vestiti. Ergo, non poteva essere andato troppo lontano.

Presa da una smania paragonabile ai riti scaramantici di un giocatore di calcio, che indossa per mesi lo stesso paio di calzini fortunati e disgustosamente maleodoranti, sono uscita in corridoio con solo la camicia ed ovviamente la biancheria addosso, i capelli goffamente tirati su con un mollettone marrone, scalza per giunta, alla ricerca di Lyria, l’elfo domestico dei Parkinson. Stavo cercando di capire dove potessero essere le cucine, dato che non ricordavo di aver mai preso nota di dove fossero esattamente, quando improvvisamente un movimento alle mie spalle mi aveva fatto trasalire. E voltandomi, mi ero ritrovata Dimitri davanti.

Se quell’uomo non mi avesse mai fatto così tanta paura e soggezione, probabilmente avrei provato pena per lui. Non lo vedevo da ieri mattina, eppure sembrava diventato un’altra persona. Non aveva dormito sicuramente, e due profonde occhiaie gli velavano la pelle morbida sotto gli occhi bigi, e non più azzurro oltremare. I capelli ricci e neri erano scompigliati e spettinati, ma non nel modo solito che trasudava eleganza, ma appariva trasandatamente sconvolto. Persino la postura del suo corpo era cambiata, era curvo su sé stesso, come se reggesse un enorme fardello di colpa sulle spalle. Non provo e non ho provato pena per lui, ma preoccupazione, aveva persino gli abiti zuppi d’acqua come se avesse passato tutta la notte sotto la pioggia. Ed è stato automatico chiedergli sgomenta: “Che ti è successo?”. Non ho osato fare un passo nella sua direzione, memore della mattina precedente, mi sono incassata nelle spalle, ma quella maledetta domanda è uscita lo stesso. Perché? Perché sono un’idiota e in questo, io e Draco Malfoy siamo perfetti l’uno per l’altra.

Ed è stato in quel momento che il suo sguardo si è acceso per un secondo come prima, come un guizzo di luce in un mare di buio, sparute lucciole di azzurro. Mi ha guardato contraendo le labbra con ferocia, sembrava volersi prendere a morsi da solo, distruggersi come se ardesse su una pira da cui lasciarsi consumare con rabbiosa lentezza. Sono apparsa sul suo viso per quella che ero in quel momento: gli occhi colmi di luce, i capelli spettinati, il segno sul collo, le labbra rosse, l’espressione felice ed impaziente, le gambe nude.

E lì, ho capito. Ovvio. Ma troppo tardi.

“Ti sei divertita stanotte?” ha proferito gelido come una raffica di vento che spazzasse la tundra annientando vita e spargendo morte “Ti ha fatto gemere come una puttana in calore, vero? Era impossibile non sentirti…”. Non sono una puritana imborghesita, sono cresciuta con due ragazzi, ero il capo degli Auror, sono abituata ad un linguaggio ben peggiore di questo, ma non a quel tono. Assolutamente. Come se davvero lo avessi tradito. Come diamine poteva pensare che in qualche modo io non sarei tornata con Draco? E poi… possibile… che mi conosca da così poco e viva tutto questo, in questo modo?

Questo mi ha spaventato, ecco la verità. L’ossessione che lui sembra avere per me. Non è amore, è ossessione. Ed improvvisamente ho capito perché Raissa voleva andarsene da qui, prima che accadesse questo. Sembrava folle, pazzo, come se la gelosia e questo malaugurato senso di possesso lo stesse mandando al manicomio.

“In quale momento preciso della mia vita, ti ho dato il diritto di fare commenti del genere? O di pensarmi di tua proprietà? Perché sai, forse sono annebbiata, ed oggettivamente me lo sono scordata…” ho commentato duramente, incrociando le braccia, momentaneamente incurante anche del mio abbigliamento. Nello stomaco, corroso dall’acido di un nervosismo senza pari, si era sviluppato il calore di un nuovo coraggio, cresciuto e nutrito dall’amore per Draco prima, ma soprattutto dalla nuova fiducia in me stessa che lui ha indotto. Sono nuova, certo, sono diversa, ma sono tornata molto più simile alla ragazzina spavalda che ha lasciato Hogwarts per cercare gli Horcrux, che alla donna che viveva con Dean solo perché non sapeva stare da sola.

Quindi, ovviamente, in quel momento non ci sarebbe stata persona che mi avrebbe infastidito di più di Dimitri, altro che spaventarmi.

“Si chiama destino, Granger…” mi ha risposto lui con noncuranza, quasi annoiato “Già una volta ho lasciato che qualcun altro si mettesse in mezzo tra me e il mio destino, credi che lo farei anche questa volta?”. Non ho ovviamente capito a che diamine si riferisse, ma nemmeno mi interessava. Stava facendo evaporare la mia fantastica sensazione di entusiasmo e felicità. E dopo tutto quello che ho passato, non l’avrei permesso più a nessun altro. Ho sospirato insofferente, ho chiuso gli occhi scocciata e ho fatto per sorpassarlo, cercando di tornare nella mia camera: “Resta pure delle tue idee, Dimitri, che io resto della mia, ed alla fine vedremo chi aveva ragione… sai che c’è? Pensala come credi. Non mi interessa. Non mi importa… lui è tornato, è qui… ed è qui per me. Figurati quanto mi può interessare la tua idea fatalistica dell’esistenza, specie se contempla uno scenario in cui sono assieme a te… non si chiama destino, quello. Si chiama fantascienza…”.

E, mentre finalmente gli davo le spalle, completando quelle parole, ha fatto qualcosa che non mi aspettavo assolutamente. Ha riso. Pensavo che mi voltasse bruscamente, che mi desse persino uno schiaffo, ma che scoppiasse a ridere in modo così ingenuo ed autentico mi ha fatto sinceramente rabbrividire. Non è normale, ho pensato automaticamente, voltandomi ancora a guardarlo, mentre continuava a ridere sommessamente, una mano sulla bocca come se si volesse rispettosamente trattenere ma non ci riuscisse. Con quella risata liberatoria, è stato come se il manto opprimente che aveva addosso si fosse dileguato come neve sciolta. Era come se avesse recuperato il sonno, il senno e la forza. Ed ora, di nuovo, stranamente, il potere di quella situazione era fluito da me a lui: era di nuovo lui quello potente, come se si fosse attaccato al mio sangue e ne stesse succhiando via tutto il vigore e la gioia. Io ero ancora quella piccola, debole, senza bacchetta, per di più semisvestita. Lui era di nuovo il signore di tutto, fosse anche del mio corpo, che pure lo rinnegava, lo rifiutava e lo bestemmiava, ma lui, misericordioso, mi lasciava fare, accogliendo le mie intemperanze come un padre accoglie i capricci di una bambina viziata.

Mi ha soppesato lentamente con lo sguardo per un lunghissimo minuto, come se cercasse delle parole in gola che fossero sufficientemente forti da darmi il colpo che meritavo, ma che nella sua bocca erano dolcissime come delle caramelle al miele. Poi, sorridendo ancora, mi si è avvicinato di un passo, prendendomi la mano e stringendola tra le sue come se stesse per darmi una notizia che meritasse tutto il suo conforto. Ho cercato di divincolarmi, ma prima che lo facessi, le sue parole hanno paralizzato ogni mio movimento.

“Ti ha detto come è tornato? Come ha fatto a tornare?” ha soffiato dolciastro, portando le nostre mani unite al suo petto, avvicinandomi di più a lui “Non è qui per te… è qui per lei, è lei che lo ha fatto tornare… sai che c’è, questo è il destino, Granger… io non ho nessuno dall’altra parte che mi chiama a sé. Solo tu mi chiami a te… lui invece no. È tra l’incudine e il martello… e tu non vincerai mai. Vincerà sempre lei.”. Era stato facile capire, ovviamente. La mente aveva già trovato il nome. Il cuore, battendo sulle costole, invece, negò feroce.

“Dici di no?” ha sorriso lui, crudele, lasciando la presa della mia mano per chiudermi la vita con le braccia “E’ tornato per Helena. Non per te… l’ha incontrata, ma ti risparmio i noiosi dettagli. Eccotelo il destino, unisce loro due e separa lui da te. Io solo a questo mondo, tornerei sempre e solo per te. Io solo a questo mondo, farei sempre di te il mio motivo per restare…”.

Quelle parole… il motivo per restare… senza nemmeno rendermene conto, senza prestare la benché minima attenzione a tutto quello che mi aveva detto, quelle quattro semplici paroline hanno contratto le mie dita nella morsa di un pugno da graffiarmi i palmi con le unghie. Digrignando i denti, le narici che fremevano, ho sollevato il braccio velocemente pronta a colpirlo in pieno viso. Quelle parole… sono mie e di Draco. Non sono di nessun altro, tantomeno sue. E il fatto che le abbia usate… vuol dire… che ci ha ascoltato ieri sera.

Le nocche livide, l’ho visto carambolare dall’altra parte del corridoio finalmente lontano da me. Dopo aver descritto una buffa capriola in aria, è atterrato malamente al suolo, faccia sul pavimento. Di primo acchito, la rabbia, il respiro ansante, l’adrenalina, non mi ha fatto rendere materialmente conto che la mano non mi bruciava per nulla per il colpo dato. E soprattutto che, anche se sono il Capo degli Auror, sono più abituata a colpire con la bacchetta e non senza. Dunque, potevo certo fargli male, ma non così tanto da farlo addirittura rimbalzare così lontano da me. Quando poi il silenzio sconvolto che mi circondava è stato rotto da una voce abituata ad essere calma anche nella rabbia, ma che adesso faticava a non tremare, i capelli mi si sono drizzati sulla nuca e mi sono voltata lentamente su me stessa.

“Se non avessi avuto lei come motivo sufficiente per restare, adesso ne ho un altro, Karkaroff… tu… nemmeno se fosse lei stessa a chiedermelo, te la lascerei…” Draco ha fatto silenziosamente qualche passo, senza guardarmi, gli occhi grigi fissi su Dimitri che si rialzava da terra, pulendosi nervosamente il labbro spaccato. Aveva i capelli bagnati, segno evidente che era solo a farsi una doccia. A torso nudo, con addosso solo i jeans, sembrava la cosa più simile ad un miraggio che avessi mai visto. “Hermione è mia, in tutti i sensi che questa parola possa significare…”, la bacchetta nella sua mano non ha tremato per un attimo mentre diceva queste parole, io mi sono sentita così scossa da brividi caldi e freddi assieme che temevo di andare a pezzi “Se solo ti avvicini a lei, se solo le respiri ancora vicino, se solo anche pensi a lei, ti ammazzerò con le mie mani. La tua schifosa vita è mia, l’ho salvata una volta e te la posso togliere in qualsiasi momento. E per quanto riguarda Helena… nominala solo un’altra volta, maledetto bastardo, e ti farò fuori…”.

Tra l’incudine e il martello… ho pensato per uno sciocco attimo, prima di scuotere il capo, cancellando quel pensiero.

“Non avrei nemmeno saputo che esisteva se non fosse stato per te, Malfoy…” ha ribadito Dimitri, alzandosi ed estraendo la bacchetta “E tu non sai contro chi ti sei messo. Ti pentirai di aver chiesto il mio aiuto quel giorno…”. Così dicendo, un fascio di luce scarlatta è schizzato fuori dalla sua bacchetta, colpendo Draco in pieno viso. Ho urlato, spaventata, vedendo il sangue, ma ovviamente non si sono fermati. Hanno preso a combattere come due invasati, sparendo e ricomparendo come lampi, abbattendo statue e pezzi di muro, mentre io china per terra cercavo di ripararmi la testa con le braccia e maledicevo il solito fatto di non avere una bacchetta. Cercavo di seguire Draco, di intercettare il baluginare dei suoi capelli biondi, ma si muovevano troppo velocemente. Tossendo per la polvere sollevata e chiedendomi come non facessero Pansy e Raissa ad intervenire visto il fracasso, ho cercato di pensare ad una soluzione per fermarli, prima che Dimitri davvero facesse del male a Draco. Divide bellatores, le parole sono fluite da sole nella mia testa, era un Incantesimo antico, poco conosciuto, utilizzato dalle vecchie streghe delle taverne quando due ubriachi si azzuffassero. Non era molto potente, specie perché lo dovevo usare senza bacchetta, ma speravo che mi desse il tempo necessario per farli fermare. Mi sono alzata in piedi faticosamente, chiudendo gli occhi e cercando di concentrarmi al massimo, nonostante il frastuono dei colpi e la preoccupazione per Draco. Il mio potere magico, così represso nel mio corpo dall’inizio della condanna, è corso velocemente alle mie palme sollevate, facendomi sorridere, è stato come ritrovare un vecchio amico che smaniava dalla voglia di vedermi. Pronunciare la formula è stato come togliere il tappo ad una bottiglia di spumante. Respirando a fatica, ho visto finalmente Draco e Dimitri divisi, che si squadravano in cagnesco, separati da un bagliore lucido e biancastro che si frapponeva tra loro e che non riuscivano a superare. Dopo aver sommariamente constatato che Draco sembrava stare bene, a parte qualche taglio sul viso e sul braccio, e che Dimitri si reggeva in piedi (non che me ne freghi di lui, beninteso, ma non ci sto che Draco diventi un assassino), mi sono avvicinata a loro, tenendo sempre il contatto visivo con la barriera che li divideva per impedire che venisse meno.

“Che diamine stai facendo, Granger?! Togli subito questa maledetta cosa, prima che la faccia a pezzi!” ha urlato Draco, rosso in viso per la furia dello scontro, agitando la bacchetta contro il bagliore che lo rimandava indietro.

“Sta zitto tu!” ho urlato a mia volta, guardandolo di striscio dato che non potevo distogliermi dall’incantesimo “Apprezzo molto quello che hai detto, ma non ho bisogno di nessuno che mi difenda, non sono una proprietà, Malfoy. E scelgo da sola dove diamine devo andare e con chi diamine devo stare…”, sentendo la risata sommessa di Dimitri, soddisfatto per il nostro diverbio, mi sono accigliata e ho guardato di sbieco anche lui: “E ho sempre scelto Draco. Sarà sempre lui. Non si è trattato nemmeno di scegliere, Dimitri… non sei mai stato nulla per me. Spero stavolta di essere stata chiara… e se non lo sono stata, ricordati questo. Tu ammiri di me il mio potere, il fatto che io abbia creato uno Zahir, che l’abbia distrutto, che ne sia rimasta viva. Se non te ne vai subito da questa casa, se non lasci me e lui in pace, sappi solo che la prossima volta che ci incontreremo non sarò in queste condizioni…”, sospiro infondendo calore alla mia minaccia: “Io avrò una bacchetta, fosse anche rubata. E saprai che cosa significa mettersi contro il Capo degli Auror, specie se si chiama Hermione Granger.”.

In quel momento, finalmente nel corridoio sono arrivate sia Raissa che Pansy che hanno provveduto a disarmare Draco e Dimitri, un secondo prima che, cadendo in ginocchio, non riuscissi più a reggere la barriera tra loro. Raissa ha immediatamente afferrato il fratello per un braccio, portandoselo via, mentre Pansy ha urlato di tutto a Draco sullo stato del corridoio. E quando finalmente ci ha lasciati soli, a testa bassa, siamo tornati in camera. Borbottando contro Dimitri, mi sono messa a disinfettargli le ferite che aveva sul viso. E poi lui se n’è uscito con la domanda del secolo. “Sei stata a letto con Dimitri?”. E rieccomi all’inizio del cerchio, seduta vicino alle rose, mentre il sole oramai è molto più alto nel cielo.

Certo, mi sono offesa, che domande, non avrebbe un livido nuovo di zecca in faccia se non mi avesse fatto innervosire… la sua mancanza di fiducia è tipo un cazzotto in un occhio, ma ancora non ne sono sconvolta. Cavolo, non è che le cose vanno a posto da un momento all’altro, dopo del sesso francamente eccezionale. Io e Draco ci amiamo, tanto, e ci consuma. Ma la fiducia è ancora una strada lunga… e non a caso, lui ha pensato che fossi stata a letto con Dimitri. E io… bè, adesso che ho la testa vuota, penso con nettezza alle parole di Dimitri. Sull’incontro con Helena… sul fatto che Draco sarebbe tornato per lei. Certo, Dimitri potrebbe mentire, anche perché che io sappia, non c’è un modo concreto per parlare con un defunto se non la Pietra della Resurrezione, e dubito che qualcuno l’abbia mai trovata davvero. Ma chissà, magari esiste un modo che solo Adamar conosce… o Draco ha trovato un modo, forse l’ha salutata prima che…prima che succedesse qualcosa tra me e lui… come se le avesse chiesto un permesso…

Quel pensiero è gelido ed infido come una lucertola che si arrampica lungo la schiena. Se fosse davvero andata così, rifletto chiudendo gli occhi, mi starebbe bene? No. Certo che no. È come dire che lui le appartiene e io l’ho solo preso in prestito per la mia sciocca vita mortale… e Dimitri, mio malgrado, avrebbe ragione. Il destino che unisce, è il loro, non il nostro.

Mi asciugo con la punta delle dita una stupida lacrima che carambola fuori dal mio occhio sinistro, seguita subito da un’altra e da un’altra ancora. Stupida, che diamine piango a fare? Se Dimitri mi vedesse adesso, sarebbe convinto di averla avuta vinta. Smettila, Hermione. Smettila, dannazione. Inspirando forte, ricaccio indietro le lacrime e mi alzo malferma in piedi.

E Draco è qui, davanti a me, il cuore mi va in gola vedendolo. La luce del sole che crea ombre invitanti sulla sua pelle nuda, mentre è ancora a torso nudo come poco prima, il taglio sul viso che sanguina ancora, i capelli sporchi anch’essi di sangue e polvere di calcinacci, lo sguardo in attesa e le labbra dischiuse.

Allunga il braccio piano verso di me, rimanendo con il palmo sollevato, aspettandomi.

E se non è la forza attrattiva di un destino già scritto che la mia mano scivoli sulla sua, che si chiude subito a sigillarmi carne nella sua carne…

… io non so come altro si possa chiamare.

 

 

Credo che i vestiti diventeranno un optional stando con Draco Malfoy.

Ho chiuso la porta della camera alle mie spalle, dopo che lui piano mi ha presa per mano e condotto dolcemente indietro, e non so se sono stata io a cercare lui, o lui a cercare me. So solo che ho avuto bisogno di baciarlo, di toccarlo, di sentirlo contro di me a respirarmi addosso. Non siamo nemmeno arrivati a letto, rapido, veloce come non era stato stanotte, è entrato in me, mentre gli cingevo i fianchi con le gambe, la schiena contro la parete. È stato diverso, ancora. La voce è ancora arrochita nella mia gola per quanto il respiro sia venuto meno, per quanto mi sia venuto da urlare, gridare, e per quanto mi sia trattenuta. Sudata, senza forze, mi sono afflosciata su di lui, abbracciando le sue spalle.

La landa desolata conosceva di nuovo il suo legittimo re, così mi è sembrato di tornare ad essere.

“Non avrei dovuto farti quella domanda…” mi dice improvvisamente e gravemente, vibra il suo petto contro la mia schiena, dandomi dell’eco delle sue parole l’impressione della nota stentorea di un organo in una chiesa. Seduti per terra, sul tappeto cremisi, scivolati sul pavimento soffice senza farci male, sono tra le sue gambe, un braccio poggiato sul suo ginocchio piegato e la guancia su di esso. I miei occhi chiusi si riaprono, mentre soffio: “No, non avresti dovuto”.

La sua presa sui miei fianchi diventa più stretta.

“Me lo avresti detto se fosse successo sul serio?”. La sua voce è un bisbiglio lieve, fatico a sentirla.

“Certo”.

“E non ti è mai passato per la testa? Possibile?” le sue dita descrivono piccoli cerchi sui miei fianchi, rabbrividisco chiudendo gli occhi. Cerco di mettere a freno le sensazioni fisiche che provo e che mi imporrebbero di rispondere che no, non mi è mai passato per l’anticamera del cervello, perché come diamine poteva assomigliargli Dimitri anche in questo semplice modo di sfiorarmi piano, senza alcuna fretta, dandomi l’impressione di accendere dei fuochi d’artificio sotto la pelle? Ripenso a ieri mattina, sembrano passati decenni… quando Dimitri ha cercato di baciarmi in giardino… al fatto che lui sembrasse annullarmi il pensiero e la volontà. A quanto lo cercassi per questo.

“Non in modo cosciente…” sussurro piano, mentre lo sento irrigidirsi alle mie spalle “Tu non c’eri… ed ero così debole e lui sembrava così forte, così pronto a darmi tutta la protezione che volevo… ma soprattutto mi avrebbe impedito di pensare al fatto che tu non tornassi. Per questo, mi sfiorava quel pensiero. Di arrendermi. Ma non l’ho fatto, Draco… anche se non fossi tornato, non sarei mai stata con lui…”.

“E’ un bell’uomo per quanto ne possa capire io…” commenta asciutto e freddo, tipico segnale che chissà che diamine sta pensando “E dopo Weasley e Thomas, non è che c’è da fare tanto gli schizzinosi…”, ed è sarcastico. Quindi mi sta pungolando apposta, per nascondere l’enorme elefante da salotto dei pensieri che non vuole palesarmi.

Non è te” bisbiglio velocemente, arrossendo ancora come una cretina e ringraziando di non averlo davanti agli occhi “A volte ho la remota ma assolutamente convincente certezza che ti piaccia enormemente che lo ripeta a scadenze di quindici minuti…”. Ovviamente ho alzato la voce sull’ultima frase, imbarazzata come non mai. Ed ovviamente adesso mi si è azzerata la salivazione e mi sono serrata nelle spalle.

Le braccia di Draco mi cingono con delicatezza la vita, mentre mi bacia su una tempia: “Effettivamente, mentirei se dicessi il contrario, ho un enorme istinto all’autocelebrazione… specie se viene da te…”, la sua guancia sfiora con dolcezza la mia mentre si appoggia con il mento alla mia spalla: “… e il fatto di… amarti… non cambia che adoro farti arrabbiare. Anzi è meraviglioso che non mi sia passata… potrei passare l’intera esistenza così, Granger…”.

Amarti… risentirlo ogni tanto dà anche a me un’ebbrezza simile all’autocelebrazione. Ci siamo inseguiti per così tanto tempo che queste parole ci fanno tutto il bene del mondo.

Reprimo il sorriso che già mi sta uscendo e sbuffo fintamente arrabbiata: “Consolante, avrò la cirrosi epatica in un paio di anni”.

“Dunque siamo arrivati a pianificare di stare assieme già un paio d’anni?” la sua voce è colma di una gioconda voglia di punzecchiarmi, ma dietro alle parole, dietro al tono fintamente preoccupato e teso, c’è un calore simile alla speranza. Lo sento dentro il cuore, che batte contro la sua schiena. È facile riconoscerlo perché appartiene anche a me.

“Anticipo i tempi, sì… che ci vuoi fare?” ribatto serissima “Devo fare solo un corso di sopravvivenza anti furetto… mi toccherà chiederlo alla Parkinson, però…”.

“Che c’entra lei?” ride lui, non riuscendo più a trattenersi, e il suono cristallino della sua risata mi distrae da me stessa. Entra scintillando dentro di me, azzerandomi i pensieri. Ed è un male talvolta, visto quello che dico subito dopo, senza accorgermene: “E’ la tua sola ex che ho a portata di mano, no? Denise Delacour non so nemmeno che fine abbia fatto… e in quanto ad Helena…”. L’eco della risata di Draco si spegne come era nato, assomiglia ad un fuoco d’autunno soffocato da un uragano di pioggia e, d’improvviso, la mia pelle e la sua, l’una contro l’altra come se fossero nate così, semplicemente nate per sfiorarsi, si respingono come poli uguali di una calamita. Estraneo diventa allora il suo corpo, potenzialmente nemico, anche se non si è mosso di un centimetro. Il silenzio si ammanta del mio respiro trattenuto e del suo cuore che batte, batte, batte forte contro la mia schiena. E si potrebbe fare finta di niente, certo che potremmo, riderei adesso, farei una battuta, mi alzerei in piedi e ci distrarrei con un pensiero scemo. Funzionerebbe, perché non abbiamo bisogno di questo, adesso, nel pianeta delle nuvole rosa in cui siamo. Ma la mia mente non mi lascia mai in pace ed eccola a suggerirmi il ricordo delle parole di Dimitri. Ed ecco che ora è costrizione stare seduta, sono prigione le sue braccia, ho bisogno d’aria e ho bisogno di essere libera. Draco cerca con voce malferma di cambiare argomento: “Dunque ti hanno fatto vedere i miei ricordi? Se l’avessi saputo, non li avrei mai dati a Blaise…”, ma l’aura spensierata che ci circondava si è dissolta. Mi trema il labbro e mi viene da piangere, lei sarà sempre presente tra me e lui? L’avvertiremo sempre come una fantasma che, gelido, ci respira sul collo?

Spinta da quel pensiero, mi alzo bruscamente in piedi, divincolandomi dalle sue braccia. Evito di guardarlo in viso, trovo con lo sguardo la finestra aperta e il sole nel giardino mentre sussurro: “Dimitri mi ha detto che sei tornato per lei… e non per me. Io non gli credo… non voglio credergli. Che cosa c’entra Helena con il fatto che tu sei tornato?”.

Draco sospira, alzandosi in piedi a sua volta: “Non devi credere a Dimitri… è per te che sono tornato. Con questo Helena non c’entra niente…”, stringe i pugni lungo le braccia, prima di dire duro: “Non mi perdonerò mai di averlo portato qui… e finirò per ammazzarlo, se si mette ancora tra me e te… è solo un altro da aggiungere alla lista…”.

Spaventata dalla sua voce fredda, replico stizzita: “Lascia stare Dimitri, adesso… e per favore, risparmiami anche i tuoi pensieri sull’ammazzarlo o roba simile… voglio sapere di Helena. Che cosa c’entra lei? Come hai fatto ad incontrarla?”. Draco rilascia i pugni chiusi, le braccia ricadono inermi lungo i fianchi. Sembra ancora trattenersi dalla voglia di parlare, guarda altrove, fa qualche passo in circolo e l’esitazione gli trasfigura il viso, rendendo i suoi tratti confusi ed incerti. Poi, piano, mi fa segno di avvicinarmi, mi accenna a sedermi sul letto e sospirando, inizia a parlare monocorde.

“Adamar non ci ha messo molto a trovarmi appena ha percepito che lo stavo cercando. Ero andato via da qui da nemmeno due ore e lui già si è fatto vivo. Non saprei descrivertelo… non l’ho mai visto in viso, ho solo sentito la sua voce. Ed era raccapricciante, letteralmente, mille volte peggio di quella di Voldemort. Lui sembrava ancora un uomo, quando parlava. Adamar no, Raissa aveva ragione. È un demone, in tutto e per tutto. Ha una voce dolce, celestiale, sembra quella di un’arpa… ma il tono, le cose che dice… mi ha detto che erano anni che mi stava aspettando, da quando ho tradito i miei genitori… eri sufficientemente debole e stupido da cercarmi, ma purtroppo eri ancora così legato ad una sciocca ed antiquata moralità per sentire quel bisogno. Dovevi perdere tutto, per arrivare a me… questo ha detto. Oramai non sperava più di vedermi, credevo che lei ti bastasse. Si riferiva a te…”, al suo silenzio titubante, ricollego le mie parole di ieri sera, io non ti sono bastata. Senza volerlo l’ho colpito nello stesso punto in cui l’ha ferito Adamar.

“Mi ha fatto la sua proposta: mi avrebbe dato del potere pressoché infinito, inesauribile. Magia, conoscenza, intelligenza, volontà. Sarei diventato tutto quello che Voldemort ha sempre sognato di essere, senza la vita eterna, ma dovevo superare la prova che aveva in serbo per me. Chiedeva in cambio la cosa più preziosa che avessi… non ho esitato, erano i ricordi che ho di te. Se non avessi superato la prova, o mi fossi ritirato, me li avrebbe restituiti… ma questo lo sai. È una specie di codice d’onore. Adamar prende quello che gli offri solo se è in grado di darti quello che cerchi. Chi l’ha messo a quel posto, e non so davvero se sia stato Dio o il diavolo, l’ha messo lì per rendere palesi le punizioni che gli uomini ottengono, desiderando troppo… è il demone della fragilità umana. Conosce l’anima delle persone, meglio di quanto la conosca tu stesso. È orribile ed affascinante al tempo stesso. Non ha dubitato un secondo nello scegliere la prova che mi avrebbe destinato, come se avesse sempre saputo che sarebbe stata quella. Io pensavo a draghi, demoni, lupi mannari, vampiri… e lui mi ha semplicemente indicato una cascata, su una montagna. Mi ha detto di superarla… solo questo. Ovviamente sapevo che non poteva essere tutto così facile… ma quando ho superato quell’ostacolo, l’ho anche pensato per un attimo. Non c’era niente. Solo una caverna fredda, umida e buia. Poi, improvvisamente, mi sono mancate le forze, non riuscivo a vedere bene, mi mancava il respiro… e credo di essere svenuto… quando ho riaperto gli occhi, ho capito quale era la prova. E ho capito anche che non l’avrei mai superata, anzi forse non sarei nemmeno sopravvissuto. La tua prova sono i morti, ha detto la voce di Adamar nella mia testa, mentre rideva senza ritegno…”.

“I m-morti?” dico incerta, guardandolo sconvolta. Draco ha lo sguardo basso, i capelli che gli coprono gli occhi, una mano che trema. La stringo forte nella mia e dopo qualche secondo, riprende a parlare: “Non saprei descriverti il luogo in cui sono stato, assomigliava ad un deserto, ma faceva freddo… e forse non era nemmeno simile ad un alcun luogo terrestre. Il tempo non esisteva, a volte avevo l’impressione che fosse passato un secondo, a volte cinquant’anni. E non saprei nemmeno quanto tempo sono stato lì, tu hai detto che sono mancato ventitré giorni, a me sembrano passate ventitré vite invece. Vedevo gente su gente, bambini, vecchi, donne, uomini, guerrieri, soldati… credo persino di aver visto Voldemort, ma era irriconoscibile, assomigliava ad un neonato deforme… ma ho visto tutte quelle anime solo dopo. Di primo acchito, la sola cosa che ho visto sono stati  i miei genitori…”.

Ancora Draco si interrompe, gli occhi si annebbiano, li strofina con la mano che io lascio libera. L’altra stringe forte la mia fino a farmi male, piango le lacrime che non sa versare. Respira a pieni polmoni, cercando di darsi forza, per un attimo il silenzio ci avvolge misericordioso, sento solo il frinire lontano delle cicale.

Ma poi il fiume delle sue parole riprende con foga: “Non erano felici di vedermi. Non lo erano affatto. Ovvio. Come se si potesse pensare il contrario… non ti dirò che mi hanno detto, che mi hanno fatto, che cosa ho sopportato. Non ne vale la pena. Credo che il pensiero della morte sia sempre stato bello per me, perché credevo che si smettesse di esistere e basta. Adesso so che non è così… per questo, Hermione, prima ancora di te e di Serenity, desidero vivere più a lungo possibile per non affrontare quel posto come ero quel giorno. Colmo di rimpianti, rimorsi, sensi di colpa… ci sono persone che ho mandato io stesso lì. Tiger, Goyle, la sorella di Pucey, il padre di Montague… sono morti perché io tradito. Sono morti perché io vivessi… nemmeno loro erano felici di vedermi. Dico così, dico che non erano felici perché non saprei usare altre parole, Hermione. La rabbia dei morti è una rabbia eterna, senza scampo. Arde come fuoco, brucia come ghiaccio, non hanno tempo o perdono davanti… volevano solo una cosa. Che restassi lì, a patire per l’eternità. Anche loro, come Adamar, mi stavano aspettando… da anni… mio padre e mia madre continuavano a ripetere che sarei dovuto morire con loro, quel giorno. E che ora era giusto che l’ordine fosse ristabilito: non ero nato per vivere da babbano, per avere una bambina bionda come figlia e per essere innamorato di Hermione Granger. Ero nato per morire in quel modo, come loro…

“Ho cercato di resistere per tanto, troppo. Ma a me non appartengono i tuoi valori morali, Hermione, non potevo riempirmi di parole come giustizia, coraggio, nobiltà o altro… sapevo che i morti avevano ragione. E lì ho capito anche perché Adamar mi stava aspettando da anni. Era stato chiamato a ristabilire l’ordine: era il mio destino morire e restare all’inferno. Probabilmente se anche avessi rinunciato alla prova, non mi avrebbe nemmeno aiutato. Mi avrebbe lasciato lì, rompendo quel suo codice per la prima volta. In quel momento, in quel preciso istante, ho pregato per la prima volta nella vita. Per te e per Serenity… ed un attimo dopo, i morti erano lontani da me. E vicino a me c’era Helena…

“Non ti mentirò, Hermione. Dal momento in cui ho capito dov’ero, l’ho cercata, mi sono aspettato che lei fosse tra loro, ad urlarmi che era morta per colpa mia. Ma non era lì, Helena è in un altro posto… era luminosa come una stella. Era come una luce vivente. Le altre anime non riuscivano a starle accanto, scappavano e gridavano, compresi i miei. Aveva uno sguardo che non ha mai avuto in vita, era duro, crudele, colmo di livore. Ma non verso di me… verso gli altri morti. Parlava in una lingua che non capivo, aprendo a malapena le labbra. Non so che abbia detto, che cosa abbia fatto, ma sono andati via, sparendo come nuvole con il sole. E poi ha guardato me e sorrideva. Ero accovacciato per terra, con le braccia a ripararmi la testa… e mi ha accarezzato il viso, come una madre con un figlio. Ha detto solo: “Niente è eterno, Draco. Nemmeno questo posto. Chi vuole può andare via. Deve trovare la forza di capire, cambiare… anche qui. C’è tempo, ancora, perché i tuoi capiscano. Vivi la tua vita anche per loro. Sii felice, falli dubitare, non odiarli, amali. E capiranno…”. Aveva un modo di parlare diverso da quello che aveva da viva, era carezzevole, mi induceva a piangere come un idiota. Non so nemmeno per quanto tempo abbiamo parlato… forse anni…”.

“Non voglio sapere che cosa ti ha detto…” sussurro, abbassando gli occhi, sgomenta da quello che mi sta raccontando “Sono cose tue e sue… io non c’entro niente…”.

Draco sorride, lascia la mia mano e cinge con il braccio le mie spalle, attirandomi accanto a lui. Sciocche, piccole lacrime stupide bagnano la pelle nuda del suo torace, mentre chiudo gli occhi, una mano aperta sul suo cuore.

“Tu c’entri sempre, Hermione…” bisbiglia piano, accarezzandomi i capelli “Non so nemmeno io come… ma c’entri sempre. Ho parlato tanto con Helena… anche di te”. Inconsciamente la mia schiena si irrigidisce, Draco piano solleva il mio mento con due dita, portandomi a tiro dei suoi occhi. Sono brillanti, splendono. Non mi ha mai guardata così, come se fossi… un regalo. E le sue parole mi chiariscono quello sguardo. Soffice, soffia sulle mie labbra un respiro caldo, prima di sussurrare: “Sai che mi ha detto Helena? Su di te? L’ho portata io da te, Draco, questo ha detto, vi siete sempre appartenuti sin da quando eravate a scuola. Ma ci sono persone che devono essere aiutate da un destino superiore ad incontrarsi. Non l’avresti mai più rivista, non avresti mai capito quanto ti poteva cambiare dentro.”. Draco recita le parole di Helena come se fossero i salmi di un libro sacro, continuo a guardarlo con gli occhi sgranati, mordendomi il labbro inferiore, rapita dalle sue parole. Aggiunge poi casuale, come se non stesse parlando di un dialogo avvenuto con la sua ex morta da anni, ma di una semplice conversazione di cortesia: “Mi ha detto di ricordarti di una fermata della metropolitana sbagliata… e dell’ossessione che hai per le canzoni d’amore. Sai che significa?”.

Per un attimo non capisco assolutamente che cosa voglia dire, sono così sconvolta dal suo racconto che mi sembra di avere la testa ovattata con tutti i pensieri rovesciati e lo guardo sbattendo le palpebre, confusa. Un brivido, però, mi raggiunge immediatamente la nuca, mentre gli occhi di Draco scavano i miei.

La mattina in cui arrivai per caso al Petite Peste, ricordo con fatica, sbagliai a scendere dalla metro arrivando a Notting Hill: perché mi ero distratta, ascoltando la musica con l’ipod. 

Ed erano canzoni d’amore… le ascoltavo sempre… perché… sono dell’opinione che una canzone d’amore struggente, se ti fa male, è perché hai qualcosa di enorme da nascondere, che la suddetta canzone è andata a toccare. Le canzoni d’amore ti fanno effetto in due soli casi: o se ti ritieni troppo felice e quindi pensi che la canzone porti una sfiga pazzesca, oppure se sei infelice forte e quindi arrivi anche a pensare che potrebbe pure andare peggio. Ed allora io non ne ero né felice, né infelice. Ero vuota. Ed ascoltarle non mi faceva il benché minimo effetto, anzi mi faceva sentire superiore a tutti i sentimenti umani.

Draco segue il mio sguardo con aria preoccupata, riscuotendomi dolcemente per un gomito vedendomi distratta. Al suo volto serio e silenzioso, non riesco a rispondere con null’altro che un misero cenno d’assenso con il capo, troppo sconvolta per parlare. Lui sospira di sollievo, chiudendo piano gli occhi. “Quindi ti ha davvero portato lei da me…”. E’ solo una constatazione, credo che non avesse dubitato nemmeno per un istante che quella che aveva di fronte era davvero Helena e che fosse stata sincera. Mi sfugge quello che sta davvero pensando, sembra sereno come poco prima, eppure una vena sottile e distorta gli riga per un attimo l’espressione. È solo un secondo, passa subito, ma si insinua in me come un martello pneumatico, causandomi un nodo in gola. Odio non capirlo, odio che riesca a nascondermi ancora qualcosa, odio stare insieme a lui solo da un giorno, odio che abbia tutta una vita senza di me… ed odio pensare tutte queste cose e tutte assieme.

“Helena mi ha detto che non avevo bisogno di altro potere…” continua dopo qualche istante di silenzio “Mi ha convinto che, per proteggere te e Serenity, non c’era bisogno di una versione potenziata di me stesso, ma che non avrebbe più ricordato nulla di te…”, ancora quella piccola crepa che mi ha aperto il suo sguardo, mi fa pensare acidamente che non ci voleva un angelo del paradiso per capirlo, ci poteva arrivare anche da solo, ma la faccio stare zitta in modo automatico. La mia gola produce in risposta un gemito di fastidio nervoso, che Draco avverte. Sorrido, dicendogli che non è nulla. Poco convinto, prosegue: “E mi ha detto che la mia anima è buona… o perlomeno questo lo dice lei… che non avrei bisogno della vendetta, di trovare Pucey e Montague… o Astoria. Mi ha chiesto di prometterle di lasciar perdere. Di non uccidere i suoi assassini… ma non sono riuscito a farlo…”. Mi muovo nervosamente, a disagio, ancora piena di nervosismo nello stomaco. Qualcosa mi sfugge, qualcosa mi resta oscuro in tutto questo, qualcosa mi parla nella testa con la voce di Dimitri ma non riesco a capire che cosa mi voglia dire. Sono felice, certa dell’amore che Draco ha per me… eppure, qualcosa ancora mi apre una piccola finestra buia nella testa.

Qualcosa che ha a che fare con la vendetta che Draco non riesce a lasciar andare… il tessuto della mia mente si lacera, sento lo strappo, avverto una fitta al fianco.

Qualcosa che ha a che fare con il fatto che Draco non riesce ancora a lasciarla andare.

Lui continua a parlare, racconta di altre cose che gli ha detto lei, o di persone che ha visto, ma non riesco più a sentirlo. Annuisco piano, dicendo anche qualche parola, ma il cuore mi si è fatto piccolo come una noce rugosa ed è affondato nella mia cassa toracica. È il pensiero più sciocco del mondo, non riesce a lasciarla andare, ma se uno lo coniuga al futuro, lo estrae dalla sua dimensione presente e lo proietta all’infinito, mi fa chiedere automaticamente se mai ci riuscirà. Se anche adesso che ci sono io, è comunque così importante trovare chi ha ucciso Helena, a costo di perdere la vita e di perdere me… non conosco la voce di Adamar, eppure sento le sue parole nella testa. Parla come Dimitri anche lui.

Credevo che lei ti bastasse…

Mi sento franare come una fortezza che brucia, assaltata da un nemico che non ho mai visto. Non è semplice gelosia, quella saprei come affrontarla… è diverso, è tutto ben diverso.

Mi chiude in un vicolo cieco… amerà mai me quanto ha amato lei?

Respiro piano, a fondo, come se volessi evitare un attacco d’ansia. Non c’è risposta, non c’è adesso, non c’è domani. Ci sarà, se mai possibile, al momento in cui rovinerò al suolo dopo aver spiccato il salto fatale. Ma chi prendo in giro… il salto l’ho fatto mesi fa, quando mi sono innamorata di lui. Ora sono in volo, come una libellula cullata dal vento tiepido dell’estate.

E se non saltavo, non potevo sapere se le mie ali mi avrebbero retto o mi sarei sfracellata su una roccia aguzza. Anche ora non lo so. Potrebbero sciogliersi al sole come quelle di Icaro.

Potrei arrivare a capire che per quanto mi ami, non mi amerà mai quanto amerà lei.

E quel giorno, se lo dovessi capire… sarà lui a bastare a me?

Il tempo… è il più misericordioso dei doni. Non posso trasfigurarlo come farei di un topo che diventa una tazza. Un giorno con me non diventa improvvisamente gli anni con lei. Non diventa improvvisamente gli anni senza di lei. Devo aspettare, posso aspettare… devo voler aspettare. Devo voler aspettare.

“E quindi mi sono messo un cappellino da donna in testa, con un grazioso fiore fucsia, e mi sono anche messo a cantare Weasley è il nostro Re con l’accento perfetto di una soprano francese…”.

“Certo, infatti…”.

“Granger, se c’è una cosa che detesto, è non essere ascoltato…” il tono brusco delle sue parole e l’improvvisa aura ghiacciata che sento di nuovo nella stanza, mi fanno sobbalzare come se fossi una molla, strappandomi ai miei pensieri. Sbatto le palpebre, guardandolo, la mascella è contratta dal fastidio rabbioso che prova, gli occhi sono lame da cui si può solo implorare il perdono.

“S-scusami…” sussurro, mordendomi l’interno della guancia “Non volevo, mi sono distratta un attimo…”.

“Sei stata tu a chiedermi che cosa fosse successo… mi sarei benissimo risparmiato tutto questo racconto… non è una passeggiata per me ricordare queste cose…”.

“H-hai ragione…” balbetto ancora, spiazzata, abbassando gli occhi e fissandomi le mani che si torcono in grembo “E’ stato un attimo… perdonami…”.

La sua mano solleva bruscamente il mio viso, senza delicatezza, imponendomi di guardarlo in faccia: “Che c’è? Sei cambiata all’improvviso… non ho la pazienza di cavarti le parole di bocca, Granger… dimmi che cosa c’è. Adesso… se non vuoi, poi…” la sua voce si abbassa di tono, scorgo qualcosa che si spegne in lui e la mia vista si appanna: “…almeno non farmi sentire come se fossi lo sgradito terzo incomodo tra te e i pensieri che non mi dirai mai…”.

“Non è niente…” sorrido forzatamente, prendendo la sua mano tra le mie “Sto bene, mi sono solo distratta, davvero…”. Sto fingendo, ovvio, mi fa male il collo per quanto sto cercando di tenere su questo sorriso che non viene da dentro, ma tant’è… è un problema mio, non suo. Ma quel che è peggio è che lui non può darmi quello che voglio adesso. Potrebbe rassicurarmi, certo, potrebbe farmi promesse da innamorato che si rotolino tra le lenzuola assieme a noi, potrebbe chiudermi le domande con i baci e confondere i dubbi con le carezze, ma quel dubbio, quel pensiero… resterebbe sempre. Solo il tempo, solo provare a stare assieme, potrà togliermelo dalla testa. E non è giusto che lui stia male per questo… ha passato l’inferno, in senso metaforico e non.

Bacio la sua mano ancora tra le mie, sorridendo ancora, stavolta un po’ più sincera: “Scusami davvero… ti stavo ascoltando… Helena quindi ti ha fatto interrompere la prova?”. Lui esita ancora a parlare, per un attimo splende nel suo sguardo una tristezza così lacerante che ne capisco immediatamente il motivo.

Non sono l’attrice fantastica che penso… ha capito che c’è qualcosa che non gli sto dicendo…

“Draco…” lo chiamo ancora con un sussurro, stringendo ancora la sua mano fredda. Lui sospira a lungo e riprende incolore: “Ho urlato che mi ritiravo ad Adamar… che non volevo più quello che mi aveva promesso. L’ho sentito urlare nella mia testa come una bestia ferita. E tutto si è fatto confuso, come se i contorni stessi delle cose stessero perdendo definizione… e dopo un po’ mi sono svegliato nella caverna… però… prima di svegliarmi…”, Draco si interrompe, fissando senza realmente vederla la parete di fronte a noi. Sembra lambiccarsi attorno a qualcosa che fa fatica a ricordare, aspetto in attesa fino a quando la consapevolezza gli bagna gli occhi e torna a guardarmi: “Prima di svegliarmi… non posso essere certo di non aver sognato tutto… ma mi si è avvicinata una ragazza… non l’avevo mai vista in vita mia… e mi ha detto… maledizione, è così difficile ricordare… stavo perdendo i sensi…”. Inarcando un sopracciglio, perplessa, lo esorto a fare uno sforzo. Non è cosa da tutti tornare dall’inferno e poterlo raccontare… e se una defunta ti lascia un messaggio, non è cosa da tralasciare.

“Era una ragazza giovane, poco più di vent’anni forse e parlava con un forte accento straniero…” continua Draco a fatica, cercando di ricordare “Aveva una ferita all’addome… sembrava sanguinare ancora… ed era incollerita, aveva l’espressione dura, ma non ce l’aveva con me, non era un’altra di quelle che ho fatto uccidere… anche perché non la conoscevo proprio…”.

“E quindi?” chiedo ancora incuriosita, sistemandomi meglio sul letto.

“Mi ha chiesto come si chiamasse la mia donna…” prosegue Draco incerto, guardandomi in tralice “E le ho risposto che si chiamava Hermione Granger…”, stringo le spalle, sfugge il solito sorriso da ebete che vorrei reprimere ma che è il degno corollario della stretta allo stomaco che sento ogni volta che parla così di me.

“… quando tornerai, dille il mio nome, Draco. Dille che lo ricordi… ha detto queste parole… e poi le ho chiesto quale fosse il suo nome… mi chiamo Tatia Krasova…” Draco ricostruisce i pezzi di quella conversazione come i pezzi di un puzzle, sollevando infine lo sguardo alla ricerca di un lume di comprensione in me. Che non trova.

Non conosco proprio nessuna Tatia Krasova.

“Ma sei sicuro di non aver capito male? O che non abbia capito lei male? Che stesse cercando in realtà un’altra persona? Io non conosco proprio nessuna Tatia… e credimi come nome mi sarebbe rimasto impresso…” commento scettica, incrociando meccanicamente le braccia.

“Non so che dirti, Granger…” borbotta Draco, stendendosi sul letto con le braccia sotto la nuca “I morti sono strani… Helena dice che spesso vedono oltre… e non ho capito che diamine vuol dire, magari vedono le cose prima di noi… sei sicura di non conoscerla? Forse è una vittima dei Mangiamorte… che cerca vendetta… e si è rivolta a me perché tu sei il Capo degli Auror, forse non sa che non lo sei più…”. Le ipotesi di Draco effettivamente mi convincono, forse è una persona della cui morte nessuno ha avuto giustizia.

“Potrebbe essere…” commento perplessa, mangiandomi l’unghia del pollice mentre rifletto: “Magari se mi fai vedere il suo viso, mi viene in mente qualcosa… forse non conosco solo il suo nome…”. Draco annuisce, si solleva di nuovo seduto e mi prende le mani tra le sue, chiudendo gli occhi. Un flusso di immagini confuse mi colpisce, passando nella mia mente come uno stormo di uccelli. C’è Helena, ci sono i suoi… tanti altri volti… ed alla fine quello di Tatia: alta, carina, pelle olivastra, occhi marroni, lunghi capelli lisci e castani e un lungo abito azzurro, macchiato dal sangue.

“Niente…” ripeto spiccia, quando la visione finisce, mentre lui si stende di nuovo sul letto “Non la conosco affatto, anche se il suo nome… l’accento… potrebbe essere straniera, dell’Europa orientale, magari Raissa o Dimitri la conoscono…”.

“Magari Raissa la conosce…” calca Draco con decisione, gelandomi “Sognati di parlare di nuovo con Karkaroff…”.

“Credi che non mi sappia difendere da sola?” ribatto ottusa, guardandolo storto.

“No, non lo credo… ne sono assolutamente sicuro…”.

“Dammi una stramaledetta bacchetta e ti farò vedere come non so difendermi da sola!” mi arrabbio, diventando paonazza ed alzandomi in piedi.

“A quello ho già pensato…” concede Draco con un sorriso, continuando ostinatamente a guardare il soffitto “Al di là di Karkaroff, c’è sempre Astoria là fuori da qualche parte… e certo, stavolta non le permetterò di avvicinarsi a te e non penso che tu voglia ripetere la straordinaria esperienza della creazione di un gingillo millenario…”.

“Ci mancherebbe…” asserisco più calma, sedendomi di nuovo accanto a lui.

“… ma intanto hai bisogno di una bacchetta… me ne frego della condanna…” continua Draco stoico “Da strega, sei forte quasi quanto me…”.

“Certo, quasi quanto te… credici, Malfoy…”.

“No, non lo credo… ne sono assolutamente sicuro…” ripete lui con un ghigno sarcastico, al quale sorrido condiscendente prima di alzare gli occhi al cielo spazientita.

“In ogni caso, avere una bacchetta ha due vantaggi: puoi difenderti, ovviamente… ed anche se non ci riuscissi, il fatto che non puoi usare la Magia attiverebbe l’ufficio per l’Uso improprio della magia stessa… ergo, se per ipotesi mi facessero fuori, saresti comunque in salvo… qualcuno del Ministero arriverebbe…”.

“Non dicevi che sei più forte di me? Siamo arrivati all’ipotesi che ti facciano fuori?” commento dura, la testa ghiacciata dal pensiero di vedermelo davanti morto.

“Si parla di ipotesi, Granger… te lo ripeto, è forse la prima volta nella vita da quando ho lasciato Hogwarts che ho più interesse a vivere che a morire… l’esperienza da Dante Alighieri mi è bastata per almeno una sessantina d’anni…”.

“Ne sono contenta…” ribatto più acida di quanto vorrei “Per un attimo avevo pensato che fosse per me e per Serenity che non volessi morire… ma ehi, troppa responsabilità dà alla testa, quindi grazie…”. Con un movimento brusco ed improvviso, il suo braccio mi cinge possessivamente la vita, trascinandomi all’indietro fino a ritrovarmi stesa sul letto accanto a lui. Si puntella su un gomito, girandosi verso di me e sovrastandomi con la sua altezza, resto schiacciata tra il materasso e lui. Il cuore riprende a battermi come impazzito, avendolo così vicino, a torso ancora nudo, gli occhi annebbiati di desiderio. Non credo che mi abituerò mai a questo. Draco fa scorrere l’indice sulle mie labbra, accarezzandomi piano, di riflesso sento la mia bocca aprirsi, già implorando che mi baci ancora.

“Non essere sciocca, Hermione Granger…” sussurra, gli occhi fissi sulle mie labbra “Adesso stai con me, non con Weasley o Thomas, non hai nessun alibi per diventare idiota…”.

“Che diamine vuoi dire?” ribatto con un scatto residuo d’orgoglio, serrando le labbra ed incrociando ancora le braccia in un moto di difesa.

“Hai bisogno che te lo dica ancora?” bisbiglia, accarezzandomi piano un fianco, scendendo poi giù lungo la mia gamba ancora nuda, chiudo gli occhi senza volerlo “Hai davvero bisogno che te lo dica ancora?”, le sue dita corrono sulla mia pelle con la tattile esperienza che gli consente di sfiorarmi soltanto, eppure di ridurmi in cenere “Dopo tutto quello che è accaduto, dopo che te l’ha detto anche Helena…”, torna al mio viso che riprende ad accarezzare con misurata lentezza “…dopo il modo che hai di farmi a pezzi se solo non mi dici che cosa pensi, dopo che mi fai desiderare di ammazzare tutti coloro che ti guardino anche un po’ di più di quanto dovrebbero… tu… hai bisogno che te lo dica ancora?”.

“Sì…” bisbiglio, riaprendo gli occhi e guardandolo dritto nei suoi, prima di sorridere: “Ho un insano istinto all’autocelebrazione… devi avermelo attaccato tu…”.

“Pessima mossa innamorarsi del serpente, Granger…” sussurra ad un respiro da me, prima di poggiare dolcemente le sue labbra sulle mie.

Mentre le sue dita si riappropriano dei pochi vestiti che indossavo e mentre ancora ripenso al fatto che stanno diventando un optional, mi regala un sospiro, lo soffoca sulla mia spalla, lo confonde con un morso, lo mescola ad un bacio, lo impasta con un respiro. Ed io, gli occhi nebulosi al soffitto, la mano che stringe i suoi capelli, le ginocchia attorno al suo bacino, ho un sussulto, lascio sfuggire una lacrima, lo abbraccio più forte.

“Non sei un motivo per non morire, Hermione. Sei un motivo per vivere… per vivere davvero… perché se oggi amo te come non pensavo di poter fare ancora, vuol dire che davvero posso fare tutto… anche vivere di nuovo…”.

Abbraccio la sua schiena mentre lo sento entrare in me, e per un po’ tra le sue braccia si acquieta quel senso acuto di malinconia, di nostalgia, di un rimpianto e di un rimorso che non hanno né forma né colore, che hanno la foggia di un tempo che non ci appartiene e che non ci fa chiamare Hermione Granger e Draco Malfoy, perché non c’è niente di peggio della nostalgia per le cose impossibili. E io avrò per sempre nostalgia di un tempo facile tra noi, di parole scontate, di silenzi inequivoci. Ed avrò sempre nostalgia di un universo in cui non è esistita alcuna Helena a farmi dubitare dell’amore che ha ed avrà per me.

Ma adesso… ora, mentre mi trafigge del dolore dell’amore… per oggi, basta che tu mi ami così.

 

 

Thomas è un idiota… non che non lo sapessi… ma l’essere sopravvissuto alla guerra, o essere uscito indenne dall’adolescenza mi avevano reso cautamente ottimista sulla ripresa funzionale delle sue sinapsi… e ha anche frequentato te, un minimo di giovamento poteva anche trarne…”.

“Se non la smetti, giuro che ti infilo una scarpa in bocca!”.

“Magari Granger, mi leveresti questo saporaccio infernale, qualsiasi cosa sarebbe meglio, anche una scarpa… Dio, ascoltare Thomas, come mi è venuto in mente?! Come se si affidasse il destino dell’Inghilterra a Luna Lovegood…”.

“Che altro hai adesso contro Luna?!! Ma come parli e parli, insulti qualcuno a cui tengo?!”.

“Bè non è colpa mia se hai sempre avuto una propensione per gli idioti, gli stralunati, gli imbecilli…”.

“Giusto, mi sono innamorata di te, come dimenticare?!”.

Stizzita, mi sporgo verso di lui e gli strappo dalle mani l’involto di cartone che regge con due dita, come se gli facesse enormemente ribrezzo anche solo toccarlo. Draco non si scompone minimamente e continua nella sua tiritera: “Solo lui poteva avere la brillante idea di rendere peraltro i cinesi ancora più ricchi di quello che già sono… già hanno conquistato mezzo mondo, aumentiamo anche i loro introiti… così al Petite Peste, organizziamo sit in per votare Dean Thomas come nuovo Primo Ministro… con tutto lo spazio libero che avremmo, sarebbe fattibile no? E tutto perché non abbiamo nel menù il…”, una smorfia lo spinge a guardarmi schifata mentre mangio in silenzio: “…gelato fritto…”.

Giuro che quando fa così, gli darei fuoco!

“Senti, Malfoy, nessuno ti ha obbligato a mangiare con me…!” inveisco, cercando di non sputacchiare in giro dato che ho la bocca piena “Era una cosa mia, non è che dovevi partecipare per forza… e poi che ne so, che non hai mai mangiato cinese in vita tua!”.

“Dici che vuoi mangiare per forza cinese, mi aspetto almeno l’ottava meraviglia del mondo gastronomico… invece carne di gatto morto… ed un involto dolciastro…” riprende lui, sistemandosi meglio seduto “E poi mi dici anche che era il cibo preferito di Dean Thomas… fantastico… come se non volessi scordarmi ogni minuto che sei stata con quello, prima che con me…”.

“Tu sei stato con Pansy Parkinson se è per questo… e mi stai facendo vivere anche a casa sua!” ribatto a tono, accalorandomi “E a proposito, non è che resteremo qui per molto, vero? Dopo che avremmo parlato con Harry di Astoria, possiamo anche andarcene e cercare di…”.

“Calma, calma… rallenta Granger, cos’è che dobbiamo fare?! Noi non ce ne andiamo proprio da qui…”.

Il braccio che reggeva la scatoletta di cartone bianca, decorata con complicati caratteri cinesi in rilievo di colore rosso, si affloscia, un secondo prima di un mio urlo innervosito che rompe l’atmosfera di quiete di questa calda serata di giugno. Che era iniziata davvero bene, intendiamoci, ma non è che uno può pretendere che io e Draco Malfoy possiamo restare nella stessa stanza per poco più di una mezz’ora, senza darci reciprocamente ai nervi. E sottolineiamo che siamo innamorati l’uno dell’altra.

Abbiamo passato due giorni sulle nuvole, restando quasi sempre nella mia camera con la sola compagnia di Serenity. Il momento in cui Draco ha rivisto la sua bambina, è stato forse il momento della mia vita in cui maggiormente avrei voluto piangere di commozione ma in cui mi sono trattenuta. Ho notato la piega impercettibile che Draco ha negli occhi ogni volta che mi metto a piangere fosse anche per felicità, è come se si incrinasse qualcosa in lui. Non sopporta le lacrime di nessuno, mi ha detto una volta a letto, perché non sa come gestirle… ma soprattutto le mie lo fanno impazzire. Quindi, insomma, sto cercando di reprimerle il più possibile. Non che sia stato facile, intendiamoci… mentre Serenity continuava a battere le manine come impazzita e a ripetere goffamente il suo nome, Draco mi ha allacciato per la vita tenendo sempre la bambina in braccio. Aveva gli occhi spaventosamente simili all’essere lucidi, ma il suo sorriso era splendente. Giuro che se avesse sorriso sempre così, mi sarei innamorata di lui a scuola, Serpeverde, Mangiamorte o qualsiasi cosa fosse stato. Ha guardato prima me, e poi Serenity, ha baciato la piccola sui capelli biondi e me sulle labbra, prima di sussurrare stringendoci: “Le mie ragazze…”.

Avete presente quando provate qualcosa di così forte che il cuore sembra non sopportarlo e avete l’impressione di stare male, malissimo, da non riuscire nemmeno a respirare, eppure quell’agonia è così dolce e piena che vorreste che non finisse mai? Ecco, la provo spesso oramai.

E non nei momenti nei quali io e Draco facciamo l’amore, o mi dice “ti amo”, o io gli rispondo nello stesso modo, o vengo così travolta dalla pienezza di amarlo e di essere amata da sentirmi mille persone in una. Contrariamente a quanto dice Malfoy, Dean aveva perfettamente ragione. L’amore non è grande, immenso, sterminato, come io ho sempre pensato. Non è la superficie marina che spaventa e terrorizza il marinaio, pur affascinandolo. Non è il cielo che il pilota brama solcare, sapendo che potrebbe anche non reggerlo e capricciosamente sbatterlo al suolo. Odiavo l’amore per questo, perché con il mio cuore piccolo, la mia mente minuscola e il mio corpo limitato, se fosse entrato davvero in me, mi avrebbe fatto implodere.

Invece l’amore è nelle piccole cose, si nasconde, si piega in un gesto, in un sorriso, in una frase detta per caso, in un abbandono che sa di friabile fiducia. L’amore è in quella caduta rovinosa che fai non vedendo un gradino, nella risata che ne viene fuori, nello sguardo ilare e preoccupato di un ragazzo biondo che ti ingiunge che sei un’imbranata.

L’amore è starnutire per un petalo di rosa che ti finisce sul naso, mentre fai l’amore in giardino una notte in cui non riesci a dormire, l’amore è in quell’ulteriore risata quando starnutisce anche lui.

L’amore è una mano che ti sposta i capelli dagli occhi, in uno sbuffo che ti viene naturalmente acido, mentre replichi che puoi anche legarli: l’amore è soprattutto quando ti senti dire che con i capelli in ordine, non saresti più la ragazza di cui lui si è innamorato.

L’amore è “Orgoglio e Pregiudizio” letto in una vasca da bagno piena di schiuma, dove a malapena ci state entrambi, dove gli dici che è uguale a Darcy e lui risponde che Wickham allora è Ron Weasley, glorificando Dio per non avere una sorella.

Ma l’amore è anche il contenitore vuoto del pollo alle mandorle che fende l’aria, colpendolo sulla fronte, dopo le sue stramaledette parole caustiche.

Dean ha sempre avuto ragione, sempre, e in due anni ha cercato di insegnarmelo, ma ero troppo ferita per capirlo.

Ora l’ho capito in un modo così assoluto che dovrei mangiare gelato fritto ogni santissimo minuto della giornata… ma, oltre a diventare una botte, Draco mi chiederebbe il perché e non vorrei mai trovarmi a raccontare tutta la storia. Sarebbe troppo imbarazzante… e poi è bella la condivisione, è bello stare assieme, ma è anche bello avere dei ricordi e dei pensieri solo miei.

E non c’entra niente una vendetta dei pensieri di Draco su Helena… per almeno due giorni, ad Helena per fortuna non ho pensato mai.

Avevo troppo di cui parlare con Draco… ci siamo raccontati tutto quello che è accaduto in questi mesi, dai ricordi che non avevo più potuto vedere. Tanti pezzi sono andati a posto, i suoi atteggiamenti, le sue parole: mi ha per esempio raccontato della conversazione che aveva avuto con Harry mentre ero in coma. Non era stata quella che mi aveva mostrato, aveva volutamente modificato i suoi ricordi: quello che invece era successo, era che aveva chiesto ad Harry di portarmi via di lì, di allontanarmi da lui, perché temeva che Astoria mi facesse del male.

Ed Harry, scioccato da queste sue parole, aveva pensato che potesse provare qualcosa per me… la conversazione telefonica che avevamo avuto, mentre ero con Hayden ed ero sotto il controllo dello Zahir, mi era parsa così strana proprio perché lui solo aveva la vera versione di quel giorno. Io ero invece certa che Draco gli avesse chiesto di darmi un lavoro solo perché non sopportava più di vedermi, come lo stesso Draco mi aveva fatto credere per allontanarmi da lui e da Astoria.

Che lei lo avesse minacciato, l’avevo già intuito, ma me l’ha raccontato meglio dopo… dicendomi che la sera in cui mi aveva trovato al pianoforte, soltanto pochi minuti prima, Astoria gli era apparsa davanti. Potente, minacciosa, ritornata una strega. Era furiosa e Draco aveva immediatamente intuito che la sua famiglia non aveva più voluto saperne nulla di lei. Gli aveva detto che era tutta colpa sua quello che le era accaduto, che oramai non aveva più niente da perdere, al contrario di lui che aveva ancora me e Serenity.

Ci avrebbe uccise, se non avesse rinunciato ad entrambe… e Draco ci aveva provato, ovviamente prima con me, manipolandomi e facendomi conoscere la sua storia con Helena.

Ma quella era ovviamente solo una parte del piano di Astoria: la parte successiva aveva avuto pieno esito positivo. Io avevo creato lo Zahir, rischiando di ucciderci entrambi.

Dopo tutto quello che è accaduto, penso che sia normale che per due giorni, mi sia tranquillizzata e mi sia semplicemente goduta la sua vicinanza, soprattutto dopo che anche Dimitri se ne è finalmente andato. Raissa ce l’ha riferito ieri mattina, dicendoci che non ci avrebbe più disturbato e scusandosi. Sembrava molto depressa e triste, e Pansy l’ha invitata a restare per qualche altro giorno… credo che si senta sola, Pansy intendo, senza i suoi e senza nemmeno Blaise. Draco mi ha confermato come avevo creduto che si sono lasciati, dopo che lei finalmente ha interrotto la loro relazione clandestina che durava da circa quattro anni. Blaise, infatti, è ufficialmente fidanzato con Daphne Greengrass, ma ha sempre amato lei, Pansy.

“Ma non abbastanza da rompere il fidanzamento…” ha commentato Draco quando ne abbiamo parlato, aggiungendo che tra circa venti giorni, Pansy andrà in Francia. Resterà per un anno a Parigi, a casa di una sua parente che le ha anche fatto avere un lavoro all’Ambasciata magica dell’Inghilterra. “Le farà bene cambiare aria” ha aggiunto Draco “Anche perché credo che Blaise oramai non potrà più rinviare… credo che si debba sposare per forza con Daphne e al più presto…”.

Ecco perché non capisco che ci facciamo ancora qui… dobbiamo parlare con Harry al più presto, dirgli di Astoria. Lui e gli altri, grazie ai maneggiamenti di Zabini, pensano che io abbia regolarmente sostenuto l’esame e ora sia ad Hogsmeade in vacanza. Credo che mandino anche in giro una specie di illusione ottica con le mie sembianze per rendere la storia credibile, e forse anche per far abboccare Astoria, che però sembra sparita. In ogni caso, per il momento Harry non mi contatterà, crede che io stia bene. Seth idem. Quando torneremo alla nostra vita solita?

Dopo essermi esercitata nella disciplina olimpionica del lancio degli oggetti contro fidanzati imbecilli ed aver attirato sia Pansy che Raissa in camera nostra, finalmente mi calmo, mi siedo sbuffando sul letto ed attendo spiegazioni, battendo il piede per terra. Pansy e Raissa, abituate dall’amichevole scambio di vedute tra me e il mio ragazzo, restano in ascolto appoggiate alla parete mentre Draco, dopo aver ovviamente borbottato per ore sul mio essere “violenta, manesca, assolutamente poco femminile e maledettamente lunatica”, si sistema meglio Serenity tra le braccia ed inizia ad esporre il suo grande piano. Dubito che lo sia, un grande piano intendo, potrei dirglielo anche adesso prima ancora di sentirlo, ma sono sempre stata una persona equa. Glielo dirò dopo averlo sentito. Non sia mai che divento una donna poco obiettiva per due giorni di vicinanza con Draco Malfoy… Serenity, in tutto questo, non si sa come, dorme tranquilla.

Le urla mie e di Draco, per lei, fungono da rilassata ninna nanna. Valle a capire le bambine…

“Allora stavo ragionevolmente esponendo le motivazioni per cui ci dobbiamo trattenere ancora qui, ma ovviamente la tua solita mancanza di stima nelle mie idee e di autocontrollo dei tuoi istinti, ha impedito che potessi terminare…” inizia Draco ragionevole, come se stesse parlando ad una povera pazza “Tutte le tue energie del resto sono deviate per digerire quella massa informe di calorie che hai osato anche chiamare cibo… dovrei anche capirti…”.

Al diavolo l’equità!

“Il tuo piano sarà una specie di fallimento preventivo, già lo so! Vogliamo ricordare la storia del “teniamo alla larga Hermione, mostrandole i miei ricordi”?! Certo, ha davvero funzionato!” inveisco, creando un fosso sotto il mio piede per quanto lo batto furiosamente sul parquet.

“Questi due già hanno bisogno della terapia di coppia… andiamo bene…” commenta Pansy scocciata, accendendosi una sigaretta che diffonde un quieto odore dolciastro di gelsomino. Raissa annuisce, alzando gli occhi al cielo.

“Vogliamo ricordare la storia d’amore della tua vita, Pans? Il fidanzato della tua migliore amica, ricordi?” ribatte a tono Draco, per nulla preoccupato di ferirla. Pansy fa spallucce e dice monocolore, senza nemmeno staccare le labbra dalla sigaretta: “Colpita”. 

Questi Serpeverde non li capirò mai…

“Vogliamo andare al punto della questione?” rimarca Raissa nervosamente, da quando Dimitri se ne è andato è nervosa praticamente ogni secondo della giornata e le salta la mosca al naso ogni tre per tre “Anche io voglio capire come si mette adesso la questione… ringrazio Pansy dell’ospitalità e certamente fino a che Dimitri non si sarà calmato, con buona pace dei miei nervi, ne approfitterò… ma se non vi sono più utile, appena possibile, me ne torno a casa e tanti saluti…”.

“Conosci una tale Tatia Krasova?” mi ricordo io improvvisamente, battendomi una mano sulla fronte, mi ero completamente dimenticata di chiederglielo. So che al momento non c’entra molto, ma rischio di dimenticarmene daccapo, specie se Draco inizierà a blaterare e mi verrà di nuovo l’istinto di prenderlo a picconate. Lui ovviamente se ne ricorda a sua volta, lo sguardo grigio passa da me a lei in attesa. Raissa si passa un indice sulle labbra rosse, riflettendo: “Credo di sì… se non ricordo male, era una ragazza del mio paese natale. Fu uccisa dai Mangiamorte in guerra…”, le sue spalle si contraggono mentre chiede casualmente: “Non è conosciuta in Inghilterra… che volete sapere?”.

“Niente, è solo che Draco…” inizio a spiegare, ma non riesco a finire perché Draco si siede accanto a me e mi interrompe dicendo: “Ne ho sentito parlare sulla via del ritorno, sembrava una piccola celebrità… e mi sono incuriosito. Che diamine lo esci a fare adesso il discorso, Granger?!”. Lo guardo senza capire, aggrottando le sopracciglia, ma, prima che possa replicare, dal suo sguardo intuisco che non vuole raccontare che cosa sia effettivamente successo con Tatia a Raissa. Mai fidarsi dei serpenti, sembra dire con gli occhi.

“Mi volevo distrarre dall’esposizione del tuo meraviglioso piano… e purtroppo non ci sono riuscita…” lo assecondo, sospirando languidamente, in fin dei conti conosce questo mondo meglio di me. lo vedo sorridere con gli occhi, mentre finge un’espressione rassegnata e cinica. Roteo gli occhi con un sorriso tirato, deve comunque spiegarmi perché non voglia parlare.

“Nel piano c’entro anch’io?” bofonchia Raissa scocciata, incrociando le braccia “Perché, in caso contrario, me ne andrei in camera…”.

“No, grazie Raissa…”.

Con un cenno del capo ed un “buonanotte” nervoso, Raissa lascia la stanza, i tacchi che battono ritmicamente sul parquet chiaro. Serenity fa una buffa smorfia, infastidita, mentre lei chiude la porta alle sue spalle, sparendo in una nube di costoso profumo francese.

“Quella non me la conta giusta…” bisbiglia Pansy alla porta chiusa, dando un’altra boccata alla sua lunga sigaretta sottile. La guardo non capendo, sbattendo le palpebre.

Draco ovviamente non si scompone per nulla, asserendo serio: “Nemmeno a me… grazie di averle offerto di rimanere… meglio tenerla sott’occhio…”.

“Non capisco…” ripeto guardando entrambi in attesa “Avete deciso di farla rimanere qui per tenerla sotto controllo? Perché non vi fidate di lei?”.

“E’ la sorella di Dimitri Karkaroff… ti basta come spiegazione Granger?” dice ovvia Pansy, spegnendo la sua sigaretta in un posacenere sulla specchiera e guardandomi come se fossi una bambina cretina “Hanno un discreto ascendente l’uno sull’altra… e se Karkaroff ha questa malsana ed assolutamente inspiegabile ossessione per te, non credi che tenere d’occhio sua sorella al momento sia quantomeno utile?!”.

“Non credo questo…” mormora Draco, stringendomi la mano mentre impallidisco un po’ spaventata “Raissa e Dimitri non sono mai stati fratelli nel senso comune del termine. Lo ha fatto andare via e per tutto il periodo in cui sei stata qui, lui non ti ha torto un capello grazie a lei… non credo che ti farebbe del male. Ma è anche vero che questa storia di Tatia mi puzza… e molto. Sono russi tutti e tre, Tatia, Raissa e Dimitri… e non credo alle coincidenze…”.

“Credi che abbia a che fare con loro? Ma lei non ha detto in proposito… sembrava non conoscerla… ”.

“Ovvio che non l’abbia fatto, ma…”.

“… ma lasciare la stanza appena è stato fatto il suo nome, è anch’essa una bella coincidenza…” completa Pansy, accendendosi immediatamente un’altra sigaretta. Draco annuisce con il capo pensosamente ed effettivamente anche a me adesso sembra strano. Non è sembrato che cambiasse espressione al nome di Tatia, ma in ogni caso è meglio non rischiare. Certo che è strano… in fondo, Tatia non voleva che Raissa si ricordasse di lei, voleva che me ne ricordassi io. Ma io non la conosco... secondo me, la stanno facendo troppo lunga.

Raissa ha confermato che è stata una vittima dei Mangiamorte, magari è davvero invendicata dalla sua morte e vuole solo giustizia.

“E’ questo il problema con voi Grifondoro, Granger…” biascica Pansy, sedendosi elegantemente su una poltrona a gambe accavallate “Se foste solo un pochino meno generosi nell’elargire fiducia a destra e a manca, non saremmo a questo punto… specie se non lo fosse Potter… ed è anche il Ministro… in che razza di mani siamo…”.

“Mi volete spiegare o no??!!”.

Draco si alza in piedi, dopo avermi dato Serenity in braccio, e misurando la stanza a lunghi passi, inizia a spiegarmi: “Come ti ho già detto, Potter sa perfettamente che ci sono delle spie al Ministero, degli infiltrati dei vecchi Mangiamorte… e mi ha sempre detto che, se fosse successo qualcosa, non avrei mai dovuto avvisarlo direttamente ma solo dopo qualche giorno per dargli il tempo di agire in modo che lo sapessero solo poche persone, quelli del suo entourage di cui si fida ciecamente. Circa una decina… di Grifondoro. Su loro ha sempre messo la mano sul fuoco… sbagliando…”.

“Che diamine vuol dire? Che ci sono spie anche in quelle dieci persone?! Non è possibile…! Li conosco tutti… e non ne sarebbero mai capaci…” inveisco, cercando di non muovermi troppo per non svegliare Serenity. Ecco perché me l’ha data in braccio… ha previsto perfettamente la mia reazione. Maledetto Malfoy.

Pansy sospira lungamente, annoiata, mentre Draco prosegue stizzito: “La stessa cosa che ha detto Potter… e credo che all’inizio avesse ragione. Ma da quando con Pucey e Montague c’è anche Astoria, le cose sono cambiate. Credo che abbiano qualcuno anche in quel gruppo… avevo preso una stanza alla Testa di Porco, credendo di dover aspettare per molto che Adamar mi trovasse, e da lì avevo tentato di contattare Potter… per fortuna non ci sono riuscito, non c’era. E nonostante avessi usato il solito nome fittizio che mi ha detto di usare per quando lo contatto, quella sera stessa la stanza è stata completamente messa a soqquadro… probabilmente mentre Pucey, Montague ed Astoria cercavano me, lei sa del nome falso che uso con Potter, mi ha visto chiamarlo decine di volte. Avrà detto a qualcuno di avvisarla quando chiamava quella particolare persona… ma per fortuna io ero già con Adamar, mi aveva trovato subito…”.

“Quindi credi che ci sia una spia anche tra quei dieci?” commento svuotata, i fatti ovviamente gli danno ragione. Non mi sorprende più di tanto, dopo aver saputo di che sono capaci gli Auror e dopo essermi innamorata di Draco Malfoy, non credo più in un mondo diviso in bianco e nero. Il mondo è grigio, lo è sempre stato, solo io mi illudevo del contrario.

“Sì, Astoria ha sempre avuto più contatti al Ministero… certamente di più di Pucey e Montague che sono latitanti dalla fine della guerra…” Draco prosegue, continuando a camminare nervosamente per la stanza “E sicuramente è una spia recente… sennò Pucey e Montague mi avrebbero trovato da anni, invece i loro contatti devono essere molto lontani dal Ministro… quindi al momento Potter è inavvicinabile. Abbiamo una buona copertura al momento, non c’è da preoccuparsi… Astoria non sa di Pansy, non sa che lei e Blaise sapevano che ero vivo, te l’ho già detto, qui siamo al sicuro per il momento… ma ovviamente Pansy deve partire e Blaise vive ancora con la sua famiglia, lì non potremmo certamente nasconderci. E comunque prima o poi, dobbiamo parlare con Potter, no? Il Petite Peste è protetto, compresi i ragazzi che ci lavorano, Astoria non può arrivare a loro… e ci sono frequenti controlli alle Passaporte internazionali, quindi escluderei anche i tuoi… e i tuoi amici del mondo della Magia sono protetti anche loro, sono nel mondo dove Astoria vuole rientrare, non farebbe mai fracasso uccidendo qualcuno per arrivare a noi… se la scoprissero, le cose si farebbero troppo difficili… dopo aver sistemato entrambi, lei vuole tornare alla sua vita, lo so, lo immagino. Non fa per lei la vita da fuggitiva…”.

“Quindi mettiamo anche che al momento siamo al sicuro… tra venti giorni saremo virtualmente punto a capo, non appena Pansy partirà…” ribatto pensosamente, so che ovviamente potremmo trattenerci qui anche senza Pansy, ma sarebbe più complicato. Vicini che notano strani movimenti quando la casa dovrebbe essere vuota, nessuna possibilità di rifornirci… senza contare che, come dice Draco appunto, con Harry prima o poi dobbiamo comunque parlare.

“La soluzione è ovviamente trovare la spia…” riprende Draco duro, sedendosi alla fine accanto a me “Cosa che servirebbe anche sotto un’altra prospettiva… trovandola, ci porterebbe a quei tre. E potremmo finirla con questa storia…”, il silenzio scende cupo a queste sue parole, non c’è bisogno di traduzione per sapere che cosa intende per “finirla con questa storia”.

“Io e Blaise ci stiamo lavorando… abbiamo un paio di sospetti in realtà… se la spia è di Astoria, c’è la buona possibilità che sia una donna, una sua amica probabilmente… è di donne nell’entourage di Potter ce ne sono tre: Demelza Robins, Lavanda Brown e Natalie McDonald…”. Le conosco tutte, ovviamente, e su tutte e tre non penserei mai nulla di male. Certo Lavanda è una ruba-fidanzati imbecille, ma da qui ad essere una spia ce ne passa, se non altro perché dovrebbe tenere la bocca chiusa, cosa che lei non farebbe mai. Demelza era una Cacciatrice quando eravamo a scuola, era molto amica di Ginny e combatté anche lei con noi nella grande battaglia finale… ed anche su lei non scommetterei nulla contro. Natalie era di tre anni più piccola di me, la ricordo come una bimbetta dolcissima ed anche adesso, è sempre rimasta una ragazza molto carina. Anche su di lei non penserei mai nulla di male. Mi mordo il pollice a disagio, scuotendo il capo incredula.

“Abbiamo pensato di lanciare una trappola, di dare una falsa esca… in modo di capire chi sia…” spiega Draco, con nonchalance “E vorrei cercare di elaborare bene il tutto prima che lo sappia Potter… so per esperienza come ragionate voi Grifondoro e so che non ci crederà mai… quindi preferirei arrivare da lui con le prove che la cosa è vera ed avendo anche un nome…”.

“E come arriveremo da lui? Il problema non è appunto che non sappiamo come arrivare da lui?” ribadisco, non seguendolo.

“Un modo per arrivare da lui c’è… ma abbiamo sempre una certa dose di rischio… ed inoltre, da quel momento in avanti, la questione sarà solo sua… la spia, Pucey, Montague ed Astoria… me li toglieranno dalle mani…” la voce di Draco è gelida come vento invernale, rabbrividisco ed il pensiero di Helena mi ritorna ancora in mente. Vendicarla è sempre più importante del resto. So che Astoria ha fatto male anche a me, anche io vorrei che pagasse ma non come lo vuole lui. Abbasso lo sguardo, chiudendo gli occhi.

Draco per fortuna non se ne accorge, riprendendo a parlare, con un sospiro sollevo lo sguardo di nuovo. Pansy ha gli occhi fissi su di me, mentre continua indolente a fumare, una scintilla nasce e muore sul suo viso, spegnendosi ed accendendosi. Mi stringo nelle spalle, terrorizzata che abbia intuito i miei pensieri.

“… quindi vorrei una decina di giorni per elaborare con Blaise un modo per scoprire chi è… mettere a punto un’esca che non metta al contempo a rischio me, te, Serenity o Pansy stessa. Se non ci riusciremo, chiameremo comunque Potter nell’altro modo… ma solo se non riuscirò a capire chi è la spia, solo così posso arrivare a quei tre senza che ci sia il Ministero di mezzo…”.

“Spiegale come arrivare a Potter, ci sarà da divertirsi…” lo interrompe bruscamente Pansy con un sorriso malevolo, un attimo dopo di avermi lanciato una lunga occhiata penetrante. Un brivido mi trapassa la schiena, quando capisco che Pansy Parkinson ha davvero intuito tutto. Lo ha interrotto volutamente mentre parlava ancora della vendetta per Helena. Non ci credo.

Lei ha capito.

Abbozzo un sorriso incerto, che Pansy ovviamente non ricambia, guardandomi disgustata. Forse mi sono sognata tutto.

Draco sorride alle parole dell’amica, dicendole che forse è meglio che lo spieghi lei stessa, dato che è una sua interessante scoperta.

Lei inizia gioiosa a parlare come se non ne vedesse l’ora: “Due anni fa, Potter e la Weasley si sono lasciati per un mese, lo sai no?”.

La mascella quasi mi si schianta a terra, stiamo davvero facendo pettegolezzi sulla vita sentimentale del Ministro in un momento come questo? E che diamine c’entra adesso?

“Certo che lo so…” ribatto acidamente, porgendo finalmente Serenity a Draco così da essere libera di spaccare la faccia al carlino Parkinson che sicuramente prima non mi ha assolutamente aiutato “Ma è stato per molto poco, c’erano delle incomprensioni leggere… Harry era appena diventato Ministro ed era difficile trovare tempo per Ginny, lei si sentiva trascurata e quindi…”.

“Chissenefrega della vita sessuale di Potter! Arriviamo al punto!” ribatte Draco scocciato.

“Si dà il caso che in quel mese, Potter sia stato ad una festa e si sia ubriacato… e si dà il caso che sia stato a letto con Daphne Greengrass…!” conclude Pansy con un sorriso mieloso, al che io effettivamente casco dal letto sconvolta. Ma possibile che alle mie spalle ne siano successe di tutti i colori??!! E quell’altro, tradire Ginny così!! Come si fa??!! Ma io adesso la chiamo, e lo scortichiamo vivo, chissenefrega dello stare nascosta!! Gli gratto via la carne dalle ossa con le unghie!! Maledetto, e si sta anche per sposare!!!

Draco osserva ridendo la mia manovra, mentre mi arrampico nuovamente sul letto: “Almeno se fa il moralista sul venire a letto con un Serpeverde, saprai che rispondergli…!”.

Lo guardo senza replicare con gli occhi ridotti a due fessure, prima di dire con voce strozzata: “Ginny lo ammazzerà quando lo saprà, è la sola cosa che mi fa stare seduta qui e non mi fa uscire per prenderlo a padellate…!”.

“La Weasley lo sa…” commenta annoiata Pansy, ravvivandosi i capelli “Figuriamoci la moralità di Potter… se non glielo avesse detto… e la Piattola se l’è ripreso…”.

“Ginny lo sa???!!” ribatto ancora, artigliandomi all’angolo del letto per non cadere ancora riversa a terra. Come se fosse emerso da una nebbia confusa, mi ricordo un discorso di tanto tempo fa con Ginny… io parlavo di Draco che era ancora perso dalla sua ex… e lei…

“Che palle ste ex! Sono la rovina della società… il crescente numero di divorzi deve essere dovuto a loro…”.

“Harry non ha delle ex vere e proprie… di che ti lamenti?!”

“Lasciamo perdere, decisamente!!” .

Evidentemente si riferiva a questo, al fatto che Harry fosse stato a letto con Daphne.

“E quindi? Tutto questo che cosa dovrebbe portare di buono a noi? A parte i vostri sorrisini imbecilli?” commento caustica, mentre entrambi continuano a sogghignare.

“La Greengrass deve solo ringraziarmi che le ho lasciato il suo principe azzurro…” ribatte Pansy con voce atona, osservandosi le unghie “Sarebbe facilissimo convincerla che deve semplicemente contattare Potter per parlargli di quella notte, altrimenti mi riprendo Zabini con tanto d’interessi… certamente Potter non ha interesse che la storia si venga a sapere, specie se è così vicino alle nozze… e non lo direbbe a nessuno del suo entourage. Cosa che invece non possiamo escludere se lo contattassimo o io, o Blaise… o qualcun altro…”.

“E all’appuntamento con Daphne, ovviamente ci saremmo noi due…” completa Draco, guardandomi in attesa.

Paradossalmente il suo piano è anche buono, non posso negare che i Serpeverde se si tratta di mettere assieme sesso e potere, sono sicuramente i numeri uno. Annuisco con il capo, dando il mio tacito assenso per non darli troppa soddisfazione, stendendomi stancamente sul letto.

“Bè, io me ne vado a letto…” dice Pansy, alzandosi dalla sedia e stiracchiandosi come un gatto “Per favore, se non riuscite a dormire, giocate a scacchi magici… ma il sesso nel mio giardino, tra le mie rose, non rientra nei concetti di ospitalità… non credo che rientrasse nemmeno in quella di quei perversi dei Greci… insonorizzate la stanza e bruciate le lenzuola, piuttosto…”.

Arrossisco come un pomodoro, aspettando che esca per affondare il viso nelle lenzuola.

Draco sorride ancora, poggia Serenity nella sua culla accanto al nostro letto, poi spegne la luce, stendendosi accanto a me. Nel buio, si muove piano vicino a me, facendomi appoggiare la testa sul suo petto mentre mi accarezza la schiena piano, lambendo i riccioli dei miei capelli sciolti.

“Dieci giorni, Hermione… solo dieci giorni…” la sua voce è inghiottita dal nero della stanza, soffice risuona nel suo torace sotto il mio orecchio.

“Perché proprio dieci?”.

“Per Pansy… sarà il suo compleanno tra dieci giorni… e farà una festa. Vorrei essere qui… sono anni che manco perché vivo da babbano. Ed andarmene prima, proprio ora che sono qui, dopo tutto quello che sta facendo per noi… e con quello che sta passando…”.

“Ok…” sussurro colpita dalla dolcezza della sua voce mentre parla della sua amica “Con dei Confundus saremo abbastanza irriconoscibili anche per la gente che verrà qui, credo… ma non potrebbe invitare Harry così da farla finita?”.

Draco ride, continuando ad accarezzarmi i capelli con dolcezza: “Io e te siamo la prima cosa simile ad un rapporto di qualsiasi natura tra Grifondoro e Serpeverde, nonostante la pace, nonostante tutto, Hermione… credi che Pansy inviterebbe mai Harry Potter alla sua festa di compleanno? Ed anche se la convincessi, credi che lui verrebbe? Ed ammesso e non concesso che accada, alla fantomatica spia apparirebbe subito come strano…”. Certo, il mondo non ha vissuto la stessa rivoluzione che abbiamo visto insorgere io e lui nei nostri cuori.

Fuori da questa casa, al di là delle rose, il mondo è sempre rimasto uguale.

Harry va a letto con Daphne ma deve nasconderlo a tutti, una spia Grifondoro fa il doppio gioco per i Serpeverde ma probabilmente va a cena con il suo capo, Zabini non saluterà Ron per i corridoi del Ministero e Pansy non avrà altro uomo al di fuori di uno che si dipingeva il viso di verde ed argento.

“A che pensi?” mi chiede Draco, toccandomi la guancia con l’indice.

“Al guaio in cui ci siamo cacciati… sei cosciente che, anche quando con Astoria sarà finita, per noi sarà sempre così?”.

“Così, come?” la voce di Draco, tirata, si stempera nell’ultima sillaba, mentre solleva il mio viso e mi bacia nel buio. Chiudo gli occhi, aspirando il suo sapore e il suo profumo, lasciando che le sue braccia si chiudano sulla mia vita e che le sue dita giochino con la pelle tesa dei miei fianchi.

Si stacca da me, sussurrando poche parole, prima di riprendermi a stringere. E ringrazio il buio come se fosse un amico, come se fosse il mio confidente. Nasconde caritatevole la lacrima che sfugge dai miei occhi prima che Draco se ne accorga, cela il suo percorso bagnato sulla mia guancia e camuffa la sua morte sul mio collo.

In una lacrima, piccola come tutte le cose piccole in cui si nasconde l’amore, si racchiude la felicità più strabordante che si possa provare al mondo.

Una felicità che ha la voce di Draco, mentre dice poche, piccole parole, nascoste dal buio.

“Prego Dio ogni giorno per questo… e se esiste, me lo deve… mi deve che tra me e te sia per sempre così…”.

 

 

“Una mocciosa di undici anni non avrebbe quell’espressione nemmeno il primo giorno di scuola… per Merlino, Granger, datti una calmata…”.

Senza nemmeno accorgermene, mi giro su me stessa e sorrido come non ho mai fatto proprio a lei, proprio a Pansy Parkinson e alla sua voce caustica ed acida. Lei, ferma sulla porta, inarca un sopracciglio, guardandomi incerta, poi scuote il capo con rassegnazione e sorride a sua volta lievemente, pensando che io mi sia già voltata. Per salvare il suo orgoglio, fingo abilmente di non aver visto quel sorriso e torno a giocherellare con la bacchetta che finalmente mi hanno dato. Seduta davanti alla specchiera, aspettando di prepararmi per la festa di compleanno di Pansy, da circa un’ora muovo il polso e lascio che dalla punta della bacchetta escano poche e coloratissime scintille luminose. Rosse, gialle, azzurre, poi d’improvviso nere, dorate, argentate, arcobaleno.

Le guardo e sorrido come una bambina piccola. Io sono la magia. Non credevo davvero che mi mancasse così tanto.

Draco, dopo dieci giorni di attesa, finalmente ha acconsentito a darmi una bacchetta, non è ovviamente la mia, sembra anche un po’ vecchia e logora dall’uso, forse è nella famiglia dei Parkinson dai tempi della Regina Vittoria. Ma sentire sotto i polpastrelli la superficie lignea di una bacchetta, è una cosa che non saprei descrivere senza uscirmene con parole assurde e ridondanti e senza forse anche mettermi a piangere. È l’ultimo pezzo della mia vita che torna indietro, dopo essermi stato strappato con la forza in questi anni, rinsaldandosi in un mosaico dal disegno intimamente diverso, ma dalle tessere profondamente simili al passato. È come avere tra le mani gli stessi colori, identici, averli sempre usati per disegnare le stesse cose, e ora scoprire che puoi disegnare anche altro.

E mancava la magia, il suo colore. Mi mancava per sentirmi completa.

Certo, Draco me l’ha data come estrema risorsa, conta sempre di proteggermi lui da qualsiasi cosa, ma stasera con la festa ha ritenuto più prudente darmela direttamente. In dieci giorni, Dimitri non si è fatto vedere, Astoria come sempre oramai non mi tange più se non raramente nei sogni, Pucey e Montague sembrano dissolti con lei. Siamo più calmi, ovvio, ma non siamo al sicuro.

Per dieci giorni, Draco ha cercato con Zabini di scoprire chi fosse la fantomatica spia, ma senza apprezzabili esiti. È furba, se mai avessimo dei dubbi. Draco è riuscito solo a restringere il tiro, escludendo come prevedibile gli uomini. È una donna, una tra Lavanda, Demelza e Natalie. Per ovvi motivi, io dubito di Lavanda Brown, probabilmente è ancora suo sommo desiderio che io sparisca del tutto e le lasci libero campo con Ron, anche se dubito che pensi che io possa essere ancora un ostacolo. Cavolo, se poi è davvero in contatto con Astoria, a questo punto dovrebbe sapere della mia relazione con Draco…

Lui invece è convinto che sia Demelza la spia, crede di ricordare di aver ucciso forse suo fratello per sbaglio. Ma non ne è sicuro. E Zabini pensa che sia Natalie perché “è troppo carina, come minimo nasconde teste di Troll sgozzati sotto il letto”. Ergo, non siamo arrivati a nessun punto.

Draco con riluttanza, ha accettato quindi che entri in campo Daphne Greengrass.

Stasera lei verrà alla festa e Pansy gentilmente le ingiungerà di convocare il Ministro a casa sua in uno di questi giorni.

Forse, così facendo, tra domani e dopodomani finalmente potremo tornare a Londra.

È oramai più di un mese che sono qui, rinchiusa. E desidero davvero farmi una passeggiata, rivedere i miei amici, andare anche a prendere uno stupido tè o leggere un libro in un parco. E non averlo potuto fare per Astoria Greengrass, è davvero al limite della pazzia… in questi giorni, Draco ha dovuto spesso trattenermi quando, presa da una sindrome al limite della claustrofobia, minacciavo di uscire da sola e di schiantare qualsiasi cosa si muovesse così da farla finita finalmente con Astoria.

Ovviamente tali momenti sono stati sempre abbastanza rari e controllati. Sono chiusa in una casa da un mese, certo, ma sono sempre chiusa in una casa con il ragazzo che amo e con una bambina che adoro. E dopo tutto quello che abbiamo passato io e Draco, anche una serata in giardino semplicemente a mangiare del gelato sotto le stelle diventa un’esperienza da ricordare.

Nei giorni, nel tempo che passa, Draco si trasforma sempre di più da rovente novità a calda abitudine.

E per me, che non vivo delle onde passionali delle storie d’amore da romanzo ma di quelle dolci della vita vera, sicuramente rappresenta una bella conquista.

Iniziare a capire le sue espressioni, i suoi silenzi, i suoi gesti; sapere come vuole mangiare un determinato piatto e poterlo prevedere; conoscere un ricordo che lui condivide ridendo con me, anche se quando era accaduto probabilmente io pensavo a lui nei termini di un furetto che meritava solo di restare appeso ad un palo… tutte queste cose, che solo la frequentazione ti consente di avere, sono passi importanti che si ottengono giorno per giorno, con la costanza di formiche e la diligenza di api. Amare non è un verbo statico, è un verbo in fluire che ha a molto a che vedere con l’impegno. Ed io, ogni giorno, prima che pensare alla pelle di Draco, al suo odore, alle sue labbra, attrattive così immense da farmi crollare al suolo in estasi, devo sempre impormi di pensare all’impegno di stare con lui, oltre alle facili trappole dell’attrazione. Ci attiriamo come se ci fossimo solo noi sulla Terra e in questa casa, al punto da fare l’amore nei posti più impensati, nei momenti più imprevisti… ed è stupendo, sconvolgente come poche cose al mondo. Ma abbiamo anche due caratteri così opposti che ogni momento di comprensione fa rima con uno di bisticcio e con uno di silenzio stizzito… e iniziare a capire che cosa porti al primo, cosa al secondo e cosa al terzo di quei momenti, è una recente vittoria. Una vittoria di dieci giorni, certo, acerba ed immatura, ma che si preannuncia dolcissima. Sono felice, tanto, troppo, anche se chiusa in una casa da un mese, in compagnia di Pansy Parkinson e sotto la minaccia di una pazza assassina.

Questi dieci giorni sono volati, davvero, come se ogni giorno fosse un secondo ed ogni secondo non sapessi nemmeno misurarlo.

Draco ha fatto spesso tardi con Blaise, chiuso in salotto, ad elaborare teorie su teorie.

E io mi addormentavo in camera abbracciata a Serenity, svegliandomi quando lo sentivo tornare. Lui si stendeva pigramente accanto a me, scuotendo il capo in assenza di novità, stringeva me e la bambina e si addormentava subito… poi ha chiesto a Blaise di venire di giorno, perché odiava arrivare a quello stato semi-comatoso di sera.

E a quel punto, per forza di cose, ho dovuto passare molto del mio tempo con Pansy. Raissa, da quando Dimitri è andato via, trascorre molto del suo tempo in camera sua, non accenna ad andarsene eppure preferisce trascorrere il tempo da sola. Sia a me, che a Draco e Pansy ovviamente questo comportamento sembra sempre più strano, specie perché loro due continuano a ribadirmi che lei e Dimitri non si sono frequentati per anni dopo l’incontro con Adamar. Paradossalmente è stato Draco a riunirli, quando li ha salvati dal pericolo di essere coattivamente assoldati come Mangiamorte… quindi non sappiamo, né capiamo perché Raissa stia così. E al contempo, se la sua reazione è preoccupazione per il fratello, non capiamo perché non torni da lui.

Nei momenti di noia ho fatto delle ricerche su Tatia Krasova ed effettivamente è come pensavo una vittima dei Mangiamorte uccisa durante il periodo di pace tra la prima e la seconda guerra. Le indagini si impantanarono ad un punto morto e, appurato che era stata una vendetta trasversale per alcuni contatti del padre con i Mangiamorte, non si è mai capito chi fosse stato ad ucciderla. Era molto giovane, vent’anni appena compiuti e si era appena sposata… ma a parte questo, di lei si sa poco e nulla. Credo che, quando tornerò a Londra, cercherò delle maggiori informazioni sulla cosa. Lei voleva che mi ricordassi di lei, è il minimo che possa fare capire chi l’ha uccisa.

In quei momenti, in cui cercavo delle notizie su Tatia mentre Draco era con Blaise, ho sempre avuto Pansy accanto a me. Senza una parola, quando Blaise arrivava, lei si chiudeva in biblioteca dove spesso c’ero già io, si sedeva su una poltrona stinta dietro la finestra e fumava anche per ore, guardando il cielo cambiare colore. In un momento preciso, come se fosse un cane che avverte la fine del pericolo, si alzava in piedi, spegneva la sigaretta nel posacenere ed usciva fuori, il passo deciso.

Potevo giurare su tutti i galeoni dell’Inghilterra che, in quel momento, anche Blaise se ne era andato. 

I primi giorni restava seduta lì, senza fare assolutamente niente, senza parlarmi, senza guardarmi. Poi, un giorno, avevo portato Serenity con me, lei continuava a giocherellare con una bambola di pezza e all’improvviso l’ha chiamata, ridendo. La chiama “zia”, me ne sono sempre accorta e credo che comunque, anche se sotto la copertura da babbano, Draco continuasse a frequentare Pansy.

Pansy ha sorriso, si è alzata e ha preso a giocare con lei.

E da allora non si è più seduta dietro la finestra. Si è sempre messa a giocare con Serenity che da quel momento in avanti, non ho più lasciato a Lyria ma ho sempre portato con me.

A volte, si è anche messa ad aiutarmi con le ricerche indolentemente, con l’aria di chi cercasse solo di occupare il tempo, condendo ogni pagina letta di commenti malevoli e di sarcastici appunti, a cui rispondo ovviamente a tono. Ma qualcosa è cambiato, non molto, ma qualcosa sicuramente sì.

Draco Malfoy è una palestra notevole nell’avere a che fare con i Serpeverde: quando impari ad andare oltre i loro motteggi velenosi, capisci cosa davvero vogliano dire. Pansy Parkinson non è una mia amica, intendiamoci, ma ora la vedo meglio, riuscendo ad andare oltre alla sua apparenza sgradevole e fastidiosa. È una ragazza sola, depauperata di tutto, compreso il suo nome e il suo ricco lignaggio. Ma soprattutto soffre, molto, per amore. Non ammetterebbe mai di avere bisogno di compagnia, tratta ancora me e Draco come l’abominio della razza umana, eppure ho l’impressione netta e precisa che non vorrebbe che andassimo via. Sebbene non mi sopporti, sebbene io non la sopporti, sebbene non è convinta ancora della relazione mia con Draco e sebbene non abbia nemmeno tutta la pazienza di stare dietro a Serenity, è contenta a suo modo che siamo qui. In fondo, devo davvero ringraziarla. Sono diventata più indulgente, adesso. E lei, a suo modo, lo sta diventando a sua volta. Camuffa le gentilezze dietro strati di cinismo, farcisce i complimenti di insulti e maschera l’interesse di menefreghismo ostentato… e io faccio lo stesso.

Credo che siamo nel bel mezzo della più grande tregua della storia moderna, coniata ad uso e costume di una tattica volutamente femminile.

Come se fossimo coscienti tutte e tre, io, Pansy e Serenity, anche se è solo una bambina, che siamo le tre donne della vita di Draco Malfoy: l’amante, l’amica e la figlia.

Amandolo così come lo amiamo noi, in modo diverso, sapendo di non poter vivere senza tale amore per lui, ci siamo adattate a questa pace.

Pansy ha bisogno del suo migliore amico. Serenity ha bisogno di quello che considera a pieno titolo suo padre. E io ho bisogno del ragazzo che amo.

Per osmosi, ognuna di noi avrà bisogno che ci siano le altre due per avere Draco felice. E al momento, è la sola cosa a cui, coscienti o no, sappiamo pensare.

In questo, tante cose diventano ovviamente possibili, compreso il fatto che Pansy mi aiuti a prepararmi per stasera. Lei ha detto solo: “Devi fare la parte di mia cugina e quindi ne va della mia dignità che tu sia decente… non credo che i Confundus coprirebbero i tuoi capelli sciatti… meglio che ti sistemi io, Lyria non sa che cosa significhi stile e compostezza…”.

Quindi mi sono seduta pazientemente in attesa, con addosso la solita vestaglia viola di raso, passando il tempo con la mia bacchetta. Si sa quanto sia refrattaria alle pratiche femminili, quindi non mi ha creato troppo disagio l’idea che mi dovesse agghindare Pansy Parkinson. Ha migliorato il suo gusto negli anni e in ogni caso, devo sembrare sua cugina quindi non penso che mi metta a forza in un involto da meringa come fece lei in occasione del Ballo del Ceppo.

E, in quel caso, ho una meravigliosa bacchetta da poterle puntare contro, paventando le peggiori maledizioni esistenti. Ah, che bella sensazione…

Pansy, dopo avermi dato con freddezza una collana con il ciondolo a forma di rosa, aggiunge a mo’ di spiegazione: “Contiene una sostanza che Confonde… sembrerai un’altra persona ad ogni strega o mago che posi gli occhi su di te, tranne ovviamente a me e a Draco… e qualora sia assolutamente necessario fare presentazione, dì solo che sei mia cugina Calista Parkinson, non parli bene l’inglese perché sei di origine portoghese… e defilati… meno particolari dai, meglio è…”. Porto il ciondolo al viso, il profumo del nontiscordardime è molto intenso. Lo lego al collo con attenzione.

Pansy si sistema alle mie spalle, prendendo a spazzolarmi i capelli mentre borbotta commenti sarcastici sulla loro forma, il loro colore ed ogni altro tipo di particolare che le salti in mente, ovviamente con il solito inciso finale: “Non capisco come Draco si sia potuto innamorare di te e di questa specie di zazzera che hai in testa…”. Nonostante le mie rispostacce e nonostante mi esibisca nel solito spettacolo da pesce palla, lei ovviamente non demorde, ma lo ripeto, per quel poco che la conosco, adesso, so che è il suo goffo modo di fare conversazione. Quindi non mi irrita più di tanto… anche se di riflesso, la solita ombra scura che talvolta prendono i miei pensieri, sceglie proprio quel momento per tornare pressante nel mio cervello.

Intrecciando le mani in grembo, a sguardo basso, sussurro incerta: “Posso farti una domanda?”.

“Certo che no… se vuoi l’amichetta del cuore, provvedo a chiamarti la femmina Weasley e ti fai una bella chiacchierata…” borbotta Pansy, continuando ad armeggiare con i miei capelli.

Ovviamente la ignoro, dal riflesso dello specchio noto infatti che i suoi movimenti si sono fatti più lenti, segno che mi sta ascoltando.

Esito ancora qualche minuto, prima che lei mi rintuzzi, e quindi accenno con un filo di voce: “Hai mai conosciuto Helena?”.

Pansy, dietro di me, contrae un attimo le spalle e per un attimo i suoi occhi incrociano i miei attraverso lo specchio, mentre smette di spazzolarmi. Fa un sospiro rumoroso e dice velenosa: “E’ un’ossessione, vero? Draco ha la sensibilità di un Ippogrifo quando ci si mette… e manco se ne rende conto di quanto ti struggi al pensiero, Granger… comunque sì, i suoi capelli erano decisamente meglio dei tuoi…”.

Le confidenze con Pansy Parkinson… Dio, che diamine mi è saltato in mente…! E va bene la pace armata, va bene che mi sto facendo anche sistemare placidamente da lei, ma da questo alle confidenze ce ne vuole! Che poi, sono proprio imbecille, mai fidarsi dei serpenti…! Quella è sicuro che lo dice a Draco…! Boccaccia mia maledetta!!

“Era una bella donna, se mi stai chiedendo questo…” prosegue improvvisamente lei, la guardo dallo specchio senza capire, continua a spazzolarmi pensosamente i capelli come se ne andasse della sua vita “Molto bella. Ma lo sai… era una modella. Ed era una Greengrass… è sempre stata il mio mito e di Daphne. Vivevamo per essere come lei, senza riuscirci ovviamente… e quando Draco si è messo con lei… credo di averlo ammirato più di quanto facessi a scuola. Mi sarei innamorata di lui solo perché aveva Helena… assurdo…”.

Mi viene da sorridere, ma mi trattengo, un po’ perché temo che smetta di parlare, un po’ perché l’aura di leggenda che circonda Helena mi provoca come sempre la solita fitta al cuore, tanto da farmi chiedere che razza di istinto masochista io abbia per sabotarmi da sola la felicità.

“E se vuoi chiedermi anche come era Draco con lei, rispetto a come è con te… bè, era un’altra persona…” aggiunge casuale, guardandomi infine “Era diverso, molto… una donna che non potrai mai avere del tutto, che è di un altro, che ti si concede solo per pochi preziosi attimi… e che in più è così bella, così perfetta… sono cose potenti per un uomo, Granger, non devo certo dirtelo io…”.

La fitta al cuore diventa una stretta soffocante, so che non sta mentendo, so che non vuole ferirmi. È sincera, dannatamente sincera.

“Non sarò mai alla sua altezza, vero?” commento con un filo di voce, senza accorgermene, il peso delle lacrime che mi scava gli occhi per uscire, ma che trattengo con forza.

“No, Granger, non lo sarai…” prosegue Pansy, la sua voce è quasi un velo soffice, ancora non ci scorgo nemmeno l’intenzione lontana di farmi del male “E non ci devi nemmeno provare… mai… sennò ti rovinerai la vita e la rovinerai a lui… a me sembra inconcepibile, lo sai… ma è innamorato di te… fattelo bastare per oggi. E non pensare a lei…”.

“Tu vivresti così? Ce la faresti?” ancora la mia voce va fuori controllo, esce dalle rotaie, se ne va per conto suo.

Pansy ci riflette qualche attimo, come se davvero se lo stesse chiedendo, poi bisbiglia, aprendo appena le labbra: “Oggi no, Granger… sono diventata troppo egocentrica negli anni e ho bisogno di un uomo che sia solo mio… ho diviso troppo con un’altra per dirti che lo rifarei ancora, anche se quest’altra fosse morta… ma l’ho fatto. E non è detto che finisca come è finito per me…”.

“Certo, grazie…”.

“Nella mia intenzione, volevo dissuaderti…” sorride lei, riprendendo a spazzolarmi i capelli, le sorrido inespressivamente di rimando. Non mi ha detto niente di male, niente di sbagliato, è stata onesta. Ovvio che se avessi parlato con Seth o con Ginny, loro mi avrebbe indorato la pillola, mi avrebbe detto cose del tipo che Draco mi ama molto, che ha fatto di tutto per me e che non devo preoccuparmi. Ma loro non l’hanno visto con Helena, io sì nei ricordi di Draco, Pansy anche. E soprattutto lei non avrebbe mai potuto usare parole enormi per definire quello che c’è tra me e lui: non sono quella che augurava al suo migliore amico, mi ha visto con lui per dieci miseri giorni e con lei per anni. Probabilmente spera ancora che lui rinsavisca, ma è stata obiettiva come poche: ha ammesso che è innamorato di me e mi ha detto di vivere nel presente, cosa che ho sempre detto anche io. Di sbagliato lei non ha detto nulla.

Eppure sentire dalla voce di un’altra persona, così diversa da me, ma al contempo così legata a Draco, tutto questo, l’ha reso più reale di quanto già non fosse.

Terribilmente più reale.

Respiro profondamente, a lungo, cercando di darmi forza e cancellando quei pensieri. Lui mi ama, mi ama, devo pensare solo a questo. Ed Helena fa parte del suo passato.

Questa terribile altalena emotiva mi sta facendo andare ai pazzi, sta eliminando tutto il mio buonsenso e tutta la mia logica, oltre che la mia serenità e felicità. Non posso permetterglielo.

Basta paranoie: vivrò nel presente, senza scadenze, senza programmi, senza impegni. Il tempo mi darà le risposte che cerco.

Pansy finisce di sistemarmi i capelli, aiutandosi con la bacchetta, e poi esce per andare a prepararsi a sua volta, dandomi le ultime raccomandazioni. Aggiunge che Draco mi aspetterà di sotto dato che ha ancora delle cose da organizzare con Zabini. Mi guardo allo specchio, stranamente la Parkinson ha fatto un ottimo lavoro. I miei capelli sono ondulati, morbidi, lucenti, ricadono in boccoli sulle mie spalle, trattenuti da un fermaglio d’argento sulla nuca.

In poco tempo, aprendo il mio armadio, trovo l’abito che avevo già pianificato di indossare: lungo, semplice, di seta, con delle ruches sull’orlo e sulla scollatura. E rosso. Adoro il rosso, ma non amo indossarlo, credo sempre che sia troppo per me, che diventi troppo appariscente. Ma è la prima occasione “pubblica” di essere la ragazza di Draco Malfoy, anche se nessuno mi riconoscerà… e soprattutto, dopo gli ultimi pensieri, ho bisogno di coraggio anche visivo per avere sicurezza in me stessa.

Quando la musica dal piano di sotto comincia a salire assieme al vociare confuso degli invitati, mi guardo allo specchio mentre completo il mio abbigliamento con un paio di orecchini d’argento, un bracciale sempre d’argento ed un goccio di profumo. Con mia somma sfortuna, tutte le scarpe dell’armadio sono con dei tacchi altissimi e sono costretta ad indossarne un paio di colore nero con il cinturino alla caviglia. Nascondo la bacchetta sotto il vestito e controllo che la collana sia al suo posto, poi, respirando profondamente, apro la porta, decidendomi a scendere.

La musica di un gruppo d’archi mi raggiunge subito e, affacciandomi sulla scalinata che porta al salone principale, noto che Pansy ha decorato tutta la casa con motivi di rose rosse e stampe floreali dello stesso tipo, che ricoprono divani, sedie e tendaggi. La stessa aria profuma di rose, dire che è fissata è dire poco. La intravedo chiacchierare amabilmente con alcuni Serpeverde che conosco, trasalisco reggendomi al corrimano della scala quando la vedo conversare amabilmente con Astoria Greengrass e Theodore Nott. Ma dal sorriso di lei e dalla piega diversa dallo sguardo, mi appare subito evidente che non si tratti della vera Astoria: è la sosia che vive a casa sua e che la sua famiglia ha accettato al posto suo, in quanto capace ancora di generare figli.

Mi chiedo come facciano gli altri invitati a non accorgersi che non sia lei: è vero, questo è un mondo fatto di apparenze, di poca sostanza. La stessa Pansy, in questi giorni, cianciava a caso di persone che era costretta ad invitare per formalità, ma che detestava cordialmente ricambiata. E quindi chiunque guardi Astoria, forse vede solo il perfetto abito di satin dorato, o il perfetto modo che ha di portare i lunghi capelli biondi, o il perfetto mascara che le incornicia lo sguardo ceruleo. Forse chi vede un po’ oltre, vede anche il modo affettuoso che ha Theodore di stringerla per la vita, di baciarla ogni tanto sulla tempia o di sussurrarle qualcosa in un orecchio. Ma chi come me non è mai entrata in questo mondo, vede invece tutto.

Astoria non ha mai sorriso così, entusiasta, felice, colpita da tutto come se lo vedesse per la prima volta… e considerando che Draco parlava di una che avevano raccattato per strada, ci sta che adesso pensi di aver vinto alla lotteria. La cosa che però, nonostante tutto, mi porta a sorridere sinceramente guardando lei e Theodore è captare un pezzo della loro conversazione, mentre li passo accanto, finendo di scendere con attenzione le scale.

Theodore si china alla sua altezza e lo sento sussurrare nell’orecchio di lei: “Ricordati che Pansy è la migliore amica di tua sorella… fingi che lo siano davvero amiche, ma non darci troppo peso. In realtà si odiano…”. La falsa Astoria sorride, annuendo, e gli accarezza piano il viso. Sorrido, scuotendo il capo. Theodore sa che non è la vera Astoria… ma evidentemente gli va bene così.

Cerco per la stanza piena di gente Draco, ma non riesco a riconoscerlo, magari il suo Confundus agisce anche su di me… ma no, Pansy ha detto che il mio non agisce su di lui, perché diamine dovrebbe essere diverso al contrario? Mi guardo attorno per cercare almeno di localizzare Zabini, ma niente. Come sempre, quando sono in mezzo alla gente, specie se mi sento osservata, inizia a prendermi la solita ben nota sensazione di disagio e cerco una via di fuga. La portafinestra che conduce in giardino è aperta, magari riesco a nascondermi lì…

“Buonasera…!” mi sento afferrare bruscamente per un polso, mentre qualcuno mi fa ruotare su me stessa. Accigliata già faccio saettare il braccio in direzione della bacchetta, ma poi mi tranquillizzo vedendo che si tratta solo di un tipo sulla quarantina, con una lunga tunica verde smeraldo, che Pansy prima ha salutato come “il mio vecchio amico Robert”.

Sorrido educatamente facendo un cenno del capo e cercando al contempo di sfuggire dalla presa ferrea e sudaticcia dell’uomo.

“Lei deve essere Calista… la cugina di Pansy, vero?” mi chiede curioso, avvicinandosi molto più di quanto dovrebbe ed respirandomi in faccia con il suo mostruosamente disgustoso alito alcolico. Annuisco con il capo, a quanto pare sono portoghese, quindi non è che debba parlare più di tanto. La stretta dell’uomo, che è visibilmente sbronzo, si fa ancora più salda.

Se non si stacca tra quattro secondi netti, cugina portoghese o no della Parkinson, lo schianto all’istante.

“Lo sa che è una bellissima donna? Per Merlino, se avessi dieci anni di meno… ma come si dice, lasciamo decidere alla donna…!” ride sguaiatamente della sua battuta senza senso, avvicinandosi ancora e tentando di abbracciarmi. Ringhiando, cerco la bacchetta pronta a puntargliela addosso.

Improvvisamente la mano che stringeva il mio braccio si stacca violentemente da me, ricacciata indietro da un’altra mano. Mi volto nervosamente, masticando ancora amaro, trovandomi Draco ad un tiro dal mio viso, l’espressione dura.

“Buonasera Robert…” sibila calmo, mettendosi immediatamente accanto a me “Ha conosciuto la mia fidanzata, Calista? Non è meravigliosa?”.

Robert, capita l’antifona, borbotta qualcosa e fa marcia indietro, allontanandosi.

Sospiro a lungo, voltandomi a guardarlo. Inutile dire la paresi facciale che devo autoimpormi per non iniziare ad arrossire come una mocciosetta. Draco ovviamente mi appare nel suo aspetto consueto, biondo, con gli occhi grigi, la linea dura della mascella e il sorriso sarcastico. Il completo grigio che indossa, fa risaltare i suoi occhi in modo quasi fastidioso, e la cravatta non allacciata che pende sulla camicia bianca, gli danno un’aria ancora più strafottente del solito. Spero davvero che il Confundus nasconda quell’espressione, è troppo immatricolata in Draco Malfoy per non riconoscerlo. Per qualche secondo, il suo sguardo si perde sul mio viso, sfiora la mia pelle, mi mette a disagio in modo assurdo, mentre mi stringo nelle spalle, maledicendo il mio dannato vestito rosso. Poi, senza dire una parola, in mezzo alla sala piena di persone che hanno iniziato a ballare nella semioscurità, mi stringe per la vita e mi bacia a lungo, intensamente, come se ci fossimo solo io e lui al centro esatto della stanza e del mondo intero. Trasportata dal suo bacio, dalla luce soffusa e calda e dalla musica dolce che spinge le coppie a ballarci attorno, gli chiudo le spalle con le braccia, alzandomi in punta di piedi sui miei tacchi scomodi e chiudendo gli occhi.

Quando si stacca da me, rimanendo con la fronte poggiata sulla mia, mi rendo conto che goffamente e senza accorgermene, abbiamo iniziato a ballare come tutte le altre coppie attorno a noi, stretti, vicini, come non siamo mai stati in mezzo all’altra gente.

“Devo tipo tenerti legata per evitare che qualche maschio ti si avvicini troppo?” mormora, riaprendo gli occhi, scintille bronzo nell’argento “Passi per Karkaroff, ma adesso che stai con me, ti si azzeccano tutti?!”. La sua voce suona calda e vibrante e, nonostante me ne vergogni profondamente, la sua gelosia si traduce in una stretta allo stomaco piacevole e calda.

“Bah, sarà il Confundus e l’aspetto di Calista Parkinson… mica vedono davvero me…” commento stoica, senza scompormi e guardando altrove oltre la sua spalla.

Le sue dita sollevano il mio mento, costringendomi a guardarlo in viso: “E non sanno che cosa si perdono…”. Ancora, chiude le sue labbra sulle mie, baciandomi ancora.

Vorrei rispondere che anche nel suo caso, non sanno che cosa si perdono, ma il suo ego si gonfierebbe fino all’inverosimile, quindi meglio stare zitta.

Piegando la testa di lato, sorridendo, sussurro: “Mi hai chiamato la tua fidanzata…”.

“Tecnicamente ho chiamato Calista la mia fidanzata…”.

“Certo, certo… se fossi stato te stesso e io me stessa, avresti usato un’altra espressione, tipo… che so…” bisbiglio meditabonda, mettendo un finto broncio.

“La mia amante, la mia compagna di letto… ce ne sono tante… non amo le etichette…” commenta lui casuale, curioso di dove stia andando a parare il discorso.

“Tutte, tranne fidanzata, insomma…”.

“Esatto… tecnicamente si dice fidanzata quando indossi un anello e una pietra all’anulare… e non mi pare che tu ce l’abbia…”.

Una botta alla nuca, un brivido sulla schiena ed una voragine che si apre sotto i piedi. Stavo scherzando, volevo provocare un po’ Draco, sentirgli dire come mi avrebbe chiamato, scommetto che stava scherzando anche lui. Ma eccolo lì, ancora quel pensiero… sta diventando peggio di una malattia.

Helena ce l’aveva un anello.

Abbasso lo sguardo, chiudendo ancora gli occhi, mi sento un’imbecille, una cretina patentata. Ecco, per quanto mi sforzi e mi sforzi, io nel presente non ci so stare: mi struggo per il passato e mi angoscio per il futuro.

“Hermione…” la voce di Draco mi riporta alla realtà, alle sue braccia attorno alla mia vita e ad uno dei momenti più belli della mia vita che sto facendo di tutto per rovinare “Guarda che stavo scherzando… stai diventando un po’ troppo seriosa ultimamente…”, mi guarda con attenzione in viso, socchiudendo gli occhi e irrigidendosi, prima di sussurrare: “… e stai anche piangendo…”.

“Non sto piangendo…” ripeto instupidita, toccandomi le guance. Ed invece sì, sto piangendo, le guance sono bagnate, non me ne sono nemmeno resa conto.

“Che cosa hai? Non credere che non me ne sia reso conto…” riprende Draco, il tono duro “Ogni tanto ti estrani, diventi fredda, chiusa… a che diamine pensi? Ho lasciato correre perché hai diritto di avere cose che non mi vuoi dire… ma riguardano me, non sono idiota, Granger… e sta accadendo sempre più spesso… sta diventando seccante…”.

“Scusami se sono la perfetta non fidanzata seccante…” borbotto innervosita, lasciando cadere le braccia dalle sue spalle e stringendole al petto.

“Tendenzialmente non sei così seccante… al momento però credo che tu sia andata decisamente in overdose…” replica Draco senza scomporsi, guardandomi severamente e lasciando la presa attorno alla mia vita. È come se mi andasse il sangue alla testa, penso a Pansy che ha capito subito che cosa ci fosse di strano in me, nonostante forse mi odi ancora o comunque io non le stia sommamente simpatica. Penso invece a lui che non si accorge di niente, a lui che mi ha messo quest’altare davanti agli occhi con Helena da adorare ogni santissimo minuto della giornata. E so che non è razionale, so che è assurdo anche solo pensarlo, ma è come se lui non abbia mai lasciato che lei morisse davvero, come se ci goda enormemente a lasciarla tra me e lui.

Altro che vivere nel presente…

Non ce la faccio, non riesco a sopportarlo.

Le lacrime agli occhi, il labbro che mi trema, mormoro: “Non sia mai che tu mi debba sopportare… meglio che ti lasci in pace, no? Del resto non sono nemmeno la tua fidanzata, non devo nemmeno restituirti un anello o simili…”. Senza lasciare ai miei occhi lo strazio di guardarlo ancora, mi volto su me stessa ed attraverso correndo la sala ancora piena di gente che balla. Incespico sulle scale, a causa di questo stupido vestito, e ritorno velocemente in camera mia. Non ho neanche fatto in tempo a chiudere la porta e a raggiungere il letto dove mi lascio cadere senza forze, che la porta si riapre ancora e Draco entra trafelato, chiudendosi la porta alle spalle con violenza. Il buio della notte senza luna mi nasconde clemente ai suoi occhi, nessuno dei due osa dire una parola o accendere una luce, solo l’affanno del suo respiro e il singhiozzo soffocato nel mio petto spezzano il silenzio ovattato che ci circonda.

“E’ per la faccenda dell’anello?” la sua voce incerta mi coglie del tutto impreparata, ho un brivido sulla schiena nuda e mi stringo nelle spalle.

“Che cosa?!” chiedo autenticamente confusa, asciugandomi in silenzio le lacrime dagli occhi.

Draco fa qualche passo, vedo la sua ombra fermarsi davanti al letto e restare immobile. La luce dell’esterno lo illumina malamente, sposta il peso da una gamba all’altra a disagio. Credo che sia la prima volta che lo vedo autenticamente imbarazzato. E non capisco perché.

“Sì… insomma…” prosegue sempre con un filo di voce, gli occhi bassi “La faccenda della fidanzata, l’anello e tutto il resto… guarda che stavo scherzando… se credi che io…”.

Esasperata chiedo ancora: “Che tu che cosa?”.
“Che non voglia impegnarmi con te o cose simili…” finisce lui con voce monocorde, scompigliandosi i capelli con una mano e nascondendomi così l’espressione del suo volto, prima di soffiare con tono nervoso: “Dio, mi sento un idiota…”.

Continuo a guardarlo con sguardo decisamente poco intelligente, ma non ci posso fare nulla, non riesco assolutamente a capire dove voglia andare a parare. Se ne sta lì immobile, a cianciare di anelli, mentre io a tutto sto pensando tranne che a quello. Ricostruisco a fatica gli ultimi momenti della nostra conversazione alla festa, lo scherzo che gli stavo facendo a riguardo del non sentirmi chiamare la sua fidanzata. Sbuffo, deve aver pensato che volessi un impegno formale di qualche tipo da parte sua. E io sono invece lontana mille miglia da questo.

Faticosamente apro le labbra, massaggiandomi sfibrata la tempia: “Impegnarti? Guarda che non volevo dire che…”.

“Ascoltami, avevo già pianificato tutto questo…” mi interrompe immediatamente lui, con un lungo sospiro nervoso, prima di sedersi sul letto accanto a me. Gli occhi grigi restano ipnotizzati dal muro di fronte a noi, senza posarsi su di me nemmeno per sbaglio. Le spalle sono serrate, chiuse, come se si stesse tenendo stretto a sé stesso per impedirsi di scoppiare via. Respira ancora profondamente prima di aggiungere con voce velata di fastidio: “… ma ovviamente con i tuoi atteggiamenti hai dovuto rovinare tutto… e adesso sembrerà una cosa fatta apposta…”.

Ancora più innervosita, trattenendomi dal digrignare i denti dalla frustrazione, ribatto: “Non ti seguo, Draco…”.

Finalmente il suo sguardo torna al mio viso, ha il colorito roseo di chi sta arrossendo e davvero è qualcosa che non sapevo scientemente che Draco Malfoy potesse fare. E non c’entra niente il fatto che abbia l’incarnato così pallido, la pelle così chiara da sembrare quasi trasparente. Semplicemente lui spesso sembra una creatura di un altro mondo, a limite tra l’essere un angelo e un diavolo.

Arrossire è una cosa così umana che non sapevo gli appartenesse, mi provoca la stretta dolce al cuore che provai la prima volta che mi sorrise o in cui lo vidi piangere.

“La festa… Pansy… è stata una scusa…” bisbiglia, guardandosi le mani contratte “Volevo che te lo ricordassi… volevo che… insomma, che fosse una cosa…”.

Sta persino balbettando, assurdo. Forse ha battuto la testa, non c’è altra spiegazione. Cavolo, sono la sua pseudo ragazza da dieci giorni e mi conosce da anni… adesso è diventato timido? E poi mi sta facendo decisamente preoccupare… già al momento non sono lucida, figuriamoci se si mette anche a cavillare su cose che non capisco. E che diamine significa che la festa era una scusa?!

“Continuo a non seguirti…” borbotto innervosendomi ancora di più, mi sono fatta truccare e vestire da Pansy Parkinson, indosso un vestito rosso che non avrei mai indossato, mi sono fatta alitare in faccia da un porco ubriacone, mi sono dovuta ricordare di Helena per la quarantesima volta in dieci giorni, per una “scusa” partorita chissà perché dalla sua mente malata??!!

Incrocio le braccia insofferente, guardandolo storto e biascicando: “Ma la cosa peggiore è che mi sono iniziando anche a preoccupare che tu abbia subito un serio danno celebrale…”.

“Potresti stare in silenzio circa trenta secondi o ti si squaglia il cervello in caso contrario?” mi risponde acido, le mani di nuovo distese sulle ginocchia, guardandomi in tralice con cattiveria. 

“Non mi hai definita, com’era, ah giusto… seccante?!”.

“Mai trovata definizione più calzante…” asserisce convinto, socchiudendo gli occhi.

“E quindi?!”. Se sta cercando di farmi innervosire ancora di più, ci sta riuscendo perfettamente…

Improvvisamente i suoi occhi cambiano, sono onde dolci di gennaio alla luce della luna piena. Ipnotici, come sempre sono stati. La nenia del loro riflesso nella mia mente, che mi incatena i pensieri e mi impedisce di ragionare. E si scioglie la rabbia, si scioglie il ricordo, si scioglie il rancore. Mi sciolgo io stessa. Deglutisco a disagio, non riuscendo comunque a staccarmi da lui.

Sorride piano, dolcemente, sospira ancora. E sembra quasi rassegnato, come se accettasse qualcosa che non riesce a cambiare, che non vuole cambiare.

E dice solo, accarezzandomi piano una mano: “Voglio che tu sia seccante solo con me… per tutto il resto della mia vita…”.

Il cuore mi salta nel petto, mandandomi in fiamme il viso. Forse dalle vene della mano, che lui ancora stringe, può sentirne il rintocco cupo nel mio corpo. Mi mordicchio l’interno della guancia, sfuggendo i suoi occhi che mi illuminano in viso come se fosse una luce nel buio. Calma, Hermione, stai calma. Non può essere quello che hai capito… dai, insomma, non scherziamo. Sta cercando di blandirti perché ha visto che ti sei arrabbiata con lui… e adesso come un qualsiasi uomo che si rispetti, sta dicendo parole volutamente grosse per impedire che ti arrabbi ancora di più, certo, è così… insomma non può voler dire che… spio con la coda dell’occhio il suo viso, ha ancora gli occhi saldamente puntati nei miei e quell’instancabile mezzo sorriso sghembo che ha sempre quando incrocia il mio viso. Il cuore mi fa un’altra capriola tra le costole, dandomi la sensazione soffocante di non riuscire nemmeno a respirare più. Quello sguardo… non può essere… la mano che stringe ancora nella sua, trema sudando come se stessi correndo. Calma, Hermione, ti stai sicuramente sbagliando…! Calmati! E di Malfoy che stiamo parlando… figuriamoci… sarà un altro dei suoi sporchi mezzucci per ridurmi buona! Certo, sarà così…

Cercando di darmi un contegno, lo guardo ancora di sbieco, non osando affrontare i suoi occhi così dannatamente chiari da darmi il sangue alla testa. Poi sospiro sicura e dico tracotante, incespicando comunque nelle parole: “N-non stai dicendo quello che ho capito, v-vero? Non può essere che tu…”.

“Sto dicendo esattamente questo invece…” dice con un filo di voce, la sua mano che stringe ancora più forte la mia.

Un nodo in gola, lo seguo con lo sguardo mentre armeggia con qualcosa nella tasca interna della giacca. Lo vedo a rallentatore, con gli occhi sbarrati, estrarre una piccola scatoletta di velluto azzurro che deposita sul mio grembo con cura. Non oso toccarla, non oso nemmeno sfiorarla, la guardo e basta. Soffoco con la mano libera un singhiozzo che mi scappa dalla gola, mentre sussurro: “O mio Dio…”. Le dita si bagnano di lacrime, mentre il cuore non smette di martellarmi nelle orecchie, un fiume di lava nello stomaco.

Draco si avvicina ancora, il suo profumo mi sembra più forte di quanto non sia mai stato. Sfiora il mio fianco con il suo, prima di sollevarmi il viso con entrambe le mani. Mi trattiene così ad un tiro dai suoi occhi, le labbra che si schiudono appena, gli occhi annebbiati. Guardandolo, ogni pensiero svanisce ancora. Persino il peso della scatoletta sulle gambe evapora, me ne dimentico.

Il cuore si calma, dismette la sua ansia febbrile. Siamo solo io e lui. Come sempre.

Quando sembra accorgersi che mi sono calmata, la sua voce mi sussurra sulle labbra: “Ascoltami, so già adesso che cosa dirai. Che è presto, che sei giovane, che hai solo ventitré anni, che la nostra vita è un tale casino che pensarci adesso… è assurdo, e hai ragione. Ma io non ho bisogno di conoscerti ancora, di sapere ancora chi sei… io ti conosco da tutta la vita, Hermione. Sei sempre vissuta parallelamente alla mia vita e tutte le tue gioie in questo mondo, a suo modo, sono state le mie. Così come i dolori… non mi serve conoscerti ancora, giocare ai fidanzati per altri dieci anni, andare a feste come questa, sfoggiarti come un trofeo davanti a Potter… non mi serve. Ho bisogno solo di averti accanto… solo di sapere che ci sei, per sempre. E questo è il solo modo.”, fa una pausa sofferta, abbassa gli occhi, sembra cercare qualcosa nella sua testa come a pulire un pensiero. Poi riprende, la voce più roca: “Vorrei poterti dire che non c’è egoismo in me, che non è perché cerco un modo qualsiasi per legare la mia vita e la tua ed impedire che si sciolgano… ma mentirei… io ti amo, Hermione Granger, e voglio che tu resti per sempre mia… tu sarai mia moglie un giorno… io lo so e lo sai anche tu. Diventalo oggi, adesso. Abbiamo cercato di sfuggire a tutto questo per mesi… e non ci siamo riusciti. Non ci riuscirà nemmeno Astoria, Karkaroff… o chiunque altro si metta in mezzo tra me e te…”, chiude gli occhi un attimo, prima di sussurrare ancora: “Sposami Hermione…”.

“Non lo stai dicendo sul serio, vero?” bisbiglio ancora, un capogiro mi fa barcollare, stringo la manica della sua giacca come se temessi di cadere anche da seduta.

“Non sono mai stato così serio in tutta la mia vita…”.

“E S-serenity? Io non sono pronta… non posso essere… sua madre… io non…”.

La mia testa è decisamente in cortocircuito, non so nemmeno io che cosa sto dicendo. E che cosa sto pensando. Che c’entra adesso Serenity? Mi ha chiesto di sposarlo, mio Dio… Draco Malfoy mi ha chiesto di sposarlo. Stiamo assieme da dieci giorni… e mi ha chiesto di sposarlo. Mio Dio, non ci posso pensare… credo che collasserò al suolo tra cinque secondi.

Draco sorride ancora, accarezzandomi i capelli: “Serenity ti adora… tu adori lei… non mettere paletti a quello che potreste essere l’uno per l’altra… io non sono suo padre, non mi considero tale. Non ci dobbiamo chiamare mamma e papà per amarla come l’amiamo io e te…”.

“Ma… Astoria… Pucey… e… poi… il Ministero… n-no…” continuo a balbettare sconvolta, affastellando motivi su motivi, domande su domande, cose su cose, pensieri su pensieri. Su tutti primeggia il poco tempo passato assieme… ogni pensiero, appena spunta all’orizzonte, sembra così grande da darmi il panico. Poi torno a guardare Draco, e il pensiero diventa piccolo piccolo. Come in un gioco d’ombre si appiattisce al suolo, diventa un riflesso inconsistente sotto una luce troppo luminosa.

Ed allora lo cerco nella mia testa, come si cercano i residui di un incubo al risveglio. Ed è sparito. Non riesco a trovare un solo singolo motivo che mi impedisca di sposarlo adesso, oggi, sempre.

Dieci giorni che stiamo assieme?

Sono stati i giorni più belli della mia vita in ventitré anni. Se non sono stata mai felice in vita mia in questo modo, vuol dire che posso esserlo solo con lui. Non ho bisogno di altri dieci anni da passare con lui da “fidanzata” per saperlo. Lo so già adesso.

Astoria, Pucey, Montague, Dimitri?

Non mi faranno mai del male, fin quando sono con lui. Non faranno mai del male a lui, fin quando è con me. Non lo permetterò. Non lo permetterà.

Harry, Ginny, Pansy, Blaise, Ron, Dean, Lavanda, i miei?

Capiranno. E se non capiranno… non fa niente. Posso vivere anche senza di loro, ma non senza di lui.

Sono solo una cameriera, non sono una strega, non so che fare della mia vita.

So esattamente che cosa fare della mia vita.

Sarò sua moglie. Sarò la moglie di Draco Lucius Malfoy. Indipendentemente da tutto il resto.

Lentamente, come se andassi a fuoco per i miei stessi pensieri, sollevo il viso guardandolo, mentre dice con un sussurro flebile: “Niente e nessuno si potrà mettere tra me e te… niente….”.

Le lacrime mi impediscono di vederlo bene, il nodo in gola non mi fa parlare, annuisco piano balbettando. Lo attiro vicino a me, tirandolo per il colletto della camicia e baciandolo con foga, come se ne andasse del restare viva, come se ne avessi bisogno per non lasciare ai miei pensieri il modo di arrivare alla mia testa. Draco mi cinge accogliendomi nel suo abbraccio, e vorrei dirgli di sì, vorrei dirgli di sposarci adesso, subito, immediatamente, prima che questo stesso bacio finisca, vorrei dire tanto, vorrei dire tutto, vorrei dire che lo amo, che è tutto per me, vorrei dirgli quello che di solito trattengo per pudore, o per paura di sembrare ridicola, o per paura che si inorgoglisca troppo. Tutto vorrei dirgli, tutto, dalle parole più grandi a quelle più piccole, a quelle più stucchevoli, alle più idiote, a quelle scontate, a quelle che mi farebbero sembrare sciocca. Voglio chiamarlo amore, così, con naturalezza, firmare il mio nome con il suo cognome. Tutto questo, tutta questa follia di pensieri senza nome, li riverso nel bacio che gli do, sperando che capisca. E lui risponde al mio bacio, allo stesso modo. E toccandoci poco, sfiorandoci appena, facciamo l’amore in un modo nuovo.

Con un sorriso radioso, si stacca da me senza dire una parola. Con lo sguardo accenna alla scatoletta ancora sul mio grembo, me ne ero completamente dimenticata. Asciugandomi le lacrime, la apro. Produce un piccolo suono metallico strozzato, prima che la luce perfetta del diamante mi si riveli. Riluce qualche secondo nel buio, poi sparisce.

Sparisce.

Tutto viene risucchiato nel buio, tutto. Le parole bloccate in gola, le promesse, le lacrime, i pensieri appena inventati. Un buco nero che assorbe la luce. Stritola Draco, cattura me, per poi sputare pezzi informi da cui non si riconosce che cosa ero e cosa sono.

Raggelata, è come se mi svegliassi da un brutto sogno. Da un orribile incredibile sogno, che mi sembra persino di aver davvero fatto una vita fa: una proposta di matrimonio, un anello di diamanti tra le mani, la sensazione di essere risucchiata via. E il cuore che mi si spezza irrimediabilmente.

Tremo come non ho mai tremato, il tempo si ricuce, i pensieri diventano di nuovo montagne insormontabili, il profumo di Draco sparisce come fumo d’incendio.

Tra le mani, balugina qualcosa che non mi appartiene. L’ho riconosciuto subito.

L’anello di Narcissa Malfoy, prima. Quello di Helena Jasmine Greengrass, dopo.

Mi ha appena chiesto di sposarlo con l’anello che aveva dato a lei.

L’anello è come un Dissennatore, materializza tutte le mie peggiori paure. La schiena formicola di sudore freddo, mentre la nebbia dei pensieri mi offusca gli occhi. Le lacrime si asciugano, divento lucida, consapevole, vuota, come se fossi appena uscita da una doccia fredda. Stormi neri dove prima c’era cielo accecante: e così, improvvisamente, tutto sembra sbagliato. La paura di Helena diventa tangibile, reale; ha adesso le fattezze dell’oro bianco e del diamante e non c’è più niente dietro cui possa nascondermi. Vivere nel presente è impossibile, sapendo che Draco adesso ha chiesto di impegnarmi indefinitivamente per il futuro. E tutto, tutto, tutto, dalla prima all’ultima cosa, trova posto in un mosaico scomposto di paure. Non mi provocano panico, ansia, angoscia. No.

La cosa peggiore è che rimango assolutamente inerme, tranquilla, calma. Rassegnata.

Del tremendo e meraviglioso uragano interiore che mi ha sconvolto fino a poco fa, resta solo la polvere lercia.

Sollevo gli occhi asciutti, lo guardo ancora con quel sorriso immenso che gli illumina il viso, ma che poi si spegne subito. Non scorge più le lacrime calde nei miei occhi e ne ha terrore, stringe gli occhi grigi non capendo. E forse maledice di avermi detto che odia vedermi piangere. Adesso odia di più non vedermi piangere.

“Ed Helena? Lascerai a lei invece di potersi mettere tra me e te? Quello andrà bene, invece?”.

Già il silenzio che muta, già la morsa gelida nel mio respiro, già il fatto che lui trattenga il suo, già l’odore stesso della stanza che cambia… già tutto questo dovrebbe farglielo capire. Come può non averlo mai capito? Basta il nome di lei, basta solo e soltanto il suo nome che tutto cambia tra me e lui, come se in un regno retto da un usurpatore, per caso, nel bel mezzo della sala del trono, si facesse il nome del sovrano legittimo. Le lacrime occupano i miei occhi di nuovo, la calma si sgretola, si spezzetta come foglie secche.

Draco mi guarda attonito, come se gli avessi dato uno schiaffo, come se avessi calato un coltello nel suo fianco: “Che diamine c’entra Helena adesso?”.

Scuoto il capo non capendolo, non capendo come faccia a non arrivarci. Quel piccolo movimento della mia testa mi restituisce rabbia, confusione, cala la notte sui miei pensieri. Mi alzo dal letto, singhiozzando, vado avanti ed indietro per la stanza, l’anello ancora tra le mani. Lo torturo senza ritegno, prima di sputare fuori: “E’ il suo anello, Draco, dannazione! Il suo anello… non ci posso pensare… ed avevo quasi deciso che…”.

“Hermione, calmati, insomma… che c’entra Helena? Che cosa c’entra lei adesso? Perché la tiri sempre in ballo?!” mi raggiunge, afferrandomi e trattenendomi per le braccia, ma mi divincolo allontanandolo ed urlando in preda ai singhiozzi: “Io?!! Io la tiro in ballo?!! È il suo anello! Il suo anello! L’hai dato a lei, hai chiesto di sposarla con lo stesso anello!”, Draco mi guarda senza capire, ferito nello sguardo. E quello, se possibile, mi urta ancora più di tutto il resto. Mi urta che ancora non capisca.

Tutte le premure, tutte le resistenze, tutte le reticenze del caso crollano del tutto.

E dico quello che penso da dieci giorni, ma che non avevo mai avuto il coraggio di dire per non fargli del male.

Sollevo gli occhi, contraendo le labbra: “Che c’è, sono una specie di sostituta per te? La copia malriuscita che ti va bene avere adesso?!”.

E gli faccio male sul serio, adesso. Si allontana da me come se scottassi, fa qualche passo malfermo indietro, mi guarda come se mi vedesse per la prima volta. Mi vedo nei suoi occhi, le spalle chiuse, i pugni serrati, il volto chiazzato e bagnato, i capelli spettinati, lo scintillio furioso dello sguardo. Come sempre, in poche manciate di attimi, Draco recupera sé stesso, nasconde l’incertezza, la mette a tacere, si serra in sé stesso chiudendosi a doppia mandata. Recupera la distanza persa con me, mi si para davanti in tutta la sua altezza e stringe forte le labbra facendole quasi sparire.

“Non usare le mie parole per difendere te stessa e i tuoi ragionamenti idioti, non te lo permetto… se non mi vuoi sposare, dimmelo adesso… ma non tirare in mezzo Helena… lei non c’entra niente…”, la sua voce scende di tono, si vela di tristezza ed aggiunge: “E’ stata persino lei a portarti da me… e tu adesso…”.

“Il problema non è Helena! Sei tu! Tu e basta!”, quella tristezza nello sguardo mi accende come benzina sul fuoco “Tu che non riesci a lasciarla andare, tu che continui a vivere come se lei fosse solo partita per un viaggio, tu che non mi consenti mai di dimenticare che è esistita, tu e basta!”.

La razionalità è un lusso che non riesco più a concedermi, eppure sono talmente presente a me stessa da capire ogni sua espressione. L’amore è il grande assente, ecco perché. Non lascio che mi controlli, che mi distolga da me stessa, non lascio che apra bocca. La tristezza di quegli occhi la odio come non ho mai odiato niente in vita mia, è la stessa tristezza che aveva quando mi ha parlato per la prima volta dell’incontro con Helena e capì che era stata lei a portarmi da lui. Adesso la distinguo nettamente, chiaramente. E fa un male atroce, come se mi svuotassero il cuore con un cucchiaino. Non ho mai consentito a me stessa di vedere davvero, appiattita nel presente come avevo desiderato per andare avanti con lui. Ma adesso che lo scintillio di un diamante mi ha proiettato un riflesso di me e lui nel tempo che scorrerà da questo momento in poi… adesso vedo tutto disgustosamente bene.

“Non sai di che cosa stai parlando…” ripete lui, come se non capisse il senso stesso delle sue parole. Scuote solo il capo, allontanandosi ancora. Non glielo lascio fare, lo afferro per la giacca, gli prendo il viso tra le mani, lo costringo a guardarmi in faccia.

“Guardami adesso, guardami in faccia adesso…” ripeto, piangendo, pregando, implorando, maledicendo il suo sguardo ostinatamente basso “Guardami negli occhi adesso… e giurami che stasera, adesso, la lascerai andare. Davvero, non per finta come hai sempre fatto… giurami che, usciti da quella porta, rinuncerai per sempre all’idea di vendicarla. Per sempre, non come fingi… perché lo so Draco, lo so… domani vedremo Harry e fingerai che ti vada bene che cerchi lui Pucey e Montague, ma invece… non rinuncerai mai. Dimmelo adesso che lo farai, che sceglierai di vivere accanto a me. Che non penserai mai più che sia stata colpa tua che è morta… giurami adesso che non hai mai pensato che la tua vera vita fosse quella con lei…”, chiudo gli occhi e la nefasta ispirazione di quella tristezza che ho visto adesso nei suoi occhi mi travolge come un’onda pestilenziale, e devo dire anche questo, devo impedire che seppellendolo per non fare male a lui, finisca per fare male a me. Gli accarezzo piano lo zigomo con un pollice e sussurro: “Giurami adesso, Draco… che quando hai saputo che è stata lei a portarmi da te, non hai pensato nemmeno per un secondo che lei avesse scelto di rinunciare di nuovo a te… anche dall’aldilà… dimmi che non hai pensato ancora che per l’ennesima volta, non sei stato così insostituibile per lei, al punto che addirittura ha cercato un’altra per te…”, sobbalza, trasale, chiude gli occhi e già intuisco la risposta alla domanda che sto facendo. Singhiozzando, non riuscendo nemmeno a parlare, sussurro ancora: “Guardami adesso… e dimmelo… giuramelo e ti sposerò stasera stessa… dimmelo… ti prego…”.

Cala il silenzio, cala come una scure sulle nostre teste. Cala come la notte quando il sole tramonta, e quel silenzio è la dannata risposta che stavo cercando. E poco importa che ai miei singhiozzi, adesso, si sia unito anche il suono stentoreo della sola e singola lacrima che ha lasciato i suoi occhi per sfiorare le mie mani. Poco importa. Importa poco anche che mi dica, piano, la voce rotta: “Non posso… non posso giurartelo…”. Poco importa che sia stato sincero, ancora, poco importa che Ron mi avrebbe mentito e che Dean avrebbe negato. Poco importa.

Tutto, adesso, importa poco.

Quando le mie mani lasciano il suo viso, quando crollano e ricadono lungo i miei fianchi, quando mi sento privata della spina dorsale come uno sciocco fuscello nel mezzo della tempesta, finalmente lui solleva lo sguardo, incrocia il mio viso e il suo labbro trema senza controllo.

Fredda, gelida, incapace di parlare ancora, bisbiglio più a me stessa che a lui: “Io posso farlo, posso sforzarmi, posso stravolgere quella che sono e quello in cui credo… e sarà facile, semplice, bellissimo. Perché avrei in cambio momenti come quelli che ho vissuto in questi dieci giorni… posso vivere nel presente, posso farlo. Posso vivere con il pensiero che tu non mi ami adesso come hai amato lei… ma non posso vivere pensando che non mi amerai mai quanto hai amato lei…”.

Lo colpisco di nuovo, stavolta nemmeno rendendomene conto, stavolta con la sola consapevolezza che non so più che cosa sto dicendo. Mi stringe per il polso, mi attira a lui, mi stringe tra le braccia e non sento niente, niente di niente. Resto immobile tra le sue braccia, come una bambola vecchia. E lo sento stringermi più forte, tentando di farmi male, persino di soffocarmi, come se così le parole possano tornare indietro, i silenzi possano riavvolgersi. Ma non accade, niente accade.

“Non è giusto… non è giusto… tutto questo…” sussurra, ripete, piange continuando a stringermi, il suo corpo mi implora di stringerlo a mia volta, e io non riesco nemmeno a ricordarmi come si alzino le braccia, come si possa vincere la debolezza che mi fiacca da dentro, come si possa anche solo simulare un calore che non provo, essendo diventata carne fredda e morta “Mi stai dicendo che devo scegliere tra te e lei? Come diamine credi che possa farlo? Come maledizione puoi pensare che io possa smettere di pensare a lei, oppure lasciare che adesso tu te ne vada da qui? Come posso… lasciarti andare via?”.

Lasciarmi andare via… certo, perché qui siamo arrivati adesso. Deve lasciarmi andare via. Come se non l’avessi nemmeno pensato fino ad ora, come se non ci avessi nemmeno ragionato fino a quando non l’ha detto, capisco che è vero. Deve lasciarmi andare via. Adesso, subito, immediatamente. Ovvio che non posso lasciare questa casa, ma questa stanza sì, questo letto sì, questa vasca da bagno sì… devo andarmene da qui, Pansy mi darà un’altra stanza ed avrò solo i miei pensieri da cullare, da ascoltare; solo le mie lacrime da asciugare, da cancellare.

Devo andarmene da qui.

Urgenza diventa adesso andarmene, perché Helena ci respira addosso e io non lo sopporto più. Il suo odore si confonde con quello di Draco, e io non lo sopporto più. Di nuovo, si nasconde nei suoi gesti, nelle sue pause, nei suoi silenzi... Dio, come se lo sapessi solo ora, mi ricordo anche che Serenity è sua figlia… non lo sopporto più.

Le parole si incespicano, mi allontano da lui, mi sciolgo dal suo abbraccio. E non lo guardo in viso, mentre riprendo a parlare, la voce ragionevole, la voce che adesso non dovrei nemmeno pensare di avere, ma che so usare solo perché adesso è importante, vitale, necessario, andarmene da questa stanza. Il fine, lo scopo, giustifica ogni mezzo.

“Non lo so Draco, io non lo so… io ti amo…”, e mi forzo per non guardarlo, mi forzo per non sentire le pieghe di ognuna di quelle tre parole e di quelle sette lettere, mi forzo per usarle come se fossero una sciocca frase da consuetudine, mi forzo per non sentire davvero la forza di amarlo nelle ossa, nella carne e nella pelle. E riprendo stoica: “Forse abbiamo bisogno di tempo, magari dobbiamo stare da soli per un po’… magari quando tutto questa storia con Astoria, sarà finita, sapremo che cosa fare…”.

“Mi stai lasciando?” la sua voce fende l’aria, e non posso più impedirmi di guardarlo, perché piange davvero adesso. E non so fermarmi, non so smettere di piangere anche io. Dieci minuti fa mi ha chiesto di sposarlo… dieci minuti dopo, forse ci stiamo lasciando. Non ce la faccio a pensarlo.

“Non lo so… per favore, lasciami andare… lasciami stare da sola, lasciami pensare da sola… per favore, Draco, non ce la faccio adesso neanche a parlare…”.

“Non doveva finire così stasera… non doveva…”.

“Lo so, Draco, ma è il solo modo per tornare assieme… è il solo modo… per favore, lasciami andare…”.

“Non puoi andartene… Astoria… non puoi andartene da qui…”.

“Voglio solo fare una passeggiata… mi farò dare un’altra stanza da Pansy… domani incontreremo Harry… e poi si vedrà…”.

Sono le ultime battute, le ultime frasi che riesco a dire, che riesce a dire. Adesso ci rimangono solo pochi monosillabi, pochi singhiozzi, pochi suoni soffocati. Poi tutto sarà fissato, presente: quando chiuderò quella porta dietro di me, tutto questo sarà reale. Lui che non riesce a scordare Helena. Io che non riesco a sopportarlo.

“Non posso, non ce la faccio…” fa un ultimo tentativo, mi guarda di nuovo, per un attimo cerca di riacquistare la forza solita.

“Per favore…” dico soltanto, e quella forza si annienta, sparisce, evapora. Non dice più nulla.

Mi volto su me stessa, traballante, apro la porta e la musica della festa lontanissima al piano di sotto mi colpisce come se fossi stata tutta la vita in una campana di vetro. Barcollo, strizzo gli occhi per la luce e mi reggo allo stipite della porta. Una vertigine mi coglie infida, e faccio un passo indietro, rischiando di cadere. Ma non cado, lui è lì, come quel giorno al Tourquoise Party quando vidi Harry e gli altri. Mi adagiai contro di lui e seppi di essere al sicuro. Riprendo a piangere, nascondo il viso tra le mani e lui mi volta delicatamente, facendomi nascondere nella sua camicia mentre mi stringe a sé. La sua voce dista mille miglia, parla come se la buttasse fuori per abitudine. Non l’ho mai sentito così. 

“Helena me l’aveva detto quel giorno, il messaggio che mi lasciò prima di morire… quando incontrerai la donna giusta, non farle pagare il prezzo di non essere me… ed invece io l’ho fatto con te… non potrò mai perdonarmelo… come potrai tu perdonare me? Come potrai tornare indietro, adesso? Andrai via adesso… e sarà per sempre…”.

Mi stacco da lui, mi alzo in punta di piedi e lo bacio dolcemente, piano, sulle labbra.

“Io sono tua, Draco Malfoy… e lo sarò per sempre… non andrò mai via… mai… te lo giuro…” gli dico sincera, accarezzandogli il viso “Ma non posso restare qui adesso… se non vado via, adesso, prima o poi ci perderemo… ma io ti amo… e ti amerò per sempre… abbi fiducia… in me, in te, in noi… ce la faremo… solo… non oggi… ce la faremo… domani parleremo con Harry, torneremo alla nostra solita vita… e tutto andrà a posto, in qualche modo… deve andare a posto in qualche modo… se esiste un Dio, lo deve a tutti e due…”.

Lo bacio ancora, ancora, ancora.

E poi scappo via, tra le luci della festa e poi tra le ombre del giardino.

Piango, urlo e la musica assorbe tutte le mie parole sconnesse. 

Piango, urlo e grido, chiedendomi già come farò a guardarlo in volto domani mattina, come farò a spiegare ad Harry che stiamo assieme ma che in realtà non stiamo davvero assieme.

Piango, e mi chiedo come faccia a trovarmi nel bel mezzo di una pausa di riflessione, io che le ho sempre odiate.

Piango, e non mi accorgo dell’ombra che spunta in giardino.

E piangendo, preoccupandomi dei giorni che verranno, ignoro che essi non arriveranno.

 

 

 

Perché cinque anni dopo, nel salotto di quella stessa casa, senza più il suono della musica o il volteggiare delle luci, seduta su un divano, ricorderò quell’esatto momento.

Avrò Seth vicino, Pansy di fronte, mio figlio in un’altra stanza assieme al ragazzo che mi ha insegnato il valore delle piccole cose.

Avrò i capelli più corti, avrò una fede al dito. Mi chiamerò Hermione Granger in Weasley.

E quel giorno, mentre il sole muore, ricorderò le lacrime di quel momento, accompagnandole con una sola singola tonante frase.

La frase che mi ha riportato in Inghilterra cinque anni dopo, la frase che Pansy ascolterà sconvolta, la frase che Seth conosce già ma che comunque odia sentire.

La frase che le mie stesse orecchie non riescono a sopportare.

 

“Quella è stata l’ultima volta che ho visto Draco…”.

 

Capitolo che mi ha fiaccato psicologicamente, specie nella parte finale! Non sapete quanto sia stata dura scrivere la fine, ovviamente sapevo che sarebbe successo ma mi ha fatto davvero un brutto effetto! Come sempre chiedo scusa per i ritardi con cui pubblico la storia, ho già chiarito spesso che purtroppo non posso garantire costanza negli aggiornamenti, ma spero che abbiate sempre la pazienza di seguire Halft e di seguire soprattutto questi capitoli strabordanti. Che dire? So che forse in molti si chiederanno del motivo per cui ho diviso Hermione e Draco, anche perché dalla fine avete intuito che è stato da quel momento che non si sono più visti, dal prossimo capitolo infatti saremo nel futuro, che abbiamo solo sbirciato fino ad ora. Bè, io non credo nelle favole, ecco, e credo che l’amore sia bello, sia meraviglioso, ma non risolve tutti i problemi. E sto cercando di trasmetterlo in questa fic. E per me, certo, Draco ed Hermione si amano profondamente, ma avevano da affrontare ancora molte cose, tra cui soprattutto la venerazione che Draco ha per Helena. Purtroppo, e qui ci sta la mia mente malata, quella che è solo un’incomprensione che avrebbero potuto risolvere assieme, verrà diciamo inasprita dalle circostanze, cosa che ancora non dipende da loro due, ma da me che sono una sadica pazza. J abbiate fiducia comunque… e sempre… J volevo chiarirlo perché insomma ne va di quello che sto cercando di esprimere in questa storia, che certo è una fic e certo non è vera, ma la voglio quanto più reale possibile. Detto questo come sempre ringrazio tutti per la pazienza e soprattutto le ragazze del gruppo Put a spell on her eyes che si sorbiscono i miei deliri, le mie paranoie, nonché tutti i miei momenti di incertezza. L’ho già detto e lo ripeterò sempre, questa storia è più vostra che mia. Non saprei che fare se non ci foste. Sto cercando di rispondere alle recensioni, purtroppo ogni tanto il mio pc fa le bizze quindi davvero scusatemi se ogni tanto non ci riesco, le apprezzo tutte dalla prima all’ultima e vi ringrazio davvero… ad alcune sono riuscita a rispondere, recupererò con le altre approfittando di qualche giorno libero. Grazie comunque davvero a chi lascia anche un piccolo commentino, sapete quanto apprezzi queste cose… e se avete bisogno di risposte più immediate, fatevi una passeggiata su Fb e nel gruppo!:) https://www.facebook.com/?ref=tn_tnmn#!/groups/209545025766521/ Grazie ancora a tutti…J un bacione Cassie! J

 

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Capitolo 36
*** The butterfly effect ***


NEI CAPITOLI PRECEDENTI:

Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia.  Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto Draco.

 

Capitolo 36 – The butterfly effect

 

Sono una brava mamma.

Negli anni, soprattutto negli ultimi cinque, ho avuto dubbi su ogni cosa tranne che su questo: non sono mai stata così brava come studentessa, fidanzata, amica, pseudo-moglie, Auror, strega e cameriera, come lo sono da mamma. E non l’avrei mai detto.

Per essere madre devi essere ermetica, a chiusura stagna. Devi seppellire le cose nel tuo profondo, lasciare che macerino il tempo necessario per trasformarsi in una poltiglia densa che possa al massimo soffocare il tuo di respiro, ma mai disturbare anche solo il sonno del tuo bambino.

E io, dopo che ho finito di parlare con Dean, dopo che… quel giorno Draco è andato via con Raissa. E crediamo che siano ancora assieme… non ho mosso un muscolo.

Sono tornata in casa quando il sole ha finito la sua curva rovente nel cielo, ho sorriso ad Alex che giocava con Charisma, l’ho rimproverato perché non ne voleva sapere di mangiare, l’ho rimproverato ancora perché non voleva andare a letto, troppo preso dal gioco con la piccola di Pansy e Dean. Gli ho letto per l’ennesima volta la favola del Piccolo principe perché lui me l’ha chiesta di nuovo. Arrivata a leggere del piccolo principe che incontra le rose sulla Terra e parla della sua, ho trattenuto il groppo in gola e ho continuato a leggere stoica, come se ne andasse del destino dell’intero Universo. Ho schiarito la voce un paio di volte fingendo un colpo di tosse e ho scandito: “Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messo sotto la campana di vetro. Perché è lei che ho riparato col paravento. Perché su di lei ho ucciso i bruchi (salvo due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa.”

L’effluvio di una rosa bianca sul comodino della camera che Pansy ha destinato a me ed Alex, mi ha fatto pizzicare gli occhi e pungere il naso.

“Mamma…” mi ha sussurrato Alex, gli occhi grigi già ridotti a due fessure per il sonno incombente “Ma quando andiamo da papà?”.

E io che sono una brava mamma, gli ho sorriso, gli ho accarezzato i capelli biondi e gli ho detto che ci andiamo molto presto.

Alex si è addormentato, gli ho rimboccato il lenzuolo e sono uscita fuori chiudendomi la porta alle spalle.

E dopo qualche passo, dopo solo qualche passo, sono caduta in ginocchio nel corridoio. Tappandomi la bocca con la mano, soffocando ancora per paura che Alex mi sentisse, ho pianto le lacrime che avevo in corpo dal tramonto. Le ho piante tutte, una dopo l’altra: dalla rabbia alla frustrazione, alla sofferenza, al dolore, alla nostalgia, all’odio e all’amore. Non piangevo così da cinque anni.

E poi mi sono alzata come sempre, solo un po’ malferma sulle gambe, tornando in salotto.

Anche Charisma dormiva. Anche Pansy poteva smettere di essere una brava mamma e Dean poteva smettere di essere un bravo papà. 

Potevamo tornare noi stessi, smettere i panni dei genitori che devono essere sempre i supereroi dei loro figli e tornare per qualche ora i fallaci esseri umani che andiamo alla ricerca della salvezza.

Seth no. Lui credo che un supereroe lo sia davvero.

Mi sono seduta di nuovo sul divano, le mani poggiate sulle ginocchia. Seth accanto a me, mi ha subito preso la mano. L’ho stretta forte nella mia.

Pansy e Dean, di fronte a me, nemmeno si sfioravano. Non ne avevano bisogno.

Solo quando ho aperto bocca, hanno vacillato un pochino. Dean ha chiuso gli occhi e Pansy ha contratto le spalle.

“Perché diamine nessuno mi ha mai detto che era andato via con lei?”.

 

Quando ho deciso di tornare in Inghilterra, ho messo in conto molte cose.

Ho preso mentale annotazione di decine di particolari da ricordare, tutti oltremodo importanti specie se riguardavano Alex.

Mio figlio ha sempre vissuto in Italia: parla inglese, ma lo parla con un accento diverso dal mio o da quello di Ron, spesso frammenta i discorsi con parole italiane. Oppure è abituato ad un determinato stile di vita, ad andare a letto più tardi dei suoi coetanei, ad andare ogni giorno a mare d’estate, ad una temperatura umida e calda. Ha un temperamento aperto, caloroso, colmo di allegria, meno tipico dei bambini inglesi.

Le cose da considerare su Alex erano tantissime: ne avevo persino scritto un enorme blocchetto da leggere con solerzia alla prima maestra che avrei trovato, non appena l’avessi iscritto a scuola.

Su di me avevo solo una cosa da ricordare. Sempre, continuamente, come una filastrocca imparata all’asilo.

Sono passati cinque anni.

Sembra la più grande delle ovvietà mai udite, ma davvero ho avuto sempre bisogno di ricordarmelo.

Cinque anni sono lunghi.  

Certo ci sono periodi temporali molto più lunghi, ma nel mio caso hanno una consistenza fisica che è tangibile, percepibile, incontestabile.

Tutta la vita di mio figlio si è svolta in questi cinque anni. E da mamma, essa mi sembra così immensa anche se forse è solo perché ha stravolto la mia stessa essenza. Ripenso a quando è nato e al ciuffetto di capelli biondi che spuntava fuori dal cappellino azzurro. Ripenso alla sua prima pappa di riso e alla smorfia assurda che fece mangiandola. Ripenso ai suoi primi passi e all’Incantesimo di Appello che usai per impedire che inciampasse in un peluche. Ripenso alla sua prima parola “mamma” e al mio pianto incontrollabile di commozione che ne venne fuori.

Ecco, se proietto questi cinque anni su Alex, io so con coscienza che sono passati. Cinque anni fa, lui non esisteva e ora è un respiro lieve al piano di sopra e un pensiero costante nella testa.

Se li proietto su me stessa sciogliendomi da ogni dimensione di essere la madre di un bambino di cinque anni… ecco, io sono rimasta bloccata alla sera del compleanno di Pansy.

Annegata nella gelatina di un tempo trascorso solo a parole. Come se, a parte la trasformazione fisica del mio corpo che da ragazza mi aveva candidata a madre attraverso la curva crescente della mia pancia, io non fossi cambiata e mutata per nulla… ed è assurdo, a ripensarci.

Perché cinque anni sono passati sul serio, non devo scomodare il pensiero di mio figlio per saperlo. Ho davanti agli occhi due persone che cinque anni fa probabilmente facevano fatica persino a ricordarsi, e che adesso sono marito e moglie. Ho accanto un ragazzo che cinque anni fa non sapeva nulla del mio passato ed era innamorato del suo capo, e che adesso mi chiede costantemente di fargli degli Incantesimi per vedere come starebbe biondo e che ha un fidanzato di nome Kevin.

Tornare poi qui a casa di Pansy non aiuta, non sta aiutando e non aiuterà. All’assassino tornare sul luogo del delitto dà la macabra sensazione di poter rivivere il suo crimine: ucciderebbe con più crudezza, ucciderebbe prima o non ucciderebbe affatto.

Io, mentre Pansy cerca le parole, riesco solo a pensare alla sera del suo compleanno: a che cosa sarebbe accaduto se non fossi uscita affatto dalla camera che dividevo con Draco.

 

Quest’anello è maledetto.

Hermione per un minuto lo pensa davvero.

Uscendo fuori dalla casa di Pansy, afferrando distrattamente un cardigan azzurro da una poltrona all’ingresso dove lo aveva lasciato, lo ha tenuto sempre stretto tra le mani. L’anello l’ha seguita senza che lei se ne accorgesse.

Seduta sull’erba fresca, il pianto in gola, lo guarda nel palmo aperto rifrangere le stelle e riflettere la luna; con un accenno di risata amara le viene da urlare al cielo, al paradiso, all’inferno… ad Helena… Le viene da urlare.

“Che c’è, Greengrass, è un altro dei tuoi stupidi segni divini che lo debba avere io? Mettiti l’anima in pace, dovunque tu sia, Helena… io quest’anello non lo indosserò mai. Scordatelo dalla tua presunta onniscienza e misericordia.”

Quel pensiero blasfemo le fa salire altre lacrime agli occhi, le asciuga distrattamente come se ne avesse vergogna. Guarda la casa illuminata a festa, sente la musica allegra rompere la monotonia della notte silenziosa, eppure insegue ancora la piccola luce soffusa della stanza al primo piano. È la terza finestra da destra, proprio sopra il gazebo di pietra accanto al quale ha trovato rifugio. La luce balla, traballa, si muove liquida, ma non si spegne.

Ed Hermione sa che lui è dentro quella luce, sa persino che adesso si muove nervosamente avanti ed indietro, sa che ha preso a pugni qualcosa, sa che probabilmente alla fine si è accasciato sul pavimento, la testa reclinata, le mani tra i capelli.

Ma la luce non si spegne, lui non prende la porta, non scende le scale, non corre nel giardino e non viene a strapparle l’anello dalle mani.

E lei, ipnotizzata barchetta dalla luce di un faro che solo apparentemente è salvezza e benedizione, rimane lì, seduta dietro il roseto, le lacrime che le velano il viso. Gli occhi le bruciano, le fanno male nel tentativo assurdo di ordinare a quella piccola luce di spegnersi… ma al contempo se essa si spegnesse, ma Draco restasse lì non scendendo da lei… quella sarebbe la peggiore delle beffe. Ed Hermione non è in vena di accettare i tiri sinistri e comici di un destino che ancora decide per lei.

Sospira a lungo, non che lei possa oggettivamente fare qualcosa, non che abbia il potere di srotolare il tempo all’indietro per…

Già, per fare che? Impedire a Draco di conoscere Helena? Impedire la morte di lei? Impedire che il mondo stesso si avviti per anni intorno ad un pazzo sanguinario, che decide che se sei una Mezzosangue ed una Grifondoro, non sei degna dell’attenzione di un Purosangue Serpeverde?

Dovrebbe cancellare il mondo, Hermione, per cancellare il suo destino. Cancellare infine persino sé stessa e Draco per avere un futuro diverso, più facile e forse anche più roseo. Ma non è possibile.

Non le resta che accettare quanto prima che non può cambiare tutto.

Decide quindi di aspettare il sole, di aspettare Harry: decide di aspettare da lì, dalla sua fortezza umida e odorosa di rose. Aspetterà che il mondo vada a posto da solo senza che lei debba come sempre muoversi convulsamente per fermarlo.

Quando inizia a sentire la musica abbassarsi, segno che la festa sta arrivando alle battute finali e che forse tra un’oretta qualcuno inizierà ad uscire per tornarsene a casa, decide perlomeno di alzarsi e di andare a nascondersi vicino ai pioppi bianchi che delimitano la proprietà. Non ce la farebbe adesso a fingere anche di essere Calista Parkinson… si strappa la collana dal collo e la getta dietro il cespuglio di rose.

Seminascosta dalla penombra dell’albero accanto al cancello, si regge alla corteccia del pioppo con la mano libera. Un’ondata di tristezza e di stanchezza si mescola nel suo corpo dandole la nausea. Si china, una mano sulla bocca, reprimendo l’istinto di rimettere, poi l’aria fresca della notte le soffia sul viso dandole sollievo. Tornando dritta, nota improvvisamente qualcosa che non aveva notato prima. Una strana ombra fuori dal cancello, sembra una donna supina.

Si chiede solo per un secondo se la barriera di Raissa le impedisca ancora di uscire da lì, ma ha notato subito che ha potuto avvicinarsi al pioppo senza sentire nulla, senza sentire quella sgradevole sensazione di impotenza che aveva sempre provato. Quindi suppone che la barriera non ci sia più. Sorpassa il cancello ed esce fuori, correndo vicino a quella che si rivela essere davvero una giovane donna svenuta. È stesa bocconi sull’erba, il volto semiaffondato nel terreno, apparentemente priva di sensi. La luna bassa le illumina i capelli non appena Hermione si avvicina.

Sono biondi. È Daphne Greengrass.

Non preoccupandosi del fatto che qualcuno possa riconoscere il suo vero aspetto, Hermione si piega sulle ginocchia chinandosi all’altezza della ragazza. Le sposta i capelli dal viso, la scuote per un braccio e lei emette un breve rantolo. È viva, ma incosciente, probabilmente è stata Schiantata. Ma da chi? Con un brivido sulla schiena nuda, Hermione rimane ferma, immobile, in attesa. La mano afferra la bacchetta sotto il vestito, mentre si alza in piedi, iniziando ad indietreggiare verso il cancello aperto. Chiamerà qualcuno all’interno per aiutare Daphne… e con una stretta allo stomaco, si ricorda di aver buttato via la sua collana e di riavere di nuovo il suo aspetto solito. Può chiamare solo… Draco.

Non fa in tempo a fare un solo passo, comunque. Un fascio di luce azzurra compare all’improvviso davanti a lei, lo schiva scartando di lato e cadendo per terra di fianco. Batte il gomito su una pietra, sente il sangue colarle lungo l’avambraccio. Non lascia però che il dolore la stordisca o disorienti, si rialza subito in piedi puntando la bacchetta davanti a sé, il respiro affannato dall’adrenalina.

“Eccola la vera Hermione Granger…” sente sussurrare nel velluto della notte una voce lasciva “Non la puttanella di Malfoy…ma la vera ed autentica Regina dei Grifondoro…”.

Hermione riconosce subito la voce, prima ancora che Dimitri faccia qualche passo, rivelando il suo viso. Il mantello blu notte oscilla alle sue spalle, assecondando i suoi movimenti sinuosi, mentre si ferma a pochi passi da lei. Con la punta dello stivale, volta il corpo disteso di Daphne ed aggiunge: “Troppo semplice, Granger… dovresti diventare più disinteressata… mia sorella ha previsto ogni misura per non farmi più rientrare… ma ha scordato di impedire a te di uscire… deve essere distratta ultimamente…”. Hermione deglutisce pesantemente, la bacchetta ancora sguainata. L’incantesimo di Raissa era ancora presente, per questo voleva che uscisse fuori. Daphne era solo una trappola.

“Che diamine vuoi?!” chiede furiosa, il braccio teso, la presa salda sulla bacchetta “Stavolta non finirà come le altre volte… avvicinati di un altro passo e ti pentirai di essere tornato…”.

Dimitri agita noncurante la mano come ad allontanare una mosca molesta: “Dov’è finita l’educazione, Granger? Frequentare Malfoy ti sta facendo decisamente male…”. Una smorfia involontaria fa contrarre le labbra di Hermione che si serrano in una morsa dolorosa, sentendo il nome di Draco. Dimitri studia con attenzione le linee del suo viso, sorride appena e fa un altro passo, piegando la testa di lato ed inumidendosi le labbra: “Ti ha già fatto piangere vero? Anzi no… non ti ha solamente fatto piangere …”, come se cercasse qualcosa nei suoi occhi la rimira a lungo alla ricerca della risposta, poi il suo sguardo si illumina gioioso e bisbiglia: “Ti ha spezzato il cuore… povera piccola mia…”.

“Dì un’altra sola parola e giuro che ti dovranno raccattare con il cucchiaio…” ringhia Hermione, ricacciando indietro le lacrime, la bacchetta che trema.

“Non posso dirti di non averti avvisato…” mormora lui comprensivo, la voce è dolce, roca, bassa, da far sciogliere qualunque donna, Hermione indietreggia mentre lui si fa ancora avanti “E’ per la Greengrass, vero? Per Helena… ha te e trova ancora il coraggio di pensare a quella…”. Un raggio di luce rossa parte fulmineo dalla bacchetta di Hermione, lo colpisce ad una spalla, Dimitri constata il danno e la guarda sconcertato, spalancando gli occhi blu.

“Ti ho detto di non dire un’altra parola…” sibila lei, fredda, gelida, il volto rosso e gli occhi di ghiaccio, la sua voce si spezza mentre sussurra: “Non ti azzardare a nominarlo mai più…”. Dimitri la guarda ancora, un sorriso sghembo sul volto, gli occhi illuminati dal desiderio. È come se la guardasse in trasparenza, come se andasse oltre pelle, vestiti, ossa e carne, e penetrasse ostinato dentro il suo cuore, la sua anima, la sua testa, leggendole pensieri e sentimenti.

“Vieni con me… stanotte… Hermione…”sussurra carezzevole, facendo un altro passo verso di lei. Ha lo sguardo dolce, caldo, colmo dell’amore di un principe delle fiabe, Hermione lo guarda attonita, le lacrime che le affollano la vista e le impediscono di metterlo a fuoco. La bacchetta quasi si abbassa, facendola arrendere, facendola cadere come non è mai caduta in tutti questi mesi. Pensa davvero per un solo singolo secondo ad arrendersi, ed è molto peggio di quanto non sia accaduto quella mattina nel giardino di Pansy. Quel giorno Draco non era tornato, non era una presenza fisica eppure lontanissima nella casa illuminata alle sue spalle.

Per un attimo Hermione pensa davvero a rinunciare a lui, stavolta per sempre. Pensa davvero che l’amore, quello vero, le ha rovinato l’esistenza. Sente l’inquietante nettezza del cuore spezzato in petto, ne sente il peso opprimente, desidera smettere solo di pensare. Potrebbe andare via con lui, Draco non la cercherebbe più, Astoria non gli farebbe più del male, lui sarebbe al sicuro con Serenity. E lei non dovrebbe più affrontare questo cupo, sordo e cieco amore che le sta accartocciando l’esistenza.

Non scioglierebbe mai il dubbio su Helena. Non aspetterebbe mai più la sua risposta.

Dimitri la chiuderebbe in un castello nero, proteggendola dall’amore. La ricoprirebbe d’oro e di magia, di sapienza e di gloria, non pretendendo mai l’amore da lei.

È un attimo, un solo secondo.

Poi la bacchetta ritorna salda, la punta scintilla di bianco e rosso e sprizza qualche scintilla che fa indietreggiare Dimitri.

Hermione sa già come è rinunciare all’amore, sa già che cosa si prova. Si è felici, immensamente, liberi, leggeri, come farfalle di seta. E si è morti.

Non accetterà mai più le fogge serpentine di uno Zahir, anche se adesso ha il colore degli occhi di Dimitri Karkaroff.

L’uomo di fronte a lei serra la mascella e contrae i pugni, trasformato di nuovo nel lupo cattivo pronto a divorare la bambina che scioccamente si è avventurata nel bosco. Hermione non ha paura, non ne ha affatto, il sangue dell’Auror pompa ossigeno nelle vene assieme all’adrenalina, respira lungamente e lo studia senza timore. Il cuore spezzato le dà la forza, le dà l’energia e il coraggio di affrontarlo… perché la rabbia adesso monta e mulina come un turbine di vento dentro di lei. Vuole farla finita con lui, vuole farla finita con ogni cosa che da troppo tempo sta subendo passivamente. Non può cambiare il cuore di Draco, non può cambiare il fatto che sia dilaniato in due tra l’amore per lei e il ricordo per Helena. Non può cambiare nemmeno il suo di cuore, non può cambiare che lo voglia intero l’uomo della sua vita e non può cambiare che non si accontenterà mai di meno.

Ma tutto il resto… può cambiarlo. Per fortuna. Iniziando da Dimitri Karkaroff.

Impugnando la bacchetta e puntandogliela contro, Dimitri muove appena le labbra, lo scintillio dei suoi occhi irati spezza il nero della notte: “Non era una domanda, Granger… tu stasera vieni con me…”.

“E non era un avvertimento amichevole, Karkaroff… sparisci immediatamente da qui…” minaccia lei, la gola secca, osservando ogni movimento di lui.

L’aria crepita d’elettricità  come prima di un temporale, un attimo prima che Dimitri rompa gli indugi ed apra le danze. Hermione evita un nuovo fascio di luce violetto, saltando di lato e prendendo a correre verso il bosco. Le hanno insegnato a confondere le tracce, le hanno insegnato a scegliersi il campo di battaglia e a mettersi subito in una posizione vincente: per lei è la foresta, dopo una vita passata nei boschi con Ron ed Harry a cercare gli Horcrux. Corre trafelata tra gli alberi, gli occhi annebbiati dalla mancanza di luce, pronti ad accogliere ogni minimo spruzzo d’argento che filtri dalla luna attraverso il fogliame pesante. La milza punge, il fiato manca, ma Hermione continua a correre veloce, come una saetta.

Dimitri la insegue senza fretta, convinto di riuscire a farla finita in breve tempo, i passi dei suoi stivali che spezzano le foglie secche. Ride, guardando la schiena di lei che si allontana e i lunghi capelli castani agitati dal vento, la vuole più di ogni cosa al mondo, più di qualsiasi altra cosa abbia mai desiderato. Lascia fremere le mani sulla bacchetta, lascia che la voglia lo porti ad un passo dall’impazzire del tutto per la mancanza del corpo di lei tra le sue braccia, lascia che sia enormemente più eccitante la caccia che il momento in cui lei sarà finalmente sua. Spera quasi che lei corra ancora di più, che non si fermi, che continui a mettere distanza tra loro come una gazzella inseguita dal leone. Non sarebbe lei, se gli rendesse tutto troppo facile.

La risata, ad un certo punto, gli si gela sulle labbra: si guarda furiosamente attorno, voltandosi a destra e sinistra. È sparita.

Panico nel petto, inizia a correre a sua volta, imponendosi di non chiamarla, di non urlare il suo nome, di non mostrarsi così maledettamente disperato dal fatto di averla perduta. Se lei lo capisse, se lei sentisse quell’urgenza nella voce, che non è solo voglia o desiderio o senso di possesso, forse capirebbe il potere immenso che ha su di lui. E Dimitri non vuole che lo capisca, non lo vuole assolutamente. Ribalterebbe ogni regola del gioco: quella dove lui è signore e lei inerme pedina.

Non conosce Hermione Granger, la sottovaluta e già piange di averla persa.

Pensa che sia caduta in un dirupo o pensa che sia inciampata in una radice perdendo i sensi. Stima di lei la forte guerriera, ma è ancora convinto che sia una principessa innocente pronta a cascargli tra le braccia.

Improvvisamente qualcosa lo fa cadere supino al suolo, impreca con la faccia premuta contro il muschio. Una pressione lieve ma decisa sulla schiena, dalla forma allungata. Una bacchetta. Sorride, sollevato: è lei.

La spia di sottecchi, il volto affannato, il seno ansante, l’abito trasfigurato di colore perché il rosso era oggettivamente troppo visibile. Era sparita solo rendendo il suo abito nero come la notte. E deve essere anche salita su un albero, ha le mani striate di sangue, deve aver semplicemente aspettato che lui le passasse davanti.

“Accio bacchetta…” dice stentorea, la bacchetta di Dimitri vola dalla sua mano in quella di Hermione.

“Credo di averti sottovalutato… un errore venale…” commenta con nonchalance Dimitri, guardandola di sbieco “Consentimi di dirti che non sembri affatto una Mezzosangue… ma dovrei aspettarmelo, sei sempre il Capo degli Auror…”.

Hermione non risponde, la presa sulla bacchetta che non diventa meno salda. Lo guarda con odio, con rancore, la guancia graffiata e i capelli spettinati, pronta anche a farlo fuori. È stanca, enormemente stanca. E non c’entra niente la corsa nel bosco, non c’entra niente il fatto di essere come sempre presa sottogamba perché è una Mezzosangue, non c’entra nemmeno l’ostinazione con cui Dimitri la rivendica come una cosa sua. C’entra solo che è stanca, dentro, nel punto dove è sempre esistita la forza di lottare e di combattere. Draco gliela ha spazzata via. E vorrebbe solo dormire, almeno per un po’, e smettere di dibattersi come un pesce all’amo. Ricaccia indietro una lacrima, guardando Dimitri dall’alto in basso.

“Ma è un errore che non farò mai più… Hermione Granger…”. Dimitri non ha nemmeno finito di parlare che Hermione si sente sbalzata indietro da una folata di vento, sbatte violentemente al suolo, la schiena contro un albero. Il volto sporco di terriccio, si solleva a fatica. Dimitri è di nuovo in piedi, ha di nuovo la sua bacchetta. La guarda ghignando e leccandosi il sangue dalle labbra.

E non è più da solo.

Hermione sente il cuore perdere un battito, ne sente il tonfo terrorizzato nel petto. Rimettendosi seduta, valuta se esista una via di fuga che al momento non trova. Quindi i suoi occhi tornano di fronte a lei, quasi pregando di aver visto male.

Ma non è così. Le sue preghiere non sono mai state molto fortunate.

Alla destra di Dimitri, l’espressione di una dea pagana crudele e pronta al sacrificio, c’è Astoria.

Pucey e Montague compaiono alle sue spalle, ancora più incattiviti di quanto non li avesse già visti in passato.

Hermione li osserva ad occhi sgranati, terrore ed ansia adesso nel petto che si alza e si abbassa, cerca di farsi indietro ma tocca la corteccia rugosa dell’albero che le graffia la schiena. Prima che la sua mano raggiunga di nuovo la bacchetta, Astoria gliela allontana con un gesto flessuoso ed annoiato del braccio. Hermione la osserva a lungo, per un attimo chiedendosi scioccamente se non sia la sua sosia, quella che ha lasciato a casa di Pansy.

Ma quella ragazza aveva l’espressione solare e raggiante, un sorriso pieno sulle labbra rosa, gli occhi di chi ha conosciuto la somma felicità.

Astoria, pallidamente illuminata dalla luna, non è più la Summer che ha conosciuto lei, o la sciocca bambinetta dei tempi di Hogwarts.

Sembra non essere nemmeno interessata al suo aspetto da viandante, al vestito azzurro che pende sul suo corpo magro e denutrito. Ha le guance scavate, le unghie sporche di terreno, l’aspetto sciupato. Gli occhi, invece, brillano sinistri, non lasciano un attimo il suo viso, la divora con lo sguardo come se fosse un cucciolo e lei una crudele fiera. Pucey e Montague, alle sue spalle, sembrano temerla, la guardano in adorazione e pendono dalle sue labbra.

“Ti sei alleato con lei…” commenta Hermione, sentendosi stupida, cercando di rialzarsi in piedi. Astoria, ancora, la fa cascare violentemente al suolo.

“Mai fidarsi dei serpenti, Granger…” risponde Dimitri, chinandosi alla sua altezza e guardandola dolciastro “Dovresti ringraziarmi… lei ti voleva morta… e io invece l’ho convinta che basta solo separarti da Malfoy per ucciderti davvero…”.

Hermione si ritrae ancora, il terrore che la paralizza come una bestia ferita. Astoria non dice una parola, la guarda e basta, contraendo le labbra per il disgusto.

“Io non verrò mai con te…” sussurra Hermione con un filo di voce, chiudendo gli occhi. Per un attimo le appare sotto le palpebre chiuse il volto di Draco, la sera in cui tornò a casa dei Parkinson. Gli occhi grigi, il sorriso strafottente, la mascella contratta, le mani calde che le accarezzano il viso. Lo immagina nella loro stanza, lo immagina che ancora non sa che cosa le sia successo, lo immagina chino su Serenity mentre ne guarda preoccupato il sonno.

Pensa al momento in cui non la troverà più, pensa al momento in cui si sentirà in colpa come mai nella vita, pensa a quando la cercherà disperato, pensa a quando troverà il suo cadavere lì in quel bosco. Le lacrime sfuggono senza controllo, contrae le labbra cercando di fermarle. Di quello si tratta. Lei tra poco sarà morta, che Dimitri dica quello che vuole. Non sarà sua, se non da morta. Glielo ha già detto.

“Mi dovrai uccidere prima…” dice, riaprendo gli occhi e sollevando il mento orgogliosamente “Io sono sua… non sarò mai più di nessun altro, tantomeno tua…”.

Un raggio di luce gialla le colpisce lo zigomo, facendolo sanguinare, Astoria alle sue spalle respira fremente di rabbia, la bacchetta ancora sollevata. Non parla, non dice nulla, nemmeno urla. Sembra che le abbiano tolto la voce, ma è bastato che lei alludesse a Draco per farle perdere il suo autocontrollo. Dimitri la guarda in cagnesco, intimando a Pucey di trattenerla.

Hermione si asciuga il viso, rialzando fiera gli occhi e ripetendo stoica: “Dovrai uccidermi…”.

“Non essere melodrammatica Granger…” ride Dimitri, facendo un cenno alla sua destra a Montague che si allontana con un cenno deferente del capo “Esistono molti modi per convincerti… potrei persino ammazzare il tuo Malfoy per fartelo capire… ma ho un patto da rispettare con Astoria… ed in fondo gli devo ancora la vita, l’onore è tutto per me, Granger…”. Si volta alle sue spalle, mentre Montague riappare, trascinando qualcosa che striscia pesantemente sul terreno.

Hermione aguzza lo sguardo e ciò che vede la lascia senza parole. Si porta una mano alla bocca, ora davvero terrorizzata. Hanno il potere di fare qualsiasi cosa, lo capisce in un attimo. Capisce che non può scappare. Morire sarebbe stato infinitamente meglio. Persino per Draco. Perché può solo immaginare che cosa c’entri lui con la parte del patto che è stata riservata ad Astoria e a cui Dimitri ha parzialmente alluso. Non si faranno scrupoli pur di ottenere quello che vogliono.

Montague getta per terra con malagrazia il corpo di Hayden. Ha il volto tumefatto, gli occhi chiusi e pesti. Hermione, singhiozzando, ricorda il giorno in cui l’ha conosciuto, la profonda calma che le trasmetteva, il bacio dolce che le diede quella sera di pioggia al Petite peste. Urla con tutta la voce che ha il corpo il suo nome, si acquatta per arrivare a lui, chiede gridando che cosa c’entrasse lui. Lui non c’entrava niente. Niente. Era rimasto nella sua mente come una dolce luce spensierata, un calore troppo tenue per riscaldarla davvero ma che l’aveva trattenuta sull’argine della pazzia anche quando era sotto il controllo dello Zahir. Aveva deciso di incontrarlo, al suo ritorno a Londra, di parlargli, di dire anche a lui tutto, come con Seth.

Gli voleva bene, gli vuole bene.

Piangendo, si rialza velocemente e si avvicina a lui, lo scuote per una spalla mentre constata superficialmente che è ancora vivo. Una profonda ferita, però, gli inzuppa di sangue la camicia sulla schiena. Gli sposta il tessuto lercio ed inorridisce. È una ferita profonda, infetta, da cui gronda pus biancastro. Lo hanno ferito da parecchio tempo, chissà da quanto è incosciente.

“Potevamo prendere uno qualunque, ovvio…” commenta annoiato Dimitri, guardandola dall’alto “Tu avresti lottato per qualunque stupida vita avessi minacciato di togliere… ma sai com’è? Se una persona la conosci, è anche meglio…”, la sua voce scende di tono e riprende duro: “E’ anche per dimostrarti una cosa… tutti i limiti del tuo Draco…”. Hermione, china su Hayden, abbraccia le sue spalle proteggendone il corpo, solleva lo sguardo umido su Dimitri digrignando i denti.

“Ha pensato a proteggere tutti, tranne lui…” ride Dimitri senza allegria “Probabilmente sperava anche che lo facessimo fuori… quando invece avrebbe solo dovuto sperare che tu scegliessi lui… il babbano, per esempio, non ti avrebbe portato a me…”. La risata sul volto di lui si smorza, ostaggio di memorie lontane: “… non ti avrei mai conosciuto… ed avrei pensato che tu… non esistessi…”.

Hermione, sempre china su Hayden, sussurra a mezza bocca interrompendo i pensieri di Dimitri: “Verrò con te… ma lascialo andare…”. Non c’è soluzione, non c’è. Hayden è ferito, probabilmente è grave. Devono lasciarlo andare.

“No, tesoro… tu verrai con me… ma non lo lascerò andare… è il solo modo per impedirti di fare qualcosa di stupido ed insensato mentre sei con me…”.

Stupido ed insensato… certo… uccidersi… come aveva già deciso di fare pur di non andare con lui. Ma adesso che c’è anche Hayden… deve restare in vita per lui. Nella prigione che Dimitri le sta per destinare.

Pucey e Montague sollevano di nuovo il corpo incosciente di Hayden, strappandolo dalle braccia di Hermione che li osserva impotente mentre spariscono con un pop trattenuto. Dimitri le porge cerimonialmente la mano, prima di dire la formula di Smaterializzazione.

“Mi cercherà…” sussurra Hermione, mettendo la sua mano in quella di Dimitri “Draco non avrà pace fino a quando non mi avrà trovato…”.

Dimitri contrae la mascella: “No… non ti cercherà mai più… no, se sei tu stessa a dirgli di lasciarti andare…”. Hermione sgrana gli occhi, guardando l’espressione compassata di Dimitri, si puntella con i piedi in un ultimo disperato tentativo di resistere, ma lui l’afferra per un polso e si smaterializza. Hermione sente lo strappo all’ombelico e vola lontano, le lacrime che restano nella foresta come gocce di rugiada.

L’ultima cosa che vede sono gli occhi azzurri di Astoria che la guardano sorridendo con cattiveria.

Non si è Smaterializzata assieme a loro.

 

Chiudo gli occhi, serrandoli come se fossi sotto una luce troppo forte. Cerco di lasciar fuori dalla mia mente quel ricordo, ma sebbene siano passati cinque anni e sebbene adesso io sia al sicuro, quel ricordo ha un odore forte ed intenso che lo fa stagliare distintamente nell’oceano della mia memoria. Lo ritrovo sempre quando lo cerco, quando disgraziatamente la mia mente mi riporta indietro: odora di conifere, di rugiada, di rose calpestate. Di lacrime, sangue e sudore. La pelle di Draco, i suoi occhi, le sue labbra, le sue parole… quelle sensazioni negli anni sono evaporate, sono solo una stretta allo stomaco e il ricordo di come mi sentissi. Perfetta, mi sentivo perfetta tra le sue braccia. Ma giorno per giorno, come la cascata di granelli di sabbia che svuotano una clessidra, la nettezza di quei ricordi è sfuggita via, solo gli occhi di Draco li ricordo perfettamente perché sono gli occhi di Alex. Invece, sebbene cerchi disperatamente di dimenticare, quella notte è scolpita come pietra nei miei pensieri. È iniziato tutto lì. O meglio, è finito tutto lì. 

Sollevo gli occhi umidi, fissando Pansy e Dean di fronte a me. La mia mano stringe ancora più saldamente la mano di Seth, mentre a bassa voce biascico nervosamente: “Dimitri ci ha fatto tutto questo… e tu hai permesso a Draco di andarsene con sua sorella?!”. Dean apre la bocca per obiettare, ma Pansy lo fa tacere con un cenno brusco della mano.

“Vorrei ricordarti, Granger, che fino a stamattina io non sapevo minimamente che cosa ti fosse successo…” sciorina Pansy ovvia, stringendo le labbra rosse “Non riuscirete né tu, né Draco a farmi sentire in colpa per qualcosa che non ho fatto… magari non te ne sei accorta, ma lui non è un bambino… e io non sono la sua balia… quando è andato via era perfettamente in grado di decidere chi volesse ancora nella sua vita… e non voleva ovviamente più te…”, la sua voce si abbassa e si addolcisce, Dean la guarda preoccupato mentre aggiunge con un filo di voce: “… e non voleva tantomeno me…”. Pansy, captando la tenerezza che sta adesso sciogliendo il mio di sguardo, riprende a parlare dura come le appartiene solitamente: “Se c’è qualcuno con cui dovresti prendertela, è Potter… lui ha deciso questo brillante piano… se mi avesse perlomeno detto qualcosa, se mi avesse raccontato la storia nei dettagli… bè, perlomeno avrei evitato di renderti oggetto di pratiche voodoo nel corso degli anni…”. Reprimo una stupida risatina nervosa che mi sta venendo inconsapevolmente fuori, arrancando tra le lacrime che non smetto di piangere, mentre per fortuna interviene Seth: “Andiamo Pansy… sai benissimo che Harry non poteva parlare… né con te, e né con nessun altro… ne andava della sicurezza di Hermione ed Alex… altrimenti lei se ne stava tranquillamente in Inghilterra e tutto sarebbe andato per il meglio: sarebbe andata al matrimonio di Ginny ed Harry, al vostro… e tanto per non tralasciare niente, avrebbe anche impedito che mi arrampicassi sulla torre della polizia per dichiarare il mio amore a Kevin… rompendomi la clavicola… e il femore…”.

“Dubito che quello l’avrei impedito pur stando qui…” commento acidamente, asciugandomi le lacrime con il dorso della mano “Avresti chiamato un tentato suicidio un gesto d’amore… e me, com’era, un’insensibile donna fredda priva di slanci sentimentali…”.

“Era frigida donna fredda, priva di slanci sentimentali…”.

“Giusto, avevo rimosso l’endiade…”.

“L’endi-che??!”.

“Dio, mi ero dimenticato come era parlare con te, Hermione…” commenta stancamente Dean, passandosi una mano tra i capelli e guadagnandosi una mia occhiataccia “Potremo gentilmente tornare al punto della questione? Vorrei ricordare che Pansy è partita per la Francia, quindi pur volendo non avrebbe nemmeno potuto parlare con Harry… era troppo impegnata ad incontrare il suo destino…”. Dean chiude la sua sviolinata con uno sguardo tronfio e presuntuoso, al quale Pansy replica acida: “Ma che bel destino…! L’avessi saputo sarei annegata nella Senna…”.

“Andiamo piccola, tanto lo sanno tutti che mi ami perdutamente!” ripete Dean, passando un braccio sulle spalle della moglie che si divincola con sguardo assassino: “Chiamami un’altra volta piccola, specie in presenza di ospiti non propriamente graditi… e vai in bianco per un anno intero…”.

“Lo vedi come è il romanticismo?” tuba Seth con gli occhi a cuore, guardandomi quasi commosso, al che inarco un sopracciglio scettica non volendo nemmeno sapere il tenore delle conversazioni con Kevin se chiama questo, romanticismo. Scuoto il capo e non riesco a fare a meno di sorridere, mi era mancato tutto questo, mi era mancato come l’aria. Ovvio che mi era mancato Seth: dopo tanti anni, dopo tutto quello che mi è accaduto, so con certezza che è e resterà sempre il mio migliore amico. Non a caso, appena sono tornata in Inghilterra, sono andata subito da lui, prima che da Harry o da Ginny o da chiunque altro. E gli ho raccontato tutto, di me, di Draco, del nostro passato, del mondo della magia, degli ultimi cinque anni. Ho parlato per circa tre ore ininterrottamente, lui non mi ha mai interrotto. Sebbene dopo cinque anni poteva anche chiudermi la porta in faccia, mi ha fatto parlare. E quando ho finito, mi ha guardato incredulo dicendomi che pensava spesso a me, al giorno in cui ci saremmo rivisti. E pensava che solo raccontare della scomparsa di Danny e Serenity, dell’aver rilevato il Petite Peste diventandone il solo proprietario e dell’aver conosciuto Kevin, sarebbero stati grandi scoop.

“Ed invece mi devi battere sempre in tutto!” ha riso, ravvivandosi i capelli ricci “Sei persino stata a letto con Danny, anzi no, aspetta Draco… mah mi piaceva di più Danny…! E avete anche un figlio assieme!!”. E mentre ancora ridevo, lui ha aggiunto con nonchalance: “Bè, quando andiamo a riprenderci il tuo Principe azzurro?”.

E sono felice, davvero, di averlo qui con me.

Sono felice anche di aver ritrovato Dean, sapevo per sommi capi da Ginny che aveva sposato Pansy Parkinson, me lo aveva scritto in una lettera quando ero ancora in Italia. Ed ero cascata dalla sedia, facendomi decisamente male. Ma poi era stato quasi confortante, in un modo abbastanza egoista. Era come vedere il riflesso irrealizzato di me e Draco in due altre persone. Era come sapere tramite l’esperienza di altri che tra me e lui poteva essere possibile. Il Grifondoro mezzosangue e la Serpeverde acida: sembrava una favola. Certo, ora che li ho visti, tutto sembrano tranne che una favola, anzi sono tipo una commedia tragica che spero preveda decine di anni di repliche.

Rivedere Dean, rivederlo padre e marito, rivederlo così felice… ha avuto il sapore dolce e pieno dell’assoluzione. Strano a dirsi, ma è così, ancora dopo cinque anni da quando ci siamo lasciati, mi sentivo tremendamente in colpa nei suoi confronti. Ero convinta di avergli rovinato la vita. Ma lui sta bene adesso. E’ felice. E mi è mancato in uno strano modo anche lui, mi è mancato come una presenza nella mia vita che non saprei chiamare “amico” e non potrei nemmeno liquidare come “ex”. Sono solo contenta che lui ci sia ancora, che tutto non sia andato a scatafascio, che possiamo persino scherzare sui nostri due anni assieme senza che ci si frapponga contro un inutile imbarazzo o uno sconveniente rancore.

E mi è mancata anche Pansy, già, se glielo dicessi probabilmente vomiterebbe succhi gastrici da oggi fino al 2076.

Quindi non glielo dirò mai.

Mi è mancato il suo essere così maledettamente Serpeverde… perché mi ricorda Draco… la sincerità mai rigettata, il sarcasmo, l’orgoglio. In cinque anni, io non ho mai visto nessuno così. E mi mancava terribilmente. Quando ti abitui a parlare con loro, difficile è tornare ai tuoi soliti legami. Con Ron, nonostante tutto, a volte ero anche felice, ma non era una sfida continua come era Draco e come spesso, a suo modo, è anche Pansy. E adoro sia Helder che Hayden… ma non era la stessa cosa.

I miei pensieri, che per un attimo si erano fatti scintillanti e spensierati, si oscurano di nuovo. Mentre Dean e Seth continuano a ridere e punzecchiano Pansy che risponde a tono, ancora la dimensione profonda della mancanza di Draco in questa stanza con me e con i nostri amici, oppure al piano di sopra con nostro figlio, mi acceca e mi toglie il fiato.

Lui non è qui, non è qui, dannazione. È con Raissa, o chissà con chi altra. Senza volerlo, senza averlo premeditato, mi piego e nascondo il volto tra le mani, piangendo.

Le risate cessano all’istante, immediatamente le braccia di Seth si chiudono sulle mie spalle abbracciandomi: “Scusami tesoro… ci siamo lasciati prendere la mano…”.

“N-no, non è per voi…” biascico ancora china su me stessa “… ma… lui… Draco… dovrebbe essere qui… con me, con voi… e con Alex…”.

“Se lo avessi visto quel giorno, capiresti che non poteva restare qui un attimo di più…” mormora Pansy, scuotendo il capo, mi drizzo a sedere e la guardo senza capire. Lei senza scomporsi, prosegue: “Quello che vi è successo, è ingiusto… ma è giusto che lui non ci sia, Granger…”.

“Che diamine vuol dire?!” chiedo già iniziando ad alterarmi, stringendo violentemente i pugni.

“Dico solo che per come sono andate le cose, per lui è normale non essere qui adesso…” riprende incolore, guardandosi le unghie apparentemente disinteressata “Io ti ho raccontato com’è andata… ma non ti ho fatto vedere com’è andata… ed è giusto che tu lo sappia… così smetterai di pensare che io o chiunque altro avessimo qualche potere su di lui, non l’abbiamo mai avuto su di lui normalmente, figuriamoci quel giorno… tu l’hai fatto a pezzi, Granger…”.

“Io non ho fatto nulla, non ero io!” urlo addolorata, anche se Pansy lo sa, anche se adesso tutti lo sanno che quella mattina ad incontrare Draco non fui io. Seth mi tiene stretta per gli avambracci, quasi impendendomi di muovermi, mi dibatto come un uccellino in gabbia.

“Lo so… ora so che era Astoria…” commenta piatta Pansy, guardando la finestra, lo sguardo di Dean corre veloce da lei a me “Ma quel giorno… sembravi tu in tutto e per tutto… l’odore, la forma dei capelli, il modo di parlare… non era Pozione Polisucco, non era tantomeno un Confundus…”.

“Era Cordis Imitatio…” ribatto stancamente, cercando di parlare a voce più bassa e calma, Seth finalmente mi lascia andare “Ho fatto delle ricerche in Italia, avevo il sospetto che Astoria avesse fatto qualcosa di simile… quel giorno non si smaterializzò con me e Dimitri… e pensai che avesse fatto qualcosa per dividermi da Draco… non avevo la certezza che non lo avessero ucciso, avevo solo la speranza che non fosse così, anche perché Dimitri aveva sempre parlato di una parte della loro collaborazione per cui chiaramente Astoria aveva un vantaggio e riguardava Draco, poteva solo voler dire che non avesse mai rinunciato all’idea di diventare la signora Malfoy…”, sospiro lungamente prima di riprendere: “Non mi aveva strappato dei capelli o altro… non era Pozione Polisucco. E tantomeno un Confundus, forse ve ne sareste accorti, abituato com’era Draco ad usarlo al Petite Peste anche quando c’era Astoria… e trovai quest’Incantesimo. Vecchio, antico, quasi perduto, ma che ovviamente Dimitri con tutta la sua conoscenza magica, sapeva come fare… letteralmente si chiama Imitazione del cuore… due persone unite dallo stesso sentimento entrano in risonanza l’una con l’altra. Una delle due ne può rubare per qualche ora aspetto, ricordi, emozioni. A patto che l’altra persona sia sufficientemente debole… ed io lo ero, ero sotto il controllo di Dimitri. Ed Astoria in fondo, a suo modo, non ha mai smesso di amare Draco…”. Chiudo gli occhi, una sequela di ricordi uno peggiore dell’altro mi si affastellano davanti agli occhi e cerco di lasciarli al passato a cui appartengono. Sospirando concludo con un filo di voce, rivolgendomi a Pansy: “Avevo fatto sogni strani… tu… che piangevi… e Draco… che…”. Non riesco a finire la frase, quell’immagine era stata così straziante che mi ero chiesta che cosa avessi potuto pensare di così terribile da fare un sogno simile. Poi, quando avevo avuto modo di riflettere, avevo ipotizzato con angoscia che poteva essere successo davvero.

Draco che perdeva il controllo? No, quello non puoi averlo visto…” dice sadica Pansy, un sorriso amaro sulle labbra sottili. Estrae la bacchetta dalla tasca della sua gonna, la punta alla tempia e ne esce un rivolo argentato. Con un altro movimento flessuoso fa comparire un Pensatoio in cui riversa il ricordo appena estratto dalla sua memoria.

Con un sospiro greve, mi sporgo con Seth oltre la superficie tremolante del Pensatoio, dove fluttua e prende definizione il ricordo di quella mattina di cinque anni fa.

 

Un reggiseno rosso sotto il tavolo della cucina.

Pansy lo afferra con due dita schifata, china in ginocchio sul pavimento, e lo getta distrattamente nel sacco dell’immondizia che Lyria tiene aperto. Borbotta afona insulti e maledizioni all’indirizzo della misteriosa “donna scarlatta” che ha pensato bene di dare sfoggio delle sue doti amatorie nella sua cucina, alla sua festa di compleanno. Non che la sua festa, quell’anno, fosse stata il massimo del divertimento… Robert, quel dannato vecchio che sopportava solo perché era l’avvocato dei suoi genitori, era caduto in una delle fontane del giardino facendo scappare l’ultimo esemplare di cigno bianco di sua madre. Daphne Greengrass si era ubriacata ed era svenuta in giardino, peraltro dimenticando tutto quello che era successo nelle ore precedenti, compreso il ricatto di Pansy per l’incontro con Potter. E adesso doveva dirle tutto daccapo… come se non bastasse, Pansy aveva cercato di cancellare Blaise dalla sua mente, pomiciando con uno che conosceva appena e che aveva pensato bene di vomitarle tutto il punch alla frutta sull’ultimo paio di scarpe di velluto che possedeva.

Pansy riemerge da sotto il tavolo sudata ed accaldata, è una mattina umida di fine giugno, di quelle dove persino respirare è faticoso e dove ti senti sempre appiccicaticcia e nervosa. Lyria è abituata alle sue intemperanze acide, ai suoi rimproveri caustici e alle sue frecciate pungenti, quindi, vedendola scura in volto, pensa bene di arretrare e di fingere di guardare attentamente il contenuto del sacco dell’immondizia.

Pansy non avrebbe mai voluto fare una festa per il suo compleanno, spendere soldi inutili, fingere di adorare persone che odia, nascondere la piaga purulenta che eruttava quando Blaise le passava accanto e volutamente le sfiorava la schiena, una spalla, una ciocca di capelli. Lei chiudeva gli occhi tremante, stringeva le labbra e lasciava che il corpo si godesse la carezza per un attimo. E poi apriva gli occhi e vedeva Draco e la Granger.

Provava schifo per loro due, come negarlo. Di primo acchito la coglieva incredulità, repulsione, l’insana speranza che fosse tutto uno squallido sogno. Era di Draco Malfoy che si stava parlando, il suo amico, il principe dei Serpeverde, quello che, se al mondo pazzo in cui vivevano non fosse saltato in mente di esplodere, avrebbe potuto avere ogni donna del mondo. Aveva avuto persino Helena Greengrass… e adesso si accontentava della Granger.

In quei momenti a quel pensiero, le veniva quasi da gridare per il nervosismo: avrebbe legato Draco ad una colonna, lo avrebbe fustigato fino alla follia e lo avrebbe fatto rinsavire, ecco.

E quella stessa identica fantasia si era materializzata quando lui le aveva detto con la più ingenua e beata delle espressioni, che voleva chiedere alla Granger di sposarlo. Con l’anello di sua madre. Dopo solo dieci giorni che stavano assieme.

Pansy in quel momento, aveva aperto e chiuso la bocca come se stesse andando in iperventilazione, mentre Draco le mostrava l’anello di Narcissa. Come se non se lo ricordasse… da ragazzina era stato la sua ossessione. Un diamante di un carato, tagliato a cuscino, circondato da una doppia fila di ulteriori brillanti. E diamanti anche sulla fedina. Era tipo una leggenda, tra le Purosangue della sua età. Tramandato di generazione in generazione dai Malfoy, era il sogno proibito di ogni ragazza.

E lei ricordava perfettamente come lo sfoggiasse fiera Cissy… e, a quel pensiero, aveva avuto un travaso di bile non da poco. Adesso sarebbe diventato della Granger, che manco ne avrebbe apprezzato il valore.

Aveva aperto la bocca, pronta ad una sequela di insulti… che non erano arrivati. Era bastato guardare Draco per fermarsi.

La luce che aveva il suo viso al pensiero di chiedere in moglie la Granger, era tipo più luminescente di ottomila diamanti da quindici carati. E quella luce non era una novità: l’aveva dalla mattina successiva al suo ritorno, quando salutando Pansy stessa a malapena, aveva passato tutta la colazione a guardare la Granger che beveva uno stupido succo di frutta.

Draco lo avrebbe fatto lo stesso, anche senza la sua approvazione… ma senza di essa, lo avrebbe perso.

Quindi aveva pronunciato qualche velenosa frase di convenevoli, gli aveva dato un pacca sulla spalla di incoraggiamento ed era uscita, una stretta insopportabile alla bocca dello stomaco. Che non era gelosia, invidia, o altro. Certo, aveva amato Draco, molto, era il suo primo amore. Ed era il suo migliore amico. Quindi ovvio che le dispiacesse che volesse stare con la Granger… ma non era questo.

Non era nemmeno l’invidia per un diamante da decine di migliaia di sterline, anche se le sarebbe sembrata la spiegazione più ovvia, vista la vita da poveraccia che era costretta a fare.

Ma invece che invidiare dell’amore quel suggello luccicante da poter mostrare e sfoggiare ad ogni piè sospinto, lei invidiava l’amore stesso. Quello che  fa superare ogni ostacolo, quello che ti fa decidere di stare con una persona anche se tutto l’Universo ti si rivolterà contro. Blaise poteva regalarle anelli come quello se solo l’avesse chiesto, se solo il suo orgoglio fosse morto ed avesse deciso di chiederglielo. Le avrebbe regalato un anello con gioia, perché facendoglielo mostrare alle amiche, lei si sarebbe sentita soddisfatta ed appagata, non chiedendo niente di più. Ma lei non avrebbe mai potuto dire che era un anello di Blaise, ci mancherebbe. Era l’amore, quel tipo particolare di amore, che Blaise non poteva darle.

Quell’amore che era al contempo, salvezza e dannazione… quello che se ti colpisce come un fulmine a ciel sereno, devi solo arrenderti e basta. Quell’amore che aveva condotto Draco a portarle la Granger in casa, pretendendo la sua approvazione, senza nemmeno chiederla, perché sapeva che, disapprovando lei, avrebbe al contempo rigettato lui. Quell’amore che aveva inumidito gli occhi della Granger mentre le diceva: “Quando tornerà, perché lui tornerà, arriverò a cambiare anche tutto il mondo pur di restare con lui, senza bisogno dei consigli di una come te... subite pure il mondo che vivete, io ho smesso di farlo…”. Facendole spezzare il cuore. Perché, per lei, nessuno avrebbe cambiato il mondo. Per lei, al massimo, lo si subiva.

Pansy Parkinson non è abituata all’onestà nemmeno con sé stessa. Quei pensieri come una lanugine biancastra le ingolfano la mente, facendola sentire solo confusa e vagamente in colpa. Per una come lei, non è normale, sano ed auspicabile trovarsi ad invidiare Hermione Granger. Come se avesse a che fare con della sgradita polvere, nasconde quella punta d’insoddisfazione sotto una carrellata di pensieri sciocchi e futili tra cui primeggia il suo programma di attività, non appena sarà giunta a Parigi.

Ma non fa in tempo a pensare a nulla che un tramestio per le scale la fa trasalire improvvisamente, Lyria spaventata molla il sacchetto dell’immondizia che ricade per terra con un tonfo secco.

“Raccoglilo…” le ingiunge gelida Pansy, sollevandosi da terra e attraversando la cucina. Apre la porta per raggiungere le scale, pregando in tutte le lingue del mondo compreso il serpentese, l’eschimese e il cinese mandarino di saper fingere in modo convincente un infarto del miocardio, se il rumore è stato provocato dalla Granger che vuole raccontarle della proposta di matrimonio.

Ma a scendere le scale non è stata Hermione Granger, con un anello al dito e l’espressione di chi ha appena vinto la lotteria del destino.

A scendere le scale è stato Draco Malfoy, il completo grigio della sera prima ancora addosso completamente spiegazzato, i capelli arruffati di chi si è appena svegliato, gli occhi cerchiati e rossi. Fermo ai piedi della scala, il respiro ansante, si guarda furiosamente attorno, il respiro convulso.

Di primo acchito, Pansy non lo guarda in viso, lui le dà le spalle e continua a guardare a destra e sinistra, percorrendo con lo sguardo tutto l’ingresso, non accorgendosi di lei. E Pansy automaticamente incrocia le braccia al petto, rotea gli occhi con fastidio ed apre le labbra pronta a dire qualcuna delle sue frasi velenose, che in realtà nascondono l’affetto per il suo amico. Forse per un solo istante, mentre pensa di esordire con un commento caustico sul completo grigio usato come pigiama, è davvero contenta per Draco, gli augura la felicità con Hermione Granger, spera che Serenity lo veda come un padre. Per un momento, un fosco momento nella luce pallida del primo mattino, Pansy Parkinson è prodiga di benedizioni che, piovendo come incenso sul capo di Draco, di riflesso vanno ad indorare anche quello meno gradito della Granger. E non la invidia più, perché se rende felice Draco, merita di essere felice anche lei.

Per un momento, Pansy augura il bene a chi ama e per quello, a tempo debito, lei stessa avrà la ricompensa di un amore che sfida tutto, compresa sé stessa.

Ma è solo un momento.

Poi Draco si gira e le sue labbra si serrano perché lei non resterebbe mai a bocca aperta, mostrandosi sconvolta. Solo le sue braccia abbandonano il loro confortevole posto incrociato e le cadono lungo i fianchi, dandole l’aspetto di una che sta aspettando una spada di fuoco che le piova dal cielo senza preavviso e senza scampo alcuno. Pansy non ha mai capito il tono orgoglioso e tronfio di chi sostiene di conoscere qualcuno meglio di sé stesso: non capisce, né capirà mai una rinuncia così palese ed ingiustificata del proprio sano egocentrismo, né tantomeno cosa ci sia di così meraviglioso in un’osmosi di sentimenti e umori da rendere pazzo chiunque la viva.

Chi desidererebbe mai soffrire per un dolore altrui, che riesce a riconoscere perfettamente nel volto di un’altra persona?

Pansy ama le sensazioni represse per pudore ed orgoglio, ama le zone nascoste dell’anima, ama i segreti soffici, ama l’eco dei pensieri nella sua testa quando non diventano parole rivelate a qualcuno. Eppure, anche se non l’ha mai desiderato, anche se non l’hai cercato, anche se, qualora se ne rendesse compiutamente conto, probabilmente si sentirebbe non meno che agghiacciata, lei conosce Draco meglio di sé stessa.

Ne conosce soprattutto il dolore, perché a quello Draco si è abituato bene nella sua breve vita.

Draco si volta e Pansy ne distingue ogni minima crepa nel viso contratto che ora la fissa, negli occhi allucinati di cui resta solo un cupo riflesso di perla, ormai inghiottito dal nero della pupilla terrorizzata. Conosce quel sudore freddo sulla fronte madida, la pelle del collo che pulsa bianca, conosce il cuore che sembra quasi esplodere fuori, conosce quei gesti mozzicati, goffi ed ineleganti che non conoscono più la galanteria fredda che hanno imparato sin da bambini.

In fondo, chiunque sa che la paura è sempre molto poco educata.

Lui non avrebbe nemmeno bisogno di parlare, che Pansy ha già capito: quando il dolore ti trasfigura il viso, quando è così evidente nei tratti che sono sempre stati abituati a celare, il dolore può essere solo riflesso della gioia.

Quando ti distruggono la più grande felicità che tu abbia mai provato, per contrappasso vieni ripagato con il dolore più sterminato di cui tu possa mai soffrire.

Pansy allora pensa di essere fortunata, è un attimo ma lo pensa davvero. Perché lei non è mai stata così felice come Draco in questi dieci giorni: amava Blaise, certo, lo ama ancora, ma è sempre stato un sentimento di ripiego, di quelli a cui non lasci nemmeno l’ombra di un sorriso sulle labbra per paura di risultare patetica o per paura che qualcuno se ne accorga e te lo strappi via. Draco invece aveva profuso gioia per giorni, si era inginocchiato alle promesse del tempo che aveva creduto benevolo, si era affidato ad un destino o ad un Dio che oramai da lui aveva preteso troppo, prendendosi tutto. Ed ora il conto salatissimo era arrivato.

Pansy avrebbe finto di dimenticare in fretta il viso di Draco di quel giorno, perché le cose che le spezzavano il cuore, lei le nascondeva sempre in fondo a sé stessa, così da poter negare persino che ce l’avesse un cuore.

Ma quel viso era un monito, per lei: sarebbe spuntato una mattina di sole inquieta a Parigi, due anni dopo, quando avrebbe detto ad un ragazzo nato babbano, che lo amava, mentre lui le porgeva un libro che aveva dimenticato.

Quando l’avrebbe stretta, quando l’avrebbe baciata, quando le avrebbe risposto allo stesso modo facendola volteggiare in Place de l’Opera… lei avrebbe ricordato il viso di Draco. E lì, avrebbe avuto paura di essere felice. Da quel momento in avanti, Pansy avrà sempre paura di essere felice.

“Dov’è?!” Draco si volta verso di lei, le mani contratte in due pugni silenziosi, il respiro ansante “Dov’è lei?”.

Non la chiama per nome, non usa il suo nome di battesimo, come se non lo volesse sciupare, come se lui potesse usare un pronome femminile solo per parlare di Hermione Granger, non per parlare di una qualsiasi altra donna al mondo.

Pansy vorrebbe avere una risposta qualsiasi, vorrebbe anche avere una di quelle frecciatine sarcastiche che sono sempre a sua disposizione come i dardi di una faretra, ma invece resta in silenzio, attonita, come se avesse avuto uno schiaffo. Pensa al alla luce sfarzosa dell’anello di Cissy … e l’istinto della donna le dice che lei, la Granger, non ce l’ha fatta. Pensa subito che non ha voluto. Ma l’amica fa tacere la donna, si dice che è impossibile, che la Granger in fondo ama Draco, che lo sposerà sicuramente, che non è così stupida da buttare all’aria un amore così. Un lampo le curva la schiena, facendole drizzare i capelli sulla nuca, la ricorda davanti a quello specchio la sera prima, le spalle incassate, gli occhi rivolti vergognosamente in basso.

Non risponde alla domanda di Draco, in un attimo la donna prevale e le sembra ovvio chiedere: “L’anello… quello di tua madre… l’hai dato anche ad Helena vero?”.

È come aver preso un coltello ed averglielo calato nelle viscere: Draco si piega, il respiro si spezza, gli occhi si eclissano. Pansy constata con terrore che vorrebbe persino piangere, ma si sta trattenendo perché davanti a lei, alla sua amica, a quella che erroneamente lo crede invincibile, lui non piangerebbe mai. Si scompiglia i capelli, tentando di sembrare disinvolto, ma stringe forte le ciocche nella mano come a strapparli con forza dal cuoio capelluto.

Sussurra con un tremito della voce: “Ho fatto una cazzata… la più grande che potessi fare in tutta la mia vita… era l’anello di mia madre, prima che essere quello di Helena… e io non volevo che pensasse… per me era solo importante, per me era solo dirle che è importante come mia madre, come Helena… più di loro due messe assieme… ma… lei…”. Non aggiunge altro, si accascia sulle scale, si prende la testa tra le mani, i gomiti poggiati sulle ginocchia che tremano. Da qualche parte giunge ancora la sua voce, è un flebile bisbiglio che sembra lasciare a fatica la sua bocca come se fosse un peccato pronunciare quelle parole.

“Dice che non riesco a lasciare andare Helena…”.

Pansy fa qualche passo incerto sulle gambe, si siede sul gradino accanto a lui e sospira lungamente. Concede solo quello a sé stessa e a lui, non conosce come si dice una parola gentile, sa solo spronare a suo modo con insulti al vetriolo. Si ferma mentre sta per abbracciarsi le ginocchia come quando era piccola e c’erano i temporali. Non sapeva allontanarsi dalle finestre e dai vetri scossi dai tuoni e sferzati dal vento, ma si abbracciava le ginocchia come a trattenersi tutta intera, come a racchiudersi in un bozzolo che la tempesta avrebbe trovato sempre inaccessibile.

Si stira un’invisibile piega sulla gonna cremisi e mugugna solo: “Gli incantesimi di Raissa non si sono mai spezzati… sarà qui da qualche parte…”.

“E poi? E poi che succede Pans?” le dice Draco implorante, sollevandosi dritto e guardandola negli occhi come non aveva mai fatto. Pansy trasale, chiude gli occhi, alla fine si abbraccia le ginocchia.

L’amore è analgesico della paura, lo seda e lo mette a tacere, lo trasforma in coraggio spavaldo, in voglia famelica di vivere, in arroganza verso chiunque non provi amore esattamente come te. Quando l’amore vacilla, quando chi ami sparisce, quando spezzi il cuore che ti ha somministrato in vena l’eroina più buona che potrebbe esistere al mondo, quando vai in astinenza da onnipotenza, il buio viene portato sul piedistallo della tua testa. Ti riscopri codardo come coniglio, timoroso di ogni rumore e di ogni respiro più intenso, spii il tuo stesso fiato nei polmoni e lo conti nel timore che sfugga via, lasciandoti esanime. Pansy sa che cosa intende Draco: lei non c’è, la Grifondoro che gli ha iniettato la forza e la pretesa della felicità non è accanto a lui. E ora Draco teme il futuro, la vita, il caso. Teme lei stessa, teme l’amore e teme ogni cosa. Ha avuto un assaggio di cosa succede quando la droga scarseggia, quando non c’è più a darti l’estasi colorata dei sensi. Che farà lui, allora? Cerca risposte, cerca un’altra forza che non ha.

Pansy si dondola sulle ginocchia chiudendo gli occhi, le parole marciscono in lei come foglie morte. È il momento, adesso o mai più. Lo può afferrare dall’orlo del precipizio, farlo tornare indietro e salvarlo. Disintossicarlo, chiuderlo in una stanza soffice e sicura ed impedirgli di soffrire. Perché lei lo farà soffrire, è ovvio, e una parte nascosta della sua testa le suggerisce che anche lui farà soffrire lei. L’altro lato della medaglia di quell’amore è quella sofferenza e quel dolore.

Chi ama così tanto, è condannato.

Può salvarlo adesso. Può salvare anche Hermione Granger adesso, per quanto le importi. Li ha entrambi ad un tiro delle sue dita chiuse, basta una sola parola, basta un solo fiato.

“Che cosa devo fare?” sussurra ancora Draco, più a sé stesso che a lei. L’attesa suggerisce la sola risposta, la risacca del coraggio sferza le sue parole rendendole già più ferme, già meno vacillanti. La schiena torna più dritta, gli occhi più intensi, le labbra si serrano in una morsa decisa ed implacabile. Ma aspetta la risposta di Pansy, la aspetta ancora, come una rassicurazione in fondo voluta, come se davvero ne avesse bisogno. Pansy gli è grata per questa ricerca del suo consenso.

E lo lascia a penzolare nel vuoto con un sorriso: se c’è anche una sola  possibilità che Hermione Granger lo faccia volare, lontano dal fondo limaccioso in cui le serpi come loro hanno sempre strisciato, vale anche prendersi il rischio che si sfracelli al suolo.

“E’ semplice Draco... fai la sola cosa che la tratterrà accanto a te…” bisbiglia sofferta, sciogliendo la presa sulle ginocchia e poggiando le braccia dietro di sé “ E sai perfettamente qual è…”.

I lineamenti del viso del ragazzo si addolciscono, spunta persino un sorriso sulle sue labbra ed una luce nuova negli occhi: è un bambino che si lambiccava su un problema di matematica difficilissimo, prima di capire che bastava una sottrazione per risolvere il tutto. Draco deve sottrarre Helena dal suo cuore, se vuole che ci abbia casa e dimora perenne Hermione Granger. E’ così semplice che a Pansy viene quasi scioccamente da ridere, ma sa che le cose più sembrano semplici, più in realtà sono voragini ed abissi intricati di difficoltà e sforzi. Estirpare Helena da sé, per Draco, sarà la cosa più complicata che esista… ma esiste una cosa più complicata per lui. Vivere senza Hermione Granger. Quindi tutto il resto, necessariamente, deve essere semplice, deve diventarlo per un logico principio di sopravvivenza: senza il ricordo di Helena, senza il pensiero di vendicarla, lui perde una parte di sé. Senza Hermione Granger, lui perde tutto.

Perché lei ormai gli è entrata dentro, e Pansy se ne accorge dal gesto sciocco che fa adesso, mentre sembra più disteso e ha il respiro più calmo. Le mette un braccio sulle spalle, la attira verso di sé e lascia che appoggi la tempia sulla sua clavicola.

Le bacia da fratello la testa, prima di lasciarla andare. E Pansy non fa nulla per fermarlo, non fa nulla per rinfacciargli quel gesto, anche se capisce che non è suo, anche se comprende fino a che punto Hermione gli sia entrata nel sangue. Forse è anche dentro di lei, dentro le lacrime che le affollano gli occhi, mentre cerca con un gesto noncurante della mano di rimandare al mittente quell’imbarazzato ringraziamento.

È entrata dentro a tutti loro, dannata Mezzosangue.

Improvvisamente sentono un rumore su per le scale, Draco si alza in piedi di scatto come una molla, sperando che si tratti di Hermione. Sulle scale, invece, avvolta in una vestaglia nera di seta, c’è Raissa. Le spalle di Draco si afflosciano su sé stesse, mentre lo sguardo da cane braccato riprende vigore sul suo viso. La Granger ancora non si fa vedere. Pansy solleva lo sguardo verso Raissa, sollevandosi in piedi a sua volta, cerca di farle capire con un’alzata di spalle o un’occhiata sarcastica che i piccioncini di casa hanno di nuovo litigato, e che loro ne andranno di mezzo. Certo, non è una lite come le altre, anzi è LA LITE, con tutte le maiuscole e i grassetti del caso, ma questo lei non lo direbbe mai, a meno che non vi accennasse Draco stesso.

Non si fida di Raissa, Pansy non si è mai fidata. Ovviamente è più simile a lei di quanto lo sia la Granger, e questo ha fatto sì che tra le due si innescasse una sorta di confidenza storta, la quale si nutre di occhiate e cenni del capo a cui non c’è bisogno di dare spiegazioni e significati. Ma Pansy descriverebbe quell’idea di intimità con una stanza in cui si è rinchiusi per ore con due persone: una che parla la tua lingua, mentre l’altra ha un idioma completamente diverso. Ecco, ovvio che parleresti di più con quella che parla come te, limitando all’altra gesti affrettati e mozzicati da tradurre di volta in volta… ma questo non significa che effettivamente ci sia un legame con la data persona.

E Pansy, sebbene non se lo direbbe mai apertamente, si affiderebbe più ad Hermione Granger e alla sua lealtà smisurata e ridicola, che a Raissa Karkaroff e alla sua presunta onniscienza gelida.

La guarda con gli occhi socchiusi, anche adesso ha qualcosa nell’atteggiamento che non la convince. I capelli sono perfettamente in ordine, gli opali che porta sempre alle orecchie tintinnano lievemente, persino la seta della vestaglia non ha la benché minima piega come se lei nemmeno respirasse… ma sotto le palpebre, nel vederli, passa rapido un guizzo di luce che sparisce subito dopo. Pansy lo nota, però, così come nota la mano che si stringe attorno ad un libro che ha in mano. Ha il frontespizio azzurro tutto rovinato, sotto spicca il rosa di una vecchia copertina. Il titolo del libro stesso è illeggibile, rimangono solo sparuti segni dorati.

Quel libro non è di Raissa, è della sua libreria, Pansy lo riconosce perché è un libro vecchio che si ripromette sempre di gettare via, ma che invece sopravvive quasi con dispetto, longevo, godendo delle sue dimenticanze e delle sue mancanze come padrona di casa. Non ricorda di che parli, forse non lo ha mai nemmeno aperto, non è nemmeno così vecchio da essere prezioso, perché altrimenti lo avrebbe venduto, sicuramente. È un libro vecchio come tanti altri.

Raissa ha venduto l’amore per suo padre per ottenere una smisurata conoscenza. Sapeva tutto dello Zahir e di Adamar, due dei segreti più vecchi e nascosti della storia della magia.

Che se ne fa di un libro della sua biblioteca? L’aiuta a dormire, leggere cose che conosce perfettamente?

Pansy continua a guardarla mentre scende pigramente le scale, il libro ancora tra le mani, le unghie smaltate di rosso scuro graffiano la copertina.

Pansy getta uno sguardo in tralice a Draco, ovviamente perso nei suoi pensieri. Dovrà cavarsela da sola. Al più presto, dovrà mettere mano su quel libro.

“Raduno mattutino?” commenta Raissa con tono di voce strascicata, finendo di scendere gli ultimi gradini “La festa non deve essere stata granché se siete in piedi già adesso…”. Draco non la fa nemmeno finire di parlare, trafelato le chiede: “Hai visto Hermione?”. Pansy nota ancora l’esitazione che ha per un secondo nel rispondergli, sa che anche Draco se ne accorgerebbe se fosse in pieno possesso delle sue capacità analitiche, ma ovviamente lui non ci fa il benché minimo caso. Pansy socchiude gli occhi, fissandola con attenzione. Ci ha messo solo un secondo di più del dovuto per dire: “Non lo so… io non la vedo da ieri pomeriggio…”. Ha dovuto pensarci, e questo a Pansy continua a non piacere.

Un nome si forma nella sua testa, rapido, come un bagliore diffuso di tenebra. Dimitri.

Lo ricaccia indietro con un nodo in gola, guardando alternativamente Raissa e Draco, ha bisogno di parlare sola con lui. Se non trovano subito la Granger, la sola spiegazione può essere che Raissa l’ha venduta a suo fratello. D’accordo, hanno litigato ma lei non si sarebbe mai allontanata da lì. Non è così stupida… e tecnicamente nemmeno può, gli incantesimi la relegano nella villa. A meno che…

“Gli incantesimi che impediscono alla Granger di uscire… ci sono ancora?” chiede in un soffio, guardando Raissa negli occhi. Draco la guarda senza fiato, per un attimo il mondo attorno gli sembra improvvisamente di nuovo esistente, lo sente chiudersi a cerchio attorno a loro e premere come un serpente. Si aggrappa alle labbra rosse di Raissa che, giudice di ultimo grado, sussurra solo dispiaciuta: “Non credevo che servissero più… era complicato per me tenerli in piedi… ho lasciato solo quelli che impedivano a Dimitri di entrare… non a lei di uscire… ma perché, pensiate che sia andata via? Non lo farebbe mai…”.

Draco prende con collera un vaso colmo di fiori rossi da un tavolino, lo scaglia violentemente al suolo bestemmiando ed urla di rabbia ed angoscia. Pansy non distingue il fragore, non sente le gocce d’acqua colpirle i piedi, non avverte la sofferenza agonizzante dei suoi fiori che perdono il contatto con la vita liquida e surrogata che li fa sopravvivere. Sente solo le eccessive parole con cui si è giustificata Raissa. Sente solo che ha detto troppo. Sente solo che, a quelli come loro, basta molto meno per dire qualcosa. E sente solo il tono sommesso di chi ammette un errore. Loro, non lo fanno mai. Raissa l’ha appena fatto.

La Granger poteva uscire dalla villa. Raissa ha volutamente lasciato che le difese cadessero. Là fuori c’è Dimitri. Troppo facile fare due più due: Draco non la rivedrà mai più.

Lui, però, è sedato dall’amore e dalla speranza e non vede niente con chiarezza: vede solo il suo sbaglio, quello che ha la durezza di un diamante donato con troppa leggerezza. Quell’anello che le ha voluto regalare senza pensare alle conseguenze, illumina la mente di Draco di mille screziate sfaccettature una peggiore dell’altra, ma sono riflessi ciechi che isolano tutto il resto e mettono al centro solo loro due, in modo egoisticamente desolante.

Draco pensa che il suo errore sia stato chiedere ad Hermione di sposarlo con l’anello di Helena, crede che lei è andata via per ricongiungersi a quel mondo che era solo suo e che ha continuato ad alitarli addosso, da fuori quel cancello.

Pansy inizia invece a pensare che l’errore di Draco sia stato farla uscire dalla loro camera quella notte, perché un amore del genere, per sopravvivere, te lo devi legare al polso con una corda corta. La libertà, in amore, loro non se la potevano concedere.

Sta pensando a quello, sta pensando di dirlo a Draco, sta pensando alle parole giuste perché ormai lei pensa anche alle parole giuste da dire, non le dice e basta senza curarsi del risultato… quando l’artefice delle sue riforme a livello lessicale, compare improvvisamente in un angolo della stanza, dopo essersi smaterializzata. Pansy non sa, non se lo aspetta e non lo immagina, ma quel sollievo che adesso ha sentito nello stomaco sarà la cosa di cui maggiormente si vergognerà nella vita.

Lo troverà ancora in fondo a sé stessa un’ora dopo, quando tutto il suo mondo si sarà rovesciato. Ed odierà Hermione Granger come non ha mai nemmeno lontanamente fatto in passato. L’ha sempre odiata per cose che non avevano a che fare con lei. Nessun motivo personale, solo l’eredità nauseabonda di un sangue sporco. Ora l’avrebbe odiata per tutto quello che aveva a che fare con lei, per tutto ciò che suo malgrado, aveva conosciuto di lei.

E, per aver conosciuto quelle cose, avrebbe odiato sé stessa ancora più di quanto odiasse lei.

Ad ogni passo della Granger nel salotto, il respiro di Draco si scioglie, si calma. Le mani si decontraggono, le spalle si rilassano, i fortunali negli occhi cessano di spargere fulmini. Pansy respira a sua volta, chiude gli occhi per un istante, per poi riaprirli mentre la guarda con il solito sguardo tagliente. Mette anche le mani sui fianchi, pronta ad una ramanzina acida delle sue, si dimentica completamente di Raissa alle sue spalle che stringe con forza il libro nelle sue mani, il labbro che le trema.

Quando Hermione compare nel cono di luce della finestra, Pansy lascia ricadere le braccia lungo i fianchi e si chiede se non è diventata paranoica. È lei, è la Granger, ma al contempo appare diversa. Non è più vestita come la sera prima, ha un paio di jeans ed un gilet sempre dello stesso tessuto, su una maglia bianca a maniche corte. I capelli sono lucidi ed annodati in una treccia che le cade su una spalla, ai piedi ha delle scarpe da ginnastica rosse di tela. Al collo, non c’è più la collana che le ha dato la sera prima. Il viso è pulito, tranquillo, apparentemente privo di alcuna traccia di turbamento. Le labbra sono distese in una piega rilassata e gli occhi sono limpide pozze calme. Pansy crede persino di distinguere un sorriso, lieve, fumoso, stridente.

Poi solleva gli occhi e si accorge di loro. Improvvisamente un’onda di marea le rapisce la calma e la freddezza, torna sé stessa in un attimo e cambia completamente. Si mordicchia nervosamente il labbro, gli occhi diventano lucidi e rossi, le spalle si incassano, appare persino più spettinata e meno ordinata nell’abbigliamento. I passi si arrestano proprio di fronte a loro, mentre, a testa bassa, rimane immobile al centro dell’ingresso come una condannata che aspetta il giudizio.

“Si può sapere dove diamine sei stata?!” Draco non fa un passo nella sua direzione, non si muove, ha il contegno severo e sollevato di un padre che vede rientrare la figlia troppo tardi. Pansy, a disagio, vorrebbe allontanarsi, lasciarli soli, ma è inchiodata al pavimento. Raissa, dietro di lei, prende a salire le scale in silenzio, diventando inaspettatamente veloce sui gradini più in alto, e sparisce nel corridoio. Il rumore della porta della sua camera che si chiude, risveglia Pansy che, senza dire una parola, sale a sua volta le scale e svolta nel corridoio. Ma poi, semplicemente curiosa, inaspettatamente sospettosa, inconsciamente interessata, resta con la schiena contro la parete, origliando che cosa si stanno dicendo.

“Non potevo restare qui, te l’ho detto… avevo bisogno di schiarirmi le idee…”. La voce della Granger è velata, soffusa, sembra persa in un mondo tutto suo. Un mondo che già ha scavato solchi e fossi tra lei e Draco.

Pansy non sa come distingue il respiro di lui accelerare di nuovo, lo sente fare un piccolo e minuscolo passo, che però riecheggia enormemente nell’androne deserto mentre calpesta un frammento del vaso che ha rotto poco prima.

Il tempo scompare di nuovo, mentre la Granger implora sofferta, la voce incrinata, il respiro a pezzi: “Per favore… resta lì… non ti avvicinare… h-ho bisogno di parlare…”.

“Non abbiamo parlato abbastanza ieri sera? Non hai già espresso in tutti i modi le tue interessanti quanto poco veritiere riflessioni?”. Draco ha di nuovo gli accenti duri e rochi del suo consueto conversare, flette le parole di rabbia repressa a stento. La notte appena passata, l’alba senza di lei, l’angoscia al pensiero che se ne fosse andata senza una spiegazione… tutto gli provoca rabbia. Pansy sente il mulinare dei suoi sentimenti come un uragano di vento che acquista velocità.

“Veramente per i miei standard ho anche parlato poco… e ho espresso un decimo di quello che volevo dire…” Hermione ovviamente, come sempre è stato e come sempre sarà, non si fa alcuna remora nel rispondergli, le sfugge il solito tono di voce caustico ma con una punta di veleno che non ha mai avuto. Poi ancora la voce le si spezza e prosegue incerta: “…ma se mi facessi la grazia di lasciarmi finire di…”.

“Il problema è l’anello, vero? E quello che credi che ci sia dietro… è così?” Draco la interrompe ancora, ha la voce affannata, celere, rapida. Sembra persino che abbia il fiatone.

“Draco, non è per quello… c’è anche che…”.

“Ascoltami, per una benedetta volta!” le urla contro, sordo alle sue rimostranze, Pansy se lo immagina con il volto chiazzato di rosso e gli occhi ciechi di nervosismo “Non hai solo tu l’esclusiva del diritto alla parola, te l’ha mai detto nessuno?! Chiudi quella bocca ed ascolta…!”. Dopo un po’, riprende al silenzio della ragazza: “Finalmente… veniamo alla maledetta storia dell’anello… che peraltro hai ancora tu, quindi non credo nemmeno che tu non l’abbia gradito per nulla…”.

“Non lo vorrai indietro adesso, spero…!” bercia nervosamente la Granger, balbettando a disagio. Pansy si appoggia meglio alla parete, lo sguardo fisso sul dipinto di fronte a lei, è una scena in stile amor cortese con un cavaliere che accetta un omaggio dalla sua dama, una specie di fazzoletto ricamato. Pansy ha sempre detestato quel quadro, ma piaceva molto a sua madre quindi non ha mai cercato di rivenderlo per pagare i debiti. Lo fissa senza davvero vederlo, come quando si hanno le orecchie assorbite da suoni così pressanti da rendere cieca la vista. Forse è la sua mente così abituata a fare calcoli venali sul valore degli oggetti, o forse è la permeabilità della mente di una bambina cresciuta con quadri romantici e favole luccicanti. Non crede più a quelle cose, ovviamente, ma esse sono sopravvissute riplasmandosi in un romanticismo più a misura d’uomo e donna di tutti i giorni. E quindi è normale chiedersi dove la Granger abbia cacciato quell’anello dal valore inestimabile e perché appaia così terrorizzata al pensiero che lui lo rivoglia indietro… avrebbe dovuto ridarglielo appena lo avesse visto, magari lanciandolo drammaticamente ai suoi piedi. Non l’ha buttato via, quello no, non sarebbe da lei. Lo percepisce: Hermione, con tutta la rabbia del mondo, non avrebbe mai fatto sparire l’anello della madre dell’uomo che ama. Ma allora, dove ha messo l’anello?

“Non mi interessa granché al momento…” riprende Draco con un filo di voce, ed anche Pansy si convince che in fondo non importa dove abbia messo il prezioso solitario “Quell’anello era di mia madre, prima di essere di Helena… lo sai perfettamente, hai visto i miei ricordi, non c’è persona che sa queste cose meglio di te… e sai anche che in realtà non è mai stato di Helena. Lei non l’ha mai indossato, non ci siamo mai realmente sposati. Era solo un simbolo… una rivalsa solo mia per legarla a me, quando lei apparteneva ad un’altra vita e ad un altro uomo…”, riprende fiato prima di proseguire, la voce che vibra dell’attesa angosciosa di non riuscire a spiegarsi: “Io amavo Helena, la amavo come non ho mai amato niente nella mia vita… e poi sei arrivata tu… e tutto quello che credevo… tutto quello che sapevo… tu me l’hai strappato di dosso pezzo per pezzo… sai che l’amavo, sai anche quanto l’amavo, perché purtroppo conosci i miei ricordi… ma non è… come… con te…”.

A Pansy fa male il cuore nel petto, le fa male il silenzio cupo della Granger, le fa male la sua resistenza. Lei sarebbe già saltata addosso a chi le avesse detto parole simili. Ma lei è una Serpeverde, e non ha orgoglio. La Granger sì, per quello Draco è costretto ancora a proseguire: “Ti ho dato quell’anello non perché tu ti sentissi in competizione con Helena, o per dimostrarti che non l’ho mai dimenticata… tutto il contrario. Per me… era un cerchio che si chiudeva. Non lo avrei mai dato ad una donna che non avessi amato nello stesso modo… se non di più… era delle donne che amavo, non pensi che darlo a te significa esattamente lo stesso? Che ti amo come amavo loro?”.

Dal tono di Draco, dalla linea scarna delle parole, dalla sequenza razionale delle frasi, a Pansy sembra inconcepibile pensare che effettivamente le abbia dato l’anello per motivi diversi da quelli che sta enumerando. Sembra persino ovvio che l’abbia fatto solo per tributarle un riconoscimento pari a quello della prima donna amata e della madre. È persuasivo, senza essere pressante, e convincente, senza sforzarsi di esserlo. È solo vero, onesto. La Granger non può non capirlo.

“Io non la vedo così…” la voce della Granger lo sfida, e Pansy sconvolta è quasi tentata di uscire fuori allo scoperto e di iniziare ad urlarle in faccia. Poi si ricorda che tecnicamente lei dovrebbe fare il tifo perché si lascino, non perché restino assieme.

“Ok… lasciamo stare questo benedetto anello…” prosegue Draco stoico, come se avesse trovato solo una buca sulla strada e dovesse solo limitarsi ad aggirarla “Ammettiamo che questa cosa poteva mandarti in confusione, ammettiamo che io ci ho visto qualcosa di bello e che tu invece non hai visto tutto questo… ok va bene, te lo posso riconoscere…”, sta persino ammettendo di aver sbagliato. Che diamine gli hai fatto Hermione Granger?

“Dammi quell’anello e facciamola finita con questa storia…” il tono scarno e sicuro fa sobbalzare Pansy nel suo nascondiglio improvvisato, si tappa la bocca con la mano.

La Granger riprende il suo tono da pulcino terrorizzato e biascica: “Che cosa? C-che vuoi farne?”.

“Distruggerlo… è un diamante da migliaia di sterline… uno spreco, ma sai, sono un pragmatico…  qualche modo deve esistere per distruggerlo, chiederò a Raissa…”.

“Perché vuoi distruggerlo?!!”.

“Ti dà fastidio che esista? Ti dà fastidio che te l’abbia regalato? Pensi che te l’abbia dato perché pensavo ancora ad Helena e volevo renderti ufficialmente la sua sostituta?” Pansy sente i passi di Draco che lo avvicinano alla Granger, i cocci di porcellana che si riducono in polvere mentre li calpesta. Si ferma, forse ad un tiro dei suoi occhi, e sussurra, la voce calda e soffice: “Lo farò a pezzi… e ti chiederò di sposarmi con un anello fritto di cipolla… quello, ad Helena non l’ho mai dato… ed un giorno spero che guardandolo, vedrai quante cose io non ho mai dato ad Helena, ma solo a te… visto che ancora non sei in grado di vederlo…”.

Pansy si tocca le guance, sono calde come se avesse la febbre. Si è ricordata cosa amava di Draco, di cosa si era perdutamente innamorata anni prima, cosa l’aveva spinta a concedergli il suo cuore, dopo avergli dato anche la sua verginità. Si è ricordata del modo caldo che ha di parlare, di come sceglie le parole sempre, sia nel caso in cui voglia colpire al cuore, sia qualora voglia semplicemente farti a pezzi. Ha riconosciuto di nuovo quanto sia monogamo nei sentimenti: sebbene sia un Serpeverde della peggiore risma, se qualcosa mette radici nel suo essere, verdeggia e fruttifica come un albero dal rigoglioso splendore. Quando ama, è per sempre. Si sente fiera di lui in un goffo modo che è solo amicizia, affetto, memorie condivise, complicità.

Sa che la Granger non potrà resistere, al pari suo: anzi per lei sarà peggio, perché quelle parole sono per lei, perché lo ama, perché lui ha cambiato tutta la sua vita solo per sfiorarla lievemente. E se lui le è entrato dentro anche solo la metà di quanto lei è entrata dentro a lui, accetterà di sposarlo stasera stessa. Non ci penserà un solo secondo, pur di non farselo scappare più via.

“Non è mai stato per l’anello, Draco… l’anello, per me, è sempre stata una scusa…”. Pansy trasale, senza accorgersene scivola e cade al suolo in ginocchio, una mano ancora sulla bocca per reprimere un solo sospiro che le è uscito fuori. La voce della Granger le è giunta attutita, sa che lui l’ha abbracciata, si deve essere divincolata e ora ha detto quella frase senza senso, piangendo, imponendogli di stare alla larga da lei.

“I-io non capisco…” Draco non capisce sul serio, non ammanta la voce di sicurezza disinvolta o di disincantato cinismo, non la prende nemmeno in giro come farebbe in altri casi. Non capisce sul serio. Ci riprova ancora, ma già la voce si è incrinata, già ha perso lo smalto, già improvvisamente teme di averla persa sul serio, in una notte sola. Pansy vorrebbe dirgli che è impossibile, la bile le sale in gola e vorrebbe urlargli che, se l’ha già persa, vuol dire che non l’ha avuta mai. Ma non vuole dirlo, inaspettatamente non vuole avere ragione, non adesso, non con lui, non con lei.

“E’ per Helena? Non capisco, Hermione… vuoi che rinunci all’idea di vendicarla? L’ho già fatto… inconsciamente l’avevo già fatto quando ho deciso di vivere accanto a te… cosa altro vuoi? Cosa altro cerchi?”, la sua voce si carica di elettricità mentre sussurra tagliente: “La sola cosa che ti è rimasta da farmi, è puntarmi una stramaledetta bacchetta alla gola e farmi scordare davvero tutto di lei… ti basterebbe questo?!”.

Forse la guarda, forse legge qualcosa in lei che non sta dicendo, forse improvvisamente perde tutte le speranze. Forse è tutto questo assieme.

Perché, quando Draco parla daccapo, dice solo con un filo di voce: “… ma non è Helena il problema, vero? Il problema… siamo io e te… giusto?”.

Pansy resta seduta per terra, gli occhi chiusi, si abbraccia le ginocchia piegate. Sente le parole della Granger, le sente una dopo l’altra che si inanellano perfette nell’aria che li separa, come i granelli di una clessidra che inesorabile scandisce il tempo che manca alla loro separazione. Ogni parola recide una speranza, ogni parola le piega il petto in uno spasmo inconsapevole, ogni parola la convince che Draco ha osato troppo, ogni parola le ricorda il mondo di cui hanno fatto parte da secoli e che li candida ancora come le due metà dell’Universo. Ogni parola dipinge la Granger di colori da Serpeverde: argentea di codardia e verde di bugia. E se questo è ciò che sente lei, se immagina a che cosa sta pensando Draco, le viene da graffiarsi il viso dall’ansia.

Farebbe di tutto per risparmiargli quelle parole. La Granger poteva andarsene e non tornare più, rifugiarsi nella sua torre d’avorio e dimenticarsi di lui. Invece ha dovuto strappargli il cuore dal petto.

Perché lo sta facendo? L’ha mai amato, allora?

No. Avrebbe dovuto salvare Draco quando poteva… non l’ha fatto. E ora la Granger lo sta uccidendo sotto i suoi occhi.

“Quando sono andata via… stanotte, dopo che mi hai chiesto di sposarti con l’anello di Helena… ho avuto modo di pensare. Tanto. A questi mesi… da quando ho messo piede al Petite Peste fino ad ora. Ogni cosa mi è sembrata tornare al suo posto. L’amore per te mi ha reso cieca, mi ha impedito di vedere tutto chiaramente… fino a stanotte, fino a quando non sono rimasta davvero sola, fino a quando tu non mi hai spezzato di nuovo il cuore e io te l’ho lasciato fare. È stato come mettere distanza tra una falena ed una fiamma… sebbene mi mancassi, sebbene sentissi che eri lontano, non andavo più a fuoco, non stavo bruciando. E finalmente potevo vedere tutto in un modo completamente vero… onesto… reale. E sono arrivata alle mie conclusioni. Sono scontate, ovvie, naturali… ed avrei dovuto vederle come tali fin dal primo momento.

“Ho creato uno Zahir… un incantesimo proibito da secoli, pericoloso per me e per te, pericoloso persino per le persone con cui sarei venuta in contatto. Questo non fa parte di me, se rivedo la persona che sono stata in questi mesi, accanto a te, io non mi riconosco più. Mi era così insopportabile l’idea di essermi innamorata di te che ho fatto una cosa del genere… e in questo Astoria aveva ragione. Ma lo volevo negare a me stessa, volevo dirmi che era la sofferenza che mi era insopportabile, che derivava tutto da una bugia che mi avevi detto, quella di non amarmi… ma non è così. Pensaci Draco… pensaci davvero… non smetteremo mai di farci del male, amare te non smetterà mai di spezzarmi il cuore. Avevamo promesso di non farlo più… e tu mi avevi chiesto se mi saresti bastato anche così. La verità è che non posso farmi bastare questo, non posso farmi bastare questo dolore continuo alternandomelo con qualche istante di felicità. Perché per cinque minuti di gioia, ne esisteranno sempre dieci di sofferenza… e non lo posso sopportare. Non posso scegliere autonomamente una persona che mi farà sempre soffrire… dovremmo stare con chi ci rende grati di essere vivi, non con chi ci fa desiderare di morire… non con chi ci fa creare uno Zahir. Io non sono in grado di amarti, come tu vorresti… come meriteresti, anche… dopo come è finita con Helena.

“E sono anche convinta che tu non l’abbia mai dimenticata… che quell’anello era un segno, era un modo per prenderti una rivincita sulla vita che vi ha separato… come se volessi dire al destino che avevi trovato un’altra Helena. Ho iniziato a piacerti solo perché, in qualche confuso modo, ti ricordavo lei, non mi avresti mai trattenuto al Petite Peste se non te l’avessi ricordata mentre dormivo… e persino Pansy, che di me e te non sa nulla, me l’ha confermato. Mi ha detto che non posso competere con lei, che non sarò mai come lei… e che tu non mi amerai mai come hai amato lei. Da lì, dalle sue parole, mi si è aperta una breccia in testa… e a quel punto nemmeno Helena era davvero un problema…

“Il problema è la persona che tu mi fai diventare. Io odio me stessa, stando con te… divento gelosa, sospettosa, vendicativa, infida. Non sono mai stata questa persona. Né mai lo sarò… non posso lasciartelo fare, non posso lasciare che tu mi soffochi giorno per giorno, facendomi diventare chi non sono. Una Serpeverde. Io non sono nata per questo, sono nata per sposare Ron, per avere dei figli da lui, per diventare la cognata di Harry e Ginny… ma quando mi sono resa conto che questo non sarebbe più potuto succedere, la terra mi è franata sotto i piedi. Ho perso tutto. E ho creduto di non essere più quella persona. Di non esserlo mai stata. E ho fatto cose inconcepibili, per me… come innamorarmi di te. Ma forse, a conti fatti, non ti ho mai davvero amato… ero solo confusa, disorientata… o magari ti ho amato sul serio, sennò non avrei creato lo Zahir… al momento non lo so, non mi capisco nemmeno…

“Non voglio ferirti, non ho mai voluto davvero farlo… ma non posso sposarti, né ora né mai. Non posso restare qui un secondo di più… per far star bene te, io finisco per distruggere me stessa. Non c’è parola, non c’è singola parola o promessa che possa convincermi del contrario… ho troppi mesi e troppi giorni alle spalle per sapere che non andrà mai bene tra me e te… mai e poi mai, perché semplicemente non siamo nati per questo. Ho contattato una mia amica del Ministero, un’Indicibile… lei mi nasconderà per un po’… e sarà lei a curarsi che Harry sappia tutto di Astoria e del resto. Non te ne devi più preoccupare… vivi la tua vita con Serenity... e non cercarmi mai più. Sarà solo più difficile per entrambi, se lo farai… e mi costringerai a ripeterti le stesse identiche cose. E lo farei, Draco… ti direi tutto daccapo. Ma tu potresti sopportarlo ancora? Potresti sopportarmi ancora che dico tutto questo?”.

Pansy sente in un angolo remoto della sua mente che Draco risponde solo con un filo di voce: “No… credo che tu sia stata sufficientemente chiara…”.  Le guance di Pansy si bagnano inconsapevolmente mentre lo sente risponderle, non ha nulla a cui aggrapparsi ancora, volutamente la Granger gli ha tolto qualsiasi galleggiante che potesse impedirgli di affogare. Non ha nulla da risponderle ancora. Cosa si può dire ad una persona che ammette candidamente di odiarsi per amarlo? Ha detto tutto ciò che Draco temeva di sentirle dire un giorno… e ha detto persino tutto quello che Pansy temeva di sentire, l’allusione alla loro conversazione della sera prima. Non era stata così categorica, come lei l’aveva dipinta, ma Draco avrebbe creduto a lei.

Ne aveva tutti i motivi, era ancora la donna che amava, lo aveva appena lasciato… e lei invece era solo l’amica che non aveva mai voluto quell’unione.

Per molto tempo, dopo le parole della Granger, la mente di Pansy non avrebbe funzionato a dovere. Aveva erto lei stessa una potente barriera collosa che tenesse fuori il mondo, e il momento inevitabile in cui avrebbe guardato Draco negli occhi. Registra con una parte sommaria dei suoi pensieri le inutili parole che Draco dice alla Granger, qualcosa che vuole ancora cercare di convincerla a restare, una serie di promesse grosse e friabili, una sequenza di scuse, un carnevale di ripensamenti. Ode i monosillabi di lei, il modo caparbio in cui ripete: “Non cercarmi più…”, la voce che le si alza di tono in tono mentre alla fine urla che ha ripreso ad amare sé stessa, soltanto odiando lui. Viene allora il silenzio, vengono allora i singhiozzi falsi di lei, viene allora il rumore buffo della Smaterializzazione. Ed infine il frastuono, tessuti lacerati, piatti e bicchieri rotti, mobili divelti, vetri infranti. Draco che fa a pezzi casa sua.

Raissa ricompare sulle scale, trafelata, sentendo il fracasso della distruzione. Non fa caso a lei, ancora seduta per terra, che si abbraccia le ginocchia.

Dice solo con la voce straordinariamente sicura, rivolta a Draco: “Vuoi andartene da qui?”.

“Immediatamente…” risponde lui, la voce strozzata.

Pansy solleva lo sguardo verso Raissa, sa che lei la sta guardando con la coda dell’occhio mentre sentenzia crudele: “Non vuoi avvisare prima Pansy?”.

“Per me è morta cinque minuti fa…”.

“Sai già dove andare?”.

“Sì… ma… al momento non sono lucido… non voglio far spaventare Serenity… potresti venire con me?”.

Raissa guarda Pansy, ha un sorriso sardonico sulle labbra che lei non dimenticherà mai.

“Naturalmente…”.

La colla dei pensieri di Pansy si scioglie solo quando li sente andare via, solo pochissimi istanti dopo. Ma è già troppo tardi per fermarli.

 

La nebbia del Pensatoio si dirada in ampie volute di fumo, lasciandomi a riprendere fiato. Pansy si alza in piedi nervosamente dal divano, va avanti ed indietro per la stanza con passo innervosito, congiunge le mani in una stretta morsa in cui poi respira dentro con la bocca. Dean rimane seduto, lo sguardo preoccupato che segue la moglie, finché la chiama lievemente per nome e lei torna seduta, apparentemente più calma. Le scioglie le mani incrociate e ne prende una tra le sue, baciandola con le labbra chiuse. Seth si scompiglia i capelli sconcertato, la magia è una novità ancora per lui e non riesce a credere di aver appena vissuto un ricordo di Pansy stessa… e non riesce nemmeno a credere che quella nel Pensatoio non fossi io.

A quello, per poco, non credevo nemmeno io.

Non avevo mai visto quell’Incantesimo, non sapevo come fosse, avevo solamente supposto che potesse trattarsi di quello, considerando come aveva ingannato tutti, compreso Draco. Una parte di me, anche quando aveva fatto quella supposizione, era comunque rimasta sorda e muta di fronte alla ragione dei fatti: lui si sarebbe dovuto accorgere che non ero io, ma che era Astoria. E se non lui, l’avrebbe dovuto capire Pansy perché sicuramente lei avrebbe mostrato qualche gesto molto più flessuoso dei miei, più da Serpeverde, o avrebbe usato delle parole più fredde e caustiche. Pensavo anche che Astoria, in un certo modo, si tradisse, usasse troppa rabbia, oppure perdesse il controllo.

Una parte di me trovava inconcepibile che Draco non mi avesse mai cercato, dopo aver parlato con Astoria che assumeva le mie sembianze.

Sposto una ciocca di capelli sudati dalla fronte, l’angoscia mi fa sentire caldo e il senso di oppressione al petto mi fa respirare irregolarmente, come se fossi stata per minuti interi in apnea.

Quella ero io.

L’aspetto era identico, ma questa è la parte minore. Le movenze, i gesti, il modo di parlare, l’intercalare in determinate frasi… quello ci poteva anche stare, poteva anche essere somigliante al lavoro meticoloso che fa un’attrice. Ma i pensieri… quelli che Astoria ha usato nel suo discorso… erano indiscutibilmente miei. Tutti, dal primo all’ultimo. Erano i pensieri dei mesi in cui non capivo l’effetto che mi faceva Draco, erano i pensieri che mi avevano portato alla creazione dello Zahir, erano i pensieri di quando lui era stato con Adamar, erano i pensieri di quando effettivamente mi aveva dato l’anello di Helena… ma erano pensieri rapidi, fuggevoli. Erano i pensieri di quando ero stanca o demotivata o triste, ma poi sparivano sempre, quasi subito, perché io amavo ed amo Draco e quello, per me, contava più di tutto.

Lui mi aveva insegnato una nuova me stessa, che amavo più di quella vecchia, più di quella probabilmente “destinata” ad amare Ron. A volte, avevo rifiutato l’ingresso di quella nuova Hermione nel mio corpo e nella mia anima, ma alla fine mi ero arresa ad essa. Lui mi aveva resa migliore, non peggiore: più tollerante verso chi non era dal mio lato della guerra e della vita, più aperta verso il prossimo, persino più spigliata e divertente. Mi ero scoperta meno inquadrata, meno rigida, meno bacchettona, meno sputasentenze.

Ero diventata, e mi viene quasi da ridere a ripensarci, più elastica come si è sempre augurato Dean.

Non fossi stata così, non avrei mai potuto accettare di diventare mamma del figlio di un uomo, che probabilmente non avrei rivisto mai più.

Respiro profondamente, cercando di calmarmi e di escludere mentalmente la fitta al cuore che mi ha provocato la visione di Draco, oltre che le sue parole. Aveva deciso di lasciare andare Helena, aveva deciso di provarci, aveva capito la mia sofferenza. Sarebbe potuto tutto iniziare quella mattina, ci saremmo potuti sposare quel giorno stesso… e probabilmente di lì a poco, sarei stata in grado di dire a Draco che stava per diventare padre. Invece io l’ho scoperto nel peggiore dei modi, in una cella buia e fredda, prigioniera di un uomo che voleva fare di me la sua schiava e la sua regina. Trattengo le lacrime, le ricaccio indietro perché ormai piangere non ha senso, non ha scopo e non ha nemmeno utilità.

Da quando sono mamma, piango sempre poco, cerco sempre di evitarlo. Alex non mi ha mai visto piangere e non deve accadere mai. Ma non piangere, cercare di non farlo… alla fine ti comprime il petto e te lo squarcia. Persino il cuore va a fuoco. Ed anche se sapevo come era andata, anche se sapevo che Draco non mi aveva mai cercato, anche se sapevo che dovevano aver usato dei meccanismi potenti… non credevo che fosse andata così. Pansy aveva ragione: dopo queste parole, è normale che Draco non mi avrebbe mai più cercato.

Mi aveva sentito dire tutto quello che temeva: che io mi odiassi, perché amavo lui.

Gli occhi pungono, mi si affolla la mente di pipistrelli neri, e tutto sembra trattenersi dolorosamente in me sul ciglio di un’esplosione.

Pensavo che oramai tutto il dolore fosse alle spalle, pensavo che ormai il grosso fosse passato, pensavo che nulla mi avrebbe potuto ferire di più di quanto non avessi già subito… stringendomi il petto con la mano, mi rendo conto che non era assolutamente vero. E Pansy, almeno non ha visto Draco in viso quel giorno… almeno questo mi è stato risparmiato.

Chiudo gli occhi, cercando di calmarmi e cercando di tornare lucida. Se c’è una cosa che però sicuramente non sapevo fino a questo ricordo, che Raissa potrebbe aver sempre saputo tutto.

E, adesso, potrebbe essere ancora con Draco.

“Raissa poteva aver sempre saputo tutto…” rendo evidenti i miei pensieri, dopo essermi schiarita la voce ed aver rotto il silenzio.

“Ne sei sicura?” commenta Dean, lasciando la mano di Pansy. Lei chiude gli occhi e li riapre, sospirando: “In quel momento ebbi la netta impressione che avesse qualcosa da nascondere… ma dopo che Astoria parlò, ovviamente tutto passò in secondo piano…”, la sua voce si vela di amara ironia mentre sottolinea: “E se vogliamo dirla tutta, ci avevo visto giusto anche su Astoria… avevo notato che era terrorizzata al pensiero che Draco le chiedesse l’anello…”.

“Ovvio…” bisbiglia con un filo di voce Seth “L’anello ce l’aveva ancora Hermione…”. Traffico nella mia tasca, uscendone un cofanetto azzurro. Dentro, brilla ancora l’anello di Cissy Malfoy, che avevo ritrovato nella tasca del cardigan azzurro, che avevo preso di fretta la sera del compleanno di Pansy.

“Una pietruzza da due soldi…” biascica innervosito Dean, guardando storto Pansy “Ora capisco perché storcesti il naso al mio solitario…”.

“Ci voleva il microscopio per vederlo…”.

“Ma era purissimo al cento per cento…!”.

“Ovvio, le imperfezioni non ci sarebbero entrate nel diamante… minuscolo com’era…”.

“Kevin mi ha regalato uno smeraldo! Lo sai Herm? Uno smeraldo vero! In un orologio, però… se mi faccio un anello, dici che è troppo?!”.

Mi gratto la tempia, mettendo a posto l’anello. Dio, questi se li lascio fare partono per la tangente ogni volta!

“Possiamo gentilmente abbandonare il campo dell’oreficeria?!” borbotto, incrociando le braccia, interrompendo le manovre di Pansy che mette a paragone le dimensioni del suo solitario con un minuscolo bottoncino della sua camicia. Recuperata la loro attenzione, sospiro lungamente per riprendere il filo del discorso, anche se una pericolosa risata mi sta uscendo di nuovo inconsciamente, ma ne va della mia autorevolezza se iniziassi a ridere per le loro scemenze!

“Perché credi che Raissa sia andata con Draco?” chiede Seth a Pansy, sistemandosi meglio sul divano “Credi che gli interessasse… in qualche senso romantico?!”. Un groppo in gola mi costringe a deglutire più rumorosamente di quanto vorrei, mentre Pansy si ferma a riflettere. Poi esordisce sicura: “No, non credo… o perlomeno non credo che in quel momento, lo abbia seguito perché ne era follemente innamorata… anche se questo non esclude che possa essere successo qualcosa con il tempo… se sono rimasti assieme per cinque anni, potrebbe anche essere accaduto… devi farci i conti anche con questa possibilità, Granger…”.

Annuisco senza partecipazione, pigolando un: “Sono passati cinque anni, Pansy… lo so perfettamente… e se non è Raissa, potrebbe essere qualcun’altra…”.

“Appunto…” mormora lei, incrociando le braccia “Per lui, è tutto finito quella mattina… e quell’Hermione gli ha fatto capire che non era storia… e come se non bastasse, lui ha anche una figlia da crescere… potrebbe aver pensato a darle una madre… come tu a tuo modo, hai pensato a dare un padre a tuo figlio…”.

“La faccenda tra me e Ron è leggermente diversa…” mi inalbero subito, stringendo i pugni “Sai perfettamente che non siamo davvero sposati… ed Alex non l’ha mai considerato suo padre…”.

“Sì che lo so, Granger, accidenti…!” ribatte lei annoiata, guardandosi le unghie “Ma mettiamo in conto che lui ti abbia cercato… mettiamo in conto anche che ti abbia trovato… mettiamo che per ipotesi assurda l’avesse saputo, che cosa avrebbe pensato? Hermione vive in Italia nella casa dei suoi nonni, ha un figlio ed è sposata con Ron Weasley.”.

Sobbalzo, stringendomi nelle spalle, a questo non avevo mai davvero pensato. So che è abbastanza improbabile che Draco mi abbia cercato e soprattutto che mi abbia trovato, considerando tutte le premure che al Ministero hanno preso. Ma ammettiamo che ci fosse riuscito… vai a spiegare che non sono davvero sposata, che non lo sono mai stata, che ho finto di esserlo.

Vai a spiegare che mio figlio non ha il volto spruzzato di lentiggini e i capelli rossi, ma è una peste immatricolata in Malfoy.

Spero davvero a questo punto che Astoria lo abbia ferito al punto tale da non farmi mai cercare…

“Comunque tolta l’ipotesi dell’amore folle di Raissa per Draco, credo che lo abbia seguito solo per tenerlo d’occhio…” riprende Pansy dopo un po’, assolutamente incolore “Quando eri nelle mani di Dimitri, credo che abbia semplicemente controllato che lui non si facesse venire l’idea di venirti effettivamente di nuovo a cercare… in quel caso, credo che abbiano di nuovo assoldato Astoria… e quando invece tu sei riuscita a liberarti da Dimitri, credo che potrebbe essere rimasta con lui per farti uscire allo scoperto... qualora avessi contattato Draco, lei lo avrebbe saputo ed avrebbe avvertito Dimitri…”.

L’analisi di Pansy non fa una piega, annuisco sovrappensiero. La sola cosa che rimane meno chiara è come mai Raissa aiutasse suo fratello. Non mi era mai sembrata così d’accordo con i suoi modi, non mi aveva mai torto un capello ed anzi aveva cercato di allontanarlo da me in più di un’occasione. Mi aveva ammonito di stare attenta a suo fratello, aveva anche temuto che Draco non tornasse in tempo per impedire che Dimitri si incaponisse troppo su di me. Perché poi avrebbe dovuto aiutarlo?

“Certo è che, ora che Dimitri è morto, probabilmente Raissa non ha più motivo di restare con Draco, no?” sciorina ovvio Dean, distendendo le braccia stanche. Annuisco ancora, ricordando la lettera di qualche giorno fa che mi è stata recapitata in Italia. La lettera che mi informava che l’esilio mio e di mio figlio per motivi di sicurezza, in Italia, era finito. Avevano trovato i cadaveri di Astoria e di Dimitri in un fiume, poco a sud di Birmingham. A quanto pareva, si erano uccisi tra loro probabilmente in un diverbio. Quella notizia ha decretato anche la fine del mio matrimonio-farsa con Ron. Peccato che lui non avesse mai davvero capito che fosse una farsa.

Ho sempre avuto dubbi su Ron e sul vero motivo per cui avesse scelto di vivere in quel modo, accanto a me, come mio marito. Nei primissimi tempi non ne avevo mai avuti: egoisticamente non pensavo a lui, pensavo solo a me stessa e al tempo che si ripiegava e si contorceva su sé stesso, allontanandomi da Draco. Poi ovviamente, se non altro per deviare dai pensieri inconcludenti e frustranti che non mi portavano mai a nulla, avevo iniziato a pensare anche a Ron. Il candore con cui aveva accettato quella commedia solo per proteggere me ed Alex era stato sporcato dai miei ragionamenti e dall’osservazione di tanti piccoli dettagli della nostra vita assieme: rifuggiva le rose, non nominava mai Draco, non alludeva mai al tempo che avevamo passato divisi, non si riferiva mai ad Alex come al figlio di Draco Malfoy. E soprattutto, anche quando non era più necessario, anche quando la porta di casa si chiudeva e non eravamo sotto lo sguardo di estranei potenzialmente nemici, lui continuava a comportarsi come mio marito. Mi baciava sulla guancia, raccontava ad Alex aneddoti di quando eravamo bambini.

E lì, chiaro, stentoreo, potente, mi si è acceso un allarme nella testa.

L’ho affrontato una sera di maggio, il sole era basso nel cielo della Sicilia, circondava di rubino i limoni del nostro giardino rendendoli screziati. Ron era seduto su una sedia a sdraio, gli occhi socchiusi e l’espressione beata. Per un attimo, ferma sulla soglia della veranda, avevo pensato alla possibilità di lasciar perdere tutto. Avevo un figlio di due anni che dormiva placidamente in casa, non era egoista continuare a dirgli che doveva chiamare “papà” l’uomo lontano che non aveva mai visto e che forse ci aveva dimenticato? Non sarebbe stato più facile dirgli di considerare genitore l’uomo vicino, quello che gli dava da mangiare, lo portava al mare a giocare e lo metteva a letto tutte le sere? Non era egoista aggrapparmi con disperazione a Draco?

“Mione che cosa c’è?” aveva detto Ron, voltandosi improvvisamente, il sole che rendeva i suoi capelli quasi una fiamma rossa.

“Lo sai che tutto questo finirà un giorno, vero?” la mia voce non aveva avuto alcun dubbio, era uscita da sola senza lasciar adito ad alcuna reticenza o tentennamento. Le spalle di Ron si erano contratte, aveva stretto un pugno ed aveva sussurrato: “Certo che lo so… tornerai da Malfoy, un giorno o l’altro… ammesso che ti voglia indietro…”.

Non mi aveva ferito, non poteva ferirmi con la verità. La verità non ferisce se sei vero anche tu… Ron non lo era. Per questo la verità lo aveva ferito invece come una spada scagliata nel cuore.

“Io non sono davvero tua moglie…” avevo sussurrato guardandolo in viso “Il nostro matrimonio non esiste da nessuna parte, è invalido persino nella carte… ti sono grata di quello che stai facendo, lo sarò per sempre, hai scelto di proteggere me ed Alex… ma questo non cambia niente, Ron. Noi non siamo davvero sposati… e Draco con questo non c’entra nulla… fosse anche che non mi voglia più, che io arrivi a non volerlo più, sarà una cosa tra me e lui…”, inspirando avevo aggiunto stoica: “… tra me e te è una recita, Ron… niente ci restituirà il tempo passato e il male che ci siamo fatti… niente…”. Mi aveva sorpassato rientrando in casa, furibondo. Ed aveva implicitamente sciolto il mio dubbio.

Per questo, la sua reazione alla notizia che Dimitri ed Astoria erano morti, e quindi io ed Alex non avevamo più motivo di nasconderci in Italia, lo aveva sconvolto e destabilizzato. Ed aveva rotto quel vaso nell’ingresso e se ne era andato via, furibondo. Non ci siamo nemmeno salutati, prima che io partissi. Avrei voluto farlo, ma sarebbe diventato tutto più difficile. Gli sarò per sempre grata per quello che ha fatto, e spero un giorno di potergli parlare, di potergli spiegare bene tutto, di poter tornare a chiamarlo amico. Adesso no, adesso è troppo presto.

Due che sono stati prima migliori amici, e poi fidanzati, non dovrebbero mai fingere di essere sposati, fosse anche per supreme ragioni di sicurezza. Ma le cose sono andate così, allora. E come per tutto il resto, recriminare serve a poco. In questi cinque anni mi sono trovata bloccata in un ingranaggio, che non era mai messo in moto da me. La mia parte di decisione è stata solo quella di tornare in Inghilterra tre giorni fa e di cercare Draco. Per il resto non ho mai deciso nulla in questi cinque anni, non ho preso una sola decisione da quando Dimitri mi ha rinchiuso nel suo castello.

Stringo la camicetta tra le dita all’altezza del petto, mentre i miei amici continuano a fare supposizioni su Raissa e Draco.

Per un attimo, mi estranio da loro. In questi cinque anni mi è stato tolto potere decisionale in tutto, persino nella scelta di essere madre.

Mi manca il fiato nel pensarci, ma oggi potevo anche non esserlo affatto. Il mio grembo poteva restare vuoto, la stanza al piano di sopra poteva essere piena solo delle mie cose, l’ultimo legame con Draco poteva essere reciso e spezzato come il filo sfilacciato di una veste logora.

Posso odiare Astoria per avermi costretto a creare lo Zahir, per aver ingannato Draco… ma poi, dovunque sia adesso, sono costretta a perdonarla per il suo folle dono da egoista.

Lei mi ha donato la più grande delle benedizioni: mio figlio.

Anche se lo fece solo per i suoi di motivi.

 

La fortuna è essere quasi sempre incosciente di mattina.

Ad Hermione la mattina piace da morire, le piace il sole che buca le nuvole, le piace quella sensazione di aspettativa, di promessa, di rinascita.

A casa, si alzava sempre all’alba da letto, qualsiasi cosa dovesse fare, perché le piaceva enormemente avere delle ore di vantaggio sul mondo e sulla vita stessa. E se per qualche caso, finiva per alzarsi tardi, si sentiva come se avesse sprecato preziosi attimi che poteva impiegare proficuamente in qualche altro modo. Dean la rimproverava sempre, le diceva che l’unico vantaggio di non lavorare era che poteva restare anche a letto a poltrire. E lei allora si impuntava come una bambina piccola, metteva la sveglia anche prima ed alzava il volume del trillo, così da svegliare anche lui. Alla fine, borbottando lui e ridendo a crepapelle lei, facevano colazione assieme sul balcone di casa.

Al Petite Peste, alzarsi presto era naturale, era scontato perché doveva lavorare. C’era da preparare il caffè per gli affannati broker della City, c’era da riscaldare le brioches per i ragazzini che andavano a scuola, c’era da fare il tè per le mamme che si trattenevano qualche minuto dopo aver accompagnato i loro figli in classe. E lei si alzava sempre come una furia, correndo in bagno a farsi velocemente la doccia e a lavarsi i denti. Poi c’erano anche ragioni logistiche, legate al possesso del bagno. Seth ci moriva dentro per ore, e Draco non era granché diverso, anzi… spesso ci mettevano il doppio del tempo netto che ci metteva lei. Quindi puntare la sveglia prima, significava assicurarsi per prima il bagno, ridendo ancora per quanto Seth o Draco avessero distrutto la porta a suon di pugni, intimandole di uscire.

Se già ricordare il tempo ordinario le provoca dei vuoti d’aria nel torace, rimembrare poi il tempo straordinario le fa salire le lacrime agli occhi, persino nel sonno dell’incoscienza.

Il tempo straordinario sono stati i dieci giorni accanto a Draco, a casa di Pansy Parkinson. Sono state quelle mattine di luce fragrante, in cui si svegliava accanto a lui. Draco dormiva ancora, lei sorrideva ai suoi occhi chiusi e quasi sempre tendeva a stropicciarsi vigorosamente gli occhi per non credere di sognare di averlo vicino. Generalmente tendeva a farlo con troppa energia, o comunque aveva la caratteristica di fare qualche rumore che comunque invariabilmente lo svegliava. Draco roteava gli occhi, fingendo di sbuffare, e l’apostrofava con una serie di aggettivi scherzosi. Lei fingeva di prendersela, faceva la mossa di alzarsi dal letto e di allontanarsi da lui. Draco la tirava giù per i fianchi, la riportava a letto ridendo e le ingiungeva severo: “Non ci pensare nemmeno un istante, Granger, ad andartene da qui…”. Facevano l’amore, ancora, dolcemente, e poi lui faceva comparire la colazione. Caffè nero bollente per lui, e “quel maledetto succo d’ananas da carie” per lei.

Nel sonno, Hermione trasale, sobbalza per un momento. Draco non l’ha cercata, non la sta cercando. Ne è certa, in qualche confuso modo ne è sicura. Non sa da quanti giorni è prigioniera, il tempo ha una sua cognizione completamente scevra da lei, ma sa che è così… perlomeno le risparmiano il sorgere del sole, il momento in cui dovrebbe ammettere a sé stessa che è iniziato un altro giorno in quella gabbia. La preservano dai ricordi che la colpirebbero troppo violentemente.

La giornata, paradossalmente, inizia a pranzo, quando Pucey con malagrazia scende le scale dei sotterranei e deposita vicino alle sbarre della sua cella una ciotola di zuppa maleodorante. Il clangore che provoca, la sveglia sempre e per un attimo, le pupille non distinguono nulla nella lama di luce che proviene da una minuscola finestra in alto, anch’essa inevitabilmente sbarrata. Scivola nella polvere della cella, si lava distrattamente il viso in una bacinella d’acqua, si costringe a mangiare perché deve restare in vita, deve andarsene da lì. Deve sopravvivere, prima che per Draco, per Hayden.

Si avvicina a lui, che come sempre giace incosciente nel suo giaciglio di paglia e sacco, abbandonato di malagrazia sul pavimento sconnesso della cella. La ferita alla schiena va sempre peggio, è infetta, continua ad eruttare liquido biancastro e sangue. Lui rinviene poco, delira per la febbre. Ed Hermione usa quel poco di energia magica che possiede nelle vene per arginare l’infezione, come una volta le ha insegnato Ginny. Ma è debole, l’incantesimo deve farlo senza bacchetta, trascorre tutto il pomeriggio in quel modo, alla sera è sfinita. E non è nemmeno certa che comunque Hayden ne tragga beneficio: la preoccupa e la strazia il fatto che le gambe del ragazzo sono diventate insensibili. Non reagiscono agli stimoli, non si muovono.

Ogni minuto lì, gli toglie la possibilità di guarire del tutto.

Dimitri si fa vedere di sera, la esamina con lo sguardo sofferto attraverso le sbarre, la prega come sempre di salire in camera da lui. Ma lei è stata chiara fin da primo momento, non è una sua gradita ospite, non vuole una stanza, vuole una cella perché lei è sua prigioniera e così deve essere trattata. Salirà su in camera, solo se lasciano andare Hayden. Ma ovviamente Dimitri non è d’accordo, teme quello che farebbe se non avesse lui a trattenerla al di qua della morte e della scelta di essa. Al contempo non la costringe, è convinto che il ragazzo morirà presto e che Hermione, piegata dal dolore e dagli stenti, si lascerà alla fine andare. Non sa del coccio di vetro che Hermione nasconde sotto il letto, non sa che, quando verrà meno ogni speranza che Draco la trovi e quando Hayden morirà da vittima innocente di una colpa non sua, lei si taglierà le vene e tanti saluti.

Astoria non scende mai con Dimitri nelle segrete, e questo spaventa Hermione più di tutto. È convinta che abbia fatto qualcosa a Draco, qualcosa che l’ha concretamente convinto a non cercarla più. Sa che sta bene, è certa che Astoria abbia ancora interesse a diventare la signora Malfoy in qualche arcano modo, ma al contempo devono averlo ferito più di quanto lei immagini se non si dà alcuna pena di vedere che fine abbia fatto. Qualche giorno prima, ha sognato Pansy che piangeva disperatamente… e Draco che faceva a pezzi dei mobili, rompeva un vaso, urlava come un animale colpito a morte… si è svegliata piangendo, urlando, con le mani nei capelli. Ha sentito dentro che non era un sogno, ha saputo in qualche modo che era successo davvero. Hayden ha ripreso i sensi solo quella volta, solo quando l’ha sentita piangere ed urlare. E lei è riuscita a raccontargli tutta la verità, del mondo della Magia, di lei e dello Zahir, di Draco.

Hayden è stato colpito da un raggio di luce giallastra alla schiena, appena uscito dal museo dove lavorava: un raggio partito da una specie di bacchetta, che gli era puntata contro da un uomo che sembrava russo.

Non ha fatto fatica a credere a tutto quello che Hermione gli ha raccontato. Si è riaddormentato, madido di sudore freddo, mentre lei gli prometteva che in qualche modo lo riporterà a casa.

Quando Dimitri, poco dopo mezzanotte, torna in camera sua, Hermione si addormenta, piegata in posizione fetale nel letto lercio delle segrete.

Si sveglia solo all’ora di pranzo, ma sa che non è la stanchezza, la rabbia o la paura che la fanno addormentare così profondamente.

È Dimitri.

Entra nella sua testa, la confonde, fa alternare nel suo cervello ricordi e fantasie. Hermione si vede vestita da regina sul balcone di un palazzo immenso con lui accanto, le fa sognare di fare l’amore con lui, la fa gridare nel sonno di desiderio e passione mentre la possiede in ogni modo concepibile. Hermione, però, non cede. Nel sonno, urla, piange, lo implora di smetterla… oppure sta ferma, immobile, subisce tutto quello che lui le fa, ma richiama alla mente Draco. E Dimitri è costretto a sgusciare fuori dai suoi sogni, gemendo innervosito per non riuscire a violarla nemmeno nella mente.

Vuole ancora che lei lo desideri in modo autentico, vuole che lei si convinca, vuole che lei lo ami sinceramente. Non la tocca, non la sfiora, non le fa del male in alcun senso fisico.

Intanto, cerca di carpire il segreto della sua magia, la tiene incosciente anche per quello, per arrivare al fulcro del suo potere, per capire da dove prende tanta forza. Ma anche in quel caso fallisce… ma lì Hermione non sa perché ciò avvenga. Quando di sera lui fa avanti ed indietro nervosamente fuori dalla sua cella, imprecando e chiedendole come mai la sua energia magica sembra così compromessa e sporcata da qualcosa di estraneo, lei biascica nervosamente che è prigioniera in una gabbia polverosa e sporca, ci mancherebbe pure che sia al meglio del suo potenziale magico. Ma sa che mente, lo fa solo per farlo arrabbiare, perché lo odia, lo ammazzerebbe con le sue mani.

In realtà non sa perché questo accada, perché è impenetrabile ad ogni suo tentativo di carpirle l’essenza magica. Pensa che sia perché usa tutta la sua forza per aiutare Hayden, restando quindi distrutta, ma sa che non è così.

C’è qualcos’altro che impedisce a Dimitri di arrivare al cuore della sua magia, per capire da dove derivi tutto il suo potere.

C’è qualcos’altro di misterioso ed arcano che riesce a proteggerla, senza che però Dimitri capisca da dove arrivi quella barriera.

Ovviamente Hermione non se ne preoccupa, non immagina che cosa sia, è convinta che alla fine Dimitri, purtroppo, violerà anche quella resistenza. E non è nemmeno il sommo dei suoi problemi.

Perdere la sua energia magica, i suoi poteri, nel caso in cui a Dimitri salti in mente persino di sottrarglieli… la terrorizza, certo, ma ci sono cose peggiori.

La gabbia, nei giorni, inizia a fiaccarla psicologicamente e mentalmente: la pelle ha bisogno d’aria pulita, gli occhi hanno bisogno del sole, la mente ha bisogno dei colori della vita. E lei vede solo polvere, sente solo grigio, respira solo buio. Piano, inizia a temere che il tempo rimanga inalterato così per sempre e che nulla cambi. Teme di dimenticare il sapore della libertà: se un essere umano vede a rischio la propria stessa sopravvivenza, si abitua e si adatta alla nuova situazione.

E lei non vuole rassegnarsi ad essere prigioniera.  

Quell’ipotesi ha la consistenza della gelatina nei suoi pensieri, e, come sabbia mobile, attira in basso tutti gli altri timori: quello che Dimitri deponga la sua cortesia e la costringa a salire in camera da lui; quello che Hayden muoia, senza che lei possa fare nulla per impedirlo; quello che lei stessa muoia, prima di aver salvato almeno l’amico.

E poi c’è il timore peggiore, quello a cui cerca di non pensare, quello su cui scatena tutta la sua residua forza: il timore che facciano qualcosa di così grave che lei davvero perda Draco.

Quella paura le inzuppa la schiena di sudore, le fa battere i denti, la fa muovere nervosamente avanti ed indietro come un topolino in trappola, le fa scuotere le sbarre della prigione e la fa abbandonare a lunghi lamenti, colmi di pianto.

Più i giorni passano e più lei si abitua alla prigione, più si convince che devono aver ferito Draco in modo irreparabile: più passa il tempo e meno sono le speranze che, tornando libera, possa far tornare tutto a posto.

Forse, e questo è il terrore peggiore di tutti, nemmeno riuscirà più a trovarlo.

La mattina in cui si sveglia e non si stupisce di trovarsi lì, decide con la sua solita tenacia che, per tenersi sana di mente, farà un gioco: annotarsi mentalmente tutte le cose che non ha ancora detto a Draco. Tutte quelle che gli deve ancora dire.

Non gli ha mai detto che odia quando usa il gel, perché sembra che gli abbia leccato i capelli una mucca.

Non gli ha mai detto che adora quando ha le mani occupate e le lascia libero il mignolo, così lei lo possa comunque stringere nella sua mano.

Non gli ha mai detto che detesta sinceramente quando si mette a mangiare a letto, perché riempie le lenzuola di briciole.

Non gli ha mai detto che, quando hanno ballato, aveva l’impressione che il mondo fuori fosse finito.

Non gli ha mai detto per un numero sufficiente di volte che lo ama, che vuole sposarlo. E non gli ha mai detto che ha paura di Helena, ha paura che lei continui ad attrarlo a sé dall’alto dei cieli.

Ha appena iniziato quel gioco, in un giorno qualunque di quella prigionia, e ne è talmente presa che non si accorge che è sveglia di mattina. Non si rende conto che quella mattina Dimitri non ha tentato di sedurla nella sua testa, o di attentare al suo potere. È così assorbita dai suoi pensieri, che la sola parte cosciente di sé la lascia impegnata a mormorare l’incantesimo che argina la ferita di Hayden. È così assorta che nemmeno si rende conto dell’arrivo di Dimitri ed Astoria, fino a quando non sono davanti alla sua cella. Anche se non fosse stata, però, così persa nei suoi pensieri, Hermione non avrebbe mai potuto sapere che quella è la mattina che cambierà la sua vita per sempre.

Quando vede i suoi carcerieri, Hermione si alza bruscamente in piedi, preoccupata che si accorgano delle cure che presta ad Hayden. Ci manca soltanto che decidano di spostarlo in un’altra cella, allontanandolo da lei e dalle poche cure che in grado di dargli. Solleva fieramente il mento, guardandoli, li odia come non ha mai odiato nulla nella sua vita. Vorrebbe ferirli, colpirli, ucciderli persino. Dimitri che è ossessionato dal pensiero di averla, come se lei fosse una sciocca bambolina di porcellana da mettere su una mensola, ed Astoria, che ancora non si convince che ha distrutto da sola il suo mondo, senza che né lei né Draco ne abbiano avuto la benché minima responsabilità.

La mano, che stringe il coccio di vetro che è la sua sola arma, si serra troppo forte ed inizia a sanguinare.

La guardano, oltre le sbarre, senza dire una parola, e curiosamente Hermione nota che quella mattina si sono invertiti le espressioni: è Astoria quella curiosa nei suoi confronti, la guarda a labbra dischiuse, una scintilla negli occhi chiari. Dimitri invece stringe i pugni, ha la bocca arricciata di disgusto e lo sguardo nervoso. Solo in quel momento, dal raggio di luce che dalla feritoia in alto colpisce i loro visi, Hermione si rende conto che è mattina.

Sta per succedere qualcosa. E’ cambiato qualcosa, nella routine stantia di quei giorni. E non può essere in meglio.

Astoria la studia con ingordigia, si sporge persino tra le sbarre come se potesse arrivare a captare qualcosa di lei in modo più netto, diminuendo la distanza tra loro. Hermione trasale, nasconde meglio nel palmo il pezzo di vetro, medita di colpire chiunque dei due si avvicini a lei. Spera che sia Dimitri, Astoria sarebbe più facile da far fuori in qualche altro modo. Pensa a qualche incantesimo muto da fare senza bacchetta, calcola la distanza con la porta, cerca di riflettere sul modo in cui potrebbe poi trascinarsi dietro Hayden. Viene, però, interrotta dalla voce impaziente di Dimitri che si rivolge spazientito ad Astoria: “Falle questo maledetto incantesimo, Greengrass… se glielo potesse fare un uomo, ti avrei già preceduto da ore…”.

Hermione non sente la seconda parte della frase di Dimitri, sente solo la prima. Riprende a sudare freddo, si stringe nelle spalle e si guarda furiosamente attorno alla ricerca di un riparo. Ha troppa poca forza nel sangue, per ricacciare indietro una maledizione. E se poi è l’Avada Kedavra… bè, la prenderanno di certo.

Non può morire… non può ancora morire, prima di aver salvato Hayden… e, tonfo al cuore, prima di aver detto tutto quello che ha ancora da dire a Draco… non glielo dirà mai… non potrà farlo mai… le lacrime le si affacciano prepotenti agli occhi, non se ne andrà senza combattere. Morirà, combattendo come ha sempre fatto. Spera solo che, dovunque vada a finire, possa continuare a guardare Draco vivere, possa continuare a proteggerlo e a tenerlo in salvo.

Prende la rincorsa, pronta a scagliarsi contro le sbarre e a colpire Astoria che è ancora mollemente appoggiata ad esse, ma la strega bionda è più veloce. Sguaina la bacchetta, la punta contro di lei e dice con un sorriso storto poche parole.

Lì, in quelle parole, c’è già tutto il destino di Hermione Granger da quel momento in avanti.

“Matris revelatio”.

Hermione non sente dolore e ringrazia la Morte per essere stata così misericordiosa. Poi riapre gli occhi e trova ancora la cella, la polvere, il corpo di Hayden svenuto. Guarda oltre le sbarre e vede Astoria che sorride follemente, quasi saltella, con uno sguardo allucinato ed esaltato che non le ha mai visto. Dimitri sputa per terra, con disgusto, dà un calcio alla parete, urla di rabbia e livore come se lo avessero picchiato.

Hermione non capisce, si guarda attorno e solo allora nota il bagliore aranciato che le illumina il ventre. Una nebbiolina quasi dorata la circonda all’altezza dei fianchi, ha un odore di rose che le fa salire le lacrime agli occhi. Non riconosce l’incantesimo, non lo ha mai visto. Guarda interrogativa prima Astoria, e poi Dimitri. Lui non si degna nemmeno di guardarla, come se improvvisamente persino la sua vista le fosse insopportabile, mentre Astoria riprende a ridere allegra e gioviale.

“Che diamine mi hai fatto?!” urla alla fine Hermione, raggiungendo le sbarre e scuotendole forte come un animale in trappola.

Astoria smette di ridere, la guarda con il suo solito sguardo stomacato e le ingiunge: “Vedi di stare calma, Granger… fallo con le buone… anche se non avrei nessuno scrupolo a narcotizzarti per nove mesi, pur di farti stare tranquilla…”.

“Che diamine vuoi dire?!” grida ancora Hermione, un secondo prima che la consapevolezza la travolga in pieno e le faccia cedere le gambe, mentre ricade seduta.

“Sei incinta di Draco Malfoy…” ride ancora Astoria, un misto di folle gioia e di sfrenata follia “ E non c’è cosa migliore al mondo che potesse capitare…!”.

I primi minuti da madre di Hermione Granger, sono solo angoscia e terrore. Come se improvvisamente il corpo si fosse ricordato della gravidanza, dopo essersi accasciata al suolo, Hermione viene scossa da un forte conato di nausea, si chiude la bocca con la mano destra e tenta di reprimere l’istinto a vomitare. La testa vortica come al centro di un tornado, fatica a restare cosciente. Si chiede come diamine possa essere successo e se Astoria non stia mentendo, ma ammette con sé stessa che sarebbe un giochetto mentale abbastanza inconcludente, considerando che l’hanno praticamente alla loro mercé da giorni. E che vantaggio potrebbe portare, farle credere di essere incinta?

Forse farla impazzire… e se quello è il piano, ci stanno riuscendo perfettamente.

Piegata sulla schiena, gli occhi sbarrati, la mano ancora premuta sulle labbra, Hermione combatte con la nausea e con i pensieri. Lei e Draco non sono mai stati attenti in quel senso, non se ne sono minimamente preoccupati: tra loro è sempre stato come vivere in un momento strappato, rubato, trafugato, dall’invidiosa vita che li voleva divisi. Erano inconsciamente sempre consapevoli di avere sempre poco tempo e, quando facevano l’amore, semplicemente non pensavano.

Hermione, che pensava sempre, non aveva mai pensato in quei momenti. E lei, che era sempre cauta ed attenta, ora era prigioniera ed incinta. E il secondo aggettivo sembrava quasi una ripetizione del primo. Era prigioniera, anche perché era incinta.

Non voleva diventare madre adesso, non voleva esserlo a ventiquattro anni, quando ancora non sapeva nulla di sé stessa e della sua vita. Non voleva prendersi cura di un’altra persona, più piccola e costantemente bisognosa di lei, non era in grado nemmeno di prendersi cura di sé stessa… non era stata in grado nemmeno di prendersi cura di Draco. Come poteva crescere un bambino? Come poteva crescerlo, spiantata come era?

Le voci di Astoria e Dimitri la riportano ancora di più al terrore del presente, ripensa al coccio di vetro che stringe ancora nelle mani e sa che, adesso, non può nemmeno sentirsi libera di tagliarsi le vene. Perché è la culla di quel bambino non nato, perché è l’ancora che lo tiene aggrappato alla vita, facendolo galleggiare sul mare dell’inesistenza. Con la testa che le gira ancora, immagina i mesi successivi in quella prigione, immagina il pancione che cresce nella polvere, immagina il parto con accanto Hayden incosciente, immagina il bambino che le viene messo accanto sulla lercia brandina dove dorme… e finalmente, come se tutto fosse troppo, vomita riversa per terra.

Non può essere vero, non può essere… con la mente anestetizzata, sente Astoria dire: “E’ normale che non riuscivi a captare la sua essenza magica, Karkaroff… il potere del bambino interferisce con quello della madre… cerca di proteggerla…”, Hermione sobbalza e trasale, quella specie di piccolo mollusco nella sua pancia cerca di proteggerla, chiude gli occhi e gli chiede nella mente chi diamine glielo faccia fare. Astoria continua con voce gaia: “E’ potente, ovviamente… è il nipote di Lucius Malfoy e Narcissa Black… il figlio di Draco…”. Il tono sognante di Astoria, che riduce Hermione ad un semplice guscio che protegge il figlio di Draco Malfoy, mette la ragazza in allarme più di tutto il resto. Solleva stancamente il capo, guardando i due che se ne stanno ancora fermi fuori dalla cella. Si aggrappa alle sbarre, si solleva in piedi e, reggendosi, li sfida con gli occhi.

Quelle scarne parole di Astoria le hanno messo i sensi in allerta, l'ha metabolizzato solo adesso in un momento di lucidità.

Lei aspetta il figlio di Draco.

Ignora volutamente che è anche suo figlio, cerca di non pensarci adesso e cercherà di non farlo per molto tempo, finché quel bambino un giorno se lo sentirà davvero dentro, finché lo sentirà muoversi e nuotare in lei, finché per la prima volta lo chiamerà compiutamente con il suo nome, accarezzandosi la pancia. Alexander Leo Malfoy.

Ma per ora, Hermione non vuole pensare che quell’ospite dentro il suo corpo, sia suo figlio. Non vuole pensare al fatto che, probabilmente, sarà la persona con cui condividerà più cose nella vita, non vuole collegare lei stessa e quel bambino se non per un particolare: Draco. Lui è l’uomo che lei ama, ed è il padre di quel bambino. Lei ha il dovere, anzi l’obbligo, di proteggere il figlio dell’uomo che ama.

“Quindi basta liberarsene, no?” mormora Dimitri, avvicinandosi alle sbarre ed estraendo la bacchetta. Hermione, terrorizzata, indietreggia come può, trovando il muro con la schiena, già con l’istinto di proteggere il suo cucciolo. Razionalmente non riesce nemmeno a dire la parola “mamma” nella testa, associandola a sé stessa; visceralmente il suo corpo, già va per conto suo, già la candida genitrice del bambino che ha in grembo. Cerca la fuga, cerca scampo, dimenticandosi tutto quello che non sia lei stessa e il figlio non nato. Dimentica persino per un momento, Hayden e il senso di colpa per averlo trascinato lì. Deve andarsene. Adesso. Ora. Subito.

Ma prima che possa fare qualsiasi cosa, Astoria si para davanti a Dimitri ed estrae la sua bacchetta, urlando sconvolta: “Lasciala stare!”.

“Levati di mezzo Greengrass!” urla a sua volta Dimitri, ma Astoria per tutta risposta, si smaterializza nella cella, parandosi davanti ad Hermione con la bacchetta tesa.

“Io voglio questo bambino!” urla con la voce stridula e graffiata di sofferenza “Non posso avere figli! Non ne avrò mai…! E tantomeno ne potrei avere da Draco! Ma la Granger porta in grembo suo figlio… e Draco non rifiuterà mai suo figlio! Se gli dico che sono sua madre… avrò la sola possibilità per cui davvero accetti di sposarmi…! Non puoi toccarla! Fallo ed immediatamente Montague avviserà le autorità sul luogo in cui ci troviamo, con la Granger prigioniera… ti sei mai chiesto perché non è mai qui con noi?!”. Astoria ha il fiatone per lo sforzo per aver parlato così velocemente, Hermione ne guarda la schiena mentre si ritrae contro la parete. Il figlio di Draco… è la sola cosa al mondo che Astoria non avrebbe potuto mai avere.

Lei gliela ha offerta su un piatto d’argento.

Dimitri impreca, gettando qualcos’altro per aria, e scompare su per le scale. Astoria sospira lungamente, si volta verso di lei e le dice freddamente: “Vedi di mangiare, oggi… ti farò portare della carne…”. Qualcosa, poi, sembra attirare la sua attenzione e, con un movimento rapido, le strappa il frammento di vetro dalle mani, portandoselo via.

Hermione non riuscirà più a dormire da quel momento in poi. Trascorrerà il giorno, curando Hayden, e la notte con gli occhi aperti, una mano sulla pancia. Farà il gioco del “non ho mai detto a Draco” per cercare di addormentarsi, ma non riuscirà lo stesso a prendere sonno. Perché tutte le frasi si areneranno sempre in una sola.

Non ho mai detto a Draco che aspetto suo figlio.

 

Riapro stancamente gli occhi, lasciando indietro nel fondo della mia memoria i ricordi della mia prigionia in Russia, nel castello di Dimitri. Sono stata lì poco tempo, solo una decina di giorni, eppure ricordo quelle giornate perfettamente, una meglio dell’altra. Avevo avuto paura, certo, quando mi avevano catturata, ma la mia solita incrollabile fiducia in me stessa, in Draco e nei miei amici mi aveva fatto andare avanti i primi tempi. Una parte di me era convinta che sarei riuscita a trovare un modo per liberarmi, o comunque ero certa che Draco mi avrebbe cercato.

E qualora tutto quello fosse fallito, prima o poi anche ad Harry, Ron o Ginny, sarebbe saltato in mente di venirmi a cercare.

Le cose, purtroppo, non erano così facili come le dipingevo.

E me ne resi compiutamente conto solo nel momento in cui seppi che ero incinta di Alex. Diventare madre è, automaticamente, diventare un essere terrorizzato e ansioso. O perlomeno, quella fu la prima impressione che ne ebbi. La paura si impadronì di me in un modo così totale che non ne trovavo paragoni nemmeno in guerra, o in viaggio per trovare gli Horcrux. Non aveva nessun genere di confronto con il terrore che poteva avermi assalito negli anni al pensiero che capitasse qualcosa ad Harry o a Ron, né tantomeno aveva qualcosa in comune con la sana angoscia che potesse capitare qualcosa a me stessa. Era invece qualcosa di così cupo e totalizzante, da annullare ogni altro pensiero. Forse fu un bene, chissà, perché per la prima volta da mesi esisteva qualcuno più importante di Draco, e quindi ciò mi impediva di concentrarmi su di lui, cosa che mi avrebbe rapidamente condotto alla follia. Al contempo, era anche un male: ero completamente responsabile del piccolo individuo che mi cresceva dentro, non potevo più agire solo ed esclusivamente per me stessa, non potevo più mettere a repentaglio la mia vita in modo così avventato da uccidere me stessa e il mio bambino. E questo fu terribile, perché ero e sono una Grifondoro: ero e sono il coraggio incarnato della leonessa.

Ma persino la più fiera delle regine della giungla deve, ad un certo punto, diventare subdola e sfuggevole come una iena se vuole salvare i suoi piccoli.

E quindi, lentamente, iniziai a riflettere in un modo che aveva tutto della paranoia e quasi nulla della razionalità.

Era oramai evidente che Draco non mi avrebbe cercato: sebbene allora non sapessi della parte di Raissa in questa vicenda, anzi persino la ponevo tra i miei ipotetici salvatori, ero comunque relativamente convinta che lui doveva essere stato allontanato a forza da me, con qualche inganno e stratagemma. Se così non fosse stato, Draco mi avrebbe immediatamente cercato e probabilmente anche trovato, perché era chiaro come il sole che Dimitri mi voleva per sé. Il dubbio poteva essere solo tra lui ed Astoria, ma in ogni caso Draco li avrebbe trovati entrambi se fosse venuto al castello di Dimitri. Ed invece lui non arrivava a salvarmi. Perciò concretamente o doveva credermi al sicuro, o doveva essere stato convinto che non avevo bisogno di lui, cosa che poi effettivamente era avvenuta. Deducevo che l’inganno ai suoi danni, molto probabilmente, doveva aver fatto cadere in trappola anche Pansy e Raissa. E quindi escludevo anche loro.

C’erano i miei amici, poi, ma anche nel loro caso, sapevano che io avevo sostenuto l’esame per entrare nel Wizengamot e che stavo trascorrendo del tempo da sola, ad Hogsmeade. Ci aveva pensato, ai tempi, Zabini a quella messinscena, facendo girare una specie di ologramma con le mie sembianze per il paese. Ed ammesso che mi avessero cercato, probabilmente i raggiri di Dimitri e di Astoria avrebbero potuto mettere comunque una toppa… e poi, certamente, nel peggiore degli scenari per loro, comunque non avrebbero collegato la mia scomparsa a Dimitri ed Astoria.

Harry nemmeno sapeva dello Zahir, della trappola della Greengrass, non sapeva nemmeno che io e Draco eravamo innamorati. Per arrivare a ricostruire i pezzi, ci avrebbe messo troppo. E comunque c’era sempre la famosa spia di Astoria nella cerchia del Ministro: qualsiasi mossa strana di Harry sarebbe stata subito riferita e controbilanciata.

Non mi sforzavo nemmeno di considerare, poi, i miei amici babbani, anzi mi auguravo che non li saltasse mai in mente di venirmi a cercare. Hayden era in pericolo di vita, e loro ne avrebbero condiviso la fine. Ed in ogni caso, dubitavo che comunque potessero trovarmi. Seth sapeva che avevo bisogno di tempo per dedicarmi a me stessa, ed anche lui non si sarebbe preoccupato se non fosse riuscito a rintracciarmi, perlomeno per un paio di giorni.

Restavo solo io con le mie esili possibilità di fuga. Ed uso l’aggettivo “esili” per essere tardivamente positiva. Ero incinta, terrorizzata, priva di bacchetta, con l’energia magica a pezzi e la mente confusa. E c’era Hayden che non era in grado di spostarsi da solo, anzi… non era nemmeno cosciente, per la maggior parte del tempo. Non potevo smaterializzarmi, probabilmente nessuno poteva farlo nemmeno nel perimetro del castello; con il passare dei giorni, al crescere del mio terrore, divenni sempre meno lucida. E mi resi conto rapidamente di quale sarebbe stato il mio destino: potevo sperare nell’indulgenza di Dimitri per i successivi nove mesi, fino a quando non avessi al mondo il figlio di Draco. Astoria se ne sarebbe impossessata subito, avrebbe ingannato Draco dicendo che era suo figlio, lui ci avrebbe creduto. Allora Dimitri, inselvatichito da quei mesi di impotenza, mi avrebbe preso di forza e portato nella sua camera. E lì sarei morta davvero, svuotata dell’amore per me stessa e privata di quello per mio figlio e per il mio uomo. Hayden, intanto, probabilmente sarebbe morto, gravandomi la coscienza di un’ulteriore colpa.

Mentre nella mia mente, mio malgrado, si srotola di nuovo quel terrore, i miei amici continuano a parlare animosamente, convinti che io li stia ascoltando.

Astoria, a suo modo, ha salvato mio figlio, non posso portarle troppo rancore. Era una donna sola, rigettata dal suo mondo, convinta di poter valere qualcosa solo accanto a Draco Malfoy. Persino quando ero in Italia ed ogni volta che lasciavo giocare Alex in giardino con l’ansia che lei si nascondesse ovunque per portarmelo via, comunque provavo sempre un pizzico di pietà per lei.

Con Dimitri, è diverso.

Lui mi ha distrutto la vita, in ogni senso possibile.

Ha lasciato una cicatrice così profonda in me che quella dello Zahir non è assolutamente nulla. E quest’ultima c’è, c’è sempre, come una macchiolina sporca sull’anima, come il segno di un peccato originale che non potrò mai purificare in un battesimo. Dimitri si è insinuato nelle piccole cose, come il serpente che era. È la paura degli spazi chiusi, quando resto sola. E’ nei momenti di estraniamento come questo, in cui il vecchio panico di quei giorni torna prepotente. È la repulsione per i contatti fisici con gli estranei. È nella luce che lascio accesa quando vado a letto.

È, ovviamente, nella distanza tra me e Draco.

Naturalmente è nella mancanza di ricordi di Alex su suo padre.

È nella ferita che ho inferto a Ron, lasciandolo in Italia. È nelle gambe di Hayden, che non camminerà mai più. E’ negli occhi di Helder, quando scrutava il tramonto e lo cercava all’orizzonte.

È nello sguardo di pietà che curva gli occhi di Dean. È nella repressa compassione di Pansy. È nella mano sempre stretta sulla mia di Seth.

Quando ho saputo che era morto, non ho provato sollievo. Non ho sentito quella stretta calda allo stomaco nel sentirmi finalmente al sicuro, e libera. Mi sono sentita defraudata della sua uccisione.

Volevo ucciderlo io, come non ho mai voluto farlo in tutta la mia vita. Persino da Capo degli Auror, sono riuscita ad evitare di infliggere la morte. Adesso volevo disperatamente ucciderlo, io.

Sono arrivata a capire Draco, quando cercava gli assassini di Helena. Ma Pucey e Montague erano due disperati e folli vendicativi, che volevano farla pagare a colui che aveva portato via le loro persone care. Dimitri non aveva mai amato nessuno. Non agiva per amore.

Solo per potere, quello che voleva su di me.

E soprattutto non ha fatto solo una vittima, ma decine. Draco, Alex, Hayden, Helder, Ron. E ha ucciso una parte di me stessa.

Sorrido a Dean che continua a fare supposizioni, che Pansy stronca ogni minuto con semplici monosillabi, mentre Seth continua a spanciarsi dal ridere.

Credono di avere davanti la solita Hermione Granger e non si danno pena della mano che non smette di tremare, unico sfogo ai miei pensieri. Perché, anche se sono tornata a casa adesso dopo cinque anni, anche se sono riuscita a salvare me stessa e mio figlio, anche se sono al sicuro, anche se finalmente ho la possibilità di cercare Draco… una parte di me, nemmeno tanto piccola, è ancora chiusa nel castello russo di Dimitri. Una parte di me non è mai stata liberata quella notte calda di inizio luglio.

Quando ci ripenso, quando ancora sento le pareti della stanza chiudersi su di me come se mi intrappolassero, senza accorgermene tendo a sfregarmi forte le labbra con il dorso della mano.

La traccia di Dimitri sulla mia bocca, non se ne è mai andata da cinque anni fa.

È stata l’ultima persona che ho baciato. E mi ha tolto anche l’ultimo calore quieto che mi era rimasto di Draco.

Tra le altre cose, mi ha tolto anche questo: l’ultima consolazione. Perché se tento di ricordare il sapore delle labbra di Draco, immediatamente sento quelle di Dimitri addosso. E le mie labbra prendono a bruciare come l’inferno. Esattamente come in quella notte di cinque anni fa.

 

“Non devi prendermi in giro, Hermione… piccola…l’ho capito che non camminerò mai più…”.

“NO! Non devi dirlo, io non te lo permetto! Quando ci libereremo, quando usciremo da qui… Ginny… è un Medico dei Maghi… potrà fare qualcosa, sicuramente lei potrà…”. La voce le si spezza, mentre segue la sua mano che, senza accorgersene, ha stretto la gamba di Hayden. Dovrebbe sentire male, dovrebbe avvertire dolore, gli sta facendo male. Lui invece non reagisce minimamente, non dice nulla. Chiude gli occhi, tira indietro la testa, sospira. Un minuscolo singhiozzo gli riecheggia in gola.

Hermione stacca la sua mano come se si fosse ustionata, ricade seduta sul pavimento accanto al suo letto, le spalle piegate dal peso del mondo tutto.

Hayden sta meglio, se così si può dire. La gravidanza le ha dato un enorme ascendente e potere su Astoria, l’ha minacciata di lasciarsi morire di fame se non avesse portato una medicina per guarire la ferita di Hayden. La mattina precedente, lei ha portato una boccetta dal liquido verde acqua che ha fatto ingerire ad Hayden, non prima che Hermione si premunisse di assaggiarla per non constatare la presenza di un veleno. Astoria ha stretto gli occhi, guardandola oltre le sbarre, ma Hermione ne ha sorretto orgogliosamente lo sguardo mentre beveva. Per nove mesi, potrà aggrapparsi ad ogni premura di Astoria, preoccupata spasmodicamente che lei resti viva e porti a termine la gravidanza.

Non appena Hayden ha ingerito la pozione, la ferita si è rimarginata e la febbre è calata. Ha ripreso coscienza, ha ricominciato a parlare, lentamente ha ripreso anche a mangiare. Eppure le sue gambe sono rimaste immobili, insensibili, assolutamente morte. Ha tentato di fare qualche passo, di muoversi, ma nulla. È sempre cascato al suolo, senza forza. La ferita, troppo profonda, deve avergli intaccato qualche nervo spinale.

Hermione lo guarda e non riesce a smettere di piangere, non riesce a fare altro. Non si meritava tutto questo, solo per averla conosciuta in uno stupido parco divertimenti. Non si meritava lei, non si meritava la sua vita disastrata, non si meritava di stare in quella cella. Perché hanno dovuto prendere lui e fargli del male? Perché? Non pensavano che l’avrebbero già spezzata, dividendola da Draco? Ci voleva il colpo di grazia finale alla sua combattività?

Certo che ci voleva, Hermione inconsciamente lo riconosce. L’hanno divisa da Draco, ma lei sa di voler tornare da lui, ha ancora speranza. Lo Zahir non ha sedato il suo amore, figuriamoci se possono riuscire delle sbarre in questo. Se lo riprenderà, lo troverà, appena uscita da qui. Ne è certa.

Però il senso di colpa per Hayden le impedisce di pensare a qualsiasi cosa di vagamente volitivo. È come se fosse paralizzata lei stessa, ma in un pantano appiccicoso che le impedisce anche solo di pensare di muoversi. Annega nelle sabbie mobili e nulla la trattiene al di qua della fossa che la trascina giù. Quando Hermione ci ripenserà anni dopo, capirà agevolmente quanto Hayden fosse stato utile a Dimitri. Era il modo con cui lui ha potuto tenerla oggettivamente segregata lì, prima nel cuore, e solo secondariamente con il corpo. Ed è stato anche il vero ed autentico modo in cui l’ha divisa da Draco. Non riesce a pensare a lui, si sente colpevole a farlo.

Hayden sta patendo tutto quello, non solo perché l’ha conosciuta, ma anche perché lei non ha corrisposto il suo affetto, se non addirittura il suo amore. Perché amava Draco.

E pensarci adesso, aumenta la colpa sulla colpa.

In quei giorni, Hermione cerca di pensare di rado anche al bambino che porta in grembo, non ne immagina viso, colori e gesti, ma lo relega in una parte della sua mente dove ha solo l’obbligo di continuare a respirare e a mangiare, per tenerlo in vita.

È l’arma che usa contro Astoria. Ed è al contempo un’arma contro Dimitri: non ha più voluto vederla, da quando ha saputo che era incinta. Non viola la sua mente, non tenta di sedurla, non fa assolutamente nulla. La ignora, ecco. La sua espressione alla scoperta della gravidanza, del resto, era stata abbastanza inequivocabile: Hermione lo disgustava. Perché diamine allora non la lascia andare, perché non lascia andare Hayden? Semplice. Tra nove mesi, Hermione non lo farà più inorridire, quando si libererà dell’ultimo scomodo regalo di Draco Malfoy. Solo allora Dimitri non avrà più davanti agli occhi la prova tangibile che Hermione ha sempre amato e sempre amerà Draco Malfoy.

Hermione abbraccia le ginocchia, poggiando la fronte sulle gambe piegate. Cerca di reprimere i singhiozzi, non vuole che Hayden la veda piangere. Lui non conosce questo mondo, deve essere lei ad incoraggiarlo. Ma ha perso tutto, ha perso ogni cosa. Ormai persino la speranza è diventata stantia come naftalina.

Sobbalza quando sente la mano di Hayden che le accarezza piano i capelli, solleva il viso e lo vede sorriderle stancamente, disteso sempre sul letto. Lo stesso instancabile sorriso che aveva il giorno che l’ha conosciuta. Le lacrime ignorano le sue proteste e inondano gli occhi, riversandosi poi sulle guance rosse.

“Non è stata colpa tua…” sussurra Hayden, continuando ad accarezzarle il capo “Non voglio che tu lo pensi nemmeno per un secondo, ok? È un caso che ci sia qui io, o non lo so, Seth… o April…”. Hermione deglutisce rumorosamente, non gli confessa che Draco ha protetto loro ma non lui. Non crede a Dimitri, è convinta che Draco semplicemente non abbia pensato che Astoria potesse colpire lei attraverso Hayden. Non crede che l’abbia fatto deliberatamente, come dice Dimitri. Non lo crederebbe mai.

Eppure ad Hayden non dice nulla, eppure protegge Draco.

Forse protegge solo sé stessa: lei che, quando Draco le aveva parlato delle misure di sicurezza che aveva preso, non aveva minimamente pensato che Hayden potesse essere in pericolo. Forse, egoista com’era, a lui non aveva pensato proprio.

Un ulteriore singhiozzo le fa tremare le spalle, Hayden le solleva il mento con una mano: “Voglio che tu mi prometta una cosa, Hermione…”.

“Tutto quello che vuoi…” bisbiglia lei.

I suoi occhi si fanno seri, intensamente lucidi, sembrano due pezzi di vetro verde scheggiati di luce: “Se avrai la possibilità di andartene da qui… se hai anche una sola minuscola idea che ti conceda di salvarti, ma non la stai nemmeno rendendo reale a te stessa perché sai che non posso seguirti… non farlo. Devi andartene da qui, sono stato chiaro?”.

“NO!” urla Hermione, staccandosi bruscamente dalla sua stretta “Non esiste al mondo! Io non me ne andrò mai senza di te, hai capito?!”.

“Sì che lo farai…” ripete testardo Hayden, guardandola negli occhi “Sei incinta, hai un bambino…! E ho capito che cosa vuole quel Dimitri da te… vuole tutto quello che hai…”, fa una pausa, lunga, sofferta, respira a fatica: “… e con tutto quello che hai, intendo davvero tutto… il tuo cuore, la tua magia, il tuo corpo… tutto…”, le prende il viso tra le mani, le sue dita si bagnano delle lacrime che le cadono incessanti dagli occhi: “Ti ucciderà, Hermione… se non in modo fisico, si prenderà tutta te stessa… devi andartene da qui…”.

“Sarei già stata con lui, se avessi avuto la certezza che ti avrebbe liberato…” confessa Hermione tutto d’un fiato, chiudendo gli occhi.

Hayden si stacca da lei, la guarda con espressione addolorata, capisce che non cambierà mai idea.

“A Draco non pensi? Non pensi a cosa accadrà se non ti vedrà tornare?”.

Hermione trasale, trema e si aggrappa all’angolo del letto. La mente le si spalanca di tutti gli Universi possibili a cui cerca di non pensare da quando è stata catturata. Serra forte gli occhi, trattenendo fuori quei pensieri, ma l’effetto che ne ricava è di sentire solo un forte rumore nella testa, simile ad uno scoppio.

“Ahia…” si lamenta, portandosi le mani alle tempie. Hayden si china con il busto su di lei e le chiede: “Che c’è? Hai di nuovo la nausea? O è la testa… che ti fa male?”.

“Ho sentito come uno scoppio nel cervello…” bofonchia Hermione, tranquillizzando il ragazzo “Gli ormoni forse mi fanno brutti scherzi…”. Non fa nemmeno in tempo a finire la frase che il rumore, nella mente, si ripete di nuovo, stavolta però accompagnato da una voce femminile che la chiama per nome: “Hermione…”. La ragazza, di primo acchito, si mette istintivamente le mani sulle orecchie, premendo forte, convinta che sia solo uno dei trucchi di Dimitri per farle perdere quel poco di cervello che ancora possiede. Quando la voce, però, riprende a parlare, qualcosa scatta nella mente di Hermione che riesce a collegare di averla già sentita.

“Hermione… mi senti?” la voce lo chiede ancora con tono più sommesso, ed Hermione finalmente riesce a capire di chi si tratta. Con le lacrime agli occhi, sente la speranza guizzare in fondo al suo ventre come un pesce argenteo.

“Helder!” urla nella sua mente, cercando di concentrarsi il più possibile. La voce dell’amica le arriva lontana, come se fosse distante chilometri. Hayden la guarda senza capire, Hermione solleva semplicemente il palmo della mano e cerca di fargli capire che va tutto bene.

“Riesci a sentirmi?” ripete ancora Helder, la voce leggermente più netta.

“Sì… adesso un po’ meglio… come faccio a sentirti? Come ci riesci?” chiede Hermione, lieta che la voce della sua testa sia più forte di quella della sua gola che sicuramente si sarebbe profusa in singhiozzi.

“Ti sei scordata che sono un’Empatica?” la voce di Helder sembra quasi ridere nella sua mente, Hermione se l’immagina persino scuotere la testa incredula “Di base è semplicemente Legilimanzia… ma io non ho bisogno di bacchetta o di eccessiva vicinanza… solo di sentimenti forti… e nel tuo caso so per esperienza che sono una tua prerogativa…”.

“Lo Zahir… è distrutto…” si sente quasi in dovere di spiegare, a disagio, come se in qualche modo fosse importante dirglielo, come se a suo modo Hermione volesse sconfessare il momento di quella debolezza “Ed è stata Astoria Greengrass… insomma… a convincermi a crearlo…”.

“Avrei dovuto capirlo…” dice Helder con tono grave “Nessuno sa niente dello Zahir… devi stare tranquilla su questo… era una pozione proibita, finirei prima io nei guai e poi tu… e sono contenta di come sia finita… sia per te che per Draco…”.

“Come fai a saperlo? Come fai a sapere che noi…?” chiede atona Hermione, chiudendo la mente dal pensiero di Draco stesso.

“Che siete innamorati? Facile, Hermione… la risposta è come sopra… sono un’Empatica…” sorride Helder con calore nella sua testa “Quel giorno… a Diagon Alley… era solo un sospetto. Non su di te, ovviamente… ma su Draco… aveva sentimenti confusi, veloci come stelle cadenti… e non potevo esserne certa. Ma sentivo che sotto quella rabbia e quel dolore… c’era qualcosa. Poi siete venuti allo scoperto l’uno nei confronti dell’altra… e da allora, è stato impossibile ignorarvi…”.

“Che vuoi dire?” bisbiglia Hermione, stringendosi il petto.

“Non credi che un amore così, sia qualcosa di semplicemente… troppo… anche per un Empatico? Tu hai rotto lo Zahir… lui ha battuto Adamar… due segreti vecchi come la Magia stessa… noi Empatici… io e gli altri, anche a grandissima distanza… vi abbiamo sentito ininterrottamente, come si sente il fuoco di un incendio quando si è avvolti dalle fiamme… sono settimane che ho il cervello che brucia…”.

È come se, alle parole di Helder, improvvisamente si aprisse una finestra nella mente di Hermione. La luce entra cauta, timorosa, timida, poi d’un tratto esplode e fiorisce come decine di fuochi pirotecnici. L’incantesimo del demone cattivo, che ha chiuso la principessa nel castello, si rompe come cristallo ed Hermione stessa ha l’impressione di spezzettarsi come un pezzo di vetro. Tutto quello al quale ha cercato di non pensare per giorni, le compare nella testa con la potenza di un vortice. Il cuore pompa di nuovo nelle vene l’amore per Draco che, prepotente come sempre è stato, le annulla ogni altra preoccupazione e pensiero. E tutto risorge come se non se ne fosse mai andato, l’urgenza di sapere dove e come stia, la preoccupazione per lui, l’ansia di sapere se stia soffrendo… ricorda, come se lo sapesse solo ora, che è incinta di suo figlio. La gola si chiude e si serra come se stesse soffocando, mentre ogni muscolo del corpo brucia nell’immobilismo che fino a poco fa, le era sembrato quasi doveroso imporsi. Doveroso, sì, per rispetto verso Hayden e per cura negletta di suo figlio. Adesso, d’un tratto, tutto è claustrofobia, costrizione. E proteggere Hayden e il suo bambino è trovare il modo di uscire di lì. La speranza, che la voce di Helder le ha restituito, diventa un faro luminoso nella sua testa che la porta persino a ripensare a sé stessa: ha ragione Hayden, non può permettere che Dimitri si prenda tutto di lei. Ma soprattutto lei non può permettersi di lasciar scivolare via Draco, lontano dalla sua vita, ingannato da chissà che artificio di Astoria e Dimitri. Non può permetterlo. Per loro, per quello che hanno alle spalle e per quello che hanno davanti a loro. Un figlio. Un bambino. Sebbene ancora non riesca ancora a dirsi che è anche suo figlio, Hermione per la prima volta lo sente vivo e tangibile dentro di lei. Per la prima volta, non è una specie di vermiciattolo che striscia nella sua pancia. Per la prima volta, ne immagina persino un viso senza colori.

“Non so dove sia, comunque… li sento i tuoi pensieri, Herm…” riprende tristemente Helder, rispondendo alle domande mute dell’amica “Non riesco a sentire Draco… è vuoto, al momento, Hermione… quindi non emana nulla che io possa percepire…”.

“Vuoto?!” esclama Hermione sgomenta, aprendo e chiudendo la bocca come in mancanza d’aria.

“Vuoto, già… è difficile da spiegare per un Non Empatico… ma è così… lo sento come un eco, sento che è vivo… ma non saprei dirti nemmeno se è ancora in Inghilterra… non prova nulla di sufficientemente forte, perché io lo possa sentire…”.

Quella frase, Hermione la sentirà molte volte negli anni successivi. Le farà sempre lo stesso maledetto effetto: il cuore in una morsa, stritolato e stropicciato più e più volte. Ogni volta che Helder con pazienza dolente gliela ripeterà, lei perderà un briciolo di forza e di speranza. Quel giorno, però, è la prima volta che la ode. Quindi la ricaccia a fondo dentro sé stessa, cercando di non lasciarsi sopraffare.

“Come fai allora a sentire me? E come fai anche a parlare con me?” chiede quindi impensierita “Forse io non sono nemmeno in Inghilterra… o sbaglio?”.

“No, non sbagli… sei in un castello, al confine tra Russia e Bielorussia… e sono riuscita a sentirti solo per un attimo… giorni fa… hai provato una disperazione così lacerante che sono riuscita a sentirti per pochissimo in modo distinto…”.

Hermione ci riflette su, una disperazione lacerante… poi sospira e ricorda. Il momento in cui ha scoperto di essere incinta… ed ha immaginato i mesi successivi in quella prigione.

“Ti controllavo da settimane… da quando hai rotto lo Zahir…” continua Helder senza sosta “Ovviamente di quello me ne sono accorta subito… ti sentivo a tratti, eri triste… poi hai ritrovato Draco… e siete esplosi nel cervello di tutti, non solo nel mio… fino ad una sera di dieci giorni fa… lì, non vi ho più sentiti…”. Dieci giorni fa… Hermione fa un rapido calcolo: la sera del compleanno di Pansy.

“Mi sono impensierita, naturalmente… non sentivo più te… e ora so che era perché eri troppo lontana da Londra, perché ti sentissi… e Draco era vuoto… ho pensato persino che ti avesse uccisa…”.

Hermione incassa le sue parole con un tonfo al cuore, ovviamente sa che Draco non le farebbe mai del male. Ma sa anche che il padre di Helder è stato ucciso da Lucius Malfoy: sarebbe anormale se lei non avesse pensato una cosa del genere.

“Avevo già deciso di contattare qualcuno… di dare l’allarme a costo di rivelare tutto, anche dello Zahir… poi sei ricomparsa lontanissima dall’Inghilterra… in un castello in Europa Orientale… e ho capito che c’era qualcosa che non andava…”. Helder prende ancora fiato, la sente esitare nella sua mente, poi dice sicura: “Se riesco a sentirti adesso, se riesco a parlarti… è perché sono qui, Hermione… sono a pochi chilometri dal castello…”.

Hermione sobbalza: “Sei qui? E sei da sola? Non puoi fare nulla, Helder… il castello è protetto… è troppo pericoloso…”.

“Non sono da sola… e qui viene il bello…” sorride Helder con calore, la mente stessa di Hermione sembra trarne un tiepido beneficio “Quando sono andata al Ministero… per raccontare che ti avevo sentito in Bielorussia… e ti avevo sentito disperata… Harry era in gran subbuglio… e a causa tua…”.

“Harry?! E che c’entra lui?”.

“Poco prima, Ronald era piombato nel suo ufficio, trascinando Lavanda, la sua ragazza… lei è la segretaria del Ministro, lo sai no?”. Hermione annuisce mentalmente, i pezzi che finalmente iniziano a combaciare uno dopo l’altro.

“Ron e Lavanda avevano litigato quella mattina a causa tua …” prosegue Helder concitata “Lui voleva lasciarla e lei continuava a dire che era ancora innamorato di te…”.

Hermione trasale ancora e serra più forte gli occhi chiusi, mentre Helder prosegue: “Lavanda, in un impeto di rabbia, gli ha urlato che probabilmente non ti avrebbe più rivista… e Ron, sconvolto, l’ha portata da Harry… e lì Lavanda ha confessato che faceva da qualche settimana il doppio gioco per Astoria Greengrass… voleva liberarsi di te perché era convinta che tu fossi l’ostacolo sempre presente tra lei e Ron… non sapeva che cosa ti fosse successo, sapeva solo che non eri più in Inghilterra… e da lì, è uscito fuori tutto, Hermione…”.

“Cosa, esattamente? Di me e di Draco?” chiede Hermione con un filo di voce, ancora incredula. La spia… quella che avevano cercato per giorni… era Lavanda Brown.

Come poteva, dopo anni, preoccuparsi ancora di lei? E soprattutto non aveva saputo da Astoria che lei e Draco stavano assieme? Aveva mentalmente escluso che potesse essere lei, proprio per quel motivo. Una parte della sua mente registra sommariamente che, secondo Lavanda, Ron è ancora innamorato di lei. Vorrebbe non sentire nulla, a riguardo, ma lo stomaco le si contorce in preda al nervosismo.

“No, di te e Draco non è uscito fuori nulla…” la rassicura Helder con un filo di voce “Ed è ovvio, se ci pensi… Astoria non aveva mai raccontato niente a Lavanda per non compromettere l’aiuto prezioso di lei… anzi l’aveva incoraggiata a credere che tu fossi ancora persa di Ron… in quanto ad Harry, ha collegato te e Draco, ma non in quel modo, anzi mi ha detto di averti chiamato settimane fa e di aver sentito distintamente da te che non provi nulla per Draco… ed invece credo che tu fossi solo sotto il controllo dello Zahir, vero?”. Hermione, fiaccata, annuisce stancamente e ricorda la telefonata di Harry di qualche settimana prima: lei era appena tornata dalla spiaggia con Hayden ed Harry le aveva chiesto se provava qualcosa per Draco. Hermione aveva negato con ferocia, quando in realtà era solo sotto l’azione dello Zahir che le impediva di sentire qualsiasi cosa per Draco.

“Per il resto del Mondo della Magia, figuriamoci…” continua Helder “Draco è morto anni fa… e voi non avevate alcun legame… Harry ovviamente l’ha cercato… ma nulla, lui è scomparso. Il Petite Peste è gestito da Seth, non si trova nemmeno la bambina, Serenity… e persino Blaise Zabini e Pansy Parkinson non sanno nulla di lui da una decina di giorni.  Harry ha scoperto, però, che tu non avevi mai sostenuto l’esame per il Wizengamot, che le carte erano state manomesse… e ha anche scoperto che quella che girava per Hogsmeade, secondo alcuni testimoni, era solo un miraggio, un’illusione ottica… quindi ha pensato che fossi scomparsa da tantissimo tempo… quando invece tu eri con Draco… non ho contraddetto la sua tesi, perché comunque spetta a te parlare loro di Draco e di tutto il resto… e se non l’hai mai fatto, avrai i tuoi motivi…”.

“Hai fatto bene… grazie Helder…” ripete Hermione, preoccupata “Anche se, conoscendo Harry, sicuramente adesso sarà convinto che io sono scomparsa a causa di Draco… insomma lui non si trova e nemmeno io…”. Le parole le fluiscono fuori senza forza. Hermione riesco solo a pensare che Draco non si trova, e nemmeno Serenity. Riesce solo a pensare che nemmeno Blaise e Pansy sanno nulla di lui. E, per strano che le possa sembrare, lei non pensa che non si trovi perché è prigioniero o altro. Anche negli anni successivi, Hermione lo sentirà distintamente vivo e vegeto, ma morto dentro. Come le continuerà a ripetere Helder. Non è nemmeno disperato… è solo… vuoto.

“Harry, ovviamente, di primo acchito ha collegato le vostre due sparizioni…” asserisce Helder “Ma, quando sono arrivata io e gli ho detto che ti avevo sentito in Russia… e che Draco non era con te, perché sennò mi sarei accorta di lui… mi ha creduto… è abbastanza ignorante in materia di Empatici, il Ministro. E non sa che, se anche Draco fosse con te, io dall’Inghilterra non l’avrei sentito… avrei potuto percepirlo solo per quell’amore che condividete e che, come ti ho spiegato, è abbastanza onnipresente per quelli come me… ma Harry mi conosce, e si fida di quello che dico… quindi se escludo la responsabilità di Draco, senza spiegare molto di più, a lui ovviamente sta bene così…”.

“E sa che dietro a tutto c’è Dimitri Karkaroff?” chiede Hermione nervosa “Non sarà facile avere a che fare con lui…”.

“Dimitri Karkaroff lo conosco… dai tempi della Seconda Guerra Magica…” riprende Helder incolore “Voleva essere un Indicibile… ma non ci riuscì… e so per certo che non è persona di cui fidarsi… la sua conoscenza magica è illimitata… e scommetto che c’è lo zampino di Adamar…”.

“Non sbagli…”.

“Ma la cosa peggiore di lui è… quello che ha dentro…” prosegue Helder agghiacciata “Non ho mai sentito nulla del genere… non è amore quello che sente per te, non è nemmeno curiosità… è ossessione… sarebbe capace di farti a pezzi, pur di vedere come funzioni…”. Hermione rabbrividisce, chiudendosi nelle spalle, la mano di Hayden si chiude sulla sua. La stringe forte.

“Io non sono sola, Helder…” riprende Hermione dopo un po’ con tono sommesso “C’è un’altra persona con me… un Babbano… e credo che non possa nemmeno più muoversi… e poi… sono…”.

“Incinta…” finisce Helder per lei “Lo so, lo sento… sento il bambino dentro di te… non ha ancora una forza sua autonoma o sentimenti… ma insomma… è facile da sentire… o meglio… è strano da sentire… è come avvertire te e Draco mescolati assieme…”. Una lacrima le sfugge dall’occhio, Hermione la raccoglie con le dita, mentre sente quasi il peso di suo figlio dentro. E poi sente come l’ha chiamato… suo figlio.

“Per fortuna non sono sola nemmeno io, Herm…” continua Helder più allegra “Harry e Ron sono con me… assieme ad una ventina dei tuoi vecchi Auror…”.

Le lacrime finiscono di cadere sulle guance di Hermione, si sciolgono come ghiacciai all’inizio della primavera. I suoi amici… sono qui… non è sola, non lo è mai davvero stata. L’hanno trovata. Tutto in lei urla feroce che il tempo l’ha divisa da Harry e Ron, lei stessa non è più quella che loro conoscevano. Ha un segreto pesante dentro, che ha le fattezze di un bimbo Malfoy nella sua pancia, eppure loro tre sono ancora lì, pronti ad accorrere sempre l’uno in soccorso dell’altro. Per un piccolo e stupendo attimo, Hermione si pente persino di non aver mai raccontato loro nulla di lei e Draco e di averli volutamente lasciati fuori. Lo avrebbero difeso, lo avrebbero trovato, avrebbero impedito che Dimitri glielo portasse via. Magari sarebbero stati restii a capire che si amavano sul serio loro due, ma poi, come hanno fatto Pansy e Blaise, avrebbero accettato. E ora, forse, Draco sarebbe con loro a liberarla. Ma lui non c’è… lui… adesso è… vuoto. Ogni volta che quell’aggettivo, assurdamente riempie la sua mente, lei si sente andare a pezzi.

“Ora, però, viene il difficile, Herm…” prosegue Helder con voce flebile “Dimitri è potente… molto… troppo, persino per un migliaio di Auror… conosce incantesimi che io non posso nemmeno pensare di conoscere anche se sono un’Indicibile. Harry mi ha voluto qui proprio perché comunque ho una conoscenza maggiore rispetto a loro… e comunque non credo nemmeno che sia sufficiente… Dimitri ha un solo punto debole… e purtroppo, sei tu…”.

Hermione deglutisce rumorosamente, sapeva che si sarebbe arrivati a questo punto, lo sentiva. Da quando Helder ha iniziato a parlare nella sua testa, ha sentito che si sarebbe arrivati a quel punto. La mano di Hayden nella sua, è fredda, ed Hermione, senza riaprire gli occhi, lo vede accanto a lei, le gambe immobili, il sorriso tirato, la fiducia riposta completamente in lei. Deve farlo… è il suo sacrificio per Hayden. Lui ha già sacrificato troppo per lei.

“Dimmi che cosa devo fare… a patto che salviate Hayden… io farò qualsiasi cosa…” dice decisa, raddrizzando le spalle.

“L’unico Incantesimo che è posto sulla proprietà… che riesco a sentire…” inizia titubante Helder “E’ un Incantesimo che ha reso le mura del castello… come prolungamenti del corpo di Dimitri. Sente… ogni cosa. Se abbattessimo un muro, o entrassimo, se ne accorgerebbe subito… a meno che… non si distragga… e la sola che puoi distrarlo, sei tu…”.

“Certo…” asserisce convinta Hermione “Hayden è nelle segrete… portate via lui, approfittando del tempo che posso guadagnare…”.

“E tu?” chiede Helder, il tono sospeso che ricorda che sta parlando con il Capo degli Auror, la cui mente era costantemente allenata ad ogni tipo di strategia e piano diversivo. Hermione non ha dubbi nemmeno per un momento: “Salirò in camera di Dimitri… se lui può sentire solo le mura del castello… io mi getterò dalla finestra della sua stanza…”.

“E’ troppo pericoloso!”.

“No… non lo è… pensate a come impedire che mi sfracelli al suolo… una scopa… o un Levicorpus potente… avete tempo fino a quando sentirai Dimitri… cambiare…” Hermione deglutisce pesantemente, sa che accadrà quando Helder sentirà Dimitri cambiare. Sarà arso dal desiderio per lei. Sarà facilissimo per Helder accorgersi della differenza. In entrambi… lui sentirà di aver vinto. Lei sentirà di aver davvero perso per sempre.

Hermione chiude la mente ad Helder e alle sue rimostranze, riapre gli occhi e guarda Hayden con un largo sorriso.

“Vengono a liberarci…” dice, sorridendo. Hayden le stringe forte la mano, le chiede come faranno, chi gli sta liberando, come faranno a portarlo fuori da lì, in quelle condizioni. Hermione gli dice solo di fidarsi di lei.

“C’è anche Draco con loro?” chiede Hayden, guardandola negli occhi.

Hermione sospira profondamente, eludendo la sua domanda: “Ascolta Hayden, devi fidarti di me… non contraddirmi… fai solo quello che ti chiedo… resta qui…  e non fare nulla di stupido… io… io me la caverò, ok?”.

Hermione si divincola dalla sua presa, raggiunge velocemente le sbarre della cella mentre Hayden inutilmente la richiama indietro, urlando e cercando anche di trascinarsi giù dal letto su cui è disteso. Ma Hermione, rapida, sussurra al chiavistello della cella: “Voglio andare da Dimitri”. Hermione si sente strappare via, all’altezza dell’ombelico, mentre in un fascio di vento, si sente sospinta in alto, verso la camera del signore del castello.

La stanza di Dimitri deve essere nella torre più alta: Hermione nota subito dalla finestra spalancata la notevole altezza, a cui devono trovarsi. Respira a pieni polmoni l’aria fresca,  che scaccia via la polvere accumulatasi nei giorni precedenti. L’aria ha un odore buono, sa di pulito, sa di resina e pioggia, sa di luna mescolata alla rugiada. Lontano, intravede delle vette innevate, una foresta di conifere, un laghetto dall’acqua pulitissima. Il vento le soffia sul viso, scompigliandole i capelli ed agitando il vestito nero che porta dalla sera del compleanno di Pansy. Hermione resta con lo sguardo immobile, congelato, desiderosa di correre fino alla finestra per gettarsi di sotto, senza paura. La libertà è ad un passo.

Ma Hayden è ancora lì sotto, ancora attende di essere liberato. E lei ha ancora una cosa da fare, ha ancora quest’ultimo vessillo da far cadere davanti a Dimitri, prima di poter arrendersi.

Getta uno sguardo distratto alla stanza, sembra scavata nella roccia. La pietra viva ricopre pareti, soffitto e pavimento. Sulla destra un letto a baldacchino rosso sangue torreggia su un tappeto dello stesso nauseante colore. Sulla sinistra, invece, c’è un enorme camino spento, sulla cui sommità Hermione vede la testa di un cervo ucciso. L’unica luce è una candela posta sul comodino di Dimitri, accanto al quale c’è una poltrona. E lì, c’è lui.

Appena la vede, si solleva bruscamente in piedi e la fissa sconvolto, come se non la vedesse davvero, come se non credesse sul serio che sia lì. Per un attimo, lascia andare il ferreo e rigido controllo su sé stesso e sembra autenticamente sorpreso. Probabilmente non dorme da giorni, due profonde occhiaie gli cerchiano gli occhi blu, la camicia nera è spiegazzata, i primi bottoni aperti sul torace. I capelli serici sono arruffati, li scompiglia ulteriormente con le dita. Nella mano, regge un bicchiere rotondo di cristallo, in cui restano poche tracce di uno scintillante liquido ambrato.

“Sei qui…” constata con un filo di voce, poggiando il bicchiere sul comodino e facendo un passo incerto. Hermione lo guarda, sollevando il mento, sa che deve trattenerlo, sa che deve recitare, sa tutto. Ma sa anche che deve essere sé stessa, sa anche che non può diventare un’altra. Lui capirebbe il suo gioco immediatamente. Le mani le sudano freneticamente, mentre dice stentorea: “Avevo qualche alternativa? Sono qui da giorni… non sarà forse il momento di… sistemare questa cosa? Che cosa diamine vuoi da me?!”. Le spalle le si contraggono involontariamente, scivolano fuori con rabbia inespressa le ultime parole della frase, mentre una calugine di pianto frustrato le vela lo sguardo.

“Hermione… piccola…” bisbiglia lui, avvicinandosi piano come una fiera nella foresta. Si ferma di fronte a lei, la soppesa con lo sguardo per qualche secondo, poi allunga una mano come a volerle toccare il viso. Ma il braccio ricade sconfitto lungo il suo fianco, un attimo dopo che Hermione sia trasalita e si sia stretta inconsciamente a sé.

“Hai paura di me?” le chiede con voce soffusa, da una parte quasi spaventato, da una parte curiosamente eccitato dalla possibilità che lei davvero lo tema. Hermione punta i suoi occhi nei suoi, lapilli di fuoco che guizzano nel blu dell’iride di lui.

“Dovrei averne?” chiede lei, incrociando le braccia “Mi tieni qui prigioniera, cerchi di violare la mia mente… vuoi rubare la mia magia… e chissà che altro…”. Hermione tace il pericolo maggiore, quello che le si agita pericolosamente dentro, come un animale rivoltante. Gli occhi evitano di guardare il letto nell’angolo della stanza, ma comunque lo sguardo voglioso di Dimitri sembra suggerirle in ogni momento quanto bramerebbe trascinarla lì.

“Non devi avere paura…” sussurra Dimitri, facendo un altro passo e guardandola. Ormai è di fronte a lei, Hermione deve sollevare lo sguardo per riuscire a guardarlo negli occhi come si sta imponendo di continuare a fare. Il coraggio non le è mai mancato, né le mancherà nemmeno in punto di morte.

Dimitri, veloce, le prende il viso tra le mani, Hermione rabbrividisce al contatto con la sua pelle fredda. Lui ha quasi un tono di scusa sommessa negli occhi, si piega l’espressione di prostrazione mentre la guarda e, piano, c con tutta la lentezza del mondo, le accarezza il profilo morbido delle labbra con le dita. Hermione chiude gli occhi, concentra la sua mente sul bambino nella sua pancia, mette ogni energia nel ricordare che è il figlio di Draco. E’ il solo modo per non perdersi, per non cedere, per non cadere come una fortezza espugnata davanti a Dimitri.

“Tutto questo…” riprende Dimitri con un tono dismesso che non gli appartiene, mentre continua ad accarezzarle le labbra “E’ stato necessario… Hermione… piccola… tu… non volevi ascoltarmi… e ho dovuto… portarti qui…”. La sua voce, così diversa da quella che lei è abituata a sentire, le fa aprire bruscamente gli occhi e dischiudere le labbra, mentre lo guarda. Ha un’espressione diversa, concentrata, infinitamente… triste. La cosa strana è che sembra non guardarla neppure, sembra che lei nemmeno esista più. E’ come se fosse diventato una statua di sale, cosciente di sé stesso solo per il lento e meccanico movimento di accarezzarla.

Non si era immaginata così la cosa, Hermione. Si era immaginata violenza, avevo pensato subito che la gettasse su quel letto e la prendesse con la forza. Hermione sente dalla tensione del corpo di lui che la vuole ancora, che la desidera infinitamente, eppure se ne sta fermo, immobile. La accarezza e basta, profondamente perso nei suoi pensieri.

Quando sente la voce di Helder nella testa che la esorta a continuare qualsiasi cosa stia facendo, dato che l’Incantesimo a difesa delle mura si sta indebolendo, Hermione respira a fondo e sussurra con un filo di voce: “Cosa, non volevo ascoltare?”.

La domanda le esce dalle labbra quasi come se stesse sognando, come se non fosse più cosciente di sé stessa. Fissa gli occhi blu di Dimitri e formula quella domanda: non vuole soltanto prendere tempo, ma vuole capire. Perché effettivamente sente che qualsiasi cosa spinga Dimitri verso di lei… curiosamente con lei non c’entra nulla. È strano, non saprebbe spiegarlo.

Dimitri sorride, ha un sorriso storto e curvo, che non arriva agli occhi. Sono come bloccati quegli occhi, persi in una stasi tutta loro. Bisbiglia a mezza bocca, ancora con quel tono timido che non gli ha mai sentito: “Non mi hai mai voluto ascoltare… mai… sin da quel giorno quando…”, le sue parole sono sconnesse, frammentate, deliranti “… te l’ho detto tante volte… mi avresti dovuto aspettare… ma tu invece… hai dovuto cedere a lui, certo, ovvio…”. Le mani di Dimitri sul suo viso tremano, Hermione ci distingue rabbia ed impotenza e si pente di aver fatto quella domanda. Ha riportato alla mente di Dimitri il ricordo di Draco…. e lei non vuole, vuole lasciarlo fuori da questa stanza. Da questo momento che è fatto solo per salvarli entrambi. Cerca di recuperare quel filo sottile che si sta rompendo con Dimitri, inconsciamente poggia una mano su quella che lui le tiene ancora poggiata sul viso. Dimitri sbatte le palpebre, sembra svegliarsi da un incubo tutto suo, la fronte si imperla di sudore. Gli occhi si riverberano di nuovo di luce, la mascella si indurisce, mentre Hermione lascia cadere la mano.

“Non hai mai voluto ascoltare la verità, Hermione…” sussurra di nuovo Dimitri suadente, tornato in sé, guardandola ancora con l’espressione del gatto che aspetta di mangiarsi il topolino bloccato tra i suoi artigli “E la verità è questa… è sempre stata questa: tu mi appartieni. Sei il solo modo per cui tutto… tutto… vada a posto… mi sei stata mandata perché io possa riparare a tutti i miei sbagli ed errori… e io non ti lascerò mai andare… mai più… devo tenerti qui, affinché tu non vada via… fino a quando… non capirai… e sarai tu a non voler andare mai più via, da qui…”. È cambiato, è tornato sé stesso. Hermione sente di nuovo la schiena rabbrividire al contatto con quegli occhi ghiacciati.

“Sono bravo a giocare con la mente…” mormora roco, avvicinando il viso di Hermione al suo, lei chiude repentinamente gli occhi, il cuore che le batte forte, mentre ogni possibilità di fuga le si palesa davanti agli occhi come impossibile, almeno fino a quando Helder non le darà il segnale. Dimitri continua a bisbigliare, la voce sempre più bassa e flebile, Hermione ne sente il respiro sul viso: “Sono sempre stato bravo a giocare con la mente delle persone… ma stavolta niente trucchi… è il tuo vero sapore che voglio sentire… non quello che mi suggerisce la mia mente…”.

Ad un soffio dalle sue labbra, mentre Hermione sente le lacrime scenderle lungo il viso e le forze abbandonarla, Dimitri aggiunge divertito: “Vediamo di togliere anche questo a Draco Malfoy…”.

Hermione trasale, il suo corpo è diventato il campo di battaglia tra Dimitri e Draco… e non riesce nemmeno a sopportarne il pensiero. Il lampo di trionfo che legge negli occhi di Dimitri, con l’effetto lacerante di strapparle di dosso orgoglio e dignità, la tormenterà per anni, sarà il motivo maggiore per cui lo odierà, per cui non cesserà di volerlo vedere morto anche quando lui già non ci sarà più. Lei e l’orgoglio sono sempre stati una sola cosa, tolto il secondo, sostanzialmente lei non esiste più.

La mano di Dimitri, che era poggiata sul suo viso, scivola sulla nuca di Hermione nel tentativo di renderla più arrendevole, facendole reclinare lievemente la testa all’indietro, mentre rapace le chiude le labbra con le proprie, stringendola con il braccio libero attorno alla vita. Le labbra di Dimitri sono gelide sulle sue, si nutrono avare del suo sapore, muovendosi febbrili, cercando di acquistarne calore, rubandole la memoria del gusto di Draco. E’ un bacio prepotente, che deve costringere Hermione immobile per poter esistere, è un bacio al sapore di limone che la ragazza non dimenticherà mai più. Sa che è impossibile, sa che è ancora presto, sa che è solo una sensazione, ma il disgusto che sente si traduce in un rantolo al ventre, che le fa credere che persino il bambino si stia rivoltando in fondo al suo addome. È al bambino che Hermione si aggrappa con tutte le sue forze, se può proteggere la sua magia, impedire che Dimitri gliela porti via… può proteggerla anche da questo. Si ricorda di quando Draco, la sera del loro primo bacio al Petite Peste, la soccorse ferita a causa della maledizione di Voldemort… e mentre lei inorridiva per la visione del mostro che la violentava, Draco la salvò anche in quel senso, distruggendone l’ombra.

“Se sei suo figlio… se sei davvero il figlio di Draco… ti prego, salvami anche da questo…”. La preghiera si forma nella sua testa, mentre sente le mani di Dimitri scorrere sulla sua schiena, lasciata nuda dal vestito. E il figlio di Draco, quello che Hermione ancora non chiama suo figlio,  sembra ascoltarla.

Hermione sente una punta di calore fortissimo al basso ventre, che la induce quasi a scoppiare a piangere, mentre rabbrividisce per il contrasto con la pelle gelida di Dimitri che continua a stringerla. Riapre gli occhi, trova la luna che splende nel cielo fuori dalla finestra, rendendo tutto bagnato d’argento. La luna… gli occhi di Draco. Ed è un attimo prima che il desiderio di tornare da lui, faccia il resto… ed è un attimo prima che ritorni fredda.

La finestra… lei deve scappare da lì… ma Dimitri la riprenderà in fretta. Sospirando languidamente nella bocca di Dimitri, che sorride compiaciuto, si rende conto della sua bacchetta che pende dalla tasca dei pantaloni.

Hermione sospira più pesantemente, finge un sussulto delle membra come se d’improvviso volesse smettere di lottare, come se d’improvviso una passione incontestabile l’abbia accecata, come se non fosse più in grado di controllarsi e di trattenersi.

Come se Dimitri avesse alla fine vinto.

Si solleva in punta di piedi, portandosi più vicina a lui, gli cinge il collo con le braccia e dischiude le labbra prima serrate al bacio di Dimitri. Lui sembra trasalire per un attimo, ma il senso di potenza e di trionfo lo acceca completamente, mentre spinge il suo corpo contro quello di Hermione. La ragazza, senza più esitazione, ascoltando solo l’anelito della sua sopravvivenza e di quella del suo bambino, si scollega completamente da sé stessa. Le sue dita stringono voluttuosamente i capelli di Dimitri, facendoli persino male, in un impeto di odio feroce che confonde con una finta vogliosità che lui fraintende appieno. Lui ride persino, entusiasta, eccitato come non mai, quando Hermione gli morde il labbro inferiore con i denti. Il sangue di lui le scivola in gola, irritandole la faringe, e lei fa di tutto per non tossire, per non interrompere la recita. Lo spinge con tutta la forza che le è rimasta in corpo verso il letto, Dimitri inizia a giocare con le spalline del suo vestito, scende lungo il suo collo.

Con la visuale momentaneamente libera, le dita sempre nei capelli di Dimitri, la testa lievemente chinata all’indietro, Hermione calcola mentalmente quanto separa il letto dalla finestra. Poco. Molto poco. Di meno, che se rimane qui in piedi.

“La resistenza delle Mura è caduta…” bisbiglia improvvisamente Helder nella sua testa, Hermione chiude gli occhi come ad escludere dalla sua mente le immagini di quanto sta accadendo perché Helder non le veda “Stiamo portando fuori il ragazzo… appena ti do il segnale… puoi agire… useremo un Levicorpus da cinque bacchette diverse…”. Hermione annuisce, ha bisogno ancora di tempo, deve muoversi.

Dimitri continua a baciarle il collo, fino alla linea delle spalle e alla clavicola, scendendo lungo il seno, mentre sposta con la mano lo scollo del vestito. Hermione, senza esitare, gli solleva il viso, lo bacia furiosamente sulle labbra, lo morde ancora, con più forza di quanto non abbia fatto prima. Lui continua a sorridere, il sapore del sangue tra le loro labbra ha il sapore per entrambi della vittoria. Solo quello di uno dei due, si rivelerà essere quello autentica, tra pochi minuti.

Sospingendolo con tutto il peso del corpo, Hermione guida Dimitri al letto, lui ricade all’indietro, trascinandola. Hermione sale a cavalcioni su di lui, non lo guarda nemmeno in viso, si è trasformata in una marionetta scarlatta che sta solo recitando una parte. Non è mai stata così, con nessuno. Perché adesso non è più lei. Se Dimitri conoscesse ed amasse la vera Hermione Granger, saprebbe che lei adesso non è minimamente somigliante a sé stessa.

Hermione ha fatto l’amore con Draco per dieci giorni, al punto da generare un figlio, e l’ha fatto in un modo timido, dolce, intenso. Ogni volta, ha quasi pianto, non ha mai abbandonato i suoi occhi grigi, ha sempre sorriso quando lui la guardava. Si è sempre scusata per tutto, si è sempre preoccupata di fargli male, non ha mai chiesto o preteso nulla, ha sempre dato tanto. E Draco che l’amava come non ha mai amato niente, le ha sempre dato in cambio tutto quello che lei meritava.

Adesso, Hermione non guarda nemmeno Dimitri, gli fa volutamente del male, ha le labbra serrate e chiuse, è violentemente aggressiva, sembra solo rispettare una meccanica del sesso che ha la gestualità di un film di bassa categoria e nulla dell’amore.

Non sapeva di esserne in grado, Hermione, non sapeva di poterlo fare. Eppure, mentre gli sbottona con malagrazia la camicia e scende a baciargli il petto, si rende conto che questo è quello che intendeva Hayden con “prendersi tutto di lei”. Ha preso anche il suo modo goffo e timido di fare l’amore. La pelle di Dimitri, che intanto geme, gli occhi chiusi, la testa poggiata sul cuscino, si bagna delle lacrime di lei. Lui nemmeno si accorge, così come non si accorge della mano di Hermione che, scendendo lungo i suoi fianchi, sfila la bacchetta dalla sua tasca, per poi allontanarla con un piede.

Dimitri, offuscato ed annebbiato dal desiderio, troppo preso dalla donna che lo ha rifiutato per settimane e che ora è inaspettatamente sua in un modo che non avrebbe mai concepito come possibile, la lascia fare, le lascia condurre il gioco. Ed è lì che commette l’errore più grande della sua vita. Ma chi non ha mai conosciuto la differenza tra fare l’amore con una persona che si ama, e farlo con chi invece non ti ama affatto, difficilmente potrebbe rendersi conto di qualcosa nella nebbia del piacere.

“Ci siamo Hermione…!” urla trafelata Helder nella sua testa, Hermione si solleva come se fosse stata attraversata da una scarica elettrica. Dimitri, di primo acchito, non se ne accorge, alza il viso, restando supino. La guarda con gli occhi annebbiati e rimane sconvolto, quando la vede alzarsi dal letto, correre verso la finestra e sedersi sul davanzale con le gambe penzoloni nel vuoto. Dimitri sgrana gli occhi, ancora troppo confuso, poi pensa che voglia suicidarsi, pensa che improvvisamente le sia tornata voglia di farla finita. Ma sa che non lo farebbe, tiene ancora il babbano prigioniero, è anche incinta di Malfoy… poi Hermione, lievemente rischiarata dalla luce della luna, ancora seduta sul davanzale, si volta di tre quarti e sorride.

Gli dice solo: “Hai avuto anche troppo da me, Karkaroff… e me lo riprenderò con gli interessi quando ci rivedremo… quello che hai avuto… sarà la sola cosa che hai avuto di me… tutto quello che mi resta… sarà di nuovo di Draco, molto presto…”.

Dimitri non capisce, si alza in piedi, ma lei si è già gettata nel vuoto. Corre alla finestra, disperato, sporgendosi dal davanzale.

Auror. Decine di Auror. Tutti attorno al castello. Le bacchette puntate contro la sua finestra. Non lo preoccupano, anche se distingue nel nitore lieve della luna, che hanno il babbano, lo conducono via dalle sue segrete.

La sola cosa che vede è il corpo di Hermione, lo stesso corpo caldo e profumato di vaniglia che aveva fino a poco prima tra le braccia, che libra leggero, ormai a soli pochi metri dal suolo.

Libera.

Accecato dalla rabbia, come se non vedesse più nulla, cerca la bacchetta mentre ulula come un lupo alla luna di rabbioso dolore. Non la trova, prende a calci la poltrona, intravede la bacchetta sotto il letto. La afferra, corre al davanzale, alla cieca la punta contro la folla radunata lì sotto. La punta contro l’ombra scura che è la donna, di cui ancora il suo sangue ribolle nelle vene. Un raggio di luce rossa riesce dall’alto a cadere come un fulmine, schivando tutti i Protego degli Auror.

Il colpo raggiunge Hermione a soli tre metri dal suolo, quando già, sorridendo, stava allungando una mano verso Harry.

L’amico la vede sbarrare gli occhi, colpita alle spalle, e rovinare giù, senza che nessuno riesca ad impedirlo, come un involto di stracci vecchi.

Hermione cade al suolo, batte violentemente la testa, sente immediatamente il sangue scivolarle lungo il collo.

Vede il cielo e la luna prima di perdere i sensi.

Si porta gli occhi di Draco nel buio.

 

I miei amici continuano a parlare, mentre gli ultimi pezzi dei miei ricordi lasciano la mia mente. Ricordo tutto di quel folle volo disperato, il momento in cui avevo sentito la maledizione colpirmi alla schiena, lo sguardo affranto di Harry, quello impotente di Ron, quello sconvolto di Hayden. E ricordo perfettamente l’impatto con il suolo, la sensazione che la testa mi si spaccasse in due, la luce della luna che si faceva sempre più fioca, le voci attorno a me e le urla degli Incantesimi che si facevano sempre più flebili, giungendomi quasi da una cortina spessa di fumo.

Quando ripresi i sensi, ricordo solo il calore del sole che mi ispirò curiosamente a piangere. Non era il sole dell’estate, era un sole già più sbiadito, già meno intenso.

E soprattutto non era il mio di sole, quello dell’Inghilterra. Era un sole che comunque conoscevo, ma che avevo dimenticato da anni, forse persino decenni.

Era il sole dell’Italia, era il sole della casa dei miei nonni in Sicilia. E ciò, se già non fosse abbastanza, era comunque qualcosa di poco rispetto al resto.

Era il sole del mese di ottobre.

Erano passati tre mesi dalla notte di inizio luglio, in cui ero riuscita a scappare dal castello di Dimitri.

Ero rimasta in coma tre mesi. 103 giorni e 15 ore, per la precisione.

Tre mesi in cui la vita era andata avanti lo stesso, in cui si erano dovute prendere delle decisioni, in cui i miei amici avevano dovuto decidere per me.

Ed ovviamente lo avevano fatto, senza esitazione.

Quella notte, Dimitri era riuscito a scappare dagli Auror, dopo aver resistito per quasi un’ora agli attacchi assieme ad Astoria, Pucey e Montague. Era praticamente scomparso, nessuno era riuscito più a trovarlo, era vissuto per anni in una zona borderline tra il legale e l’illegale, una zona grigia dove chiunque li avrebbe dato protezione. Una zona che era composta da tutti coloro che rifiutavano apertamente l’autorità costituita, come ex Mangiamorte, delinquenti comuni, reietti. Dimitri sparì come una nebbia di vento.

Ovviamente, però, non era assolutamente sparita la minaccia che poteva rappresentare nei miei confronti: i miei amici fecero la sola cosa sensata che gli venne in mente. Nascondermi. In Italia.

Nessuno sapeva della casa dei miei nonni, l’Italia era sicura perché le Passaporte internazionali erano poche e ben controllate ed anche usando i mezzi di trasporto babbani, ammesso che qualcuno sapesse che potevo nascondermi lì, la cosa sarebbe stata complicata. La casa dei miei nonni era sulla piccola Isola di Favignana. E lì si poteva arrivare solo con l’aliscafo. Ovviamente sempre controllato. Ed ammesso che qualcuno fosse arrivato, era stata mandata a vivere con me la migliore delle Empatiche: Helder.

Mi diceva spesso che aveva scolpito come nella pietra, ciò che Dimitri aveva provato quella notte. Lo avrebbe sentito appena si fosse avvicinato anche solo alla Sicilia.

A vivere con me, fu mandato anche Hayden. Non ci fu nulla da fare, Hayden non camminò più. Rimase sulla sedia a rotelle. Mandare anche a lui in Italia, era una premura forse eccessiva, ma Harry aveva avuto notevoli grane con il Primo Ministro inglese per tutta la faccenda. E quindi anche Hayden fu racchiuso nel programma di protezione, anche se non aveva tutte le limitazioni negli spostamenti che avevo io. Poteva anche viaggiare, uscire da Favignana per qualche giorno, e sostanzialmente riprese la sua solita vita. Lui lavorava in Italia, prima di conoscere me.

Quindi alla fine ritornò ai suoi studi. Dopo un anno circa, gli fu concesso di trasferirsi da Favignana a Palermo, dove vive tutt’ora.

Hayden, straordinario come sempre era stato, si adattò persino alla sua condizione di disabile, riuscendo a recuperare velocemente il sorriso. Era felice di essere vivo, era felice di essere tornato in Italia, era felice anche di aver conosciuto il mondo della Magia. È arrivato persino a scherzare sul mio senso di colpa. È una persona meravigliosa, non c’è altro da dire.

Così meravigliosa che, l’anno scorso, Helder mi ha confessato di essersi innamorata di lui. Ricambiata. Si sposeranno l’anno prossimo.

Ovviamente tutto quello che di bello poteva ancora accadere nella mia vita, era lontano mille anni luce da me quando mi svegliai in Sicilia tre mesi dopo la mia fuga. Nonostante tutto quello che era successo e nonostante un tentativo di aborto spontaneo che avevo avuto nel coma, mio figlio era sopravvissuto ed aveva preso pieno possesso del mio corpo. Avevo già una piccola pancia.

Ma non me ne accorsi per nulla, nemmeno mi resi conto che ero ancora incinta. A ripensarci, nei primi mesi, sono stata la più sciagurata delle madri.

Ero stata prigioniera in un castello per giorni, mi ero gettata da un’altezza di una trentina di metri, avevo riportato una trauma celebrale serio, ero stata in coma tre mesi, e nemmeno mi ero preoccupata di mio figlio quando mi ero risvegliata. Ma insomma, adesso compenso con un’iperprotettività da dieci e lode nei confronti di Alex… quindi insomma credo di essere perdonata.

Svegliandomi, trovando Harry, Ron ed Helder che iniziarono a raccontarmi della notte della fuga e della faccenda con Lavanda… io riuscii solo a pensare ad una cosa.

 

“Harry, basta!” la voce, che non è  nemmeno più abituata ad usare, vibra d’improvviso così tonante che lei stessa se ne stupisce. Rimbalza sulle pareti, colpisce l’amico al centro esatto del petto, marginalmente striscia anche su Helder e Ron. La guardano tutti e tre sconvolti, mentre Hermione riprende fiato, una mano sul petto, mentre il torace si alza ed abbassa velocemente. Inconsciamente, come si è accorta di fare spesso da quando ha ripreso i sensi, si porta una mano al basso ventre, sulla pancia che è lievemente cresciuta. Quando se ne accorge, stacca la mano dal tessuto del lenzuolo come se scottasse.

Per qualche minuto, nella stanza bianca dell’ospedale italiano dove si trova, non si sente altro che il ronzare delle macchine che sono collegate ad Hermione, il bip intermittente che rappresenta il suo cuore, che adesso segna un numero altissimo di pulsazioni. Quando il cuore di Hermione si calma, si aggiunge il gocciolio della flebo, che, attaccata al braccio della ragazza, continua a sversarle nel sangue nutrimento e linfa. Il vento, dalla finestra aperta, soffia dolce l’odore dei gelsomini e della menta selvatica che crescono nei giardini dell’ospedale, e che è stato la prima cosa che Hermione ha sentito al risveglio.

Quando, però, qualche minuto prima, mentre Harry raccontava della notte della fuga dal castello di Dimitri e del suo incidente, era spirato nella stanza anche un lieve odore di rose, Hermione ha sentito improvvisamente il sangue andarle alla testa.

E non ha capito più niente.

I ragionamenti lenti, che fa da quando si è svegliata in quel letto tre mesi dopo la fuga da Dimitri, sono diventati improvvisamente febbrili, rapidi, veloci, come saette in un fortunale estivo. Il respiro le ha gonfiato il petto dolorosamente, spingendola ad ansimare alla ricerca d’ossigeno. Ha iniziato a sudare freddo, ha sentito il cuore in bocca, ha avvertito dei capogiri colpirla con precisione clinica, anche se è seduta sul letto. E quando quel malessere, si è tradotto in un nome formato dalla sua mente, ha urlato con tutta la forza che ha in gola.

Il nome, come sempre, è Draco.

È sveglia da una ventina di giorni, giorni in cui per la maggior parte del tempo, ha fatto fatica a mettere assieme i più basilari dei concetti. Tutto le sfugge via, come acqua tra le dita, la sua testa è ingombra di una poltiglia sabbiosa che le impedisce di connettere. Le hanno detto i medici che è normale, è reduce da un forte trauma cranico. Ci manca solo che non sia in quelle condizioni… tende a riaddormentarsi spesso, a confondere realtà e sogno, a perdere immediatamente attenzione.

Nei momenti in cui il suo cervello riesce a conquistare un po’ di lucidità, ha capito che si trova in Italia e che miracolosamente il bambino che portava in grembo, vive ancora. Ma glielo hanno detto i medici, ovviamente in un italiano siculo che le ha ricordato i tempi delle sue vacanze infantili a casa di sua nonna Cathy. Quella mattina è la prima in cui vede i suoi amici, dopo che, nei giorni precedenti, solo sua mamma e suo papà le sono stati vicini.

Le hanno detto che sono volati lì dalla Toscana, tre mesi prima, non appena sono stati avvisati da Harry del suo incidente. E non se ne sono più andati.

E subdola, l’informazione che sono passati tre mesi dalla fuga, le è scivolata nella memoria, impantanandosi nella palude che è ormai la sua testa. Tutto, dalle cose più piccole a quelle più grandi, assume la consistenza di bolle di sapone, quando entra in contatto con lei. Vengono soffiate le informazioni nel suo cervello, e rimangono a galleggiare come se fossero inconsistenti. È come se si fosse rotto del tutto il meccanismo che le consente di dare peso alle cose.

Poi, lentamente, i sensi hanno iniziato nuovamente a funzionare, soprattutto quello della vista che era sempre annebbiata. Ha ripreso a parlare, fiocamente, come se la voce non le appartenesse. Ha iniziato a mangiare, poco, dato che ogni cosa le dà la nausea. I momenti di coscienza si sono fatti sempre più frequenti, fino al riaffiorare dei primi ricordi della prigionia e della notte della fuga. Mentre il suo cervello recupera le forze, tutto ciò che goffamente ha saputo e tutto ciò che, invece, ancora non sa conosce una forza di gravità più importante, che fa rimanere attaccati i ragionamenti. E, mentre va a ritroso con i pensieri, improvvisamente diviene necessario anche avere spiegazioni e chiarimenti.

E, così, finalmente è stato dato ai suoi amici il permesso di vederla e di raccontarle quello che è accaduto da quella notte: la fuga, l’attacco al castello di Dimitri, la sua rovinosa caduta, il trauma cranico, l’arrivo in Italia assieme ad Hayden. Il coma, che era parso subito grave. La verifica che non aveva riportato danni seri, ma l’impossibilità di fare previsioni sul momento in cui si sarebbe svegliata. Il tempo dell’estate che lasciava il posto alla fragranza dorata dell’autunno mediterraneo.

E il giorno, in cui ha riaperto gli occhi.

Hermione, però, si è accorta subito di due cose fondamentali. Nessuno parla del suo futuro, sembra tutto galleggiare nella dimensione presente che ha il colore asettico di quell’ospedale. È come se lì fosse nata e lì dovesse restare. Dopo averla aggiornata brevemente su quei tre mesi, Harry e Ron iniziano a raccontare di vecchie storie, di aneddoti scolastici, di episodi della guerra, come se siano in grado di parlare del passato solo se remoto.

Ma lei, Hermione, ha tutto un passato prossimo che non si può cancellare: e lì si accorge quasi in modo fulmineo, del secondo particolare.

Nessuno, nemmeno i suoi, ha parlato della sua gravidanza. Lo hanno fatto solo i medici: solo loro, quando la visitano, le danno notizie del bambino. Le infermiere lo chiamano “il piccolo guerriero”, perché, nonostante lei fosse in coma e nonostante avesse avuto quella tremenda caduta, si è aggrappato alla vita con le unghie e con i denti. Ed Hermione, in un modo confuso ed inspiegabile, sa anche che la “miracolosa e rapida guarigione” che sta avendo, dopo un coma così lungo, è collegata a doppio filo a quell’ugualmente prodigiosa voglia di vivere che ha avuto il bambino. Nei mesi, negli anni dopo, Hermione si sarebbe spiegata quel miracolo con la connessione straordinaria che lei e suo figlio avevano avuto fin dal primo momento. Si erano aiutati quando lei doveva fuggire, e si erano aiutati durante quel sonno: Hermione aveva dato ogni sua energia, anche da incosciente, a suo figlio perché vivesse. Il bambino l’aveva ricompensata, proteggendola dal rischio di perdere del tutto la sua mente e il suo cervello. Ma allora, Hermione ancora non lo sa, è madre da soli quattro mesi di cui ben tre sono trascorsi da addormentata.

Ha una maggiore certezza di sé e del proprio bambino quando, quella stessa mattina, la ginecologa le dice che quasi sicuramente il bambino sarà un maschio.

Ed Hermione ha stretto il lenzuolo tra le dita e non ha detto nulla, perché improvvisamente quel agglomerato di cellule ha iniziato il percorso per diventare una persona. Non una persona qualsiasi… un bambino, un maschietto. Non è solo renderlo ancora più reale… è anche rendersi conto che ha sempre saputo di aspettare un maschio. È scoprire dimensioni del suo sentire, nuove, strane, irrazionali.

E vuole parlarne, vuole dirlo a qualcuno, vuole chiedere come si faccia a sapere che il proprio bambino sia un maschietto… si fa quelle domande, mentre Harry e Ron continuano a parlare, ridendo e scherzando, di fronte a lei che semplicemente annuisce. Helder ride a sua volta, i suoi occhi sono azzurri come quelli di Ron, non guarda volutamente verso di lei e verso quello che sente.

Le domande diventano milioni, miliardi… ed arriva al punto che, con la stessa ancestrale certezza per cui sapeva che il bambino era maschio, sa anche che il bambino avrà gli occhi del padre. Dalla finestra, soffia l’odore delle rose.

Il padre… Draco.

E lì le scoppia tutto addosso… lì, improvvisamente, il pantano della sua mente si gela, acquistando la durezza del diamante. I suoi pensieri acquisiscono una chiarezza così accecante da farle chiedere dove fossero stati fino a quel momento. La sua mente recupera come d’incanto ogni memoria tattile, visiva, cognitiva ed affettiva. E il petto le si squarcia: sono passati tre mesi, lei ha solo dormito, il bambino è maschio e Draco non è lì.

Quella consapevolezza subitanea l’ha condotta ad urlare, strappandosi le corde vocali, pochi secondi prima, mentre Harry continuava a parlare e a ridere. Adesso, tutti la guardano preoccupati, Ron le si avvicina chiedendole come stia, accarezzandole lievemente il viso con due dita. Scuote il capo, dice che sta bene, poi improvvisamente decisa, proferisce: “Lo sapete che sono incinta? O nessuno ve l’ha detto?”. Ron si stacca da lei rapidamente, si ritrae e si chiude nelle spalle. Harry distoglie lo sguardo da lei e guarda con attenzione il pulviscolo dorato, che entra dalla finestra aperta. Solo Helder rimane immobile, gli occhi che diventano dello stesso colore dei suoi, e sospira.

Ovviamente, sanno tutto… ed ovviamente Helder, a cui lo ha detto la notte della fuga, ha capito che è giunto il momento della verità. Come ha promesso, mesi prima, non ha raccontato nulla ad Harry e Ron di lei e Draco.

Ron stringe i pugni e dice, la voce che gli trema: “Certo che lo sappiamo, ‘Mione… quel bastardo…”. Hermione spalanca gli occhi, rabbrividendo, lo guarda come si guarda un estraneo.

“B-bastardo?” blatera con voce fioca, improvvisamente colma di risentimento verso Helder che evidentemente ha raccontato tutto di Draco. Altro che mantenere la promessa. “Ch-che diamine vuoi dire?!”.

Harry si siede accanto a lei sul letto, scompigliandosi i capelli neri. Ha gli occhi cerchiati, colmi di dolore, le labbra nemmeno sembrarono muoversi mentre parla: “Mi dispiace, Herm… avrei voluto… avremmo voluto salvarti, prima che lui… ma lo troveremo, stai tranquilla… non ci scapperà per sempre… adesso che ti sei svegliata, io stesso andrò a guidare gli Auror che…”.

“Volevamo farti abortire…” lo interrompe Ron, pragmatico, Hermione sente la testa gelare, la mano che corre al ventre “… ma era giusto che decidessi tu… che sapessi tu… così dicevano i tuoi… è una tua decisione… e quell’abominio si è attaccato a te, come ha fatto quel bastardo del padre… e quindi…”.

“Basta!” Hermione si ritrova di nuovo ad urlare, le mani premute sulle orecchie, non è possibile. Sta sognando. Non c’è altra spiegazione.

La parola “abominio” le sconquassa il cervello, la sente scuotere i suoi nervi, la ferisce in decine di punti del suo corpo.

Sente gli occhi di Harry e Ron addosso, mentre continuano a guardarla addolorati, chiedendole che cosa abbia. Poi, tonante, la voce di Helder dice poche parole, che riportano il mondo sul suo asse. O perlomeno, quello di Hermione torna sul suo asse… quello di Harry inizia a muoversi confusamente, perdendo ogni legge di attrazione e di controllo. Quello di Ron si stacca del tutto, vagando in uno spazio vuoto.

“Ti avevo fatto una promessa, Hermione… e l’ho mantenuta…” dice Helder, stoica, gli occhi scintillanti del castano di quelli di Hermione “Pensano che il bambino sia di Karkaroff…”.

“Che cosa vuoi dire?!” chiede Ron, muovendosi verso Helder, rifiutando lo sguardo di Hermione. La sua voce trema vistosamente, le mani strette a pugno.

“Significa quello che ha detto…” replica Hermione, sospirando, iniziando a capire “Il bambino che aspetto… non è di Dimitri… con lui non è successo nulla in quel senso… non mi ha mai toccata…”. Prende ancora fiato, cercando di darsi coraggio, gli occhi di Harry e Ron che la guardano come se non la riconoscessero. Perché quello di Ron è lo sguardo che lei già riconosceva come troppo simile a quello che aveva avuto in passato, quello di quando stavano assieme. Stava sperando, aveva sperato di tornare con lei… ed ora capisce che non sarà  così. E lui non riconosce alcun Universo in cui Hermione semplicemente è innamorata di un altro, al punto da avere un figlio con lui.

Quello di Harry, invece, è lo sguardo doloroso di chi sa qualcosa di più, di chi improvvisamente trova un nome nella testa e lo associa a lei, non più con il pensiero che ci fosse lui dietro la sparizione della sua amica; ma con la medesima identica angoscia che comunque, in un modo diverso, se l’è comunque portata via.

“Ero prigioniera di Dimitri da dieci giorni, quando mi avete liberato…” spiega Hermione sommariamente, guardando il lenzuolo “Prima di allora… non ho sostenuto l’esame… e non sono mai stata ad Hogsmeade… ma l’ologramma che girava lì… e le carte che dimostravano che avessi sostenuto l’esame… non era opera di Dimitri… sono stata io… con Zabini e la Parkinson… e con…”. 

Harry diventa livido in viso, si lascia cadere su una sedia. Ron, non riuscendo ancora a capire, chiede: “Ti tenevano loro prigioniera? Zabini e la Parkinson? Che c’entrano loro? E quando ti hanno ceduto a Dimitri?!”.

Hermione nega con il capo, è tutto così maledettamente difficile, maledizione. Perché Harry non finisce al suo posto? Perché non lo fa Helder? Perché la lasciano da sola, a dare quel colpo a Ron? Non vuole farlo, nonostante quello che le ha fatto in passato… non vuole farlo. Una lacrima le cade lungo il viso, l’asciuga con il palmo. Adesso, ormai, non può più nascondersi dietro un dito.

“Ero a casa di Pansy… da circa un mese… quando mi ha rapita Dimitri…” sussurra con un filo di voce “E né lei, né Blaise c’entrano nulla con questa storia… ero lì di mia spontanea volontà… ed ero lì con il padre del bambino che porto in grembo…n-non mi ha costretta nessuno… io… sono innamorata di lui…”, respira, prende ancora tempo, non crede di farcela. Poi solleva lo sguardo, Ron ha comunque l’espressione spezzata, Harry comunque si porta le mani ai capelli, Helder si chiude comunque nelle spalle. Non ha più senso indugiare.

Non vuole più indugiare.

Gli occhi accesi, l’espressione seria, quasi di sfida, bisbiglia ferma: “Il padre di mio figlio… è Draco Malfoy… è di lui che sono innamorata…”.  Ron non reagisce, sbatte le palpebre un paio di volte, guarda a disagio prima Harry e poi Helder, poi torna a guardare lei, addolorato, sconvolto, ma al contempo con uno strano singulto di speranza negli occhi chiari. Hermione, la cui rivelazione le è costata cara, al punto che ogni lettera del nome di Draco le si è conficcata pesantemente nel petto, lo guarda senza capire, per un attimo convinta di non aver nemmeno parlato oppure di aver pensato una cosa, ed averne detta un’altra. La lanosità stopposa dei suoi pensieri la tradisce e sta quasi nuovamente per aprire bocca  per spiegare, quando Ron si avvicina, si siede sulla sponda del letto e la rassicura con vane parole vuote, trattandola come una pazza. E lì, Hermione capisce di nuovo: lui sa che Draco è morto, da anni, in un incidente con un drago, come tutti sanno nel Mondo della Magia per proteggere la sua nuova identità babbana. Pensa che sia impazzita. Hermione, prostrata, lascia cadere le braccia lungo i fianchi, non ce la fa a ricordare quei mesi. Non potrebbe nemmeno volendo, non può raccontare tutto dall’inizio, senza che ogni secondo di quel racconto la svuoti del tutto, senza che quel senso di urgenza che oramai conosce non la sopraffaccia del tutto. Tace, chiude gli occhi, piange a calde lacrime. Ron le accarezza il viso.

Harry, però, finalmente interviene, fa pochi passi, si ferma davanti a Ron. E parla, per una mezz’ora buona: racconta tutto quello che sa di Draco, del lavoro al Ministero, della scoperta dell’atroce morte di Narcissa e Lucius, della rinuncia alla protezione degli Auror, della morte di Helena ed Amos Diggory, dell’affidamento di Serenity Hope Diggory, dell’assunzione dell’identità di Danny Ryan. E, a quel punto, Harry si ferma a disagio, perché il viso di Ron, paonazzo, mostra che infine ha capito, infine ha collegato un pezzo importante. La sera del Tourquoise Party… Hermione abbigliata come una principessa… lui che andava a quella festa con Lavanda, Harry e Ginny, per vedere come se la cavava…

E l’avevano vista rimanere sconvolta nel vederli… quel passo indietro, come se avesse avuto una vertigine… e quel ragazzo dietro di lei, a cui si era appoggiata quasi naturalmente… lo sguardo che si erano scambiati… pensava fosse il suo capo, Danny Ryan. Ed invece era Draco Malfoy. Il padre del suo bambino.

È la fine del mondo… e non nel senso che Hermione in modo melodrammatico userebbe parlando amabilmente con un’amica dell’ultimo libro che ha comprato, o di un vestito che ha adocchiato in una vetrina.

È davvero la fine di un mondo, alla stregua di stelle che cadono sulla terra, di mari che si aprono e di terre che vengono inghiottite. Ricorderà poco di quei momenti, pochissimi particolari.

Ron che urla, Harry che va avanti ed indietro, Helder che cambia colore degli occhi ogni secondo. Lei che cerca di sovrastare le loro voci, che urla a sua volta, che piange. E che ripete il nome di Draco continuamente, come un talismano da puntare contro chi li vuole lontani. Quel momento avrà le fogge incartapecorite di un vecchio calendario appeso alla parete, bruciato dalla luce dell’estate. Per ben tre volte, il calendario aveva visto un’infermiera solerte arrivare e sbarrare i giorni del mese appena trascorso. E, adesso, restano intonsi solo i giorni che da ottobre conducono alla fine dell’anno, dei mesi precedenti Hermione non ha traccia nella memoria.

Mentre urla, grida, lascia sfuggire tutto quello che non ha mai detto prima ai suoi due amici di lei e Draco, Hermione guarda quel calendario e conta i giorni che l’hanno separata da lui. 103 giorni e 15 ore. Può  essere accaduto di tutto in quei giorni, di tutto. Dimitri può averlo trovato, può averlo ucciso, può aver ucciso Serenity e Seth. E lei se ne sta lì, a parlare con Harry e Ron di cose che, forse, non avrebbero mai davvero capito.

Ed allora avrebbe provato ad alzarsi da letto, avrebbe strepitato, dicendo che doveva andarsene, deve andare da Draco, lo deve raggiungere. Si sarebbe strappata la flebo dal braccio, sarebbe arrivata troppo lentamente alla porta ed avrebbe battuto i piedi quando l’avrebbero trattenuta, stringendola per le braccia. L’energia vitale di Draco esiste, le avrebbe risposto Helder, ma è troppo lontano per sentire dove sia.. Hermione le chiederà di tornare in Inghilterra, ma Harry le ordinerà di restare lì, perché è la sola in grado di sentire Dimitri e di proteggerla da lui.

Chiederà, quindi, ad Harry di cercarlo e lui, dopo settimane di silenzio astioso, lo farà, la accontenterà. Ma Draco Malfoy sembrerà davvero morto, per tutti. Blaise Zabini si sposerà con Daphne Greengrass e si trasferirà in Scozia. Dirà di non averlo più visto. Pansy Parkinson vivrà ormai in pianta stabile in Francia. Dirà di non averlo più visto. E i suoi amici babbani diranno a loro volta di non averlo più visto.

E allora Hermione si convincerà che spetta solo a lei cercarlo e trovarlo, non le interessa nulla della protezione, del piano di tenerla nascosta a Favignana, a casa dei suoi nonni. Non le interesserà nemmeno dell’obbligo di stare a letto per i successivi mesi, fino al termine della gravidanza, per non perdere il bambino che aspetta. Fuggirà, una notte, e la riprenderanno all’aeroporto. Sarà Ginny a trovarla, diventata intanto madre di James e chiamata in Italia come estremo aiuto.

La rimprovererà duramente, lei piangerà, capirà che deve attendere che il bambino nasca.

I nove mesi passeranno, veloci, rapidi, istillandole nel corpo goccia a goccia un sentimento nuovo e diverso, che tutto crea e tutto annulla: l’amore di madre. Sarà prima un senso di palpitante attesa, poi un’ansia continua ed infine un senso di completezza e di rassegnazione, che le prosciugheranno le intemperanze da innamorata. E ricorderà che il pericolo non è solo Dimitri, ma è anche Astoria. Lei vuole suo figlio, perché non è solo suo. È anche il figlio di Draco.

E lei deve proteggerlo, prima di ogni altra cosa al mondo.

Accetterà di sacrificare sé stessa, per suo figlio. Accetterà di attendere che Dimitri ed Astoria siano catturati, per poter tornare in Inghilterra. Accetterà che Draco la sappia lontana, senza sapere che cosa le è successo. Accetterà di restare in Italia e di vivere lì “come se non dovessi più tornare a casa”, come le dice Harry. E, pochi giorni prima della nascita di suo figlio, accetterà di firmare delle carte volutamente invalide che la designano come Hermione Jane Weasley.

Ron vorrà restare con lei in Italia. Userà la scusa che si sente in colpa perché è finita in questa storia per Lavanda.

Userà la scusa che vuole proteggerla, dato che ha ancora la condanna dell’interdizione alla magia sulle spalle per altri due anni.

Userà la scusa che vuole aiutarla con suo figlio.

Ma Hermione noterà subito che appella il bambino esclusivamente come suo figlio, non come figlio anche di Draco.

Eppure, Hermione accetterà, distrutta, anche quella commedia. Perché tanto Ron non l’avrà mai, perché è stato davvero generoso ad offrirsi di aiutarla, perché in fondo “potrebbe non tornare più a casa” e lei avrà bisogno di dare un padre a suo figlio.

Quando suo figlio nascerà, in una piovosa notte di febbraio, Hermione sentirà un nuovo rivolo di forza nascerle nel sangue. Perché il suo bambino ha gli stessi occhi di Draco.

E inizierà a sperare che quel filo reciso tra lei e Draco, lo possa tessere di nuovo il loro figlio.

Tra giorni di felicità e giorni di cupo sconforto, lei continuerà ad aspettare di tornare a casa. Dopo cinque anni, potrà farlo. Ed avrà in mente solo una cosa: cercare Draco.

Esattamente come quando si è svegliata, cinque anni prima.

Esattamente come sempre.

 

Vuoto: quell’aggettivo, nella mia testa, ha assunto un peso ossimorico per anni. Sebbene indichi la vacuità, in me è diventato greve come una tonnellata di piombo.

L’Empatia è una capacità ancora misteriosa e poco compresa, si basa sulle sensazioni e sui sentimenti, non esistono manuali e spiegazioni. Quindi Helder, spesso, non era in grado di darmi un’esauriente delucidazione su quello che lei sentiva a riguardo di Draco… però si è sempre sforzata di farmi capire, di illustrarmi tutto con la maggiore chiarezza possibile. È stata la sola che abbia condiviso pienamente tutto quello che ho provato e sentito in questi ultimi cinque anni. Con i miei genitori, tacevo, per loro non era il massimo sentirmi parlare del padre di mio figlio, sebbene adorino Alex come nulla al mondo. Però è sempre l’uomo che ha messo incinta la loro bambina e che non vive con lei, che non l’ha mai cercata per anni. E, sebbene ho sempre avuto il sospetto che Draco fosse stato volutamente allontanato da me, la conferma mi è arrivata solo ora, dai ricordi di Pansy. Quindi è chiaro che non potessi difenderlo così totalmente da non sembrare ai loro occhi solo la disperata donna innamorata che sono. Con Ron, tacevo ovviamente per non ferirlo: ben presto, nella nostra vita pseudo-coniugale, avevo capito che era innamorato di me e che la sua era solo una strategia per tornare assieme in qualche modo. Ai tempi, ero stanca, devastata, distrutta, ed avevo accettato il suo aiuto senza riflettere e senza peraltro un pieno quadro della situazione. Ero certa, in breve, che Ron mi aiutasse solo per amicizia e solo perché si sentiva in colpa per Lavanda, o anche perché diffidava profondamente di Draco e voleva, a suo modo, proteggermi. Ma poi, ovviamente, con il tempo la cosa era venuta a galla e, quando avevo iniziato a convivere con la nostra situazione, avevo riconsiderato tutto, compreso il suo coinvolgimento.

Se non fossi stata così debole, al momento della nascita di Alex, probabilmente non avrei mai accettato il suo aiuto.

Gli avrei chiesto immediatamente di tornare in Inghilterra, lasciandomi da sola.

Ma, appena era nato mio figlio, tutto aveva subito un brusco cambio di prospettiva: contava Alex soltanto.

E, per proteggerlo, avrei accettato anche l’aiuto di Voldemort.

Ovviamente, quindi, con Ron non potevo parlare. Ci mancava anche sottoporlo ai miei problemi sentimentali.

Con Hayden, sebbene i suoi sentimenti per me fossero un ricordo e sebbene avessimo condiviso l’esperienza straziante della prigionia, non sono riuscita a parlare o anche solo a guardarlo per mesi. Era costretto su una sedia a rotelle per colpa mia… ed anche in quel caso, figuriamoci se avrei mai potuto lamentarmi del mio amore infelice con lui.

La sola che restava era ovviamente Helder, che è stata mia amica in un senso così profondo che non avrei mai potuto ritenerlo possibile. Lei aveva amato un Mangiamorte, sapeva che si prova, c’era stata quando avevo creato lo Zahir, era la sola a sapere di questo, senza contare che sapeva anche di Helena e di Draco ed Adamar. Ed era un’Empatica, spesso non c’era bisogno che parlassi, mi avvertiva triste o nervosa, o esasperata, e mi veniva volutamente a cercare. Non so che avrei fatto senza di lei.

E, sempre, sempre… dal giorno in cui ero felicissima e speranzosa, a quello in cui sprofondavo nell’angoscia e nel terrore… ogni giorno… io le ho fatto la stessa domanda.

Riesci a sentire Draco?

E lei ha sempre negato, scuotendo i capelli castani e dandomi un buffetto sulla guancia.

Gli Empatici riescono a sentire le emozioni, ma per ovvi motivi esse sono amplificate qualora si trovino materialmente vicini alla fonte del sentimento o dell’emozione. Se riescono a captare delle emozioni a grande distanza, ciò è dovuto alla presenza di un fortissimo sentimento: Draco non provava nulla di così forte da essere sentito da lei, dall’Italia. E ciò lei se lo spiegava, da quella che era stata l’ultima sensazione di lui che aveva avuto in Inghilterra e per la quale non era riuscita nemmeno allora a localizzarlo: era vuoto, appunto. Provava sentimenti ed emozioni evanescenti, che non mettevano radici dentro di lui, come invece per esempio aveva fatto l’amore che avevamo condiviso per quei indimenticabili dieci giorni e che era stato così forte da essere percepito distintamente anche lontanissimo da noi. Quindi, Helder non riusciva a sentirlo. Una volta, una notte che ero particolarmente triste e sconvolta, mi aveva anche concesso di tornare per poche ore in Inghilterra, inventando una scusa con Harry, che aveva prontamente mandato a difendermi un plotone di Auror. Helder era andata in giro per Londra e per molte altre città, cercandolo, sperando che provasse qualcosa che lo facesse sentire da lei. Ma nulla… niente. Continuava ad essere vuoto. Non c’entrava, quindi, solo la distanza. Era davvero impossibile sentirlo.

Le avevo chiesto di spiegarmi, quindi, come facesse a sentire che fosse ancora vivo e che vita poteva fare se non provava nulla di così forte. E lei mi aveva risposto lapidaria che era vivo, perché in un confuso modo sentiva la sua forza vitale, ma non sapeva dove fosse. Mi aveva fatto l’esempio di una stanza piena di gente che parla a gran voce, dove si riconosce una voce che si conosce ma a causa del frastuono e della tenuità della voce conosciuta, non si capisce da dove essa provenga, se si usa solo l’udito. E, in quanto alla vita che faceva, Helder era stata ugualmente telegrafica: “Potrebbe vivere in qualsiasi modo Hermione… quello che so è semplicemente che non prova nulla di forte… sia in positivo che in negativo… ma non c’è nulla di così strano o assurdo… semplicemente potrebbe essere come una dei milioni di persone che vivono su questa terra e che non provano mai nulla di così forte da poter esser percepito a distanza… il vostro amore è stato raro per noi Empatici, te l’ho detto… non credere che sia così comune sentire una persona a distanza… e se quel giorno, ho sentito la tua disperazione nel castello di Dimitri, è stato indirettamente per lo stesso motivo… era sempre collegato al perdere Draco, al perdere quell’amore… ma invece Draco, che non ha fatto altro che perdere persone da quando è nato… lui semplicemente si è svuotato del poco che gli era rimasto… per questo, allora non l’ho sentito, non ho sentito dolore o disperazione… quando deve averti persa, la sua parte più profonda, quella che sentiamo noi Empatici, credo che fosse rassegnata, credo che semplicemente abbia sempre pensato in fondo a sé stesso che era un errore averti per sé. Non significa non soffrire, ovviamente, significa più realisticamente non concedersi di soffrire… e per questo, adesso, probabilmente continua a non permettere a sé stesso di provare nulla di forte… potrebbe persino essersi sposato, ma non amare sua moglie come amava te…”.

Quindi, sostanzialmente, Helder per anni mi ha detto tutto. E non mi ha detto niente. Ciononostante le sue supposizioni si sono rivelate tutte esatte, considerando quanto mi ha mostrato Pansy riguardo all’inganno di Astoria: la mia fittizia me stessa ha detto a Draco tutto quello che lui temeva di sentire da me, quello che mi aveva urlato la sera che era tornato a casa di Pansy.

Dillo che ti odi per esserti innamorata di me… dillo, dannazione… ammettilo una santissima volta… sta tutto qui il punto. Non ti sei mai fidata di me e mai ti fiderai… ma sei innamorata di me… e questo ti uccide…

Ovviamente, non appena ho saputo che Raissa era andata via con Draco, il mio primo pensiero è stato quello di trovare lui, cercando lei. Ma trovarla con l’Empatia è impossibile: Helder me lo aveva già detto. Anni fa, le avevo chiesto di controllare i miei amici, per sapere se stavano tutti bene, se eventualmente Dimitri ed Astoria non si fossero vendicati di loro come era accaduto con Hayden. Era un eccesso di zelo, ero convinta che Harry avesse già predisposto tutto, ma dopo Hayden, non me la sentivo di rischiare. Ed inoltre, dato che avevo preservato il segreto sullo Zahir per proteggere Helder stessa, non avevo parlato del coinvolgimento di Raissa. Quindi, avevo chiesto ad Helder di controllare soprattutto che lei stesse bene, che almeno fosse viva. Helder mi aveva assicurato che era viva, ma anche nel suo caso, come per Draco, non provava nulla di sufficientemente forte da essere sentito. Quindi, non poteva essere rintracciata. Ovviamente allora mi era bastato sapere che fosse viva. Helder, però, mi aveva detto chiaramente che difficilmente avrebbe sentito Raissa, anche se avesse provato qualche cosa di molto forte, a meno che non le fosse stata vicinissima. Curiosa come sempre, le avevo chiesto il perché e lei, nervosamente, mi aveva rivelato di averlo scoperto con Dimitri. Le persone che hanno vinto una prova con Adamar, sono cieche all’Empatia. Lei credeva che sia perché perdono parte della loro umanità, e quindi della capacità di provare sentimenti. Se ne era accorta con Dimitri, appunto: Helder era dovuta arrivare praticamente fuori dal suo castello per sentire qualcosa di lui, che si era rivelato per lei così negativo e disgustoso da farle chiedere come mai non lo avesse sentito prima, a maggiore distanza.

“E come farai a sentirlo se arriva qui, scusa?” le avevo allora chiesto una sera, mettendo a letto Alex, la luna che compariva nel cielo terso della Sicilia “Harry ti ha fatto stare qui perché crede che tu lo sentirai anche a distanza…”.

“Una volta che senti una sensazione così negativa e così particolare… ti si attacca addosso… ne sentissi anche un eco indistinto… me ne accorgerei subito…” mi aveva risposto laconica.

Quindi, per trovare Raissa… mi restano solo i metodi tradizionali. È la sola cosa a cui posso aggrapparmi per trovare Draco.

Una parte di me, nemmeno tanto piccola, ovviamente sa che trovare Raissa e scoprire che è ancora con Draco, anche adesso che Dimitri è morto, significa probabilmente anche scoprire che stanno assieme. Ma in ogni caso, sebbene mi si geli il cuore al pensiero, nulla cambia le mie volizioni. Io, Draco lo devo trovare ad ogni costo.

Perché deve sapere che Raissa probabilmente collaborava con Dimitri, deve sapere che allora anche lei ci ha diviso. E se lei è estranea a tutto, devo sincerarmene da sola. Devo essere certa che lui e Serenity siano al sicuro con lei. Ovviamente devo trovarlo per Alex. Mio figlio si merita di conoscere suo padre. E me lo merito io.

Mi merito di raccontargli la verità, mi merito di dirgli che non ero io quella donna che gli ha spezzato il cuore quel giorno, mi merito di dirgli che io non mi sarei arresa, mai, con lui.

Mi merito di rivederlo, anche solo una volta. E, stupidamente, anche se sono passati cinque anni, mi merito di dirgli che lo amo ancora. E che non ho mai smesso di farlo.

E se non c’è più nulla che io possa fare per riaverlo… allora mi merito che me lo dica lui.

Dopo tutto quel carnevale di ricordi, la mia attenzione ritorna ai miei amici che non hanno mai smesso un secondo di parlare, elaborando teorie su Raissa e su come si potrebbe rintracciarla. Il mio contributo è stato minimo fino ad ora, me ne rendo conto, ma sinceramente non ho moltissime idee. E la cosa mi demoralizza in modo sconcertante. Raissa non aveva parenti, il suo solo contatto era Dimitri… e lui non c’è più. Ed amici… non so manco chi siano e se li avesse.

Improvvisamente Seth sobbalza e batte poco elegantemente le mani in segno di vittoria, urlando: “Ci sono!”. Lo guardo senza capire, se mi dice che sta pensando al giusto colore delle mèches che vuole farsi, giuro che lo appendo per le caviglie… Pansy e Dean, poco abituati alle intemperanze del mio amico, sobbalzano. La prima, soprattutto, inizia a borbottare, anche se da quello che Seth mi ha raccontato, si conoscono da un annetto. Quando Pansy aveva deciso di sposare Dean, era venuta al Petite Peste per cercare Draco, usando ovviamente la copertura babbana di Danny Ryan, credendo che potesse essere tornato lì. Ovviamente Seth, come tutti, non lo vedeva da cinque anni.

“Si può sapere che diamine hai da gridare, Seth?! Non so se lo sai, ma sono abbastanza sul chi vive da cinque anni!” lo rimprovero, dandogli una gomitata sul fianco.

Lui, per nulla intimorito, mi stringe le mani gioviale e mi fa con occhi a stella: “Ma Herm, non capisci?! Il libro! Il libro è la chiave di tutto!”.

“Il libro?!” chiediamo all’unisono sia io che Pansy e Dean. Capisco che Seth sia oggettivamente poco abituato al mondo della Magia, e quindi può essere sconvolto e cianciare di cose inesistenti… ma insomma qui si esagera! È troppo suggestionabile, sapevo che dovevo lasciarlo a casa e…

“Il libro, il libro, dannazione! Mi avete fatto vedere i ricordi di Pansy… possibile che ve lo siete scordato? La mattina in cui Danny poi è andato via con Raissa… lei è scesa dalle scale, ed aveva un libro con sé… e questa cosa a te è sembrata strana, no, Pansy? Perché era un libro di poco valore, e perché lei possedeva già tutta la conoscenza magica del mondo… ti sembrava strana anche per altri particolari, soprattutto per la fretta che aveva di giustificare che aveva fatto cadere la barriera magica a difesa della villa… ma forse se troviamo il libro, qualche indizio possiamo averlo… sempre meglio che stare qui a rimuginare sul nulla…!”. Seth termina la sua filippica, con un sorriso soddisfatto.

Un mago e due streghe hanno continuato a blaterare per due ore, e lui, da semplice babbano, ha trovato la cosa più simile ad un inizio di ricerca che potevamo avere.

Io, Voldemort e le sue menate sulla superiorità dei maghi, non le ho mai capite.

 

 

Dopo un’intera notte a cercare, il libro non esce fuori.

Pansy ha praticamente rivoluzionato tutta la casa da quando è nata Charisma, e molti dei libri che erano in biblioteca li ha spostati in altri luoghi della casa, allo scopo di liberare spazio per la stanza della bambina. E dato che lei, ovviamente, non ricorda assolutamente nulla di quel libro, né di dove si trovi, né tantomeno se non l’abbia gettato via come si riprometteva sempre di fare, abbiamo dovuto perlustrare tutta la casa. Seth, dopo il suo lampo di genio, si è addormentato sul divano della biblioteca con la bocca aperta, mentre Pansy, solo qualche ora fa, è andata a consolare Charisma che si era svegliata per un incubo. E non è più tornata.

“Io la bambina non l’avevo sentita piangere…” borbotta Dean, spulciando un’altra libreria nel corridoio “Avrà trovato la scusa per dormire…”, lo sento bofonchiare qualcosa poi che suona come: “Maledetti Serpeverde…”.

Sorrido con un angolo della bocca, il calore alla bocca dello stomaco che le parole di Seth e la sua intuizione hanno acceso che si va raffreddando progressivamente. Ormai mi sono rimasti solo pochissimi libri da controllare. E non è nemmeno certo che, se anche trovassi il libro, potrei cavarne qualcosa. Anzi, probabilmente Raissa lo leggeva per noia, o per chissà che altro. Non significa proprio niente. Di primo acchito, la mancanza di risorse mi ha fatto considerare quella traccia come vitale, ma adesso che ho modo di pensare, mi rendo conto di quanto fosse in realtà poco importante. Di quanto in realtà, è solo un’altra stupida illusione a cui mi sto aggrappando, per impedirmi di pensare che, davvero, non ci sono più speranze.

Alla fine, senza forza, mi siedo per terra, la schiena poggiata sulla parete dietro di me, chiudendo gli occhi. Il sole entra pigramente dalla finestra del corridoio, colorando il bianco delle pareti e facendomi strabuzzare gli occhi stanchi. Dovrò darmi un contegno, Alex si sveglierà tra poco, e non deve, non deve vedermi piangere. Magari se mando Dean a…

“Trovato!” urla Dean alla fine, agitando il piccolo volume polveroso. Mi alzo in piedi, scattando sull’attenti, come mi avesse punto una vespa, mentre un’insperata onda di calore liquido mi avvolge da capo a piedi. Mi avvicino a Dean, gli occhi che brillano, e lui mi sorride, dicendo solo: “Lo vedi? C’è ancora speranza…”.

Annuisco senza fiato, facendo un passo verso di lui, e Dean mi mette un braccio sulle spalle, baciandomi sulla tempia.

Senza nemmeno respirare, ci sediamo per terra tra i volumi sparsi ed iniziamo a sfogliare il piccolo libro, che rischia di cadere a pezzi ogni volta che voltiamo una pagina. Starnutisco per la polvere che è sfuggita via, e ne leggo il frontespizio. Le mie spalle si afflosciano, sembra un libro come tanti altri, solo vecchio, ma nemmeno così antico da far pensare a chissà quale incantesimo nascosto o segreto inconfessabile. Il titolo è quanto di più neutro e poco rivelatore possa esistere: “Profetesse Europee. Storia della Divinazione femminile attraverso i secoli”.

Raissa l’avrà letto solo per caso, o magari effettivamente non ricordava qualcosa: sfogliandolo, sembra solo un catalogo di profetesse famose, dai tempi antichi fino a quelli recenti, divise per nazione. Trovo Cassandra di Troia e la Cooman, tra quelle che personalmente ricordo. Ma niente di più.

Improvvisamente qualcosa mi fa nuovamente sobbalzare, Dean mi guarda curioso mentre mi rendo conto che la numerazione di una pagina è errata. Semplicemente, ne manca una.

Manca una pagina… e nella sezione “Europa orientale”.

Senza lasciarmi prendere dall’entusiasmo, senza dare adito a troppe speranze, prendo nota del numero di pagina mancante e chiamo immediatamente il Ghirigoro, chiedendo notizie. Il libraio mi riconosce subito, praticamente spendevo stipendi interi da lui e non se la prende nemmeno per averlo svegliato così presto. Mi dice che controllerà e mi manderà la pagina mancante.

Quando la risposta arriva un’ora dopo, con un gufo, la apro incerta sotto lo sguardo di Pansy e degli altri. Potrebbe essere tutto, e niente. Potrebbe essere semplicemente che manca una pagina perché il libro è vecchio e rovinato, non perché Raissa ha voluto nascondere qualcosa, anche se la coincidenza dell’Europa orientale è ben insolita.

Ma non così tanto, mi ripeto ancora, sciogliendo il nodo della pergamena inviatomi, il sudore che mi fa scivolare le mani.

Sono passati cinque anni… e questa può essere solo una pagina strappata dal tempo. Meglio che mi ripeta anche questo.

Srotolo la pergamena e il cuore mi sale in gola, dandomi il senso di una vertigine che mi fa quasi cadere.

Non è una coincidenza, non è nemmeno una pagina strappata a caso e non è neanche uno sciocco scherzo per farmi capitolare del tutto.

“Che dice, Herm?” mi chiede Seth, agitandosi sul divano come un bambino.

Bisbiglio con la poca voce rimastami: “E’ la scheda di una profetessa vissuta una decina di anni fa… in Russia…”, apro e chiudo la bocca un paio di volte, la lingua impastata mi fa incespicare mentre dico: “E’… Tatia Krasova, Pansy…”.

Dean e Seth guardano entrambe a turno, cercando di capire di chi si tratti. Pansy si alza dal divano sconvolta, mi strappa il foglio dalle mani e lo guarda senza parole, tornando poi a guardarmi.

Pansy ricade seduta, biascica con un filo di voce: “Se era una profetessa, se conosceva il futuro… quello che vi sarebbe successo… forse, quando ha incontrato Draco nel mondo dei morti… non voleva che ti ricordassi di lei, in quel momento… “.

“… forse voleva che mi ricordassi di lei… adesso…” finisco io, incerta, guardando il ritratto sulla pergamena.

 

 

 

Non credo di aver mai scritto un capitolo così lungo e così difficile, specie perché ho dovuto rimettere assieme tutto quello che avevo disseminato per mesi! Credo di aver risposto a tutte le recensioni di cui vi ringrazio sempre ed enormemente! E come sempre chiedo scusa dell’enorme ritardo! E chiedo scusa anche della brevità del mio intervento, ma sono di corsa! Un bacione a chi ancora, con enorme pazienza, segue questo delirio sconnesso!

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Capitolo 37
*** Red string of fate ***


RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatia non voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa.

 

 

 

 

Capitolo 37 – Red string of fate

 

Ho sempre creduto nel potere dei libri di unire le persone. Io, i libri li ho sempre idolatrati, questo si sa, sia che fossero testi di scuola o che fossero romanzi. È come se per me contenessero tutte le risposte del mondo ed ogni modo per evadere dalla vita: per quanto uno si sforzi e magari rivoluzioni completamente sé stesso, comunque siamo nati con una vita sola addosso.

Per quanto, per esempio, io faccia tutto per cambiare, sarò sempre una donna inglese, nata babbana, che ha avuto un figlio a ventiquattro anni e che ama un uomo di nome Draco Lucius Malfoy.

I libri, spesso, ti danno l’illusione che tu possa essere un’altra persona, ti fanno vivere in un altro mondo e in un’altra era. Puoi essere chi vuoi, leggendo.

E, in questi cinque anni, ho desiderato tantissime volte essere un’altra, in modo egoista e colpevole me ne rendo conto. Ma spesso capitava e non ci posso fare niente.

L’Italia non era diversa dalla cella polverosa in cui ero rinchiusa quando ero prigioniera di Dimitri: era come sempre una terra bellissima, dorata, luminosa, piena di gente affabile e cordiale. Ma c’erano giorni in cui era semplicemente un’altra prigione, dal tetto azzurro come il cielo e dai confini di mare trasparente. Ero persino su un’isola, come se non potermi muovere liberamente non fosse già sufficiente… e questo acuiva ancora di più quella sensazione claustrofobica.

I libri erano l’ora d’aria alla fine della giornata.

A letto, con Ron accanto, ne divoravo decine dei generi più diversi, spesso addormentandomi anche alle tre di notte per finirne uno che mi aveva particolarmente catturato. Per qualche ora, mi dimenticavo chi ero. E quando sollevavo gli occhi dalla pagina e scoprivo con la vista che mi bruciava, che ero ancora lì, che ero ancora io, che Ron era ancora lì e che Draco ancora non c’era... annegavo nei sensi di colpa, ma non potevo impedirmi di iniziare un nuovo romanzo che mi portasse via da lì.

Via dal dolore, via dalla nostalgia, via dall’amore che non provavo per Ron e da quello che non moriva mai per Draco, via dal continuo terrore che accadesse qualcosa ad Alex.

Ron, vedendomi più presa del solito dai libri, aveva cercato di avvicinarsi a me, iniziando anche lui a leggere qualche libro prima di andare a dormire: tendenzialmente crollava dopo poche pagine, addormentandosi a bocca aperta con il libro aperto sulla faccia. Però riuscì a finirne qualcuno, anche se non con il ritmo forsennato con cui leggevo io.

I ricordi migliori che ho della nostra vita da pseudo-sposati, sono i giorni in cui, sbuffando, veniva a dirmi che aveva finito un libro che io gli avevo consigliato, ma che non gli era piaciuto. E intavolavamo lunghissime discussioni sul perché la protagonista aveva fatto questo e non quell’altro, spesso interrotte solo dall’arrivo di Alex che, come sempre, aveva a sua volta finito qualche libro e voleva dire la sua. Mio figlio ha quasi prima imparato a leggere che a parlare. E ha lo stesso amore maniacale per la lettura che ho io, come con tantissime altre cose che condivide con me.

Non che sia una mia piccola copia al maschile, intendiamoci… certe volte somiglia così tanto a Draco da suscitarmi la stessa irritazione.

Ma almeno legge quanto leggevo io alla sua età.

Quindi, quando ovviamente una settimana fa è saltato fuori dal libro di Pansy il nome di Tatia Krasova ed ovviamente è diventato necessario fare tutte le ricerche del caso su vecchi e nuovi tomi per scoprire di chi si trattava, io ne sono stata quasi felice. Era come tornare ai tempi di Hogwarts e dei compiti. Sentivo già l’odore della pergamena e dell’inchiostro, il sapore della cioccolata alla cannella che mi piace bere quando leggo, e, per forza di cose, avendo trascinato a suon di lagne e minacce, i miei amici in questa storia, mi immaginavo lo stesso miracolo accaduto con Ron.

Discussioni animate, interpretazioni sugli autori, idee delle più varie, supposizioni da confutare: Tatia è stata a suo modo famosa, ma ovviamente solo in Russia. E non essendo in grado di leggere ancora il cirillico, mi dovevo accontentare delle poche e lacunose fonti inglesi, di cui non era da tralasciare nulla, considerando che non è ancora assolutamente inconfutabile che esista un legame tra Raissa e Tatia. Potrebbe aver strappato quella pagina per i motivi più disparati… e potrebbe anche non averlo fatto lei, a conti fatti.

Comunque il fatto che lei sia una Profetessa e che abbia incontrato Draco nel regno dei morti, dicendogli espressamente di far sì che io mi ricordassi di lei… è una circostanza più che convincente nel farmi cercare ogni notizia su di lei. Io non la conoscevo affatto, non so assolutamente chi sia. E ci fosse anche solo una speranza che lei abbia visto qualcosa su me e Draco, sin da quel momento, e voglia adesso aiutarmi in qualche confuso modo… bè, ripeto, giustifica ogni nottata sui libri per sapere quanto più possibile su di lei.

Ma ovviamente non avevo fatto i conti con la gentaglia da cui sono circondata, e che dopo una settimana di ricerche, ormai sta perdendo il lume della ragione.

È una fresca mattina di metà luglio, siamo tutti in biblioteca e siamo sommersi dai libri da spulciare e leggere. Ogni tanto, un gufo entra dalla finestra portandone un altro, lo deposita sul tavolo e vola via, dopo aver reclamato una ricompensa di cibo. All’ingresso di ogni gufo, Seth, Pansy e Dean borbottano ed inveiscono all’indirizzo del povero animale, mentre io cerco di concentrarmi. Alex e Charisma colorano dei libri illustrati, non badando minimamente a noi.

All’ingresso del dodicesimo gufo di quella mattina, mandatomi dal proprietario del Ghirigoro, Seth scoppia ed inveisce: “Non studiavo così tanto dai tempi della maturità!”.

Roteo gli occhi nervosamente, ignorandolo e continuo a leggere, gettando un’occhiata ad Alex per vedere se sta bene.

“Io non studiavo così tanto, tipo, da… mai!” commenta accorato Dean, scagliando lontano il tomo che ha appena concluso di leggere.

“Non credo che ai MAGO non hai studiato per nulla…” borbotto scocciata, voltando un’altra pagina “In fondo li hai passati con voti soddisfacenti se non ricordo male…”.

“Oltre ogni previsione quasi ovunque, sì…” ribatte lui casualmente, stiracchiandosi “Millicent Bulstrode aveva davvero studiato bene…!”.

“Che diamine c’entra lei adesso?” commento, senza davvero ascoltarlo, massaggiandomi il collo stanco.

“Ah bè, c’entra eccome… se non mi avesse passato tutto lei, dubito che avrei superato gli esami…”.

“Che cosa?!” mi scandalizzo, guardandolo storto. In tutto questo, ovviamente, Pansy è rimasta assolutamente inerme, seduta a gambe accavallate sul divano mentre sfogliava velocemente un libro con aria annoiata. Dubito che stia davvero leggendo, credo che guardi solamente le immagini e passi oltre. Cosa che mi costringerà a rivedere anche i libri che lei dovrebbe aver letto.

“Aveva un’enorme cotta per me, sin dal primo anno…” mi risponde Dean, non scomponendosi per nulla, attirando l’attenzione di Seth che ha tipo il fiuto di un cane da caccia quando si tratta di pettegolezzi “E quindi quando ci furono i Mago, la adulai un po’ e le promisi un appuntamento ad Hogsmeade… così mi fece copiare senza tante storie…”.

“E ci sei uscito poi con lei?” chiede Seth curioso, sporgendosi oltre il tavolo con gli occhi luccicanti. Dean rotea gli occhi e sospira: “Se conoscessi Millicent Bulstrode, non mi faresti questa domanda…”. A bocca spalancata, biascico: “Mi era sembrato strano che avessi effettivamente studiato… e che non mi avessi chiesto nemmeno il più piccolo dei suggerimenti… sei… sei… scorretto! Ed abbietto! Ecco che cosa sei! Hai imbrogliato! Ed hai ingannato pure quella poveraccia della Bulstrode!”.

“Ma figuriamoci…” dice noncurante Dean, agitando una mano “Dalla morte di Silente c’erano molti meno controlli… tu da chi hai copiato Pans?”.

“Metà da Blaise… e credo l’altra metà sempre da Millicent…” risponde lei, senza nemmeno alzare gli occhi, poi, ispirata, dice senza cambiare tono di voce: “Adesso capisco perché l’invito al nostro matrimonio che spedì a Millicent, mi ritornò indietro pieno di Tranello del Diavolo…”.

Mentre sto quasi per cadere dalla sedia guardandoli, Dean replica scioccato ed inorgoglito dallo scatto di gelosia della Bulstrode: “Non me l’avevi mai detto!”.

“Non sei certo il mio biografo…” risponde Pansy, guardandolo oltre la copertina del libro.

“E la cosa non ti è sembrata strana?!”.

“Ah no… credevo che ce l’avesse con me perché mi ero sposata prima di lei… insomma ce l’aveva con tutte per quel motivo, è ancora zitella per quello che ne so… le rimandai la partecipazione e la imbottii di Pus di Bubotubero…” .

Questi sono pazzi, PAZZI! .

Dean scrolla le spalle e riprende scocciato a leggere, mentre Seth che brama dalla voglia di partecipare, inizia a trillare tutto contento: “Una volta, un ex di Kevin mi spedì un ciambellone pieno zeppo di fragole! E io sono allergico…! Mi venne quasi uno shock anafilattico! Ma poi Kevin mi portò all’ospedale e mi fecero un’iniezione o qualcosa del genere… fu una scena bellissima! Lui aveva ancora l’uniforme della polizia, sembrava una scena da ufficiale e gentiluomo!”.

Mi scompiglio sconcertata i capelli chiedendo con un filo di voce, vagamente stupita: “Certo, deve essere bellissimo avere come ex degli assassini che bramano ucciderti con dei pacchi avvelenati…”.

“Non è colpa nostra se hai due ex che fanno pena…” soffia Pansy, guardandomi dall’alto in basso “Di quello che hai mollato in Italia, meglio che non parlo… e l’altro… figuriamoci… uno che non si toglie i calzini per fare l’amore, non è manco degno di considerazione…”.

“Non sapevo che Malfoy non si togliesse i calzini…” commenta stupito Dean, mentre io spalanco la bocca, affrettandomi a coprire le orecchie di Alex che, ovviamente, captato il suo cognome, dice: “Non è vero! Io i calzini me li cambio ogni giorno… zio Dean è un bugiardo, mamma!”.

“Veramente io non parlavo di Draco… ma di te…” continua Pansy come se nulla fosse “Che io ricordi e la Granger può confermare… Draco non usava proprio il pigiama…”, e via alle occhiate maliziose. In tutto questo, Alex non ha smesso un secondo di divincolarsi per togliersi le scarpe e mostrare i suoi piccoli calzini perfettamente puliti, Dean ha continuato a difendersi sostenendo che l’episodio dei calzini è accaduto solo una volta e solo perché faceva freddo, e Seth alterna fasi da “credo di essermi innamorato di Kevin per la divisa, insomma è il non plus ultra per un uomo, rendiamoci conto!” a “che fortuna, tutte e due siete state con Danny! Herm non mi ha mai dato particolari, è così possessiva, dai dimmi qualcosa Pansy! Non tenetevi il meglio per voi!”.

Quando Pansy tra gli schiamazzi generali inizia a raccontare della sua prima volta con Draco, sostenendo a viva voce che quando lo fai con un Malfoy, te lo ricordi per tutta la vita, mentre Dean la guarda agghiacciato e Seth pende dalle sue labbra, capisco che è decisamente il momento di fare una pausa.

Sempre tenendogli le mani sulle orecchie, prendo Alex ed esco fuori, non prima di aver urlato rossa in viso: “Se quando rientro, sento ancora il nome di Draco in un discorso di tale tenore, giuro che vi sminuzzo e vi metto a macerare nell’aceto bianco!”.

“Che vi dicevo, è troppo possessiva!” sussurra complice Seth, sedendosi stile comare accanto a Pansy “Danny è un bene dell’umanità! Deve essere portato alla conoscenza di più persone possibili! Ed anche se ormai è di tua esclusiva proprietà, avremo anche il diritto di averne una conoscenza indiretta!”.

Chiudo la porta con un piede, sbattendola, lasciando che il sorriso che per un attimo mi ha curvato le labbra, scoppi solo nel momento in cui arrivo nel corridoio, quando Alex, liberato dalla mia stretta, ripete battendo il piede: “Mamma, voglio dei nuovi calzini!”.

 

 

Da quando ho trovato quel libro e il riferimento a Tatia, è come se qualcosa si fosse improvvisamente acceso dentro di me: qualcosa che, tanto per intenderci, era morto cinque anni fa nel momento esatto in cui ero stata separata da Draco. E’ qualcosa che assomiglia spaventosamente persino alla felicità. Certo, è ovvio, Draco è ancora disperso chissà dove, forse è anche con Raissa, magari mi odia, forse si è persino scordato chi sono, ma… qualcosa finalmente si sta muovendo. Ed uscire dall’impasse in cui mi sono mossa in questi ultimi anni, è qualcosa di straordinario, al punto da darmi le vertigini e l’ebbrezza. E ripeto, non è successo nulla di che: del resto, non sono nemmeno certissima che trovare informazioni su Tatia Krasova mi conduca da Raissa.

Ma se Tatia cinque anni fa ha detto a Draco di farmi ricordare di lei e io sono più certa di non conoscerla… poteva riferirsi solo a questo, solo al momento in cui ho trovato quel libro, visto che era una Profetessa e magari vedeva nel futuro anche dall’aldilà. Ho pensato anche ad un altro piccolo particolare: Tatia non era in pace, Draco me l’aveva fatto capire chiaramente.

Non era come Helena, trasfigurata di luce e rifulgente come un angelo. Era tra le anime che Adamar aveva mandato per punire Draco stesso, tra gli spiriti probabilmente morti violentemente e sicuramente ancora incattiviti verso la vita. Tatia, peraltro, quando era apparsa a Draco, aveva ancora una ferita all’addome, forse la stessa che l’aveva uccisa.

Eppure sono convinta che non sia una specie di spirito vendicatore, che vuole colpire me o Draco, o peggio ancora mio figlio. Sono certa che, in qualche confuso modo, mi voglia aiutare e sono anche certa che Raissa c’entri qualcosa. Quindi, anche se di lei al momento so ancora molto poco dato che il materiale scarseggia, certamente sono nella migliore direzione per trovare Draco da cinque anni a questa parte. La sensazione di calore agli arti che mi ha liberato dal torpore autoimpostomi in questi anni, si è tradotta anche nella considerazione di un particolare che, fino ad ora, non avevo ancora considerato ed apprezzato appieno: sono libera. Posso finalmente muovermi come voglio, uscire per un gelato, fare una passeggiata, andare in un parco, persino andare fino al mare se mi va, anche se questo non credo che mi andrà mai.

Da quello stramaledetto volo nel lago di Hogwarts, quando io e Draco fuggimmo da Astoria e stavo per morire annegata, ho un terrore sacrosanto dell’acqua. 

Ma intanto tutto il resto lo posso fare e quindi, approfittando del fatto di aver perso quei tre perversi dietro chiacchiere scabrose, sono finalmente uscita in città con Alex, che non aveva mai visto Londra. Di primo acchito, tutto lo ha spaventato, mi ha stretto la mano guardandosi attorno con gli occhi grigi socchiusi e sospettosi, abituato com’è alla nostra casa nella piccola isola siciliana dove vivevamo fino a dieci giorni fa. Ma è bastato entrare ad Harrods e si è ovviamente trasformato, mentre correva in giro tra gli espositori di giocattoli come un pazzo, indicandomi ogni tanto qualcosa.

Ma il bello di Alex è che non è un bambino assolutamente comune: sarà che sono io che lo vedo così, essendo sua madre. Ma mi sorprende sempre, come faceva Draco.

Spesso, nei momenti peggiori della mia vita, ho davvero creduto che Dio me l’abbia mandato per sopportare meglio l’assenza di suo padre.

Con le braccia ingombre di macchinine, robottini ed altri giocattoli di plastica, mi ha guardato con gli occhi brillanti: “Posso averne uno?!”.

“Puoi prendere solo una cosa, Alex… ci manca soltanto dover fare un’altra valigia per tutta quella roba…” ho borbottato, incrociando le braccia.

E lui, immediatamente, senza nemmeno pensarci un secondo, ha lasciato tutto su uno scaffale, trattenendo per sé solo un piccolo involto azzurro.

“Che cos’è?” ho chiesto, chinandomi alla sua altezza. E lui, sollevando il mento come sono solita fare sempre io e mettendo il broncio come faceva solo Draco, ha berciato categorico: “I miei nuovi calzini… così lo zio Dean non dirà più che un Malfoy non si toglie i calzini! Gliela farò vedere io!”. Ho trattenuto le risate alla sua faccia seria mentre gonfiava le guance, e ho annuito dandogli ragione.

A parte questa fissazione insana, adesso, per i pedalini che è tutta colpa di Pansy e della sua lingua lunga, ovviamente mi ha ricordato Draco come nulla al mondo, al punto da farmi stringere la gola in un nodo che mi ha ispirato a piangere. Alex sa poco quanto niente della stirpe dei Malfoy e di tutto quello che ne consegue, ho sempre pensato che fosse dovere di Draco, quando lo avessimo trovato, dirgli tutto del prezioso retaggio che ha. Certo, erano doppiogiochisti razzisti e tutto il resto, ma sono sempre una delle famiglie più antiche di Maghi della Gran Bretagna, anche se probabilmente l’illustre albero genealogico si sta rotolando nella tomba dato che l’ultimo erede non è null’altro che un Mezzosangue. Però, appunto, Alex dei Malfoy non sa nulla.

Questo orgoglio è tutto suo, tutto di Draco: mio figlio ce l’ha nel sangue. E credo che lo usi spesso perché, inconsciamente, è la sola cosa che lo rende unito a suo padre. Gli piace dire che è un Malfoy perché è la sola cosa che concretamente sa di suo padre: il nome. Si è sempre fatto bastare solo quello, aiutato anche dal fatto che io non ho nemmeno una fotografia di Draco. E, come se non bastasse, ho di lui una memoria che è pelle, sangue e cuore, poco adatta ad essere condivisa con un bambino. I miei ricordi di Draco, specie di quando era piccolo, non sarebbero molto adatti a darne un quadro esaustivo e soprattutto vero ed onesto. Che gli dovrei dire? Che era un aspirante assassino? Che lo è stato in guerra? Che era figlio di uno dei peggiori Mangiamorte in circolazione? Quindi sono sempre stata contenta che Alex non mi facesse eccessive domande su Draco. Di lui, appunto, aveva solo il nome e quello lo sfoggiava sempre orgogliosamente in decine di circostanze. Poi, con il tempo, mentre mio figlio cresceva, mi sono resa conto che era strano, che non poteva essere imputato solo al candore di un bambino che, innocentemente, accetta una realtà che gli era stata messa sotto gli occhi fin dalla nascita. Era sempre vissuto con l’idea di un padre lontano, ci si era abituato, ma non faceva domande su di lui, non chiedeva come fosse o perché non fosse con noi, anche se ha sempre frequentato altri bambini che avevano sempre la mamma e il papà. Me ne sono preoccupata, ovviamente, ma non volevo chiedergli direttamente qualcosa, in fondo era felice, lo è sempre stato. Era sereno, e comunque nominava “il suo papà” in molti discorsi. Ma non era curioso a riguardo.

Un giorno, senza che nemmeno lo chiedessi, mentre guardavamo Alex che giocava in giardino con Ron, Helder rispose alla mia domanda muta: “E’ un bambino felice, sereno ed amato… devi stare tranquilla… ti vuole bene come nulla al mondo. E vuole bene anche a Ron… e persino a suo padre, anche se non lo conosce… ma nella sua mente… Alex scinde Draco e suo padre, come se fossero due persone diverse. Del secondo, sa che è il suo papà e tanto gli basta. Del primo, non chiede nulla… perché sente che ti fa soffrire e fa arrabbiare Ron… per quello sta zitto…”.

Avevo incassato le parole di Helder con un sospiro, chiudendo gli occhi ed accontentandomi di sapere che almeno era sereno al riguardo.

Per questo, quando finiamo le compere e ci sediamo in un parco a mangiare un gelato, la domanda di Alex che mi giunge improvvisa, come un lampo in cielo, non mi sorprende poi del tutto. In dieci giorni, è tutto cambiato: mi vede più serena, Ron non c’è e sente nominare Draco decine di volte da Pansy e da Seth. Improvvisamente tutta la curiosità di mio figlio risorge come un fiore d’estate.

“Mamma, posso farti una domanda?” mi dice cauto, guardandosi le scarpette da ginnastica rossa, mentre agita i piedi avanti ed indietro sull’altalena.

“Certo tesoro che puoi…” sorrido incoraggiante, improvvisamente persino pronta per quelle domande che so già che arriveranno.

“Mi prometti che non ti arrabbi?” bercia lui, a testa bassa, continuando a guardarsi i piedi. Sorrido nuovamente, mi chino sui talloni e poggio le mani sulle sue ginocchia, esortandolo a continuare.

Lui, illuminandosi, dice con un filo di voce, dopo aver sollevato gli occhi verso di me: “Ma perché papà non è con me e con te? Non ci voleva bene?”.

Qualcosa nell’aspetto di Alex mi fa bruciare gli occhi e pizzicare la gola, ma trattengo con tutte le mie forze il pianto, sospirando. Alex ha le spalle contratte, il labbro inferiore che trema, gli occhi grigi lucidi e stringe forte le corde dell’altalena tra i pugnetti. Questa domanda doveva tenersela dentro da chissà quanto tempo.

“Tu che cosa pensi, tesoro?” chiedo, cercando di incoraggiarlo e simulando una calma che non possiedo “Pensi che papà non ci voglia bene?”.

Lui sembra spiazzato dalla mia domanda e fa una smorfia strana, mettendo una specie di broncio buffo, mentre riflette pensosamente. Dopo qualche secondo, fa incerto: “La maestra, una volta, mi ha detto che siamo nati perché la mamma e il papà si volevano tanto bene…”, poi, acquistando colore sulle guance, asserisce con il tono di chi sta tranquillizzando un fratello minore: “… quindi doveva volerti bene tanto, mamma!”. Sorrido e gli accarezzo piano la guancia, il nodo in gola che non ne vuole sapersi di sciogliersi. Respirando ancora, sussurro convinta: “Visto? La sapevi già da solo la risposta… la maestra aveva ragione… papà voleva molto bene alla mamma… e per questo, sei nato tu…”.

“Ma perché allora non sta mai con noi?” chiede ancora, animandosi e spingendosi con l’altalena “Il papà di Marco non c’è mai a casa… ma la sua mamma dice sempre a Marco che loro sono dimezzati e quindi non stanno più assieme! Pure voi siete dimezzati?!”.

“Dimezzati…? Ah vuoi dire, divorziati…” capisco, lasciandomi sfuggire un altro sorriso e rendendomi conto di quanto mio figlio abbia captato in questi anni, senza però fare il benché minimo accenno. Siccome il discorso si preannuncia lungo e siccome questa spiegazione gliela devo da troppo tempo per liquidarla in due minuti, lo sollevo dall’altalena, per poi sedermi con lui in braccio che, ormai, non mollerà l’osso se non del tutto convinto. Infatti, si volta di mezzobusto verso di me, continuando ad interrogarmi con gli occhi grigi spalancati.

“Allora, tesoro…” inizio con un filo di voce, poi mi do coraggio e respiro profondamente, stringendolo “La mamma e il papà si volevano molto bene… e proprio perché erano tanto felici, un giorno, decisero di farti nascere… perché volevano tanto che tu nascessi e stessi con loro. Per me e papà sei sempre tu la cosa più importante del mondo…”, sospiro ancora, tecnicamente io e Draco non abbiamo deciso proprio niente su Alex, ma ovviamente non mi pare il caso che mio figlio sappia di non essere stato né programmato, né tantomeno gradito in un primo momento. Alex annuisce vigorosamente con il capo, come tutte le volte che ha capito qualcosa e ne è profondamente soddisfatto. Incoraggiata, proseguo, dondolandomi avanti ed indietro: “Solo che, un giorno, arrivarono delle persone molto cattive… un mago ed una strega…”.

“Come te e Ron, mamma?” chiede lui, incuriosito, agitandosi sulle mie gambe. Conosce la magia da quando era piccolo, si divertiva vedendo gli occhi di Helder cambiare colore, ha persino spostato diversi oggetti quando era in fasce, specie quando si innervosiva. Da un paio di anni, da quando ha avuto l’età per capire, gli ho parlato della differenza tra babbani e maghi e sa quindi di dover evitare di far vedere i suoi poteri. Ciò, quindi, si è tradotto in un’ossessione verso la magia che lo porta a chiedermi ad ogni compleanno il numero di anni che mancano per andare ad Hogwarts.

“Sì, Alex… come me, Ron… ed anche come papà, zia Pansy e zio Dean…”.

“Zio Seth, invece, non è un mago? Lui dice sempre che fa magie contro il crispo…”.

Mi gratto la guancia, l’ho sentito io stessa Seth cianciare in quel modo questa mattina: ha dato uno sguardo ai miei capelli, che non ho avuto modo di lisciare, e mi ha dato tutta una sfilza di boccette che secondo lui, “fanno magie contro il crespo”. Inutile dire la fine che hanno fatto quelle boccette. Accidenti a lui e alle orecchie di Alex che sente sempre tutto!

Per semplicità, replico ad Alex che lo zio è un tipo di mago particolare che fa delle magie senza bacchetta. Poi riprendo: “Il mago e la strega, però, non erano buoni come me e papà o come gli zii… erano molto cattivi… e non volevano che mamma e papà stessero assieme, e potessero stare con te. E quindi raccontarono tante bugie a papà, dicendogli che la mamma non gli voleva più bene…”. Alex sgrana gli occhi grigi, come se gli stessi raccontando una fiaba, e mi guarda rapito: “Erano proprio tanto cattivi, allora!”.

“Già, tesoro…” sorrido tristemente, guardando oltre il mio bambino e concentrando per un attimo lo sguardo sul cielo tra i palazzi di Londra “E quindi papà divenne molto triste e decise di andare via con la tua sorellina e non tornò più… quindi la mamma rimase da sola e, siccome tu eri piccolo piccolo, andò lontano così da poterti far nascere… perché il mago e la strega cattivi volevano fare del male anche alla mamma…”.

“E Ron? A lui non volevano fare male?”.

“No, Alex… Ron stava con noi perché è un vecchio e caro amico della mamma, e la voleva aiutare…” ribatto velocemente, arrampicandomi nelle spiegazioni che posso e non posso dare a mio figlio su me e Ron “Lui è come zio Harry… te lo ricordi? E voleva aiutare me e te… quindi è rimasto con noi…”.

“Ho capito…” dice serio Alex, grattandosi la testa, poi, dopo qualche secondo di silenzio, mi chiede ancora: “E la strega cattiva e il mago cattivo, adesso, non ci sono più?”.

“No, tesoro… per questo siamo tornati a casa… adesso gli zii ci stanno aiutando a cercare papà… così…”.

“… così gli diciamo che tu gli vuoi bene, e che anche io gli voglio bene, e lui torna sempre a casa con noi! Vero mamma?” mi interrompe Alex, battendo le mani contento. Annuisco, sorridendo, e lo abbraccio forte, baciandolo sulla fronte. Lui si divincola quasi subito, saltando dall’altalena, e si mette di fronte a me, dondolandosi con le gambe.

Contento mi chiede: “Mamma, ma com’è papà? Zia Pansy, quando mi ha visto, ha detto che sono uguale a papà! Ha detto identico spiaccicato!”.

“Spiccicato, Alex…” lo correggo meccanicamente, poi sorrido ispirata: “La zia aveva ragione… era uguale a te… forse possiamo chiederle se ha una foto di papà di quando era piccolo… lo vorresti vedere?”. Alex annuisce contento e continua con le sue domande, mentre va avanti ed indietro. Sembra un professore che interroga una studentessa.

“Quindi a papà non piacevano le carote così come non piacciono a me?” dice fiero, guardandomi con gli occhi socchiusi.

“No, a papà le carote piacevano…” dico convinta, smorzando la sua espressione sorniona. Ovviamente non ricordo se a Draco piacessero le carote, ma Alex lo sta chiedendo solo perché sa che, se dico di no, la prossima volta dirà che non le mangia perché “nemmeno a papà piacciono”.

“Ma papà era furbetto proprio come te…” esclamo allegramente, prima di saltare dall’altalena ed acchiapparlo al volo, facendogli il solletico. Lui inizia a muoversi convulsamente, ridendo come un pazzo, mentre cerca di sfuggirmi. Alla fine, il trillo del mio cellulare mi fa desistere e lo lascio andare, e lui, con espressione da uomo maturo rassegnato, si sistema i vestiti disordinati dal mio impeto.  Trattenendomi dal ridere mentre lo guardo, rispondo al telefono: “Pronto?”.

“Herm, sono Seth, dove sei? Abbiamo una pista!” la voce di Seth mi trapana l’orecchio da parte a parte, facendomi allontanare il cellulare con una mano. Alex, seguendo la mia manovra salva-timpano, scoppia a ridere ed inizia a giocherellare con una lattina che c’è per terra. Mentre gli ingiungo severamente di non toccarla, cerco di prestare attenzione a Seth: “Una pista? Guarda che non siamo in un poliziesco, Seth… spiegati!”.

“Uno di quei libri che sono arrivati stamattina era una traduzione di un testo dal russo…” mi spiega velocemente Seth, la voce squillante “E c’erano molte informazioni su questa Tatia… molto più che in tutti gli altri libri messi assieme che dicevano solo quando era nata e quando era morta… vieni a casa che ti spiego!”.

Riagganciando, dopo essermi massaggiata l’orecchio vigorosamente ed aver agguantato Alex che ha lasciato perdere la lattina per dedicarsi completamente ad un piccione malaticcio, afferro la bacchetta e, guardandomi attorno, mi smaterializzo a casa di Pansy.

 

 

Quando arrivo a casa di Pansy, devo trattenere tipo per la collottola Seth che, come un cucciolo scodinzolante, mi viene incontro nell’ingresso e smania dalla voglia di raccontarmi quello che ha scoperto. Pansy e Dean sono seduti in cucina con Charisma ed entrambi sospirano fragorosamente al mio arrivo, evidentemente sollevati dal fatto che finalmente posso sorbirmi Seth al posto loro.

Prima che Seth inizi a cianciare a tutto spiano, chiedo a Pansy se Lyria, la loro elfa, può occuparsi di Alex. Dopo stamattina, mi sono resa conto di quanto sia assolutamente vitale e necessario per me proteggere mio figlio anche da questa ricerca spasmodica di suo padre. Deve saperne quanto meno possibile, non deve illudersi, non deve sperare inutilmente. Il peso di questa cosa deve essere solo sulle mie spalle, dato che sono sua madre. E, sebbene ingenuamente avessi sempre pensato che Alex non avesse una vera e propria visione delle cose tra me e Draco, mi sono oggi resa conto che ne aveva invece una tutta sua, ricavata da mozziconi di discorsi e frasi nemmeno del tutto corrette.

Fino a quando io stessa non sarò certa di come stanno le cose tra me e Draco e tra lui e noi, io devo proteggere Alex dalla possibilità che io stessa o Draco gli possiamo fare del male.

Prima era solo il mio cuore ad essere a rischio. Adesso, c’è anche mio figlio di mezzo. E non posso permettere a nessuno, tantomeno a suo padre, di ferirlo in nessun modo. Ho rinunciato a tutto per la serenità e la sicurezza del mio bambino, ho represso lacrime e rabbia, ho ucciso il mio amore, sono rimasta per cinque anni in Italia. E se adesso trovare Draco è la cosa migliore per Alex, il giorno in cui non lo sarà più, dovrò rassegnarmi a smettere di farlo e a rinunciare per sempre e davvero a lui.

Quando Alex finalmente è uscito con Lyria, a cui Dean affida anche Charisma, ci sediamo tutti e quattro in salotto dove Pansy fa comparire del tè freddo sul tavolino basso di cristallo. Seth ingurgita in tre sorsi il contenuto del suo bicchiere, non so se per prepararsi al suo immenso discorso esplicativo, o per riprendersi dalla serie di gorgheggi lamentosi da cane in cerca d’attenzione che ha prodotto fino ad ora. Fatto sta che in qualche minuto, si degna di dirmi tutto quello che hanno scoperto.

Nei libri inglesi, di Tatia Krasova si diceva semplicemente che era una chiaroveggente, dotata di un forte potere di previsione del futuro e che era morta in giovane età, probabilmente uccisa dai Mangiamorte. Insomma informazioni abbastanza intuitive, che non mi avevano detto niente di che su di lei, anzi avevano persino confermato la tesi che Tatia poteva essersi rivolta a Draco solo per ottenere vendetta per la sua morte, qualora mi avesse creduto ancora il capo degli Auror. Questo era quello che avevo supposto in un primo momento con Draco stesso, non dandoci quindi nemmeno peso eccessivo… ed implicitamente la cosa mi era stata confermata anche da Raissa, quando glielo avevamo chiesto.

Nel testo, invece, che Seth ha letto ne viene dato un quadro molto più preciso.

Tatia era nata a San Pietroburgo circa ventotto anni fa, quindi oggi avrebbe avuto la mia stessa età: i suoi genitori si erano separati appena la bimba era nata, a seguito della scoperta da parte della madre di Tatia che il padre era un Mangiamorte dei più terribili. Tatia, quindi, piccolissima, si trasferì con la madre in un piccolo paesino al confine con la Finlandia. L’autore, come nota di colore, aveva aggiunto che nel suddetto paesino, vivevano molte donne che, sposate con Mangiamorte, si erano rifugiate lì con i figli piccoli per sfuggire al destino loro riservato dai genitori.

E ne aveva fatto qualche nome.

Nel piccolo paesino, ai piedi della montagna, avevano abitato anche Dimitri e Raissa Karkaroff con la loro madre.

La prova, quindi, del legame tra Raissa e Tatia è ormai evidente. Raissa, quindi, molto probabilmente strappò volutamente la pagina del libro che consultava quella mattina di cinque anni fa, evidentemente messa in allarme dalla domanda che io avevo fatto su Tatia solo la sera prima. Tre indizi, in fondo, fanno una prova… e Raissa, quando le chiesi di Tatia, non disse nemmeno nulla di eccezionale, non accennò minimamente al fatto che fosse cresciuta nel suo paesino, cosa anch’essa abbastanza strana se non aveva nulla da nascondere.

Seth continua dicendomi che, al termine della prima guerra magica, il padre di Tatia non tornò a casa: la piccola iniziò a manifestare i suoi poteri proprio in quell’occasione, quando, nonostante avesse appena imparato a parlare, previde che il padre era stato ucciso. Da allora fu praticamente idolatrata nel paese, molta gente veniva da lontano per conoscerla e parlarle, spesso per sapere il destino dei propri cari in guerra. Ma Tatia, spesso, non riusciva ad essere chiara nelle sue previsioni, oppure molte volte semplicemente non ne aveva; essendo il suo potere così instabile ed incontrollabile, ben presto la gente perse interesse per lei e il pellegrinaggio presso la sua abitazione si esaurì. In ogni caso, era molto conosciuta in zona: anche se non riusciva a controllare le sue previsioni, esse continuavano ad esistere. In molti casi aveva infatti predetto la morte di alcune persone, o ne aveva salvate delle altre, anche quando era solo una bambina.

Ed ancora, torna il nome Karkaroff: Tatia aveva quattordici anni quando, tornato il Signore Oscuro, predisse ad Igor Karkaroff che sarebbe morto per mano dei Mangiamorte, spingendolo alla fuga.

Anche questa circostanza depone in favore di un legame tra Raissa e Tatia. Probabilmente se Tatia fece quella previsione e si premurò anche di riferirla, doveva sussistere una specie di legame con il padre di Raissa stessa. Forse erano persino amiche, oltre che compaesane.

Alla morte della madre, poco prima della fine della seconda guerra magica, Tatia si trasferì a Tampere, in Finlandia. Ma non da sola… aveva solo diciotto anni, ma si era sposata. Con un tale Ilai Radcenko. I due, però, furono felici solo per un anno scarso: Tatia fu ritrovata morta il giorno del suo diciannovesimo compleanno, nella casa che divideva con Ilai. Si fecero molte teorie a riguardo, ma prevalse la tesi per la quale Tatia fosse stata uccisa da Mangiamorte, desiderosi di vendetta, anche se erano passati tantissimi anni dalla morte del padre. In mancanza di prove che potessero individuare i responsabili, tutti dettero per buona questa teoria, specie considerando il periodo nero dopo la guerra. Di gente morta, ne veniva trovata ogni giorno. E spesso spiegazioni non c’erano. Vendette trasversali, regolamenti di conti, rapine finite male di Mangiamorte incattiviti dalla fuga e dagli stenti: ricordo ancora tantissimi episodi, accaduti quando ero il Capo degli Auror. Io stessa, in molti casi, avevo dovuto concludere delle indagini con un nulla di fatto. Ovvio che la cosa fosse accaduta anche a Tatia.

La sola cosa che risulta meno ovvia in questa storia, è il collegamento che ho io con Tatia: Raissa ok, potrebbe averla conosciuta, ma che cosa c’entro io? Perché ci ha tenuto che Draco si ricordasse di lei in modo da riferirmi la cosa? Certo, se Tatia non è propriamente uno spirito pacifico al momento, magari vuole ancora che io vendichi la sua morte… e magari Raissa ha una qualche responsabilità nel suo omicidio. La cosa mi agghiaccia, specie se Raissa dovesse essere ancora con Draco e Serenity… ma loro dovrebbero essere vivi, Helder li ha sempre sentiti tali. Ma potrebbero essere in pericolo… e magari Tatia vuole aiutarmi in questo, vuole aiutarmi a trovare Draco. Ma come? È morta, come potrei entrare in contatto con lei? Adamar fece sì che Draco la incontrasse ma per punirlo, non so nemmeno se esiste un altro modo che non implichi magia nera e la possibilità concreta di lasciarci le penne.

Prima, avrei rischiato tutto, ovviamente. Ma adesso Alex fa sì che la mia scarsa attenzione per la mia incolumità, sia decisamente salita.

La sola strada che concretamente mi resta, è trovare qualcuno che la conosca. Parlarci, cercare di capire chi fosse. Potrei persino capire effettivamente se ha avuto dei contatti con Raissa.

L’unica persona che sembra ancora in grado di darmi queste informazioni, è Ilai Radcenko, suo marito.

Dopo aver finito di parlare con Seth ed aver comunicato la mia intenzione di parlare con Ilai Radcenko di Tatia, Dean e Pansy riescono a farmi sapere qualcosa di lui grazie ai contatti che hanno all’ambasciata dove lavoravano a Parigi: una loro conoscente riesce in un paio di ore a farci sapere l’indirizzo attuale del marito di Tatia. A quanto pare, vive ancora a Tampere, in Finlandia.

Ergo, non mi resta che andare lì. Seth ovviamente decide di accompagnarmi e si scaraventa in camera sua per prenotarci dei posti sul primo volo disponibile. La sua gioia trillante mi impedisce di dirgli che io potrei viaggiare benissimo per mezzi magici, impiegandoci la metà del tempo e non affrontando il mio secolare terrore per gli aerei. Ma questo significherebbe lasciarlo qui e, al momento, dirglielo potrebbe costare la salute già precaria del mio sistema nervoso, oltre che del mio apparato uditivo. Quindi, lascio correre.

“Vengo anche io con voi…” mi dice sicura Pansy, guardando oltre di me Dean che culla Charisma che non ne vuole saperne di prendere sonno.

Inarco un sopracciglio: “E Dean?”.

“Lui se ne sta qui con la bambina…” sciorina lei con nonchalance, stiracchiandosi come un gatto al sole “Potreste aver bisogno di aiuto… insomma che sappiamo di questo Radcenko? Seth non è certamente un mastino e non c’entra nulla il fatto che sia un babbano… anche da mago, terrorizzerebbe al massimo un Avvincino…”.

“Come mai tutta questa disponibilità?” borbotto scettica guardandola, non del tutto convinta.

“Mi offendi Granger… non potrei essere sinceramente preoccupata per te e per Seth, oltre che per Alex?”.

“E?” la incalzo, incrociando meccanicamente le braccia.

Pansy si gira su sé stessa, dando volutamente le spalle a Dean che continua a canticchiare ninna nanna a Charisma che hanno solo l’effetto di farla ridere a crepapelle. Dean sospira, gettando occhiate in tralice a Pansy che, invece, mi sussurra con voce innocente: “… per puro caso, questo weekend verranno qui sia mia madre che mia cognata… strega purosangue la prima, babbana la seconda… non mi ero accorta di aver detto di sì a tutte e due per lo stesso giorno…”.

Le spalle mi si afflosciano, mentre lancio un’occhiata di solidarietà al povero Dean che, ignaro del suo destino, continua ad agitare sonaglini per calmare Charisma.

“La Finlandia mi pare sufficientemente lontana per una Fattura Orcovolante da parte del mio caro maritino…” bisbiglia melensa Pansy, prima di allontanarsi e prendere la piccola dalle braccia del padre. Mi gratto la guancia a disagio, sotto lo sguardo indagatore di Seth.

Lui, senza fare una piega, sospira ed intuisce i miei pensieri, anche se da babbano di queste cose non ne capisce ancora nulla.

Con una mano sotto al mento e l’espressione saputa, dice solo una parola, omnicomprensiva di tutto quello che sto pensando.

Serpeverde…”. 

 

 

In questi cinque anni io non sono stata nulla di diverso dalla mamma di Alex.

Non credo che c’entri solo l’istinto e la spinta primordiale a difendere il proprio piccolo, mettendo in quint’ordine ogni propria esigenza o desiderio. Credo che io abbia fatto di necessità, virtù. Sono sempre stata una persona sinceramente preoccupata degli altri, ma il legame che si instaura con un bambino, con il proprio figlio, è una cosa che non si può descrivere e spiegare a nessuno. Alex mi ha semplicemente annullato il pensiero di me stessa. E questo è avvenuto in un momento in cui avevo disperatamente bisogno di non pensare a me stessa.

Nel momento in cui l’avessi fatto, avrei avvertito solo la lacerante distanza da Draco che mi avrebbe obnubilato ogni volizione.

Quindi, insomma, essere mamma ha contribuito a non farmi perdere la sanità mentale, mentre ero “prigioniera” in Italia. In fondo, era come se non fossi mai uscita dal castello di Dimitri: dovevo pensare a me stessa, nella sola funzione che ciò portasse alla salvezza prima, e alle felicità poi, del mio bambino.

Per questo, quando Pansy e Dean mi convincono a lasciare Alex a casa con Dean dato che non sappiamo concretamente che ci aspetti in Finlandia, per un attimo mi sento monca.

Al momento, per la prima volta da cinque anni, io non sono la mamma di Alex. Il mio bambino è al sicuro, è protetto, sicuramente ha preferito restare a giocare con Charisma piuttosto che seguirmi in questo viaggio astruso, so che è felice. Io, invece, sento migliaia di piccole sensazioni indimenticate che mi punteggiano la schiena, come se esse fossero ombre solo tenute a bada dalla luce dell’amore per mio figlio. Certo, è ovvio ed è scontato che io non abbia smesso all’improvviso di essere quella che sono stata in cinque anni, e comunque sono sempre la mamma di Alex.

Ma quello che sto facendo adesso, in un certo senso, senza Alex che mi ricordi sempre che è anche il figlio di Draco, mi sembra di farlo solo ed esclusivamente per me stessa.

Il tempo, senza che Alex con la sua presenza mi ricordi quanto concretamente ne è passato, si annulla e si eclissa. E mi sento di nuovo la ragazza che uscì in giardino la sera del compleanno di Pansy, dopo aver rifiutato una proposta di matrimonio dall’uomo che amava. Stranamente, non ho più pensato ad Helena in questi anni. Sono ancora a mio modo convinta che quella sera, per come andarono le cose, feci la cosa giusta, specie sapendo che cosa accadde la mattina dopo, quando Draco promise ad un’Astoria con le mie sembianze di lasciar andare Helena. Se tutto questo non fosse accaduto, io e Draco saremmo marito e moglie, lo so, lo sento.

E questo mi riempie di un tale senso di nostalgia, rimpianto e rimorso che adesso mi stringe la gola e mi spinge a piangere ancora come se tutto questo fosse accaduto solo ieri.

Soffoco le lacrime in gola, guardando ancora nella borsetta, da cui esco il distintivo da Auror che mi sono portata dietro. Cercando di distrarmi, riporto alla mente la strategia che ho elaborato con Seth e Pansy per poter parlare liberamente con Ilai Radcenko. La cosa ovviamente più semplice, era fingere ancora di essere il Capo degli Auror e di essere venuta a fare un’indagine in merito alla morte di Tatia. Cercherò di non nominare direttamente Raissa, non so fino a che punto il marito di Tatia potrebbe essere coinvolto con lei e con Dimitri, ma in ogni caso dalle sue risposte potrò capire come stavano le cose e se posso fidarmi di lui; da lì, ovviamente, si apriranno i giochi.

Mi stiracchio distrattamente, cercando di tenere a bada la risorta malinconia e la neonata insicurezza, e getto un’occhiata in tralice a Seth e Pansy seduti nella fila contigua alla mia. Sospiro a lungo, li sto ignorando dall’inizio del viaggio per la loro solita attitudine a fare discorsi strambi, che tendenzialmente mi trascinano in un vortice di folla suicida ed omicida. Al momento, Pansy sta infatti rianalizzando tutto l’albero genealogico della famiglia di Seth, che cerca di risponderle come meglio può, agitando le mani nella foga della conversazione.

Uno adesso si può chiedere che diamine cerchi Pansy Parkinson, Purosangue decaduta, snob impenitente, nella genealogia del babbano Seth Green… si dà il caso che Seth sia omonimo di un indesiderabile passeggero delle liste in mano alle compagnie aeree, forse qualche terrorista o un semplice disturbatore della quiete pubblica che, da allora, è diffidato dal viaggiare in aereo. Io non escludo che, invece, l’omonimia non esista e che si parli della stessa persona, specie perché una volta Seth mi raccontò di essersi preso una cotta per un, parole sue, “tipo da infarto” che faceva lo steward per la British Airlines. Quindi non voglio nemmeno immaginare che cosa abbia fatto per il suddetto amore della sua vita, che poi è durato circa due mesi scarsi… comunque Seth nega di essere lui stesso sgradito sui voli di linea e diciamo che gliela faccio passare. Ogni volta che prende un aereo, quindi, deve chiarire che non è il Seth Green, invece, terrorista, omicida o chissà che altro, e per sbrigarsi, spinge i controllori a verificare il nome da nubile di sua madre, Esperanza Mendes, cubana. E lì, la cosa si risolve. Fino ad oggi. Perché Pansy ha sentito il nome di sua madre, e ha dato di matto. A quanto pare, i Mendes a Cuba sono come i Malfoy in Gran Bretagna.

Una famiglia magica, di Purosangue, ricchissimi e persino collegati a Fidel Castro in persona.

Io ovviamente ho liquidato il tutto, dicendo che probabilmente era anche in questo caso un’omonimia, considerando che Seth non ha una goccia di sangue magico nelle vene e nemmeno conosceva qualcuno con dei poteri prima di venire in contatto con me e con Draco. Pansy, invece, che non ha mai abbandonato del tutto le sue reticenze sui babbani e sui mezzosangue, sta scandagliando da ore la sua stirpe: va abbastanza sul regime dell’eccezione, lei. I babbani sono tutti idioti, tranne Dean perché me lo sono sposato. Tranne la Granger, perché Draco qualcosa in lei ci doveva trovare.

Ed adesso deve anche spiegarsi la sua strana simpatia per Seth, trovando un’origine purosangue della sua piacevolezza.

Seth, peraltro, si è fatto abbastanza suggestionare da tutta la storia ed intervalla la ricostruzione della sua famiglia con aneddoti assurdi sulla sua infanzia, dove secondo lui sono evidenti i segni della sua latente magia: effettivamente perdere la maglietta arancione che gli aveva regalato sua zia e che lui odiava, oppure imparare a memoria la canzone di Natale in dieci minuti, sono tutti segni evidenti di magia, come negarlo. Quindi ciò credo che spieghi abbondantemente perché li ignoro per tutto il viaggio, per tutto l’atterraggio, per tutta la ricerca dei nostri bagagli e per quella di un mezzo di trasporto, che ci conduca in centro dal piccolissimo aeroporto di Tampere. È una giornata bellissima, colma di luce e sole, con il cielo da cartolina. La strada è costeggiata da alberi di pino ed abete che diffondono un quieto odore di bosco, muschio, rugiada. La gente stessa sembra vacanziera ospite di una natura ancora incontaminata: ogni tanto, vediamo spuntare un laghetto dalle acque verdi e trasparenti. È una bellissima terra, le persone sono cordiali ed educate, parlano quasi sottovoce come se avessero sempre paura di disturbare. Tampere è un’allegra piccola metropoli, attraversata da un fiume: il dislivello di una cascata è stato sfruttato per creare energia idroelettrica, una grande centrale di mattoni rossi torreggia vicino al nostro albergo. I viali sono ampi, con delle fioriere in cima ai lampioni, e c’è un aria rilassata e pacata. Mi piace molto questa città, sarebbe piaciuta anche ad Alex.

Mentre camminiamo, cercando di raccapezzarci con i nomi gutturali delle strade, Seth non la smette di fare foto con il telefonino, orientandosi prevalentemente sulla “fauna locale”, ossia su ogni individuo di sesso maschile che trova minimamente interessante. Appena obietto che lui è fidanzato, mi risponde che le guarderà con Kevin senza problemi, “siamo una coppia dal comune senso estetico”. Roteo gli occhi, armeggiando con la cartina, mentre Pansy procede indolente accanto a me, guardando le vetrine con aria annoiata e indifferente. Ma ogni tanto i suoi occhi vengono catturati da qualcosa e deduco che, in realtà, è molto interessata a tutto, ma ovviamente non vuole darlo a vedere.

Finalmente, dopo circa un’ora di tentativi, riesco a decifrare la cartina e le strade e, con un po’ di informazioni della gente del posto, riusciamo a trovare la strada dove vive Ilai Radcenko, il marito di Tatia. È una strada seminascosta, apparentemente deserta, in periferia. Piccole casette bianche ad un piano, circondati da fazzoletti di terra, spuntano da entrambi i lati della strada. Anche la casa di Ilai e Tatia non differisce di molto da quell’assieme asettico e sempre identico a sé stesso. La cosa che stranamente mi colpisce in tutto quel nitore accecante, è una siepe di fiori rossi che distingue la casa di Ilai da tutte le altre: mi chino a sfiorarli con la punta delle dita, sono fiori di ibisco e forse nemmeno dovrebbero crescere in Finlandia.

Toccando un petalo, sento un lieve pizzicore sul polpastrello: magia, sicuramente.

Almeno abbiamo la certezza che qui ci abitano dei maghi.

Ripasso con Pansy e Seth la versione che dobbiamo dare, ingiungendo a loro due di stare entrambi zitti: entrambi sbuffano, Pansy perché non crede alle mie capacità di Ex Capo degli Auror e Seth perché è costituzionalmente incapace di stare zitto per quarantacinque secondi di fila. Ma il mio celebre sguardo raggelante li fa tacere all’istante. O meglio fa tacere Seth, figuriamoci… Pansy continua a borbottare, ma almeno lo fa sottovoce.

Con un lungo sospiro, busso alla porta di acero bianco, su cui è appesa una ghirlanda di frutti piccoli e rossi. Dopo qualche minuto, trafelata, viene ad aprire una donna. Ha i capelli lunghi e castani legati in una crocchia scomposta sul capo, è un po’ in carne e dimostra circa una quarantina d’anni. Su una guancia rossa e sudata, ha un buffo sbuffo di farina.

Una donna… la guardo sovrappensiero. Forse ho sbagliato casa… magari Ilai non vive più qui… oppure… si è risposato.

In ogni caso, con voce ferma, chiedo: “Buongiorno signora… mi scusi per il disturbo… avrei bisogno di parlare con Ilai Radcenko… vive qui?”.

La donna si asciuga velocemente le mani su un canovaccio umido, sono anch’esse sporche di farina e pasta aggrumata. Getta uno sguardo confuso a me, Seth e Pansy e sussurra: “Chi lo cerca?”. Parla perfettamente inglese, per fortuna, non mi ero premunita di accertarmi che capissero la mia lingua. Ha solo un accento più duro e gutturale del mio, perfettamente acclimatato al suo aspetto.

“Sono Hermione Jane Granger… e loro sono due miei colleghi…” dico ferma, con un sorriso deciso “Sono il Capo degli Auror dell’Inghilterra… avrei da fargli qualche domanda in merito alla morte di sua moglie… Tatia Krasova…”. Al nome di Tatia, l’espressione della donna si rasserena e diventa più distesa, aprendosi ad un timido sorriso.

“Capisco… prego accomodatevi…”. Ci fa cenno di seguirla all’interno, in un piccolo salottino bianco con un divano rosso anch’esso. Nell’aria, c’è un odore invitante di cannella e mele. Seth lo fiuta come un cane da caccia, lo guardo con sguardo severo prima che dica qualche sciocchezza.

La donna si siede di fronte a noi, su una poltrona che sembra a malapena contenerla, e poggia lo straccio su un tavolino basso. Distrattamente noto una cornice, rossa anch’essa. Una foto di un matrimonio: riconosco subito Tatia perché Draco me l’aveva mostrata quando mi aveva riferito il suo messaggio dall’oltretomba. Ma nella foto sembra più giovane, più bella, straordinariamente felice. Ha un vestito semplicissimo bianco, stretto in vita, con una gonna a ruota lunga fino al ginocchio. Stringe il braccio di un ragazzo più alto di lei, abbronzato in viso, con capelli castani spettinati e un sorriso contagioso riflesso negli occhi scuri. Non sembra russo, né tantomeno finlandese. La foto della felicità di Tatia ed Ilai mi stringe il cuore, mi fa seriamente dubitare del fatto di essere venuta qui a disturbare quest’uomo dopo dieci anni dalla morte della moglie, e solo per i miei fini personali. Poi mi dico che comunque cercherò di scoprire davvero qualcosa sulla morte di Tatia, anche solo per mandare poi le informazioni a Beckwith, il vero Capo degli Auror inglese, così la sua morte non resterà impunita.

Inoltre, è strano da spiegare… ma da quando sono entrata in questa casa, ho la sensazione tiepida che Tatia voglia che io stia qui. La sento respirare sulla mia nuca, mi avvolge di un calore placido sulle spalle come una coperta di lana. Non è la sensazione sgradevole che sentivo quando Helena si metteva tra me e Draco, perlomeno nei miei pensieri e nelle mie percezioni. È una sensazione estremamente piacevole, invece. Mi scioglie la gola e mi fa sentire al sicuro.

“Ilai non è in casa al momento…” esordisce la donna, estraendo una bacchetta dalla tasca del grembiule a scacchi e facendo comparire del tè con dei pasticcini. Seth ci si fionda su come un assatanato, sotto lo sguardo pietrificato mio e di Pansy.

“Io sono sua sorella… Anya…” sorride la donna, mentre guarda Seth mangiare a tutto spiano, seminando briciole dappertutto “Da quando Tatia è morta… vivo qui con Ilai… non volevo lasciarlo solo… figuriamoci lui non avrebbe mai voluto che stessi qui, crede di potercela fare da solo… e sicuramente è così. Ma Tatia… è stata l’unica donna che abbia mai amato. Ed è morta in quella maniera orribile…”. Anya si asciuga silenziosamente un angolo dell’occhio destro con il grembiule, trattenendo un singhiozzo prima di chiederci: “Che cosa c’entra il Ministero inglese con la sua morte? Qui ormai le indagini sono chiuse da anni…”.

Mi ero preparata un’elaborata storiella, avrei alluso ad una pista di omicidi simili a quelli di Tatia che erano avvenuti in Inghilterra che ci avevano fatto pensare allo stesso omicida. Ma improvvisamente, la stessa mano che mi si è poggiata sulla schiena da quando sono entrata qui, mi suggerisce che sarebbe sbagliato mentire a questa donna, darle speranze inutili. Non posso raccontare la verità, tutta la storia… ma non è nemmeno giusto che dica una bugia. La mia bocca si apre senza controllo, e sussurro: “So che le sembra assurdo… ma qualcuno ha visto Tatia… nell’aldilà… lei ha chiesto a questa persona di farmi il suo nome e di ricordarmi di lei… io però non la conosco, non la conoscevo… forse Tatia vuole giustizia… dato che non è riuscita ad averla…”.

Anya resta sconvolta dal mio racconto, esattamente come Seth e Pansy che erano rimasti ad un’altra versione e che mi guardano esterrefatti. Ma sono sempre più convinta di aver fatto la cosa giusta: la cognata di Tatia ovviamente chiede numi e spiegazioni, e gliene fornisco sommariamente qualcuna, non alludendo però né a Draco, né a Raissa e Dimitri. Dico solo i particolari che ricordo dell’aspetto di Tatia e di quello che aveva detto. Anya rimane qualche secondo in silenzio, le mani tra i capelli, lo sguardo basso.

“Non voglio arrecare a lei o a suo fratello altro dolore… ma comprende che non potevo ignorare una cosa del genere…” sussurro timidamente, le mani che si torcono in grembo.

“Certo… e la ringrazio di essere venuta fin qui, per una persona che nemmeno conosce…” bisbiglia Anya, sollevando il viso “Non so che cosa potrebbe volere Tatia da lei… non so perché non abbia fatto avere a me o ad Ilai stesso questo messaggio, in dieci anni, se davvero ne aveva la possibilità… eravamo la sua famiglia… lei non aveva fratelli o genitori… eravamo la sola casa che aveva…”.

“Crede che vorrebbe vendicarsi?” chiedo esitante, sporgendomi nervosamente verso il tavolino ed afferrando un biscotto al burro che però non porto alle labbra. Anya esita un pochino, incassa le spalle e riflette qualche secondo. Poi, sospirando, chiosa sicura: “No, non lo credo… Tatia era una ragazza buona, gentile, generosa. Bastava guardarla per sentirsi a casa, al sicuro, felici… specie da quando aveva conosciuto Ilai. Erano una cosa sola. Davvero. Mio fratello l’amava così tanto… e lei lo amava nello stesso modo. Non credo che siano mai esistite due persone più innamorate di loro…”. Annuisco con il capo, già dalla foto mi era sembrato lampante il legame tra loro. Ne ho viste decine di foto di matrimoni nella mia vita, eppure qualcosa della loro mi spinge sempre a guardarla ancora, come se ci fosse qualcosa sotteso tra Tatia ed Ilai che l’occhio della fotocamera ha percepito, ma non è riuscito a fissare su pellicola. Penso a me e a Draco, al dolore che ci siamo portati dentro in questi anni… a come mi è sempre sembrato immenso come un’onda nera che avanzava implacabile in una landa deserta.

E poi penso ad Ilai… trovare morta la donna che ami. Trovare morto Draco, senza possibilità di salvarlo, di morire al suo posto, di morire con lui.

Credo che sarei davvero andata a pezzi. Stavolta, sul serio. Negli anni la mia forza è stata anche saperlo vivo. Che avrei fatto se un giorno Helder mi avesse detto che non lo sentiva più?

Deglutisco pesantemente, tornando al tempo presente. Chiedo cauta, con un filo di voce ad Anya: “Che mi dice del giorno della sua morte?”.

“Non le posso dire molto, signorina Granger…” bisbiglia Anya, guardandosi il grembiule e lisciandolo con le dita “Io vivevo a San Pietroburgo allora, con nostra madre. Seppi tutto quando le cose erano già accadute. Ilai la trovò morta in casa rientrando di sera… era il giorno del suo compleanno. Di Tatia, intendo. Compiva diciannove anni. Non c’erano segni d’infrazione, in casa non mancava nulla, non era stata derubata… né tantomeno…”, la voce di Anya esita un attimo, riprende forza con un lungo sospiro: “Non l’avevano toccata. Non era nemmeno ferita. L’autopsia rivelò solo un ematoma celebrale e delle profonde lesioni sempre a livello del cervello… come se l’avessero forzata a fare qualcosa che non voleva con la sua mente… con i suoi poteri… pensammo subito a qualcuno interessato alla sua dote di chiaroveggente…”.

“Era quindi abbastanza conosciuta per il suo dono, vero? Ed aveva ancora delle visioni quando morì?”.

“Certo che sì… facevano sempre parte di lei…” asserisce convinta Anya “Non era mai riuscita a controllarle, nonostante avesse sempre voluto fermarle. La facevano soffrire, la dilaniavano spesso. Quando Ilai l’aveva conosciuta, era spesso autenticamente devastata da queste premonizioni… ma poi con lui accanto, le aveva accettate. Ilai l’aveva convinta a pensare che facessero parte di lei e che, provenendo dalla sua mente, poteva fermarle. Ci era anche riuscita qualche volta, le viveva molto più serenamente adesso. Ma forse, così facendo, fermò anche la visione del giorno della sua morte e non riuscì ad evitarla…”.

“Aveva dei nemici? Persone che volevano farle del male?”.

“No, non si poteva fare a meno di volerle bene. Era piccola, dolce, sempre allegra. Ci hanno detto che forse sono state persone che ce l’avevano con suo padre… era un Mangiamorte, ma penso che lo sappiate… ma era morto da vent’anni… che diamine potevano volere ancora da Tatia? E poi viveva qui, in Finlandia… era felice…” Anya si interrompe per un attimo, ricacciando indietro le lacrime. Continua dopo qualche attimo di esitazione, la voce più tremula: “Inoltre anche le modalità della morte erano state strane, non erano da Mangiamorte. Niente Marchio Nero, niente rivendicazioni, niente minacce pregresse, niente di niente. Ma non si venne mai a capo di nulla. Ci dissero che forse volevano che si unisse ai Mangiamorte, volevano il suo potere di previsione del futuro per sapere se Colui che non deve essere nominato sarebbe tornato, dopo che era stato ucciso da Harry Potter… ma io non ci ho mai creduto. E nemmeno Ilai. Abbiamo fatto anche qualche indagine per conto nostro. Ma non siamo mai arrivati a nulla… non capisco perché Tatia stia cercando giustizia da lei, signorina Granger… non lo so davvero… se c’entrassero i Mangiamorte, lo stesso Capo degli Auror finlandese avrebbe trovato qualcosa… Tatia non vi ha dato alcun indizio che potrebbe fare luce sulla cosa?”.

Nego pensosamente con il capo, Tatia disse solo poche parole a Draco. Voleva solo che mi ricordassi di lei. Ma perché, maledizione? Per un attimo, inizio seriamente a dubitare della fiducia che ho riposto in questa strada. Mentre inseguo i miei pensieri, concedo però involontariamente a Pansy di aprire bocca, deve essersi scocciata del mio cambio di programmi e si deve essere convinta di essere giustificata a parlare anche lei.

“Tatia conosceva per caso una tale Raissa Karkaroff?!” la voce di Pansy mi fa trasalire e la guardo innervosita, aggrottando le sopracciglia e rimproverandola. Avevo deciso di attendere che tornasse Ilai per parlare direttamente di Raissa, e comunque l’avrei presa molto alla larga. Accidenti a lei! Pansy, senza scomporsi, bisbiglia velenosa: “Granger che tu finga di essere ancora il capo degli Auror, non ti rende tale… e soprattutto non ti rende il mio di Capo…”. Seth guarda entrambe come un bambino guarderebbe la mamma e il papà quando litigano, e ci bisbiglia di stare calme. Sospiro profondamente, tornando a guardare Anya che non ha seguito il nostro silenzioso scambio di opinioni.

“Ricordo una Raissa…” medita Anya con calma, grattandosi la nuca “Era un’amica di Tatia ed Ilai… ma non si vedevano da anni, dall’inizio della Seconda Guerra Magica… lei era partita per un lungo viaggio… infatti mancò anche al matrimonio di Ilai… tornò con suo fratello solo per il funerale di Tatia… erano entrambi sconvolti dalla fine della loro amica…”.

Il legame quindi c’è, constato superficialmente. Non che avessi qualche dubbio: quindi Raissa aveva volutamente negato quel giorno di conoscere Tatia. E doveva anche aver strappato la pagina del libro di Pansy, prima che collegassimo lei e Tatia. Questo, ovviamente, mi puzza. Aveva evidentemente qualcosa da nascondere. Il lungo viaggio di cui Anya ha parlato, facendo un po’ di calcoli, dovrebbe essere quello che lei e Dimitri avevano fatto per trovare Adamar, da cui avevano ottenuto la Conoscenza Assoluta. Sicuramente, se non si erano fatti vivi al matrimonio di Tatia che a quanto pare è avvenuto in piena guerra, deve essere stato perché erano nascosti: Draco mi aveva raccontato che aveva salvato loro la vita, proteggendoli dal pericolo che Voldemort li reclutasse nelle sue schiere di Mangiamorte a causa dei loro poteri. Eppure, continua ad esserci qualcosa che mi sfugge. Se era solo una sua amica, perché non dirci subito chi era? Mi ricordo perfettamente l’espressione di Raissa, quando le chiesi di lei, anche se non allusi assolutamente al messaggio che aveva dato a Draco nell’aldilà. Raissa rimase assolutamente indifferente. Né un ricordo, né un segno di cedimento. Poteva anche non avere voglia di condividere la cosa con noi, ok, ma quella freddezza… come faceva ad essere devastata per la sua morte e poi a ricordarla come un pezzo di ghiaccio cinque anni dopo? C’è decisamente qualcosa che non torna.

Comunque a quanto pare anche Ilai la conosce. Anya ha detto che era un’amica di entrambi. Quindi forse lui sa qualcosa: Tatia deve avermi guidato qui perché Ilai sa qualcosa.

“Credi che Ilai sappia dove sia Raissa adesso?” chiedo, senza giri di parole, suscitando la reazione soddisfatta di Pansy, dato che sembra che abbia appreso al meglio la sua lezione di interrogatorio.

Anya nega energicamente con il capo: “No, non credo proprio… Ilai ha tagliato i ponti con tutto il suo passato in Russia… troppi ricordi… non credo che la senta ancora…”. Le mie spalle si afflosciano alla risposta di Anya e il cuore mi rotola fino alle scarpe, e credo che anche Pansy e Seth provino qualcosa di molto simile. Eppure, la stretta calda alla nuca non mi abbandona, non mi lascia in pace. C’è qualcosa, ancora qualcosa che devo capire. Non è possibile che essere venuti qui sia stato inutile. Non lo credo, non può essere. Devo aspettare che torni Ilai. Magari Anya non lo sa, ma si sentono ancora. Comunque lui è il solo a potermi dire davvero come stavano le cose tra Tatia e Raissa. Anya deve saperne poco quanto niente.

“Potrei dare un’occhiata alle cose di Tatia per favore?” chiedo improvvisamente ispirata, aggrappandomi disperatamente all’ultima cosa che mi è venuta in mente. La tensione di Pansy, accanto a me, suggerisce che, se fosse per lei, Crucerebbe Anya per farle ammettere quello che, secondo lei, sa e non dice. Ma io, invece, non credo che ci stia omettendo volutamente qualcosa.

E’ evidente che non sa davvero nulla di Raissa.

“Certo…” annuisce con un sorriso, guidandomi in una stanza laterale che deve essere la camera da letto di Ilai e Tatia. Anche qui, il colore dominante è il rosso che risalta sanguigno contro il bianco delle pareti. Rosso il copriletto, rosse le tende, rossa una piccola poltrona. E rossa è la scatola di cartone che Anya esce dall’armadio e mi porge delicatamente.

Una scatola rossa. Un’improvvisa scossa mi scuote i nervi, facendomi rabbrividire: Draco. La scatola di Helena. L’odore di ciliegia. Anche Draco aveva una scatola rossa per il ricordo della donna che amava. Ilai ne ha una uguale. Più vado avanti e più mi convinco che non è una coincidenza che sono qui, che non è un caso che sono arrivata in questa casa.

Tatia vuole che io sia qui, vuole che scopra qualcosa proprio qui.

Apro la scatola con deferenza, accanto allo sguardo commosso di Anya e a quelli curiosi di Seth e Pansy che non riescono ovviamente a capire il mio interesse. Cosa che peraltro, da una prima occhiata sfugge anche a me. Sono ricordi di una vita spezzata, ricordi di sogni interrotti, ricordi di illusioni bruciacchiate: tutto commovente, tutto straziante, tutto doloroso.

Ma anche tutto al contempo normale ed eccezionale come una qualsiasi delle miliardi di vite che affollano il mondo. Fotografie, un’agenda, una cartolina, una bambola di pezza, un fiore secco, un paio di scarpette da neonato sempre rosse. Le guardo superficialmente, intenerita sì, ma non interessata.

Poi, improvvisamente qualcosa attira la mia attenzione: un libro. Comune. Un libro qualsiasi. Vecchio, polveroso, dalla copertina strappata.

Lo esco delicatamente come una reliquia, ne leggo il titolo a rilievo ed il mio cuore perde un colpo.

Profetesse Europee. Storia della Divinazione femminile attraverso i secoli.

Il libro di Pansy. Il libro a cui Raissa strappò la pagina che parlava di Tatia: un’altra copia dello stesso libro. Ancora non può essere una coincidenza. Non può. Lo sfoglio velocemente, qui la pagina mancante su Tatia ovviamente c’è, per il resto sembra uguale al libro che ho già visto da Pansy. Però, mentre lo finisco di sfogliare sconfitta, pregustando già il sapore amaro dell’ennesima coincidenza senza senso alcuno, i capelli mi si drizzano sulla nuca. La stretta calda ha quasi le fattezze di una mano rovente poggiata sul mio capo. Deglutisco con forza, cercando di far scivolare giù un peso sulla gola che mi ha quasi chiuso la respirazione. È qui che mi voleva portare.

Tra l’ultima pagina e la copertina, c’è una busta rettangolare di carta rossa: una lettera. Con poche lettere scritte in cirillico. È chiusa, sigillata, da uno stemma bianco di ceralacca. La estraggo con cura, reggendola tra due dita come se scottasse. Seth e Pansy la guardano senza capire, mentre Anya invece resta inerme, come se l’avesse già vista.

“E’ l’ultima cosa che ha lasciato Tatia. Una lettera. Scritta chissà quando…” aggiunge con un filo di voce, chiudendosi nelle spalle “Ilai l’ha trovata un mese dopo la sua morte, in quel libro. Ma non si può aprire… non sappiamo che cosa c’è scritto…”.

“Non si può aprire?!” chiede Seth sconcertato, mentre un’ondata di brividi mi travolge. Anya annuisce ancora, indicandomi la scritta sulla busta: “E’ protetta da un incantesimo forte, che non siamo mai riusciti a rompere. Potevamo forzarlo, ma avremmo distrutto la lettera stessa. È stato il tormento di Ilai per anni… specie per quell’iscrizione…”.

“Che cosa d-dice?” chiedo, tremando a disagio, guardando Anya e reggendo la busta tra le mani.  

“Tre parole…” soggiunge Anya, guardando le lettere nere sulla carta rossa “Tre parole senza senso… dice: il tuo nome.”.

Rabbrividisco, annaspo e stringo la lettera tra le mani. Improvvisamente tutto mi appare chiaro. Nitido, definito, incontestabile. La stretta sulla nuca diventa dolce, quieta, tranquilla, ispirandomi curiosamente a piangere. Dille che ricordi il mio nome. Il messaggio dato a Draco, quel giorno. Il tuo nome.

La lettera è per me. E’ sempre stata per me.

Solo una cosa può provarlo adesso.

Senza esitare, il respiro affannato, gli occhi allucinati, giro la busta di carta in modo da avere il sigillo di ceralacca davanti agli occhi. Lo avvicino alle labbra e sussurro con un filo di voce, sotto lo sguardo attonito dei presenti: “Sono Hermione Jane Granger”. Il sigillo si spezza nel mezzo, emettendo un piccolo bagliore perlaceo. La busta si apre tranquillamente, come se nulla fosse.

All’interno, un paio di fogli scritti con una grafia precisa e tondeggiante. La lettera era per me.

Anya mi guarda sconvolta, mi stringe forte per un braccio ed osserva avida la lettera, biascicando: “Si è aperta… era… è sempre stata… per te, Hermione Granger…”. Sconvolta, annuisco con un sospiro spezzato mentre Seth e Pansy osservano le mie manovre, ormai del tutto atterriti e silenti. Una lettera di una donna che non ho mai conosciuto… mi aspettava qui, da dieci anni.

Ha sempre voluto che venissi qui. Le parole dette a Draco, erano la chiave per capire.

Che cosa mi avrà scritto in questa lettera dieci anni fa? Dieci anni fa… avevo diciotto anni, avevo appena sconfitto Voldemort, stavo con Ron.

E se… da allora… lei avesse sempre saputo tutto?

Estraggo i fogli velocemente, improvvisamente arsa dalla voglia di sapere. Dalla busta cade una strana pietra, rossa, lucida, come un pezzo di ambra, ma rossa, appunto. Stringendola tra le dita, avverto del potere magico intenso, forte. Ma mentre mi sto chiedendo di che cosa si tratta, la lettera di Tatia mi vola via dalle mani in un soffio, atterrando poco lontano. Mi volto in direzione della porta, irata, furibonda, sentendomi defraudata. Ma poi mi arresto così, sgonfiandomi progressivamente.

Fermo sulla soglia, con una spalla appoggiata allo stipite ed una bacchetta sguainata rivolta verso di noi, Ilai fa improvvisamente la sua comparsa. Stringe nella mano destra i fogli della lettera che mi ha sottratto pochi istanti fa, mentre mi guarda severamente, uno sguardo duro e roccioso negli occhi scuri. Non appare molto diverso dalla foto che ho visto poco fa, sebbene siano passati dieci anni. Ha capelli ispidi e scuri sul capo ed occhi dello stesso colore, sembrano due immense pozze di petrolio. I lineamenti sono marcati, scolpiti nella pietra di un’espressione perennemente accigliata. È molto alto, più di me sicuramente, ma anche più di Draco o di Dimitri, e sembra schiacciare tutti con la sua altezza, il soffitto della stanza sembra a malapena contenerlo. Qualcosa nel suo viso mi ricorda Draco, quando lo rividi al Petite Peste: i gesti mozzicati, gli occhi tristi e stanchi, le labbra serrate. Il viso di uno uomo che ha perso la donna che amava. Hanno qualcosa di così straordinariamente comune lui e Draco, da darmi quasi le vertigini. E vedendo l’espressione di Seth e Pansy, capisco che anche loro hanno avvertito la stessa acuta sensazione. Ilai, per un po’, si limita a fissarci facendoci sentire sgraditi ospiti nella sua casa e nella sua vita, mentre continua a stringere i fogli della lettera di Tatia. Quando parla, la voce è greve, pesante, ma a suo modo melodiosa.

“E’ una lettera di mia moglie… e si dà il caso che sarò io a leggerla… fosse anche che è stata lei, signorina Granger, ad aprirla…” ingiunge severamente al mio indirizzo, facendomi intuire che evidentemente deve aver seguito tutta la scena senza che ce ne accorgessimo. Sembra completamente disinteressato a me o a Seth e Pansy, e sembra anche completamente indifferente al motivo per cui siamo qui e stavamo frugando tra le sue cose. Tutto il suo essere è catalizzato dalla lettera, l’ultima cosa che Tatia ha lasciato di sé. Come ha preannunciato Anya, deve esserne stato effettivamente ossessionato per anni. Lo capisco, ci mancherebbe. Anzi, se sono stata il modo per fargli avere le ultime memorie della donna che amava, ben venga. Mi fa sentire un po’ meno in colpa per essere venuta qui a sconvolgergli la vita. Quindi annuisco immediatamente, abbassando vergognosamente lo sguardo. Certo, brucio ancora dalla voglia di sapere qualcosa, anche perché tecnicamente la lettera è per me, non per Ilai. Ma non conoscevo questa donna in fondo. Suo marito ha ogni diritto di leggerla prima di me.

Qualcosa, però, succede prima che lui possa iniziare a leggere. Ilai, infatti, abbandona le braccia lungo i fianchi, dopo che, con un altro gesto lieve della bacchetta, ha sospinto di nuovo i fogli verso di me. Li prendo di nuovo in mano senza capire, guardandolo dall’altra parte della stanza con espressione interrogativa.

“L’inchiostro sparisce, se la tocco io…” asserisce freddamente “Tatia deve averla destinata a lei personalmente… mi farebbe la cortesia di leggerla ad alta voce, signorina Granger?”. Ha un tono sofferto e stanco, eppure sempre resettato su una galanteria naturale e su una nobiltà incontestabile, specie evidentemente quando si rivolge ad una donna. Gli occhi, però, sono cupi, bigi, spenti. Si chiede perché la lettera sia per me, per una sconosciuta. E non per lui. Imbarazzata, me lo chiedo anche io. In Ilai, però, scorgo i germi di una rassegnata consuetudine. Deve essere stato abituato negli anni alle stranezze della sua consorte. Forse questa è solo una fra le tante, forse persino in una cosa del genere c’è chi ritrova un affetto perduto e sorride di dolorosa nostalgia.

I fogli non appena li riprendo in mano, ritornano pieni di parole scritte da una mano frettolosa. Tatia deve aver stregato la carta per far sì che la leggessi solo io. Chissà se posso davvero leggerli ad alta voce, a tutti. Dubbiosa, li soppeso fra le mani con esitazione. Poi, rompendo gli indugi e respirando forte, inizio a leggere ciò che Tatia mi ha scritto dieci anni fa.

 

E’ strano scriverti, Hermione Granger.

Non è strano perché io non ti conosco, tu non mi conosci e non ci conosceremo mai.

A queste cose ti abitui quando sei una profetessa: entri continuamente nelle vite e nei destini intimi degli altri senza che questo, alla fine, ti sconvolga. È un’abitudine lacerante, ma ci si abitua a tutto, anche alle cose più strane e senza spiegazione. E sebbene per tutta la mia vita io mi sia sentita una  pettegola che spia la polvere in casa degli altri, ormai questo conta davvero poco. Specie adesso.

È strano scriverti, Hermione Granger,  perché, tra quindici minuti esatti, mi uccideranno.

Non trovi assurdo che, adesso, io stia scrivendo a te, ad una perfetta sconosciuta, a pochi minuti dalla mia morte? Io lascio il mio testamento ad una donna che non conosco, e lascio all’oblio della mia morte tutto il resto della mia vita. E’ assurdo, vero? Ho diciannove anni, sto per essere barbaramente assassinata, mi sono appena sposata, non sarò mai madre. Dovrei correre, scappare, cercare una via di fuga. Inseguire vendetta o giustizia. O perlomeno, dovrei dire adesso a mio marito che lo amo, che mi dispiace. Dirgli che quest’anno assieme è stato il più bello della mia vita. Ma lui questo lo sa. Lo deve sapere, sennò vuol dire che non ci siamo mai amati abbastanza. E questo non lo credo.

Scappare non serve, ti abitui anche all’impotenza quando sei una profetessa. La vendetta e la giustizia, in un contorto modo, sono legati a te, tra poco lo capirai.  Ma in realtà più che la condanna per chi mi farà questo, a te io chiedo l’assoluzione per me stessa.

Perché  se stai leggendo questa lettera, vuol dire che tutto quello che mi è stato mostrato stamattina, è successo davvero. Vuol dire che il futuro che mi si è dipanato davanti agli occhi, i tuoi prossimi dieci anni sono davvero accaduti.

Ed allora, se sei qui, la colpa è solo mia ed è giusto che tu lo sappia.

Quando sei una profetessa, impari una cosa importante. La Vista ti concede di spiare solo un destino, quello più probabile. Ma è solo uno, uno soltanto:  dalle decisioni più piccole, nascono conseguenze impensabili. E milioni di destini, tutti diversi. Il libero arbitrio esiste, non dubitarne mai. Per questo, una parte di me spera che tu non arrivi mai a leggere questa lettera, spera che la tua strada sia diversa, spera che adesso per miracolo io abbia persino sbagliato. Potrei impedire tutto anche adesso, spedendoti questa lettera, ma forse peggiorerei il tuo futuro, forse ti cambierei la vita in peggio. Lascerò a te il modo di decidere chi amare e che cosa fare. In un confuso quanto assurdo modo, mi fido di te. E forse, se davvero sei arrivata a questa lettera, non cambieresti una virgola di quello che hai scelto.

Perché se sei qui, adesso, tu ami di un amore impossibile ed incomparabile Draco Malfoy ed hai un meraviglioso bambino di nome Alex. E sono certa che, nonostante il dolore che hai provato, non cambieresti nulla di questo. Sceglieresti sempre Draco, daresti sempre la vita ad Alex.

Ma, mentre adesso ti scrivo, sei un’eroina del Mondo Magico, hai appena sconfitto Voldemort, hai un fidanzato che ami da anni, stai per diventare Auror, Draco Malfoy a stento lo sopporti. Nella migliore delle ipotesi, se avessi questa lettera, la getteresti prima ancora di finirla. Nella peggiore, faresti di tutto per non realizzare questo futuro.

Quindi, adesso, io ripongo la mia fiducia in te e nelle tue scelte.

Nasconderò questa lettera appena la finirò, così, solo tu stessa, da sola, sceglierai di amare Draco Malfoy. A me stessa, lascerò solo la possibilità di aiutarti se verrà il momento. Tra qualche anno, esattamente cinque, non so bene come, incontrerò Draco Malfoy nell’aldilà: gli chiederò come si chiama la sua donna. Se mi dirà il tuo nome, sarà il segnale che tutto quello che ho visto, è successo. Ed allora sarà il mio dovere aiutarti: donerò a Draco il mio di nome, così tu verrai a cercarmi. Indirettamente: perché sei a casa mia per cercare Raissa Karkaroff.

La mia assassina.

Il destino che ho cercato di cambiare, Hermione Granger, è stato questo: so dall’età di dieci anni che Raissa Karkaroff mi avrebbe ucciso non appena ne avessi compiuti diciannove. E lei è mia sorella, in tutti i modi in cui due persone possono essere sorelle senza mettere di mezzo il sangue.

Siamo cresciute nello stesso paesino e lei e Dimitri sono sempre stati per me i miei fratelli maggiori.  La mia era una vita solitaria, lo è sempre stata: mia madre era sola, vedova, disperata, spesso beveva e si assentava da casa per mesi. Io, poi, avevo questo dono maledetto, vedevo il futuro, profetizzavo tragedie e morti di cui già il mondo era saturo. Avevo un anno e mezzo, quando ho visto la morte di mio padre. Credo che mia madre da quel momento, mi abbia sempre odiato. Per quello, mi lasciava spesso da sola. Ero piccola, molto, quando i nostri vicini di casa si resero conto delle sue continue assenze. Erano in tre, Dasha e i figli Raissa e Dimitri, poco più grandi di me. Raissa e Dimitri sono sempre stati per me due fratelli. Premurosi, accondiscendenti. Mi hanno sempre viziato ed amato come se fossi davvero la loro sorella minore. Per me, che ero sola, senza amici ed evitata da tutti, erano la salvezza.  Sono sempre stati affascinati ed incuriositi dal mio dono. Mi facevano domande, prendevano appunti, collegavano eventi a me, mi sfidavano a prevedere il futuro, ed anche se le visioni non arrivavano mai a comando, per me e per loro era un gioco divertente. Mi faceva sentire potente ed ammirata, mentre loro erano sempre più curiosi di capire “come funzionassi”. All’inizio, credo che la loro fosse solo curiosità, poi divenne il desiderio altruista di fermare un potere che spesso mi faceva soffrire, dopo divenne solo un’insana ossessione che ebbi la sciagura di capire troppo tardi. Facevo tutto quello che Raissa mi diceva, le riferivo le profezie prima che ai diretti destinatari, accettavo che mi facesse degli incantesimi per vedere quello che vedevo io nella sua testa, o che mi somministrasse il Veritaserum per sapere se mentivo. Dimitri non era meno ossessionato di sua sorella, ma era tenero e gentile con me, mi trattava come una principessa, mi faceva regali. Io ero tutto per lui, me lo diceva sempre. Credo di aver sempre inconsciamente pensato che, un giorno, ci saremmo sposati. Non mi ha mai detto che mi amava e non so se io, nel mio infantile modo, lo abbia davvero amato. Ma era qualcosa di così naturale pensarmi un giorno come sua moglie, che non sapevo nemmeno concepire per me un futuro diverso da quello che mi avrebbe legato per sempre a lui.

Poi arrivò quel giorno di settembre di nove anni fa.

E la mia vita cambiò per sempre.

Era la sera prima del mio primo giorno di scuola a Durmstrang, e correvo in giardino sotto la luna piena. Dimitri e Raissa mi ingiunsero di stare attenta, ma mi sentivo felice, contenta, serena, amata. Caddi e mi sbucciai un ginocchio, Raissa e Dimitri vennero immediatamente ad aiutarmi.

Il sangue della mia ferita… sulle loro mani.

Mi si annebbiò la vista, persi i sensi. Ed ebbi la mia prima visione di me, a diciannove anni, che venivo assassinata da Raissa.  Il mio mondo, tutto quello che credevo, tutto quello che sapevo, si rovesciò come un castello di sabbia nel vento. Ebbi la febbre per giorni, nella mente solo il dolore della ferita che lei mi avrebbe inferto e che non era nulla in confronto al terribile laceramento di sentirmi odiata da quella che, per me, era una sorella. Avevo sentito il suo odio, la sua rabbia, la sua violenza. E questo, faceva più male di tutto il resto. Dimitri ci sarebbe stato, ma non mi avrebbe salvato, mi avrebbe pianto, ma non avrebbe fatto nulla per impedire a Raissa di uccidermi.

Per settimane, evitai Raissa e pensai al modo in cui potevo impedire quel futuro.

Non era facile cambiare le visioni, non lo è mai stato, occorreva desiderare con tutte le proprie forze, richiamare le forze positive sul futuro. Ero poco più di una bambina e, come se non bastasse, non capivo perché Raissa potesse desiderare di uccidermi, fosse anche in un solo futuro possibile. Poi capii che era la sua ossessione per me che l’avrebbe portata a questo. Il desiderio malato di capire come funzionasse la mia mente, da dove venissero le mie visioni, il mio potere. Dovevo cercare per lei un desiderio che fosse più grande di questo. Non sapevo quale potesse essere, pensai scioccamente al fatto che lei fosse felice, serena, appagata e realizzata. Era mia sorella, volevo il suo bene prima ancora che il mio. Non volevo rinunciare a lei e a Dimitri, concretamente e scioccamente ero aggrappata a loro. Per anni mi avevano convinto che fossi una specie di creatura divina, a cui tutto era concesso e nulla poteva essere negato. Ero sicura che avrei potuto trovare un modo in cui impedire quel futuro. Mi affidai totalmente al mio potere, cercando di canalizzare tutta la positività che potevo sul futuro. Qualcuno esaudì il mio desiderio.

Mandò l’amore a Raissa.

Il giorno in cui lei mi rivelò con lo sguardo colmo di lucciole che era innamorata, la visione sparì. Il mio futuro appariva denso e dubbioso, ma una cosa era certa: né lei, né Dimitri avrebbero attentato alla mia vita. Fu il giorno più bello della mia vita fino a quel momento. Il mio destino, incerto come quello di tutti gli uomini, mi sembrava comunque risplendere di vita e luce propria. Tutto grazie a questo ragazzo arrivato nel mio paese in un giorno di inizio estate. Era coetaneo di Dimitri, quindi aveva un anno in più di Raissa e quattro più di me, e lei se ne era innamorata perdutamente, a quanto pare anche abbastanza ricambiata. Uscivano assieme e lei parlava sempre di lui, me lo descriveva con meravigliosi aggettivi, diceva che voleva sposarlo una volta diventata maggiorenne. Io mi sentivo la fata buona di una fiaba: me lo avrebbe presentato la sera del solstizio d’estate. Nel nostro paese, si teneva sempre una festa in quell’occasione, ballavamo, cantavamo, giocavamo attorno al fuoco, le montagne che stormivano all’orizzonte, la luce sospesa delle notti chiare della Russia. Raissa voleva sapere che ne pensavo di lui, ero la sua sorellina, bramava la mia approvazione più di qualsiasi cosa al mondo. Accettai, ovviamente, ero felicissima, quella sera Raissa mi regalò un suo bellissimo vestito blu notte con la gonna a ruota, ballavo davanti al fuoco e mi divertiva vedere le pieghe della gonna ruotare. Vidi arrivare da lontano Raissa con Dimitri, mi fermai e li corsi incontro. Sorrisi ad entrambi, mi indicarono il ragazzo accanto a Raissa e me lo presentarono.

Hermione, pensa al momento in cui hai capito di amare Draco.

Pensa al momento immediatamente successivo a quella consapevolezza.

Pensa a quando l’hai guardato.

Tutto contemporaneamente esplode e trova posto.

Prima senti il vuoto deflagrante della desolazione, il cupo silenzio del tuo petto, l’eco dei frammenti sparsi. Poi, immediatamente dopo, è ruscello, alluvione, maremoto. Ovunque. Anneghi, soffochi, annaspi. Improvvisamente colma, al punto che trabocchi. Di lui.

Non sapevo nemmeno che significava, fino a quella sera, fino a quando quel ragazzo mi tese la mano e mi disse sorridendo il suo nome.

Ilai.

Dimitri non era amore: era affetto, cura, dedizione, pazienza, dolcezza.

Non era Ilai.

Non sarebbe mai stato Ilai.

Il destino mi aveva fatto pagare il prezzo del desiderio: volevo la vita? Volevo Raissa e Dimitri nella mia vita? Il prezzo era innamorarmi follemente del ragazzo di Raissa.

Ovviamente l’avrei accettato, andava bene.

Ilai era bello da spezzare il fiato, era forte, generoso, divertente. Stare con lui mi faceva dimenticare chi ero. Non ero il fenomeno da baraccone con le visioni e i destini da intrecciare: ero una ragazzina felice, allegra, che voleva tutto dalla vita e se lo sarebbe preso. Non mi sentivo onnipotente, mi sentivo debole, fragile, pronta ad andare sempre in pezzi. Lui soltanto riusciva a tenermi assieme. Diventammo amici, uscivamo spesso con Raissa e Dimitri… lentamente, tra Ilai e Raissa le cose iniziarono ad andare peggio, lui non aveva occhi che per me.

Il vero prezzo del destino che avevo scelto, non era che io mi innamorassi di Ilai.

Era che lui si innamorasse di me.

Ci baciammo il giorno del mio sedicesimo compleanno. Non appena mi baciò, toccai contemporaneamente l’inferno e il paradiso: la visione tornò.

Raissa mi avrebbe ucciso il giorno del mio diciannovesimo compleanno. 

Dimitri e Raissa non ci misero molto a scoprire di me e di Ilai, andarono su tutte le furie, mi chiamarono puttana e traditrice. Sentii il loro odio e pensai che forse non sarei nemmeno arrivata al mio diciannovesimo compleanno, mi avrebbero ammazzato prima. Scoprire cosa era l’amore ebbe l’effetto di rendermi coraggiosa al punto tale da capire che dovevo sciogliere i legacci, che mi tenevano avvinta ai Karkaroff. Quello per loro, era un sentimento malsano, non meno di quanto non fosse il loro attaccamento a me. Dovevo tagliare i ponti, tutto. Pensai di fuggire, ma sapevo che probabilmente non sarebbe servito. Cercai quindi un nuovo desiderio dentro di me, stavolta disinteressandomi completamente se esso li avrebbe portati lontano da me. Se l’amore non li aveva salvati, dovevano allora diventare più potenti, perdere interesse in me, capire che in fondo il mio potere era qualcosa di scontato, stupido, irrilevante.

Stranamente anche questa volta fui ascoltata.

La visione sparì più o meno nello stesso momento in cui vennero a sapere dell’esistenza di Adamar, il demone delle fragilità umane. Decisero di partire per ottenere la Conoscenza Assoluta, forse anche per allontanarsi da me e da Ilai, convinti che sarebbero ritornati così potenti da far ritornare le cose a posto.

Dimitri mi chiese di aspettarlo.

Non lo feci.

Mi fidanzai ufficialmente con Ilai, lo sposai.

Non sapevo quanto tempo avevo, la visione era sparita, certo, ma poteva tornare. E poi era ricominciata la guerra, io ed Ilai potevamo anche morire in un modo assolutamente imprevisto alle mie visioni.  Volevo disperatamente stare con Ilai.

Ci trasferimmo a Tampere e credetti di aver trovato la gioia.

La guerra finì, vinse Harry Potter. Io ed Ilai stavamo bene. Dimitri e Raissa non erano tornati, forse erano morti in guerra o non avevano superato le prove di Adamar.

Una mattina, vidi nei miei pensieri una bambina. Pensai che fosse mia figlia: era bionda, aveva due grandi occhi nocciola-verdi, si chiamava Charlotte, il nome che avrei sempre voluto dare ad una mia bambina. Mi salutava e mi ringraziava, dicendomi che era andato tutto bene. Le credetti. Sbagliai.

Dimitri e Raissa sono tornati qualche mese fa.

Non sono più le persone che conoscevo, specie Dimitri. Sono diventati potenti, implacabili, hanno perso l’amore per il padre che tanto avevano amato. Si sono incattiviti a causa della guerra che hanno passato nascosti per evitare che il Signore Oscuro ne facesse dei loro seguaci.

Li ha salvati un tale Draco Malfoy.

L’ho odiato, ma adesso non conta più niente, si odierà lui stesso per quello che ha fatto.

Sapevo che era questione di tempo prima che la visione tornasse.

Stamattina, ho espresso un altro desiderio: il mio ultimo desiderio, da egoista. Avevo Ilai negli occhi che rideva, indicandomi i fiori rossi del giardino. Ed avevo ancora l’immagine di Charlotte nella testa. Senza pensare, senza rendermene conto, piangendo tra me e me, ho pregato che qualcuno prendesse il mio posto, che trovassero un’altra da tormentare, che finalmente mi lasciassero in pace. E sono stata accontentata.

Mi sarà data la pace con la morte. E troveranno un’altra.

Sarai tu, Hermione Granger.

Per questo sei qui, oggi: perché imprudentemente io ho espresso questo desiderio. Senza peraltro avere nessuna garanzia di salvarmi, anzi accelerando solo la mia fine. Ma a questo punto, davvero, mi va anche bene morire oggi. Sono stata felice, ho rischiato tutto per stare con Ilai e ho perso. Mi hanno promesso la pace con la morte. Ma non posso perdonarmi di aver coinvolto te, un’innocente, e Draco Malfoy. Non posso perdonarmi. Quindi ti dirò tutto quello che so per aiutarti a trovare Raissa. Se tutto quello che ho visto è accaduto, li hai conosciuti per liberarti di un maleficio. Hanno detto a Draco di Adamar, magari Dimitri sperava persino di liberarsi di lui. Dimitri ti ha rapito e condotto al suo castello, hanno ingannato Draco per fargli credere che non lo vuoi più, ti sei scoperta incinta, hai avuto un figlio. Sei stata in una sorta di esilio per tutti questi anni, sei tornata adesso e sei alla ricerca di Draco. Ti hanno detto che Raissa potrebbe essere ancora con lui.

Quello che non sai, è la parte che ha Raissa in questa storia. L’hai creduta innocente per anni, ma adesso hai iniziato a sospettare di lei, forse da quando hai collegato me e lei. Ed ovviamente adesso, sai di aver avuto ragione. Lei non mi ucciderà volutamente, lo farà per spaventarmi e darmi una lezione, quando tra poco verranno. Ma non saprà controllare i suoi poteri e mi ucciderà. Dimitri sarà distrutto dalla cosa, la odierà, vorrà ucciderla. Raissa stessa vorrà uccidersi, non tanto per il senso di colpa per quello che mi ha fatto, ma per Ilai, per il fatto che lui la odierà per quello che ha fatto. Lo ama ancora, lo amerà sempre. Ed è questa la parte peggiore di tutto. Io non posso permetterle che abbia Ilai, in nessun modo posso lasciarle l’uomo che amo.

Dimitri e Raissa saranno complici come sempre.

Nasconderanno le tracce del loro passaggio in casa mia, si procureranno un alibi, piangeranno al mio funerale. E stringeranno un Voto Infrangibile: Dimitri prometterà a Raissa di non dire nulla ad Ilai di lei e della parte che ha avuto nel mio omicidio, purché lei lo aiuti qualora un giorno trovassero una donna che susciti in Dimitri lo stesso amore ed interesse malsano che gli ho suscitato io.

Ed un giorno Dimitri la troverà.

Sarai tu.

E chiederà a Raissa di aiutarlo a portarti via da Draco Malfoy. Lei sarà esitante ed incerta, ma avrà ripreso a frequentare Ilai anche se solo come amica, e quindi terrorizzata che il fratello gli riveli tutto della mia morte, accetterà di aiutarlo. Sarà lei a suggerire l’incantesimo per far assumere ad Astoria il tuo aspetto e i tuoi pensieri, sarà lei a far cadere le barriere di Villa Parkinson e sarà lei a scegliere di seguire Draco Malfoy, per controllarlo. Dapprima lo farà per impedire che lui ritorni da te, ma quando tu sparirai, lo farà per riportarti da Dimitri qualora tu torni da Draco stesso. Non vedo oltre, non so dove sono, non so che cosa stiano facendo, non vedo nemmeno che fine abbia fatto Dimitri adesso nel momento in cui tu vivi e leggi questa lettera. Forse non lo vedo perché è morto. Una cosa, però, la so per certo. Raissa non lascerà mai andare Ilai. Continuerà a sentirlo, a scrivergli lunghe lettere, mentre sarà con Draco. Ilai sa perfettamente dove è. Non te lo dirà, ovviamente, fino a quando non gli leggerai questa lettera, credo che Raissa nel corso degli anni gli racconterà una serie di fandonie per cui non può tornare in Russia, forse mettendo anche di mezzo il Ministero inglese, dicendo che ha delle grane con loro da risolvere. Ma appena gli leggerai questa lettera, Ilai capirà tutto, ti aiuterà, ti dirà dove Raissa si trova. Digli che deve perdonarmi per non avergli detto nulla, per non aver lasciato che trovasse questa lettera, per non avergli detto che era stata Raissa ad uccidermi. Mi odierà probabilmente, mi odia già adesso mentre leggi questa lettera che è l’ultima cosa che ho lasciato e che non era per lui. Ma io dovevo proteggerlo, Hermione Granger: l’altra cosa che ho visto del futuro è che, se Ilai avesse affrontato da solo Raissa o Dimitri, sarebbe morto. Stando con te, sarà al sicuro. Ti affido la sola cosa che mi è rimasta, Hermione Granger: ti prego, proteggilo come proteggeresti Draco o come proteggeresti tuo figlio. È la sola cosa che ti chiedo, e so che non ne ho diritto, ma non ho bisogno di vedere il futuro per sapere che ora, verrà con te, a cercare Raissa. Proteggilo, Hermione, ti prego. E spero che come Draco, un giorno, ha dimenticato Helena e si è innamorato di te, Ilai trovi un’altra donna da amare. Si merita ogni felicità del mondo. Spero che con tutto questo io sia riuscita perlomeno in parte a riparare le mie colpe. Non sarà mai sufficiente a compensare quello che hai già passato, e che forse ancora passerai. Ma mi illudo che mi perdonerai, che avrai pace un giorno e che la darai anche a me. L’ultima cosa che ti lascio è il ciondolo che hai trovato in questa lettera: è una magia antica, bianca, che nella mia famiglia viene trasmessa di generazione in generazione, dalle madri alle figlie femmine. È una goccia di sangue di Unicorno solidificata, persa durante il parto: è rarissima. E produce un incanto potente, solo per le madri. Un solo singolo incantesimo per il desiderio più grande di una madre per suo figlio: saprai tu quando usarlo, è il mio ultimo dono per te, Draco ed Alex. Io non l’ho potuto usare mai. E a mia madre non è mai saltato in mente di usarlo per liberarmi del mio potere. Ma tu sei una brava madre, lo so, lo sento. E sicuramente saprai quando e come usarlo, se sarà necessario.

Arrivano Hermione Granger. Arrivano.

Per favore, dì ad Ilai di ricordarsi della cannella bruciata. Digli che è la sola cosa a cui riesco a pensare adesso. E digli che lo amo, sempre, per sempre, da sempre.

Sii felice, Hermione Granger… per me.

 

Quando finisco di leggere, ho la bocca impastata e la gola secca. Imputo a quello la mia incapacità assoluta di aprire bocca e di dire una cosa qualsiasi. Ma anche il mio sguardo non riesce a sollevarsi dalle pagine che Tatia ha scritto poco prima di morire. Resta basso, incollato a quelle lettere panciute, da ragazzina appena sposata che si era disperatamente innamorata ed aveva solamente osato essere felice. Nel silenzio, sento distintamente Seth iniziare a piangere, lui è sempre stato quello più forte di tutti noi. Ci vuole forza e coraggio a piangere, sì, perché quando scopri una cosa del genere, quando leggi una cosa del genere, le lacrime sono sfogo e ristoro. E sebbene i miei occhi si siano fatti umidi, sebbene mi pizzichi la gola, sebbene la stretta sulla nuca ormai è una vertigine rovente, io non riesco a piangere. Milioni di sensazioni si affannano nella mia mente e nel mio cuore: la gratitudine per questa donna che no, non potrei mai odiare, per aver dato una spinta al mio destino. Il dolore incredibile per quello che le è accaduto. La rabbia per Dimitri e Raissa, il desiderio di farli pagare anche questa. La paura per quello che ho rischiato in mano a quell’uomo. Il terrore cieco e sordo per Draco e Serenity, che forse sono ancora con quell’assassina. Tutto esplode in me con lo scoppio di un’esplosione, ma restando contenuto al mio corpo, tanto che si traduce soltanto in una piccola lacrima che mi sfiora la guancia e in una feroce stretta allo stomaco. Mi stringo nelle spalle, sentendo improvvisamente freddo ed imponendomi di alzare lo sguardo. Pansy ha stretto timidamente un braccio di Seth, lui si è piegato su di lei e continua a singhiozzare nell’incavo del suo collo. Anya ha una mano sulla bocca, trema, è fredda e bianca in viso.

Ed Ilai… è scivolato a terra, poggiandosi sui talloni. Borbotta qualcosa, non si riesce ad intendere che stia dicendo, ha un pugno infilato in bocca. Cola del sangue.

Le lacrime finalmente sgorgano senza controllo, senza rendermene conto faccio qualche passo malfermo e sorpasso Seth, Pansy ed Anya, la goccia di sangue di Unicorno ancora tra le dita. La lettera mi è caduta poco fa dalle mani, planando leggera ed inconsistente come una nuvola di pioggia marzolina. Esitante, mi fermo davanti ad Ilai e mi chino alla sua altezza, ha lo sguardo completamente allucinato, i denti che mordono senza sosta la pelle della mano. Delicatamente prendo il pugno che serra in bocca, lo stacco dalle labbra e lo trattengo tra le mie mani, impedendogli di farsi male ancora. Ilai sbatte le palpebre, mi vede davanti a sé, sembra riconoscermi a fatica. Gli occhi sono lucidi, ma non piange. Resta immobile, guardandomi, mentre adesso sono le labbra che prende a mordere. Stringo il suo pugno serrato tra le mani, cercando di dargli coraggio, anche se non so nemmeno io come fare. Le lacrime non me lo fanno mettere nemmeno del tutto a fuoco. Uno scatto nervoso delle dita, e lo sento dire con angoscia: “L’ha uccisa… è stata Raissa ad ucciderla… e Tatia… l’ha sempre saputo… non me l’ha mai detto… io… l’avrei protetta, io avrei…”.

“Lo so… “ sussurro a mezza bocca, reprimendo un singhiozzo, mentre Ilai si aggrappa a me con tutte le sue forze. Si piega, finalmente piange di rabbia e dolore sulla mia spalla, Tatia ci unisce e ci divide allo stesso tempo. Piango anche io la morte di una donna che non conosco, che è la mia salvezza e la mia speranza, ma di cui non so nemmeno il colore della voce. Non so cosa faceva nei giorni di pioggia, non so se amasse il tè con lo zucchero o senza, non so se aveva l’abitudine di dormire con la luce accesa, non so se le piacesse leggere o magari dipingere.

Non so niente di lei, e non lo saprò mai. Eppure la piango come un’amica, una sorella, una compagna.

Stringo Ilai come se fosse lui stesso un amico, un fratello, un compagno, come se non l’avessi conosciuto solamente adesso.

Tutti e due siamo due reduci, due sopravvissuti ai Karkaroff. Questo ci unisce come non può unire nessun altro al mondo: sappiamo entrambi cosa abbiamo rischiato personalmente, sappiamo entrambi chi abbiamo messo in mano loro. Tatia non è tornata. Draco potrebbe non tornare nemmeno lui. Il dolore sepolto in cinque anni, quello a cui mio figlio ha messo sempre freno, esplode come un cancro ormai all’ultimo stadio. Piango le lacrime che non ho mai pianto, urlo la pena che non ho mai urlato, maledico la rabbia che non ho mai maledetto, mastico l’amarezza che non ho mai masticato. Ilai fa a suo modo lo stesso, ci aggrappiamo l’uno all’altra, siamo fratello e sorella. Non credo che ci sarà qualcuno che mi capirà più di lui. E’ un legame istantaneo, fatale, che Tatia ha plasmato per noi. E ci arrendiamo ad esso. Lo proteggerò come lei mi ha chiesto. Lui mi proteggerà come lei gli avrebbe chiesto. Saremo noi stessi a rendere vero l’ultimo desiderio di Tatia.

Così quando, cercando di calmarmi, apro bocca di nuovo, so già che cosa Ilai mi risponderà. Lo so perfettamente, non avevo bisogno nemmeno di chiederglielo.

“Raissa ha l’uomo che amo… ha Draco…”.

“Ti porterò da lei…”.

 

 

In Finlandia, contrariamente ai piani, ci sono rimasta per quindici giorni.

Non so perché, ma l’atmosfera di qui mi calma molto, mi rasserena, mi dà l’impressione di non crollare a pezzi. Cammino molto, passeggio, trascorro le ore sulle rive del fiume di Tampere, lo sguardo fisso sui fiori rossi che lo costeggiano e il libro sempre chiuso sulle mie ginocchia. Non riesco a lasciare la Finlandia, questa è la verità.

E non c’entra nulla che sia una terra bellissima, magica, incantata. Non c’entra nulla il calore educato della gente che mi circonda, non c’entra nulla il desiderio comprensibile ed umano di prendermi una pausa da me stessa e dal mio essere una super-mamma, fosse anche per un paio di giorni.

Fosse così, l’avrei accettato. Avrei persino giustificato ed assolto me stessa per non aver immediatamente preso un aereo per tornare da mio figlio, non appena la faccenda di Tatia si era chiarita.

Una crepa, una singola crepa corre dentro di me come se fossi vetro scheggiato. Se mi muovo, se faccio un passo… probabilmente mi frantumerò.

Non appena ho letto la lettera di Tatia, la crepa era già lì, piccola, invisibile, rassomigliante a migliaia di altri segni che la vita mi ha lasciato addosso. Di primo acchito non me ne sono accorta, come non mi accorgo mai di niente che abbia troppo a che fare con me stessa, da quando ho perso Draco. Pensare a me stessa, ai miei sentimenti, ai miei pensieri, è diventato qualcosa di scomodamente rinviabile ed evitabile nel corso degli anni. Per sopravvivenza, ovvio.

Appena l’atroce strappo che avevo sentito dentro, al ricordo della fine di Tatia, si era un po’ placato, mi sono resa conto in modo compiuto che avevo Draco più vicino di quanto non fosse stato in cinque anni. Certo, Ilai sapeva dove era Raissa, non dov’era Draco dato che lei nelle sue lettere non gli aveva mai detto nulla a riguardo. Ma avevo un indirizzo, cosa nemmeno lontanamente immaginabile fino a poco tempo fa. Ed avevo Raissa, che era stata sicuramente l’ultima persona a vederlo.

L’ansia spasmodica di trovare Draco si era confusa in un calderone bollente di emozioni al desiderio di vendicare Tatia, di scovare Raissa e di fargliela pagare. Tutto in me sembrava ribollire per la voglia di muovermi e di raggiungere il paesino in riva al mare, a pochi chilometri da Londra, dove a quanto pare si trovava Raissa e dove aveva detto ad Ilai di avere degli affari suoi da sistemare, che l’avevano trattenuta lì. Chiacchiere, ovviamente, anche Tatia me l’aveva confermato. Se era rimasta in Inghilterra, era stato prima di tutto per Draco, per controllarlo a nome di Dimitri, qualora io lo avessi raggiunto o lui avesse cercato me. Dopo la morte di Dimitri stesso, ovviamente, tutto diventava più nebuloso. Potevano anche non essere più assieme. Raissa poteva aver perso utilità nel sorvegliarlo, come era ovvio, non essendo più vincolata dal Voto Infrangibile con Dimitri. E lui, da quanto aveva detto Harry al ritrovamento del suo cadavere, era morto da circa dieci giorni.

Dieci giorni, più il tempo che era passato da quando la notizia mi era stata comunicata ed ero partita, faceva un tempo più che ragionevole perché Raissa avesse abbandonato Draco al suo destino. Peraltro, Ilai mi aveva spiegato che lei non gli scriveva da circa due settimane e mezzo, più o meno da quando Dimitri era morto. Quindi, tutto faceva pensare che lei potesse essere sparita di nuovo. E ciò mi rendeva ancora più angosciata di quanto già non fossi, colmandomi di sudore freddo per tutta la notte e non facendomi addormentare, presa com’ero dalla smania di ripartire per inseguire Raissa e per non darle ulteriore vantaggio. Ma non ero sola, non potevo agire egoisticamente come se lo fossi.

C’erano Pansy e Seth, d’accordo, ma loro mi avrebbero seguito immediatamente, fino in capo al mondo per trovare Draco.

Ma adesso, in un confuso modo che ha tutto della predestinazione, io sono legata anche ad Ilai. Non potevo semplicemente andarmene, quando lui aveva ricevuto un colpo simile e non era nemmeno in grado di muoversi o parlare. Per sette giorni, era rimasto chiuso nella sua camera, al buio, senza mangiare e senza dormire. Mi muovevo spasmodicamente fuori dalla porta, cercando di trattenermi dalla tentazione di pressarlo o di chiedergli direttamente che cosa avesse intenzione di fare, oppure di salutarlo e partire da sola. Ogni volta che, però, innervosita e fiaccata dal nervosismo, rifacevo la valigia e cercavo di andarmene, puntualmente rimanevo con la mano bloccata a mezz’aria mentre stavo per bussare alla sua porta. Mi paralizzavo, la stretta calda sulla nuca che mi faceva formicolare il cuoio capelluto, e tornavo indietro, disfacendo la valigia. Tatia voleva che lo proteggessi. Dovevo restare accanto a lui, ed aspettarlo. Lo dovevo a lui e a Tatia stessa. E se lei mi aveva protetto al punto di farmi avere quella traccia, lo avrebbe fatto anche successivamente. Dovevo fidarmi di lei e di Ilai. Sapere che si sarebbe ripreso, confidare che avrebbe superato lo shock di sapere che quella che era ormai diventata per lui la sua migliore amica, era stata anche l’omicida di sua moglie.

Intanto la crepa era lì, uno spacco piccolo ed invisibile da cui ancora non sgorgava nessuna goccia di sangue. Pizzicava un po’, ma di quel fastidio sommesso su cui ti ergi noncurante, dicendoti che non è nulla. Poi arriva il momento che la pelle davvero si lacera, ed il sangue ti macchia le dita, ed il pizzicore diventa d’improvviso dolore acuto di fiamma.

Devi correre allora, tamponare la ferita, disinfettare e restare immobile. Restare immobile.

La crepa, in me, si è definitivamente aperta cinque giorni fa.

Una lettera l’aveva creata ed una lettera l’ha aperta ancora di più, trattenendomi sulla soglia dell’immobilismo per paura di rompermi del tutto.

Una lettera di Raissa, per Ilai, scritta solo tre giorni fa. Aveva scritto sciocchezze, inezie, racconti di aneddoti estivi e di curiosità stupide, nulla di che. Eppure, adesso, ogni parola per Ilai era una coltellata. L’affetto che lei ci aveva messo in quelle poche righe, era macchiato dal sangue di Tatia. Io avevo cercato segni, tracce, indizi di Draco nelle sue scarne parole.

Alla fine, li avevo trovati. Erano come sempre equivoci, ombrosi, foschi, come tutto da quasi cinque anni, ma c’erano.

L’indirizzo di Raissa era lo stesso: lo stesso di cinque anni prima, quando aveva iniziato a scrivere ad Ilai, dicendo che per un po’ non poteva venirlo a trovare personalmente. Lo stesso di quei lunghissimi anni che avevo trascorso in Italia. Lo stesso di prima e dopo la morte di Dimitri. Raissa è rimasta nello stesso posto, dove aveva accompagnato Draco cinque anni fa. Adesso è ancora lì.

E Draco dovrebbe essere ancora lì, con lei.

A meno che non abbia deciso di trasferirsi da solo lontano da lì e Raissa, dopo la morte di Dimitri, non abbia fatto nulla per impedirglielo, ormai non più interessata a lui.

Il disinfettante sulla mia piaga, allora, ho scoperto essere solo una cascata iridescente di granelli di sale.

Oramai la risposta a tutte le domande sbocciate, maturate ed imputridite in questi anni, è ad un passo. E io, adesso, sto sperando in quello in cui non ho mai sperato prima.

Se Raissa fosse ancora in quel paesino per i suoi motivi personali e Draco non fosse più lì… perderei il bandolo della matassa che mi ha guidato fino ad ora, quello che Tatia ha seminato paziente e che mi sfuggirebbe dalle dita. Tutto si riaprirebbe in modo confuso e nebbioso. Draco potrebbe essere ovunque, Raissa potrebbe non saperlo o potrebbe anche non dirmelo.

Potrei davvero essere vicina a perderlo sul serio, stavolta. Evaporerebbe come se non fosse mai esistito, lasciando Alex orfano del suo ricordo e della sua conoscenza. E lasciando me vedova del matrimonio che mi sono negata cinque anni fa.

Prospettiva allarmante, tragica, da infarto. Ma non è la peggiore. No, non lo è.

Se le cose fossero andate così, se non fossero più assieme… lo cercherei, ovviamente. Non mi arrenderei, mai. Forse troverei persino nuova forza e nuovo coraggio.

Ma se fosse ancora con lei… se lui e Serenity fossero ancora con Raissa… non mi concederei nemmeno l’attimo fugace e ristoratore del sollievo e della gioia. Essi sparirebbero subito, veloci, fulminei, come meteore nel nero cupo della notte. Annegherei nella preoccupazione che lei abbia fatto loro qualcosa, che abbia mentito, che li abbia fatto del male. E se scoprissi che non fosse così, se scoprissi che Raissa è rimasta con loro perché Draco lo voleva, perché lui l’ha voluta lì accanto a lui, indipendentemente dagli scopi di Raissa…

Io non riuscirei ad accettarlo. Non ce la farei. Non lo vorrei nemmeno vedere. Probabilmente impedirei anche ad Alex di conoscere finalmente suo padre.

Potrebbe avere una moglie, adesso. O una fidanzata, o una compagna, o un’amante, persino un’amica. Non sono così ingenua da crederlo vergine di una donna, in tutti questi cinque anni. Perdonerei le scappatelle, giustificherei le notti di sesso, dimenticherei baci e carezze ad una che non fossi io.

Riuscirei anche ad accettare una donna che porta un anello al dito, con dentro il nome Malfoy.

Sorriderei con il cuore spezzato a chi lo chiama “amore”, a chi gli passa il sale a tavola, a chi dorme con lui.

Giuro che lo farei. Probabilmente maledicendola, maledicendomi, maledicendolo. Ma lo farei. Perché lo amo. Ed amo mio figlio.

Li lascerei conoscere, restando sul proscenio. E cercherei di dimenticare tutto quello che è accaduto tra noi, non permetterei a Draco né il rimorso, né il rimpianto né tantomeno il ricordo.

Nulla che lo separi dalla donna che amasse adesso.

Ma se quella donna fosse Raissa… se anche lui ci fosse andato a letto, una sola singola volta… io non lo vorrei sapere. Non lo vorrei vedere mai più.

Non vorrei accostarli assieme nemmeno nella più lasciva e sporca delle fantasie. Mi farebbe schifo, la vendetta mi esploderebbe nel ventre, Tatia armerebbe le mie mani. Forse vorrei uccidere lei e ferire mortalmente lui. Non ce la farei, ecco.

Semplicemente, tutto andrebbe in pezzi, io andrei in pezzi.

Il demone che lo Zahir creò dalla mia anima, non sarebbe nulla a confronto.

Ecco perché resto immobile, ecco perché non voglio sapere.

Ecco perché resto in Finlandia: fin quando non devo sapere, posso ancora sperare. Non so in cosa esattamente… ma posso ancora farlo.

Il fiume davanti a me, mentre resto seduta sull’argine, brilla di luce riflessa come una scia di stelle. D’un tratto la luce si oscura lievemente, sobbalzo alla vista di un’ombra che si siede accanto a me.

So chi è, senza nemmeno guardare.

Ed è strano che sia così, ma lo so e basta.

Lo so dalla sensazione che provo in fondo allo stomaco: calore tiepido, sicurezza inconsapevole, fiducia istantanea. Conoscendomi, uno si immaginerebbe che tale trasporto io lo senta per Harry, o per Ron, o per Seth, o comunque per una persona che conosco da anni. Non da giorni.

Ed invece io, tutto questo lo sento per Ilai Radcenko.

Ci conosciamo da quindici giorni, abbiamo parlato tre volte in tutto, ci siamo guardati a malapena. Eppure, sento di potermi fidare ciecamente di lui.

Tatia è la responsabile, tira dall’alto dei Cieli i fili rossi che ci uniscono come se fossimo due marionette alla sua mercé. Non mi dà fastidio, però. Mi rilassa profondamente. Mi sento sempre protetta.

Ilai guarda a sua volta il fiume, gli occhi scuri concentrati, circondati dalle ciglia nerissime che vibrano ad ogni respiro. I capelli sono spettinati e i vestiti sono sgualciti, ma ha le palpebre meno pesanti ed un’aria quasi riposata. Anya mi ha detto che è un medico, un pediatra per la precisione. In questo riconosco distintamente i suoi movimenti educati e lenti, la voce pacata, le mani delicate. Persino l’espressione, seppure sofferente, è sempre dolce e quieta. Ha un qualcosa di estremamente tranquillizzante, che mi spinge sempre a sentirmi calma, avendolo vicino.

Senza una parola, mi porge un bicchiere di carta dalla forma allungata, ancora caldo. Lo guardo senza capire, togliendo piano il coperchio. L’odore me lo fa riconoscere subito, sorrido tenendo il bicchiere tra le mani che si riscaldano piano. Cappuccino aromatizzato al caramello. Lo sorseggio piano, grata, in silenzio.

“E’ il mio preferito…” esordisce Ilai dopo un po’, guardando con un sorriso lieve il fiume.

“Anche il mio…” ribadisco, pulendomi la schiuma dalle labbra, poi dico calma: “Non la trovi una cosa strana? Cioè… non hai l’impressione che…”.

“… ci conosciamo da sempre?” sorride Ilai, guardandomi di lato per un momento, prima di tornare a guardare l’acqua che scorre “Sì… ce l’ho anche io questa sensazione. Ti spaventa?”.

“No… oserei dire persino che mi calma…”.

“Anche a me…” sospira profondamente Ilai, distendendosi sull’erba accanto a me, le braccia incrociate sotto il capo e gli occhi ritagli di nuvola “Credo che sia stata Tatia… credo che sia lei a farci sentire così uniti… come se ci conoscessimo da anni. Con lei è sempre stato così. Sapeva le cose prima che accadessero… e non c’entra la chiaroveggenza, o il futuro. Conosceva proprio il cuore delle persone… era strana, a volte faceva persino paura… e sono convinta che sapesse anche questo. Per questo ha fatto sì che venissi qui, per questo non ha nascosto la lettera altrove… voleva che ci conoscessimo… e ci aiutassimo… voleva che io avessi te vicina quando fosse giunto il momento di sapere la verità… e voleva che tu avessi me vicino quando ne avessi avuto bisogno…”.

Assimilo le sue parole con consapevolezza, senza eccessiva sorpresa: è quello che ho sempre pensato anche io. Ogni coincidenza di questo percorso, di questi ultimi anni mi sembrano disseminate da Tatia stessa dieci anni fa. Ed in questo rientra anche questa strana familiarità tra me ed Ilai. Si alza un alito di vento fresco, chiudo gli occhi respirando la luce del sole.

“Credi che adesso io ne abbia bisogno?” chiedo più a me stessa che ad Ilai, riaprendo gli occhi “Credi che adesso… io abbia bisogno di te?”.

“Difficile non accorgersene…” commenta lui laconico, sollevandosi a sedere “Questa storia… non è una tragedia solo per me, che ho perso mia moglie. Tu hai perso a tua volta delle persone che amavi… o meglio, non hai ancora finito di perderle… e non avere la certezza che ciò sia successo, non sapere se ciò sia successo davvero… non volerlo nemmeno sapere… credo che sia la parte peggiore…”. Ancora, ha capito tutto da solo. Non che fosse difficile, intendiamoci… Seth ed io ne abbiamo già parlato. Ma con lui, con tutti… io devo spiegare prima, e dopo capiscono.

Con Ilai non ce n’è bisogno, capisce da solo prima ancora che parli.

“Prima o poi dovrò saperlo, però, no?” sorrido tristemente, guardandomi le scarpe e gettando poi distrattamente un sasso nel fiume. La pietra descrive una linea semicircolare che si conclude con un tonfo sordo d’acqua, sollevando schizzi argentei. Il silenzio di Ilai dura fino a quando l’acqua si calma, tornando una linea piatta.

La sua voce è grave, sembra risuonare dal suo petto come se echeggiasse da una caverna: “E prima o poi io dovrò affrontare Raissa… e da quello non so che potrà uscirne… ora come ora, vorrei solo…”.

“Ucciderla?” suggerisco, abbracciandomi le ginocchia, rifiutandomi di guardarlo in volto. La mia voce non ha tracce della patina polverosa dei miei soliti giudizi morali, ma solo la profonda consapevolezza che aver odiato Dimitri Karkaroff per tutti questi anni, mi ha fatto scendere maggiormente a patti con la parte più violenta ed irrazionale di me stessa. I pensieri spesso non si possono fermare, così come i desideri o i sentimenti. Sono le azioni che ci qualificano.

Se pensi di uccidere, non sei un assassino. Sei solo umano. Se poi uccidi, allora diventi un omicida. E smetti di essere umano.

Io non ucciderei mai, per quanto possa averlo pensato. Ed Ilai non lo farebbe a sua volta, lo so. Lo sento.

Ilai annuisce con un breve cenno del capo, me ne accorgo con la coda dell’occhio. Il suo sguardo per un attimo si eclissa di fiducia spezzata e dolore spento. È come se tenesse a freno dentro di lui un uragano che lo spazzerebbe via, se solo gli desse il potere di farlo. Lui ha parlato del mio di dolore e della mia di perdita, ma Draco c’è ancora, io so che è vivo. Ilai, per quanto possa anche ottenere vendetta o giustizia, non riavrà mai indietro Tatia. A questo non c’è paragone in niente al mondo.

“La scelta sarà di entrambi…” dice Ilai infine con un filo di voce, guardandomi dritto negli occhi “Saremo entrambi a decidere che fare di lei… non sarà solo una tua o una mia responsabilità… lei pagherà… non le permetterò di farla franca. La morte ci ha tolto Dimitri dalle mani… ma non sarà lo stesso con Raissa…”.

Annuisco convinta con il capo, su questo non ci piove. Ma c’è altro che lui deve sapere. C’è altro che Ilai dovrà sapere, prima che definitivamente questa cosa ci leghi del tutto, prima di intraprendere questo viaggio assieme. A suo modo, come tutto il resto, sento che lui già lo sa. Ma ho bisogno di dirlo ad alta voce, anche a me stessa.

Andare a cercare Raissa e forse Draco potrebbe costarmi tutto: la speranza, la fiducia, l’amore. Persino la mia stessa anima.

Potrei tornare un involucro vuoto, molto peggio di quello che mi rese lo Zahir. Potrei trascinare me stessa ed Ilai, senza contare Pansy, Seth e il mio stesso figlio, in un vortice di annientamento da cui non riuscirei a salvare nessuno. Potrei far rischiare loro la vita, per quanto io ne possa sapere. Per questo, per tutto quello che comporta questo viaggio, ho bisogno di pormi dei limiti, delle linee guida, per sapere esattamente quando tornare indietro prima che sia troppo tardi.

La mia voce è chiara, mentre scandisco: “Dovremo essere pronti entrambi a partire, allora… solo allora lo faremo… non importa quanto tempo ci vorrà… ma dobbiamo essere uniti in questo. Altrimenti saremo spazzati via…”, respiro a fondo mentre Ilai mi guarda, dandomi silenziosamente il suo assenso: “Io ho un figlio e devo pensare ad Alex prima di tutto. Se capirò che qualcosa può metterlo in pericolo, non esiterò a mettermi anche contro di te se dovesse necessario… nessuno deve toccare in nessun modo mio figlio…”.

“Non permetterò che facciano del male al tuo bambino…” ripete deciso Ilai, stringendo inconsciamente la mia mano ancora abbandonata sull’erba. Mi aggrappo ad essa, fissandolo dritto negli occhi scuri: “Io ho bisogno di sapere, di capire… Raissa pagherà… ma devi promettermi che… aspetterai che io capisca cosa c’è tra lei e Draco, qualora siano ancora assieme…”. Ho paura di fargli troppo male per come stringo forte la sua mano, ma Ilai non fa una piega, non dice nulla, continua solo a stringermi forte lasciandomi intendere che abbia capito perfettamente quello che chiedo.

“… e se… capirò che…”, la mia voce si rompe lasciando sfuggire una nebbia confusa di pianto che tento a fatica di nascondere. Un singhiozzo deforma le mie parole, ma Ilai continua a tenere stretta la mia mano e riesco quindi a fatica a terminare: “… se dovessi rendermi conto che stanno… assieme… devi farmi una promessa…”.

“Ti porterò via da lì… porterò via da lì sia te che Alex, te lo giuro…” bisbiglia Ilai, guardandomi in viso e prevenendo ogni mia altra parola. Sgrano gli occhi lucidi di pianto, ancora una volta ha capito tutto da solo. Rendo ancora grazie silenziosamente a Tatia, per questo dono che mi ha fatto. Ha voluto che affrontassimo questa cosa nella maniera migliore possibile. E ci ha creato a nostra immagine e somiglianza un’ eco dell’anima, che rende tutto un pochino più semplice. Non di tanto, ma perlomeno posso sperare di avere qualcuno che conduca me ed Alex fuori da tutto questo.

E fa molto davvero. Non tanto per me, dubito che tornerei mai normale dopo aver visto Draco con Raissa. Ma per Alex, devo sapere che, se lo porto con me, ci sarà qualcun altro a proteggerlo.

“Grazie…” sussurro piano, asciugandomi una lacrima che cade lungo il viso “Avrò bisogno solo di qualche giorno… voglio andare a prendere Alex… poi possiamo andare… tu sei pronto?”.

Ilai mi lascia la mano e stringe la mascella, dicendo di sì.

Solo pochi giorni… ed avrò le risposte che cerco…

 

 

Solo pochi giorni: ed ho avuto le risposte che cercavo.

Non eravamo pronti.

Né io, né Ilai. Non era pronto nessuno. Non lo saremmo mai stati, anche se avessimo avuto mille e mille anni.

Il cielo mi sembra sanguinare, anche se è solo il tramonto quieto di un giorno d’estate di una piccola cittadina sul mare, che odora di iodio e di sale, di gente calorosa, di feste di paese. Tutto sembra andare a fuoco, io stessa brucio, annaspo, e poi annego, soffoco, riemergo, muoio daccapo.

Non ero pronta, non lo sarei mai stata. Mai e poi mai, per quanto tempo ci mettessi.

Seth prende in braccio Alex che mi guarda senza capire, mentre resto in ginocchio nascosta dietro il cespuglio della villa bianca sulla sommità della collina, circondata da rampicanti e fiori viola.

L’ho riconosciuta subito, ovviamente, appena l’ho vista. Ed è stato l’ennesimo colpo al cuore. L’ennesimo, l’ulteriore, ma mai l’ultimo. Mai, non finisce mai la storia per cui io debba sempre auto-infliggermi dei colpi mortali solo per vedere se riesco a sopravvivere. Già c’era tutto il senso, tutto, tutto, solo nel vedere che Raissa scrive ad Ilai dalla casa che Helena aveva sempre desiderato di comprare anni prima, quando veniva su una spiaggia poco lontana da qui, con Draco.

Potevo andarmene, no? Potevo già capire tutto, no? Ed invece me ne sono stata zitta, imponendomi di non morire dissanguata dentro, giusto per rendermi conto che se uno mi spara dritto al petto, io posso pure respirare ancora per altri cinque minuti.

Cinque minuti provvidenziali.

E non ne avevo bisogno, non ne dovevo aver bisogno come invece continuavo a dirmi di avere.

Seth si allontana con Alex in braccio, lui deve pensare che stiamo solo facendo una gita, deve continuare a pensarlo. Per quello sono qui anche Dean e Pansy, con Charisma. Sento Alex raggiungere la sua amichetta, iniziare a giocare, ridere. Sta bene, non ha visto nulla, non si è accorto di nulla.

Guardo Ilai nello stesso momento in cui lui si volta a guardare me, cerco la sua mano, lui la intreccia forte con la mia.

Non eravamo pronti, non lo saremmo mai stati.

Lui non era pronto a rivedere Raissa, viva, vegeta, sorridente, assassina senza rimorso. Un vestito chiaro, i capelli più lunghi, l’aria fredda nei tratti dissolta.

Ma lui finge di stare bene, deve farlo, capisce subito che per me è peggio.

Serro gli occhi forte, cancellando la parola maledetta che mi vibra nella testa, quella che impedirei persino ad Alex di usare ancora, nonostante sia la parola più bella e dolce che io conosca.

Mamma.

Una bambina bionda, gli occhi azzurri da cielo di primavera. Un paio di scarpette rosse di vernice, una salopette di jeans, un sorriso furbo.

Una bambina che non ho mai dimenticato, una bambina che ha nel sangue l’amore per questa casa e per questa terra, una bambina che dopo cinque anni, non potrei scambiare con nessuna bambina del mondo. Una bambina che ho detto a mio figlio di chiamare sorella.

La mia bambina bionda… la mia Serenity… che chiama mamma l’assassina di Tatia Krasova.

Serenity chiama mamma Raissa Karkaroff.

 

 

 

Grazie a chi ha ancora la pazienza e la voglia di seguire questa storia! Risponderò alle recensioni promesso…J Scusate la brevità, ma scappo, corro e fuggo come sempre! Un Bacione a tutti!!! Cassie

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Capitolo 38
*** Six degrees of separation ***


RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatia non voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma.

 

 

Capitolo 38 – Six degrees of separation

 

Basta Alex! Smettila!”.

Merce avariata: sono sempre stata questo.

Ho sempre avuto il cuore in cancrena, l’anima in putrefazione, il cervello in necrosi.

Da quando? Non saprei dirlo con certezza.

Probabilmente da quando Ron mi ha tradito e ho avuto la condanna all’Interdizione all’Uso della Magia. Molto più realisticamente da quando ho creato lo Zahir e la cicatrice che mi ha trafitto i sensi, non se n’è mai davvero andata. Però, in realtà, se ci penso bene, dieci giorni di paradiso salvano l’anima dall’inferno. Dieci giorni con Draco mi hanno salvato l’anima, hanno curato squarci aperti, hanno sanato le ferite, hanno disinfettato lividi ed escoriazioni, dandomi persino il salutare aspetto di una persona sana ed equilibrata nonostante tutto.

Dieci giorni da cui ho avuto anche un dono quando sono finiti: chi mi aveva salvato dallo Zahir, chi mi aveva salvato persino da me stessa, aveva lasciato dentro di me uno scintillante seme biondo, da cui è sbocciato un bambino. Mio figlio. Alex. Il figlio di Draco.

E quindi, quando mi hanno cacciato dal Paradiso, quando Dimitri e Raissa mi hanno ripreso a forza dalla parentesi di cielo che mi era stata improvvidamente regalata, io ho avuto ancora qualcosa a cui aggrapparmi ferocemente per impedirmi di ripiombare nell’abisso marcio, da cui ero uscita. Alex era il luccicante filo dorato che potevo tenere teso in una mano, così che mi conducesse fuori dal labirinto dove ero capitata. Era la chiave, la strada, il modo per uscire dal Limbo: il solo legame ancora esistente, non reciso, con Draco.

Ma il filo, in realtà, era teso verso il vuoto: l’altro capo era saldamente ancorato ad un precipizio desolato dove io, alla fine, sono precipitata. Poco importa che io il filo lo tenga ancora tra le dita, poco importa che esso esista ancora, poco importa che questo filo sia carne, sangue, ossa, intelligenza, volontà, sorriso e lacrima di un bambino, che è mio e che è di Draco.

Poco importa anche che, inseguendo quella lucida scia di luce, io sia sempre stata accompagnata da una schiera di angeli, protettori e salvatori.

Ron, Harry, Ginny, Helder, Hayden. Dean, Pansy, Seth. Ilai.

E poi Helena e Tatia, due spiriti che hanno indirizzato le mie azioni sin dall’inizio. Adesso, le odio entrambe allo stesso modo per avermi condotto qui. La prima per aver fatto sì che arrivassi al Petite peste. La seconda per non avermi impedito di perdere il filo in un modo naturale, cosa che mi avrebbe lasciato vergine di rancore e pura di ricordi.

So che cosa è il veleno dell’odio, lo conosco, è omnicomprensivo, nulla sfugge. Si stende sulle cose come una patina nerastra che non lascia scampo. Ed io adesso odio tutto.

Gli angeli, i diavoli, i vivi, i morti, i buoni, i cattivi, gli amici, i nemici, i figli e le figlie. Ma mai come odio me stessa, mai come odio tutto di me stessa.

Dell’imputridita me stessa, che adesso per la prima volta in cinque anni ha urlato contro suo figlio.

Non l’ho mai fatto, non ho mai permesso ad Alex di vedere questa parte di me. La parte oscura.

Adesso lui mi vede per quella che sono realmente: letale, infida, sospettosa, manipolatrice.

Marcia.

Mi porto una mano alla bocca, chiudendola sotto il suo sguardo gonfio di lacrime. Mi guarda come se non mi riconoscesse, come se fossi improvvisamente un mostro ibrido a tre teste che si è mangiato la sua tanto cara e buona mamma. Si chiede che cosa abbia fatto o detto di male. Ed il bello è che non ha fatto nulla di che.

Ha messo su un capriccio come ce ne sono stati tanti in cinque anni, voleva andare dopodomani ad una festa di paese, ci sono le giostre, le bancarelle, lo zucchero filato. Non lo stavo ascoltando, mi ha chiamato più volte battendo il piede per terra. Cinque, sei, sette volte ha ripetuto con la vocetta stridula da bambino ignorato: “Mamma, mi senti? Mamma, mamma, mamma!”. Non lo sopportavo. La crepa che mi taglia a metà dentro, come se fossi uno stupido coccio di vetro, si è messa a crepitare.

Serenity che chiama Raissa mamma.

E ho iniziato ad urlare. Alex inconsciamente ha abbassato gli occhi, si è cacciato un dito in bocca come non faceva da quando aveva tre anni e ha iniziato a piagnucolare in silenzio per paura che mi arrabbiassi ancora. Sulla soglia della stanza, attirati dal rumore e sconvolti dal mio comportamento, Dean, Pansy e Seth hanno guardato la scena in silenzio. Ho restituito loro uno sguardo implorante e livoroso, la mano ancora premuta sulla mia bocca come se mi stessi trattenendo dal vomitare.

Seth, come sempre, si muove prima di tutti, attraversa il salotto della piccola villetta che abbiamo affittato e raggiunge Alex, chinandosi su di lui. Mio figlio solleva gli occhi grigi pieni di lacrime, sollevando le braccia e chiedendo silenziosamente a Seth di prenderlo in braccio. Lui lo solleva, lo tiene tra le braccia e trattiene una mano sulla sua testa come a cancellare tutta la sua paura e preoccupazione. Le gambe mi tremano come se fossi affondata nel ghiaccio, non riesco a staccare la mano dalla mia bocca, mordicchio la pelle del palmo a punizione e pena verso me stessa.

Seth sussurra nell’orecchio di Alex che la mamma è solo un po’ stanca, che andremo sicuramente alla fiera, che lo porterà lo zio Seth. Alex annuisce, il viso nascosto nella camicia di Seth. Lui mi getta un’ultima occhiata che vorrei che fosse di rimprovero, ma invece è solo di pena, apprensione, pietà. Digrigno i denti come una fiera selvatica, mentre Seth esce dalla stanza, in silenzio.

La mano mi ricade lungo il fianco, sconfitta, franano anche le mie ginocchia e ricado come un corpo morto. Dean fa un cenno nella mia direzione, ma Pansy lo ferma subito con la voce, ingiungendomi severamente: “Spero che tu sappia che questo… stato… in cui sei… non è normale… e spero che tu ti renda anche conto di quanto tuo figlio non c’entri nulla in tutto questo…”.

Mi abbraccio da sola, chiudendomi nelle spalle e cercando di trattenere il terribile rigurgito di rabbia che mi corrode dentro, che mi spingerebbe a rispondere anche a Pansy, urlandole addosso.

“E spero anche che tu capisca che noi tutti… abbiamo delle vite… non esiste che restiamo qui dodici anni solo per farti capire che cosa hai intenzione di fare…” continua con voce tagliente, guardandomi dall’alto in basso. Dean le stringe il braccio a tacito rimprovero, ma lei si divincola automaticamente.

“No Dean… smettila!” alza la voce come se un pensiero le fosse scoppiato improvvisamente dentro come un petardo “Non dovete proteggerla, né tu, né Seth! Siamo qui già da una settimana a fare finta di essere in vacanza… abbiamo nostra figlia a cui badare, non possiamo perderci eternamente dietro questa storia… e lei ha un figlio suo. Draco potrebbe essersi rifatto una vita, l’abbiamo sempre saputo… restare qui immobile non cambierà le cose… non cambierà nulla! Deve decidere che cosa fare!”.

“Hai ragione…” biascico istintivamente con un filo di voce, cercando di sollevarmi in piedi “Hai ragione, avete ragione tutti… c-cercherò di capire che cosa f-fare… e cercherò di capire anche come stanno le cose con R-Raissa…”. Persino il suo nome mi taglia a fettine, mi fa venire voglia di distruggere l’intero Universo. Poggio le mani per terra, rialzandomi. Pansy esce anche lei dalla stanza, lasciandosi dietro una scia di profumo dolciastro che mi fa arricciare il naso. Dean mi guarda intensamente, prima di sussurrare: “Sai com’è fatta… soffre anche lei… ma lei conosce solo la rabbia come rimedio a tutto. Prenditi il tempo che ti serve… non pensare a noi…”.

“Devo pensare a voi, invece…” sussurro, asciugandomi una lacrima dalla guancia “Altrimenti finisce che annego in questo pantano e trascino anche voi sotto con me… compreso Alex… e questo non me lo posso permettere… devo s-sapere… che cosa sia successo…”. La mia voce suona meno stabile di quanto vorrei, ma spero che convinca almeno Dean se non riesce a convincere me stessa.

Lui mi dà un buffetto affettuoso sul mento, poi sorride tristemente ed esce anche lui dalla stanza, lasciandomi sola.

Il silenzio mi avvolge odioso, finché un passo conosciuto lo rompe in modo misericordioso. Il calore di un corpo alle mie spalle mi ispira di nuovo a piangere, mentre mi nascondo il volto tra le mani. La gola gratta come se ci stessi strofinando sopra della carta vetrata, traducendosi in una sequenza di singhiozzi scomposti che mi fanno tremare il torace.

Un paio di mani calde si poggiano sulle mie spalle, facendomi voltare su me stessa, prima di stringermi forte per la vita. Come se fossi un pezzo di vetro che continua ad andare in pezzi, cerco la ricomposizione dei miei frammenti ed abbraccio Ilai davanti a me, chiudendo le braccia attorno alle sue spalle. Singhiozzo nella sua camicia, mentre lui mi accarezza piano i capelli.

“Ti avevo promesso che ti avrei portato via…” bisbiglia delicatamente, non smettendo un secondo di abbracciarmi “Ma sei tu che devi chiedermelo adesso… puoi andare via, adesso?”.

“Non posso, Ilai… non posso…” piango come se mi stessi dilaniando ed urlassi dal dolore “Devo vederli… devo capire… perché lei è ancora con lui, perché Serenity la chiama…”. Mi fermo incapace di proseguire, un singhiozzo più forte mette del tutto a tacere la mia stessa voce.

“Sai già che cosa fare?” mi chiede Ilai, staccandomi dolcemente da sé.

Annuisco con il capo, il labbro inferiore che mi trema senza controllo, mentre mi specchio nei suoi occhi. Ilai serra le labbra, annuisce a sua volta e mi stringe il polso con quieta forza.

Senza forze, bisbiglio ancora: “Resterai con me?”.

La mano di Ilai trema sul mio polso, è calda come un pezzo di lava.

“Sempre”.

 

 

E ho scoperto che il mio castello poggiava su fondamenta di sale, fondamenta di sabbia.

Lo cantava qualcuno, tempo fa. Non ci avevo mai concretamente fatto caso, fino a questo momento. Conosco questa canzone a memoria, mi piace anche, ma non avevo mai prestato attenzione ai suoi versi. Le cose hanno spesso il dono di attaccarsi addosso all’ anima, per poi spuntare fuori come funghi velenosi al momento più inopportuno che esista.

Canticchiavo a bocca chiusa in modo meccanico ed innaturale, seduta nel taxi accanto ad Ilai. Guardavo fuori dal finestrino la pigra cittadina di mare in cui mi trovo, mentre cominciava tutte le sue occupazioni mattutine. Seguivo le buste della spesa portate dalle signore corpulente, rimproveravo mentalmente le corse dei bambini che andavano a scuola, chiacchieravo con gli anziani che si godevano il sole. E mugugnavo a mezza bocca le note della canzone che passava in radio.

Ilai, accanto a me, si limitava a restare immobile, le braccia conserte, la nuca poggiata sul sedile, gli occhi chiusi.

Poi è arrivato quel verso, ne ho rincorso le parole nella testa ed improvvisamente, dalla stasi robotica in cui mi trovavo, rovente è risalita l’ansia lungo il mio stomaco.

Serro forte le mani attorno alla borsa, chiudendola con un piccolo suono meccanico, e getto uno sguardo terrorizzato all’autista mentre mi sento cedere fino, appunto, alle fondamenta di me stessa.

Per cinque anni, ho avuto la somma illusione di essermi fatta più forte. Essere madre ha certamente contribuito a darmi un assaggio di intangibilità a tutto, dovendomi ogni giorno confrontare con la necessità concreta che mio figlio non capisse o anche solo sospettasse quanto potessi soffrire. Ho seppellito tutto così in profondità in me, che alla fine ho eroso tutto quello che doveva tenermi in piedi, al punto che ora mi sono fatta fragile e trasparente come carta velina.

Fondamenta di sale, fondamenta di sabbia: ecco. E ora stanno franando.

È bastata solo una parola. Una sola singola parola. La parola più vecchia del mondo, mamma, e tutto è crollato a pezzi. Le crepe nel mio castello di vetro hanno iniziato a correre una più letale dell’altra, c’erano sempre state, ma adesso sono improvvisamente molto più mortifere di quanto credessi. Tutto potrebbe sbriciolarsi addosso a me ed Alex in pochi secondi, se non riuscissi a sopravvivere a tutto questo.

E al momento, la sola cosa che so è che posso anche morire sotto le macerie, ma Alex deve salvarsi.

Sempre.

Stringo tra le dita la goccia di sangue di Unicorno che mi ha lasciato Tatia, lo faccio spesso quando sono nervosa, non riesco a spiegarmi perché ne senta il bisogno.

Mi sono infilata a forza in questo taxi non per me stessa, ma per Alex. Per come l’ho trattato stamattina, per come mi sono sentita, per come sono arrivata al punto di detestarlo perché mi chiama come Serenity chiama Raissa e come Draco ha concesso che lei facesse… mi sono imposta di uscire e di finirla con questa storia. Ho affidato Alex alle persone di cui mi fido di più al mondo: Seth, Pansy, Dean. E spero che lo proteggano dall’ombra che mi attanaglia. Lo porteranno stamattina al mare, lo faranno giocare con Charisma, cercheranno di fargli dimenticare le mie urla ingiustificate.

E ho affidato me stessa ad Ilai.

Lui è danneggiato come me, lui è un castello di vetro con le fondamenta di sale come me e, per quanto assurdo questo sia, solo due ruderi maciullati come noi due sono in grado di reggerci l’un l’altro per tenersi in piedi. Non voglio che se ne vada. Non voglio che mi lasci. E lui resta accanto a me, in silenzio, saldo come una roccia di montagna.

Chiudo e riapro gli occhi una, due, tre volte, improvvisamente infastidita dalla luce del sole. Sotto le palpebre, un solo ricordo passa e crepita come un miraggio nel deserto.

Sette giorni fa.

La casa di Helena, quella che lei avrebbe voluto comprare, quella che indicava felice a Draco mentre mangiavano il gelato sulla spiaggia dove lei era stata con Cedric Diggory. Le colonne bianche, ioniche, a descrivere un porticato tutto attorno all’abitazione. Il giardino immenso, pieno di alberi di magnolia, l’odore struggente delle sere d’estate. La luce violenta del sole che copiosamente sanguinava su tutto, tingendo di porpora ed oro la pietra bianca. Il frinire dei grilli, lo stormire delle foglie, il caldo respiro del mare.

Mi ero fermata davanti al cancello, dietro il quale un viale d’ingresso pieno di ciottoli portava alla porta d’ingresso. Una mano si era chiusa sulle sbarre chiuse, mi si era seccata la bocca, Ilai aveva annaspato accanto a me, mentre Alex, alle mie spalle, giocherellava con Charisma. Seth, Pansy e Dean nemmeno respiravano.

Una donna alta dai capelli corti e biondi, era uscita da una macchina rossa ferma nel vialetto. Avrei potuto pensare subito che fosse lei, che fosse la moglie di Draco, la sua ragazza o chissà che altro. Fosse stato così, giuro che l’avrei accettato. Ma avevo capito subito che non c’entrava niente. Aveva aperto lo sportello del passeggero e ne era uscita fuori Serenity.

La mia Serenity.  

La bambina che avevo considerato mia figlia senza alcun diritto per cinque anni. La bambina che si addormentava accanto a me, chiamandomi “Mione”. La bambina che aveva insistito per dormire tra me e Draco l’ultima notte che eravamo stati assieme. Avevo stretto la sbarra di metallo del cancello così forte, da farla tremare. Seth, alle mie spalle, aveva trattenuto un gemito sommesso di commozione e ricordo. Pansy e Dean avevano respirato di sollievo.

Era cresciuta, ovviamente, aveva i capelli più lunghi, biondi, ricci, gli occhi sempre azzurri, le labbra rosse come una ciliegia. Sembrava più alta della media, aveva un modo scanzonato e divertente di camminare, sembrava quasi galleggiare sull’asfalto. Assomigliava a sua madre, Helena, come non mai. Ma non mi aveva dato fastidio, non ero inorridita. Mi sentivo riconciliata persino con lei.

Mi bastava aver trovato Serenity. Perché, oltre che indiscutibilmente l’amore che ho per quella bambina, significava anche aver trovato Draco.

Non poteva averla lasciata. Non poteva. Lo sapevo. Era lì, a pochi passi. Il cuore è diventato un orologio non funzionante che batte ad ogni secondo la mezzanotte, e rintocca impazzito.

Avevo dimenticato tutto, Raissa, Ilai, Tatia. Persino che quello era l’indirizzo da cui quella donna scriveva ad Ilai che intanto, accanto a me, tratteneva il fiato.

La donna che era scesa dalla macchina aveva preso Serenity per mano, aveva detto qualcosa in direzione della vettura in cui, solo ora, notavo anche altri bambini, ed aveva suonato il campanello.

Avevo aguzzato la vista, sebbene cercando sempre di nascondermi dietro un cespuglio, avevo guardato distrattamente Alex come a sincerarmi del colore dei suoi occhi, prima che Draco aprisse la porta. Milioni di domande si erano accavallate in me, avevo cercato di ricordare il suo viso per compararlo a quello che stavo per vedere, avevo implorato il cuore di non cedere adesso.

Ma la porta non era stata aperta da Draco.

“Mamma!” Serenity aveva trillato contenta, abbracciando le gambe della donna che aveva aperto la porta. E io ero gelata, mentre le fondamenta su cui mi reggevo, si erano rivelate per quello che erano. Polvere, brina e un po’ di cemento scadente. Ilai mi aveva stretto la mano inconsciamente, la sua pelle era fredda, mi ero aggrappata ad essa come se stessi galleggiando nel vuoto.

Seth aveva allontanato Alex, Pansy e Dean avevano inventato un gioco per lui e Charisma.

Raissa, con un largo sorriso che non le avevo mai visto, aveva preso Serenity in braccio e l’aveva portata dentro, chiudendosi la porta alle spalle.

Nelle mie orecchie, avevo sentito solo un suono simile a quello di un osso che si rompe. Poi più nulla, non ricordo nemmeno che cosa sia successo esattamente dopo.

Riapro gli occhi faticosamente, mentre sudo freddo. Ilai, accanto a me, mi guarda preoccupato, fingo un sorriso, gli dico che va tutto bene, torno a guardare fuori dal finestrino.

Sono tornata davanti a quella casa per sette giorni, ogni dannata mattina appena mi alzavo da letto. Camminavo per il paese come una sonnambula, i capelli appiattiti sotto un cappello e un paio di lenti scure. Poi mi acquattavo davanti alla siepe del loro giardino, mentre tormentavo le foglie tra le dita.

Sempre la stessa scena: la macchina rossa, la donna bionda, la porta che si apre al suono del clacson.

Raissa che chiama Serenity all’interno, lei che corre fuori con uno zainetto fucsia sulle spalle. Raissa si china alla sua altezza, le sistema meglio i capelli, Serenity sorride. Poi la saluta. Ciao mamma!

Entra nella macchina rossa, la donna bionda saluta Raissa, lei ritorna dentro dopo essersi fermata qualche istante sul patio.

Al pomeriggio, sempre la stessa donna che ho imparato a conoscere come Caroline, riporta Serenity a casa.

I primi tre giorni, quelli in cui ero assolutamente convinta che la cosa non poteva stare come io avevo capito, sono rimasta fuori dalla villa tutta la giornata, riuscendomi a nascondere all’arrivo di ogni auto. Raissa esce di rado, rientra carica di pacchetti, non fuma più, ha un sorriso tirato quando non è con Serenity. Saluta pochissime persone. Si ferma spesso in un bar e scrive molto su fogli disordinati che tiene in un quaderno dalla pelle rossa. Cancella, scribacchia. Poi getta il foglio, dopo averlo bruciato con attenzione con una bacchetta, attenta a non farsi vedere.

Ne avevo raccolto un frammento un giorno in cui non era stata attenta. Ilai, lo sai che… scriveva a lui. Ancora.

Perlomeno, anche io avevo portato via qualcosa a lei.

Mi ero resa conto abbastanza facilmente che Draco non era lì. Raissa chiudeva casa, non appena Serenity tornava. E nessun altro, nemmeno a tarda notte, faceva ritorno.

Ma non credo che semplicemente non ci sia a titolo definitivo. Lo sento, lo so. Lui non avrebbe mai lasciato Serenity, a nessuno. A meno che anche questo non sia cambiato.

E su questo non posso giurare compiutamente.

Per questo devo capire, devo concludere questo percorso in modo definitivo, anche se la risposta mi agghiaccia.

Se Draco non fosse più con loro, probabilmente significherebbe qualcosa di terribile. Forse gli è capitato qualcosa. Ed allora strapperei Serenity a Raissa, e poi la ucciderei, vendicando Tatia e Draco.

Se Draco invece non c’è temporaneamente, allora si aprirebbe uno scenario che non so spiegarmi in nessun modo.

Ammesso che stiano assieme… e ciò già mi fa morire… perché consente a Serenity di chiamarla mamma? Ha rinnegato Helena fino a questo punto? Ha rinnegato anche me… fino a questo punto?

Non avrei la necessità estrema di saperlo, in fondo: potrei benissimo denunciare Raissa ad Harry, mostrarle la lettera di Tatia, farla finire ad Azkaban senza nemmeno mostrarmi a Draco e Serenity.

Ma questa codardia, sorta limacciosa nel cuore di un Grifone, non è da me, non lo è affatto.

Danneggiata, distrutta, fiaccata: ma sono sempre io. Devo essere sempre io.

Quindi devo sapere, per me e per Alex, prima di fare qualsiasi cosa.

La strada naturalmente più semplice sarebbe piombare in casa di Raissa e farle ammettere tutto. Ma potrebbe essere un’arma a doppio taglio: potrebbe mentirmi, ingannarmi e, non da ultimo, mettere in pericolo Serenity. A questo punto, l’unica strada in realtà è diventata un’altra. Parlare con Serenity stessa.

Non posso farlo però nel mio aspetto. Certo, Serenity difficilmente ricorda chi sono, era troppo piccola. E non credo nemmeno che Draco abbia parlato alla bambina di me. Ma potrebbe raccontare a casa che una donna di nome Hermione Granger, l’ha fermata per parlarle. Metterei in allarme Raissa, forse consentendole di scappare. Quindi con Ilai, ho preparato della Pozione Polisucco, in cui scioglierò un capello che ho già prelevato precedentemente dalla psicologa della scuola. Lei, adesso, dorme profondamente a casa sua.

L’altro punto è che, mio malgrado, dovrò far prendere il Veritaserum a Serenity.

So che è scorretto, so che è solo una bambina, so tutto. Ma devo sapere la verità e solo in tale modo, posso sapere con certezza se lei sta bene ed è felice, escludendo la possibilità che Raissa le stia facendo del male in qualche modo. E posso anche sapere dove è Draco, ammesso che siano ancora assieme.

Il taxi si ferma all’improvviso, inchiodando davanti all’edificio colorato che ho visto giorni fa essere la scuola elementare che frequenta Serenity. Scendo dall’auto, dopo aver pagato l’autista che riparte subito. Il cortile della scuola è pieno di bambini che giocano, sono gli ultimi giorni dell’anno scolastico. Peraltro siamo a luglio, è anche strano che qui si frequenti ancora la scuola.

Respiro profondamente, la pelle del viso è gelida e la boccetta con la Pozione rischia di scivolarmi dalla mano. La trattengo forte, facendomi coraggio e puntando lo sguardo sull’edificio.

“Sarò qui fuori…” mi dice Ilai alle mie spalle, la voce calma e pacata, annuisco pensosamente giocando con il tappo della bottiglietta della pozione.

“Sarà la cosa giusta da fare?” chiedo con un filo di voce, voltandomi a guardarlo “E-è solo una bambina…”. Ilai sospira a lungo, poi con dolcezza mi accarezza la guancia prima di dire: “Potresti salvarla per quanto ne sappiamo… non dovresti badare alla forma… è l’unico modo per avere delle risposte o una parte di esse…”, la sua voce si abbassa mentre conclude: “Pensa a tuo figlio. Lo stai facendo per lui, gli stai impedendo di soffrire successivamente… e lo stai impedendo anche a te stessa. Hai diritto di sapere, Hermione… solo allora saprai cosa fare e potremo farla pagare a Raissa per quello che ci hanno fatto lei e Dimitri…”. Ha ragione, ovviamente ha ragione. È uno scrupolo sciocco il mio. Non farò del male a Serenity. Ed in compenso, in tal modo, potrò proteggere mio figlio. Questo ha sempre contato più di tutto. Non deve venire in alcun modo in contatto con Draco, se sta con quella donna, anche se lui è sempre suo padre.

Non posso permetterglielo. E se mi sarà possibile, salverò anche Serenity da questa dannata follia.

Annuisco gravemente ad Ilai, mentre mi dice che mi aspetterà qui fuori. Velocemente, entro nel cortile della scuola e mi acquatto dietro una siepe bassa, ingurgitando in tre sorsi il contenuto dell’orribile pozione. Quando sento il mio viso cambiare, mi azzardo a ritornare in posizione eretta. Il riflesso di una finestra mi rimanda un’immagine completamente diversa di me: sono bassa, tarchiata, con occhiali di madreperla e un vestito rosa confetto. Assomiglio terribilmente alla Umbridge, cosa che mi fa anche sorridere.

“Nancy!” una giovane donna nell’ingresso urla questo nome con foga, agitando una mano nella mia direzione. Dato che nessuno si volta, deduco che stia parlando con me. Ha un aspetto dimesso ma comunque curato, una maglia verde smeraldo ed una lunga treccia che pende su una spalla. Con mia somma fortuna, un bambino minuscolo la chiama per nome, dicendole “Maestra Viola?”, facendomi dedurre che sia un’insegnante. Mi avvicino cautamente a lei, la mia voce suona gutturale e al contempo acuta mentre dico: “Ciao Viola!”.

“Sei in ritardo anche oggi?” sorride lei, guardandomi di traverso “Dennis ti ha fatto dannare di nuovo?”. Ah certo, Dennis… certamente ho capito di che sta parlando…

Fingo un’espressione scocciata, dicendo nervosa: “Non me ne far parlare!”. Viola, per fortuna, scoppia a ridere quindi deduco che non ho detto nulla di sbagliato.

Mi guardo attorno con espressione indagatrice, ma apparentemente indifferente: il bambino che si è avvicinato a Viola sembrava aver più o meno sei anni. L’età che dovrebbe avere Serenity, adesso. Potrebbe essere anche in classe con lei. Non credo che la psicologa della scuola conosca tutti i bambini dell’istituto, quindi è plausibile che chieda numi a lei.

“Senti…” inizio con decisione “Per caso in classe hai una bambina di nome Serenity? Mi hanno chiesto di fare un colloquio privato… cose di routine, sai…”.

Viola si illumina immediatamente e dice: “Serenity Hope Ryan, per caso?”.

Una prima informazione abbastanza scontata raggiunge il mio cervello mentre annuisco: Serenity porta ancora il cognome di Danny Ryan. Certo, siamo in una scuola babbana e comunque forse sono ancora sotto falsa identità, quindi era improbabile che lei adesso facesse Malfoy di cognome. Ma, intanto, forse è un indizio che Draco sia ancora con lei.

“E’ in classe con Dora…” aggiunge Viola, riferendosi ad un’altra insegnante “Ma dato che devo comunque andare a raggiungerla, te la mando in un ufficio ok?”.

“Grazie Viola…” sorrido grata, mentre si allontana. Già ci metterò un’ora a trovare l’ufficio della psicologa… almeno non devo anche trovare la classe di Serenity, vagando tra queste aule tutte uguali.

Quando finalmente scorgo una porta smaltata di rosso con una piccola targhetta con su scritto “Nancy Leibnitz”, Serenity è già seduta fuori dalla porta.

Il cuore mi salta alla gola diventando un tamburo ingovernabile, e persino il mio volto va a fuoco. Mi reggo convulsamente alla parete, cercando di tenermi in piedi, fingendo assoluta tranquillità.

Serenity finalmente solleva lo sguardo, accorgendosi di me. Fa un sorriso dolce, ha le ciglia nere e lunghe che le circondano gli occhi azzurro chiaro. È rimasta identica nell’espressione a quando era più piccolina: il fondo un po’ triste degli occhi chiari, le labbra rosse inarcate sempre in una piega ilare, la postura sempre dritta e composta. Adesso, con le trecce bionde impeccabilmente tenute ferme da nastri rossi, il vestito estivo dello stesso colore e le scarpette di vernice… sembra davvero la figlia di Helena. Le somiglia moltissimo. Solo la forma degli occhi, adesso, mi ricorda qualcosa che con Helena non c’entra affatto… ed è facile collegare Amos Diggory. Ha praticamente lo stesso sguardo di Cedric, il fratellastro che non ha mai conosciuto.

“Voleva vedermi, signorina Leibnitz?” sussurra compita, in modo educato. Ha la voce cristallina, pura, senza tracce di indecisione nel tono. Forse è la sua voce a sconvolgermi di più, spingendomi a deglutire un paio di volte. Quando l’ho lasciata, era una bambina di un anno e mezzo. Non parlava ancora bene, diceva solo qualche parola mozzicata.

Adesso va a scuola, parla fluentemente, sembra intelligente e rispettosa. Sono passati cinque anni, maledizione… è giusto davvero che io sia qui? È giusto davvero che io sia ancora qui?

Serenity è diventata un’alunna di scuola elementare. Alex ci andrà l’anno prossimo. È giusto che io sia qui a perseguitare questa bambina, invece di occuparmi di mio figlio?

Poi, stringendo i pugni, mi rispondo mentalmente in modo affermativo: sì che è giusto. Questa bambina chiama mamma una donna che è stata la più bieca degli assassini.

Qualsiasi dubbio dovrà sempre cedere di fronte a questo.

“Sì, accomodati dentro…” dico esitante, aprendo la porta dell’ufficio che si rivela piccolo, impregnato dall’odore di sigaretta e ricoperto da un’odiosa carta da parati glicine. Sulla scrivania, però, noto quello che maggiormente mi interessa: una bottiglia chiusa di succo di frutta, due tazze fucsia. Resta solo capire come posso distrarre Serenity.

Sentendomi tremendamente in colpa, le indico un libro della mia libreria, chiedendo se può prendermelo mentre sistemo delle cose nello schedario. La piccola, senza sospettare nulla, mi dà le spalle, mettendosi in punta di piedi per raggiungere il libro. Quando si volta, ho già svuotato il contenuto della boccetta del Veritaserum in una delle due tazze, che mi affretto ad annotare mentalmente così da non confonderla con la mia.

“Vuoi bere qualcosa?” chiedo gentilmente, la voce che risuona troppo acuta alle mie stesse orecchie. Ma per fortuna è una giornata calda e la bambina accetta il succo di frutta con gioia, ringraziandomi. In pochi attimi, i suoi occhi azzurri si eclissano, l’espressione diventa tetra e vuota, resta immobile senza nemmeno sbattere le palpebre. Mi si stringe il cuore a vederla così, accarezzo con un pollice una mano che tiene sulla scrivania e sussurro un mesto: “Mi dispiace, piccola…”.

Ovviamente Serenity non fa il benché minimo movimento che possa lasciare intendere che mi abbia sentito. Resta ferma, facendomi ovviamente decidere di concludere questo maledetto interrogatorio quanto prima possibile. Ripercorro mentalmente quello che volevo chiedere, prima di sospirare e di iniziare.

“Come ti chiami?” chiedo atona, lasciandole la mano.

“Mi chiamo Serenity Hope Ryan…” ripete monocorde la piccola, dandomi la prima delle risposte che cercavo. Non è una finzione. È davvero convinta di chiamarsi in questo modo.

“Chi sono i tuoi genitori?” chiedo dopo un attimo di pausa, eccola forse la domanda peggiore. Sospiro lungamente, chiudo gli occhi mentre Serenity risponde senza un attimo di esitazione: “Non ho i genitori. Mia madre e mio padre sono morti quando sono nata. Io non li ho mai conosciuti. Si chiamavano Helena ed Amos”. Riapro gli occhi esterrefatta, guardando il viso inespressivo di Serenity.

Sa la verità, sa di Helena ed Amos. Sa tutto questo. Ed allora perché chiama Raissa mamma? E fino a che punto sa tutto?

“Sai come sono morti i tuoi genitori?”.

“No”.

“Sai del Mondo della Magia?”.

“No”.

Sa poco effettivamente di loro. Sa il necessario per una bambina della sua età. Non sa nemmeno del Mondo della Magia, come voleva Helena a suo tempo.

Proseguo con la gola secca le mie domande: “Con chi vivi allora? Da chi è composta la tua famiglia?”.

Anche stavolta Serenity non ha un attimo di esitazione: “E’ composta dal mio papà e da Raissa”. Ancora mi sfugge qualcosa, il suo papà? Ma se ha appena detto che Amos è morto… e perché allora  non ha parlato di Raissa come di sua madre? Non ci capisco nulla.

“Chi è il tuo papà, allora?” chiedo con un filo di voce, temendo e al contempo augurandomi una risposta specifica.

“Il mio papà si chiama Danny Ryan, era un caro amico della mia mamma… ma per me è il mio papà…”. Migliaia di sensazioni mi punteggiano la schiena, costringendomi a nascondere il viso dietro le palme delle mani, per poi passarlo tra i capelli. Il mio cuore batte forte come se stesse per scoppiare… quel nome… sono anni che non lo sento.

È ancora con lei, è ancora con Serenity.

Lei lo chiama papà… ma sa che non è il suo genitore naturale. Ha trovato la perfetta soluzione a tutto. Non ha mai voluto che Serenity lo considerasse suo padre per il profondo rispetto che aveva per Amos. Ma, al contempo, ha fatto sì di legarsi a lei in un modo ben diverso dall’essere semplicemente suo fratello, come diceva all’inizio. Chissà che cosa le ha detto… come ha fatto…

Per un attimo sordo come un colpo di cannone, ripenso ad Alex. Anche lui chiama Draco papà, ma ne ha tutti i diritti.

Solo che Draco non ne sa nulla.

Il sudore che mi imperla la fronte, per non lasciare nulla di intentato di cui potrei pentirmi, chiedo per conferma: “Puoi descrivermi il tuo papà, Serenity?”.

La bambina mi dà un quadro preciso di lui ed è indubbiamente, indiscutibilmente Draco.

Una gioia feroce, irrazionale, malsana mi esplode nel petto: comunque vadano le cose, io l’ho trovato. Dopo cinque anni, l’ho trovato. Le lacrime mi affannano la vista, per qualche secondo sono assolutamente incapace di dire o fare alcunché. L’aria stessa che respiro, assume odori e sapori diversi perché adesso so che è la stessa che respira e sente lui. Il mondo non è più visi estranei, tra cui lui non c’è mai. È una collezione di immagini che ci uniscono, che improvvisamente sono diventati gli stessi. E tutto, tutto, dalle cose più piccole a quelle più grandi, si indora e ricrea perché le vede anche lui. La mia felicità è immotivata ed irrazionale, stupida, sciocca, e so già malauguratamente di breve durata, considerando che non ho ancora chiarito nulla riguardo a Raissa. Ma la assaporo fino in fondo, piangendo, singhiozzando, gemendo come una bambina commossa. È un momento solo mio, di contentezza assoluta. Sono solo la donna che ama quest’uomo che ha perso, e che ora lo sa vicino. Sono solo questo. Non sono la mamma di Alex, l’amica di Seth, il riflesso speculare di Ilai. Non sono nemmeno Hermione Granger.

Sono l’amore e tutto ciò che ci sta dentro, tutto quello che di egoista e sconsiderato esiste attorno a questo sentimento.

Ovviamente dura poco. Il senso di responsabilità, la razionalità, l’amore per mio figlio, l’affetto per i miei amici, la profonda riconoscenza ad Ilai e Tatia mi riportano indietro, come se fossi sabbia nella marea. Il lascito, però, del ricordo di quanto io ami ancora in modo totale ed impossibile da ignorare Draco Lucius Malfoy, diventa una piccola punta di coraggio e speranza nel mio essere, che germoglia anche nel mio cuore in rovina. È una gemma piccola, timorosa, che darà forse frutti che dovrò sradicare da me stessa con tutta la forza di cui sono capace, ma al momento mi fa sentire più viva e coraggiosa di quanto non mi sia sentita in cinque anni. Improvvisamente è come se fossi tornata la ragazza che amava Draco ed era da lui riamata. Luminosa come una stella.

Questo si ripercuote nella mia voce, che torna ferma e salda, anche se ancora nelle fogge stridule di Nancy Leibnitz: “Dov’è adesso il tuo papà, Serenity?”.

“E’ in viaggio… tornerà tra due giorni a casa…”.

“Non sai dove sia andato?”.

“No”.

In viaggio. Questo, ovviamente, significa che la sua assenza è solamente temporanea. Forse è fuori per lavoro, ovviamente deve essersi trovato un’occupazione in questi anni.

Significa, però, ovviamente anche altro. Che Draco, quindi, effettivamente vive ancora con Raissa.

Senza darmi il tempo di pensare ancora prima che il coraggio mi abbandoni daccapo, faccio la domanda che temevo maggiormente di fare a Serenity.

“Serenity, chi è Raissa?”.

Lei, stavolta, ci pensa su qualche momento. La sua espressione non cambia, è sempre vuota come tutte le persone sottoposte al Veritaserum, ma appare per un attimo insicura come se la risposta non la sapesse nemmeno lei in modo corretto. Poi ovviamente riprende a parlare monocolore: “E’ un’amica del mio papà…”.

“Vive da molto con voi?”.

“Da tanti anni… forse da quando sono nata…”. Non è così ovviamente, ma sicuramente Serenity non può ricordare il suo primo anno di vita dove Raissa era assente.

Respiro a fondo, prima di sussurrare: “Perché la chiami mamma?”.

La risposta di Serenity mi lascia senza parole. Devo persino chiederle di ripetere daccapo che cosa ha detto, dato che sono sicura di aver capito male. Artiglio le mani attorno alla scrivania, le palme che sudano, mentre Serenity nuovamente dice: “Perché me l’ha chiesto papà…”.

Draco ha chiesto a Serenity di chiamare Raissa mamma. Il cranio mi formicola di granchi ghiacciati, che diamine significa? Un atroce sospetto si traduce in una stretta crudele alla bocca dello stomaco, mentre un conato di nausea mi fa chinare in avanti e portare una mano alle labbra. Draco ha chiesto a Serenity di farlo. Questo, ovviamente, significa che alla bambina non è venuto naturale come è accaduto con lui, come le è parso normale chiamare Draco papà. Significa quindi anche e probabilmente che questa richiesta è stata fatta in uno specifico momento, ben localizzato.

“Quando ti ha chiesto papà di chiamare Raissa così?” la mia voce è un pigolio indistinto, ma Serenity per fortuna mi sente. Ed un attimo dopo, vorrei che invece non mi avesse sentito affatto.

“A Pasqua… quando mi ha detto che avrebbe sposato Raissa…”.

Tre mesi fa. Solo tre mesi fa: Draco ha deciso di sposare Raissa. Forse l’ha già fatto, forse è sua moglie. Ha voluto che Serenity chiamasse mamma la sua matrigna, ovviamente. Ed io, invece, che avevo ogni diritto che Alex chiamasse papà Ron, perché nemmeno avevo la certezza che sarei tornata in Inghilterra, non l’ho mai fatto.

Il giardino verdeggiante che mi cresceva dentro, viene riarso dal fuoco della rabbia e del dolore. Piango piccole lacrime di frustrazione, batto i pugni sulla scrivania, mi piego sconfitta. Nessuna premura e remora, adesso, mi cautela dal fare troppe domande a Serenity. Divento affamata di risposte che mi trafiggano come frecce, facendomi sentire sempre più idiota.

“Si sono già sposati?”.

“Non ancora…”.  Soffoco l’anelito caldo del sollievo, perché è temporaneo, improvvido, imbecille. Potrà anche non averla ancora sposata. Ma sta per farlo, sta per sposare l’assassina di Tatia Krasova. Sta per sposare una donna che non sono io. E quando l’ha chiesto a me cinque anni fa, mi aveva rassicurato che sarei potuta essere qualsiasi cosa avrei voluto per Serenity. Adesso, invece, Raissa l’ha resa sua madre. Non potevo esserlo io, evidentemente. Non ero adatta? Non andavo bene? Il livore mi rendono cieca, sorda, ma non muta. Perché continuo nelle mie domande, stringendo i pugni, piangendo, persino alzando la voce. Sono domande che Serenity non potrebbe sciogliere, eppure le faccio lo stesso.

“Il tuo papà ama Raissa?”.

“Papà vuole bene a Raissa”.

“Raissa ha mai puntato una bacchetta contro papà?”.

“No”.

“E contro di te?”.

“No”.

“Lui la bacia? L’abbraccia? Che cosa le dice?”.

E continuo così, come una pazza invasata, fino a quando distinguo una scintilla di lacrime negli occhi di Serenity. La rabbia si accuccia in un angolo di me, mentre riconosco di nuovo la versione avariata di me stessa che stamattina ha ferito Alex. Forse, davvero, io la mamma non la so fare. Forse, davvero, è meglio che la madre di Serenity sia Raissa, che è un’assassina.

Chiudo le braccia sul tavolo, poggiandoci sopra la testa, continuando a piangere, a singhiozzare senza ritegno. Come se l’anima si fosse impigliata in qualcosa ed avessi dato uno strattone per liberarla, ora mi sento lacerata, brandelli di quella che ero mi pendono inutilmente dalle mani. Le lacrime sciolgono persino il mio aspetto da psicologa, riconosco subito il pizzicore della Polisucco che svanisce ma non riesco a fare un passo. La sta per sposare. Si sta per sposare. Come diamine ha potuto? Come ha potuto cancellarmi da tutto?

Non mi sollevo, non mi rimetto seduta, continuo a piangere, piegata in due, mentre chiedo ancora: “Serenity, papà ti ha parlato mai di una persona che si chiama Hermione Granger?”.

Il “no” della bambina riecheggia nella stanza come l’eco di una campana a morto. Non le ha mai parlato di me, non le ha mai detto nulla. Vive nella sua bella casetta bianca con sua figlia e la sua promessa sposa, dimentico di tutto l’inferno che mi ha gettato addosso da quando l’ho incontrato, dimentico del figlio che mi ha lasciato, dimentico di tutto quello che ho passato.

L’effetto del Veritaserum finirà tra poco, Serenity tornerà cosciente, vedrà il mio vero aspetto. Ma io non riesco a fare nemmeno un passo, neanche alzo la testa, la luce del sole adesso sarebbe come l’eco di lui nei miei occhi e forse finirei anche per cavarmeli dal viso, pur di non immaginarmelo ancora.

“Oblivion…” una voce calda raggiunge le mie orecchie, ma sono così senza forze da non sollevare nemmeno la fronte. Al solo tonfo di Serenity che cade addormentata sulla scrivania, mi sollevo con preoccupazione, asciugandomi le lacrime velocemente dal viso. Poi, nella foschia che mi avvolge le pupille, riconosco la figura che ho di fronte e ricomincio a gemere, devastata.

“La sta per sposare… Draco sta per sposare Raissa…” biascico, nascondendo ancora il viso tra le mani, mentre definitivamente crollo, vado in pezzi, rovino come un calcinaccio umido di pioggia.

Affondo il viso nel collo di Ilai, nascondendomi alla luce. Lui si china su di me senza parlare, mi stringe per qualche secondo.

Poi mi solleva, mi prende in braccio e mi tiene tra le sue braccia.

Resterai con me? Sempre.

Anche dopo essersi Smaterializzato con me nel salotto vuoto della casa dove alloggiamo, Ilai mantiene la sua promessa.

Non mi lascia andare. Resta con me, sempre.

 

 

Passione, istinto, ragione, intuito. Tutto si sente in diritto ed in dovere di aprire bocca per commentare. Peccato che la mia decisione sia maturata altrove, in una zona grigia dell’anima e del corpo, che non sapevo nemmeno di avere. Si chiama ineluttabilità, fatalità, irrimediabilità. Ha le fogge di un pesante mantello grigio che ha il vantaggio di coprirmi, ma che al contempo pare soffocarmi.

Sotto questo ombrello improvvisato, sono salva, al sicuro, ben protetta. Sono di nuovo roccia e montagna.

Ma non sono nulla di diverso da questo. Non che mi interessi, al momento nulla mi interessa davvero. Specie me stessa, specie tornare ad essere compiutamente me stessa. E sentire qualcosa, un qualcosa di liquido e caldo che rompa la monocromia che avverto dentro come profondamente rilassante e necessaria.

Sto anche bene adesso, perché so che cosa devo fare. Nulla mi farà cambiare idea.

E nessuno.

Seth è sempre stato passione: quello del romanticismo, delle gote rosse, delle parole dolci, dell’amore che supera ogni ostacolo. Uno che crede profondamente nel bene, che crede nella gente prima di tutto e prima di tutti, uno che “se è vero amore, non c’è nulla che possa farlo cambiare”. È convinto di avere ragione, perché la sua vita è stata sofferenza affettiva continua, ma poi ogni sua lacrima è stata ricompensata ed asciugata. Lui c’era al Petite Peste, c’era nel momento in cui non c’eravamo ancora nemmeno io ed Draco assieme. Crede che ci apparteniamo dal momento in cui ci siamo baciati sulla terrazza, la sera del Tourquoise Party. Non crede alle mie parole.

Dean è sempre stato istinto: quello delle decisioni improvvise, degli scatti di pancia, del gesto subitaneo, della parola sfuggita. Uno che crede profondamente in quello che il corpo stesso comunica in date occasioni, che pensa che sfogarsi sia sempre la cosa migliore, che manda a quel paese. È convinto di avere ragione, perché ha seguito l’impulso con una donna che con lui non aveva nulla a che fare, ed ha vinto la felicità. Lui c’era quando Ron mi ha tradito, c’era nel momento in cui mi sono giocata tutto pur di ottenere la ragione che meritavo. Crede che io non debba fuggire, che debba lottare, che debba essere la Grifondoro che sono sempre stata. Non crede alle mie parole.

Pansy è sempre stata ragione: quella dei ragionamenti, delle conclusioni, delle riflessioni, dei calcoli ferrei e lineari. Una che crede profondamente che bisogna sempre contare fino a duemila prima di dire o fare qualcosa, e poi magari ricominciare, specie se di mezzo un figlio. È convinta di avere ragione, perché anche se non lo direbbe mai, un giorno ha scelto l’amore di fronte al destino, ragionandoci su, anche al di là del cuore. Lei c’era quando Draco se ne è andato, c’era quando non ci siamo fidati di noi stessi al punto di sposarci. Crede che io mi tirerò indietro, rivendicherò l’assurdo desiderio egoista d’amore che mi ha spinto fino ad ora. Non crede alle mie parole.

Ilai è intuito: quello delle parole uguali che sgorgano sulle labbra, dello schiocco di dita che è improvvisa comprensione. Uno che crede profondamente che la vita ci metta davanti dei segnali che sono solamente da decifrare nel modo più giusto. È convinto di avere ragione, perché la donna che amava è sempre stata fluido e magico intuito e lo protegge ancora dal Regno dei Cieli, al punto da avergli donato questo rapporto fatale. Lui c’era quando Serenity ha parlato, c’era quando mi ha raccontato la verità su Draco e Raissa. Crede che io menta dicendo che è la scelta migliore, che così soffrirò meno, che è la scelta giusta per me e mio figlio. Non crede alle mie parole.

Nessuno di loro, che lo dicano o meno, crede alle mie parole.

“Domani io ed Alex partiamo… e non incontreremo Draco…”.

Le parole che pronuncio, alle mie stesse orecchie, tuonano come assurde. Eppure, non me le potrei rimangiare nemmeno se volessi.

Dopo aver incontrato Serenity, Ilai mi ha riportato a casa. Mi ha messo a letto come se fossi una bambina con la febbre, mi è rimasto accanto seduto sul letto, mentre restavo distesa sulla coperta, lo sguardo fisso nel vuoto e l’unghia del pollice in bocca. Si è allontanato da me solo quando sono tornati Seth, Pansy e Dean. Ha raccontato quello che era successo e loro hanno tenuto Alex lontano da me dicendo che la mamma aveva la febbre. Sono rimasta tutto il giorno a letto, fantasie scomposte che si inseguivano nel mio dormiveglia. Non riuscivo a focalizzarne nessuna, neanche una, nemmeno mezza. Frammenti di frasi, di immagini, di suoni, come un carnevale ridicolo che non smetteva mai di tamburellarmi nella testa. Il solo rimedio era non fare nulla, restare ferma, ancora.

Sperare che passasse.

Mi sarei addormentata di un sonno lungo mille anni, se mi avessero detto che al risveglio mi sarei dimenticata tutto.

All’alba, improvvisamente, pochi passi. Soffici, tenui, cauti. Tutto il mio essere è stato attraversato da una corrente elettrica continua, mi sono tirata a sedere, ho guardato verso la porta.

Alex era in piedi, l’orsacchiotto tra le braccia, un dito in bocca, l’espressione persa. Gli occhi grigi erano gonfi di lacrime, mi guardava per la prima volta temendo di avvicinarsi.

E lì, improvvisamente, è successo. Draco e Raissa sono scivolati fuori da me, le macabre premonizioni sul loro matrimonio mi hanno lasciata esanime ma perlomeno capace di prendere decisioni, ed ho capito improvvisamente che la sola cosa che conta, davvero, per sempre, è mio figlio. Più sto qui e più perdo me stessa, più rischio di fare male a lui. La ricerca di Draco doveva essere, oltre che il mio intransigente desiderio da donna innamorata, la ricerca del padre di mio figlio affinché lui potesse conoscerlo. Adesso io so che Draco non può conoscere mio figlio, non deve farlo, deve starci solamente lontano. L’uomo che ama e sposa l’assassina di Tatia, non può nemmeno respirare accanto a mio figlio. Sia come sia, che sappia la verità, che non la conosca, che sia stato ingannato o tutto quello che ne consegue… se ama quella donna, non può amare me e mio figlio. E questo è quanto.

Rischiamo entrambi che lui ci faccia a pezzi il cuore. E se l’ha già fatto in decine di modi diversi a me, il cuore di Alex non deve nemmeno sapere come è fatto.

Non è vendetta, non è puntiglio, non è nemmeno rabbia. È l’ineluttabile destino della madre, che mette in scacco la donna, l’amante, l’amica, la figlia, la guerriera.

Alex ha dormito con me, dorme ancora adesso. L’odore dolce di borotalco per bambini, il suo respiro calmo finalmente, il tenue sorriso sulle labbra quando gli ho promesso che saremmo andati alla festa di paese a cui teneva tanto, il pugnetto stretto attorno alla mia camicia: è stato come sentirmi a posto, finalmente, con me stessa.

Per questo, qualsiasi cosa diranno, qualsiasi cosa i miei amici diranno, non cambierà nulla.

Domani io ed Alex partiamo… e non incontreremo Draco.

“Sei sicura Herm?” chiede con voce tremante Seth, alzandosi in piedi “Insomma per quanto ne sappiamo, Danny può essere sotto il controllo di Raissa… lo dovremmo scoprire prima, lo dovresti salvare in quel caso… non credi?”. Sollevo il mento, la voce fredda: “No. Non è affare mio. Denuncerò Raissa alle autorità. Loro scopriranno anche fino a che punto Draco è coinvolto… non è necessario che io resti qui e non è necessario che ci sia anche Alex. Serenity non era sotto Imperius, me ne sarei accorta… e le ho chiesto se Raissa ha mai puntato la bacchetta contro Draco, se lo controlli, se Draco sta male. La risposta è sempre stata no. Non poteva mentirmi… e se anche l’Imperius fosse stato più forte del Veritaserum, lei a quel punto avrebbe rotto il controllo della pozione pur di non sconfessare Raissa, qualora l’avesse controllata. So come funzionano queste cose, sono stata il Capo degli Auror per anni. Mi sarei accorta di una cosa del genere”.

“E se fosse un controllo diverso?” bisbiglia Seth con un filo di voce, fronteggiandomi a pugni chiusi “Se fosse semplicemente che… gli ha fatto il lavaggio del cervello?”.

Un sorriso amaro curva le mie labbra, mentre rispondo ancora gelida: “Seth, tu conosci Danny Ryan, ma non sai nulla di Draco Malfoy. Il lavaggio del cervello non se lo farebbe fare da nessuno… se ha scelto di…”, nonostante la mia convinzione, non riesco comunque a terminare la frase senza che la voce mi tremi. Deglutisco un paio di volte, tossendo, poi concludo: “… è perfettamente in possesso delle sue capacità intellettive, ti dico. Ed anche se non lo fosse, quando arresteranno Raissa, avrà tutto il tempo di accorgersene. Certo, non gli servo io per saperlo…”.

“Ma tu lo ami!” biascica sconfitto Seth, lasciandosi cadere su una sedia, le mani tra i capelli. Un singhiozzo si rompe nella mia bocca, fingo ancora di tossire per fermarlo, il petto che echeggia vuoto.

“Amo di più Alex…” mormoro sicura, distogliendo lo sguardo da Seth per puntarlo sulla finestra. La luce mi inonda le iridi, chiudo gli occhi per il fastidio: “E per quanto adesso mi sembra il contrario, è importante che ricominci anche ad amare me stessa… non potrò farlo se continuo ad inseguire la speranza remota che questa storia vada a posto per un motivo qualsiasi. Tra me e Draco era finita cinque anni fa. Non siamo stati noi a volerlo, d’accordo. Ma era finita allora e lui è andato avanti. Io no. Adesso ne sono più consapevole di quanto sia mai stata…”.

“So che probabilmente a queste parole, l’inferno gelerà… ma la Granger ha ragione, Seth…” la voce monocorde di Pansy mi raggiunge da un punto imprecisato alla mia sinistra, la vedo con la coda dell’occhio accendersi una lunga sigaretta che emette un buon odore di arancia e vaniglia. Dopo averne dato una boccata, aggiunge seria: “Non sei madre, Seth… e non puoi capire…”.

Mi volto a guardarla, lei ovviamente non fa il minimo accenno nella mia direzione ma prosegue calma: “Se fosse successo a me con Charisma, avrei fatto esattamente la stessa cosa. Anzi probabilmente al posto tuo, non avrei nemmeno lasciato l’Italia. Mi sarei aggrappata a chi avevo accanto in quel momento… so che nel tuo caso era Weasley, quindi qualsiasi cosa era migliore…”, sollevo gli occhi al cielo e reprimo un sorriso scomodo mentre continua: “… ma è vero che essere madre cambia la vita. Devi andare avanti per forza. O vuoi, o non vuoi. Tu hai messo in pausa tutto, invece… Alex merita che invece tu vada avanti. La condanna è finita, l’esilio anche. È ora che inizi a viverla davvero questa tua esistenza… se non altro per Alex. Un giorno, probabilmente, scoprirai anche il piacere di viverla per te stessa. Ma adesso è a lui che devi pensare…”. Pansy spegne la sigaretta con un gesto elegante, mentre io silenziosamente la ringrazio mentalmente.

La sua voce ha un tono più triste mentre continua: “E non credere che sia facile per me dirti questo. Draco è sempre il mio migliore amico. E so anche che… quello che provavate voi due… difficilmente si trova ancora e difficilmente lo provano altri. Credimi, lo so…”, nei suoi occhi passa veloce un lampo d’oro liquido, ricorda i colori dell’autunno, ricorda dei pomeriggi bagnati dalla luce del sole fattosi di bronzo. Dean conosce lo stesso sguardo per qualche secondo e penso immediatamente che qualcosa nelle parole di Pansy, sia chiaro solo a loro due e ai loro ricordi.

Pansy capisce ovviamente. Lei e Dean si sono innamorati dello stesso amore assurdo di cui ci siamo innamorati io e Draco.

“Per questo, non ti credo…” aggiunge stentorea, sistemandosi meglio sulla poltrona “Non ce la farai a rinunciare a lui. Tornerai indietro… basterà il tempo di capire che non ce la fai ad andare avanti senza di lui. Ti spezzerai definitivamente e ti trascinerai dietro anche tuo figlio… perché anche se Draco non sposasse più Raissa, anche se tornasse… non sarà più la stessa cosa. Dovreste ricominciare daccapo. E siete genitori adesso, non potreste semplicemente mandarvi al diavolo quando vi va. Sareste costretti a stare assieme. Ed inutile che ti dica che secondo me, non ne siete stati in grado… mai… ti ha chiesto di sposarti appena vi siete messi assieme. L’hai lasciato appena ti ha mostrato l’anello di Helena. Siete sempre stati deboli. Con Alex, finireste semplicemente per fare un’ulteriore vittima, oltre voi stessi…”. Le parole di Pansy aleggiano nel silenzio che galleggia pigro nella stanza, sono troppo studiate per non capire che se le teneva dentro da anni.

Non posso obiettare, non posso contraddirla, a suo modo ha ragione. So anche, però, che il bello di questa storia è che la vita non darà mai ragione a me o a lei. Ci lascerà per sempre il beneficio del dubbio, riguardo a quello che poteva essere e non è stato tra me e Draco Malfoy.

Ignoro ogni accenno a me e a lui assieme e ribatto solo alla prima parte della sua frase: “Suppongo che dovrai fidarti della mia volontà di chiuderla davvero questa storia. E se ci scommetti contro, hai anche una discreta casistica che ti sostiene… a me basta sapere che sei dalla mia parte, a tuo modo. Credo che sia il massimo che possiamo ottenere l’una dall’altra no?”.

“Ci mancherebbe… il giorno in cui dirò che mi fido di te e delle tue scelte, sarà anche il giorno in cui truccherò lo Smistamento di Charisma perché finisca a Grifondoro…”.

“E il giorno in cui io sarò d’accordo con il tuo piano, sarà quello in cui Charisma finirà a Serpeverde!” biascica velocemente Dean, toccato dapprima dalla frase della moglie e successivamente ancora dalla considerazione della mia decisione. Sospiro, preparandomi all’ennesima filippica. Dean si alza in piedi, rovesciando quasi all’indietro la sedia su cui era seduto. Seth lo guarda con una cupa nebbia di speranza, mentre Pansy si massaggia la tempia come se avesse mal di testa. Ilai resta immobile, la schiena poggiata alla parete, gli occhi chiusi, le braccia conserte.

“Lascerai che quella la faccia franca?! Lascerai che Raissa la faccia franca?!” ripete Dean nervosamente, andando avanti ed indietro per la stanza, gettandomi ogni tanto un’occhiata furente.

“Io non lascerò proprio stare nulla!” trovo nella mia voce l’eco di un po’ di forza nervosa, cosa che porta Dean ad un sardonico sorriso. Mi affretto immediatamente a respirare, cercando di calmarmi, mi conosce troppo bene per non farmi capitolare nella sua trappola. Preme un po’ sui miei punti deboli e crede naturalmente che io cederò come ho sempre fatto. Si sbaglia anche lui.

“Solo, non sarò qui per guardare la fine di Raissa…” dico serena, chiudendo le braccia “Denuncerò la morte di Tatia, consegnerò la lettera… e dirò anche quello che ha fatto a me, assieme a Dimitri. La pagherà, certo che la pagherà… solo che non voglio essere qui, per quando accadrà… voglio andarmene, voglio essere in grado di ricominciare da sola. Non avrei comunque potuto affrontarla. Mai… se si fosse trattato solo della mia incolumità, l’avrei fatta a pezzi dal momento che l’ho vista con Serenity. Ma c’è Serenity appunto, c’è Alex… non posso affrontarla, devo lasciare questa cosa agli Auror. La cattureranno… e allora…”.

“… e allora Malfoy saprà tutto, a questo non hai pensato?” bercia affrettato Dean, guardandomi intensamente in viso.

“Certo che ci ho pensato… se accadrà… se verrà lui a cercarmi, sarà una sua scelta, non mia…” mormoro affannosamente, mettendo a tacere la parte di me che continua a sperare che ciò avvenga “E solo allora, deciderò che cosa fare… e se lui non mi cercasse mai… quando Alex sarà grande abbastanza per capire, gli racconterò tutto. Sarà lui a decidere se vuole conoscere suo padre…”.

“E’ assurdo tutto questo…” commenta Dean, lasciandosi di nuovo cadere pesantemente sulla sedia.

“No, non lo è… io voglio solo mettere a posto la mia vita, raccogliere i cocci… non continuare a vivere in funzione di Draco…” dico con un filo di voce “Per cinque anni l’ho considerato indispensabile alla mia felicità… lui non ha considerato me allo stesso modo. So che probabilmente si sarebbe dovuto rifare una vita, era anche giusto visto quello che Astoria gli aveva fatto credere di me… ma non con Raissa… non posso accettarlo. Non posso. Voglio solo acquistare la forza sufficiente ad andare avanti da sola… che domani accada quello che deve accadere, ma devo imparare ad essere una brava madre senza il pensiero di Draco, senza il pensiero che Alex sia suo figlio e che io lo faccia anche per lui. Voglio che, sia che mi venga a cercare, sia che non lo riveda mai più, per me la vita vada avanti lo stesso… ed accada la stessa cosa anche per mio figlio. Voglio solo questo. Me lo merito.”.

Le mie parole vengono accolte da un profondo silenzio, tutti finalmente tacciono come se alla fine io avessi detto davvero delle parole risolutive. Ho detto solo la verità, nulla di più di questo. Voglio solo ricominciare a vivere per conto mio, sciogliendo il filo rosso che mi lega a Draco. Può darsi che sia solo per vedere se resiste, può darsi che io lo faccia perché non posso sopportare che per un momento qualsiasi della sua vita lui abbia scelto Raissa, può darsi che io lo faccia solo per non dargli occasione di far soffrire Alex, può darsi che io lo faccia perché sono davvero stanca adesso.

Ma è quello che voglio. È quello che davvero voglio, adesso.

“Che cosa farai ora?” pigola Seth con un filo di voce, sedendosi accanto a me e chiudendo le mie mani nelle sue. Sollevo il viso, fissandolo per qualche istante, poi i miei occhi sfuggono involontariamente dietro di lui, raggiungendo Ilai. Lui riapre gli occhi in quello stesso momento, limitandosi a restituirmi lo sguardo.

Sa anche questo. Ilai si stacca dal muro, rimane immobile e continua a guardare me e Seth. Distinguo le sue mani che tremano un po’. Deglutendo pesantemente, sussurro: “Oggi accompagnerò Alex a quella fiera di paese a cui voleva andare… almeno gli resterà un bel ricordo di questo viaggio…”, sospiro e torno a guardare Seth: “… e poi vado in Finlandia...”.

Il silenzio che ha accolto prima le mie parole non ha assolutamente nulla a paragone con questo di silenzio.

Pesante, teso, colmo di sottointesi.

Dean si guarda le scarpe, Pansy assume un’espressione indecifrabile e Seth si limita a mormorare un asettico ed educato: “Capisco…”. Le sue mani però si stringono così forte sulle mie che temo che tra poco non mi circolerà più il sangue. Seth poi non sa nemmeno che cosa sia un tono sommesso ed educato di rassegnazione, conosce piuttosto le repliche urlate. Quindi se sta zitto, è solo perché non vuole parlare alla presenza di Ilai. Ho persino la curiosa sensazione che a Seth, Ilai faccia persino paura.

Ilai, forse capita l’antifona, fa qualche passo ed esce dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.

Lì, ovviamente, la stanza stessa esplode. Faccio solo in tempo a staccare le mani da quelle di Seth temendo che me le torca del tutto, prima che lui si alzi in piedi paonazzo chiedendo spiegazioni.

Spiegazioni che, per inciso, non ho. Volendo essere quanto più neutra possibile, so che ho deciso di andare in Finlandia perché la calma di quella terra mi è entrata dentro e credo di averne bisogno più che mai adesso. E’ un posto tranquillo, pieno di natura amichevole e generosa che so che ad Alex piacerebbe molto. Non da ultimo, è vergine di ricordi. In Italia non posso tornare, avrei sempre in mente questi anni e mi sembrerebbe di tornare indietro. In Inghilterra, per ora, non voglio rimanere, ogni cosa mormora di Draco e ci sono troppe persone a cui dovrei troppe spiegazioni per un figlio che non ha padre. Peraltro Seth vive ancora al Petite Peste con Kevin e io lì non ci ritornerei nemmeno morta. Dean e Pansy hanno la loro vita, hanno Charisma, non mi intrometterei mai troppo nella loro esistenza. Ginny ed Harry idem. E per quanto riguarda me, al momento, non ho una casa qui. Resterei in Finlandia per l’estate, quindi solo altri due mesi, il tempo di schiarirmi le idee… e poi tornerei qui. Alex inizierà la scuola a settembre e, per allora, credo che avrò capito che cosa voglio fare di me stessa e della mia esistenza.

Simili considerazioni, però, io potrei farle per qualsiasi posto al mondo. Potrei andarmene in Spagna, in Francia, in America. E sarebbe lo stesso.

Ed invece ho scelto la Finlandia, ho scelto Tampere, ho scelto di vivere da Anya ed Ilai.

Stamattina, appena sveglia, ho lasciato Alex a letto e sono uscita in giardino. Faceva fresco, l’odore del mare era remoto come quello di una conchiglia, mi sono stretta nelle spalle e seduta su una panchina bianca, proprio sotto un albero di pino marittimo. Avevo già preso la mia decisione, ne ero più che mai convinta, attendevo solo di dirla agli altri.

Ilai, in silenzio, è apparso quasi dal nulla e si è seduto accanto a me. Aveva i capelli più spettinati del solito, come se non avesse chiuso occhio per tutta la notte, gli occhi erano cerchiati, le labbra serrate e screpolate. Ho sussurrato la mia decisione senza guardarlo in volto, continuando a tenere lo sguardo ostinatamente rivolto alla finestra della camera dove dormiva Alex.

“Credi davvero che sia la decisione giusta? Che riuscirai a lasciarti tutto alle spalle?” mi ha chiesto, la voce quieta, calma, tranquilla.

Per un attimo ho capito perfettamente perché fa il pediatra, rende le persone sicure, non ti fa temere nulla.

Mi sono lasciata andare contro lo schienale della panchina e ho sorriso lievemente: “Ci riuscirò mai davvero un giorno? Lascerò mai davvero tutto indietro? La risposta è no e lo sai anche tu. Ma è l’unico pensiero che mi consente di non andare in pezzi… quello di pensare di andarmene… e se è così, forse vuol dire che è la cosa giusta…”. Lui è rimasto in silenzio, non ha aggiunto altro, nemmeno quando gli spiegavo che avrei denunciato Raissa, avrei consegnato la lettera e avrei anche raccontato della sua collaborazione con Dimitri nel tenermi reclusa. In risposta, ha soltanto detto che lui comunque sarebbe rimasto fino a quando non avesse visto Raissa trascinata in catene, poi sarebbe tornato a casa sua a Tampere. Per qualche secondo solo il rumore degli alberi che stormivano nel vento del primo mattino ha fatto compagnia ai nostri respiri, poi, mentre riflettevo concretamente su dove andare e mi rendevo conto che non avevo un posto da chiamare casa in senso stretto, Ilai si è alzato in piedi e mi ha dato le spalle facendo qualche passo. “Ad mia sorella Anya … piacciono molto i bambini, non ne ha di suoi. E io e Tatia non abbiamo fatto in tempo a darle un nipote…”. Il viso mi è andato a fuoco, come se fossi febbricitante mentre ancora mi colpiva quasi a tradimento l’intimità dei pensieri che sembriamo sempre condividere.

Mi sta dicendo… che ad Anya, Alex piacerebbe, che mi aiuterebbe a prendermi cura di lui.  

Mi sta dicendo di andare a casa sua, in Finlandia.

Ho deciso di accettare nello stesso momento in cui me l’ha chiesto. Ancora, di motivi razionali io ne ho a iosa. L’ho già spiegato e adesso mi affanno anche a spiegarlo ai miei amici. Ma non è solo questo. Ovvio, lo so. E Pansy stranamente svela quello che mi sto tenendo dentro: “L’ho detto io, prima no? Qua si tratta dell’aggrapparsi a quello che si ha… hai imparato troppo tardi la lezione, Granger… considerando comunque che sei migliorata, passando dalla concreta possibilità di restare attaccata come una cozza allo scoglio a Weasley, a quella invece di Radcenko… possiamo dedurre che il tuo ritardo nell’apprendimento sia anche stato provvidenziale…”. Non è ovviamente solo questo: mi sto aggrappando ad Ilai, perché è Ilai, non perché è la sola alternativa presente.

Lui mi dà l’impressione di prendersi cura di me. Ecco, e io non ci sono affatto abituata. L’unica volta in cui qualcuno si è preso cura di me, è durata dieci giorni e mi è stata strappata via.

Quello che io e lui condividiamo, è un calderone liquido di sentimenti che altri non possono provare: la stessa persona che ti strappa l’amore della tua vita.

Come fai a non sentirti unita a quella persona?

Ilai poi è silenzio, quiete, stasi: mi abbevero alla sua calma come se fossi un’assetata. Magari non è normale un così forte attaccamento ad una persona che, in fondo, è poco più che uno sconosciuto… ma non mi interessa. Mi fido ancora troppo di Tatia e dell’avermi guidato a lui per mettere in dubbio questo affetto. Per tutta la vita, poi, ho sempre cercato di spiegarmi le cose e il risultato è come sto adesso. Se ho qualcosa, qualcuno che mi fa sentire bene… mi va bene qualsiasi motivo per cui ciò avvenga.

Ovviamente che per me tutto sembri così chiaro nella testa, non implica che sia lo stesso per gli altri. La mancanza di etichette specifiche a quello che sento che siano traducibili in parole razionali, impedisce che loro comprendano. Se per Pansy alla fine il mio è calcolo puro e semplice e glielo lascio pensare perché mi fa comodo non avere altre domande, per Seth soprattutto o si parla di amicizia, o si parla di altro. Ed io ed Ilai ci conosciamo da troppo poco per essere amici secondo lui.

“Si sta semplicemente aggrappando a lui…” ripete Pansy con voce annoiata, mentre Dean borbotta: “Giuro che d’ora in poi avrò anche paura di andare a comprare il latte, se corro il rischio che ti aggrappi pure al postino in mia assenza…”. Pansy lo ignora bellamente concentrandosi su Seth che continua a blaterare: “Cioè capisco che insomma… sia... un bel tipo… hai degli addominali su cui ci potresti grattugiare il formaggio…”, sgrano gli occhi e lo guardo sconvolta, giuro che questa me la scrivo da qualche parte “… e non ci sarebbe nulla di male se tu… credessi di provare qualcosa per lui… ma ok, un po’ di sesso consolatore, un paio di baci… ma addirittura che te ne vai a casa sua! Mi sembra troppo! Non ti sarai innamorata di lui?!”.

“Seth, per favore…” mormoro atona, senza nemmeno prendermi la briga di arrabbiarmi “Non sono innamorata di Ilai e non ci farò nemmeno del sesso consolatore… ammesso che io capisca che sia il sesso consolatore…”.

“Io ne ho un ricordo… mi sa che è iniziata così tra me e te…” commenta allegro Dean, facendomi l’occhiolino. Per fortuna che Pansy pensa bene di lasciar cadere accidentalmente il suo piede su quello del suo adorabile marito, prima che lo strozzi io con le mie mani.

“E poi Ilai resta qui fino a quando non arrestano Raissa, non è che partiamo assieme nel fulgore dell’aurora…” biascico senza eccessiva convinzione, sapendo che comunque lui prima o poi a casa ci deve tornare “E comunque, sia come sia, non credo di essere legata a qualcuno. Potrei anche decidere di sposare Ilai o il fantasma di Nick quasi senza testa, e sarebbero solamente affari miei, no?”.

Seth ovviamente continua a bofonchiare per un’altra quindicina di minuti, ma alla fine concorda sul fatto che io debba fare quello che sento di fare. Del resto, di fronte all’argomento per cui Draco sposa Raissa, mi concederebbero di fare qualsiasi cosa.

“Vi ringrazio per quello che avete fatto per me in queste settimane…” le lacrime si formano nei miei occhi prima che le possa fermare “Grazie davvero, io non so se sarei sopravvissuta senza di voi. Non lo so davvero. Quello che avete fatto per me, per Alex… non lo dimenticherò mai”. Mi asciugo frettolosamente le lacrime dagli occhi, mentre Dean sorride e Pansy finge di essere profondamente interessata allo stato delle sue unghie. Ma la sua mano trema un pochino quindi credo che mi abbia sentito. Seth, manco a dirlo, singhiozza. Gli batto amichevolmente una mano sulla spalla mentre mormora: “Non volevo che finisse così…”. Un groppo pesante in gola, dico piano: “Non era certamente nemmeno quello che volevo che accadesse a mia volta… ma le cose adesso stanno così… e poi non è un addio, Seth, diamine! A settembre vengo al Petite Peste e mi fai vedere il parquet che hai messo nella sala ristorante!”.

“E vieni anche a vedere Charisma… magari la riusciamo a far sposare con Alex, ti immagini?! Saremo consuoceri, che figata…” asserisce convinto Dean, strappandomi finalmente una risata allegra, specie quando Pansy obietta: “Certo, vieni con questi propositi matrimoniali per due bambini di tre e cinque anni… e vi mando in Romania a curare la carie di tutti i draghi presenti sul suolo nazionale...".

Alla fine tutti assieme decidiamo di andare assieme alla fiera di paese, per cui Alex mi ha dato il tormento contagiando anche Charisma. È in un paese vicino, quindi dovremo prendere il treno. Poi, torneremo qui e ci divideremo.

Sto per tornare in camera mia per svegliare Alex, quando mi rendo conto che non so se ad Ilai vada di venire con noi. Allo stesso tempo mi rendo anche conto di aver dato ampiamente per scontato che lui mi voglia davvero a casa sua, quindi forse è anche il caso che gli chieda conferma. Lo trovo in camera sua, è steso sul letto al buio, un braccio piegato sugli occhi chiusi. Sto per riaccostare la porta lasciandolo riposare, quando la sua voce mi richiama indietro: “Hai bisogno di qualcosa?”.

Incerta, resto sull’uscio di porta e lo metto a conoscenza dei nostri piani per la giornata. Dice solo che verrà con noi, senza cambiare il tono di voce pacato che ha sempre.

“Non ti ho davvero chiesto se a te va bene che venga a stare da te per un po’…” comincio con voce malferma, temendo quasi che mi dica di no, i miei occhi lo cercano nell’oscurità della stanza non riuscendo a trovarlo. Lo sento sospirare prima di rispondere, dopo essersi tirato su a sedere. Le molle del materasso stridono fastidiose, mentre bisbiglia: “Avrei avuto qualche alternativa?”.

Per la prima volta, da quando ci conosciamo, non capisco che cosa intenda dire. Resto immobile, imbarazzata dalla possibilità di averlo davvero messo spalle a muro senza che lui abbia potuto effettivamente opporsi. Sto già per balbettare delle scuse affrettate e rapide, quando lo vedo alzarsi dal letto, muoversi lentamente nella stanza e fermarsi di fronte a me che sono ancora davanti alla porta semi accostata. Sussulto lievemente mentre Ilai solleva il braccio, non lasciando un attimo i miei occhi. La sua mano mi sfiora la guancia facendomi rabbrividire, mentre si affretta a chiudere la porta, facendo calare la stanza nel buio più completo. L’eco della porta chiusa si infrange nella mia mente confusa, mentre lui ripete ancora sottovoce: “Avrei avuto qualche alternativa?”.

Nell’oscurità più totale, non riesco ormai più a distinguere nulla del suo volto, né di lui, sento solo che è inaspettatamente vicino, più vicino di quanto era prima. Il mio respiro accelera senza che me ne renda conto, mentre biascico: “S-scusami, avevo capito che stamattina tu…”. Le mie parole sono però immediatamente bloccate in gola, le sue dita si poggiano morbide sulle mie labbra, costringendomi al silenzio. E’ come se il buio stesso mi accarezzasse, mi guardasse, mi respirasse vicino. Il cuore perde un colpo che vorrei non avesse perso. Le sue dita scendono placide lungo il mento, descrivendo una scia fresca sulla mia pelle calda, mentre scorrono sul collo, sulla piega della spalla, lungo il braccio, fino alla mia mano. La prende nella sua, la stringe, se la porta al petto.

Rabbrividisco, accorgendomi che è a torso nudo, la pelle del mio palmo sfiora la sua, sento il suo cuore battere forte. Non mi sento in imbarazzo, non mi sento in colpa, non mi sento turbata, sebbene un allarme indistinto mi risuona in testa. Penso solo che mi fido di lui… ed improvvisamente focalizzo quante volte Raissa può aver toccato così Draco.

La stretta ferrea allo stomaco mi costringe a deglutire pesantemente, apro la mano sul torace di Ilai, resto ad ascoltare il suo cuore mentre dice: “Il solo momento in cui sono quasi in pace è quando ci sei tu… quando sono con te e con tuo figlio… credi che potrei lasciarti andare via in qualche modo?”. E’ inutile che gli dica che è lo stesso, lo sa già. Vorrei chiedergli se pensa che sia normale tutto questo, vorrei chiedergli se non è solamente vendetta la nostra verso Raissa, vorrei chiedergli se non ci faremo solo del male e basta, vorrei chiedergli se stiamo solo rimpiazzando Tatia e Draco, vorrei chiedergli se adesso non sia il caso che rompiamo questa cosa prima che ci porti chissà dove. Vorrei chiedergli tutto questo, davvero, ma la stanchezza mi ottenebra la mente. Il tocco di Ilai sulla mia pelle mi dà la pace, come succede a lui… quello di Draco mi faceva sentire viva. Ma se non posso più sentirmi viva, va bene che allora io insegua la pace. La sola cosa che mi resta da desiderare.

Così quando Ilai mi chiede con un filo di voce: “Resterai con me?”, la mia risposta può essere solo una.

“Sempre”.

 

 

I figli sanno sempre approfittare dei sensi di colpa dei genitori.

Specie se i suddetti figli hanno anche un discreto numero di geni nel corredo cromosomico propensi alla manipolazione altrui, ereditati da un genitore che non è quello da manovrare.  

Nella mia vita di madre ho mancato ai miei doveri per soli sette giorni, se escludiamo la mia gravidanza che non mi ha visto propriamente ricamare quadretti all’uncinetto di colore azzurro.

E questo non è certo accaduto per colpa mia.

Da quando ho sentito Serenity chiamare Raissa mamma, fino a quando ho deciso di andare via da qui senza incontrare Draco, sono per l’appunto trascorsi sette giorni.

Ho volutamente ignorato Alex per sette giorni, considerandolo come un ospite molesto della mia vita. Perché era il figlio di Draco.

Per la prima volta nella sua vita, la sua somiglianza con il padre mi è sembrata insopportabile. Il colore grigio degli occhi, il biondo dei capelli, il broncio delle labbra, il carattere furbo: per sette giorni mi è parso tutto lo scherzo di cattivo gusto di un Dio crudele. Quello che era stato sempre un miracolo, una benedizione, è diventato in sette giorni l’aspro profilo di una condanna ineluttabile.  

Semplicemente, perché amo Alex. Ed attraverso di lui sarei stata sempre condannata ad amare Draco Malfoy.

Che, invece, mi aveva rimpiazzata con Raissa.

Ho odiato la vista di Alex, il fatto che mi chiamasse mamma, la condizione di non sentirmi libera di scappare da tutto questo, l’impossibilità di lasciarmi andare al mio dolore e alla mia sofferenza come una donna qualsiasi con il cuore spezzato… solo perché c’era lui a cui dovevo una perfezione esteriore che non potevo avere.

Ma io ed Alex siamo sempre stati uniti, come due naufraghi su un’isola deserta. Siamo necessari l’uno alla sopravvivenza dell’altro, come quando ero incinta e riuscimmo a salvarci la vita da Dimitri e dal coma. Credo che se un domani avesse altri figli, non riuscirei a legarmi in questo modo con nessuno, pur amando comunque un altro bambino o un’altra bambina.

È una cosa mia e di Alex, che ci ha sempre tenuto in vita.

Per questo, quando stanotte è venuto in camera mia piangendo, io ho saputo immediatamente cosa fare.

Mi sono aggrappata a lui per sopravvivere, sapendo che lui ha solo me per sopravvivere.

Però intanto, per una settimana io sono stata orribile, ho pensato le cose peggiori, ho persino deciso di lasciarmi andare all’inedia sperando che mi uccidesse… senza pensare ad Alex. Il senso di colpa per questo è tale da darmi una smania nervosa di accontentare in tutto il mio bambino. Che ora, tanto per intenderci, devo imparare a chiamare così. Mio figlio, il mio bambino, il mio Alex.

Mio e basta.

Il problema è che Alex appartiene a sé stesso e al suo sangue. Ed il suo sangue, per quanto io operi di negazione, è sempre il sangue di Draco.

Quindi ha capito abbastanza in fretta che cercavo di farmi perdonare. In una sola mattinata, camminando per la fiera di paese a cui ci ha trascinato, ha ottenuto due mele caramellate (che io non gli compro mai, considerandole l’anticamera del dentista, cosa che mi pone in enorme conflitto d’interessi con i miei), ha preteso un paio di pattini (a cui ho resistito per anni, considerandoli l’anticamera del pronto soccorso, cosa che stavolta mi pone in conflitto d’interessi con Ginny) e non ha camminato nemmeno per un passo, ottenendo che tutti gli uomini presenti lo portassero in braccio a turno, sotto le mie sollecitazioni stanche e sotto lo sguardo omicida di Pansy, dati i capricci che di conseguenza ha messo su Charisma.

Non da ultimo ha ottenuto anche un cane, cosa su cui mi scocciava da quando è nato, ma che non aveva mai potuto avere per quanto fossi aggrappata all’idea che l’Italia non fosse la nostra vera vita e che quindi avere anche un cane, poteva essere un peso quando ce ne saremmo andati.

Ora, invece, che io ho una vita devo provare davvero a viverla, senza prendere in affitto un’esistenza rattrappita nell’attesa di riavere Draco, ovviamente ho ceduto.

Ed Alex tutto contento se ne va in giro per le bancarelle, tenendo al guinzaglio un minuscolo botolo color caramello con la punta delle zampe bianche, alla stregua di quattro calzini.

Ovviamente questo ha colpito Alex come non mai, l’ha indicato nel recinto dove c’erano i cuccioli abbandonati che un ente benefico aveva salvato dalla strada, e mi ha detto serio: “Mamma, voglio lui!”. Mi sono seppellita in gola le mie rimostranze, specie considerando che era il cane meno calmo di tutti e stava abbaiando come un pazzo, e ho acconsentito persino al nome Biscotto che gli ha appioppato. Il cucciolo, ovviamente, ha capito subito chi comandava tra me e mio figlio, non ha filato di striscio me e si è fiondato a leccare la faccia di Alex, conquistandolo. Giurerei persino che il cagnaccio mi abbia anche guardato con sguardo sornione di sfida quando Alex gli ha messo il guinzaglio, per la serie “sei retrocessa al terzo posto in classifica in questa famiglia, pupa!”.

Quindi ora non sono tiranneggiata solo da un bambino di cinque anni, ma anche dalla sua adorabile bestiaccia.

Ma va bene così… Dio, se Alex può sorridere ancora ed essere felice, va bene tutto… va davvero bene tutto…

Non mi ha più chiesto di suo padre. Neanche una parola. Da quando siamo arrivati qui, non ha più nominato Draco nemmeno per sbaglio. Non me ne ero accorta, ovviamente, presa da me stessa.

Ma fino all’ultimo giorno prima di partire per la Finlandia, voleva sapere continuamente quando saremmo andati da lui, faceva domande a Pansy e a Seth, chiedeva foto.

Poi, non l’ha più fatto. E so che questo non è un bene, non lo è affatto. Vuol dire che si sta reprimendo, vuol dire ancora che gli ho trasmesso le mie emozioni.

Eppure ne sono felice: fino a quando non mi farà domande, io non dovrò ripensare a Draco. Al momento mi basta il suo nome nella testa, per sentirmi aperta in due come una mela.

Questa fiera è una bella distrazione: ovviamente per Alex, che saltella felice con il suo cucciolo ammonendo Charisma su come deve tenerlo al guinzaglio, e lo è appunto anche per la bambina di Pansy e Dean. È una piccolina allegra, spiritosa, vivace, sempre in movimento. Adesso si fa trascinare ridendo da Biscotto, il vestitino bianco increspato dal vento e la mano di Alex che la trattiene per un braccio come ad impedirle di cadere. Alex è molto protettivo con Char, come già l’ha ribattezzata, e credo che sentirà molto la sua mancanza quando andremo via.

Per questo, voglio che questa giornata sia la migliore possibile e non solo per i bambini, ma anche per i miei amici. Il paesino dove ci troviamo, si arrampica sul declino di una montagna rocciosa e brulla, persa a strapiombo sull’oceano verde e grigio. L’aria è fresca e il cielo è nuvoloso, cosa che probabilmente significa che tra poco pioverà, ma le bancarelle colorate riescono comunque a trasmettere allegria. C’è di tutto, dai dolci che riempiono dell’odore di caramello le strade, fino agli acchiappasogni, ai giocattoli, ai carillon, ai braccialetti. Seth saltella da un banchetto all’altro come se fosse stato punto da un’ape, spendendo i suoi soldi per ogni cosa che si avvicina al suo concetto di “carino”. Pansy ovviamente guarda tutto con il suo solito disinteresse borghese, gettando qualche occhiata distratta solo alle sciarpe dalle stampe floreali. Dean osserva il suo viso e le dice scocciato: “Quella sciarpa con le rose è bella... potrei prenderla per mia sorella…”.

“Tua sorella è sprovvista di collo… è nata con la testa incassata sulle spalle… non potrebbe oggettivamente indossarla…”.

“Quindi forse è meglio che la prendo per te, no? Almeno non va sprecata…”.

“Fai come vuoi…” borbotta lei, infine, schioccando la lingua come se gli stesse facendo un favore. Ma gli occhi le brillano mentre lui le dà le spalle per pagare l’acquisto, ed una mano si poggia dolce sulla schiena di Dean come un incoraggiamento ed un ringraziamento gentile.

Serviva anche a loro una giornata libera dal caos che ho gettato nella loro vita.

Loro ce l’hanno una vita: Seth ha Kevin, Pansy ha Dean e Charisma, Dean ha loro due. Non è stato giusto mettere in pausa anche loro, costringerli a cercare la verità con me, obbligarli a darmi risposte. Li invidio, profondamente e non è bello. Sono contenta che siano felici, ma invidio il loro posto nel mondo, la loro nicchia, la loro assoluta convinzione di essere nel giusto luogo dove devono stare. Io tutto questo non ce l’ho. E questo, ancora, mi rende uguale ed identica ad Ilai. Anzi io almeno ho Alex, lui non ha nemmeno questo.

Appena siamo arrivati nel paesino, ha guardato le bancarelle in lontananza, la gente che rideva, i bambini che facevano i capricci. Era accanto a me, con Alex sulle spalle che lo ha preso in una simpatia smodata, nonostante Ilai non parli molto e non sia esageratamente divertente. Alex, però, si mette a fare lunghi discorsi prolissi con lui, made in Hermione Granger, ed Ilai lo ascolta paziente facendogli qualche domanda gentile. Solo quando sono con te e con tuo figlio, io trovo la pace. Le sue parole della mattina mi sono rimbombate in testa un sacco di volte, specie mentre camminavo accanto a lui, Alex che non smetteva di parlare. Poi ha visto le bancarelle, la confusione. Si è irrigidito, si è bloccato, è rimasto immobile. Ha posato delicatamente Alex a terra e ha sussurrato a me: “Vado a farmi una passeggiata… scusami…”. L’ho guardato fino a quando è sparito dietro una curva, sentendomi improvvisamente sola. Non lo sono, ovviamente, ma se a lui io comunico pace, lui a me dà un senso saldo di sicurezza difficilmente negabile. Ma l’ho lasciato andare, forse aveva dei ricordi che gli davano fastidio, forse voleva stare da solo. Alex ha stretto la mano nella mia e ha bofonchiato saggiamente: “Non voglio che sia sempre così triste, mamma…”.

“Lo so, tesoro…” ho annuito sorridendo e reprimendo la tristezza gemella di Ilai, in fondo a me stessa.

Quella tristezza, però, senza Ilai che la tenga a freno, esplode sinistra in un momento qualunque, mentre decidiamo di raggiungere un chiosco che vende panini.

Pansy si drappeggia la sciarpa nuova attorno al collo, Dean le fa dei complimenti stupidi e la bacia frettolosamente sulla guancia prima che lei si scansi infastidita, gli occhi però pieni di luce. Seth parla dei regali che Kevin gli fa ed io non riesco a respirare più normalmente.

Improvvisamente, la vista di Dean e Pansy mi è diventata insopportabile come poche. Perché loro sono me e Draco, al contrario, in un Universo inesistente dove tutto è finito bene. E al contempo, sono due delle persone a cui voglio più bene al mondo. Che io rinneghi Draco, non significa che lui non ci sia. In tutto. In Alex, in Seth, in Pansy… in tutto.

Quando, poi, Alex insiste per partecipare ad una lotteria a premi e gli chiedono il suo nome per inserirlo in una boccia da cui estrarre il vincitore di una fiammeggiante bici da corsa, il respiro mi si blocca in gola per qualche secondo, dandomi l’impressione davvero di morire.

“Mi chiamo Alexander Leo Malfoy!”.

Non sapevo nemmeno che diamine fosse un attacco di panico, ora so anche questo. C’è sempre da ringraziare Draco Malfoy in merito alle esperienze migliori e peggiori della mia vita. Il viso mi va a fuoco, la testa mi rimbomba di voci, la schiena gocciola di sudore e la gola si chiude, mozzandomi il fiato. Sto per morire, non c’è altra spiegazione. Mi stringo il collo della camicia con la mano annaspando, ma cercando al contempo di nascondermi dietro il tronco di un albero per non far spaventare Alex. La corteccia mi fa male alla schiena, dandomi l’impressione di volermi grattare fuori le ultime bolle d’aria che ho nei polmoni. Che c’è, mi aspettavo che sarebbe stato facile? Mi aspettavo che decidere che non volevo avere nulla a che fare con Draco Malfoy, lo avrebbe cancellato dalla mia testa e dal mio cuore? Quando mai è successo? Quando? Mai, ecco. Ho creato uno Zahir e non ha funzionato, mi hanno relegato in un castello nero e non ha funzionato, sono stata cinque anni in Italia con un altro uomo e non ha funzionato. Perché dovrebbe esser diverso, adesso? Solo perché lo dico a me stessa? Solo perché mi convinco che sia così?

Non ce la farò mai, non ce la posso fare.

Il respiro, a quei pensieri, diventa sempre più affannoso, il petto si comprime come se fosse sotto una lastra di marmo. Mi metto le mani tra i capelli, stringendoli forte tra le dita, mentre scuoto il capo piangendo, negando chissà che cosa a me stessa. Io, Hermione Granger, la razionalità incarnata… che rischio di soccombere per una cosa del genere. Il panico, perché io ancora lo voglio qui, perché non ce la faccio senza di lui, perché mi manca adesso più di quanto mi sia mancato in tutti questi anni, perché lo so di un’altra quando io sono sempre rimasta sua. Questi pensieri non se ne andranno mai davvero, non mi lasceranno mai. Potrò trarre forza dalla felicità di mio figlio e dei miei amici, ma non dalla mia. Io non sarò felice mai più… ed è tutta colpa sua.

La pelle mi diventa ghiacciata sulle mani che stringo furiosamente tra i capelli, lo odio e non ci posso fare nulla. Lo Zahir, la furia che sentivo dentro, il desiderio di fargli del male… alla fine mi dava soddisfazione, potevo sperare di trarre piacere dalla sua sofferenza. Adesso, io non ho nulla, niente, nemmeno quello. Perché lo amo ancora e voglio che sia felice, e non potrei mai davvero ferirlo… ma lui mi ha strappato pezzo dopo pezzo ogni possibilità di esserlo a mia volta. Un’onda nera, cupa, malsana mi cancella ogni speranza dai pensieri, la forza si eclissa soffocandomi ancora di più.

“Respira…” una voce calda scoppia nella mia testa come un petardo “Non si muore… ti sembra che sia così, ma non si muore… te lo posso assicurare…”. Spaventata, atterrita, completamente cieca per il terrore e l’angoscia, continuo a tremare come una foglia finché i miei polsi riconoscono la presa ferrea di un paio di mani che si stringono su di essi, liberandomi il viso.

Balbetto qualcosa anche se non so esattamente cosa, la luce grigia del sole che torna sul mio volto terreo, i riflessi dell’albero sotto il quale mi sono rifugiata ritagliano forme iridescenti negli occhi scuri di Ilai mentre mi tiene stretta per i polsi, tenendoli distanti dal mio viso. Le unghie mi hanno scavato dei graffi poco profondi sulle guance, adesso sento il vento soffiare freddo e farmi bruciare la pelle. Singhiozzando, mi concentro sui suoi occhi cercando di guardare solo quelli, isolandomi dal rumore circostante della gente che si muove festosa, non badando minimamente a noi. L’odore delle mandorle tostate, dei dolci, delle caramelle mi alita sul viso, dandomi la nausea, ma il respiro piano torna regolare. Il cuore smette di battere forte, come se stesse per scoppiare lacerandomi, e la presa di Ilai si fa un po’ meno salda. Quando ho ripreso completamente il controllo di me stessa, mi azzardo ad aprire bocca, la mia voce suona ancora malferma e traballante ma perlomeno riesco a parlare senza l’impressione di soffocare.

“Che cosa era?” chiedo con un filo di voce, guardando Ilai con un misto di vergogna, imbarazzo e terrore. Lui lascia la presa sui miei polsi, le braccia gli cadono lungo i fianchi e punta lo sguardo lontano, apparentemente catturato da qualcosa alle mie spalle. Le sue spalle tremano un po’ mentre risponde: “Attacco di panico, d’ansia…  paura di non farcela… puoi chiamarla in mille modi… hai l’impressione di morire, ma non è così…  non è mai così…”.

“E’ successo anche a te, vero?” sussurro, asciugandomi il viso dalle lacrime versate senza accorgermene. Ilai torna a guardarmi, scrollando le spalle quasi con noncuranza: “Quando morì Tatia, quando capii che non sarei nemmeno riuscito a vendicarla, a scoprire chi l’aveva uccisa… ne avevo parecchi di questi episodi. Ti distrai, stai con le persone che ami, ma poi basta che ci ripensi, basta che per un caso qualunque ti accorgi che lei non c’è e ci ricadi daccapo. Ma ogni volta che lo superi, diventi più forte. La volta dopo, ne esci prima e meglio…”.

“La volta dopo?!” chiedo spaventata, aggrappandomi senza volerlo al suo braccio “Mi accadrà di nuovo?”. Ripenso alla possibilità che mi accada davanti ad Alex mentre sono sola con lui, facendolo spaventare a morte. Ilai si morde il labbro inferiore, poi mi stringe per le braccia e sussurra: “Ascolta, accadrà di nuovo, accadrà sempre, perché per quanto forte sia la volontà, non riesci mai a lasciare davvero indietro quelli che ami. Ma hai tuo figlio… e sei forte, ce la farai…”.

“Chi avevi tu?” chiedo con un filo di voce, stringendo la presa sul suo braccio “Chi tirava fuori te?”. Ilai non risponde, guarda altrove, la tensione del braccio si fa intensa, scattano i muscoli nervosi sotto le mie dita. Ecco chi sono io, l’egoista senza appello che pensa sempre di stare peggio degli altri. Di nuovo, è comparso come un angelo custode quando ho avuto bisogno di lui.

Al momento io non posso pensare a vivere, questo deve capire. Non posso pretendere da me stessa tutto e subito, non posso ottenere felicità, gioia, calore in ogni cosa che faccio. Tutto mi sembrerà schifoso, grigio, spento, orribile. Ogni passo sarà un’impresa, ogni sforzo per non rintanarmi in un letto con le serrande abbassate sarà una conquista, ogni minuscolo momento di autentica gioia, non sporcata dal ricordo e dall’assenza di Draco, sarà una vittoria. È come se fossi convalescente da una lunga febbre: non si può uscire immediatamente all’aperto, bisogna coprirsi, limitare i colpi di vento, camminare poco, non prendere freddo. Ora, se mi imponessi tutt’assieme di riprendere a vivere come se niente fosse, come se Draco non fosse mai esistito, mi tenderei come un elastico sotto sforzo e finirei presto per rompermi, ricominciando a detestare che mio figlio porti il cognome Malfoy, che Pansy e Dean stanno assieme felici, che Seth ha un ragazzo che lo ama. Mi rinchiuderei nel riccio di un egoismo che non mi farebbe nemmeno distinguere quanto dura sia, non solo per me, ma anche per altri come Ilai.

Adesso, devo pensare prima di tutto a sopravvivere, il resto verrà piano da sé.

Per sopravvivere so di dover diventare io stessa la garanzia di sopravvivenza di qualcun altro. Non solo di Alex, ma anche di Ilai.

Lui ha bisogno di me quanto io ho bisogno di lui. Tendo a dimenticare che lui ha perso Tatia peggio di come io ho perso Draco, lui non ne parla, non vi fa accenno e io veleggio nella mia noncuranza, pensando solamente a me stessa. Ed anche con questo, la faccio finita oggi.

Incerta, come se mi fossi persino dimenticata di come si trasmette calore e vicinanza ad un’altra persona, poggio le mani sul viso di Ilai e gli accarezzo piano gli zigomi con le dita. I suoi occhi tornano rapidi nei miei, liquidi, intensi, lucidi.

“La prossima volta ci sarò io con te, ok?” dico con un sorriso rassicurante, sollevando il capo per guardarlo negli occhi “In questa storia, ci stiamo dentro assieme… e così ci restiamo… assieme…”.

Ilai ha l’espressione intimorita di un bambino mentre mi guarda con il primo autentico sorriso da quando lo conosco. Considerando quanto sia alto e considerando che sia un uomo fatto e finito, quell’espressione mi intenerisce anche di più di quanto sarebbe normale. Annuisce piano, poggiando una mano su quella che ancora io ho sulla sua guancia, mentre chiude gli occhi.

Una piccola sensazione di calore mi si allarga nel petto, mentre inizio a sentire davvero il respiro che ora mi riempie i polmoni in modo pieno. Essere utile, aiutare… la salvezza, per me, passa sempre da quello. È sempre passata da lì. Anche stavolta, sarà questo ad aiutarmi davvero.

Quando quindi sento il nome di uno speaker che annuncia i vincitori della bici da corsa, sono straordinariamente calma.

“Alexander Leo Malfoy…!” trilla la voce con allegria, mentre sento distintamente Alex festeggiare e Biscotto darci dentro con i suoi versi da cane partecipe.

Mi stacco da Ilai scrollando le spalle e bofonchio con un sospiro: “Figuriamoci, avrà truccato l’estrazione…”.

Ilai sorride e sono felice di questo, lo prendo per il polso per andare a raggiungere gli altri. Sgusciamo fuori dal nostro nascondiglio, mentre Alex già trotterella verso il palco per ritirare il suo premio. Seth mi viene incontro tutto gaio e frizzante, raccontandomi come prevedevo del “trucchetto che ha fatto Alex con gli occhi per confondere i bigliettini nella boccia”. Sospiro lungamente, prendendo nota di fare una bella ramanzina a mio figlio, Seth getta uno sguardo malizioso alla mano che tengo stretta a quella di Ilai, lui sorride, Pansy fa uno sguardo da donna saputa, Dean fa un verso strano con la gola, Charisma grida il nome di Alex accompagnata dai versi di Biscotto.

Lancio uno sguardo ad Alex che ormai ha raggiunto il palco e di cui sta salendo i gradini, nel sole che spunta tra le nuvole è uguale a Draco. Mi si stringe il cuore, mi fa male respirare, mi sento mancare ma non lo reprimo a me stessa. Stringo la mano di Ilai, lui stringe la mia e sorrido a Seth, roteando gli occhi.

Ed è lì che succede.

“E adesso il secondo classificato… Serenity Hope Ryan!”.

 

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Capitolo 39
*** Measure for measure ***


Capitolo 39 – Measure for measure

RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatia non voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola.

 

Il grilletto che cambierà la vita di due persone si preme in un secondo. Un secondo, ed uno perderà la vita, l’altro perderà l’anima.

Una roulette russa, macabra, mortale, incomparabilmente semplice e tragica: un colpo, uno schioppo, il rumore sordo che fa tacere il cielo. E tutto cambia per sempre.

Io, lo scoppio non l’ho sentito. Ho sentito solo un nome. Eppure l’effetto è lo stesso. Identico. Uguale. Mortale.

I miei sensi improvvisamente si congelano. Vista, udito, olfatto… credo di perderli tutti assieme nello stesso momento. Sono come una specie di larva vuota, un bozzolo in cui dentro prima c’era qualcosa di vagamente rassomigliante a me stessa, con una sua storia, un suo passato ed un suo futuro; volizioni, sentimenti e pensieri ed ora invece c’è un cumulo di polvere rancida.

Una parte della mia mente registra la presenza di una bambina bionda che saltellando mi sorpassa, la vedo al rallentatore camminare verso il palco mentre supera Seth e gli altri. Sconvolti, immoti, loro guardano alle mie spalle. Io non riesco a muovermi, a pensare, a fare una qualsiasi cosa che non sia solamente impormi di respirare. Perché, se non me lo impongo – muovi il diaframma, ispira, trattieni il fiato, espira - credo che sverrò, cadendo riversa per terra. E magari, allora, sarà un sogno. Tutto questo sarà un sogno. La Finlandia, la lettera di Tatia, Ilai, il Veritaserum a Serenity.

Sarò ancora nel mio letto a Favignana, con Alex che urla: “Sveglia mamma!”.

Dentro sarà speranza amara, al sapore di arancia acerba. Ma forse sarà sempre meglio della certezza lercia che ho raggiunto nel corso degli ultimi mesi. Ma che dico mesi… degli ultimi anni.

La vita ha con me un senso dell’umorismo macabro, grottesco, raccapricciante. Mi dà le illusioni delle scelte, mi fa lambiccare su cunicoli di decisioni e su vicoli ciechi di pensieri, mi fa soffocare nel pulviscolo confuso di una motivazione e, quando io alla fine giungo a capire che cosa devo fare e muovo tutta me stessa in quella direzione, vengo chiamata al destino e al caso. Non ho scelto nulla in questi cinque anni, nemmeno se essere madre. Ho deciso solo di tornare, e poi di andarmene, quando ho saputo di Raissa e Draco.

Una decisione da spaccarsi il cuore, ma era la decisione giusta. È ancora la decisione giusta.

Ma, adesso, già è diventata inutile, già da lassù qualcuno mi ha nuovamente spogliato del mio libero arbitrio, lasciandomi ancora ad annegare nelle coincidenze.

Strattonata, ecco come mi sento: dai destini, dagli spiriti, dagli altri. Persino Helena e Tatia sembrano divertirsi a giocare con la mia vita.

Ma la cosa peggiore, la cosa davvero peggiore, è il cuore. Che batte, batte, forte. E comanda il corpo.

Lo strattona, lo spintona, esplode come una meteora di luce estiva.

Girati Hermione, girati, questo dice. Questo comanda. E io non so nemmeno osare contraddirlo.

Draco è lì, è dietro di te, guardalo. Ricordi i suoi occhi? Dici che sono quelli di Alex, ma sarà davvero così? Ne hai un’immagine così sbiadita. Saranno davvero grigi? O sono azzurri? Il tempo li ha macchiati di odio rendendoli neri? Ha una ruga d’espressione in cui sei annidata tu? Ha una piega diversa delle labbra quando pensa al colore turchese di un bacio rubato? Arriccia il naso se sente odore di vaniglia? Luccicano le iridi se ricorda la pioggia e il profumo delle rose umide, ed una notte a fare l’amore fino a perdere il fiato, pelle contro pelle, soffocando sì, ma respirando davvero?

Capirà, vedendo Alex? Andrà tutto a posto come per magia? Sarà un attimo e la ricongiunzione di tutto? Puoi sperarlo Hermione, finché lo guardi e ti sciogli in un questo secondo di caramello. Dolcissimo sarà quel secondo, da incollare i denti e placare la gola riarsa di pienezza opprimente. E te lo godrai, fino in fondo. Per una volta sola.

Guardalo, Hermione, sarà solo per questa volta.

Dopo, ammantati di rabbia e dolore… dopo, maledici ogni cosa. La tentazione, la speranza, la colma consuetudine dell’amore che diventa adorazione idiota ed improvvisa remissione dei peccati.

Ma quello sarà dopo. Prima… guardalo. Non hai imparato che con lui negare non serve a nulla?

Negavi di tenerci a lui, poi negavi di esserne attratta, hai negato così a lungo di amarlo da distruggerti quasi l’anima.

Vale la pena farlo ancora, farlo adesso? Con un cuore maciullato, con il respiro sciolto, con un corpo che lo reclama? Vale la pena farlo con un figlio che è suo e che respira del suo sangue?

Vale la pena farlo dopo cinque anni persi a sognare solo questo momento? Vale la pena farlo se persino le ossa si piegano come giunco, imponendoti di voltarti?

Girati Hermione, guardalo… tanto comunque, anche se non lo facessi, è sempre lui che amerai per sempre, è sempre lui che immaginerai sempre come tuo marito, è sempre da lui che vorresti dei figli che abbiano solo i suoi occhi.  

Guardalo, Hermione.

Il mondo diventa grigio e sono daltonica di tutto quello che non sia Draco: fuoco nelle sterpaglie, divento cenere riarsa dal desiderio, dalla rabbia, dal dolore, da qualsiasi cosa che si mescola nella mia carne con l’effetto di una mistura chimica impossibile anche solo da immaginare addosso ad altri, ma che invece è tipica di me quando ho a che fare con Draco Malfoy. Mi volto su me stessa, vinta, piegata, incurante, sconfitta, come sempre sono stata dentro a questo amore troppo grande per il mio essere così maledettamente piccola per contenerlo tutto. La mano di Ilai nella mia è fredda, è improvvisa zavorra, è memoria tattile di giorni che si srotolano assurdi davanti ai miei occhi, adesso troppo presi dalla vista desiderata dell’uomo che amerò fino all’ultimo fiato del mio corpo. Il sole scompare dietro le nuvole in un anelito di vento improvvisamente gelido, mentre turbinano le foglie secche. Trovo la figura che già i miei amici stavano guardando e la mia schiena vibra di brividi freddi, fioriti come bucaneve nel ghiaccio.

Il mio volto diventa terreo, gelido: ritorno ad una coscienza urgente, che si traduce in una stretta allo stomaco che mi toglie il fiato. Sparisce la spasmodica ricerca del modo di respirare, e tutto passa in secondo piano eccetto mio figlio. Alex è ancora sul palco, guarda la sua bicicletta, ci gira attorno. È troppo lontano. Troppo, maledizione.

Improvvisamente ritorno cosciente di me stessa, come se fossi appena riemersa dall’acqua ghiacciata. Percepisco il repentino cambio di temperatura, l’annuvolamento del cielo, la scomparsa del sole, le ombre lunghe delle cose e delle persone. Terrorizzata, osservo i miei amici che si stringono tra loro, Pansy che si è chinata velocemente su Charisma prendendola in braccio; la piccola che, sebbene non ne capisca il motivo, a sua volta si è stretta a Biscotto che tace, uggiolando. Dean si è parato davanti alla moglie, la tiene ferma dietro di lui, strizza gli occhi nella polvere del vento che diventa sempre più forte. Seth, che come sempre ha capito tutto da solo, ha trattenuto Serenity per un braccio, mentre continua a guardare me con gli occhi sbarrati. La bambina si dimena e si agita, ma lui non la lascia andare. I miei occhi volano lontano, al palco, alla foresta di sedie di plastica nello spiazzo, al banditore che continua a chiamare Serenity.

Il sudore mi inzuppa la schiena, mi gela il respiro nei polmoni, mi dà l’impressione di annegare. Il vento mulina rapido, la gente inizia ad allontanarsi temendo un temporale, Alex getta uno sguardo confuso nella nostra direzione. Ma non posso dirgli nulla, non capirebbe, non riuscirebbe a sentirmi. Ma forse se lo ignoro, forse se non lo guardo… lei non se ne accorgerà.

I miei occhi spalancati sotto le palpebre che tremano, osservano Raissa con attenzione vigile, i suoi capelli lunghi danzano nel vento come le fronde di un albero notturno. Allo stesso modo, il vestito scuro che indossa si gonfia per l’aria in tempesta, aprendosi come una medusa nel mare. Stringe con ansia febbrile una collana dal ciondolo rotondo che porta al collo, ne tormenta il cinturino ma gli occhi restano fissi, ipnotizzati, catturati. Il respiro cresce come se l’aria attorno a lei si facesse sempre più rarefatta, il viso si chiazza di rosso mentre finalmente comprendo che cosa sta fissando con tanto odio. Il mio sguardo scende lungo il mio braccio, trovando la mano di Ilai ancora stretta tiepidamente nella mia. Raissa segue i miei occhi, fremendo come una bestia pronta ad attaccare, e io le restituisco uno sguardo sbiadito e pallido, preoccupata che si accorga di mio figlio ancora sul palco.

È un attimo prima che mi accorga che anche Ilai sta guardando il palco alle nostre spalle con la coda dell’occhio, la sua mano trema nella mia e sento la tensione scoppiare nelle vene del polso. Poi, con lentezza, le nostre dita trovano lo spazio tra quelle dell’altro: non so chi sia stato per primo, ma sento che come sempre ne avevamo bisogno entrambi. E poi… è sadico, velenoso, tossico, ma io quella mano, per un attimo, la stringo di più, sollevo il mento e sfido Raissa con lo sguardo. Occhio per occhio, Karkaroff.

Un rombo di tuono crepita vicino, mentre Raissa freme, ansima e continua a non distogliere lo sguardo come se anche farlo per un istante le costerebbe la vita stessa. Ad ogni ansito, ad ogni respiro affannoso, il cielo si fa più scuro, l’aria diventa più ghiacciata, il vento si fa più forte al punto che iniziano a volare i tendoni che rivestono le bancarelle. Gli ambulanti raccolgono le loro cose velocemente, si arrabattano per mettere a posto. Gli avventori della fiera guardano il cielo, aspettano una pioggia che non arriva, si chiedono come abbia fatto il tempo a cambiare così repentinamente.

È il preludio dell’inferno, ecco perché è piombato senza sconti.

Ho il tempo solo di guardare Alex, sperando che resti dov’è. Respiro di sollievo quando lo vedo accucciarsi dietro i gradini del palco stesso, scomparendo alla mia vista. Per anni, in Sicilia, nel terrore cieco che mi accadesse qualcosa, ho insegnato a mio figlio che deve solamente nascondersi se vede qualcuno che possa farmi del male. Deve nascondersi, chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie e io, in men che non si dica, sarò da lui. Alex ha capito da solo che sono in pericolo, che lo è anche lui… ed ha obbedito. Dio, sono così fiera di lui.

Temporaneamente rassicurata, torno a guardare Raissa, che ha il volto chiazzato, gli occhi di fiamma, resa pazza e cieca dalla gelosia. Solleva le braccia al cielo come un’orrenda dea pagana. Scorrono lungo la pelle bianca delle braccia scariche verde-oro dello stesso colore di quelle che adesso solcano il cielo. Charisma piange, Serenity tace e io ho solo il tempo di urlare ai miei amici di andarsene da qui, prima che quell’energia malefica ci venga scagliata addosso. Distinguo solo un lampo nero e verde, prima che Ilai mi spinga lontano, carambolando poi di lato con una flessuosa capriola all’indietro. L’onda di energia nera distrugge tutto nel suo passaggio, esplodendo come un petardo di luce nel cielo poco distante.

Rovinando per terra, prendo un colpo al collo ma non lascio che il dolore mi stordisca. Mi rialzo immediatamente, tossendo, guardandomi attorno, la polvere dell’esplosione che si attacca alle ciglia. Cala una notte innaturalmente fitta, come se improvvisamente fosse sparito il sole dalla faccia della terra e nessuna luna fosse arrivata provvidenziale. Non distinguo nulla ad un passo da me, tutto è nero, oscuro. L’angoscia per i miei amici e per Alex mi fa piangere senza ritegno, mentre mi tasto le tasche alla ricerca della bacchetta. La gente, adesso, scappa via lontano, urlando ed urtandosi. Sento solo le voci di chi corre e strepita, impedisco con un incantesimo pigro che mi calpestino. Cerco di diradare la calugine nera, ma ottengo solo di illuminare con una punta della mia bacchetta circa ad un metro davanti a me, cosa che mi costringe a camminare a tentoni. Non è ovviamente un Incantesimo che conosco, è oscuro quanto basta per farmi drizzare i capelli sulla nuca. La sfera d’energia ha fatto volare via le sedie di plastica, adesso giacciono a pezzi per tutta la piazzetta. Anche le bancarelle sono state rivoltate l’una dopo l’altra, cadono caramelle, cioccolate, dolciumi. Il cristallo degli acchiappasogni si frantuma come una pioggia di stelle colorate. Mi faccio strada fino al punto dove c’erano i miei amici ed Ilai, urlando “Bombarda!” per far saltare in aria tutti gli oggetti che ostacolano il mio passaggio.

Nel miasma di polvere e di vento, nella nebbia nera come petrolio, per un attimo credo di essere rimasta da sola, non riesco nemmeno a distinguere dove si trovi Raissa. Poi finalmente vicino all’albero dove ci siamo fermati poco fa io ed Ilai, intravedo il baluginare dei capelli di Serenity. Corro in quella direzione, sono tutti lì, impolverati ma salvi.

“Che diavolo è successo?!” urla Dean, ha un profondo taglio sul braccio che tiene con l’altro stretto al petto. Anche lui ha la bacchetta tesa, come Ilai e Pansy. Così riusciamo ad illuminare un po’ di più la zona, ma non fino al palco dove dovrebbe essere ancora nascosto Alex. Mi sento mancare l’aria dallo spavento e dall’ansia di mettere al sicuro mio figlio, ma immediatamente l’adrenalina mi comunica le giuste parole: “Andatevene da qui, è tra me e Raissa questa storia… sono stata chiara? Portate via le bambine, Seth e Biscotto… non posso difendermi se devo pensare anche a voi…”.

“Tu non ci resti qui da sola, Herm!” urla Seth, un frammento di vetro gli ha tagliato a metà il sopracciglio, l’occhio è chiuso sotto il sangue che continua a scorrere.

“Sì invece!” urlo ancora, guardandoli “Pansy e Dean si Smaterializzeranno lontano… possono portare al massimo le bambine e te Seth… io devo restare qui!”.

“Ed Alex?” sibila Dean, afferrandomi per un polso. Tremando, indico con un cenno della testa il punto dove dovrebbe essere Alex, il labbro che trema senza controllo.

Dove diamine è Raissa? Se lo vede… maledizione…

La mia angoscia e preoccupazione si tramutano in un urlo acuto: “Andatevene subito da qui! Posso restare da sola… siamo una contro l’altra, ce la posso fare!”.

Dean mi guarda negli occhi, continuando a stringermi il polso. Ha uno sguardo che conosco, che parla dei momenti che abbiamo passato assieme in due anni, di ogni dannata volta in cui ho avuto bisogno di aiuto ma non ho mai chiesto assolutamente nulla. Posso farcela da sola. Con lui, io ho sempre fatto così. Certo, è stato un bene per lui, gli ho impedito di accontentarsi di un amore rattrappito e stanco per trovare invece quello inaspettatamente dolce di Pansy Parkinson. Ma, intanto, è così che è andata. È quello che lo feriva maggiormente di me, il fatto che non avessi mai bisogno di lui e scommetto che anche adesso lo ferisce, anche se siamo solamente amici. Per questo, so perfettamente che sta per dirmi e so perfettamente che stavolta, come risarcimento della sofferenza che gli ho arrecato, io obbligherò me stessa ad avere bisogno di lui, ad affidarmi completamente a lui. Anzi, ad affidare tutto quello che ho a Dean.

“Appena porto al sicuro Seth… io torno qui a prendere Alex…” pronuncia affrettato, stringendomi il polso “Dì che diamine vuoi, ma io lo farò lo stesso…”. Pansy lo guarda, stringendo forte Charisma tra le braccia, ha negli occhi una sofferenza rassegnata, una paura quieta che comunque si stempera in fiducia. È forse la prima volta che mi rendo conto di quanto questa donna dura, amara, acida, sarcastica, ami quest’uomo. Ha un terrore dannato e maledetto per suo marito, eppure lo lascia qui a fare promesse ad una donna che ha amato in passato.

L’amore è una dimostrazione costante che non ha nulla a che vedere con i “ti amo” o con i baci appassionati. L’amore si annida negli sguardi che gli occhi lasciano sfuggire senza volerlo, che sanno di consapevolezza maturata come un frutto dolce di sole estivo. L’amore di Dean e Pansy è una lama di luce che lasciano involontariamente vedere agli altri, ma che tengono solitamente per sé.

Spiazzata da questo riflesso, arrendendomi alla fiducia che hanno l’uno nell’altra e che contagia anche a me, sussurro solo con le lacrime agli occhi: “Grazie…”.

Pansy si alza in piedi, gettando un’occhiata veloce attorno a sé e tenendo stretta tra le braccia Charisma, che a sua volta tiene Biscotto. Seth segue il suo movimento e sussurra solo: “Tu resti con lei, vero?”. Rabbrividisco, chiudendo gli occhi, mentre la voce di Ilai mi giunge da un punto imprecisato alla mia destra. Mi volto, trovandolo accovacciato dietro di me, i capelli spettinati, il volto coperto di polvere, gli occhi luccicanti di furia: “In questa storia, ci stiamo dentro assieme… e così ci restiamo… assieme…”. Ripete le parole che ho detto io poco fa, con un tono però più deciso, più risoluto, infinitamente più convinto di quello che avevo io. Non se ne andrebbe da qui nemmeno se lo pregassi, se lo implorassi, se mi gettassi in ginocchio ai suoi piedi. Per un attimo, penso a Tatia, penso che mi ha chiesto di proteggerlo, penso che forse dovrei obbligarlo ad andare via, penso che lei mi ha detto che se avesse affrontato i Karkaroff, sarebbe morto. Ma non so se questa premonizione sia ancora attuale, adesso che ci sono io… e soprattutto come farei a mandarlo via? Ha ragione. Questa strana cosa dentro che condividiamo io e lui, risuona peggio di un voto fatto a Dio: ci siamo dietro assieme e, con Raissa, la chiudiamo assieme. All’inverso, lui non mi avrebbe mai obbligato ad andare via, se Raissa avesse ucciso Draco.

Quindi, annuisco senza forze, la polvere che cancella il mio sorriso tirato e preoccupato.  

Serenity ci guarda tutti, atterrita, spaventata, terrorizzata, uno sguardo sgranato da cucciolo abbandonato che mi stringe il cuore. Raissa l’ha lasciata qui senza preoccuparsi per nulla di lei, resa cieca dalla rabbia di avermi visto con Ilai, anzi ha persino attaccato senza nemmeno preoccuparsi della bambina. Questo mi assolve da tutte le mie colpe di aver coinvolto Serenity, usando anche il Veritaserum… la stiamo salvando. Lei, però, questo non lo sa… ed adesso è circondata da sconosciuti, ha appena subito un attacco, non sa che le sta succedendo.

“Andate a casa di Serenity…” ingiungo severamente, guardando la bambina che mi restituisce un’occhiata incerta, dubbiosa, sospettosa. Respiro a fatica ed aggiungo con un filo di voce, guardandola: “Siamo amici del tuo papà, piccola… stai tranquilla, lui tornerà presto…”. Vorrei che restasse dall’altra parte del mondo adesso, ma ovviamente posso solo promettere a sua figlia che ritorni.

La bambina, rassicuratasi lievemente, si lascia prendere in braccio da Pansy che si smaterializza con Charisma e Biscotto, dopo avermi detto con voce affrettata: “Vedi di non fare scherzi… Malfoy tende a diventare irritante quando subisce un lutto, credimi…”. Le sorrido, prima che sparisca, seguita da Dean e Seth. A lui biascico severamente di non dire nulla, qualsiasi cosa la farebbe sembrare un addio, mentre Dean mi ripete che tornerà subito.

Appena loro scompaiono, l’ansia del combattimento mi riprende ad ondate mentre cerco di restare lucida, soprattutto perché la nebbia nera inizia finalmente a diradarsi, consentendomi di vedere al di là del mio naso. Magari riesco ad individuare il palco ed Alex. Ilai, accanto a me, ha già sguainato la bacchetta e mi sta accanto mentre si guarda sospettosamente attorno. Il silenzio attorno a noi, adesso, è totale. La gente è fuggita completamente, non sento rumore di passi o altro, potrei arrischiarmi anche a chiamare Alex ma non voglio attirare l’attenzione di Raissa, che sicuramente si è nascosta qui vicino. Se c’è anche una sola possibilità che non l’abbia visto e non si sia accorta di lui, devo aggrapparmi ad essa. 

“La priorità è mio figlio…” sussurro con un filo di voce, provando ancora a farmi luce con la bacchetta senza grande esito. La presa diventa meno salda mentre aggiungo: “Non farò nulla se non lo saprò al sicuro…”. Ilai non dice nulla, prende solo la mia mano come ha sempre fatto, intreccia le sue dita con le mie. Ci siamo dentro, assieme.

Improvvisamente qualcosa mi fa urlare di dolore. Una vampata di fuoco incandescente mi fa bruciare la mano che tengo stretta ad Ilai, mi stacco da lui gemendo, prima di intuire immediatamente che cosa sta succedendo. Ghigno tra me e me, almeno adesso so perfettamente come tenere lontana Raissa da Alex.

“Karkaroff!” urlo con la bacchetta tesa davanti a me “Non sarà cresciutella per questi giochetti da asilo?! Hai ucciso sua moglie, hai ucciso Tatia… credevi forse che davvero avrebbe tenuto te per mano?!”.

Quello che succede dopo mi fa pentire immediatamente di averla sfidata così apertamente. La nebbia si dirada immediatamente, il sole ricompare nel cielo come una palla infuocata che ci soffoca di afa ed Ilai viene sbalzato via lontano da me, atterrando supino poco distante. Mentre sgomenta cerco di capire che cosa stia succedendo, fumo nerastro mi circonda come un miasma tossico portandomi a tossire pesantemente, finché quel fumo diventa una morsa d’acciaio attorno alla mia gola. Gli occhi socchiusi, cerco di liberarmi dalla stretta letale senza riuscirci mentre vengo sollevata di malagrazia da terra. Le mie mani graffiano senza forza il mio invisibile aggressore senza riuscirci, mentre finalmente mi rendo conto che è lei, Raissa in persona, che mi sta tenendo senza apparente sforzo sollevata, stringendo le mani attorno al mio collo. L’aria diventa rarefatta nei miei polmoni, sento i pensieri sfuggirmi sotto il suo sguardo ghiacciato che mi squadra apparentemente senza alcun interesse. Le palpebre però fremono irate, il suo respiro è sempre affannato, sembra far un incredibile sforzo per non spezzarmi l’osso del collo ma per darmi invece solo l’illusione della morte. Agitandomi, le braccia aggrappate alle sue, guardo Ilai steso per terra, privo di sensi. Chiudendo gli occhi, spero almeno che Alex non stia vedendo questa scena e che, dopo avermi uccisa, lei non si accorga di lui.

Raissa allenta lievemente la presa, non lasciandomi andare, ma consentendo che un po’ di ossigeno arrivi alla mia gola, dandomi la forza di ascoltarla. Le sue labbra si muovono appena, come se nemmeno parlasse, come se ogni respiro passasse a malapena tra i denti. È calma, gelida, assolutamente disinteressata. Ma le dita che stringe sulla mia giugulare continuano a tremare riarse dall’odio, ogni sforzo è concentrato per impedirsi di uccidermi così velocemente da non farle pregustare il tutto con spasmodica e crudele lentezza. Dice dapprima qualche parola sottovoce, come se parlasse tra sé e sé: suoni gutturali e duri giungono alle mie orecchie ovattate, assieme alla percezione di uno spostamento d’aria repentino. Distinguo a fatica sopra di noi un piccolo bagliore aranciato che non riesco ad interpretare: raggiunge il punto più alto sopra le nostre teste, resta immobile per qualche istante e poi scompare. Un Incantesimo non verbale.

Che, naturalmente ancora non conosco. Adamar ha dato a lei e a Dimitri un potere di conoscenza così elevato che quest’Incantesimo potrebbe essere persino sparito da secoli.

Finalmente dedica tutta la sua attenzione a me, guardandomi schifata.

“Mi sono sentita in colpa verso di te per anni… “ respira pacata con il tono di una che sta parlando del colore nuovo delle tende “Per anni. Non ti avevo mai odiata, mai, avevo voluto persino proteggerti da mio fratello, terrorizzata che lui si reclamasse al Voto Infrangibile…”. Fa una pausa, studiando il mio viso come a cercarvi un’onta di stupore che ovviamente non trova. Sorride con elegante scherno ed aggiunge: “Scommetto che sai tutto, no, di questo? Del Voto Infrangibile con Dimitri, del fatto che si potesse appellare ad esso, della sensazione cupa e cieca di doverlo controllare per impedire che perdesse la testa per un’altra come era accaduto con Tatia. Me ne volevo andare subito, non appena ho scoperto che poteva essere interessato a te. Ma eri una Mezzosangue, una che per pura fortuna aveva creato uno Zahir. Non ne eri morta, ok, ma Dimitri doveva capirlo che valevi poco, che non valevi nulla, che era solo caso. Ma non l’ha capito… mai… e ho dovuto assecondarlo. Per anni, per cinque stramaledettissimi anni, mi sono sentita in colpa verso di te… ti avevo consegnata nelle mani di mio fratello. E mi sono sentita in colpa verso Draco Malfoy. Mi aveva salvato da Voldemort e gli avevo portato via la sola cosa che voleva al mondo…”. Raissa sospira, improvvisamente serena come se fosse in pace: “Ma oggi, Mezzosangue, sei tu che mi hai portato via tutto, quindi finalmente questo buco dentro si è cucito… e adesso so esattamente che cosa fare…”.

La guardo terrorizzata, cercando ancora di liberarmi dalla stretta attorno al collo. Ho le braccia indolenzite a furia di provarci e la gola che gratta come se stesse sanguinando, ma continuo mio malgrado a sentirla: “Tatia… è stata lei, vero? Quella piccola puttanella…  si è affidata a te, alla Salvatrice delle anime degli uomini abbandonati. Scommetto che ti ha affidato Ilai, scommetto che è convinta che lo proteggerai, scommetto che si augura anche che lui si innamori di te, no, Mezzosangue?!”, ad ogni inevitabile insulto che riversa o su me o su Tatia le sue dita aggiungono pressione sulle vene del mio collo, costringendomi a reprimere la tosse “E lei ti ha detto tutto no? In qualche sciagurato modo dei suoi… e tu ovviamente, la regina del bene, dovevi dirlo ad Ilai, dovevi dirgli tutto, così da splendere di luce riflessa davanti ai suoi occhi. La nobile Mezzosangue, la dea della giustizia che cerca l’assassina della profetessa sventurata… quando invece non sei null’altro che una povera piccola sciocca, manovrata da forze più grandi di lei…”. I miei occhi si socchiudono nel fissarla, creda che diamine vuole, non mi interessa. Cerco di snebbiare la mente al punto di riuscire a lanciare un Incantesimo non verbale ma le sue successive parole cancellano di botto ogni mio pensiero: “Sei solamente il rimpiattino delle donne morte che cercano una sostituta innocua per i loro fidanzatini e maritini. Prima Helena, e adesso Tatia. Non te lo sei mai chiesto, Granger? Non ti sei chiesta come mai tutto questo interesse dall’alto dei cieli? Non sei niente di speciale in fondo… ed è questo il punto… sanno che resteranno indimenticabili. E scelgono te per avere questa certezza. Non scalfirai minimamente il loro ricordo.”, la bocca di Raissa si piega in un sorriso dolciastro prima che sputi fuori: “Sarò anche un’assassina, sarò anche la feccia dell’umanità… ma Ilai scriveva a me, prima di sapere tutto questo. Mi ha voluto bene per quella che sono… mi avrebbe amato per quella che sono… e mi amerà per quella che sono, non perché sono la sostituta di Tatia. E in quanto all’amore della tua vita, Granger… mi sta per sposare. Sapevi anche questo? Adesso capisco perché te ne sei innamorata da povera piccola cagna in calore… è una specie di dio a letto, vero? Mai scopate migliori di quelle con Draco Malfoy…”.

Le sue parole hanno l’effetto di conficcarsi come schegge acuminate dentro il mio cuore, come se mi avessero infilato un paletto nel petto che adesso si sta spezzettando in minuscoli frammenti. Non so quale mi ucciderà, ma li sento uno ad uno avanzare mortiferi nel mio sangue e farmi il male che la stretta alla gola non ha potuto minimamente preconizzare.

Sentirla parlare così di me mi lascia del tutto indifferente: odia me e Tatia, quindi potrebbe mentire per quello. Inoltre è una vita che vengo chiamata Mezzosangue o vengo sottovalutata e disprezzata, non può certo farmi il male che potevano farmi altri insulti a dodici anni. Ma le parole su Draco… quelle so che sono vere, so che lei davvero lo sta per sposare. E non era nemmeno difficile capire che, se fossero giunti a quel punto, voleva anche dire che erano stati a letto assieme. La nausea emotiva che sento mi fa immediatamente venir voglia di abbandonarmi alla soffocante stretta delle sue dita: li immagino assieme, nudi, avvinti in un abbraccio caldo e seducente. E mi viene da vomitare. Potrebbe mentire anche adesso, certo, ovvio… ma sono così stanca e così esausta di crearmi palizzate di ragionamenti nella mente che mi difendano da tutto questo. Sono stanca, sono così maledettamente stanca.

Improvvisamente la stretta di Raissa si fa meno forte, le sue dita abbandonano un po’ la pressione sulla mia pelle senza consentirmi di liberarmi, ma lasciandomi almeno respirare normalmente. Riapro faticosamente gli occhi e la vedo guardare qualcosa alle sue spalle con aria terrorizzata ed affranta. Ilai. Le punta una bacchetta alla nuca, l’espressione stravolta e il sangue che gli cola da una profonda ferita alla testa. Sibila come se anche lui si stesse trattenendo a stento dall’assassinarla: “Lasciala andare, Karkaroff, prima che ti faccia fuori…”.

Raissa fa un verso strano con la gola, assomiglia ad un singhiozzo trattenuto e cambia espressione come non l’ho mai vista fare. Diventa livida, pallida, smunta. Trema vistosamente e getta uno sguardo confuso alla collana che porta al collo. Gli occhi diventano lucidi, non so se sia sofferenza o rabbia, non mi interessa. Ma, dimenticandosi totalmente di me, guarda Ilai sconvolta come se improvvisamente si rendesse conto di che cosa sta succedendo. È un attimo ma è come se diventassi lei, vedo la Russia, le notti chiare, l’odore del fuoco e di quella sera fatale in cui ha presentato Tatia ad Ilai. Sento il dolore che ha provato quando li ha saputi assieme, la rabbia, la gelosia. E sento che adesso lo vede ancora sparire da sé, dopo aver fatto di tutto per tenerselo stretto.

Non mi fa pena. Ci mancherebbe.

Ma capisco immediatamente la sua immediata domanda, la sola cosa che le preme davvero sapere. Chiederei la stessa cosa io a Draco, se adesso fosse qui.

“Ti sei innamorato di lei, Ilai?” esala fuori velenosa, guardandomi in tralice.

Ilai di primo acchito non risponde, mi guarda per un attimo come se davvero cercasse una risposta onesta ad una domanda a cui non ha mai prestato attenzione. Gli restituisco uno sguardo stanco, teso, preoccupato, cercando quasi di fargli capire che ogni risposta a questa domanda non cambierà nulla tra me e lui. Ilai chiude gli occhi, poi, riaprendoli, preme più forte la bacchetta contro la pelle di Raissa che geme ancora, mentre lui biascica stentoreo: “Il ragazzo che hai conosciuto in Russia si sarebbe innamorato di lei la prima volta che l’ha vista…”.

Nonostante la mia intenzione iniziale, comunque il mio cuore perde un battito e i miei occhi si spalancano di contemporanea sorpresa ed imbarazzo. Guardo Ilai con la coda dell’occhio mentre prosegue affannato, continuando a fissare Raissa e non me: “Il ragazzo con cui hai parlato quella sera vicino al Palazzo d’Inverno… quello che voleva fare il medico dopo la morte dei suoi fratelli… quello che pensava che bastava essere giusti per avere in dono giustizia…”, Ilai segue un filo intessuto di ricordi solo suoi e di Raissa e di cui mi sento ospite molesta. Lei improvvisamente inizia a piangere senza nemmeno mutare espressione, la presa sul mio collo si fa così debole che temo di cadere al suolo.

Ilai prosegue, tornando a guardarla: “Bè, quel ragazzo, Karkaroff… si sarebbe innamorato dei suoi occhi, della sua risata, dell’effetto che ha di rendere tutto buono e tutto migliore, si sarebbe innamorato del modo buffo che ha sempre di andare avanti e di continuare ad avere speranza. E si sarebbe innamorato di come lei ama sempre senza odiare mai, anche se le spezzi il cuore in mille pezzi…”. Improvvisamente quelle parole mutano anche la mia espressione, facendomi venire voglia di piangere. È come stesse parlando di un’altra persona, è incredibile vedermi attraverso i suoi occhi. Poi, l’aria dolce di Ilai si raggela, diventa di nuovo pietra scolpita e la bacchetta quasi perfora la pelle del collo di Raissa mentre dice: “Ma tu, Karkaroff, hai ucciso quel ragazzo il giorno che hai ammazzato Tatia. E io non posso nemmeno pensare di amare un’altra persona, come ho amato mia moglie, tantomeno se si tratta di Hermione Granger. Perché io di lei non amerei tutto quello che è, ma solo il dolore che è uguale al mio e che le avete inferto tu e di quel bastardo di tuo fratello”. Chiudo gli occhi, cercando di renderli limpidi dalla foschia che li avvolge.

Come io amerei di te solo il fatto che le stesse persone che ti hanno rubato Tatia, mi hanno tolto anche Draco.

Cosa sarebbe allora? Vendetta, giustizia, pietà, tenerezza? Sarebbe tutto tranne che amore: sarebbe anche giusto, no?

Ma abbandonarci a questo sarebbe darla vinta a loro. Dimostrargli che ci hanno reso incapaci di amare.

Ilai conclude stoico, mentre lo guardo con uno strano senso di orgoglio per quello che ha detto e che come sempre ha prevenuto i miei stessi pensieri: “… ma soprattutto, Karkaroff, non posso permettermi nulla di diverso dal mero sopravvivere fino a che ti saprò in giro libera e pronta ad ammazzare la moglie di qualcun altro…”.

Raissa per qualche secondo non fa assolutamente nulla, assorbe le sue parole come se non le accettasse, come se avesse bisogno di qualche secondo per capirle. Continua pensosamente a guardarsi la collana al collo, la studia come se fosse la cosa più interessante del mondo. Ha gli occhi asciutti adesso, solo lievemente rossi ed anche l’espressione è tornata calma, gelida, riflessiva.

“Non sarai mai mio…” commenta fiocamente, come si fosse accorta solamente adesso di che cosa è accaduto. Ilai non risponde, continua a tenere la bacchetta puntata al suo collo e getta uno sguardo preoccupato nella mia direzione. Debolmente glielo restituisco, guardandolo dall’alto in basso.

Repentinamente Raissa lascia andare la presa sul mio collo, gettandomi senza apparente sforzo contro Ilai. Lui mi afferra saldamente per la vita, impedendomi di cadere al suolo, mentre finalmente tossisco e recupero il respiro. Ilai mi sorregge per un fianco, mi aggrappo senza forze al suo braccio teso.

“Stai bene?” mi chiede piano, non mollando la bacchetta puntata verso Raissa e non distogliendo l’attenzione da lei. Annuisco con il capo, recuperando immediatamente la mia bacchetta e guardandomi attorno alla ricerca di un segnale qualsiasi che mi faccia capire che Dean è riuscito intanto a portare via Alex. Purtroppo il palco è sempre troppo lontano per capire qualcosa, spero con tutta me stessa che mio figlio sia al sicuro.

Raissa improvvisamente si aliena completamente da sé stessa e da me e da Ilai. Inizia a camminare in circolo, tenendo sempre la collana stretta tra le dita e guardandola con aria corrucciata. Sembra riarsa da un conflitto interiore insanabile, il viso è trasfigurato dall’incertezza. Mentre recupero le forze, ansimando, la bacchetta tesa, guardo distrattamente la collana che ha al collo.

Un ciondolo normalissimo, rotondo, di colore scuro. Rabbrividendo, però, noto improvvisamente qualcosa di strano. Scintille. Al suo interno. Nere e verdi.

È qualcosa di magico, quindi, non lo guarda solo per riflesso condizionato. Ed è indecisa sul fare qualcosa… probabilmente sull’ucciderci, dato che comunque ama ancora Ilai. Forse quel ciondolo ci farebbe esplodere in mille pezzi, senza che nemmeno ce ne accorgessimo.

Sto appena per aprire la bocca, avvisando Ilai di disarmarla immediatamente e di toglierle quella cosa dal collo, che Raissa improvvisamente urla con tutto il fiato che ha in gola. Prima le sue parole sono scomposte, incomprensibili. Sono solo una sequela di suoni inarticolati, colmi di rabbia e dolore. Raissa si strappa i capelli, continua ad urlare, si accascia al suolo.

Poi finalmente alcune sue parole diventano comprensibili, un attimo prima che si tolga la collana dal collo e la getti furiosamente per terra, facendola rompere in mille pezzi.

Dice solamente: “Non avrei voluto arrivare a questo…”.

Urlo immediatamente ad Ilai di nascondersi, di stare giù, di ripararsi, preparandomi al delirio dell’inferno. Ci gettiamo entrambi a terra bocconi, la testa tra le braccia, cercando di proteggerci.

Ma non accade nulla. Nulla di esplosivo, di letale, di mortale, al punto che penso che l’incantesimo sia andato a male e non abbia funzionato.

Mi azzardo timidamente a sollevare il viso e ciò che vedo mi gela il sangue nelle vene, facendomi assumere in tutto e per tutto le fattezze di una statua di marmo. Mi trattengo dallo stropicciarmi gli occhi, incredula, pensando ad un macabro scherzo, ma so subito che non ci sarebbe nessuno così malvagio da farmi rivivere tutto questo. E soprattutto la mia stessa fantasia non avrebbe mai potuto concepire questo oggi, adesso. L’ondata che risale dallo stomaco mi fa mordere furiosamente il labbro e digrignare i denti per la rabbia, mentre rabbrividisco al contatto con lo sguardo che mi ha perseguitato per cinque lunghi anni. Le ultime labbra che ho baciato si aprono sardoniche, prima di sussurrare: “Mi piacevi di più con i capelli lunghi, piccola. Ma rimedieremo anche a questo, adesso che finalmente sei di nuovo qui…”.

Come un animale lasciato libero dopo anni di cattività, mi sollevo in piedi come una furia prima di scagliarmi addosso a Dimitri con tutta la rabbia e l’odio che ho in corpo. Lo Zahir non era nulla in confronto a quello che sento adesso, alla voglia spasmodica che ho di fargli del male, di ferirlo come lui ha ferito me. Inconsapevolmente provo persino piacere, immenso, che non sia morto, che sia ancora vivo, che improvvisamente sia ancora qui, davanti a me, così che possa fargli tutto quello che ha fatto a me, triplicato. Adesso finalmente posso ucciderlo, con le mie mani. È colpa sua, è tutta colpa sua. Tutto quello che mi è accaduto… tutto quello che… le immagini di questi cinque anni mi ballano davanti agli occhi come fotogrammi di un film in bianco e nero, vecchio di secoli.

La notte in cui è nato Alex. L’odore di rose nella camera di ospedale. La sedia a rotelle di Hayden. Una cartolina ingiallita indirizzata ad Helder. Il giorno della festa del papà e Ron che guarda Alex confezionare un pacchetto che non è per lui. Le lettere a Draco. Un ramoscello di menta selvatica in un libro. Mia madre che guarda la mia pancia e piange. Mio padre che mi stringe per la nuca e piange. Harry che si aggiusta gli occhiali sul mento dicendo che non ha visto James nascere. Ilai che non amerà mai nessuna come Tatia. Ron che getta a terra un vaso di rose. Tatia che muore a diciassette anni e dice a suo marito di ricordarsi della cannella bruciata. E poi io che mi improvviso madre e padre, innamorata e sconfitta, salvatrice e salvezza, vittima e carnefice, tradita e traditrice.

Per anni, mesi, giorni, ore, mentre Draco si scopava Raissa Karkaroff e programmava di sposarla, mentre avrei potuto diventare sul serio la moglie di Ron, mentre avrei potuto andarmene con Ilai.

Tutto questo scoppia in un secondo, mentre mi alzo in piedi e mi scaglio su Dimitri urlando e graffiandogli furiosamente il viso. Il segno delle mie unghie rimane vivido sul viso finché inizia copiosamente a sanguinare, finché con un gesto della bacchetta semplicissimo, riesce ad immobilizzare il mio impeto. Senza timore, prendo la mia bacchetta e provo ogni genere di incantesimo con sorda rabbia cieca, continuando a gridare come un’ossessa, ma nulla infrange la barriera a difesa dei Karkaroff.

“Se avessi saputo che sentivi così tanto la mia mancanza, Granger, mi sarei fatto vedere molto prima…” commenta con un ghigno Dimitri, ridendo dei miei tentativi a vuoto di ferirlo e colpirlo. Non sembra assolutamente cambiato di una virgola da quella sera di luglio in cui gli sfuggii: gli stessi occhi blu oltremare carichi di sadico divertimento nel guardarmi, gli stessi capelli ricci e neri spettinati, la stessa espressione gelida, la stessa posa militare. Indossa persino vestiti molto simili a quelli che indossava da Pansy. Per un attimo sciocco, penso persino che sia un miraggio. Ma il sangue della ferita sul viso è dannatamente reale, le mie unghie che graffiavano la sua carne erano anch’esse reali. È reale. Non è mai morto. È sempre stato nascosto da qualche parte ad aspettarmi con disgustosa pazienza. Raissa, alle sue spalle, è rimasta nella stessa identica posizione di poco fa: seduta per terra, con le gambe piegate, il volto rivolto verso il basso.

“Come diamine fai ad essere ancora vivo?!” urlo ancora, muovendomi come un’ossessa per cercare una falla nella sua difesa, mentre la barriera continua a respingere facilmente ogni mio incantesimo “Harry ha visto il tuo corpo! Helder ha sentito che eri morto, dannato bastardo! Come diamine fai ad essere ancora vivo?!”. Ilai, alle mie spalle, freme a sua volta, ma riesce a essere più calmo di me, almeno fino a quando Dimitri con voce monocorde, non si rivolge direttamente a lui: “Prima l’educazione, Granger, devo salutare il mio vecchio amico Radcenko… è così confortante ritrovarsi dopo tanti anni a fare sempre le stesse cose… come contendersi sempre le stesse donne… peccato che stavolta non l’avrà vinta lui…”.

“Il giorno in cui ti lascerò Hermione sarà lo stesso in cui mi dovrai ammazzare prima di poterci anche solo provare…” sibila freddo Ilai.

“Bè allora sono fortunato che questi giorni coincidano e che cadano tutti oggi…” sorride gioioso Dimitri, guardando Ilai con espressione sarcastica “Già una volta ti ho concesso di metterti in mezzo tra me e la donna che amavo. E Tatia è morta… non accadrà ancora…”.

“Tatia è morta perché lei l’ha uccisa…” ripete Ilai con un gemito doloroso, facendo un cenno del capo in direzione di Raissa, che si limita ad incassarsi nelle spalle magre “Non parliamone come se fosse un incidente. Mia moglie è stata uccisa. Ed è giunto il momento che tu e tua sorella paghiate per questo…”.

“Mia sorella ha già pagato per questo…” commenta annoiato Dimitri, guardando in tralice Raissa “Ha perso te, no? Ti ha perso per sempre. Era la cosa peggiore che le potesse accadere, altrimenti non avrebbe stretto quel Voto Infrangibile con me. E in quanto a me… dimentichi quanto io amassi Tatia. Non le avrei mai torto un capello, se fosse rimasta mia… ma lei, no. Non mi aspettò, sposò te e a questo punto posso dire che fece la scelta peggiore che potesse fare… visto che non sei stato nemmeno in grado di salvarla da mia sorella…”.

Mi volto appena in tempo per rendermi conto del potente Schiantesimo che Ilai scaglia ferocemente, il viso tumefatto dall’ira contro la parete che protegge Dimitri che continua a ridere sguaiatamente. Lo spostamento d’aria mi fa fare qualche passo indietro, mentre si solleva un’onda di polvere a causa del contraccolpo. Ilai continua a scagliare maledizioni furibonde, gli occhi annebbiati e il respiro corto, senza ottenere nulla. Il mantello di Dimitri non si increspa nemmeno. Approfittando di un attimo di sosta di Ilai che cerca di riprendere fiato, mi avvicino velocemente a lui afferrandolo per un polso. Lui mi guarda quasi trapassandomi da parte a parte, cieco, folle, nella sua ricerca di vendetta. Poi qualcosa nei suoi occhi cambia mentre sembra mettere a fuoco chi sono, il braccio che regge la bacchetta si piega e la voce blocca in gola l’incantesimo inutile che stava già pronunciando.

“Vuole farci perdere la pazienza e farci stancare inutilmente…” sospiro con un filo di voce, guardandolo e stringendogli la mano “Non permetterglielo, Ilai… ci siamo dentro assieme…”.

“… e la finiamo assieme…” conclude lui, annuendo stancamente “Hai ragione. Ma quella barriera… è Magia nera. Per quanto ci sforziamo, non verrà mai giù. Potrebbe fare di noi quello che vuole… e non mi preoccupa quello che vuole fare a me… ma quello che vuole fare a te…”, la sua mano stringe forte la mia mentre sussurra deciso: “Non gli permetterò di portarti via da me”.

Sorrido stancamente, accarezzandogli piano il dorso della mano con il pollice, ma non faccio nemmeno in tempo a parlare che la voce di Dimitri ci interrompe nervosamente, rivolgendosi ancora ad Ilai: “Radcenko, ti ho già detto di smetterla con questo vizio di infatuarti delle mie cose…”. La voce di Dimitri sembra calma, tranquilla, ma si è già increspata vistosamente. Lo guardo con odio puro, non ha perso il maledetto vizio di considerarmi di sua proprietà e di trattarmi alla stregua di un oggetto. Giuro che lo farò pentire di essere tornato qui. Se solo sapessi che Alex è al sicuro, avrei già fatto esplodere l’intera piazza. Certo, io ed Ilai potremmo anche Smaterializzarci lontano, qualora capissi che Dean ha portato via Alex… ma vorrei lasciarla come ipotesi finale nel caso le cose si mettano male. Oggi deve finire questa storia. E non me ne andrò da qui fino a che non vedrò i Karkaroff in catene.

Dimitri guarda prima me e poi Ilai e sussurra in modo lascivo: “Vedo che il tuo non era poi il grande amore della tua vita, eh Granger? Ti sei già dimenticata di Malfoy? Adesso fai gli occhi dolci a Radcenko… ma ti va male anche in quel caso… entrambi hanno lasciato o lasceranno che tu venga dritta da me… aspetto da cinque anni questo momento, credi che mi faccia fermare da lui?”.

“E credi che per me le cose in cinque anni siano cambiate?” rispondo acidamente, con voce strozzata “Che tu non sia morto, mi dà solo la felicissima occasione di gettarti io stessa ad Azkaban…”.

Dimitri assume un’espressione canzonatoria, mi guarda con gelido e sarcastico divertimento. Qualcosa in lui è cambiata in questi cinque anni: me ne accorgo solamente adesso. E’ dannatamente sicuro di sé, al punto da deridere me ed Ilai con lo sguardo in modo insopportabile. Prima, aveva ogni cura e premura che io lo desiderassi autenticamente, adesso non gli importa. Vuole solamente avermi, in qualsiasi modo ciò dovesse avvenire. E per farlo, non esiterà ad usare ogni mezzo possibile. La frustrazione di questi lunghi anni deve averlo fatto scendere a patti con sé stesso in modo inaspettato. E potendo usare tutto quello che ha a disposizione, ovviamente il rapporto tra me e lui si è sbilanciato come non mai. Non sono davvero nulla, adesso, in confronto a lui.

“Di te ho sempre adorato questo straordinario idealismo che hai, nonché il coraggio e la speranza…” sorride dolciastro, guardandomi con le labbra serrate “Credi forse che io possa essere rinchiuso ad Azkaban? Credi forse che ci sia un rimedio diverso per fermarmi che non sia uccidermi? Aspirazione invidiabile la tua… ma assolutamente ridicola, piccola Granger…”. Fa qualche passo deciso, fermandosi ad un soffio dalla barriera e da me, Ilai lo guarda digrignando i denti, Dimitri lo ignora e mi dice, inclinando la testa di lato: “La Conoscenza Assoluta… quella che mi ha donato Adamar… non è solo Conoscenza di ogni singolo Incantesimo mai esistito su questa terra ed inventato da uomo. E’ conoscenza di tutto, Granger. Conosco ogni singola pietra di Azkaban, ogni crepa nelle mura, ogni botola, ogni passaggio segreto, ogni falla nella sicurezza. Resterei lì pochi secondi… e potrei far saltare in aria tutta quella feccia nel tempo che tu impieghi a respirare…”.

Rabbrividisco, distogliendo lo sguardo da lui. Ovviamente ci avevo pensato, l’avevo immaginato: ma accettarlo compiutamente significa anche comprendere che allora lo devo uccidere io. E non sono ancora diventata un’assassina… e poi… esisterà davvero un modo per ucciderlo? Probabilmente conosce ogni contromossa possibile ad ogni Incantesimo.

In fondo, è qui, vivo e vegeto. Harry mi mandò persino delle foto del suo cadavere, perché lo riconoscessi. Aspettarono persino qualche giorno prima di comunicarmi la notizia, così da escludere che avesse fatto bere la Polisucco a qualcuno che poi aveva ucciso. Helder aveva sentito la sua forza vitale venire meno. Come diamine ha fatto?

Do voce ai miei pensieri, ringhiando: “Immagino che la suddetta Conoscenza assoluta sia stata anche utile per farti mettere in scena la tua morte, no?”. Dimitri sogghigna soddisfatto, guardandomi in tralice ed annuendo con sussiego: “Sarebbe accaduto anche prima, se non avessi avuto tra i piedi quell’oca idiota di Astoria Greengrass…”.

“Quindi lei è morta sul serio?” aggiungo debolmente, non l’ho mai detestata quanto ho detestato lui. Mi ha fatto creare lo Zahir, mi ha quasi costretto ad uccidere Draco, però ha fatto sì che Dimitri mi obbligasse ad abortire, dato che Astoria ha sempre voluto per sé il figlio di un Malfoy. Era una donna debole, fragile, intimamente legata ad un mondo dalle regole assurde. Provo pietà per lei ed arrivo persino a sentire un po’ di compassione quando Dimitri mi conferma che è morta sul serio e che è stato lui ad ucciderla. Questo, ovviamente dopo che mi si confermi nella testa che quest’uomo ormai è disposto praticamente a tutto e che è un diavolo incarnato.

“Non valeva la pena ucciderla…” sciorina con voce monocorde, guardandosi le unghie “Mi è sempre stata utile nella fuga, aveva contatti con il Ministero, anche dopo che avete neutralizzato Lavanda Brown. E poi era anche graziosa… me la sono fatta un paio di volte…”, trattengo il disgusto a quelle parole turpi e continuo ad ascoltarlo mentre riprende: “Era noiosa, intendiamoci… ossessionata dall’idea di mettere le mani sulla preziosa progenie di Draco Malfoy… si faceva i calcoli per vedere quando sarebbe nato, cercava di ricordare particolari di te che le facessero capire se era maschio o femmina, mi tediava con ogni stramaledetto aneddoto per cui, se fosse stato maschio, sarebbe stata riaccolta nella sua famiglia a braccia aperte… ed anche Draco non l’avrebbe più rifiutata… da quello che mi ha raccontato Raissa, Malfoy ha una figlia femmina che non è sua… per un Malfoy, un figlio maschio sarebbe stata la più grande delle benedizioni esistenti…”.

Trattengo in gola un groppo di pianto confuso, pensando a che cosa ho negato volutamente a Draco. Un figlio maschio… non ci avevo mai concretamente pensato… per i Purosangue come lui, queste cose sono ancora dannatamente importanti. Trasmettere un cognome, essere erede di tradizioni e valori, vedersi proiettato in lui… chissà come sarebbe cresciuto Alex se avesse conosciuto Draco sin dal primo momento. Sarebbe un Malfoy, adesso, in tutto e per tutto. Quelle poche tracce che ha di me… forse non ci sarebbero state. Ma sicuramente l’avremmo cresciuto in modo che prendesse solo il meglio dalla sua famiglia d’origine. E lui, Draco… sarebbe scoppiato di orgoglio ogni momento della vita di nostro figlio.

Ricaccio a fatica quei rimpianti inutili, gettando uno sguardo distratto al palco dove spero non si nasconda ancora mio figlio, e continuo ad ascoltare Dimitri: “Me la sono sempre portata appresso mentre fuggivo… Pucey e Montague erano delle zavorre inutili, li ammazzai la sera della tua famosa fuga dal mio castello. Ma lei tutto sommato poteva ancora tornarmi utile… specie perché da quella notte, tu sei praticamente scomparsa. Ho fatto in ogni modo, provato centinaia di incantesimi, preparato decine di pozioni… ma nulla, per cinque anni non sono mai riuscito a trovarti in nessun modo… nonostante avessi ordinato a Raissa di rimanere con Malfoy fino a quando tu ti fossi fatta viva… tu non provavi nemmeno a contattarlo…”.

Ecco perché Raissa era partita con Draco e ci era rimasta per cinque anni… l’ultimo pezzo mancante è tornato a posto. Effettivamente, il punto non tornava perché non sapevo Dimitri ancora vivo… adesso ha tutto senso. Restava con lui perché Dimitri si era appellato al Voto Infrangibile… e continuava ovviamente ad amare Ilai. Ma allora perché stanno per sposarsi?

Mi trattengo la domanda in gola, sicura che mi mentirebbero, e lascio ancora spiegare Dimitri che comincia ad andare concitatamente avanti ed indietro come se il nervosismo di questi anni si fosse improvvisamente palesato di nuovo nelle sue membra, impedendogli di restare fermo.

“Sono passati cinque anni stramaledettissimamente lunghi…” riprende incolore Dimitri, mascherando la rabbia “E non riuscivo a capire come avessi fatto semplicemente a sparire. Nessuno parlava di te, da Malfoy non andavi, la tua stessa forza vitale era come morta… poi un anno fa, Astoria sputa il rospo. Casualmente quell’oca, dopo quattro anni, si ricorda che tu conoscevi un’Indicibile da cui avevi avuto la formula dello Zahir… quindi probabilmente avevi qualche metodo magico per celarti… peccato che io conosca tutto anche degli Indicibili. Non è questo il punto… finalmente si degna di dirmi chi era quell’Indicibile… Helder Cassidy Bode… come se non la conoscessi. Riuscì a diventare un’Indicibile al mio posto… la conoscevo da anni, mi fu presentato anche suo padre una volta dal mio… e sapevo che non era solo un’Indicibile. Era anche un’Empatica… per quello non riuscivo a trovarti. Era il suo potere a nasconderti… e la cosa peggiore era che lei invece avrebbe potuto trovarmi sempre. So che noi che abbiamo vinto una prova di Adamar siamo ciechi agli Empatici, ma so anche che, se ci sentono una volta, non si dimenticano più di noi… e quella mocciosa poteva avermi sentito la sera della tua fuga. Doveva essere stata lei a trovarti quella volta. Questo significava che potevo avvicinarmi anche solo per caso a te e lei se ne sarebbe accorta subito, mettendoti in fuga. Quell’imbecille di Astoria non mi aveva mai detto nulla… non l’aveva considerato importante… la ammazzai quella sera stessa…”. Rabbrividisco, gelando. Ha ammazzato Astoria solo perché non si è ricordata di dirgli questa cosa. Le gambe mi tremano anche se non vorrei mostrarmi debole davanti a lui, improvvisamente la paura mi prende come una morsa ghiacciata. Ilai mi sfiora con il dito l’interno del polso senza farsi vedere da Dimitri. Sospiro, cercando di calmarmi.

“Finalmente capii il punto… l’Empatia era l’ostacolo…” riprende allegro come un bambino soddisfatto “Ma purtroppo per me, l’Empatia è così poco conosciuta nei suoi effetti e nei suoi poteri che non sapevo bene come affrontarla. Io conosco tutto quello che è stato scritto da uomo: formule, incantesimi, libri, anche se persi da secoli. Tutto, dai romanzi ai progetti di edifici agli articoli di giornale. Ma dell’Empatia so pochissimo, semplicemente perché è l’uomo stesso che non sa nulla dell’Empatia. Sono sempre stati una casta chiusa, dalle regole ferree, persi nei loro deliri di onnipotenza, che comunicavano di generazione in generazione solo con il loro dono, senza scrivere mai nulla. C’è gente che nemmeno sa che esistono… e poi hanno il potere esattamente contrario a quello di Adamar. Lui mutila le anime per dare potere, loro conoscono le anime per avere forza… credo che nemmeno Adamar stesso sappia molto degli Empatici. Ucciderla non sarebbe servito, si sarebbe accorta comunque di me per tempo… e in ogni caso continuavo a non sapere dove fosse lei… e dove fossi tu. Sicuramente eravate nello stesso luogo. L’unica possibilità era fingere che fossi morto io… tu ti saresti sentita libera, saresti tornata indietro… ed avresti prevedibilmente cercato Malfoy. Sei sempre stata un libro aperto per me, Granger…”. Ignoro il suo sorriso saputo, serrando forte la mascella.

“Serviva qualcosa di potente… qualcosa che ingannasse un Empatico. Doveva celare ogni cosa di me… rendermi morto sul serio… nemmeno un Distillato della Morte vivente potenziato sarebbe bastato... tutto di me doveva congelarsi e a lungo… avrebbero fatto prove, test per giorni, per capire se ero davvero morto… e la maledetta Empatica non doveva più avvertire di me la benché minima traccia vitale. Un modo c’era… un fiore che cresce sulle Ande, rarissimo, di nome Titanca. Proviene da una pianta endemica, che fiorisce solo una volta per poche settimane nei suoi circa cento anni di vita, poi muore. Dalla polverizzazione dei suoi petali si ricava un estratto che induce la morte, fino al momento in cui viene innescata una scarica elettrica sul corpo della vittima. Ci ho messo settimane a trovare la pianta, che era vicina a perdere i fiori… e ne ho ricavato la mistura, che mi ha immediatamente indotto la morte. Ho fatto trovare il mio cadavere accanto a quello di Astoria… così che pensaste che ci fossimo uccisi a vicenda. E la collana che portava Raissa…”.

“… era il modo per svegliarti…” completo scioccamente, giungendo finalmente a comprendere tutto. Le scintille che avevo visto erano scariche elettriche, collegate, chissà come a Dimitri. Appena la collana era esplosa, aveva trasmesso l’impulso a Dimitri che si era svegliato. Fino ad allora, dovunque Dimitri fosse, lo avrebbero sempre scambiato per un cadavere.

“Bravissima, Granger…” commenta Dimitri in tono disgustosamente fiero, prima di proseguire sinistro: “Comprenderai quindi che sono cinque anni che attendo con ansia questo momento… chiunque si metterebbe in mezzo tra me e te, adesso, non mi farei scrupoli nel farlo fuori… Auror, Ministri della Magia o altri patetici personaggi…”, la sua voce si abbassa di tono, suonando come una minaccia stentorea: “Figuriamoci se poi si tratta di qualcuno con cui ho un conto in sospeso da più di dieci anni… se non si era capito, parlavo di te, Radcenko…”. Ilai non controbatte, resta immobile e gelido guardandolo, io rabbrividisco e chiudo gli occhi, cercando di non sovrapporre Hayden ad Ilai. Già lui ha pagato per quello che Dimitri voleva da me, non sopporterei che accadesse ancora. Dimitri sorride ancora, guardandomi di sbieco, e biascica dolce: “Per dovere di completezza, c’è anche qualcun altro da considerare…”. Il mio cuore perde un battito, mi volto repentinamente a guardarlo mentre aggiunge melenso: “Draco Malfoy, come dimenticarlo. Ma, andiamo Hermione, è un idiota. Non ha mai capito nulla di ciò che era successo, sta per sposare mia sorella, credi che adesso potrebbe davvero capire qualcosa?”.

“Lui dov’è?” chiedo con un filo di voce, temendo la risposta.

“Sta bene, per quanto io ne sappia…” biascica Dimitri annoiato “Da quel giorno in cui sei scappata da me, non è mai stato nei miei interessi primari. Quello che ha fatto, lo ha fatto tutto da solo. Credo che sia a Londra adesso, o qualcosa del genere, no Raissa?”. La donna, abbandonata al suolo, fa un cenno di assenso inarticolato. Che diamine sta facendo a Londra?!

“Perché è lì?!” urlo nervosa.

“Sai Hermione Granger, mia sorella e il tuo amato hanno avuto una vita assieme in questi anni…” mormora Dimitri sorridendo alla mia espressione devastata “Ed una vita assieme, significa vacanze, feste di Natale, bambini per casa e lavoro con annessi viaggi, quello che sta facendo adesso… tu non esisti più per lui, tesoro. È andato avanti”. Le sue parole mi procurano il solito ben noto tonfo al petto ma decido con improvvisa risoluzione di non ascoltarlo più e di non chiedergli più nulla. Al momento non ho né tempo, né voglia di occuparmi di Draco Malfoy e di quello che ha fatto in questi cinque anni. E soprattutto non so nemmeno come stiano oggettivamente le cose e non lascerò che mi manipolino come, ai tempi, fecero con Draco stesso.

Peraltro, ho davanti a me un demonio insaziabile che ammazzerebbe mezzo mondo pur di arrivare a me e non è sicuramente la mia priorità sapere adesso di Draco: sta bene e tanto al momento basta. Certo, Dean a quest’ora avrà sicuramente portato Alex in salvo, ma intanto qui c’è ancora Ilai. Nessuno deve finire in mezzo tra me e i Karkaroff, di nuovo… anche se questo può voler dire che posso solamente ucciderli a questo punto. Accetterò di farlo, se sarà la sola strada per impedire che facciano del male a qualcuno. Soprattutto ad Ilai. Non voglio che gli accada nulla, mai.

L’ho promesso a Tatia, l’avrei difeso e protetto… e non sopporterei mai che gli accada qualcosa per colpa mia.

Non sopporterei che gli accada qualcosa in ogni senso, in verità. Perdere lui adesso mi darebbe il colpo di grazia.

Mi fa terribilmente male nel pensarlo… e mi rende così confusa da farmi girare la testa… ma non posso perderlo. In nessun modo possibile.

“Quindi torniamo a noi…” ricomincia Dimitri, gettandomi uno sguardo famelico a cui Ilai reagisce irrigidendosi e parandosi davanti a me. Lo trattengo per un braccio, fermandolo, lui mi guarda senza capire prima di dire sottovoce: “Non esiste che vai via con lui…”. Il braccio di Ilai è rigido, la pelle è colma di tensione che scorre nelle vene assieme al sangue. Mi guarda negli occhi e percepisco le stesse cose che sto provando io, tutte, dalla prima all’ultima. La paura, l’impotenza, la rabbia, la voglia di vendicarsi. E in più questa strana connessione dentro, che non ci lascia mai in pace.

Perderci… adesso… è impossibile. Siamo l’uno il sostegno dell’altra. Andremmo in pezzi da soli. Ilai chiude la mano che ho sul suo braccio, soffiando tra i denti: “Lascia che sia io a farlo fuori…”.

“No” dico nervosamente, stringendo la presa sul suo braccio “Sarà lui a fare fuori te, lo sai meglio di me, Ilai…”. Gli occhi mi si annebbiano, mentre sento Dimitri continuare a ridere disgustosamente divertito. Improvvisamente, come un petardo acceso, la voce di Ilai scoppia nel mio cervello mentre apre una connessione telepatica con me. Rabbrividisco, colma di meraviglia e stupore, sentendolo dentro di me. Non ho avvertito intrusione, non ho opposto resistenza, non mi sono dovuta nemmeno aprire per accoglierlo nei miei pensieri. Il legame strano tra me e lui funziona persino a livello di magia… c’è una connessione alchemica quasi, che non ho mai sentito con nessuno e che continuo ad imputare ad una sorta di lascito di Tatia. La voce di Ilai, nei miei pensieri, mentre sono ancora sotto il suo sguardo d’ardesia, sussurra: “Hermione, devi lasciarmelo fare. Devi farmi provare ad ucciderlo. Io vivo solo per questo ormai… solo per vendicarmi di Tatia. Loro… non potremo mai chiuderli in una cella. E tu… devi scappare. Hai ancora tuo figlio e Draco è vivo da qualche parte. Non rischiare la tua vita per niente, non ne vale la pena. Questa è una mia responsabilità… anche se non lo voleva, è stata mia moglie a trascinarti in tutto questo… e non mi perdonerei mai se ti succedesse qualcosa.”.

Le lacrime mi affannano la vista mentre stringo il suo braccio, aggrappandomi ad esso: “Credi che tornerei mai me stessa, se ti lascio andare adesso?”. Ilai sospira, chiude gli occhi e sta per replicare qualcosa, ma lo interrompo malamente: “Tatia… ci ha legato in questo modo. Se uno dei due non ne esce… probabilmente non ne uscirà nemmeno l’altro. Questo è un peso che spartiremo assieme, d’accordo? Io sono l’ex Capo degli Auror… deve esistere un modo per riuscire a colpirlo. E al momento la sola cosa che abbiamo è questa…”.

“Cosa?”.

“Questa connessione, Ilai… sei riuscito ad entrare nella mia mente senza che quasi me ne accorgessi. Se riusciamo a sfruttare questa cosa a livello di magia, forse possiamo intaccare la sua difesa…”.

Ilai batte le palpebre sorpreso, rendendosi conto della verità delle mie parole. Poi annuisce impercettibilmente, soffermandosi a riflettere. Tutto questo, nella mia mente e nella sua, si svolge in pochissimi istanti, all’esterno non sono passati nemmeno due secondi.

“Un attacco condotto perfettamente all’unisono potrebbe avere successo…” riprendo mentalmente, mentre a voce fingo di star implorando Ilai di non attaccare Dimitri “La barriera è forte. Ma magari colpita nello stesso punto, con lo stesso incantesimo, se usiamo la medesima forza… potrebbe funzionare…”.

“Che incantesimi hai usato fino ad ora?” mi chiede febbrilmente Ilai, sento ancora la sua indecisione a farmi collaborare ma enumera velocemente quelli che ha usato lui. Confrontandoli con i miei, ci rendiamo velocemente conto che non abbiamo usato solo il “Finite incantatem”. Mi sembra abbastanza debole come incantesimo e magari nemmeno funzionerà. Ma distruggere la barriera al momento è la cosa migliore. La sicurezza di Dimitri si incrinerebbe e riusciremmo perlomeno a colpirlo. Raissa, al momento, non sembra un pericolo. È completamente svuotata delle sue forze. Tra i due, certo meglio occuparci di Dimitri al momento. Continuando a fingere di parlare, pianifichiamo che, se la barriera cade, cercheremo immediatamente di disarmare Dimitri. Il suo potere è la conoscenza, sapere ogni mossa e i mezzi per controbattere, ma non ha mai avuto un potere magico interiore elevatissimo. Persa la bacchetta, probabilmente lo scontro sarebbe ad armi pari: non riuscirebbe ad evocare la maggior parte degli incantesimi che conosce. O perlomeno spero. L’indemoniata onniscienza che possiede, magari, può persino questo.

“Non te ne andrai via vero?”  Ilai sospira nella mia mente e sento il muscolo del suo braccio tendersi sotto le mie dita. Nego impercettibilmente con il capo, un piccolo sorriso che mi spunta sulle labbra: “Mai senza di te”. Lui scuote piano il capo, tra l’incredulo e il rassegnato, e alla fine acconsente. Vedo nella sua testa che, se mi attaccassero direttamente, si parerebbe davanti a me per impedire che mi succeda qualcosa, ma ricaccia immediatamente quell’immagine, forse per impedirmi di conoscere i suoi veri pensieri che mi sono comunque arrivati. Non glielo permetterei mai.

Fingo un isterico scoppio di pianto davanti a Dimitri, mentre biascico ad Ilai di andarsene immediatamente, che non ho bisogno di lui, che non può succedergli niente come è successo ad Hayden. Dimitri osserva la scena come se stesse a teatro, le braccia conserte ed un sorriso sardonico sui tratti duri del viso. Lascia in piedi la nostra pantomima solo per divertimento, sa perfettamente che, se anche mi consegnassi a lui, non lascerebbe in pace Ilai. Forse gli concederebbe anche di fuggire, per poi battere tutta la Terra alla sua ricerca per farlo fuori. Odia Ilai più di quando odi Draco.

“Lascerai che se ne vada? Mi prometti che sarà in salvo?” urlo sconvolta a Dimitri, voltandomi verso di lui e continuando a piangere rabbiosamente.

Dimitri annuisce in silenzio con un sorriso quieto, e simula persino con le dita un segno sul cuore come se stesse facendo una promessa stupida ad una bambina. Ilai probabilmente farebbe tre passi e poi morirebbe ugualmente… oppure aspetterà davvero che se ne vada, visto che comunque Raissa è sempre presente.

“Io e Radcenko ce la vedremo poi…” sussurra suadente e minaccioso al suo indirizzo “Vieni adesso con me… e gli darò qualche ora di vantaggio…”. Annuisco continuando a piangere, mentre Ilai finge ancora una sua resistenza e io lo spingo via con le mani, urlandogli contro con eccessiva foga ed enfasi. Ma, ovviamente, meglio esagerare. Sia Raissa che Dimitri, anche se quest’ultimo in modo più velato, sono così presi dal tentativo di capire che cosa ci sia tra me ed Ilai che esagerare non può fare altro che bene: più fingiamo di essere così legati da impazzire al pensiero che all’altro succeda qualcosa, più loro perdono la testa. Rivedono Ilai con Tatia, forse, e questo li fa ammattire. Raissa, infatti, ha alzato lo sguardo ed è completamente presa da Ilai che continua ad implorarmi di farlo restare, mentre Dimitri inizia nervosamente a serrare le labbra mentre si inizia a spazientire.

“E’ il momento!” urlo nella mia testa, un secondo prima di puntare la bacchetta contro la barriera e gridare con tutte le mie forze: “FINITE INCANTATEM!”. Alle mie spalle, poco distante, Ilai fa la stessa cosa nel medesimo momento, colpendo lo stesso punto che colpisco io e che ha visto nella mia mente mentre lo puntavo. Il contraccolpo dei due raggi dorati, che si fondono l’uno nell’altro diventando una sola saetta bronzo, è tale da farmi perdere l’equilibrio mentre si solleva in aria un pulviscolo di foglie secche e cartacce. Barcollo per qualche istante, prima di reggermi di nuovo sulle gambe: l’onda d’urto del potere sollevata è stata enorme. Non vedo assolutamente nulla per qualche secondo, tutto ricade in una polvere diffusa e in una miriade di scintille luminose, ma cerco di recuperare immediatamente il controllo, correndo in direzione di dov’era prima Dimitri. Ilai mi sorpassa correndo a sua volta, ci rendiamo subito conto che l’Incantesimo congiunto ha funzionato e che la barriera è caduta. Ilai corre molto più veloce di me e, improvvisamente, lo perdo di vista finché sento una serie di tonfi ed un gemito trattenuto. Gelata, agghiacciata, corro ancora in quella direzione con il cuore in gola, mentre con la bacchetta e delle formule di rito cerco di diradare la polvere. Quando la mia visuale torna limpida, mi rendo conto che Ilai ha raggiunto Dimitri. Deve avergli mollato un calcio in pieno viso, perché Dimitri è in ginocchio, il volto un mascherone di sangue e cerca di tamponare la feroce emorragia dal naso. Velocemente, prima che raggiunga la sua bacchetta, riesco con un colpo a farla volare nelle mie mani; immediatamente, senza la minima esitazione, la spezzo in due con le mie mani. Intanto Ilai ha preso Dimitri per il collo, gettandolo per terra per poi tenerlo supino, un piede sulla sua carotide. Dimitri annaspa, tossisce, ma non si muove. Mi volto con preoccupazione, rendendomi conto che, in tutto questo, Raissa non si è assolutamente mossa: guarda suo fratello ed Ilai con aria afflitta, ma non accenna a muoversi. Qualcosa mi si accende furiosamente nel cervello, una specie di spia luminosa, sembra tutto troppo facile, ma cerco di ignorarla: punto la bacchetta in direzione di Raissa, intimandole di non muoversi. Lei non fa assolutamente nulla, resta immobile come se non stessi nemmeno parlando con lei.

Che Dimitri sia rimasto sorpreso dalla nostra manovra, non è evidentemente un mistero: ha gli occhi sbarrati, lo sguardo confuso e le labbra impregnate di sangue che tremano. Eppure non fa nemmeno lui nulla per opporsi alla stretta di Ilai che continua a tenere premuto il piede sul suo collo, bloccandogli la respirazione. Al contempo, Ilai tiene ferma la bacchetta sulla fronte di Dimitri, digrignando i denti, colmo di rabbia. È strano. Tutto questo… è troppo strano.

“Non avevi detto che eravamo arrivati alla resa dei conti, Karkaroff?” lo minaccia Ilai, premendo il piede ancora sulla sua vena, Dimitri tossisce furiosamente. Mi impongo di non distogliere lo sguardo, ripetendomi che ci ha spinto lui a questo e ricordandomi tutto il male che ha fatto a me e ad Ilai stesso. Non voglio lasciare solo Ilai, non voglio che si prenda la sola responsabilità di questo. Se lui ammazzerà Dimitri, io farò lo stesso con Raissa. Lo dovrò fare, altrimenti non ne usciremo più. Deglutisco pesantemente, guardando il cumulo di stracci in cui si è trasformata.   

Dimitri, dopo un primo attimo di smarrimento, ghigna e guarda Ilai dal basso verso l’alto come se fosse un insetto, lui in risposta preme ancora più forte sul suo collo al punto da farmi temere che gli spezzerà l’osso. Tossicchiando, Dimitri aggiunge con tono di sfida: “Dovevi andartene quando ne avevi ancora la possibilità, Radcenko… ho già accettato che Malfoy toccasse la Granger una volta. Non la lascerei mai a te, che già mi hai portato via Tatia. Non ti senti enormemente idiota nell’affrontare una sfida che sai di perdere?”.

“Non sono io quello che sta per andare all’altro mondo…” mormora Ilai spingendo la punta della bacchetta contro la sua fronte, al che Dimitri scoppia a ridere con enfasi, facendomi drizzare i capelli sulla nuca, mentre biascica: “Non credi forse che io non abbia un piano B? E se va male, un piano C, D o E? Sono cinque anni che aspetto di prendermi quella donna… e mi farei fermare solo perché ci sei tu e perché avete fatto cadere la mia barriera? Scommettiamo che tra cinque minuti sarà lei stessa a chiederti di lasciarmi andare?”.

Ilai lo guarda con l’ombra di un sorriso sarcastico, convinto che stia mettendo in campo solo una delle sue minacce. Io invece sento distintamente crescere la sensazione di pericolo dentro lo stomaco, molto più di quanto non sia avvenuto fino a questo momento. Il mio stesso sangue mi ribolle nelle vene e il sudore mi imperla la fronte, mentre un timore ancestrale mi colpisce gli arti facendomi tremare la bacchetta tesa. La strana stasi di Raissa, la presunzione calma di Dimitri… c’è qualcosa dietro, di molto peggio di quello che ho visto fino ad ora.

Dimitri solleva leggermente il viso, guardandomi con espressione tronfia, nonostante il dolore provocatogli da Ilai. Si inumidisce le labbra prima di dire: “Questa volta, Hermione Granger, tu sarai mia. E non intendo fermarmi davanti a nulla… a niente, hai capito bene? Ho lasciato che ti consegnassi da sola, ho cercato di convincerti ad abbandonare Radcenko come hai già abbandonato Malfoy…”, assimilo le sue parole senza rispondergli, mentre prosegue: “… ma tu sei come Tatia. Siete due maledette sciocche testarde… che vi andate sempre ad innamorare delle persone sbagliate. Sei persino caduta anche tu nella stessa trappola di Radcenko… ti sei persino innamorata anche tu di lui…”, continuo a non controbattere, la testa che agghiaccia per quello che scommetto sta per dirmi.

Dimitri sorride malevolo, e poi dice, lo sguardo allucinato: “Ma cinque anni mi sono valsi per mettere le cose in prospettiva, Granger… me ne frego dell’amore, me ne frego di chi ami, me ne frego se ti vuoi scopare Malfoy o Radcenko… me ne frego. Tu sei mia, e lo sarai per sempre. Ti avrò nel mio letto la notte, nella mia casa ogni giorno, e tu sarai tutto quello che ho sempre chiesto e mai avuto. Non amarmi… piuttosto odiami, bestemmiami, ma intanto questo è quello che sarai… la morte si è presa Tatia, a te non lascerò lo stesso onore, Granger…”.

“Cosa mi impedirà di non uccidermi quando dovessi capire che non ho scelta?” mormoro, la voce che trema “Cosa me lo impedirà, eh, Karkaroff? Anche se arriverà il momento in cui non avrò più la speranza di farti fuori, io mi ammazzerò e ti maledirò assieme a Tatia…”.

“Tesoro” commenta Dimitri con un filo di voce “Tatia poteva anche uccidersi, l’ha tenuta in vita l’amore idiota per Radcenko… e un giorno non è bastato più. E ha affrontato la morte, sapendo che era il solo modo di liberarsi, scommetto che sapeva che sarebbe morta, l’aveva predetto, ma non ha fatto nulla per impedirlo…”, Ilai a quella parole raggela, ferito si stringe nelle spalle e Dimitri fa una lunga pausa per godersi l’effetto delle sue parole. Poi prosegue sempre più divertito: “Il tuo caso è diverso, Hermione Granger, tu non ti ammazzeresti mai, lo so da quando sei stata mia ospite nel mio castello… perché c’è qualcuno che ami molto di più di quanto ami Malfoy o Radcenko o chiunque altro su questa terra. Non è così?”.

Improvvisamente, con una scarica di brividi ghiacciati e gelidi, capisco di che cosa sta parlando. Sgrano gli occhi, la bacchetta scivola dalle mie dita fattesi di burro.

“Già, Hermione, piccola…” sorride fintamente comprensivo Dimitri “Tatia non ha fatto in tempo a diventare mamma… ma tu sì…”. Tutto di me improvvisamente muore, tutto. Mi dimentico di tutto, di ogni cosa. La mente si annebbia, il cuore si oscura e la vista viene meno. Mi sento richiamare al suolo come se fossi una marionetta lasciata cadere giù. Mi aggrappo ferocemente con tutte le mie forze a Dean, al pensiero che ormai dovrebbe averlo portato in salvo, penso che quella di Dimitri sia solo una minaccia. La pelle del viso fredda, ghiacciata, le unghie che affondano nei palmi, biascico: “Mio figlio… non c’entra nulla… prova a fargli qualcosa e io…”.

“Tecnicamente, Radcenko gli sta già facendo qualcosa…” ride Dimitri, suscitando la reazione sgomenta di Ilai che non comprende assolutamente che cosa stia succedendo. Il cuore mi balza in gola, l’ansia mi chiude il respiro e mi sento improvvisamente svenire. Con furia, afferro di nuovo la bacchetta che è caduta al suolo, incurante di tutto pronuncio la formula di Smaterializzazione concentrandomi sulla casa di Draco dove i miei amici dovrebbero essersi rifugiati e dove Dean ormai dovrebbe essere con Alex. Ma non succede nulla. Piangendo, balbettando, convinta di aver sbagliato le parole, ripeto ancora la formula, ma ancora non mi muovo, non succede assolutamente nulla. Un lampo tragico di comprensione mi avvolge, con l’effetto di farmi piegare a terra, in ginocchio come una supplice. Raissa… poco fa… l’Incantesimo non verbale, il bagliore aranciato. Dopo non mi è sembrato che fosse successo nulla di visibile. Ed invece… ha reso impossibile la Smaterializzazione. Dean non è mai arrivato… Alex è ancora dietro quel palco.

Resa cieca e pazza, inizio a correre in direzione del palco come una fiera nella savana, ma immediatamente qualcosa mi ferma. Ricado violentemente al suolo, sbattendo la faccia sul pietrisco, che si bagna del mio sangue e delle mie lacrime. Sollevo lievemente il capo per vedere che finalmente Raissa si è alzata in piedi e mi punta la bacchetta contro, trattenendomi schiacciata a terra. Il suo sguardo è così freddo e vuoto che capisco che la sua era solo la calma prima della tempesta: nel tentativo di distrarla, lei alla fine si è convinta sul serio che mi sono innamorata di Ilai. E adesso brama la mia morte più di quanto ha bramato la morte di Tatia stessa. Certo, Dimitri non lascerà che lei mi uccida, ma non si opporrà a che io soffra quanto più possibile. E mio figlio è ancora qui, pronto a pagare per le mie colpe. Dovevo ucciderli subito, dovevo lasciare che Ilai lo uccidesse, dovevo farlo io stessa. Il cuore mi si strappa dal petto, continuo a dibattermi impotente ed urlo con tutte le mie forze, quando Raissa agita pigramente il braccio verso il palco.

Quando vedo mio figlio, curiosamente mi viene in mente il primo momento in cui l’ho visto: dormiva profondamente, come se niente fosse. Un ciuffetto rado di capelli biondi in testa, gli occhi chiusi e l’espressione infastidita. Le infermiere lo avevano coperto bene, aveva un pagliaccetto celeste di lana pesante: era una notte scura di aprile, pioveva a dirotto. In Sicilia le luci rade delle stelle del porto di Favignana erano annegate nel cotone delle nubi nere e tutto sembrava tremare dei lampi e dei fulmini. In tutto questo, mio figlio, dopo essere stato lavato dalle ostetriche, se ne stava buono a dormire, un pugnetto chiuso vicino al viso e le sopracciglia aggrottate. Quando me lo avevano sistemato sul seno, lo avevo punzecchiato con un dito, sperando che si svegliasse. Non so perché, ma mi dava quasi fastidio che dormisse: mi dicevo che, cavolo, avevo aspettato tanto per vederlo, e lui adesso dormiva! Mi sfuggii persino mentalmente che era l’atteggiamento tipico di un Malfoy… e proprio allora decisi di chiamarlo Leo di secondo nome, come una stella, come Draco forse avrebbe voluto chiamare suo figlio, come lo avevo sentito dire in un ricordo con Helena.

E decisi anche per il cognome Malfoy. Non si poteva chiamare in altro modo, non era un Granger, non era un Weasley. Era un Malfoy, ce l’aveva nel sangue. Alex dormiva e continuava ad aggrottare le sopracciglia apparentemente senza spiegazioni, finché collegai che sembrava infastidito quando sentiva un tuono. Non spaventato, non terrorizzato: infastidito. Per la serie, fatemi continuare a dormire. Lo amai in quel preciso momento. Lo adorai sopra ogni cosa in quel preciso istante. Non avevo sentito istinto materno durante la gravidanza, non mi ero sentita madre nei nove mesi passati, avevo vissuto da pazza incosciente, eppure mio figlio si era salvato. In quel momento, però, dal nulla mi sentii inondare dall’amore per quel bambino dalla faccia dispettosa. Fu prima l’amore veloce e rapido della mamma, quello che nasce quando riconosci la tua carne, il tuo sangue, le tue ossa. Dopo fu l’amore della donna, perché sentivo Draco in quel bambino piccolo e lo avevo di nuovo accanto a me. Con il passare dei giorni, divenne un amore da innamorata, perché mi sono innamorata di mio figlio. Ne scoprivo pieghe della pelle, curve delle braccia, riflessi delle ciglia e lo trovavo perfetto. Mi chiedevo come potesse essere così perfetto, me lo chiedevo sinceramente. Poi venne il suo carattere: i primi tentativi di camminare, le prime parole, i primi capricci, i primi discorsi pieni di ragionamenti arzigogolati, i primi giochi sempre al limite del pericolo, le prime paure come quella dell’acqua che io stessa gli avevo trasmesso. E me ne innamorai ancora, peggio di come ho amato Draco stesso. Perché tramite Alex, amavo di nuovo lui… ed amavo anche me stessa, trovando un balsamo che mi limasse dal dolore. Se avevo fatto nascere quell’esserino così meraviglioso, forse non ero così sbagliata, forse qualcosa di buono l’avevo fatta, forse non tutto era perduto.

Quella notte, mentre se ne stava addormentato sul mio seno, mentre Ron lo guardava storto cercando e trovando tutte le somiglianze con suo padre, ricordo distintamente la prima parola che dissi a mio figlio. Mormorai solamente, un nodo in gola che mi impediva di tenere la voce ferma: “Certo che se iniziamo così, andiamo bene… sei uguale a tuo padre… ci manca solo che hai preso anche i suoi occhi…”. Alex, come se mi avesse sentito, aprì gli occhietti, sollevò le palpebre raggrinzite e mi guardò con uno sguardo tra la sfida e l’adorazione.

Non dimenticherò mai quel momento, il nodo in gola che si scioglieva e le lacrime sul viso che scoprì essere di commozione, e non di dolore.

Aveva gli occhi del cielo in tempesta, mio figlio, aveva gli occhi della pioggia che cadeva fuori. Aveva gli occhi di Draco.

E io mi considerai la donna più fortunata del mondo, nonostante tutto.

Gemendo, agitandomi, muovendomi come una anguilla catturata, impotente, incapace di muovermi, vedo Raissa che, senza nessuno sforzo, solleva un braccio in direzione del palco che viene avvolto da un bagliore perlaceo, prima che la sagoma di Alex emerga dall’ombra. Addormentato, con gli occhi chiusi, come quel primo giorno in cui l’ho visto. Con l’espressione infastidita, una mano attorno al collo. Le scarpette rosse da ginnastica slacciate, come io non vorrei mai che camminasse. La salopette di jeans mezza sporca di polvere, con ancora i segni delle zampette di Biscotto sulle gambe. I capelli biondi spettinati. E gli occhi grigi chiusi, gli occhi di Draco chiusi, gli occhi di mio figlio chiusi. Perché li ha chiusi? Perché?

Urlo ancora, dibattendomi, il volto sudato e bagnato di lacrime: imploro, piango, prego, chiamo mio figlio, chiamo Draco, chiedo aiuto ad Ilai, ma nessuno mi ascolta.

“Se Radcenko toglie il piede dal mio collo, magari tuo figlio si riprende, Granger…” biascica ridendo Dimitri, guardando prima me e poi Ilai. Capisco anche stavolta senza molto sforzo: ha fatto qualcosa, ha legato lui ed Alex, quello che accade a Dimitri accade anche a mio figlio. E stavo per ucciderlo, Ilai stava per ucciderlo. Urlo graffiandomi la gola ad Ilai di lasciar stare immediatamente Dimitri, che quello che succede a lui succede anche a mio figlio. Batto i piedi nella polvere, agito le braccia ed affondo le unghie nel terreno, graffiando la terra impotente. Ilai libera subito Dimitri, scioccato guarda Alex e dopo me. Stringe i pugni, intima a Dimitri di lasciare stare mio figlio, ottiene solo che lui si alzi in piedi e si asciughi il sangue che ancora gli cola dal naso. Flessuosamente, con un movimento rapido, agita il braccio e immobilizza anche Ilai al suolo, prima di sferrargli una serie di violenti calci negli stinchi. Ilai annaspa, geme, sputa sangue, ma continua ad urlare a Dimitri di lasciare stare Alex. Raissa guarda il pestaggio ormai indifferente alla sorte dell’uomo che ama.

“Il bambino è la mia polizza sulla vita, Radcenko…” mormora Dimitri con cupo divertimento, massaggiandosi il collo indolenzito e fermandosi finalmente. Io non lo guardo neppure, vedo solamente Alex che finalmente si muove: resta addormentato ma non si tiene più la mano sul collo. Continuo ad agitarmi, ma niente scioglie la presa di ferro di Raissa.

“Lascia andare il bambino, Karkaroff…” sibila ancora Ilai, con voce più greve, sputando sangue.

“Granger, è con te che voglio parlare, non con il tuo ennesimo innamorato…” sogghigna Dimitri, guardandomi dall’alto verso il basso con ingordigia, continuo ad urlare senza voce e senza nemmeno intendere che cosa sto dicendo, pazza dal dolore e dalla furia.

“Io e tuo figlio siamo legati… l’avrai capito, no, Granger? Una precauzione, mettiamola così… nel caso foste riusciti ad uccidermi, tuo figlio sarebbe venuto dritto dritto all’inferno con me…” mormora Dimitri, chinandosi alla mia altezza e guardandomi in volto “Te l’ho detto che questa volta non c’erano sconti… non c’è neanche quella troietta di Astoria a scocciarmi… non è un’assimilazione completa, non è definitiva ed è ancora debole. Tuo figlio sarebbe morto, adesso, se avesse subito quello che io ho subito da Radcenko… tra tre giorni, però, diventerà definitiva. Quando sorgerà la luna piena, Granger… ed io mi ammazzerò, portandomi dietro tuo figlio. In fondo, se non posso avere te, posso anche andarmene all’altro mondo, no? Ma almeno farei in modo che tu mi pianga sul serio…”, Dimitri fa una pausa colma di enfasi prima di aggiungere: “…a meno che tu non ti consegni a me spontaneamente. E non mi porti i cadaveri di Draco Malfoy ed Ilai Radcenko. Credo che sia un prezzo equo, no? La salvezza di tuo figlio in cambio di quella dei tuoi amanti… in fondo credo che tu lo debba a tuo figlio, no? Credo che tu gli debba di non essere la puttana in calore che si fa sbattere da tutti quelli che le fanno gli occhi dolci… o saranno più importanti loro, di tuo figlio?”.

“M-mio figlio non c’entra nulla…” mormoro, piangendo, implorandolo, cercando i suoi occhi, sperando che quest’ossessione malata che ha per me lo faccia rinsavire “Per favore, ti prego Dimitri, per favore… lascialo andare… l-lascia in pace mio figlio… e Draco, ed Ilai. È me che vuoi, verrò con te, farò tutto quello che vuoi, tutto quello che chiedi… ma per favore, ti prego, lascia stare mio figlio…”. Lui si china di più alla mia altezza, piegandosi su sé stesso, fino ad accarezzarmi dolcemente il capo e ad asciugarmi le lacrime con le dita, prima di aggiungere: “Scapperesti, fuggiresti, un giorno ti uccideresti. Oppure loro ti verrebbero a cercare… no, tesoro, non deve esserci più nessuno tra me e te. Uccidi Malfoy e Radcenko… e io lascerò libero tuo figlio… hai tre giorni per pensarci…”. Mi accorgo di essere libera di muovermi un nanosecondo dopo che Raissa e Dimitri sono scomparsi, evaporando come stelle nel mattino, assieme a mio figlio.

Mi alzo in piedi, mi guardo attorno, cerco di vederli e di localizzarli, ma nulla. Piango, urlo, grido al cielo, biascico maledizioni ed insulti, imploro Dimitri di prendere me, ma nulla, niente. Il cielo resta vuoto, la piazza resta deserta, il bagliore di mio figlio che scompare è la sola cosa che mi si scolpisce nella retina.

Sento delle voci, mi volto furiosamente in quella direzione, ma sono babbani che accorrono dopo tutto quel frastuono. Non ho la forza di fare nulla, piango e basta, vedo Alex che sparisce, vedo solo Alex davanti ai miei occhi. Chiudo gli occhi, gemo, non ce la faccio nemmeno a muovere un passo. Poi, sento una stretta forte al braccio, uno strappo all’altezza dell’ombelico e vengo risucchiata via. Quando riapro gli occhi, sono nel giardino della casa di Helena, il sole sta morendo all’orizzonte, l’odore delle magnolie è quasi insopportabile, la casa riluce fredda ed assente.

“Perché mi hai portato via?!” grido senza motivo, sconvolta, graffiandomi il viso, ad Ilai che se ne sta immobile, davanti a me, improvvisamente piccolo, minuscolo, curvo sulla schiena sotto il peso di un fardello pesante tonnellate. Lo odio, odio tutto, odio il cielo, odio il mare lontano, odio la mia carne, il mio sangue, odio il mio respiro, odio che sono in vita e vorrei morire, e poi penso ad Alex ed allora devo vivere per forza. Penso a come sorrideva quando ha visto Biscotto, penso che lo dovevo proteggere, penso che sono la peggiore delle madri.

Mi scaglio su Ilai, lo prendo a pugni sul petto senza capire il perché di quello che sto facendo, lo insulto, gli urlo di tutto, mi divincolo mentre cerca di abbracciarmi.

“Dovevi lasciarmi stare lì! Loro potevano tornare! Si sono presi mio figlio… hai capito che si sono presi mio figlio?! Devo tornare indietro, me lo devono ridare, che cosa vuole da me, vuole che muoia, vuole che mi uccida, vuole che uccida qualcuno?! Perché si sono presi mio figlio, il mio bambino?! Portami indietro, riportami indietro, maledizione! Che cosa diamine vuoi anche tu, da me?!”. Continuo a calciare, a battere i piedi, Ilai che mi trattiene per le braccia, non dicendo nulla, sopportando tutto. Dentro, un buco si allarga a dismisura, mi ingloba, mi svuota, mi rende morta dentro.

Batto forte i pugni sul torace di Ilai, tento di spostarlo, provo a fargli male, desidero ucciderlo perché così posso riportare mio figlio a casa. Ma lui non si sposta, resta lì, immobile, le labbra serrate, gli occhi lucidi, la polvere dello scontro sul viso. Lui resta lì, fermo come una montagna, e io non riesco a vederlo più, piango e le lacrime lo coprono, non posso fargli male, non gli farò del male, non ci posso riuscire, sono debole, piccola, sola. Ed Alex morirà tra tre giorni. Riarsa dalla rabbia, continuo a scaricare colpi su colpi su Ilai, che non cessano, che non diventano più deboli ma che rendono me ormai prossima al punto di rottura. Finché lui, piano, lentamente, prende i miei polsi tra le sue mani e mi attira vicino a lui, chiudendo le mie labbra con le sue.

Per un secondo, la sorpresa per il suo gesto è tale da lasciarmi immota, le braccia ferme e poggiate sul suo petto. Poi la rabbia esplode più cieca che mai, vorrei davvero ucciderlo adesso, continuo a divincolarmi a costo di farmi male, lo colpisco ancora, mi dibatto come una fiera catturata al lazo. Ilai, però, non interrompe la sua pressione delicata sulle mie labbra, le sue mani lasciano i miei polsi e mi trattengono stringendomi per gli avambracci. È un attimo, ma, dimenandomi, finisco per accarezzare goffamente con le mie labbra le sue, trasformando quello che era solo un contatto forzato e privo di senso in un vero e proprio bacio, che improvvisamente diventa così indiscutibilmente giusto da farmi tremare le ginocchia. Sento il sapore di Ilai e lo riconosco come nuovo, sa di qualcosa di aspro come questo bacio strano, che è solo catarsi, solo esigenza, solo purificazione. Mi strappa con forza il ricordo del bacio di Dimitri di cinque anni fa, restituendomi a me stessa, mi si snebbia la mente piano, come se improvvisamente tutto diventasse bianco ed accecante. Il buco dentro di me diventa smisurato, ma adesso ne avverto solo il dolore, l’impotenza, l’angoscia che sento per il mio bambino. La rabbia che mi teneva in piedi si sgonfia come un palloncino. Nelle labbra di Ilai sulle mie, non c’è amore, non c’è desiderio, non c’è passione. C’è solo bisogno, enorme, immenso, al punto che mi affloscio come un bambola vecchia e mi accuccio tra le sue braccia. E dolore sterminato, così incomparabile che nulla che mi ha fatto soffrire fino ad adesso mi sembra paragonabile a questo momento, mi sembra che, se Ilai mi dovesse lasciare andare adesso, io probabilmente mi spezzerei a metà. Mi tengo assieme solo perché lui mi stringe ed impedisce che io vada in frantumi. La resistenza delle mie braccia frana come se fossi di pastafrolla, mi aggrappo alla sua maglia con le dita, chiudo gli occhi e singhiozzo devastata, grata che le sue labbra mi soffochino le parole in gola e mi impediscano di articolare il nome di mio figlio, cosa che mi graffierebbe dentro al punto tale da uccidermi davvero adesso.

Amare dell’altro solo il dolore. Ecco che cosa hanno finito per farci i Karkaroff.

È la sola cosa che ci è concessa, adesso.

Piano, lentamente, quasi quando è certo che io davvero non vada in pezzi e possa reggermi da sola in piedi, Ilai si stacca da me e resta così, fermo ad un tiro dei miei occhi, le mani sul mio viso, l’espressione sofferente e distrutta come la mia. Singhiozzo, fatico a respirare e guardo le sue spalle. Poco fa, lì c’era mio figlio, c’era Alex che parlava a ruota libera e poi mi diceva che non voleva che Ilai fosse sempre così triste. Le lacrime non si fermano, esplodo in un singulto soffocato e mormoro come se me ne accorgessi solo ora: “Si sono portati via Alex, Ilai…”.

Lui mi accarezza piano i capelli e la nuca, apre la bocca piano e, dolorosamente, in un sospiro spezzato sussurra: “Lo so, Hermione, lo so piccola…”, continua a ripetermi questo mentre singhiozzo, mentre lo abbraccio e mi stringo nella sua maglia, soffocando le lacrime dentro il suo petto caldo e saldo, che sembra non dover crollare mai mentre mi aggrappo a lui. Delicatamente, mi prende di nuovo il viso tra le mani, asciugandomi le lacrime con le dita, prima di sussurrare: “Ascoltami, lo riporteremo a casa… non gli faranno del male, è legato a Dimitri… non può succedergli nulla per ora, Hermione… abbiamo tre giorni… lo riporteremo a casa, ok? Ti giuro che lo riporteremo a casa…”. Annuisco senza forze, senza convinzione, senza il benché minimo sforzo perché tutto quello si traduca in una qualsiasi volizione dentro di me. Ilai mi stringe piano, lascia che i miei singhiozzi si calmino sulla sua spalla, mi tiene stretta a sé mentre la luna prende il posto del sole. Resto immobile tra le sue braccia, incurante del tempo che passa, la guancia poggiata sulla sua clavicola, gli occhi chiusi, le lacrime che non smettono di scorrere. Sotto le palpebre passano lampi di vita di mio figlio, nelle orecchie sento le sue parole affastellarsi una dopo l’altra sin dal giorno in cui ha parlato per la prima volta. Ilai tiene un braccio stretto attorno alla mia vita, mentre l’altra mano mi sorregge per la nuca. Mi stringo forte al suo braccio teso, come se fosse il solo appiglio in mezzo ad un naufragio. Mi tiene ancora stretta a sé, quando improvvisamente una voce fende l’aria con la forza di una frustata.

“Mi avevano già detto tutto… non c’era bisogno che venissi qui, Granger…”.

Aggrotto le sopracciglia ed apro a malapena gli occhi, che mi bruciano come se ci fosse finito dentro del sapone. Il vento mi soffia nelle orecchie, dandomi per un attimo l’illusione che io mi sia solo sognata quella voce. Il labbro mi trema in modo incontrollabile nel sentire l’eco di quella voce nella mia testa, dove si mescola assieme tutto quello che ho amato nella mia vita. Sembrava Alex, il mio bambino, ma adulto, uomo, capace di consolarmi e di reggermi in piedi come io non sono stata in grado di fare con lui. Le lacrime tornano a premere contro le mie palpebre e sento di nuovo l’istinto di abbandonarmi all’abbraccio di Ilai, di chiudere gli occhi, di precipitare in un pantano privo di pensieri, dove possa non rendermi conto di aver condannato mio figlio.

Però, non ci riesco. Improvvisamente la schiena rabbrividisce di brividi, sebbene la temperatura non sia cambiata. Mi si gela il cervello e mi rendo conto che anche Ilai si è irrigidito, continua a trattenermi per la vita, ma la mano che teneva poggiata sui miei capelli è scivolata lungo il suo fianco, privandomi del mio appoggio. E sono costretta ad aprire del tutto gli occhi, fissando Ilai. L’espressione, mentre lo guardo dal basso, è rigida, scolpita, cesellata nella pietra: ha il labbro contratto, gli occhi neri fissi di fronte a sé, le spalle chiuse. Qualcosa lo colpisce come una saetta nello sguardo e mi lascia andare, imbarazzato, intimidito, come se il mio fianco scottasse. Mi ha appena baciato ed adesso si fa problemi nel toccarmi? Lo guardo, cercando di capire, ma solo allora mi rendo conto che non è me che guarda, non è di me che è preoccupato. Guarda qualcosa davanti a sé, alle mie spalle.

Il cuore mi schizza in gola, mentre lentamente mi volto su me stessa, barcollando per qualche istante.

Miraggio, allucinazione, visione: non può essere altro che questo.

Quello penso, subito, quasi con un afflato di sollievo. Sono impazzita, ho perso la ragione, il dolore mi ha sopraffatto al punto tale che ormai vedo cose che non ci sono. Mi chiuderanno ben presto in una stanza dalle pareti imbottite e sarò il pettegolezzo più di moda nel mondo magico per diversi mesi.

Il primo effetto, sebbene sappia che è la mia mente a tendermi questo tiro mancino, è un’incredulità potente come una botta in testa: poco gentile, improvvisa, assolutamente destabilizzante. Le gambe mi tremano, il respiro si ferma, vado in apnea per qualche secondo, il viso mi diventa rosso ed incandescente.

Cinque anni, e la mia mente non si è mai dimenticata di Draco Malfoy al punto che, adesso, riesce a ricostruirlo in un modo malato ed insano davanti ai miei occhi colmi di lacrime. Nulla di lui è cambiato, nulla: è esattamente lo stesso di quella sera di inizio luglio in cui ci siamo lasciati. Alto, le spalle larghe, l’espressione arricciata di fastidio nobile, le braccia incrociate al petto, un movimento del piede impaziente come se fosse in ritardo con la vita stessa e tu fossi sempre e solo d’impaccio. Le labbra sottili e morbide sono serrate in un moto di disagio, i capelli biondi sono sempre spettinati ad arte, le gambe sono ben piantate per terra, gli abiti sono ordinati e puliti. Piango come una bambina piccola, chiudendomi il pugno in bocca e socchiudendo gli occhi, negando con il capo come a voler cancellare un brutto sogno. Perché sì, Draco Malfoy, adesso, è solo un brutto sogno e la mia mente me lo deve cancellare dalla vista. Non ho guardato gli occhi di quella visione, ma so come sono: sono grigi, azzurri nel fondo, colmi di saette luminose come quelli di mio figlio. E se alla mia mente è venuto in mente di assassinare il mio corpo, non poteva scegliere sicario migliore. In pochi secondi, però, quando riapro gli occhi nella nebbia del pianto, qualcosa mi taglia di netto il fiato, costringendomi a considerare che questo, adesso, è qualcosa di ben peggiore di un incubo. La luce della luna illumina come il faro di un palcoscenico l’uomo che ho davanti, che mi guarda con qualcosa di diverso rispetto a prima. Gli occhi, sì, adesso sono costretta a guardarli… e sono occhi stanchi, occhi di vecchio, occhi di mare morto, occhi putrefatti. Scintillano di qualcosa che non ricordo, che non riconosco, che la mia mente non avrebbe saputo creare.

Scintillano di chi vede una persona che amava, cinque anni dopo.

Una vertigine ancora mi coglie indolente, facendomi fare un passo indietro, mentre sento l’istinto di cadere. E stavolta non c’è lui dietro di me a reggermi, come quella sera al Petite Peste, come quella sera che lo lasciai a casa di Pansy dopo che mi aveva chiesto di sposarlo. Stavolta c’è un altro uomo, un uomo alto, un uomo distrutto, un uomo dagli occhi neri, un uomo che prima mi baciava e adesso non mi tocca più, un uomo che si sente ladro sotto lo sguardo di ghiaccio dell’altro. Perché era l’altro che baciava me, era l’altro che abbracciava me, era l’altro che adorava me.

Ma soprattutto l’uomo alle mie spalle ha tenuto sulle spalle mio figlio, l’ha conosciuto, l’ha ascoltato, l’ha adorato tanto quanto me.

E l’uomo dallo sguardo di ghiaccio, davanti a me, che stringe i pugni reggendo una valigia, non sa nemmeno che esiste mio figlio.

Non sa nemmeno che esiste suo figlio.

E’ suo padre, dannazione. È il padre di mio figlio, ed Alex adesso non c’è, Alex adesso è addormentato, o forse è sveglio, o forse piange, o forse mi chiama, o forse ha paura del buio, o forse chissà che fa. Alex non c’è a chiedergli se gli piacciono le carote, se davvero non si toglieva mai i calzini, se davvero ha gli occhi suoi, se davvero non è diventato un Mangiamorte perché non poteva uccidere nessuno, se davvero ha una sorellina che si chiama Serenity. Alex non c’è, non è tra le mie braccia a guardarlo sospettoso, non sta camminando vicino alle sue gambe con aria indagatrice, non sta soppesando la somiglianza che ha con lui. Perché gli assomiglia così tanto che mi sta spezzando il cuore.

Era questo, dunque, che volevano da me, gli spiriti, gli angeli, le anime, i diavoli e i santi: ecco che volevano. Come una pazza, come un’isterica, come una che ormai è lontana dall’avere un barlume di ragione nel cervello, guardo Draco con espressione spiritata trattenendo una risata che sarebbe solo nevrotica, malata, inspiegabile. Lui non capisce, piega la testa di lato come faceva sempre, lascia finalmente la vista di Ilai per tornare su di me ed accorgersi che c’è qualcosa di strano. Nei suoi occhi mi vedo riflessa con i capelli spettinati, i graffi sparsi sul viso, la polvere addosso, la camicetta strappata, gli occhi gonfi di lacrime, le labbra arrossate e screpolate: mi vedo come una superstite di guerra, come una vittima, come una profuga. E vedo le onde dei suoi occhi calmarsi, tornare oceani limpidi e cristallini, riempirsi di preoccupazione e di una cosa che non riesco a decifrare. Qualcosa di dolciastro, di stonato, di stridente con lui. Pena, pietà. Gli faccio pena, pietà.

Chiudo gli occhi, il respiro che diventa veloce, le unghie che mi feriscono l’interno dei pugni chiusi.

Non ti azzardare a guardarmi così, non ti azzardare a preservare negli occhi un minimo segno di quelli che eravamo cinque anni fa, non ti azzardare a cancellare questi anni come se non esistessero.

Non ti azzardare a cancellare mio figlio come se non esistesse, come se non l’avessi portato dentro, come se non fosse nato in una notte di aprile, come se non me l’avessero strappato dal petto cinque minuti fa. Non ti azzardare, adesso, ad essere bello come sei sempre stato, ad essere il desiderio confuso che tu mi baci ancora, sempre e per sempre, ad essere l’amore sorto e mai morto, ad essere domande che sorgono fulminee e muoiono dentro l’orgoglio e il dolore. Non ti azzardare a guardare l’uomo che mi è vicino come guarderesti un insetto, come guardavi Hayden, come guardavi Dimitri, come ricordavi Dean. Non ti azzardare a guardarmi ancora, come se mi spogliassi ancora, come se ancora mi conoscessi, come se ancora mi capissi. Non ti azzardare, mai, e poi mai ad indugiare su un ricciolo che tiranneggiavi, sul lobo di un orecchio che baciavi, su una spalla su cui respiravi, sulle labbra che tormentavi. Non ti azzardare a chiamarmi per nome.

“Hermione?!” la sua voce strascicata mi chiama con un velo di sollecitudine che ha l’effetto di finire di mandarmi in pezzi, facendomi incendiare come una steppa bruciata. Perché ho capito il prezzo di quello che avevo chiesto al cielo, alla vita, alla morte e ai giorni intercorsi e passati. Volevo Draco indietro, e ora ce l’ho. Ma non mi avevano detto quanto costava questo desiderio.

L’ho avuto. E si sono presi mio figlio. Nostro figlio.

Occhio per occhio, dente per dente: destinata ad avere nella vita un solo paio di occhi tempesta alla volta.

Ed adesso i soli occhi che vorrei non sono i suoi. Voglio solo quelli del mio bambino.

È un attimo, un solo secondo singolo che mi getta nel baratro. Lui che chiama il mio nome, lui che dice Hermione ed io ormai che vado in frantumi.

Tutto si confonde, tutto sparisce, tutto diventa l’esatto contrario di quello che avrei provato stamattina se, al posto di Raissa, ci fosse stato lui: allora, nonostante tutto, sarei scoppiata a piangere, avrei dimenticato tutto, avrei chiamato Alex a gran voce e gli avrei detto che era il suo papà. Adesso, senza Alex, non riesco nemmeno a respirare da quanto ho l’impressione che tutto, tutto di Draco Malfoy, mi faccia male. Più lo guardo, più lui mi guarda e più mi sento morire.

È un attimo, un solo secondo e perdo il controllo: mi scaglio su di lui come se fosse la mia vittima designata e come se l’avessi cercata per anni. Draco non capisce, ancora mi guarda con quello sguardo di pena che mi fa solo infiammare di più, trattiene i miei polsi mentre cerco di colpirlo e di schiaffeggiarlo.

“Granger si può sapere che diamine hai?!” mi ripete, cercando di fermarmi e tenendomi ferma, mentre continuo a dibattermi, piangendo ed urlando, singhiozzando e respirando a fatica al punto che le mie parole all’inizio non le capisce, non le intende, non le ascolta. È più forte di me, come sempre, come sempre è stato, e riesce a trattenermi immobile così che non lo possa colpire, non gli possa fare del male. Mi guarda stranito, gli occhi grigi socchiusi, le labbra chiuse e livide, e io riesco solo a pensare a quanto lo ami, a quanto siano calde le sue mani sui miei polsi, a quanto vorrei che mi spogliasse adesso e mi baciasse. E non l’ho mai odiato tanto per questo.

Non riuscendo a colpirlo con le mani, non riuscendo nemmeno a reggere un altro secondo sotto i suoi occhi spalancati, mi metto ad urlargli contro: “Volevi che ti dicessi che mi odio per essermi innamorata di te?! Eccotela qui! Mi odio da quello stramaledetto giorno in cui sono entrata al Petite peste! Era questo che volevi, era questo che vuoi?! Eccotelo, dritto in faccia! Mi dovevi lasciare in pace! Mi dovevi lasciare in pace, maledetto bastardo!”, non lo riesco a ferire, non prova nulla, come è ovvio che sia, glielo ha già detto Astoria tutto questo cinque anni fa e lui pensava che fossi io, ci ha già fatto i conti con tutto questo. È solo meravigliato, sorpreso che ancora adesso io sia così arrabbiata con lui, soffre un po’, stringe le labbra ma non prova nient’altro.

Non lo sopporto, al punto che riprendo ad urlare, stavolta piangendo così forte che la mia voce si spezza un paio di volte: “Ti dovevi sbattere per forza la Karkaroff, vero? Anzi no, dovevi decidere di sposartela vero?!”, adesso finalmente qualcosa cambia nella sua algida espressione, stringe gli occhi e le spalle tremano un po’, mentre la presa sui miei polsi si allenta. Continuo ad urlare, la gola che mi fa male: “Dovevi trattenere per forza quella donna nella tua vita, vero? Non ci sapevi stare senza una donna da farti la sera, vero?! Quanto tempo è passato da quando ci eravamo lasciati? Due giorni, due ore, due minuti?! O te la facevi anche mentre stavamo assieme?!”. Non so più nemmeno io che cosa sto dicendo, so solo che l’ho ferito al punto tale che mi lascia di istinto i polsi e resta immobile a guardarmi, come se gli avessi davvero tirato uno schiaffo. I suoi occhi sono insopportabili, sono troppo chiari… troppo da Alex. Non ce la faccio più.

Gemo, chiudendomi nelle braccia come a mantenere unita la gabbia toracica, e sputo fuori: “Non ti perdonerò mai, mai, per avermi fatto questo… mai…”, Draco ancora non parla, ancora non dice nulla, resta lì, immobile, il viso inespressivo, gli occhi spenti. Biascico nervosamente, singhiozzando senza ritegno: “Se solo tu… se solo l’avessi mandata via… se solo… adesso… non ci fossero stati… e io fossi venuta qui… e non ci fosse stata… e…”, mi rendo conto subito che ormai sono arrivata allo stremo, le gambe mi cedono e il buio inghiotte la mia vista, mentre sussurro: “… adesso mio figlio sarebbe ancora qui…”.

La forza di gravità mi attira famelica a sé, mentre mi affloscio come un fiore secco. Chiudo gli occhi, un ronzio cupo nelle orecchie, ma non sento il contraccolpo del terreno. Un paio di braccia mi sostengono subito, muovendosi rapide e tenendomi per la vita, prima di sollevarmi e di prendermi in braccio. So subito, nelle nebbie dell’incoscienza, che non è Draco, ma che è Ilai. Hanno un calore diverso, un profumo diverso, un modo di stringermi diverso.

Anche le loro voci sono diverse, profondamente diverse.

Quella di Draco è lenta, strascicata, roca, profonda. Dice solo, un accenno tra lo sconvolto e il furibondo: “Che cosa è successo a suo figlio?”.

Quella di Ilai è calma, rapida, dolcissima, triste. Risponde, lo stesso accenno sconvolto e furibondo di Draco: “La tua futura moglie e Dimitri Karkaroff lo hanno rapito…”.

L’ultima cosa che sento, prima di scivolare via nel sonno, è la domanda che Draco rivolge ad Ilai. La voce incerta, tremante ed al contempo caparbia, decisa, rancorosa.

Sono stati questi cinque anni o siamo sempre stati così?

Sento solo la domanda di Draco, e ha l’effetto quasi di svegliarmi. “Sei il marito di Hermione?”.

Ilai non ha ancora risposto, mentre perdo del tutto coscienza.

 

Chiedo enormemente scusa per le mie mancate risposte alle vostre stupende recensioni, scusatemi davvero! Ma questa settimana mi laureo e ho avuto solo il tempo di caricare il nuovo capitolo…L Se volete contattarmi più velocemente, potete trovarmi su fb! Il gruppo si chiama PUT A SPELL ON HER EYES, e questo è il suo indirizzo… https://www.facebook.com/groups/putaspellonhereyes/487515674636120/?comment_id=487765394611148¬if_t=like ! Ancora grazie a tutti!!:D

 

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Capitolo 40
*** You weren't there part 1 ***


RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatia non voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita.

 

 

Capitolo 40 – You weren’t there part 1

 

Il sonno non mi salva, non mi porta sollievo. Nell’incoscienza ogni respiro è una pugnalata e ogni sospiro è un ago conficcato nella mia pelle. Non dimentico, non trovo pace. Continuo ad agitarmi come se fossi avvinta da milioni di miliardi di tentacoli ombrosi che mi chiudono il fiato. Mi hanno sepolta viva in una tomba di nebbia, dove non mi è risparmiato il dolore, sebbene non ne ricordi il motivo. Inferno. Devo essere all’inferno. Fa caldo, tanto, la pelle si attacca addosso come se si fosse fatta piccola per il corpo e ho l’impressione di urlare come se mi stessero lacerando viva.

Ma le parole non escono o peggio nessuno le ascolta.

Attorno a me ne sento altre, di parole. Tutte confuse, tutte ronzanti, tutte ugualmente insignificanti ed inutili come stracci vecchi.

Ne distinguo solo una, misericordiosa, che si accompagna ad una lieve pressione sulla mia fronte. Ha un tono duro, sconfitto, colmo di livore. Eppure si stempera in un accento morbido, soffice, che ha l’odore dell’erba nel mese di settembre. Dice solo Requiesco. L’incantesimo per dormire per chi è troppo stanco, distrutto o triste per farlo.

E finalmente riesco a prendere sonno.

 

 

Forse cammino da ore, o da anni. Forse cammino dall’inizio della mia stessa vita: la fronte si imperla di sudore freddo, non vedo il sole, non sento la luce, eppure il caldo è torrido, soffocante, insopportabile. Le gambe mi fanno male come se fossero elastici in tensione da mesi, ho paura che un solo singolo movimento le faccia rompere del tutto, fuscelli secchi nel vento polveroso.

La cosa peggiore è che non riesco nemmeno a pensare di fermarmi, continuo a muovermi con l’urgenza della salvezza che spinge il naufrago a galleggiare nel mare scuro.

Gli occhi sono incollati, non riesco ad aprirli, le palpebre sono pesanti serrande di ferro ed acciaio calate sulle mie iridi. Non riesco ad immaginare nulla di quello che avviene oltre i miei occhi chiusi, ho la percezione confusa dell’aria stagnante di un deserto, quando non so nemmeno come sia fatto un luogo del genere. Il mio stesso corpo continua a muoversi, sballottolato a destra e sinistra, senza controllo come se fossi su una specie di barca malferma. Mi sforzo ancora, ma gli occhi non si aprono. E non mi fermo. Continuo a camminare, arsa dalla sete e bruciata dal caldo.

D’improvviso, qualcosa di freddo si poggia sulla mia guancia. È un sollievo immediato, immenso, vitale. Riconosco le fattezze di una mano piccola, sottile, da donna. Per quanto, però, mi sforzi, non riesco comunque ad aprire gli occhi e questo mi comunica un ulteriore senso d’angoscia. Però la mano sul mio viso mi fa fermare e mi dà sollievo, quindi mi lascio andare al suo profumo di fragola, respirando di avido sollievo. Una voce argentina, da ragazzina, sussurra con tono lamentoso: “Forse ce l’hai dentro già adesso…”.

Le parole della donna fluiscono senza peso nel mio cervello, le perdo appena le ho ascoltate. Le mie labbra spaccate si aprono piano e biascico, sentendo di stare sanguinando: “Chi sei? Dove sono…? Questo… è un sogno, vero?”. La mano della ragazza trema un pochino sul mio volto, mentre dice piano: “Che sia un sogno o meno non implica che non sia reale, no?”.

“Chi sei?” chiedo ancora, sgomenta, forzando ancora gli occhi che restano chiusi.

“Sai perfettamente chi sono…”.

La consapevolezza mi avvolge come un manto fresco, respiro ancora e mi sento più calma: “Tatia?”. La voce annuisce roca, non lasciando il mio viso.

“Perché sei qui?” mormoro con un filo di voce, pensando contemporaneamente che l’ultima volta che ho visto una persona defunta in sogno, era un inganno di Astoria. E se adesso fosse lo stesso?

Se fosse stavolta Raissa ad ingannarmi?

Tatia, però, scioglie subito il mio dubbio, ribattendo ai miei pensieri nascosti con decisione: “Raissa non ti direbbe mai quello che sto per dirti adesso…”.

“Che cosa?”.

“Hai già tutto quello che serve, Hermione Granger…” la voce prosegue senza rispondere alla mia domanda, la pressione sul mio viso è tiepida e dolce “Hai sempre avuto tutto, Hermione Granger. Solo che non lo sai, non l’hai mai saputo. Anche stavolta sarà così…”. Mi sento ancora sbattuta avanti ed indietro come un giocattolo conteso, oscillo senza riuscirmi quasi a tenere in equilibrio al punto di sentire la nausea. La mano di Tatia sul mio viso è il solo punto fermo attorno a me. Gli occhi mi lacrimano dalla voglia di aprirli, un tenue bagliore aranciato compare dietro le palpebre, mentre l’odore di fragola si fa più forte.

“Io non capisco che cosa vuoi dire…” blatero affannosamente, le labbra che si spaccano ad ogni mia parola, sento il sapore metallico del sangue sulla lingua. La mano di Tatia aumenta la sua pressione sulla mia guancia, come se stesse richiamando la mia attenzione su qualcosa prima di aggiungere: “Questo luogo… è per i Profeti. Nessuna altra anima avrebbe potuto incontrarti… ma tante avrebbero voluto farlo. Tantissime… l’inferno echeggia del loro pianto…”. Continuo a non capire che cosa mi sta dicendo, la bocca è impastata dalla sete e fatico a restare sveglia.

Solutio damnationis…” bercia affannata Tatia, come se avesse poco tempo ma le sue parole continuano a non avere alcun genere di senso per me.

“Non capisco…” ripeto ancora, sentendomi maledettamente stupida. La polvere soffia addosso alla mia faccia, levandomi il fiato, tossisco come se stessi per soffocare.

La voce di Tatia diventa improvvisamente imponente, grave, rimbombante. Il vento aumenta di intensità, la presa della sua mano sulla mia guancia viene meno e mi sento quasi spostare dal turbine d’aria. Annaspo non riuscendo a respirare, mentre Tatia urla assieme alle voci di quelle che mi sembrano centinaia, migliaia, milioni di persone.

Solutio damnationis! Solutio damnationis! Solutio damnationis!”.

La nenia infernale diventa ossessiva nel mio cervello, cerco di ripararmi dal vento come meglio posso, ma alla fine mi sento trascinare via.

Urlo, cercando di trovare un appiglio, mentre gli echi di quel canto continuano a rimbombare.

Nell’ombra di un sonno senza pace, sento solo Tatia dire: “La collana, Hermione… la collana… non togliertela mai…”.

 

 

Al risveglio mi accoglie una giornata calda ed afosa, dalla luce ombrosa e scontenta di un’umidità soffocante. Gli occhi fanno fatica ad aprirsi e la gola arde di sete repressa: non so per quanto tempo abbia dormito, un tremendo cerchio alla testa e il tremore nelle membra mi avverte che comunque è stato troppo poco. Gli echi del sogno fatto tornano ad ondate progressive, sotto le palpebre ancora chiuse, ma non ricordo granché del contenuto. C’era Tatia, una serie di voci che dicevano qualcosa che non riesco a ricordare… il caldo, come quello di ora… e quell’avvertimento sulla collana.

D’istinto, la mia mano scatta al collo dove il ciondolo con la goccia di sangue è ancora al suo posto.

Il desiderio di una madre per suo figlio.

Quell’associazione di idee mi riporta tutto alla memoria come un film proiettato in un cinema oscuro: l’incontro con Raissa e Dimitri, il rapimento di mio figlio. Mi si stringe il cuore come se me lo stessero stritolando, tossisco come se effettivamente qualcuno mi stesse ammazzando dall’interno. Eppure, nonostante tutto, ho l’impressione confusa di sentirmi meglio. Il dolore, la preoccupazione e l’ansia sono sempre lì, basta che getti un’occhiata confusa per rendermi conto che Alex non c’è ed andare in panico… ma tutto questo, adesso, è una parte molto più piccola della rabbia enorme che provo. Immensa, sterminata, da corrodere stomaco e fegato. E la rabbia diventa azione, diventa volizione, diventa impossibilità assoluta che a mio figlio capiti qualcosa.

Non esiste nessun mondo, nessun universo e nessuna vita, dove a mio figlio succeda qualcosa di brutto, senza che io non sia morta prima per proteggerlo.

Respiro profondamente ancora ad occhi chiusi, sono uscita dalla guerra ed avevo a che fare con il peggior mago oscuro della storia. Avevo da difendere Harry e Ron, ce l’ho fatta ed avevo solo diciassette anni. Adesso ne ho molti di più, sono l’ex Capo degli Auror e si tratta del mio bambino. Chiudo i pugni con ferocia lungo i fianchi, arriverò ad uccidere chiunque si metta tra me e mio figlio se ciò sarà necessario e non ne proverò nemmeno il minimo senso di rammarico. Non dovevano farlo, non dovevano coinvolgere Alex… adesso hanno firmato la loro condanna a morte.

Devo solo capire come riuscire a batterli, ci deve essere un modo qualunque, deve esistere. Persino Voldemort aveva un punto debole, per loro non può essere diverso.

Tatia ha detto… che ho già tutto quello che mi serve. E mi ha detto di non togliermi mai la collana… la sola cosa che mi sembra di avere, adesso, è questa. Forse c’è un modo per farla funzionare, per invocare il suo potere che è legato al fatto che io sia la madre di Alex e che adesso ho il desiderio di trovarlo e portarlo in salvo. Devo solo capire quale.

Un passo per volta, Hermione, un passo per volta. Non pensare a nulla, non pensare ad Alex per ora, non pensare a quanto la sua vita dipenda da questo.

È solo un’altra indagine, solo un’altra ricerca come ne hai fatte tante: ce la farai anche questa volta. Pensa solo a questo, adesso.

Ho tre giorni: ce la posso fare.

Riapro stancamente gli occhi, accorgendomi solo adesso di essere in una stanza dalle pareti azzurro oltremare. Guardo distrattamente i muri, la mente ingolfata da mille pensieri, non riconoscendo nulla che mi aiuti a capire dove mi trovo. Sono stesa su un letto dalle lenzuola candide, che emanano un gradevole odore di lavanda. Accanto al letto, un comodino di acero bianco con sopra una lampada azzurra e un libro chiuso. Seminascosta dal lume, una cornice dorata con dentro una foto. I miei occhi la guardano senza curiosità, ha i contorni bruciacchiati e devo strizzare gli occhi nella luce del mattino per capirne i soggetti. Con un groppo in gola, il cuore che fa un balzo sinistro, riconosco l’immagine sorridente di Helena ed Amos Diggory.

Sono nella stanza di Draco.

È un attimo, sbagliato ed assolutamente inopportuno, ma non posso fermare i miei occhi che vagano adesso attenti, nella stanza. È diversa, completamente, dalla camera che aveva al Petite peste. Ogni cosa qui mi fa sentire che ha ripreso a vivere, che non esiste per inerzia, che probabilmente sta bene. Senza di me. Le tende sono aperte e chiare, ha una finestra su un giardino di betulle, da lontano vede il mare. Sulla parete di fronte, c’è una grandissima libreria di acero sempre bianco. Ed anche se i libri non possono parlare, mi trasmettono calore, vicinanza, abitudine consolidata di leggere ed imparare avidamente curioso. Sotto alla libreria c’è una piccola scrivania, un computer e dei post it.

Chiamare Tim e confermare per partita venerdì.

Idraulico: 356897868

Pennarelli a cera per Serenity.

Ha degli amici con cui programmare delle partite. Ha delle piccole scocciature come le riparazioni da fare in casa. Ha dei pastelli da comprare a sua figlia e di cui magari si dimentica.

Ha una vita normale, serena, tranquilla. E vorrei che questo mi rendesse felice, mi facesse piacere, mi comunicasse gioia… ma invece mi fa sentire solo la bocca impastata. Nel fondo dello stomaco, la rabbia aumenta esponenzialmente, come un turbine di vento che sta per esplodere. Perché di Raissa non c’è traccia, ma io so che c’è, so che ha dormito qui, so che ha visto quei libri.

So che c’è lei nei vuoti lasciati da me e da Helena: e io non posso accettarlo, non ci riesco nemmeno a pensarlo, mi fa persino schifo questo letto dove forse hanno dormito assieme.

Mi tiro bruscamente a sedere, appallottolando le lenzuola e scagliandole lontano, chinandomi su me stessa nel cupo rigetto che mi fa venire voglia di vomitare. Nella parete alla mia sinistra, a cui prima di fianco davo le spalle, sono appese centinaia di fotografie in bianco e nero. Le guardo con la coda dell’occhio, piegata in due, una mano premuta sulla bocca.

Ha persino una nuova passione: la fotografia babbana. Forse non dipinge più. Sono tutte diverse e tutte a loro modo bellissime: lo scorcio di un albero in giardino; il mare in tempesta; Serenity che si ingozza di ciliegie… e, mescolate ad esse, come se non ci fosse nulla di strano, ce ne sono altre che mi fanno stringere il cuore come se scoppiasse.

I suoi nonni. I suoi genitori. Qualche altro parente, distinguibile per i tratti affilati del viso e i capelli biondi. Compagni di casa a Serpeverde. Amos Diggory. Helena. Seth. Gli altri del Petite Peste.

Ma non io, assolutamente: non sono nemmeno sullo sfondo di quelle fatte al Petite Peste. Una è stata fatta la sera del Tourquoise Party, ed io non ci sono. Ci sono solo lui e Trey. E non c’è nemmeno Pansy in quelle di scuola, come se con perfezione chirurgica ci avesse tagliate fuori dalla sua vita. Si è riconciliato con tutto, con tutti, persino con i suoi genitori ed Helena anche se non ci sono più.

Ma con me e con Pansy, no.

La nausea, se mai era possibile, cresce ancora di più e mi ricorda per un parallelismo idiota, quando ero incinta di Alex e ne soffrivo parecchio, o perlomeno per quel poco che ricordo mentre ero nella prigione di Dimitri. Io ero dall’altra parte del mondo, a straziarmi l’anima per lui e a raccontare storie su un padre che non aveva, a nostro figlio… e lui se ne stava qui, ad appendere foto e a cancellarmi da ogni ricordo. Vorrei strapparle una ad una, renderle carta straccia. E la sensazione si acuisce quando noto degli spazi vuoti, dove la vernice appare scrostata.

Segno che c’erano altre foto, una decina forse, tolte di recente.

Se ci fossimo state io e Pansy, non avrebbe avuto motivo di toglierle, specie ora. Ed invece probabilmente se le ha tolte c’è solo un motivo.

Dovevano portarmi qui… e in quelle foto, c’era anche Raissa.

C’era anche la donna che ha osato puntare una bacchetta contro mio figlio, contro nostro figlio.

Se lo può tenere il suo letto comodo, la sua vita meravigliosa sbandierata in faccia, la sua figlioletta adorabile, la sua pace dei sensi, la sua pena e pietà da fiera addomesticata… non resterò qui un secondo di più, in questa casa e sotto questo tetto. Mi tiro di colpo giù dal letto, registrando sommariamente che indosso ancora i vestiti del giorno prima, anche se forse con un banalissimo Gratta&Netta non appaiono più sporchi come prima. Controllo ancora una volta di avere il ciondolo di Tatia al collo, prima di apprestarmi ad uscire, quando piano la porta della camera si apre, provocandomi uno spasmo al petto e facendomi rimettere seduta come se le gambe si afflosciassero.

Nella stanza fa capolino a testa bassa Dean, cosa che mi fa respirare daccapo. Ha l’aria stravolta, i capelli spettinati, gli occhi rossi e cerchiati. Non appena mi vede sveglia, fa una smorfia sofferente e mi sorride tirato: “Ti sei svegliata… come ti senti?”. La sua vista mi impedisce di parlare normalmente, mi ricorda improvvisamente la mancanza di Alex e mi fa desiderare che qualcuno mi stringa forte, fino a soffocarmi, fino a ridarmi il calore che non so dove se ne sia andato lasciando il mio sangue freddo e ghiacciato. Per un attimo goffo e confuso, rivedo Draco per come lo ricordo da ieri sera: le spalle larghe, l’espressione seria, le braccia tese. E desidero un suo abbraccio con una nettezza così sconvolgente da farmi tornare la nausea. Come sempre, il mio cuore fa sempre i comodi suoi quando si tratta di lui, al punto da farmi dimenticare tutto come se effettivamente fosse la sola persona al mondo. Ma poi, la sensazione di amputazione che mi causa il fatto che Alex non sia qui, mi fa tornare subito in me, gelando ogni altro istinto. Ed improvvisamente, come un fulmine, mi ricordo anche dell’ultimo abbraccio che ho avuto. Ilai. E del bacio… la sola cosa consolante è che sono talmente assorbita dal pensiero di mio figlio da non potermi dibattere nel dissidio, solo accennato dal corpo e dalla mente, di chiedermi se desidero di più un altro bacio da Ilai o un singolo abbraccio da Draco. E’ facile rispondere, adesso: rinuncerei ad ognuno di loro con il sorriso più chiaro ed aperto del mondo, se in cambio riavessi Alex.

Ma non alla maniera che suggerisce Dimitri… cioè che io li uccida. Ovvio… anche se la parte più arcana del mio essere madre, ogni tanto, mi fa interrogare su questa possibilità, subito la ricaccio con sdegno. Io posso essere solo l’assassina dei Karkaroff, adesso, non di altri. Tantomeno di loro due… specie considerando quanto, in un modo così diversamente scomodo, ami tutti e due. Li amo alla maniera stupida di una bimba di cinque anni: basta che esistano in qualche parte del mondo per farmi stare tranquilla. Ormai, però, sono ben oltre i concetti banali di essere innamorata o altro.

Figuriamoci se mi interessa il mio destino sentimentale adesso: se non avessi fatto di tutto per trovare Draco, mio figlio sarebbe ancora qui. E non farò più l’errore di mettere me stessa davanti ad Alex, se avrò di nuovo la possibilità di riaverlo indietro. Quindi, non mi pongo la benché minima domanda con una così immensa serenità che vorrei solo non averla acquisita a causa della perdita di mio figlio.

“Un pochino meglio… grazie…” biascico nervosamente, rispondendo a Dean che intanto si è seduto sul letto poco distante da me. Si torce le mani in grembo, quasi graffiandole, e non mi guarda in viso, cosa che non è decisamente da lui. Non ricordo una sola singola volta in cui non mi ha guardato in faccia, mentre mi parlava, nemmeno quando stavamo assieme ormai una vita fa. Non appena apre bocca, respirando a lungo come per darsi coraggio, capisco il perché.

“Mi dispiace…” le sue parole sono graffiate e grevi come se provenissero da qualcosa di più profondo della sua stessa voce “Mi dispiace tanto, Hermione… io… non ho potuto fare niente… t-tu mi avevi affidato Alex ed io invece… se io ti avessi affidato Charisma, tu l’avresti salvata… ne sono certo… sono un emerito buono a niente…”.

Gli prendo subito le mani tra le mie, cosa che lo fa trasalire ed alzare lo sguardo lucido su di me. Gli stringo forte le dita quasi facendogli del male, prima di dire: “Dean, questo non lo devi nemmeno pensare… non è stata colpa tua… non l’ho pensato nemmeno per un momento. Né io, né Ilai siamo riusciti a fare nulla… ed eravamo lì, davanti a loro…”, la mia voce si spezza, deglutisco rumorosamente cercando di calmarmi mentre Dean stringe più forte le mie mani. Gli sorrido, grata, prima di proseguire: “Sono troppo forti, troppo potenti… non abbiamo i mezzi per contrastarli… e non avresti potuto fare nulla, anche se fossi stato lì…”. Sospiro, trattenendo un pensiero: se Raissa non avesse impedito la Smaterializzazione e Dean fosse arrivato… adesso piangerei la sua morte, ne sono certa.

Non si sarebbero fatti il benché minimo scrupolo a farlo fuori.

“Ho cercato di smaterializzarmi un sacco di volte…” prosegue Dean, guardando fisso davanti a sé, le palpebre fremono di frustrazione “Poi ho capito che c’era qualcosa che non andava… e ho cercato di smaterializzarmi nel punto più vicino possibile a dove eravate voi… ma era a tre chilometri e quando sono arrivato, voi non c’eravate già più… Ilai poi ci ha raccontato tutto…”. Annuisco con il capo, ovviamente l’avevo immaginato, ma non ne fatto nella mia testa alcuna colpa a Dean. Ha già rischiato la vita per me e per mio figlio e lui non è propriamente solo al mondo: ha Pansy e Charisma, e comunque non dovevo mettere nemmeno lui così a rischio. La sola responsabile, qui, sono io, inutile girarci attorno.

“Non avresti potuto fare nulla, Dean…” mormoro stancamente, sospirando “Davvero… te lo posso assicurare…”.

Lui annuisce a sua volta e mi appare un pochino più tranquillo, con mio enorme sollievo. Al momento non posso sopportare che nessun altro stia male per questa storia. Il rumore terso del mare in questa giornata di inizio estate riempie il silenzio tra me e lui, mentre i miei occhi restano fissi sulla parete bianca, cercando di non guardare nient’altro della vita di Draco, i cui particolari trasudano da ogni piega dei muri. Resto cosciente di me stessa solo per le mani che, spasmodicamente, sono chiuse in quelle calde di Dean.

“Nel caso te lo stessi chiedendo…” aggiunge Dean dopo un po’, con voce quasi canzonatoria “… di sotto si gioca alla grande al gioco del silenzio, credo che ne verrà fuori un bel torneo…”. Mi viene da sorridere come una scema e mentalmente ringrazio Dean come sempre per essere la mia ancora di salvezza in queste situazioni.

Farmi sorridere, adesso, è forse la cosa più impossibile che esista. E lui ci riesce sempre.

“E chi vince?” aggiungo con un filo di voce, guardandolo di lato. Finalmente il suo sguardo torna come sempre ha fatto su di me, suggerendomi che almeno apparentemente non si sente più in colpa come prima. Inarca un sopracciglio con flemma, prima di rispondermi schioccando la lingua: “Certamente non vince Seth…  sta ciarlando da ore… ma vista la situazione, è meglio che ci sia lui…”.

“Di cosa sta parlando esattamente?” chiedo quasi spaventata, le mani che mi tremano. Non lo perdonerò mai se osa dire qualcosa che non dovrebbe a Draco.

Dean borbotta annoiato: “Di tutto… e di niente… del Petite Peste, della gente che ci lavorava, di Kevin… ma Malfoy lo sta a sentire… quindi insomma va tutto bene, almeno gli sta dando un intrattenimento…”. Rimango in silenzio per qualche secondo, riflettendo tra me e me, prima che Dean risponda alle mie domande silenti: “Nessuno ha parlato o sta parlando di te o di Alex, Herm… credo che siamo tutti d’accordo nel dire che è una tua responsabilità e scelta decidere che cosa dire o meno a lui… compreso il fatto che quello che è stato rapito è anche suo figlio…”.

Annuisco con un profondo sospiro, una fitta poderosa al centro esatto del petto che mi fa mancare il fiato prima che io replichi sommessamente: “Grazie…”. Dean sorride lievemente, accarezzandomi il dorso della mano con il pollice con affetto e calore. Prima che me ne renda compiutamente conto, chiudo gli occhi e mi lascio andare all’enorme stanchezza e disperazione che mi attanagliano il fiato, la colonna vertebrale si piega e poggio la testa sulla spalla di Dean con un sospiro, gli occhi sempre serrati.

“Quello che so per certo, adesso, è solo che voglio andare via di qui…” sussurro con un filo di voce, trattenendo con tutte le mie forze il pianto che già si affaccia sotto le mie palpebre, pungendomi come centinaia di aghi arroventati. Dean sospira ancora, sento il battito regolare del suo cuore tramite le vene del collo e mi dice rassicurante: “Lo avevi già deciso in fondo, no? Avevi già deciso che non volevi vederlo e non volevi dirgli di Alex… e i tuoi motivi…”.

“… non sono cambiati…” lo interrompo con veemenza, schiarendomi la voce “Tutto, in questa casa… dalle cose più piccole a quelle più grandi… mi è estraneo, scomodo, ostile. È come se avesse svoltato un angolo cinque anni fa ed adesso io fossi qui a pretendere di riportarlo indietro… e non c’è forse più nulla di lui da riportare indietro davvero… è passato troppo tempo, si sta per sposare, ha una figlia… e non gli direi mai adesso di Alex… non voglio che si occupi di lui perché è in pericolo, perché glielo deve, perché adesso sono qui e sono così maledettamente terrorizzata all’idea di perdere mio figlio da vendere persino l’anima al diavolo… lo dovrebbe fare perché lo vuole, non per altro… e certamente non gli permetterei di decidere della vita di mio figlio… sono sua madre da cinque anni… lui sarebbe suo padre da cinque minuti… e poteva sapere di lui se avesse voluto… ed invece… non mi ha mai cercato…”.

“Ma se lui, in fondo, potesse davvero aiutarti?” obietta Dean debolmente, lasciando le mie mani per chiudermi le spalle con il suo braccio come a sostenermi meglio. Sorrido amaramente: “Lui non sa niente di Raissa, Dean… o di Dimitri, o di tutto il resto… non potrebbe fare nulla… ed adesso non ho il tempo materiale, né la voglia, né la forza di affrontare anche lui… o di metterlo di fronte al fatto che la sua… fidanzata… è un’assassina… ed una bugiarda… meno che mai voglio metterlo di fronte al fatto che è il padre del mio bambino… impazzirebbe, manderebbe tutto a ferro e fuoco e credi che io adesso possa sopportarlo, in vista di un ipotetico aiuto che potrebbe darmi? Mi darebbe solo il colpo di grazia… meglio che stia fuori da questa storia, adesso… sa che Raissa è la responsabile della sparizione di mio figlio… e quindi sa che non è una santa. Per adesso, ciò dovrebbe bastargli… se mai questa storia finirà bene… allora penserò a me e a lui… adesso non me lo possono chiedere…”. Per qualche secondo, Dean resta in silenzio, i versi dei gabbiani fuori dalla finestra sono la sola cosa che rompe questo manto di pensieri nascosti, poi lui bisbiglia con decisione: “Qualsiasi cosa tu scelga… qualsiasi cosa tu decida… io sarò sempre dalla tua parte, Herm… e lo sai…”.

Sorrido grata, staccandomi da lui e guardandolo in viso, ed annuisco con il capo, incapace di parlare, la voce bloccata in gola.

“Troveremo Alex… e lo riporteremo a casa…” mi rassicura ancora, accarezzandomi fraternamente il capo “In fondo deve diventare mio genero…”. Mi viene ancora da ridere per questa storia di Alex e Charisma assieme che si è infilato in testa, e scuoto il capo incredula.

“… ed anche Pans sarà dalla tua parte… te lo posso assicurare…” aggiunge con convinzione, alzandosi in piedi e stiracchiandosi come un gatto.

“Questo lo vedo difficile… è più probabile che uno squalo diventi vegetariano e si ingozzi di alghe da mattina a sera…” commento scettica, guardandolo dal basso verso l’alto. Dean fissa il muro davanti a sé, gli occhi gli si piegano in un accenno quasi triste prima che replichi con voce piatta: “Hermione, tu sicuramente sei la persona che maggiormente ha sofferto in questa storia. Non voglio minimamente contestare questo… stai soffrendo ancora, terribilmente, e tuo figlio è la seconda vittima di questa vicenda… forse, e concedimelo, Alex è chi ha subito e sta subendo più di tutti. Perché è un bambino, è innocente ed è stato privato del padre… e credimi, so che cosa significa… adesso forse anche di più, da quando sono padre anche io…”. Incasso il colpo, sospirando, me lo ricordo il giorno in cui Dean ha scoperto finalmente che il suo vero padre era un Mago, ucciso dai Mangiamorte dopo aver sposato una babbana, a cui aveva sempre tenuto nascosta la sua vera identità per proteggerla. Dopo la morte del padre sua madre si è risposata e Dean è vissuto con molti fratellastri e sorellastre. Aveva ovviamente sempre avuto il sospetto che suo padre fosse un mago dati i suoi poteri, ma non aveva potuto dimostrarlo: qualche anno fa, poi, finalmente avevano trovato delle carte ad Hogwarts in cui si indicava come studente Tassorosso un tale Christopher Thomas, suo padre, appunto. Ricordo quanto pianse quel giorno, ricordo che passammo la notte svegli a parlare dei ricordi che aveva del suo vero padre, morto quando aveva solo tre anni, e di quanto amasse comunque il compagno di sua madre, Mark, il padre delle sue sorellastre e fratellastri, ma che non fosse mai riuscito a chiamarlo papà. E ricordo anche che, dopo quella volta, Dean non volle mai più, nemmeno per scherzo, affrontare l’argomento di suo padre. Adesso, che come mi ha sommariamente detto Pansy, anche sua mamma è morta, il fatto che tiri fuori suo padre, è una cosa decisamente seria che improvvisamente mi fa sobbalzare internamente nella mia decisione di non dire nulla a Draco di Alex. Poi, ancora dentro di me, mi riprendo: sono casi diversi e storie diverse. O meglio, sono la stessa cosa.

Il padre di Dean volle proteggere lui e sua madre, io sto cercando disperatamente di proteggere mio figlio.

Ed anche me stessa. Ogni tanto, posso anche essere egoista se ciò coincide con il benessere di mio figlio. Questa storia è troppo grigia e fosca perché io ci butti dentro mio figlio, senza alcuna garanzia. Specie adesso… che neanche è qui accanto a me. Annaspo ancora, chiudendomi il petto con le braccia, e riprendo ad ascoltare Dean che prosegue: “Quindi non proverò a dirti che mia moglie ha sofferto quanto te o quanto Alex… ma ha sofferto anche lei, Hermione. E molto. Malfoy non si è fidato di lei, se ne è andato, non ha provato a contattarla per cinque anni senza chiederle spiegazioni o chiarimenti. E in questi cinque anni, lei ha affrontato un trasferimento in altro paese, un nuovo lavoro, una nuova vita. Si è lasciata alle spalle Zabini e non ti sto a dire quanto questo sia stato un tormento continuo per lei… e per me. Si è innamorata di un Mezzosangue, ha avuto una bambina, si è sposata…”, Dean sospira e si scompiglia i capelli ad arte, come quando è nervoso e agitato, poi soggiunge: “Lo voleva accanto, lo voleva vicino… era il suo migliore amico… e non c’era. Specie considerando che lui l’avrebbe aiutata a capire come affrontare l’onta di essere innamorata di un Mezzosangue…”. La voce di Dean scimmiotta un tono scandalizzato, che mi fa sorridere tristemente, prima che concluda: “Ce l’ha fatta da sola e, se ci penso, magari è un bene. Ma a conti fatti, Hermione… è normale che adesso sia tutta e completamente dalla tua parte… forse lo sarebbe stata lo stesso, checché ne dica lei, perché sei madre come lei e la nascita di Charisma l’ha resa empatica in queste cose… ma è anche perché si tratta di Draco. Il suo egocentrismo potrebbe anche farle perdonare che lui abbia abbandonato te, ma non che abbia abbandonato anche lei…”. Annuisco sovrappensiero, rendendomi conto di quanto Dean abbia ragione. È vero, magari poteva persino esistere un goffo e sciagurato universo in cui io perdonavo Draco per quello che mi aveva fatto, accettavo che fosse stato ingannato da Astoria e dimenticavo che sta per sposare Raissa, questo ovviamente prima che lei rapisse mio figlio. Ma, anche se tutto questo fosse accaduto, per Pansy non sarebbe cambiato niente. Se l’è lasciata alle spalle senza riserve, senza pensieri e senza ripensamenti. Non l’ha cercata mai in cinque anni, convinto che lei sia stata la creatrice del germe che mi ha separato da lui, come Astoria gli ha fatto credere. E lui non ne ha mai dubitato, mai, neanche per un istante.

Al posto di Pansy, anche io probabilmente non ne vorrei sapere nulla di lui, specie considerando quanto invece lei abbia accettato la mia relazione con lui.

Ne sta vivendo persino una identica, a sua volta. 

“Certo, non credere che non faccia effetto…” asserisce Dean con un sorriso tra il sardonico e il soddisfatto “Quando Ilai è entrato con te in braccio e Draco che vi seguiva a ruota, Pansy è spuntata dalla cucina sconvolta… e non ha fatto una piega quando l’ha visto, né quando lui ha provato a parlarle, né quando ha autenticamente sbarrato gli occhi nel vedermi lì e nell’intuire che siamo sposati ed abbiamo una figlia… ma quando Pansy resta così indifferente è solo perché non lo è affatto. Gli ha solo detto, quando di nuovo ha provato a parlarle: - Adesso devo occuparmi di Hermione- … credimi, stavo per svenirci sul colpo… cosa avvenuta dopo avermi baciato in modo decisamente plateale e dopo aver apostrofato Charisma con il suo nome completo, comprensivo del cognome… se non è arrabbiata, vuol dire solo che sta diventando ancora più bipolare, cosa che mi porterebbe all’acquisto di un’autobotte di ansiolitici… e sto risparmiando per mandare Char in una scuola privata, non voglio fucilarmi i risparmi… quindi mi auguro caldamente che sia arrabbiata…”. Nonostante tutto, ancora, mi viene da sorridere e vedo la tensione colpevole di Dean rilassarsi di minuto in minuto. Sta cercando volutamente di prendere la cosa nella maniera più leggera possibile, malgrado la questione decisamente seria di Alex, e lo ringrazio enormemente per questo.

“Quindi che cosa devo aspettarmi, scendendo di sotto?” mormoro con un sorriso stanco, stiracchiandomi e guardando Dean in attesa. Sono felice, davvero, che ci sia lui qui, adesso. A parte cercare di farmi sorridere, Dean è l’unico che al momento è davvero sincero con me: Pansy sarebbe troppo dura, considerando che ce l’ha anche lei con Draco, e Seth sarebbe troppo morbido, considerando che è fissato che io e lui ci apparteniamo a vicenda, eccetera, eccetera. Dean è l’unico che adesso ha una visione lucida delle cose.

Ce l’avrebbe avuta anche Ilai una visione lucida delle cose… anzi avrebbe avuto la visione che meglio leggeva dentro di me… ma al momento, dopo essersi baciati, non credo proprio che sia il caso di chiedere qualcosa del genere a lui.

Dean ci pensa su qualche secondo e poi dice: “Ilai non c’è… appena è rientrato con te in braccio, ti ha portato qui e si è allontanato. Credo che si sia accorto che Malfoy lo guarda come se lo volesse sbranare… ed in fin dei conti siamo sempre a casa sua, di Malfoy intendo…”, ecco, perfetto, ci mancava anche questa. Io ed Ilai non stiamo assieme, tecnicamente mi ha baciata lui e sarebbe facile adesso rinnegare tutto quello che ho vissuto con lui fino ad ora, visto che c’è Draco adesso. Ma non funziona così, non funziona affatto: Ilai sia per me quello che è, Draco non deve permettersi di trattarlo come trattava ai tempi Hayden. Qua è tutta diversa la faccenda… specie se sta pure per sposare Raissa. La gelosia da ex tradito se la può benissimo tenere.

“Pansy al momento è con Charisma e Serenity… l’ho costretta ad uscire di casa per portare le bambine al parco…” bofonchia Dean con una smorfia, testimoniando che non è stato semplicissimo costringere la moglie ad andarsene “Ma non credo che tornerà tardi… Serenity aveva scuola anche oggi…”.

Dean respira a fondo, e poi aggiunge: “E Seth è con Malfoy, te l’ho detto… e difficilmente si schioderà da lì… quindi preparati ad affrontare anche lui…”.

Certo, come se avessi la forza di affrontarli entrambi… ma Seth deve capire che questa vicenda, sebbene lo coinvolga moltissimo, non lo riguarda. È tra me e Draco. E non voglio alcuna intromissione, nemmeno da parte sua. Voglio solo andarmene da qui quanto prima e salvare mio figlio. Non ho altri pensieri, al momento. Diventerò una bestia con chiunque mi impedirà di pensare solo ed esclusivamente ad Alex. Fosse anche Seth, a cui voglio un bene dell’anima.

“E riguardo a me sono a tua completa disposizione…” sorride ancora Dean, dandomi una piccola spallata affettuosa. Ripensandoci, lo prendo immediatamente in parola, è forse la sola persona in grado di velocizzare le mie ricerche mentre io mi occupo di Draco.

Sommariamente gli spiego il contenuto del mio sogno, il messaggio di Tatia sulla collana e il fatto che celerebbe la possibilità di realizzare il desiderio di una madre, ma che non so assolutamente come possa essere utilizzato. Non voglio correre il rischio di sprecare questo desiderio con un uso sbagliato del ciondolo stesso. Cerco di ricordarmi il maledetto canto infernale che sentivo nelle orecchie, ma al momento sono solo suoni confusi ed inarticolati che ho dimenticato, quindi lascio perdere. Dean annuisce, annotando mentalmente le mie istruzioni, prima di bofonchiare ironico: “Certo che devi volermi proprio bene per affidarmi questa missione… cosa che comporterà marcire sui libri che, come ben sai, io adoro…”.

“Se vuoi ti faccio affrontare il doppio plotone Malfoy – Green e vado io a fare ricerca…”.

“Pensandoci bene, ho sempre adorato leggere…”.

Sorrido ancora e saluto Dean con una mano, mentre si Smaterializza in Diagon Alley per cercare notizie e libri al riguardo. Restiamo d’accordo che, non appena lasciamo la casa, cosa che sarà a breve, lo avviserò in modo che lui possa raggiungerci quando avrà finito.

Non appena Dean sparisce, l’aura di rabbia e dolore che mi avvolgeva ritorna prepotentemente, accompagnata dalla neonata ansia al pensiero di dover scendere di sotto ed affrontare Draco. Il ricordo di lui di ieri sera è ancora scolpito nella mia testa: non mi è stato indifferente, affatto.

Adesso, a mente lucida e contorta dall’angoscia, chissà se sarà peggio o meglio.

Decido di prendermi tutto il tempo di cui ho bisogno, sebbene il mio cuore si maceri sempre dall’ansia per Alex: razionalmente, al momento, non posso fare nulla se non affidarmi al ciondolo di Tatia. E di quello se ne sta già occupando Dean. Devo stare calma e tranquilla, e sistemare quanto prima la faccenda con Draco, che implica, per forza di cose, rinviare tutto a tempi migliori. Noto una porta che evidentemente conduce al bagno di Draco, su una sedia c’è la mia valigia e decido quindi di cambiarmi: trattengo il fiato di fronte ai vestiti di Alex ancora confusi con i miei e stringo forte l’angolo della scrivania per non scoppiare a piangere. Scelgo velocemente un vestito azzurro dalla cintura bianca e corro in bagno, chiudendo la porta a chiave. Dentro, l’odore di Draco è quasi soffocante: ha una nettezza così scandita adesso, che faccio fatica a pensare che me ne fossi dimenticata in questi anni. Con la solita ironia che la vita ha spesso con me, l’ho cercato tanto ed adesso mi fa quasi venir voglia di rimettere.

Specie quando, su una mensola, noto un piccolo recipiente di vetro screziato rosso: profumo all’ambra grigia, un profumo femminile, il profumo di Raissa. Senza nemmeno prendere nozione di quello che sto facendo, afferro la piccola bottiglietta ed, offuscata, la getto rovinosamente contro il pavimento, rompendola in mille pezzi che provvedo a calpestare con rabbia sotto le mie scarpe.

Il labbro che mi trema, il respiro manchevole, mi spoglio e mi infilo sotto la doccia, lasciando che l’acqua lavi via tutti gli odori della giornata precedente uno peggiore dell’altro; il bagnoschiuma di Serenity, ancora alla ciliegia dopo tutti questi anni, mi ricorda Helena, ma lei, oggi, è la benvenuta nella mia memoria. La sento forse più vicina di quanto sia stata mai. In fondo ha tradito anche te.

Quando mi asciugo e mi rivesto, mi sento lievemente più calma, il profumo distrutto di Raissa e quello di Draco si sono fusi in una miscela innocua che mi consente di respirare più serenamente.

Faccio qualche passo nella stanza, in tondo, come un’anima in pena, poi comprendo che forse si sono già resi conto che mi sono svegliata, quindi decido finalmente di scendere di sotto.

La porta si apre con uno stridio che è peggio di quello registrato nei film dell’orrore, sebbene abbia cercato di fare in silenzio. Maledicendomi, la riaccosto con delicatezza e respiro profondamente, la nuca che gronda sudore freddo. Se almeno ci fosse Ilai, adesso, con me… forse sarebbe più semplice. No, mi contraddico. Sarebbe più complicato, ancora. Meglio essere sola, dopotutto.

Percorro il lungo corridoio bianco, affiancato da cinque porte di acero bianco, tutte ugualmente chiuse, cosa che benedico perché ci mancherebbe anche essere presa dalla curiosità di guardare dentro e di spiare altri particolari della vita di Draco che, al momento, non mi è vitale conoscere.

Anzi che non mi è vitale conoscere proprio mai… chissenefrega di come diamine vive…

Avanzo nel corridoio fino alle scale, tenendomi raso al muro, peggio che se fossi ubriaca, e reggendomi con la mano come se fossi cieca. Ad ogni passo le voci provenienti da piano di sotto si fanno più chiare e nette, costringendomi a deglutire in preda ad una sensazione simile al soffocamento. Sento la risata di Seth, ed il tono di voce basso e profondo di Draco, che ha l’effetto di farmi fermare in mezzo al corridoio con l’insano proposito di tornare indietro, chiudermi a chiave e non uscire più. Poi, come lo scoppio di un petardo, ricordo Alex ed il coraggio mi riavvolge velocemente, turbinando come vento nello stomaco. In pochi passi, arrivo finalmente alla scala che mi preparo a scendere, la sensazione di vertigine che continua a non passare.

E poi sento Seth scusarsi sommessamente e Draco rispondere che non c’è problema. Lo sento terrorizzata dire che torna subito, ne odo distintamente i passi all’interno del salone fino all’androne davanti alla porta d’ingresso, proprio sotto la scala che sto iniziando a scendere io.

Non c’è modo di scappare, non c’è modo di nascondersi. Forse non ci sarà mai.

È lì, sotto di me, ed è un attimo, un secondo, un fulmine prima che sollevi il capo e si accorga di me, fermandosi di botto. Entrambi, senza nemmeno rendercene conto, ci siamo aggrappati al corrimano della scala, ovviamente in due punti diversi.

È inutile che uno anche provi a pensare che non faccia effetto: nello sguardo ci ritroviamo ad inseguire le tracce che ci siamo lasciati nell’espressione, nei gesti, nella postura, e cerchiamo con ossessione i segni che qualcun altro possa avere scavato in nicchie e cavità, dove prima c’eravamo noi. Non sono abituata più ad avere i suoi occhi così vicino; ieri sera ero in parte convinta che fosse un sogno e poi ero così devastata che non ci ho fatto caso. Ora che sono più lucida, mi rendo conto che è davvero qui, davanti a me, adesso. E’ qui, Dio santo, non lo dividono da me mille chilometri e mille anni, mille vite e mille giorni, è diviso da me solo da una scala, che adesso chissà se saprei scendere senza rovinare al suolo. Ed è assurdo, incomparabilmente illogico, che lui non sia cambiato, che sia sempre così biondo, sempre così alto, sempre così elegante, sempre così bello da farmi girare la testa ed accendere dentro anche solo guardandolo, al punto che la mano che stringo sul corrimano si irrigidisce, si piega, diventa livida perché davvero è il solo punto fermo attorno a me, il solo. E sarebbe così facile, così maledettamente semplice e veloce, correre adesso su queste scale, piangere finalmente e volargli tra le braccia, perché in quegli occhi, in quello sguardo, lui ce l’ha ancora scolpito dentro ed addosso che mi stringerebbe, mi abbraccerebbe, mi cullerebbe piano come ha fatto per soli dieci giorni della mia vita. E magari fingeremmo entrambi che ci stringiamo perché in fondo siamo amici, quando io e lui amici non lo saremo mai: nemici o amanti, non esiste via di mezzo. Però ce lo diremmo, ci diremmo che è solo un abbraccio da ex nostalgici, ci sorrideremmo imbarazzati perché i nostri corpi coincidono ancora e si incastrano perfettamente, nonostante gli anni e i cambiamenti. Ma seguirei la linea delle sue braccia desiderando che mi spogli, cingerei la sua schiena implorandolo che mi baci, mi farei stringere solo sperando che sia lui il primo a cedere.

Tra me e lui è sempre così: non è amore, adesso. Se penso all’amore, io vedo Pansy che lascia andare Dean, confidando che torni. Tra me e lui, è rimasto tutto fermo, immoto, congelato nel rogo di amarci inesauribilmente, senza pensare a nulla. Lo capisco da lui che mi guarda e stringe le labbra, da come accarezza il mio viso, da come tremino le sue mani, da come segue le linee che il mio vestito tratteggia. E lo capisco da me stessa che quasi dismetto orgoglio, dolore e rabbia perché mi prenda ancora.

Ma non funziona così: non avrebbe funzionato cinque anni fa, che prima o poi avremmo dovuto fare i conti con il presente ed il futuro, e non funziona adesso che io sono una madre, e tutto di me mi dice solo e soltanto che sono una madre. Nulla di Hermione Granger deve sopravvivere.

Tra me e te non ha mai funzionato… basta raccontarci frottole. Ed è un caso che mio figlio sia anche il tuo.

In quella piega degli occhi, si è annidata Raissa, la vedo, la sento, la percepisco, me l’immagino che fa l’amore con te e geme tra le tue braccia.

E tu, lo so, che cerchi Ilai nel mio viso, e ti lascio cercarlo perché magari così siamo pari, magari così fa meno male, magari così ti perdono.

Ed invece ancora non funziona, perché è diverso, enormemente diverso.

Affastellando scuse su scuse, giustificandomi e condannandoti, alla fine perdo solo tempo. E non ne ho. Devo pensare a mio figlio.

Basta perdere tempo con una cosa che non funziona.

Sospiro a fondo, dandomi ancora la forza che credo non avrò mai: se ieri sera non riuscivo a guardare gli occhi di Draco, pensando a quelli di Alex, oggi curiosamente sono scintilla e coraggio. Ripensando a mio figlio, riesco a tenermi alla giusta distanza anche emozionale da Draco e a non lasciarmi travolgere dalla nostalgia. Distolgo lo sguardo da lui, fissando un quadro ai lati della scala, e mormoro nel tono meno acido che mi riesca: “Mi dispiace esserti piombata in casa all’improvviso…”. Lo sento distintamente accogliere le mie prime parole dopo cinque anni con un silenzio che ricordo perfettamente che con lui non preannuncia mai nulla di gentile o piacevole. Rotta la stasi dell’incantesimo muto di saperci di nuovo vicini, adesso ovviamente dobbiamo tornare ad essere noi stessi. E il nervosismo alle mie parole lo sento già mulinare dentro di lui. Fa qualche passo, salendo un solo gradino, mentre io non lo guardo ancora, le spalle che mi tremano.

Poi prende e fiato e dice sarcastico: “Puoi anche chiedermi scusa perché hai calpestato i tappeti, se è per questo…”. La sua voce è sempre la stessa, identica: roca, severa, a tratti canzonatoria. Mi provoca un tremore incontrollato lungo la schiena che mi fa stringere nelle spalle e tacere: non so se sia voglia di cavargli gli occhi, o ancora voglia di farmi stringere. In entrambi i casi, è una cosa che mi provoca un ulteriore travaso di bile, spingendomi quasi a digrignare i denti per il nervoso.

“Stiamo davvero parlando di questo?” continua, duramente, la voce che fa di tutto per costringermi a girarmi, richiamandomi a sé. Ma non c’è niente di fare, tutto dello mio sguardo si aggrappa al quadro come un’ancora, le mani che si stringono a pugno lungo i fianchi. Le unghie mi penetrano nella pelle, vorrei graffiarmi via da me stessa, pur di smettere di stare qui.

Passa qualche secondo di frustrato silenzio, il suono dei gabbiani che volano oltre la finestra sul mare è la sola cosa fisicamente ancora presente. Lo sento fare ancora un altro passo, salire un altro gradino, avvicinarsi ancora. Mi ritraggo contro il corrimano come se fossi spaventata, terrorizzata, confusa, o chissà che altro. Ed invece so distintamente che il solo motivo per cui non lo guardo in faccia e vorrei scappare via è che adesso lo prenderei a schiaffi, urlando, per tutto quello che mi ha fatto. È l’amore, lercio e malato che ho ancora per lui, che mi trattiene su questo gradino a guardare un quadro come se fosse la cosa più interessante del mondo, a trattenermi mentre le spalle mi franano, a non piangere mentre tutto sembra scoppiarmi dentro. L’amore per lui, che è la mia maledizione… e quello per Alex, che è la mia benedizione. Quest’uomo che mi ha rovinato la vita, è sempre suo padre. Anche se da me, specie oggi, non lo saprà mai.

“Raissa ha portato via tuo figlio… perché?”.

Nel momento stesso in cui Draco finisce questa frase, capisco che sto definitivamente crollando, capisco che non posso trattenermi più, capisco che al momento non mi interessa che quest’uomo sia il padre di mio figlio. La rabbia diventa un tutt’uno con l’angoscia per Alex, barcollo senza forze e mi reggo ancora al corrimano. Non appena sento che si sta muovendo nella mia direzione, sollevo il palmo della mano, imponendogli di restare dove diamine è. Se si azzarda a toccarmi, è la volta buona che lo uccido. Respiro a fatica, cercando di calmarmi, ma non c’è verso, non c’è alcuna possibile soluzione. In una frase, nella mia mente ormai devastantemente irrazionale, ha compiuto e siglato un errore fatale.

Hai messo al centro della frase quella maledetta donna che ha rapito Alex. Come se fosse importante capire solo perché lei l’abbia fatto, come se bisognerebbe capirla e giustificarla, indagare le sue ragioni, magari comprenderla, parlarci e dirle che ha sbagliato. In modo bonario… allo stesso modo che rimproverare un bambino perché ha rubato una caramella.

Ed invece quella si è rubata mio figlio: mio figlio. Mio figlio, dannazione, che c’avrà pure i tuoi occhi, ma è mio figlio.

Alex che detesta le carote, che mangerebbe brownies ogni giorno, che ogni sera vuole che gli legga qualcosa, che ha parlato per la prima volta ad un anno e due mesi, e ha detto mamma.

Si è presa il mio bambino.

Se ti azzardi anche solo ad avvicinarti, è la volta buona che ti uccido.

La mia voce scivola fuori senza controllo, mentre il mio collo conosce finalmente la torsione che mi porta ai suoi occhi.

“Perché non lo chiedi a lei, eh?!” sibilo, rantolando a fatica, chiudendo i pugni con ferocia, cercando il suo viso come un cacciatore cerca la preda “Si dice in ricchezza ed in povertà, in salute e in malattia… ma forse si dovrebbe anche aggiungere nel bene e nel male… perché non le chiedi perché si è portata via mio figlio? Conterà essere sinceri con il proprio… fidanzato…”.

Draco cerca di nascondere il sussulto che lo coglie alle mie parole, ma non ci riesce troppo bene. Soddisfatta mi rendo immediatamente conto che le sue spalle si sono contratte e ha serrato le labbra. Lo sguardo adamantino occulta il riflesso di pietosa compassione che ha nel guardarmi e che mi rende ancora più furiosa nei suoi confronti, sembra sempre sul punto di assecondare una povera pazza che ha perso suo figlio. Ho sputato fuori la parola fidanzato, come se scottasse in bocca, come se fosse una pietanza avariata, come se fosse veleno e fiele. Quella parola rovina contro di lui con forza, ma non lo smuove, non lo tocca, non lo tange. E ciò ancora di più, mi fa impazzire.

“Ci sei tu, qui, e lo sto chiedendo a te…” mormora serio, guardandomi e spostando il peso da una parte all’altra “Perché si è presa tuo figlio?”.

La mia mente è una steppa devastata dalla tempesta: ogni volta che pone Raissa come soggetto di una frase, sento lei nella testa ripetermi quanto fosse bello andare a letto con lui, sento Serenity dirmi che si sposano, rivedo tutte le volte in cui ho rifiutato Ron, riavverto il senso di colpa soffuso di quando ho baciato Ilai. Tutto amplificato dalla lacerazione intima, come se mi strappassero la carne dalle ossa, di non sentire Alex qui e di saperlo con lei e Dimitri. La vista mi si offusca, vedo nero, rosso, tutto assieme. Io ho provato lo Zahir, l’estasi dell’odio che dava, il desiderio di fare del male solo perché faceva bene a me fare del male a lui… ma era una pallida carezza smunta. Adesso, se mi sto trattenendo, non è nemmeno più per l’amore, volatile ospite che ha lasciato il mio corpo. È solo perché non ho tempo da perdere appresso a lui. Ne ho già perso troppo… e ne sto perdendo ancora troppo. Ogni secondo che dedico a lui, invece che a mio figlio, mi riporta a questi cinque anni maledetti, in cui potevo lasciarlo andare e non l’ho fatto, colmandomi di rimorso da overdose. Non ce la faccio più… devo andarmene da qui e basta.

“Senti…” inizio con voce malferma, scendendo un gradino, mentre lui segue i miei movimenti “Al momento non ho né tempo, né voglia di profondermi in spiegazioni… ti ho riportato tua figlia, ho cercato di proteggerla per quanto potevo e ti ho informato di che cosa ha fatto quella… donna…”, un sapore aspro mi riempie la bocca mentre aggiungo: “… adesso sai che cosa aspettarti dalla tua fidanzata, è sempre stata in combutta con suo fratello e non penso che tu abbia dimenticato che cosa lui volesse da me… e penso anche che sia facile a quel punto capire che cosa vuole da mio figlio. Adesso la mia priorità è lui…”, scendo un altro gradino, appoggiandomi al corrimano, la voce mi si spezza “Quindi lasciami andare… per favore…”. Tutto di me mi spinge a tenerlo fuori, tutto, la rabbia, il dolore, la preoccupazione. Forse una parte di me, al di là dell’odio che provo perché sta con Raissa, cosa che mi rende insopportabile persino guardarlo, lo vuole fuori da questa storia anche per un altro motivo. Più importante, che va al di là di tutto. Se non ce la faccio… se Dimitri dovesse riuscire a portarmi via… se Alex però si salvasse… se rimanesse, per qualche motivo, solo… deve avere un altro genitore da cui tornare. E questo è lui. Al momento non vorrei che fosse così, ma purtroppo è questa la realtà. E Dimitri lo vuole morto. Quindi, deve starsene qui, buono, ad occuparsi di Serenity e ad eventualmente, un giorno, a prendersi cura di Alex.

Draco mi guarda con espressione indecifrabile, gli occhi attraversati da meteore di luce. Scarta di lato, si sposta in modo beffardamente cavalleresco e sibila glaciale, indicandomi la porta: “Prego, vai pure…”. Ovviamente non ho dimenticato che le reazioni più comuni, in Draco Malfoy, significano tutto il contrario di quello che pensa. Probabilmente non vorrebbe lasciarmi andare. Ha un’espressione troppo rilassata per uno che è davvero convinto di lasciarmi uscire dalla sua vita: la fronte si aggrotta per tutte le domande che vorrebbe farmi e, nonostante tutto, so che vorrebbe fargliela pagare a Dimitri. In fondo a sé stesso, credo che mi voglia bene, e ciò mi provoca uno spasmo ulteriore alla bocca dello stomaco, che vorrei che fosse senso di colpa per l’avversione che io invece ho per lui, ma che invece è in tutto e per tutto simile a quel disgusto dolciastro che provi se vedi un sentimento che non vorresti in una persona, a cui dedichi un’emozione diversa da quella che ti viene riservata. Per intenderci, vorrei che mi odiasse anche lui. O che mi amasse ancora. Sempre. Invece in tre frasi, mi ha solo chiesto di Raissa. Ed è uno strappo continuo, dentro.

Non so che farmene della sua pietà, del suo affetto.

Perciò di fronte alla sua apparente resa, penso automaticamente di non dargli il tempo di reagire e di controbattere, approfittando invece per uscire e per non tornare più qui dentro. Biascico un grazie traballante, scendo di corsa gli ultimi gradini e lo sorpasso velocemente, non lasciando a me stessa nemmeno il tempo di respirare, così che il suo odore non mi entri dentro più di quanto non abbia già fatto. Seth, in fondo, può tornarsene da solo… e Pansy… bè, vedrò di avvisarla in qualche modo.

Ho già la mano sulla maniglia della porta e lo sguardo bloccato davanti a me, per paura di voltarmi ancora e guardarlo per l’ultima volta, avida del suo ricordo, che la sua mano si chiude sul mio polso, bloccandomi. È assurdo che, adesso, dopo cinque anni, la mia pelle riconosca la sua con tanta precisa solerzia e pazienza da darmi l’impressione che non se ne sia mai andato. Guardo senza fiato le dita artigliate poco sopra la mia mano, sono sempre affusolate come le ricordavo ed ancora mi danno i brividi solo a sfiorarmi piano. Mi concentro su quelle dita, perché so e sento dalla nuca che agghiaccia che Draco mi sta guardando, che i suoi occhi sono puntati sul mio viso, che se sollevo la testa improvvisamente non sarò più in grado di concepire un pensiero minimamente consapevole. Guardo quelle dita e penso a quante volte, a letto, in Italia, osservavo le mani di Ron mentre dormiva ed era quello il momento in cui, nonostante il buio, non potevo illudermi che fosse Draco. Un magone pesante mi scivola in gola e mi occlude il respiro, queste dita, queste mani, mi hanno toccato in centinaia di modi possibili, avanguardia di mesi e mesi per arrivarmi al cuore. Sono familiari in un modo che ha tutto dell’anormale, dopo cinque anni. Come è familiare, la sua stretta: calda, salda, tesa, nervosa. Perché so che è lui, adesso, ad essere teso e nervoso.

Cosa che mi si conferma quando apre bocca e con voce tagliente mi ingiunge: “Quello che nega di essere tuo marito, comunque, se ne è andato… magari se lo aspetti qui ti trova prima, al suo ritorno…”. Per un attimo, strabuzzo gli occhi e non capisco nemmeno che abbia detto, un calore soffuso che dall’arto mi si irradia nel petto. Anche però quando cerco di calmarmi e prudentemente sollevo lo sguardo, ritrovandomelo vicino, ad un passo da me, con la mascella serrata e l’espressione severa… devo comunque respirare ancora per decongestionare il viso rosso, che non dovrei avere a quest’età e in questo momento della mia vita. Ma anche quando sono certa di essere lucida e tollero la sua improvvisa vicinanza in modo quasi normale, continuo a non capire. Lui mi guarda come se mi volesse trapassare con lo sguardo, provocandomi un calore diffuso lungo tutta la schiena, ed io ancora non capisco che diamine stia dicendo.

Aggrotto le sopracciglia e biascico stupidamente: “Ma che cosa stai dicendo, scusa?! Puoi ripetere?!”.

Draco sbatte le palpebre un paio di volte, confuso a sua volta, guarda il polso che ancora mi sta stringendo ed improvvisamente lo lascia andare come se fosse rovente, facendo un passo indietro, cosa che consente al mio respiro di decelerare e al mio annebbiamento di passare. Mormora, con la voce più bassa: “Il tipo che era con te, ieri sera… ha detto che non è tuo marito, ma ho capito che state tutti giocando al gioco dell’elusione con me… Seth che parla per tre ore solo del Petite Peste, Thomas che non entra nella stanza dove sono io… e Pansy che mi dice casualmente solo che si è sposata con lui… e Dio solo sa che droga assuma, al momento…”, scuote la testa ancora incredulo e, di riflesso, io serro la mascella, contrariata. Certo è anormale che Pansy abbia sposato Dean… ma è perfettamente logico che lui stia per sposare Raissa. Certo, come no. Trattengo comunque in gola le mie rimostranze e continuo ad ascoltarlo: “… ho capito che aspettano il tuo sommo segnale per rendermi partecipe di qualche minima informazione su cosa diamine stia succedendo…  quindi deduco che il tipo che se ne è andato e che dice di non essere tuo marito, in realtà lo sia…”.

“Stiamo davvero parlando di questo, adesso?” borbotto, incrociando le braccia e guardandolo storto.

“Se deve piombare di nuovo in casa mia non appena te ne sarai andata per cercare la sua mogliettina… sì, ne stiamo decisamente parlando…”.

Adesso ricordo anche che cosa diamine mi facesse venire voglia di ucciderlo un giorno sì e l’altro pure. Con un rumoroso sussulto, mi rendo conto anche in che cosa assomiglia ad Alex. Il modo in cui adesso mi guarda, gli occhi grigi accesi e fissi che sembra che inseguano un bersaglio, i piedi piantati al suolo, l’ostinata cocciutaggine nel non farsi mai evitare nemmeno verbalmente… questo, Alex l’ha preso da lui. E’ così simile a mio figlio, adesso, che un capogiro mi fa di nuovo tremare.

Nervosamente, senza pensarci eccessivamente su, rispondo frettolosa: “Se stai parlando di Ilai, non è una persona che mente…”, contrariamente alla tua fidanzata “… quindi mi pare ovvio che avesse ragione…”. Soffoco in gola la caterva di insulti che gli sto per rovesciare addosso, mentre lui mi guarda con lo sguardo nebuloso ed aggiunge: “… ma se non è lui… tuo marito dov’è?”.

Ma è cretino?! Ma che hanno messo una legge per cui, superati i venticinque anni, uno deve essere per forza sposato?!

“Mio marito è nel meraviglioso paese delle favole a cavalcare gli unicorni…” borbotto nervosa, aggiungendo infine: “Non so nemmeno perché ti sto rispondendo… ma io non sono sposata… non so dove diamine tu la prenda sta convinzione…”. Io conosco quest’uomo da diciassette anni, ho un figlio che gli assomiglia come una goccia d’acqua, eppure ancora oggi non lo capisco, non lo comprendo appieno. Draco, infatti, sgrana gli occhi esterrefatto, ne distinguo ogni pagliuzza più chiara in quell’immenso mare d’argento fuso, e mi guarda improvvisamente tremante, scosso, nervoso, come se qualcosa fosse vacillato e crollato tutto dentro di lui. E’ come vedere un castello di carte e sabbia che frana, si disintegra, si annienta.

Balbetta mentre mi chiede ancora: “Non sei sposata?!”.

Cerco di mantenere un contegno, mentre osservo ombre e luci inseguirsi sul suo viso, giocando a cambiargli l’espressione da sorpresa, a terrorizzata, a improvvisamente serena, a sconcertata, a di nuovo fredda ed apparentemente insensibile. Gli rispondo tutto sommato ancora sarcastica, che l’ironia, come sempre, è rimasta la mia sola difesa.

“No, non sono mai stata sposata…” biascico a denti stretti, spostando il peso da una gamba all’altra “E credimi mi fanno persino votare alla Camera dei Comuni, nonostante sia nubile…”.

Draco stringe i pugni, distoglie lo sguardo da me ed insegue il volo di un gabbiano fuori dalla finestra. Per un attimo, nei suoi occhi, distinguo una nota stonata che non riesco a qualificare, e non c’entra nulla che sono cinque anni che non lo vedo e magari non sono più cosi rapida a decifrarlo. È qualcosa che su di lui stride, cozza, perché non c’è nulla che giustifichi il suo viso, articolato e congelato in quella che appare come sofferenza, angoscia. Non ha dipinto addosso il sollievo geloso dell’ex che scopre sardonicamente soddisfatto che l’altra è ancora libera, non ha più la pena e la compassione di quello che magari si rende conto che la mia vita non è esattamente una passeggiata, non ha tantomeno la curiosità sarcastica di chiedersi allora di chi sia mio figlio.

Soffre, invece, sta male e non capisco il perché. Forse è colpa, concludo con le mani che mi tremano dalla voglia di prenderlo a schiaffi: forse si sente in colpa perché, apparentemente, io sono rimasta ancorata alla fedeltà tardiva verso di lui, mentre si sta per sposare con un’altra. Bè, se è di questo che si tratta… ancora se la può tenere.

Capisco, però, che c’è dell’altro, quando parla ancora, non guardandomi, gli occhi ostinatamente rivolti fuori dalla finestra. Le spalle gli tremano, perpetuando nel silenzio segreti obliqui che evidentemente non sono solo i miei: perché, sicuramente, ci deve essere un ragionamento a cui sono esclusa, alla base della sua domanda angosciante ed angosciosa.

Quella che, per intenderci, mi fa sobbalzare ed arrossire come se fossi una bimba colta in fallo.

“Granger… si può sapere che diamine è successo in questi cinque anni?”.

Rabbrividisco quando torna inspiegabilmente a guardarmi, ha gli occhi che implorano spiegazioni e spandono domande. Sta andando tutto esattamente nella direzione in cui non volevo che andasse e non riesco a capire come siamo giunti a questo, partendo dal mio stato civile, la cosa che consideravo più innocua di tutte, al punto da rispondergli onestamente. C’è qualcosa… qualcosa che non mi sta dicendo nemmeno lui, qualcosa che non so. Qualcosa per cui, adesso, quello che gli sto dicendo ha messo in discussione qualcosa dentro di lui che non riesce e non vuole ignorare.

Dovevo andarmene da qui, subito, appena ripresi i sensi. Il mio residuo istinto alla fuga, magari con una bella Smaterializzazione, viene sedato bruscamente da un’ombra comparsa sulla soglia del salotto e di cui avverto immediatamente lo sguardo giada puntato su di me. Prima ancora che Seth parli, comprendo già che mi vuole dire dalla sua postura e dal fatto che, per la prima volta da quando lo conosco, non sta sorridendo. E la cosa non mi piace affatto.

“Devi dirglielo, Hermione…” mormora, facendo un passo nella mia direzione. Lo guardo agghiacciata, ignorando Draco alle mie spalle che sta ovviamente guardando a sua volta Seth. Sento distintamente i suoi occhi grigi perforarmi la nuca e vagare poi sul volto di Seth, di cui ora sa che conosce tutta la storia come me. La sensazione di essere stata braccata e messa all’angolo mi annebbia il cervello, provocandomi un vuoto d’aria nello stomaco che è costrizione e minaccia. Io non ho alcun obbligo di dire proprio nulla. Ho solo l’obbligo di andare a cercare subito mio figlio.

“Non ci credo che mi stai facendo questo…” biascico, il labbro inferiore che mi trema e gli occhi lucidi, guardando Seth che mi restituisce uno sguardo addolorato, prima di rispondermi, ignorando del tutto Draco e parlando come se ci fossi solo io nella stanza: “So che ci sono cose… che tu non gli diresti mai, adesso. E sono cose di cui spetta a te parlare. Non mi arrogherei mai questo diritto…”. Respiro lievemente di sollievo, almeno la verità su Alex me la concede, mi lascia tenerla per me, eppure non riesco ancora a calmarmi del tutto. Il respiro è comunque distonico, tremendamente accelerato, angosciato: in realtà io, adesso, non vorrei davvero parlare di questi cinque anni con lui. So che è stupido ed irrazionale, e non è decisamente da me, ma il mio controllo mentale è sparito nel momento in cui ho visto Raissa e Dimitri smaterializzarsi assieme ad Alex. Adesso, mi ritengo pienamente incapace di intendere e volere. Ed adesso io non voglio che lui sappia niente di me. Come spiegare… ecco, lui ha fatto delle scelte in questi cinque anni, in base a delle convinzioni sicuramente radicate in lui. Ha probabilmente amato Raissa al punto di decidere di sposarla, e nulla, niente di me, lo ha fermato. Non è venuto a cercarmi, non ha raccontato a Serenity di me, non ha nemmeno cercato Pansy o Seth stesso. Ora, cosa mi serve che lui sappia che cosa è accaduto? Che mi serve? Niente mi riporterà indietro questi anni… e niente cambierà quello che è accaduto, adesso. Che me ne faccio, adesso, che lui sappia la verità? Mi darebbe pena, colpa, tenerezza, forse persino amore. Ma tutti in ritardo, e sulla base di quello che gli ho detto. Io avrei voluto che scegliesse me, anche senza sapere che cosa è successo. Avrei voluto che mi avesse aspettato, come io ho aspettato lui. Draco ha fatto una scelta, io ho esitato a farla, ma ora ci sono arrivata anche io. E pretendo che anche Seth, con tutto il bene che gli voglio, rispetti questa mia scelta.

“No…” sollevo gli occhi e dico lapidaria a Seth, mordendomi il labbro “No, Seth… adesso non è il momento per…”.

“Lui ha diritto di sapere, invece!” urla Seth, facendomi accapponare la pelle. Non mi ha mai urlato contro, non mi è mai stato contrapposto, ha sempre preso le mie parti. Ed adesso sceglie Draco, adesso sta scegliendo lui, e non me. Questa consapevolezza mi apre dentro peggio di una mela spaccata a metà. Seth continua a guardarmi e ad urlarmi contro, stringendo i pugni, il volto che si fa violaceo, mentre Draco se ne sta in silenzio alle mie spalle: “Lui ha diritto di sapere di Raissa! Io non ci sto, non ci sto che lasci che lui si rovini la vita appresso a quella donna, che accetti di sposarla, che non sappia che cosa è successo a te e che cosa ti è stato fatto in questi anni… perché, maledizione, non riesci a fidarti di lui, non riesci a fidarti di nessuno?! Perché devi fare tutto da sola?!”.

“Perché io sono da sola, Seth!” mi ritrovo a gridare, la voce tagliata dal pianto, prima ancora che me ne renda conto, Seth si interrompe e mi fissa ad occhi spalancati. Le lacrime prendono a scorrermi lungo il viso, mentre a pugni chiusi mastico amaro e vomito con ferocia: “Io sono sola, Seth! Sono cinque anni che sono sola! La sola cosa che ho e che non mi rende del tutto tale, è mio figlio… voi, tutti voi, tu, Dean, Pansy…”, ruoto su me stessa ed indico Draco, che continua a fissarmi, gli occhi spenti “… persino lui, persino lui… tutti voi ce l’avete una stramaledetta vita a cui tornare! Io non ce l’ho, Seth! E come faccia adesso tu a non capire questo… è assurdo… io ho solo me stessa ed Alex… ed è tutta la mia stramaledettissima esistenza che faccio la cosa giusta, che mi prendo a calci pur di fare la cosa giusta… e tutto questo, tutto questo, a che cosa mi ha portato, Seth? A perdere mio figlio, che è la sola cosa che conta al momento per me. Quindi me ne frego che lui abbia diritto di sapere, me ne frego di te che pensi che lui abbia diritto di sapere… io voglio solo andarmene da qui, e riprendermi il mio bambino. Dopo, un giorno, quando mio figlio sarà qui con me e al sicuro, potrete farmi tutte le morali che volete… ma adesso abbiate il sacrosanto diritto di stare fuori dalla mia vita, che è mia e di mio figlio, e basta!”.

La carotide preme contro la mia pelle come se volesse schizzare fuori, la faringe mi gratta come se ci fosse scivolato dentro dell’acido e le lacrime mi bruciano il viso: non so nemmeno in che punto della conversazione sono scivolata in basso, restando in ginocchio. So solo che il viso di Seth e la tensione silente di Draco sono insopportabili, adesso. Tutto si mescola alla mancanza di Alex, che è come l’amputazione di metà del mio corpo, quella più vitale e necessaria, al punto che mi considero al momento un moncherino sanguinolento, tenuto in vita da un perfido accanimento terapeutico. Soffoco il viso e le lacrime tra i palmi della mano, cercando di non fare rumore ed emettendo un’aura di distacco che spero che entrambi colgano. Non voglio, né necessito che nessuno mi tocchi.

Ed è inconcepibile che ci pensi adesso, ma le sole persone che vorrei al momento sono Dean o Ilai. Il primo che ha fiducia in me qualsiasi cosa faccia, ben più di Seth, che si è così fissato che io e Draco ci apparteniamo da non vedere nemmeno che cosa ci sia capitato adesso e in che persone ci siamo trasformati. Il secondo che si è allontanato discreto, non appena ha saputo che Draco era qui. Lo so, lo sento come sempre, che è andata così. Ed invece io, ora, avrei bisogno di lui più che mai. Lui saprebbe spiegare questo squarcio dentro, lui allontanerebbe le ombre da me, lui mi farebbe sentire in pace… e lui conosce Alex. Draco Malfoy, suo padre, non sa nemmeno come è fatto. E so che, almeno questo, non è colpa sua: ma al momento gli darei ogni responsabilità del mondo. Perché tutto nasce e muore in questo: lui, Raissa, non l’ha lasciata andare. Se l’avesse fatto, Alex sarebbe ancora qui. Qualsiasi cosa accada, comunque vada a finire, io questo non riuscirò mai a perdonarglielo. Mai.

Nel silenzio che adesso si spande venefico su di noi, interrotto solo dal frinire triste di una cicala, lascio che i miei occhi se ne stiano dentro le mie mani così da potersi riposare e sciogliere di lacrime, senza che nessuno mi fissi, facendomi sentire compatita. Ma è ovvio che non posso stare così a lungo: quando mi arrischio ad alzare lo sguardo, mi accorgo immediatamente che Draco mi ha sorpassato e si è piantato accanto a Seth, che si morde l’unghia del pollice a disagio, gli occhi lucidi. Draco, invece, ha l’espressione indecifrabile, dura, chiusa, arcigna, ed ovviamente è me che guarda così.

Mi asciugo con il palmo della mano le lacrime ancora sparse sul viso e sollevo il mento, a mo’ di sfida silente, così che dica quello che sta pensando. Le parole ci sono sempre state nemiche, ma i gesti, le espressioni e gli sguardi no; infatti, nonostante tutto, lui capisce subito che cosa gli sto dicendo ed incrocia le braccia meccanicamente, sibilando freddo: “Sono davvero lieto che, dopo cinque anni, siamo ancora a questo meraviglioso punto delle nostre vite, per cui sei sempre presa dall’insano desiderio di punirmi per qualcosa che non ho commesso… ed al contempo sei sempre presa dal tuo delirio di onnipotenza per cui puoi fare tutto da sola… e sempre…”. Ansimo, la voglia di prenderlo a schiaffi che mi sussurra nelle orecchie e mi infiamma le dita, mentre lui prosegue disinteressato: “Sono cose che fanno riflettere, sei rimasta esattamente quella che sei sempre stata… anche se sei madre, adesso…”, mi alzo in piedi, facendo qualche passo, giuro che se non la smette immediatamente lo uccido sul serio. Draco fa un sorriso beffardo, guardandomi ed inclinando la testa di lato: “Da genitore si fa ogni sacrificio possibile, credo che tu lo sappia… e se si fosse trattato di Serenity, io ti avrei implorato di aiutarmi… anche se si fosse trattato di te…”. Chiudo i pugni lungo i fianchi, l’odio che mi macina come se fossi dentro un ingranaggio, il volto mi va a fuoco. Non le voglio lezioni sull’essere madre, tantomeno da lui che, dopo chissà quanto, ha deciso di fare da padre a Serenity. L’ho lasciato che si faceva ancora chiamare fratello da lei. Che diamine ne vuole sapere, lui, del coraggio di essere un genitore sin dal primo momento, sin da quando tuo figlio nasce, sin da quando lo vedi respirare accanto a te, e tu magari non ne volevi sapere, non volevi essere madre, e raccogli la forza che hai, solo perché lo hai visto quel bambino e adesso lo ami più di qualsiasi altra cosa al mondo? Non le voglio lezioni da uno che ha deciso di essere padre, solo quando ha avuto Raissa accanto.

Ma lui ovviamente prosegue, forse leggendo quelle parole nel mio viso e, come sempre, non facendosene minimamente impensierire: “… e sai, posso anche accettare che, nella tua mente non valgo al punto da avere una qualsiasi spiegazione su quello che sta succedendo, soprattutto se riguarda la donna con cui ho passato gli ultimi cinque anni…”, la solita fitta mi colpisce infida al petto, cerco di dissimulare il dolore con una smorfia che spero suoni come ironica “… ed ovviamente sei libera di fare quello che vuoi, riguardo a tuo figlio. Ma qui si tratta anche della mia di figlia…”, la sua espressione si indurisce, torna ghiaccio scavato e gli occhi scintillano di furia: “… se mia figlia è stata messa in pericolo perché Raissa era qui, se c’è anche una possibilità che lei ritorni e metta in pericolo Serenity… io devo saperlo. E non sarai certo tu ad impedirmelo”. Il suo volto diventa demoniaco, una maschera di odio deforme, mentre aggiunge sardonicamente: “C’è una semplicissima parola che risolverebbe tutto questo, Granger… se tu ancora non volessi parlare… e credo che anche tu la ricordi…”.

“Quale?!” sputo fuori con astio, la mia voce che tintinna di ira repressa. Draco sorride, quasi comprensivo, ed improvvisamente ricordo che è il traditore di Voldemort, un ex Mangiamorte. Negli anni, tutto di me lo aveva scordato, ricordavo solo la tenerezza e l’amore che aveva per me. Ma Draco Malfoy è anche questo, è anche minaccia, ricatto, furia e violenza, specie se qualcuno attenta a ciò che ama. E come per me nulla adesso conta più di Alex, per lui ora nulla conta più di Serenity.

“La parola magica, Granger…” sussurra suadente, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi e facendo un passo verso di me “E’ legilimens…”. Accompagna l’intimidazione ad usare la Legilimanzia, sfoderando la bacchetta che punta subito nella mia direzione sotto lo sguardo terrorizzato di Seth, che guarda prima lui e poi me ad occhi sgranati. Una risata di gola, profonda, triste, mi fa tremare il torace mentre asserisco convinta: “Credi forse che io sia la stessa di cinque anni fa? Che sia ancora senza poteri? Se osi anche fare un solo passo nella mia mente… te ne farò pentire…”. A mia volta, fremendo, sguaino la bacchetta dalla mia tasca e la punto a mia volta verso di lui. Alcune scintille stanno già sfrigolando, quando Seth, autenticamente terrorizzato, si para tra me e lui, gli occhi lucidi e le braccia aperte.

“Smettetela!” urla a pieni polmoni, io e Draco già presi dall’adrenalina e dalla rabbia sbattiamo le palpebre, come risvegliati, la mia bacchetta trema nella mia mano “Non vi permetterò tutto questo!”. Seth mi lancia uno sguardo storto, prima di sussurrare qualche parola che non intendo e che assomiglia tremendamente ad una richiesta di scuse.

Poi, guardando Draco, prima che io glielo impedisca, biascica: “La ragazza che ti ha lasciato cinque anni fa… non era lei, era Astoria… Hermione… non l’avrebbe mai fatto…”.

La bacchetta di Draco scivola dalle sue mani, mentre lui, bianco, le labbra livide, supera la spalla di Seth, cercando immediatamente i miei occhi. Sono liquidi, morbidi, intensi, colmi di una sofferenza incredula che non credo di avergli mai visto. Mi fanno riprendere a piangere prima che me ne renda conto, mentre lui dice balbettando: “N-non è possibile…”.

Draco sa perfettamente come dissimulare le emozioni, l’ha sempre saputo fare. Ma ora non ci riesce, non ce la fa.

Il solo sfogo al dolore che riesce a trovare, è guardare verso di me, sbigottito, sconcertato, sconvolto, come se si aggrappasse a me.

La mia bacchetta ricade via dalle mie dita e, con un tonfo secco, atterra sul pavimento.

Sgonfiata, senza forze, d’improvviso esausta, mormoro: “Ti dirò tutto… ma alle mie condizioni…”.

 

 

La mia prima condizione è tempo. Ne ho un tremendo bisogno.

Corro subito di sopra nella camera in cui mi sono svegliata, e la prima cosa che faccio è rifugiarmi nel bagno, chiudere la porta a chiave e scivolare al suolo. Piango, singhiozzo, lascio che tutta la tensione e il dolore trovino almeno un sfogo che mi impedisca di esplodere come una bombola di gas: premo forte le mani sulla bocca così che nessuno mi senta e soffoco le lacrime in modo che muoiano qui, in me, senza che nessun altro le senta o le veda. Quando giudico di essere più calma, mi alzo in piedi, mi lavo la faccia con abbondante acqua fredda e mi pettino di nuovo i capelli. L’aspetto che lo specchio mi rimanda, sebbene gli occhi rossi e le occhiaie, è quello di una persona apparentemente più normale.

Uscita dal bagno, afferro il cellulare dalla mia borsa, ignorando con un profondo sospiro lo screensaver che mostra Alex a pochi mesi di vita che sorride dentro il box, e compongo dapprima il numero di Dean, poi quello di Pansy, ed infine quello di Harry. Il primo mi dice che è sulla buona strada per capire come funzioni il ciondolo di Tatia, ha trovato una negromante indiana che ne capisce di queste cose e che sta consultando dei testi per capire come non disperdere il potere del sangue di unicorno e se questo può essere utilizzato anche contro un forte potere oscuro, come quello derivante da Adamar. Ringrazio Dean profondamente, lui mi rassicura e tranquillizza, ed effettivamente riprendo a respirare normalmente, sapendo che stiamo facendo di tutto per sfruttare la sola risorsa che abbiamo al momento. Sono convinta che, se Tatia mi ha lasciato questo ciondolo, aveva le sue motivazioni, come per tutto il resto, senza contare il sogno che ho fatto dove mi ha ammonito di non toglierlo.

È stata la prima vittima dei Karkaroff, non può essere tutto un caso.

Chiamo Pansy per sapere come stia, sommessamente, con una voce smunta che non le appartiene, dice che ha accompagnato Serenity a scuola, e che adesso è in giro con Charisma. Passerà in farmacia per delle commissioni, e poi tornerà indietro. Mi prega di non “infierire sul cadavere di Malfoy, che voglio averlo io questo onore”,  e, mio malgrado, sorrido incredula, riagganciando.

L’ultimo che chiamo, è Harry: gli racconto tutto di quello che è accaduto, lo sento ascoltarmi rabbiosamente. Mi promette che cercherà nel modo più discreto possibile di rintracciare i Karkaroff, anche se sa che non è probabile che li trovi. La loro magia è troppo potente. Però mi promette che farà di tutto per aiutarmi e che informerà Helder quanto prima, la sola forse in grado di aiutarmi davvero.

Quando ho finito, chiudo gli occhi e mi abbandono sul letto ancora sfatto. Sotto le palpebre, si inseguono i ricordi di questi cinque anni. Li afferro, li sistemo velocemente, ne seleziono alcuni, ne tralascio altri.

Dovrò essere asettica, settoriale, precisa. Ridurre al minimo le domande, parlare in modo veloce e chiaro, evitare ogni riferimento ad Alex, alla sua età, al suo nome, al suo aspetto, al suo carattere.

Di lui, non deve sempre niente, l’ho già detto e non cambio idea. Non così, non adesso.

L’ultima condizione che paleso una volta scesa, chiudendo la porta del salone dopo che Draco è entrato, è semplice.

Io e lui. Basta.

Nessun altro.

Vedo lo sguardo di Seth oltre la porta, mentre si stringe nelle spalle e distoglie gli occhi da me, ma lo ignoro. Mi ha tradito, non ha rispettato una mia precisa scelta. Voleva questo, voleva che parlassimo? Benissimo. Lo faremo. Ma da soli. E nella maniera più veloce e rapida possibile. Non ho bisogno dell’arbitro degli aggettivi che userò, qualora non rendano abbastanza il concetto.

Voglio bene a lui, a Dean, a Pansy… ma questa storia è mia e di Draco, non di tutti loro.

Ho immaginato tante volte questo momento, nel corso degli anni, quello in cui avrei detto a Draco la verità. Spesso nei miei sogni questo momento si affacciava, prima di prendere sonno, ed aveva sempre un colore diverso, un respiro diverso, un palpito diverso. Mi chiedevo spesso, quando ero ancora in Italia, se avrei dovuto mostrargli Alex e lasciare che lui capisse, perché ero convinta che Draco, vedendolo, avrebbe capito. Immaginavo il tremore che gli avrebbe preso gli occhi, la piega emozionata delle labbra, la fossetta gentile ai lati delle labbra di quando sorride e scoppia dalla gioia. Avrebbe inseguito gli occhi di nostro figlio, e subito avrebbe intuito, ma mi avrebbe comunque chiesto chi fosse, come si chiamasse, magari anche perché gli somigliasse tanto. Ed ero certa, sicura, convinta che Alex non avrebbe taciuto, avrebbe urlato una frase del tipo: “Ciao papà!” come quando lo salutava ogni mattina a Favignana, dopo aver salutato me e Ron. Avrei maledetto il candore genuino di Alex ed avrei pianto, guardando Draco, annuendo con il capo, lasciando che lui lo guardasse bene e che si chinasse alla sua altezza per osservarlo negli occhi gemelli dei suoi. Pensavo che avrei potuto lasciarli soli, e poi mi dicevo che non era il caso, che Draco sarebbe stato traumatizzato, che Alex spesso parla troppo e lo avrebbe rintronato. Meditavo su tutte queste cose ed era come rilassarmi, mollare la presa, sentirmi felice dentro che tutto sarebbe andato a posto, ed in ricompensa il sonno arrivava. Mentre mi addormentavo, però, mi dicevo che l’incontro perfetto avrebbe visto Alex venire solo dopo che noi due avessimo parlato, perché avevamo bisogno di un momento per noi, avevamo bisogno di essere prima Draco ed Hermione, e poi i genitori di Alex. Ce lo doveva il tempo, la vita, il destino e tutto quello che ci aveva divisi. Era facile quindi decidere che avrei indossato qualcosa di rosso, come la sera del compleanno di Pansy, e mi sarei tirata su i capelli, perché lui una volta mi aveva detto che stavo bene così. Avrei avuto un passo leggero e, mentre gli raccontavo ciò che era accaduto, avrei voluto tenergli la mano, stringergli le dita o lasciare che mi stringesse lui. Avrei infarcito il racconto di aneddoti, dei pensieri più vari, pentendomi se avessi scordato qualcosa. Gli avrei consegnato le novecento tredici lettere che gli avevo scritto, i cinque regali di Natale e i cinque regali di compleanno. E, ad un certo punto del racconto, mi sarei fermata e l’avrei guardato fisso negli occhi. E sapevo che l’avrei baciato, sapevo che mi avrebbe risposto, sapevo che avremmo fatto l’amore come se non ci fosse domani, disperati, ma riuniti, riconciliati, riappacificati con la vita stessa. Cadevo nel sonno, dicendomi che però stavolta dovevamo stare attenti, basta con i bimbi non programmati, Alex aveva bisogno di averci per noi almeno per un paio di anni, sarebbe stato già difficile avendo anche Serenity, dovevano legare tra loro, e chissà se sarebbero andati d’accordo, e potevamo mandarli assieme in palestra, oppure Serenity a danza ed Alex a scuola calcio che adorava il calcio essendo cresciuto in Italia, e poi la domenica…

… pensavo davvero queste cose prima di andare a dormire. Ci credevo profondamente, a tutte.

Non era fede e speranza, era per me previsione del futuro.

In tutto questo, Draco Malfoy andava a letto con Raissa Karkaroff, Ilai Radcenko soffocava nella mancanza di sua moglie e Dimitri Karkaroff mi cercava come una bestia dannata.

Adesso che ci sono arrivata, adesso che sono arrivata a questo momento… mi siedo sul divano di fronte a Draco che mi guarda, stringendo i pugni, e non c’è nulla di come doveva andare.

Ho un vestito azzurro spiegazzato, ho i capelli sciolti, ho gli occhi rossi e stanchi. Mio figlio non dirà da un momento all’altro “ciao papà!”, non racconterò nulla più del necessario, le mie novecento tredici lettere sono nella mia valigia. Non lo bacerò, non lo stringerò, non voglio che mi tocchi nemmeno per sbaglio.

La fantasia, la mia soprattutto, ha accartocciato il futuro, rendendo questo momento insapore ed inconsistente come segatura.

Al momento, io… voglio solo che finisca.

Faccio un profondo respiro, Draco mi soppesa con lo sguardo come se temesse d’improvviso che mi trasformi in qualcos’altro davanti ai suoi occhi. Si è cambiato, porta una polo azzurra su dei jeans chiari ed ha i capelli bagnati sulla nuca, come se si fosse fatto una doccia. Un raggio di sole illumina e taglia a metà i suoi occhi, rendendo palese la tensione che permea il suo corpo, visibile anche nelle mani chiuse a pugno e nei gomiti poggiati parallelamente alle gambe. “Seth non ci capisce niente di magia…” inizia impaziente, le mani che si sfregano nervose l’una sull’altra “Ma io e te sappiamo che non è possibile quello che dice… la ragazza che ho visto quel giorno… eri tu, eri indiscutibilmente tu… una Polisucco non avrebbe mai potuto…”.

“Hai dimenticato di chi stiamo parlando?” lo interrompo subito, asciutta, senza nemmeno alzare lo sguardo “O frequentare quella donna per cinque anni ti ha ottenebrato la mente fino a questo punto?”.

“Potremmo lasciare fuori questa storia per il momento?” borbotta nervosamente, le dita che tamburellano come se avesse un tic.

“Ah certo, lasciamo fuori questa storia…” commento acidamente, sorridendo in modo forzato “Ovviamente, come sempre, è tutto un senso unico con te… io devo parlare… ma tu puoi startene zitto… comunque non mi interessa, basta che la finiamo…”. Concludo stancamente, pentendomi del mio accesso di rabbia e gelosia, a cui Draco ha risposto solo piegando le spalle ed appoggiandosi stancamente al divano. La sua attenzione torna vigile, quando mormoro con tono ovvio: “La Conoscenza assoluta l’hai dimenticata? Non ricordi che lei e suo fratello conoscono ogni singola cosa scritta da uomo? E questa non era nemmeno tanto difficile da trovare… si chiama Imitatio cordis, imitazione del cuore… due persone unite dallo stesso sentimento entrano in risonanza l’una con l’altra. Una delle due ne può rubare per qualche ora aspetto, ricordi, emozioni. Io ed Astoria condividevamo le stesse sensazioni in quel momento…”, distolgo lo sguardo da lui, non mi va proprio nemmeno di ricordare quali fossero le sensazioni che condividevamo “In tal modo, riuscirà una personificazione perfetta. A patto che l’altra persona sia sufficientemente debole…”.  

Draco assimila le mie parole per qualche secondo, appare ancora incredulo e sconcertato, tormenta le dita delle mani in modo meccanico. Sembra quasi voglioso di contraddirmi, convinto evidentemente contro ogni logica che non poteva trattarsi di persona diversa da me. Poi qualcosa scivola sul suo viso, un’ombra che gli sfiora i lineamenti e gli fa contrarre l’espressione come se avesse avuto un calcio in pieno stomaco. Dismette il dubbio ed abbraccia la paura. Sussurra solo, stringendo le labbra: “Se la persona da impersonificare eri tu… ed era necessario che fossi debole per consentire ad Astoria l’incantesimo…”, fa una pausa incredibilmente sofferta, scopro ancora la stretta massiccia in fondo al ventre di tutte le volte che stava male ed ero arsa dal desiderio di impedire qualsiasi cosa lo ferisse. La ricaccio nel fondo di me con rabbia, ci manca solo addolcire la pillola adesso, lui intanto conclude con un tremito: “Eri debole… perché?”.

Per un attimo, guardo i suoi occhi e non vorrei fargli del male, so che adesso si sentirà in colpa, so che starà male. So tutto quanto. Respiro a fondo e capisco che però non potrei nemmeno volendo, rendergli le cose più facili e meno dolorose: non a condizione di massacrarmi io. Tra noi è andata male, anche perché accettavo di tacere pur di stare con lui, pur di non diventare seccante. E pur di non esserlo, non gli confidai la mia paura di Helena. È stato sbagliato. Doveva portare quella croce con me. Altrimenti, perché stare assieme? Ora, certo, non importa più… ma siamo alla catarsi finale. E voglio che questo lo sia anche per me: lui e Seth hanno voluto la verità? Eccola. La verità fa schifo, farà male. Non ci posso fare assolutamente nulla.

Decido di essere quanto più precisa possibile, in modo che mi faccia il minor numero di domande, non voglio ricordare queste cose per un secondo di più.

“La sera del compleanno di Pansy… è stata l’ultima vera volta in cui ci siamo visti… dopo che…” prendo fiato, distolgo il viso e tengo a freno il pianto idiota che mi assale al ricordo della sua proposta di matrimonio. Draco si muove sul divano, fa un minuscolo accenno di assenso con la gola che sa di tristezza raschiata via, e finalmente riesco a continuare: “Bè, quella sera… uscii in giardino per prendere aria. Non avevo nessuna intenzione né di andarmene, né tantomeno…”, ancora sono costretta a fermarmi, le parole sono diventare così infide che mi pungolano per essere sincera e poi mi sgusciano tra le mani se mi arrivano troppo vicine al cuore, che batte ancora maledettamente per l’uomo di fronte a me.

“Fa male…” commenta Draco, le spalle piegate, e non è una domanda, è solo una constatazione che sembra nascere dal profondo di sé per riverberarsi dritto su di me. Lo guardo dritto negli occhi, ed una stupida lacrima mi cade dall’angolo dell’occhio destro, l’asciugo rabbiosamente: “Ho raccontato questa storia così tante volte… ed è assurdo che faccia ancora così male… i-io… non ne volevo parlare adesso… non con Alex che… ed è sempre stata Raissa… fin da allora…”. Le lacrime mi affannano di nuovo la vista, maledico la mia debolezza e le asciugo meccanicamente.

“Ti prometto che sarà l’ultima volta che ne parli… per favore… dimmi che cosa è successo…”. Un brivido caldo mi scuote la schiena, il contatto con i suoi occhi mi fa ricordare in modo goffo che cosa amassi di lui… e che cosa amo ancora di lui. Questo: la poderosa sicurezza che ti avvolge e che fonde ad ogni parola che pronuncia. Sebbene sia passato tanto tempo, fa ancora effetto su di me, rende il mio respiro più calmo e mi costringe a parlare normalmente, in modo quasi freddo, pur di finire in fretta: “Non volevo lasciarti. Non l’avrei mai fatto, e soprattutto non in quel modo... in giardino, fuori dal cancello, vidi una sagoma supina, era Daphne Greengrass… corsi da lei, non avevo visto chi fosse e temevo che fosse qualcuno che si fosse fatto male. Raissa aveva fatto cadere la barriera… ed ovviamente non trovai alcuna resistenza. Lì… mi aspettava Dimitri…”. Le mani di Draco si torcono a pugno, diventano livide, ma mi sibila di continuare. “… mi ha minacciato, voleva che lo seguissi. Ed io ovviamente mi sono rifiutata, avevo la bacchetta che mi avevi dato, l’ho attaccato… ed avevo anche avuto la meglio. Ma appena ero riuscita a farcela, sono comparsi Astoria, Pucey e Montague… si erano alleati con lui… io… non li avrei seguiti lo stesso, sarei morta pur di non andare con lui… ma… avevano Hayden…”. Lo stupore sul volto di Draco ad ogni parola del mio racconto si stempera nella rabbia, nella furia. Sento distintamente che sta per perdere il controllo, sta per cedere, sta per crollare. Le mani sono rosse a furia di sfregarle, mi sforzo di proseguire deglutendo: “Lo avevano già ferito… tu avevi pensato a difendere tutti, tranne lui… e io non potrò mai perdonarmi di non avertelo ricordato, di non aver io stessa pensato che lui potesse essere messo in mezzo a questa storia… per colpa loro, Hayden non camminerà mai più…”. Ancora le lacrime mi impediscono di continuare, ho già raccontato questa storia decine di volte, ma adesso con Draco ha un’impressione differente. Mi fa davvero più male che tutte le altre volte. Quello che leggo in lui, nei suoi occhi, mi spinge a sentire tutto più forte di prima. Seth pianse mentre parlavo, Pansy rimase sconvolta, Dean mi abbracciò un paio di volte… ma con loro è diverso, è ovvio che lo sia. Draco è vittima come me, in me. Nel ricordo, lui soffre assieme a me per la prima volta da cinque anni. Fa male, infinitamente male, ma forse fa anche bene. In un modo strano, sento che forse è la sola occasione che ci è rimasta di sentirci uniti ed è emblematico che ciò avvenga nel ricordo del dolore, della rabbia e dell’odio che ci ha resi estranei.

Ormai, abbiamo dalla nostra solo questo e qualche granello di polvere di una passione, che probabilmente, nostro malgrado, non andrà mai via. Ma è solo sangue, carne, pelle. Non arriva più al cuore.

“Sono stata costretta a seguirli… ma mi sono accorta subito che Astoria non era venuta assieme con noi…” proseguo inespressiva, forzandomi a trattenere le lacrime e a non guardarlo “Ed ho intuito subito che avrebbero fatto qualcosa per tenerti lontano da me… e ne ho avuto la prova quando Pansy mi ha mostrato i suoi ricordi. Ero io in tutto per tutto, persino le cose che dicevo… erano cose che avevo pensato… ma lei le stravolgeva come voleva, io non ho mai odiato me stessa per essermi innamorata di te… ed anche se l’avevo fatto… poi era cambiato tutto stando assieme, erano cose che risalivano allo Zahir ed oramai era passato… ed io ero a pieno titolo un’altra persona. Non quella che poteva stare con Ron, o con chi so io… ero fatta per stare con te…”, nascondo il rossore delle guance , fingendo di portarmi indietro i capelli con le mani, ed evito ancora di fissare Draco. Non prendo nemmeno fiato, riprendendo a parlare con compostezza prima che mi interrompa, la tensione sta crescendo ancora, dubito che resisterà ancora per molto: “… ed anche Pansy… era stata onesta parlandomi di Helena… ma non mi ha mai, e dico mai, fatto pressioni per allontanarmi da te. Non era colpa sua se avevo sempre lei in testa… e se vuoi ancora una prova, chiedimi come sia con me adesso, come nonostante tutto posso dire persino di essere legata a lei… mi ha sempre accettato nella tua vita perché amava te… ma sarà lei a parlartene, se vorrà… e in quanto a me ed Helena… non credo che conti molto parlarne adesso…”. Figuriamoci se conta parlarne adesso: non si è fatto scrupolo nemmeno verso Helena.

Sento che Draco sta per alzarsi in piedi e sento distintamente che sta per parlare, non glielo lascio fare. Se adesso mi fermo probabilmente non riuscirò più a continuare.

“Sono stata prigioniera di Dimitri per dieci giorni, assieme ad Hayden… ho tentato di curarlo in modo goffo, ma non c’è stato nulla da fare, è rimasto paralizzato… e sebbene li abbia implorati di liberare almeno lui, non ne hanno mai voluto sapere, era un modo per tenermi ancorata lì senza fare nulla di stupido…”, non l’avrei fatto comunque qualcosa di stupido, dato che ero incinta di tuo figlio. Quel pensiero sfuggito per caso mi blocca il respiro e mi fa soffocare. Tossisco un paio di volte, con forza, come a scacciarlo via, e riprendo con un filo di voce: “Ho intuito subito che ci doveva essere un motivo… qualcosa… per cui tu non mi cercavi… e allora non sospettavo minimamente della parte che Raissa aveva avuto in questa faccenda… pensavo che fosse solo Dimitri… comunque, senza andare per le lunghe, dieci giorni dopo Helder mi ha rintracciato… mi teneva d’occhio da quando avevo distrutto lo Zahir e si era accorta che ci era qualcosa che non andava…”, sono settimane che ho il cervello che brucia; ancora devo fare ogni sforzo mentale e fisico per gettare fuori dalla mia mente tutti i ricordi di che cosa è davvero accaduto cinque anni fa, di Helder che mi diceva che si era accorta che c’era qualcosa che non andava perché non sentiva più l’amore che legava me e Draco. Faccio fatica a parlare ormai, la gola mi si chiude come se stessi sott’acqua: “Helder ha avvisato Harry e Ron, mi hanno trovato nel castello di Dimitri, hanno attaccato… ma quella notte… l’unico modo per fuggire era saltare da una finestra. E non è andata esattamente come speravo… un incantesimo di Dimitri mi ha colpito alla schiena, sono ruzzolata giù per qualche metro e ho avuto un trauma cranico. Sono stata in coma tre mesi… e al mio risveglio ero in Italia… avevano trovato tutti più sicuro nascondermi lì, perché Dimitri non era morto, era fuggito, poteva ancora farmi del male… e mi è stato impossibile rintracciarti in qualsiasi modo, non mi facevano venir via… e poi…”, faccio un respiro profondo, l’ennesimo, sembra che debba impormi ogni tanto di inspirare a rischio di dimenticarmene ed andare di nuovo in debito d’ossigeno “… poi è nato Alex e per me è diventato prioritario proteggere lui. Per farlo, Ron ha accettato di fingere di essere mio marito… ho vissuto con lui cinque anni…”. Il silenzio di Draco cambia, mi arrischio ad alzare lievemente lo sguardo, le sue mani sulle ginocchia sono distese, le dita sono come congelate e sembra essersi immobilizzato dal moto ondoso che lo caratterizzava fino a poco fa. Prevedo senza eccessiva fatica che cosa sta pensando, sento persino il veleno della risposta che mi dedicherebbe e mi sento subito in dovere di specificare e di discernere l’indubbia similitudine che sta facendo con la sua situazione con Raissa: “So che al momento non sono affari tuoi… e dubito che lo saranno mai più… ma io e Ron abbiamo solo finto di essere sposati… non c’è stato niente tra me e lui, di alcun tipo, per cinque anni…”, è più forte di me poi aggiungere come una cretina: “… ed Alex non è suo figlio, se te lo stai chiedendo in modo del tutto inappropriato…”. Immediatamente dopo aver finito di parlare, mi rendo conto della stupidaggine che ho fatto. Accennare ad Alex significa automaticamente fargli venire la curiosità sulla sua paternità… come farei a glissare se mi facesse una domanda diretta? Specie se sto cercando, nel mio rancoroso modo, di fargli capire che sono rimasta fedele a lui in tutto e per tutto, anche se in un modo assolutamente patetico, visto come è andata… ma ovviamente Alex non può essere nato sotto una foglia di cavolo.

Ma, con mia somma fortuna, Draco perde del tutto la connessione con il reale quando sente parlare di matrimonio e capisce che non sono sposata. Non riesco ancora a capire il perché, ma spiandolo con la coda dell’occhio, lo vedo nervoso, crucciato, le sopracciglia aggrottate di uno che ancora sente qualcosa che non può credere come reale. Non lo facevo così tradizionalista, cavolo, forse non mi crede capace di avere un figlio anche se non sono sposata… boh… comunque in ogni caso, per fortuna ha assimilato il riferimento ad Alex in modo neutro, senza pensarci troppo su, cosa che mi consente di proseguire con maggiore tranquillità: “Qualche settimana fa… mi hanno dato la notizia che Dimitri era morto. In realtà, aveva solo finto di essere morto, ha assassinato Astoria e dopo ha usato una pianta che inganna gli Empatici e nemmeno Helder ha potuto capire nulla… quindi sono potuta tornare qui…”, deglutisco ancora a fatica, quanta parte abbia lui nel mio ritorno non voglio nemmeno palesarla a me stessa, solo che al momento per continuare nel mio racconto, devo necessariamente fargli sapere che lo stavo cercando. Altrimenti perché prendermi la briga di cercare Raissa, e tutto quanto?

Alla fine decido di mantenermi vaga, sostenendo che avevo un sospetto su Raissa stessa, ed avevo cercato appunto di rintracciarla grazie a Seth, Pansy e Dean. In breve racconto quindi la storia di Tatia, il viaggio in Finlandia, l’incontro con Ilai e il voto Infrangibile tra Dimitri e Raissa, fino al momento in cui li avevo incontrati entrambi. Ed accenno, ovviamente escludendo che avevo precedentemente incontrato anche Serenity, che era stata Raissa stessa a dirmi che si stavano per sposare e che erano fidanzati.

Quando finisco di parlare, ho il fiato corto e la sensazione di sentirmi svuotata completamente da ogni forza ed energia: sono persino costretta ad afferrare la bacchetta e a far comparire una brocca d’acqua ed un bicchiere, di cui trangugio il contenuto in tre sorsi. Nelle ultime fasi del mio discorso, forse presa dalla voglia di finire quanto prima e di condensare eventi, non ho molto badato a Draco e a come stesse reagendo. Lui, del resto, non ha quasi più respirato ed è come evaporato da qui, esattamente da quando ho raccontato di essermi svegliata in Italia. Con una fitta di nervosismo, constato che probabilmente non ha sentito una parola del racconto di Tatia e mi riprometto, qualora mi chieda qualcosa, di mandarlo a quel paese, dato che su di lei sono stata adeguatamente precisa e prolissa.

Ma Draco, appena finisco di parlare, non fa assolutamente nulla del genere. Si alza in piedi, fa qualche passo attorno alla stanza per poi fermarsi dietro la finestra, la schiena rivolta verso di me e le braccia piegate e poggiate sul vetro. Finalmente posso guardarlo senza che ciò mi susciti alcuna emozione palese: i muscoli delle spalle sono contratte, scattano sotto la polo nervosamente, il respiro è rapido ed ansante. Le mani, chiuse a pugno, tremano leggermente. Sembra, di nuovo, sul punto di scoppiare.

La sua voce sembra provenire da molto lontano, quando parla di nuovo, sebbene sia solo ad un paio di metri da me. Ha un tono sarcastico, ma sfumato in una specie di tenerezza collosa, che mi fa scendere un pesante groppo sullo stomaco. Dice solo: “Mi ero dimenticato com’è parlare con te… che eludi e scegli accuratamente che cosa dire e che cosa non dire, che cosa accentuare e cosa lasciare sfuggire via… chissà quanto non mi stai dicendo…”. Sobbalzo a disagio, ancorandomi al bracciolo del divano come se fossi stata appena condannata alla pena capitale. Ritrovo il respiro solo quando parla di nuovo con voce inespressiva: “Non ti chiederò di tuo figlio… l’ho capito che non ne vuoi parlare… e ok, mi può anche stare bene…”, sospiro un po’ troppo rumorosamente, calmandomi e ritrovando un ritmo più o meno normale del cuore “… ma c’è altro che devo chiederti… devo farlo. E mi devi rispondere…”.

La sequenza di tutte quelle coniugazioni del verbo dovere mi provocano un ulteriore bruciore lacerante allo stomaco, e sono tentata di incrociare le braccia e di sbuffare rumorosamente. Poi tento di darmi un contegno e di ricordare che tutto quello che gli ho detto avrebbe sconvolto anche me, se lo avessi saputo solo adesso. Sentendomi cretina, dico alla sua schiena in tono truce: “Non accetterò un terzo grado, Malfoy… non ne ho né la voglia, né il tempo… condensa tutto in tre domande, ed andiamo avanti…”.

“Me ne bastano due, Granger…” mormora lui, e ha ad un tratto la voce così triste che mi pento quasi del mio accesso di acidità di poco fa. Le viscere mi si torcono dolorosamente, trovo sollievo solo dicendo in tono più gentile: “Due domande… possono andare bene… che cosa vuoi sapere?”.

Si volta improvvisamente, e il contatto con i suoi occhi è così rapido e subitaneo che mi trovo ad annaspare come un naufrago che non sa nuotare. La mia schiena trova il divano, mentre mi spingo indietro, come a volergli sfuggire, prima di rendermi conto di quanto sia inutile. Le pupille dilatate spingono il grigio dell’iride verso il bianco degli occhi, il respiro accelerato crea chiazze rosse sui suoi zigomi e le mani si contraggono a pugno, prima che se ne renda conto. Ho quasi il terrore che voglia lanciarmi contro qualcosa. Poi parla, e capisco. Ha la voce dolce e disperata, piena di rimorso, e pur non volendo, pur non immaginandolo, pur non premeditandolo, la vecchia Hermione trasale dentro di me, si slancia idealmente verso di lui, sogna di abbracciarlo e di cancellargli quel pensiero dal cuore.

“Voglio sapere esattamente che cosa ti ha fatto Dimitri…” biascica in tono affrettato, come se non potesse nemmeno prendere fiato parlando “Tu sei stata molto elusiva nella tua piccola conferenza stampa… ma io… ho bisogno di saperlo…”, la sua voce si abbassa ancora, mentre i suoi occhi si assottigliano, come se non potesse nemmeno sopportare la fioca luce della stanza, ed aggiunge, causandomi un’altra fitta al cuore: “Io… ho bisogno di sapere fino a che punto ho mandato a puttane la promessa che avevo fatto… quella di proteggerti…”. 

Tre secondi, tre miseri e maledettissimi secondi, e io me lo ritrovo di fronte, ad un passo da me, senza che me ne sia nemmeno accorta. Per un attimo, penso di aver avuto una botta in testa, di essere svenuta, o che sia stato lui ad avvicinarsi. Ma Draco ha l’espressione a sua volta troppo sorpresa perché possa averlo fatto lui, ed al contempo, con angoscia, mi rendo conto di essere io quella in piedi, quella lontana dal divano, quella rossa in viso e quella che non ha ragionato agendo. Me ne ero dimenticata, mi ero dimenticata di come perda sempre il controllo quando si tratta di lui, di come il mio cervello vada in cortocircuito quando sento quel richiamo ancestrale come quello di una conchiglia, di come d’improvviso faccia cose che razionalmente non farei. Ho sorpreso persino lui stavolta, mi guarda in modo strano, indecifrabile, le palpebre che tremano leggermente come se i suoi occhi fossero tesi dal tentativo di capire perché adesso, dopo ore, io mi sia avvicinata così tanto. In realtà, non lo so nemmeno io fino a quando non parlo, non apro bocca: per qualche secondo mi sento così rintronata dal suo profumo, che credo di avere ancora un annebbiamento. Ma le mie parole sono così lucide e chiare che mi chiedo dove diamine stessero se la mia mente è così ottenebrata da non poterle ragionevolmente averle formulate.

“Non potevi proteggermi…” sussurro con un filo di voce, un accenno di pianto idiota che mi fa vergognare di me stessa, lui se ne accorge e fa un minuscolo passo verso di me. Il mio corpo non reagisce come vorrei, non si allontana, resta esattamente piantato al suolo dove sono, anzi ho persino l’impressione di essermi spinta più sui piedi, scivolando più in avanti. Proseguo, trattenendo un singhiozzo: “Io… non ho protetto Alex… non ho potuto farlo. E per te è stato lo stesso cinque anni fa… non devi sentirti in colpa o altro…”, sto quasi per aggiungere che potrebbe sentirsi in colpa per ben altre questioni, ma mi trattengo, mordendomi le labbra e distogliendo il viso.

“Dimmelo lo stesso, però…” lo sento bisbigliare con un filo di voce, in un respiro flebile che non gli appartiene “Dimmelo lo stesso… che ti ha fatto?”.

Respiro a fondo, cercando di ricordarmi quei terribili dieci giorni, e non so perché improvvisamente sento che non voglio essere sincera. Voglio mentire, nascondere, celare, cancellare quegli occhi che ha e che non volevo che avesse mai più. Sono stati i giorni peggiori della mia vita, perché negarlo a me stessa? Hayden che peggiorava, la scoperta della gravidanza, il terrore di partorire lì, il disgusto per quello che mi poteva fare Dimitri, la paura che Astoria mi portasse via Alex per usarlo contro Draco, l’angoscia per lui… e poi il buio, la gabbia, le sbarre, la polvere. Senza dimenticare la sera della fuga… le labbra di Dimitri, il suo corpo sul mio, il volo oltre la finestra, lo schianto. Voglio davvero che sappia anche questo? Voglio davvero punirlo per qualcosa di cui non ha colpa? No. Non lo voglio.

Voglio punirlo perché sposa e ama Raissa, non perché ha concesso che mi accadesse questo.

Voglio che si possa difendere… e voglio anche che lui sia innocente, perché così rende innocente me. Io… che non ho salvato nostro figlio.

Quel pensiero si traduce in un ulteriore scoppio di pianto, che reprimo in gola, e che diventa un singhiozzo soffocato che però Draco ode lo stesso. E forse, annebbiato anche lui, ostaggio dell’abitudine di sorreggersi sempre e schiacciato dal pensiero di non vedermi soffrire ancora, mi prende per un fianco e mi attira a sé, abbracciandomi, stringendomi, fino a farmi mancare il respiro. Allaccia le braccia attorno alla mia vita ed affonda il viso tra i miei capelli, piegandosi sulle ginocchia. Sento il suo respiro sul collo, il calco delle labbra che mi resta impresso come se fossi creta, sebbene non mi stia davvero baciando. Ma io già so com’è, ricordo com’era quando mi baciava, e la mia mente mi ripropone l’anticipazione di quella fantasia, facendomi tremare come una foglia. Rimango immobile tra le sue braccia, congelata, raggelata, rendendomi conto che tutto quello che ho fatto fino ad ora, avrebbe dovuto portarmi a restare seduta composta su quel divano, e non qui, tra le sue braccia che ancora profumano di pioggia, di erba bagnata nel mese di settembre. Il mio labbro inferiore trema, lo sguardo fisso nella finestra e nel cielo placido qui fuori, e io resisto, resto ferma, fingo di non essere qui.

E poi, semplicemente, all’improvviso… non ce la faccio più.

È così caldo, così saldo, coì improvvisamente presente dopo anni in cui non lo è stato… che, senza fretta, timorosamente, mi alzo in punta di piedi e chiudo le mie braccia attorno alle sue spalle, reprimendo ancora le lacrime nel fondo dei miei occhi. Non penso a nulla per un momento, a niente, solo che lo voglio vicino, l’ho sempre voluto vicino in questi cinque anni, ed adesso c’è, adesso a suo modo c’è. Chiudo gli occhi, le sue braccia che mi stringono più forte e mi attirano più vicina, e Draco d’improvviso sorride nei miei capelli e dice: “Hai sempre lo stesso odore… i tuoi capelli… usi sempre quel maledetto shampoo alla vaniglia che sa di cupcakes…”. E non so perché è persino giusto adesso che me lo dica, e mi chiedo perché non l’abbia fatto prima, ed è così naturale che mi sembra normale, ed è così tranquillizzante che sorrida daccapo che io sorrido a mia volta, e mi tengo più stretta a lui, perché tanto non mi interessa più niente di niente, se è qui daccapo. E non so nemmeno io che dico, a quel punto, lo rimprovero forse, lo prendo in giro sommessamente o racconto daccapo l’aneddoto di quello shampoo, che è l’unico che ho la certezza assoluta che non sia testato su nessun animale o pianta o elfo domestico. E lui mi dice che se lo ricorda, al supermercato Serenity lo voleva comprare una volta, ma “Raissa odia quel profumo, peggio di come io odiavo la ciliegia”. E per un attimo rido persino, sento solo il calore delle sue dita sulla mia schiena e penso solo ad esso… e poi, così come è arrivata quell’ondata di spontaneità ingenua, se ne va via.

Lasciandomi stupita e stupida, chiedendomi che diamine sto facendo.

Mi sento schiacciata dalle sue braccia, come se soffocassi tutt’un tratto, mentre ricordo tutto quello che dovrebbe funzionare come muro e barriera tra me e lui, ora. C’è Raissa e tutta la maledetta storia che ha con lei; c’è Alex ed il fatto che lui non sappia che sia suo figlio; c’è Ilai e il bacio che ci siamo dati stanotte; c’è il tempo che è scorso tra me e lui, rendendoci estranei. Ed allora comprendo tutta la maledetta idiozia di stare qui a parlare dello shampoo che uso, o delle preferenze che ha Serenity, o di quelle ancora più aberranti alle mie orecchie di Raissa. Sento, d’un tratto, la sua vicinanza come se mi mandasse a fuoco, come se fiamme intense mi corrodessero dall’interno, mangiandomi e consumandomi viva. Al contempo, voglio che si allontani da me… e voglio che mi stringa di più.

Ma siccome questo secondo desiderio è sconvenientemente idiota, mi stacco da lui e mi divincolo con forza. Draco mi guarda senza capire, gli occhi socchiusi e ridotti a due fessure, poi sbatte le palpebre e mette distanza tra me e lui, facendo un passo all’indietro. Gli occhi lucidi che tornano a me e quelli ghiacciati che tornano a lui, sono il segnale che siamo tornati noi stessi.

Quelli formali, ovattati e poco sinceri che siamo dopo cinque anni: ma i soli che, davvero, possiamo essere adesso.

“Dimitri non mi ha fatto nulla…” commento, riprendendo il discorso e portandomi nervosamente i capelli dietro le orecchie, Draco per un attimo sembra che stia per dirmi qualcosa, ma poi abbandona le braccia lungo i fianchi, ascoltandomi apatico “Voleva che io lo desiderassi autenticamente, non voleva costringermi…”, ed era disgustato dal fatto che fossi incinta di te “… ovviamente in dieci giorni non ha ottenuto che nulla di me cambiasse idea… e non l’avrebbe ottenuto nemmeno tra dieci anni…”.

Draco fa un piccolo sorriso, storto, debole, che non gli arriva agli occhi. Scuote il capo e mormora: “Ancora… c’è ancora qualcosa che non mi stai dicendo…”.

“Con le cose che tu non mi hai detto… e che non mi dici ancora… si potrebbe costruire una scala per l’Everest…” ribatto piccata, innervosita dalla cristallinità che ho sempre davanti a lui. Draco fa una risata amara, di gola, priva di allegria, prima di aggiungere: “Facciamo che ti credo… e facciamo che fingo che tu mi abbia detto tutto… e facciamo anche che credo che io non avessi il potere di impedire tutto questo…”, Draco solleva il palmo, fermando le mie ovvie rimostranze, e prosegue, improvvisamente meno arrabbiato e più serio: “Mi devi la seconda domanda…”.

Certo… me ne ero scordata… annuisco, incrociando le braccia nervosamente e sperando che mantenga la promessa di non tirare fuori Alex.

Sono concentrata su un tale numero di possibili cose che avrebbe interesse a chiedermi, che per un attimo, la domanda che mi fa, non raggiunge le mie orecchie, scivola fuori come se fosse acqua. Registro solo la sua espressione serissima, la mascella contratta, gli occhi intenti a trapassarmi da parte a parte come se fossi burro.

“Radcenko… il marito di Tatia…” mormora lapidario, le dita che per un attimo hanno un fremito involontario che tenta di calmare, serrandole “Che cosa siete l’uno per l’altra?”.

Il cuore prende il volo, sbatte contro la gabbia toracica come se volesse schizzare fuori, ed ancora temo di perdere il controllo davanti a lui. Ha l’espressione scavata, gli occhi più chiari che mai, solo lievemente coperti dalle ciocche di capelli bionde. E sembra più alto, improvvisamente, come se mi schiacciasse al suolo, e sembra avere lo sguardo più intenso, come se si divertisse a mettermi a soqquadro la testa. Istintivamente, come una bambina che confessa non avendolo nemmeno pianificato, come se ingenuamente i gesti mi sfuggissero dalle mani prima di rendermene conto, mi porto un dito alle labbra e lo lascio lì, fermo, mentre la mia schiena ancora sussulta della sua domanda. Lo legge subito Draco, lo capisce. Fa un respiro profondo, chiude gli occhi e distoglie il viso, perché con quel gesto inconscio, è come se avessi confessato. Scioccata, stacco la mano dalle mie labbra, la serro dietro la schiena e fisso lo sguardo sul pavimento.

Potrei dirgli che non sono affari suoi… ma a che pro? Non mi interessa che cosa pensa al momento… basta che quello su cui non esprima giudizi, sia la verità. Non una bugia.

E la verità la vomito dalle labbra che conoscono Ilai e non più lui, come se me ne volessi liberare nella maniera più veloce possibile.

“Non stiamo assieme…” dico velocemente, vedo con la coda dell’occhio che si volta e torna a guardarmi “… ma anche se questo non deve interessarti e non devi nemmeno permetterti di aprire bocca… specie adesso… specie per come stanno le cose…”, sospiro ancora e biascico con voce malferma: “Non è un mio amico. Non lo è affatto. E non lo so che cosa sia per me e cosa sia io per lui…”.

Ritengo che sia sufficiente, ritengo che basti: non parlo del bacio, o della connessione che ho anche a livello magico con lui, e non accenno minimamente al fatto che avevo pianificato di andare con lui in Finlandia, prima che succedesse tutto questo. Però, d’improvviso, reputo vitale aggiungere qualcosa e non so se, in questo, sia più forte quello che provo per Ilai o quello che provo per lui. Non so se sto cercando di proteggere Ilai, punendo lui, o se sto cercando di chiarire le cose per impedire che mi si ritorcano contro. Non so nemmeno se è ancora la catarsi di cui parlavo prima.

So solo che, come ho ritenuto impossibile dirgli i particolari della mia prigionia per non farlo sentire in colpa, e come ancora ritengo impensabile dirgli di Alex in queste circostanze, adesso so che deve sapere altro… di me e di Ilai. Perché ho finito di proteggere Draco, a discapito di me stessa. Non dirgli nei particolari cosa mi ha fatto Dimitri, lo protegge ma non mi danneggia, anzi mi fa anche bene non ricordare che cosa mi è successo. Non dirgli di Alex, protegge mio figlio e tanto già basterebbe, se non fosse che protegge anche me. Dirgli di Ilai, probabilmente, gli farà del male… ma a me invece consentirà di riaverlo qui, di fargli sapere che io lo rivoglio qui. Quindi, se mi fa bene, contrariamente a tutto quello che ho fatto in questi anni, io devo dirlo, anche se farà del male a lui.

Alzo il mento con orgoglio e torno a guardarlo. Sebbene le mie intenzioni siano nette, il mio corpo se ne va comunque per conto suo. Arrossisco e pigolo qualcosa di incomprensibile, poi a voce più chiara scandisco: “Ho bisogno di lui… io ho bisogno che Ilai sia qui, adesso…”. Chiudo e riapro la bocca un paio di volte, incapace di proseguire oltre, e distolgo lo sguardo prima di leggere qualcosa in quello di Draco: qualcosa che mi costringerebbe a ritrattare, a mitigare, a accentuare quello che ho detto. Ma la verità, invece, è questa: pura, semplice, netta ed, al contempo, scomoda e sgusciante.

Bisogno: ecco che cosa è, oggi, Ilai per me. E’ un bisogno, al pari di dormire, mangiare e bere. Un bisogno creato dalle circostanze attuali, sicuramente, ma che non cambia natura. È fame di aria nei polmoni, perché lui riesce a farmi respirare; è sete di calore allo stomaco, perché lui riesce a farmi calmare; è insonnia di riposo della mente, perché lui mi mantiene salda in me stessa.

Non so questo che significhi, non so questo che cosa sia, non so se possa chiamarsi amore, affetto, ossessione, attrazione o semplice pazzia.

Ma è un bisogno, adesso, insormontabilmente realizzabile solo da Ilai. Nel bene e nel male, lui è tutto quello che Draco non mi ha mai dato.

E che non ho mai cercato, intendiamoci… nonostante cinque anni fa le cose non fossero facili, non sentivo la necessità di qualcuno che mi mettesse a posto. Ero già a posto: disoccupata, con un brillante destino da cameriera, sconquassata dal presente da babbana, separata dai miei amici e dalla mia vita, e poi innamorata di quello che sarebbe sempre stato l’uomo sbagliato… ero comunque a posto.

Non necessitavo di qualcuno che mi sorreggesse, o mettesse assieme i miei pezzi, se non nel modo quotidiano in cui comunque si ha sempre necessità di dividere la propria vita con qualcuno. E Draco, questo l’ha fatto… per dieci giorni in cui mi sembrava comunque di non avere bisogno di nulla, tranne che di lui, ma l’ha fatto. Però, Pansy aveva ragione: quello era l’inizio, era un passo, ma era solo il primo. L’amore… quello sarebbe venuto dopo. E’ stato sbagliato costruirmi la vita su quei dieci giorni… specie quando ho capito che, adesso, da madre e da donna, io avevo un bisogno diverso. Più viscerale, più intimo, maggiormente legato al fatto che non ero più forte come un tempo… specie adesso. Ron non riusciva a vedermi diversa da quella che sono sempre stata: la ragazzina saccente e sicura, che fingevo di essere. Per questo, lui non placava quel mio bisogno che, per molto, non ho saputo nemmeno esistente, concentrata com’ero su Alex. Draco, forse, potrebbe anche farlo, ma parliamo ormai di ipotesi: avrei dovuto fare un atto di fiducia se Raissa non fosse mai esistita, figuriamoci adesso. Ilai ci riesce, senza che nemmeno pensi di chiederlo. Per questo, è la sola persona di cui sento davvero di avere necessità estrema adesso. Anche Dean, ovvio, mi tratta così, contrariamente a Seth… ma lui ha Pansy e Charisma. Ed è giusto che io non mi appoggi a lui. Ilai, a sua volta, ha solo me.

Dopo qualche secondo, in cui Draco è rimasto in perfetto silenzio e io mi sono limitata a seguire le linee concave del legno di frassino della libreria, la sua voce mi richiama indietro. La tiene ferma, salda, apparentemente sicura, ma dentro ci vibra qualcosa di sordo che stride nelle mie orecchie come unghie sul ghiaccio.

“Bè, è naturale che tu abbia bisogno di qualcuno…” dice quieto, provocandomi un sobbalzo nello stomaco. Lui… quieto non lo è mai. E difatti non lo è nemmeno adesso, non ho neanche bisogno di guardarlo. La sua voce è chiara, certo, ma ha accentuato la parola bisogno con un tale disgusto e nausea che mi fa immediatamente stringere i pugni e contrarre la mascella.

“Mi chiedo solo come prenderà Weasley questo tuo attaccamento…” commenta con voce accorata, siglando ogni parola con ulteriore malcelata antipatia “In fondo, da quello che mi hai detto… hai vissuto con lui per cinque anni… e sono bastate, quanto, due o tre settimane…  e sei invece totalmente dipendente da uno che conosci appena… e che era anche sposato…”.

In quattro secondi, Draco brucia come carta ogni mia resistenza ed ogni mio tentativo di stare calma. Ha scelto ogni parola, ogni dannatissima parola, con l’attenzione di un avvocato che fa un’orazione, cosa che mi fa gemere di nervosismo e respirare come se temessi di prenderlo a schiaffi da un momento all’altro. Ha tirato nella conversazione Ron, quando a lui non è mai fregato niente di lui. Mi ha definita dipendente da Ilai, in modo che il mio orgoglio d’istinto volesse sputargli contro che io non sono dipendente proprio da nessuno. Ha accentuato e sminuito il tempo che è passato da quando ho conosciuto Ilai, così che potessi chiaramente sentirmi un’imbecille che investe tanto in un rapporto che dura da così poco. Ed ovviamente ha anche sottolineato che lui era sposato, così che potessi sentirmi davvero una sciocca ragazzetta cresciuta che si aggrappa a chiunque le stia vicino. L’arte mirata dell’insulto travestito l’ha sempre padroneggiata meglio di me. Ed io, non ho mai nemmeno pensato di impratichirmi con la dissimulazione: perché, difatti, ogni suo insulto va dritto al punto, nella parte più morbida del mio cuore maciullato, nella zona più esposta del mio rimpianto, nel fianco più scoperto del mio ricordo.

Mi volto infuriata, stringendo i pugni, i capelli che mi fustigano il viso, e per un attimo distinguo un sorriso becero e sardonico sul suo volto, come se si aspettasse a breve la mia reazione. Ma ormai sono già sul piede di guerra e nulla potrebbe fermarmi adesso, neanche quella sfumatura lievemente malinconica che ha il fondo delle sue iridi grigie. Hai bisogno di un altro… e non di me. Questo dice. Ma ovviamente è così sepolta che faccio ben facilmente finta di ignorarla.

“Non credo che tu sia la persona più adatta a discutere dell’andamento delle mie relazioni sentimentali…” biascico nervosamente, non preoccupandomi nemmeno di tenere la voce bassa. Draco sorride, stringendo le palpebre, e mi guarda di traverso: “Siamo già arrivati a relazioni sentimentali? Se insisto qualche altro secondo, probabilmente arriverò a sapere il colore delle bomboniere che avete scelto…”.

“L’unico qui che può parlare di bomboniere e relazioni, sei tu!” urlo finalmente, graffiandomi la gola “O ci stiamo dimenticando che sei tu quello che si sta per sposare…?!”.

Mi aspetterei, non senza una certa soddisfazione, che Draco assumesse un’espressione colpita, offesa e vergognosa; che si chiudesse nell’angolo ed incassasse il colpo. Incrocio persino le braccia, mettendo su un sorriso appagato, ma ho ancora dimenticato che Malfoy non è la persona che asseconda le mie aspettative. Mai. E difatti mi sorprende anche stavolta: senza battere ciglio, senza manco cambiare espressione, si passa annoiato una mano tra i capelli e blatera profondamente scocciato: “Ancora con questa storia? Sei rimasta seccante come sempre… peggio di un martello pneumatico…”.

“Ancora con questa storia?!” biascico scandalizzata, guardandolo incredula “Mi stai facendo un processo per Ilai… e tu… tu ti stai per sposare! Lasciamo stare che non è nemmeno normale ed opportuno che tu mi faccia domande su me e lui, e lasciamo anche stare come mi sia saltato in mente di risponderti… ma che ti permetti anche di fare commenti?! Tu, che ti stai per sposare con quella?!”.

“C’è mai stato qualcosa di normale ed opportuno tra me e te?” commenta Draco serio, dismettendo l’espressione ironica ed indossandone una intensa e desiderosa di frugarmi dentro, al punto che sono costretta a stringermi nelle braccia, quasi per proteggermi dal flusso di ricordi che mi colpisce subdolo “Sei sempre stata tu quella che badava a ciò che era giusto fare… a me non è mai fregato nulla di questo… se ho una domanda da farti, te la faccio… allo stesso modo, ora, ho una risposta da darti e te la darò… anche se tu, quella delle cose opportune, non chiederesti mai nulla…”.

“Una risposta?! Su che cosa?!”.

“Me e Raissa…” biascica con ovvietà, roteando gli occhi nervosamente “Ti stai rodendo il fegato per saperlo, ma, come sempre, non ti azzarderesti a fare una domanda diretta nemmeno se ti puntassero la bacchetta alla gola…”.

Punta sul vivo, mi rendo conto che effettivamente l’ho nominata troppe volte per lasciargli intendere che sia indifferente alla questione. In ogni caso, incrocio le braccia con rabbia e sputo fuori velenosa: “Forse perché me ne frega poco di te e Raissa…”.

“O forse perché te ne frega troppo…” commenta lui annoiato, guardandosi le unghie con un’espressione saputa che mi manda il sangue alla testa “Te ne frega al punto che la nomini ogni tre secondi, ma non sia mai che questo io lo capisca, no?”. Ovviamente ci ha preso in tutto, è naturale che me ne freghi di lui e Raissa, ma non voglio assolutamente che capisca fino a che punto. Odio essere rimasta così dannatamente trasparente ai suoi occhi, ed odio anche e soprattutto parlare di queste cose in un momento come adesso: dovrei solo correre fuori a cercare Alex. Eppure, ho i piedi incollati al pavimento. Se poi contiamo che sono vagamente e trucemente rassicurata dal fatto di non poter fare nulla per Alex fino a quando Dean non torna… bè questo spiega perché il mio: “Non dire sciocchezze… se non l’hai capito ho cose ben più importanti a cui pensare…” suoni così debole e fiacco, mentre volto il capo dall’altra parte.

Draco, minimamente impensierito, fa qualche passo e torna a sedersi sul divano, il sole che lambisce per un attimo i suoi occhi e li rende lucidi specchi. Con voce monocolore, riprende: “Ok, d’accordo, lo accetto… diciamo che sono io quello che sale sul palco e racconta la sua vita adesso, dopo che ti sei lamentata per circa quarantacinque minuti… me lo devi un bel momento alla “come eravamo”, no?”.

“Non ti devo un bel niente…” biascico ancora, stavolta più decisa, incrociando meccanicamente le braccia.

“E allora io parlo alla credenza e tu semplicemente aspetti che torna quello di cui hai bisogno, ok?” dice melenso, con la faccia da schiaffi peggiore di questa terra, specie nello scimmiottare daccapo il modo che ho usato per chiamare il rapporto tra me ed Ilai “È un bel compromesso… puoi persino fingere che non mi stai ascoltando e io posso persino fingere di essere impazzito e di stare parlando da solo…”. Rassegnata, sospiro a lungo e decido di tornare a sedermi al mio posto, non prima di aver borbottato acida: “Fai come dannazione ti pare… basta che ti spicci…”.

Draco, contrariamente alle premesse, si prende qualche minuto per formulare le parole giuste: spio con la coda dell’occhio le sue ciglia biondissime fremere e muoversi convulsamente, sopra gli occhi agitati, mentre resta immobile a guardare il tavolino del salone con espressione concentrata ed, al contempo, assente. Credo di essermi incantata qualche secondo, perché quando riprende a parlare, sollevando lo sguardo e beccandomi a guardarlo, ho un piccolo sobbalzo. Lui risponde con un sorriso che non riesce a cancellare, cosa che mi fa sentire una ragazzina di cinque anni, poi si schiarisce la voce, dicendo: “Cinque anni fa… quando ho incontrato te… anzi, quando ho incontrato Astoria che fingeva di essere te… non è stato bello. Mettiamola così…”.

È incredibile come, nella sola parola bello preceduta da una negazione, sia riuscito a mettere tutto quello che deve aver provato: ho sentito la confusione, la rabbia, il dolore, la sofferenza, tutto. Tutto, nel semplice tremito della voce nel formulare quell’aggettivo… mi stringo nelle spalle e sposto senza necessità alcuna il peso da una gamba all’altra.

Draco prosegue, come se non si fosse accorto dei miei movimenti, apparentemente così perso nelle sue parole da non dare peso a me: “Lei ha detto tutto quello che io temevo di sentirti dire ed, al contempo, tutto quello che la parte peggiore di me sperava che tu dicessi, così da costringermi a vivere nella maniera asettica in cui sono sempre vissuto da quando è morta Helena… sono stato sollevato e devastato allo stesso modo. E sollevato di essere devastato e devastato per essere sollevato… e sebbene mi sia successo tanto… tutto, in questa stramaledetta esistenza… non ero più me stesso”. Fa una pausa che occupa lanciandomi una lunga occhiata obliqua, intrisa di qualcosa che non riesco a spiegare, e che somiglia ad una dolcezza guasta che mi scivola dentro, anche se non vorrei.

“Avrai sofferto di più tu, Granger, ovvio e naturale… ma io… come dirlo…” lo vedo cercare a disagio le parole, fino a che si illumina e dice stoico: “Ecco, mi sono perso…”.

Perso… quel maledetto aggettivo mi riporta indietro di cinque anni. Alla sensazione che provavo al Petite peste, ai primi contatti con lui, al momento in cui mi aveva parlato in terrazza, al nostro primo bacio.

È una sensazione orribile, da stringere la gola e da farmi desiderare fuggire dall’altra parte del globo.

Ma trattengo il fiato, respiro a lungo e cerco di calmarmi, imponendomi di ascoltarlo. Dopo che mi hanno portato via Alex, la portata delle brutte sensazioni si è decisamente attenuata.

Draco, intanto, prosegue, sbatto le palpebre e scaccio i ricordi, ascoltandolo: “Quando Helena è morta, ero ben cosciente di chi ero: ero un maledetto bastardo che l’aveva fatta morire e che doveva vendicarla. Quando tu te ne sei andata, io non sapevo chi diamine fossi. L’apatia era un insulto a te e ad Helena, che avete sempre voluto che io vivessi… la vita era una bestemmia a me, che non volevo nemmeno sentirne parlare… e in tutto questo, in tutto questo… la cosa migliore era bere, ubriacarsi, e non pensare, così da non dover decidere...”.

Non sta indorando la pillola, ovviamente, ed immaginarlo così mi fa sentire d’improvviso ancora peggio di quanto già non mi sentissi. Draco solleva lo sguardo, mi incatena ai suoi occhi e mi obbliga a non fuggire, mentre dice fermamente, non abbandonando il mio viso, il sole che lo illumina da dietro come se fosse davvero su un palco: “Tre mesi… ho passato così tre mesi. Nel sollievo di non dover decidere ancora… e nel sollievo che Raissa era con Serenity…”. A quel nome, trasalgo, chiudo gli occhi e mi serro nelle spalle, una spina nel fianco che riprende a pulsare.

Quando riapro gli occhi, Draco è ancora lì, di fronte a me, seduto sul divano, i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani che, come prima, sfregano l’una sull’altra. Vaga sul mio viso per un attimo, gli occhi leggermente spalancati, poi sussurra velocemente: “Lei mi aveva seguito, si era presa cura della bambina, mi portava a letto quando rientravo stravolto…e io… gli ero grato. E basta. Era solo gratitudine, solo amicizia, solo… questo… e certo, ora so che mi dirai che lei mi sorvegliava per Dimitri, che amava Radcenko… ma in fondo, non mi interessa. L’ha fatto… e tanto basta. Mi ha usato e io ho usato lei… sono almeno cosciente di questo… non come altri che si usano a vicenda e nemmeno hanno l’accortezza di ammetterlo a sé stessi…”.

Quell’ultimo commento mi fa drizzare seduta come se fossi colpita da una scarica elettrica: “Se stai parlando di me ed Ilai…”.

“Sto parlando di me, adesso, Granger… piantala con il tuo egocentrismo…” mormora lui, rimettendosi seduto con la schiena poggiata al divano e le braccia incrociate, prima di continuare con un sorriso sbruffone: “…ma la tua coda di paglia è sommamente interessante… giuro che ci tornerò sul punto…”. Non so che cosa mi trattenga dal gettargli qualcosa contro, forse il fatto che il vaso di cristallo sul tavolo costerà decine di sterline e non glielo ripagherei mai. Trattiene quel sorriso da schiaffi per un po’, per poi proseguire atono: “Comunque, andiamo avanti, non sia mai che la credenza si annoi e non mi ascolti più… dopo tre mesi, qualcosa è cambiato. Non so nemmeno io quando e come… o forse lo ricordo ma non credo che siano affari tuoi e te lo dico ben apertamente senza scivolarci sopra, sperando che tu non te ne accorga, come hai fatto tu...”, ancora, sono presa dall’insana voglia di lanciargli una scarpa appresso. Peraltro… tre mesi dopo… facendo un po’ di calcoli, era ottobre, no? Più o meno quando mi sono svegliata in Italia… ed era il periodo del compleanno di Serenity. Ecco che deve essere successo, qualcosa al compleanno di Serenity. I suoi misteri li può decisamente nascondere meglio. “Bè, tre mesi dopo, mi sono reso conto che non poteva andare avanti così…” continua Draco, guardando le sue scarpe e non più me, evidentemente maggiormente coinvolto da quello che mi sta dicendo “E non per me, non per te, non per Helena… ma per Serenity, per mia figlia. Lei sarebbe cresciuta senza di me ed io sono la sola famiglia che aveva e che ha. E lei è la sola famiglia che io ho. Potevo esistere per lei, come avevo sempre fatto, ma vivere davvero questa volta… sforzandomi di farlo per lei. E sperare che un giorno avrei potuto vivere anche per me stesso. All’inizio non sarebbe stato facile, naturale… ma poi chissà, poteva anche venirmi più semplice nel corso del tempo. E nel corso del tempo lo è stato… più semplice, intendo… ci sono giorni, momenti, attimi, in cui la vita che ho fatto e che faccio… mi piace persino. Ed in questo, non c’entri tu, non c’entra Raissa e non c’entra nemmeno Helena. C’entro io… e c’entra Serenity. Sono… e credimi mi fa anche paura dirlo… sono felice di farle da padre…”. Nonostante tutto, nonostante abbia sempre e comunque voglia di buttargli qualcosa contro, non posso fare a meno di sentire una stretta piacevole allo stomaco. Ho sempre desiderato che considerasse Serenity come sua figlia, ho sempre voluto che dicesse che aveva desiderato vivere almeno per lei. Per un attimo, sciocco come tutto oggi, quando si tratta di me e di lui e dell’altalena emotiva a cui ci stiamo sottoponendo, mi sento persino fiera di lui. Sorrido per la prima volta autenticamente da quando l’ho abbracciato, e sussurro incerta: “M-mi fa piacere… magari non ci credi nemmeno, ma…”.

“Ho sempre saputo quando sei sincera e quando non lo sei, Granger…” mi sorride a sua volta, timidamente, piano, come un’alba di gennaio. E mi fa sciogliere il cuore, davvero. Dio, è possibile amarlo ancora in questo modo? Basta che abbia solo un sorriso come questo… e già mi devo attaccare i piedi al pavimento per trattenere l’impulso di baciarlo? Seguo a disagio, il cuore che mi sfonda le orecchie, la linea del suo sorriso, la forma delle sue labbra e mi ricordo distintamente il sapore che avevano. Imbarazzata, arrossendo, distolgo lo sguardo e biascico duramente quasi: “Avresti dovuto rendertene conto prima… ma è bello che adesso la consideri a pieno diritto tua figlia…”.

“Non è stato facile…” sussurra in modo sofferto, respirando a lungo “Non lo è mai, specie quando ricordo che la mia felicità… o quella che ci assomiglia, mettila come vuoi… io l’ho strappata ad Amos. Ma in quei giorni… ed è qui che arriviamo alla parte non normale e non opportuna… quella dove ancora dopo cinque anni, mi sento in vena di darti spiegazioni che non dovresti avere… bè, in quei giorni, ecco…c’è o meglio c’era… Raissa…”.

Ed eccomi strappata di nuovo dal momento di miele, che mi ero erroneamente dipinta addosso. Ma che strappata… violentata, cacciata fuori, gettata in mezzo ad una strada in una notte di tempesta furiosa. Il volto mi va in fiamme e torna l’impulso di scappare via lontana, non posso farcela, non credo di farcela. Non voglio particolari, non so che farmene.

Se mi dice che ci è andato a letto, se me lo confermano le sue parole… non potrei sopportare di sapere che io e Raissa abbiamo condiviso la sua pelle che era solo mia.

Se mi dice che la ama, poi…

… non ci voglio nemmeno pensare a questo.

“Io non ho bisogno di sapere che c’è tra te e lei… vi sposate, no? Credo che sia chiaro tutto… che altro devo sapere?” urlo con voce stridula, alzandomi in piedi e facendo segno di volermi allontanare.

“Nemmeno io avevo bisogno di sapere di te e Radcenko…” schiocca lui la lingua, parlando con voce torbida e tagliente. Si alza in piedi a sua volta, dopo aver seguito i miei movimenti: “Ma si dà il caso che tu me l’abbia detto lo stesso… quindi chiariamo le cose, adesso, come mai siamo stati in grado di fare, Granger… non voglio incontrarti tra altri cinque anni e sapere, di nuovo, che oggi non ti ho detto nulla e ti ho nascosto qualcosa…”, fa una pausa e qualcosa sembra passargli rapido sul viso. Qualcosa che improvvisamente me lo fa percepire più luminoso, più bello, meno arcigno. Sussurra: “…e poi in fondo…”.

“Cosa?” dico con un filo di voce, aggrappandomi allo schienale del divano, catturata dalle sue parole come una stupida falena con la fiamma.

Draco sospira e sembra quasi sconfitto, mentre soggiunge: “In fondo è ancora stupidamente, maledettamente e dannatamente seccante parlare con te… eppure ancora stupidamente, maledettamente e dannatamente… io non riesco ad andarmene da qui…”.

Il cuore, ancora, mi schizza in gola. Perché, secondo te, io riesco ad andarmene da qui? Annuisco e basta con il capo, stringendo forte il tessuto del divano e piegando il collo, così da non guardarlo in faccia.

“Non ti dirò bugie, verità plastificate o elusioni preconfezionate” riprende dopo qualche secondo di silenzio, rotto solo dal rumore dell’orologio “Eccotela la verità… sposare Raissa è una cosa ben diversa, lontana anni luce da quello che c’è tra me e lei… non c’entra nulla. È firmare un pezzo di carta, fare un po’ di scena… ed avere la certezza che Serenity resti mia figlia… anche se lei, con me, non ha nulla in comune”. Resto immobile, come se mi avessero messo in naftalina, improvvisamente la testa diventa nebulosa e fosca nei pensieri che arrancano ed annaspano. Lo guardo senza capire, qualcosa di assurdo che mi accende dentro una fiammella tremula, e che somiglia clamorosamente alla… speranza. La speranza… e io, adesso, non sapevo nemmeno che sapore potesse ancora avere nel mio cervello. Ha dei contorni così malinconicamente dolcissimi da ispirarmi curiosamente il pianto, al punto che sono costretta a nascondermi la bocca dietro il palmo della mano, come se questa semplice mossa mi aiutasse a respirare meglio e a reprimere le lacrime. Non so a che somiglia questa speranza, somiglia d’improvviso alla sensazione calda di una casa dal tetto rosso, di un vaso di gerani in giardino, di una mano stretta su un’altalena, di una risata sfuggita nello stesso momento, di una torta bruciacchiata che si mangia comunque. Assomiglia a quei farinosi ragionamenti che facevo in Italia, che manco erano ragionamenti, ma fantasie… ed erano fantasie di famiglia. Io… Draco… Alex… Serenity.

Ritrovo un battito diverso del cuore, un colorito acceso, una foga eccessiva nell’attendere che parli, un tremito convulso delle dita. Draco, a quelle mie manovre, però, distoglie lo sguardo e continua inespressivo: “Serenity non è una Malfoy, non è una Black. E’ una Diggory… ed è una Greengrass. E tu forse l’hai dimenticato… ma quella famiglia… è alla canna del gas. E se mettessero le mani su Serenity, sulla sua eredità come figlia di Amos… io distruggerei l’ultimo desiderio di Helena, rovinerei la vita di mia figlia… e distruggerei la sola cosa che davvero mi è rimasta…”.

“N-non capisco… spiegati…” chiedo esitante, la speranza cresce, diventa una specie di pallone che si gonfia nel petto, mi sento sospesa su un ciglio da cui so che potrei solo volare via o sfracellarmi al suolo.

Draco, inarcando un sopracciglio, mormora sarcastico, guardandomi di traverso: “Adesso siamo allo spiegati impaziente… non mi stava ascoltando solo la credenza?!”.

“Malfoy…” lo riprendo nervosamente, eppure un sorriso scemo mi scappa lo stesso. Lo caccio subito via, cercando di recuperare il controllo… non mi ha detto niente, in fondo. Ma Raissa… lei potrebbe anche aver mentito… e lui, allora… basta, ascoltalo e basta, Hermione.

“Non siamo diversi io e te…” sussurra Draco, dandomi d’improvviso le spalle e guardando fuori dalla finestra “Ed è per questo che ci siamo anche…”, sussulto, mi stringo nelle spalle, annegando nel suo silenzio imbarazzato che delinea una sola parola: innamorati. Non siamo poi così diversi, ecco perché ci siamo innamorati, questo stava dicendo. Ma quella parola… amore… con tutte le sue coniugazioni e declinazioni, è sempre stata così viscida tra me e lui, ed al contempo così distante dal descriverci nonostante tutto, che l’abbiamo sempre evitata. Anche adesso… nulla è cambiato.

“…ma non è questo il punto…” Draco sospira e continua atono, rivolgendosi al sole che ha raggiunto intanto lo zenit nel cielo, infiammando questa mattina di luglio “Tu hai finto di essere sposata con Weasley, perché così proteggevi anche tuo figlio e per me è sempre stato lo stesso… quando mi sono ripreso, ho desiderato venire qui, nella casa che Helena amava guardare quando ci incontravamo sulla spiaggia. Mi sembrava il giusto punto da cui ricominciare, era come cucire uno strappo, o meglio aprire di più le ferite così da farne uscire il pus. Cominciando qui, immergendomi nel dolore di averla persa… potevo farci i conti con questa cosa. Finalmente. Avevo notato mesi fa… proprio il giorno in cui sei piombata al Petite Peste… che la casa era in vendita… ed ho deciso di comprarla. Il padrone di casa si ricordava distintamente di me e di Helena, lei, poco prima di morire, aveva fatto un’offerta per la casa stessa, quindi in sua memoria mi ha favorito nelle varie offerte, mi ha fatto un buon prezzo, ha accettato un pagamento rateale dato che non ho più accettato nulla dal Ministero. Mi sono stabilito qui con Serenity e Raissa… lei… restava con me perché diceva che aveva problemi con Dimitri. E io l’ho lasciata fare… ebbene, qualche mese fa… il padrone della villa è morto, sostituito da suo fratello nella proprietà della dimora. Io ho sempre chiesto la cortesia al vecchio proprietario di pagare le rate della villa a nome di Helena, allo scopo di non lasciare alcun genere di informazione riguardo a me, né come Danny Ryan, né come Draco Malfoy. Ma, mentre il vecchio padrone di casa accettava sommariamente la transazione, suo fratello per delle irregolarità ha deciso di chiamare Helena, non sapendola morta. Così inevitabilmente i Greengrass hanno saputo che qualcuno sta facendo acquisti a nome di Helena. Non so quanto manchi prima della scoperta dell’esistenza di Serenity. Sarei potuto scappare ancora, certo, ma io ormai…. volevo risolvere la questione una volta per tutte, adottando finalmente in modo legale Serenity così che nessuno me la possa togliere. Ma per farlo, dovrei dimostrare che la bambina, oltre a trattarmi come suo padre e ad essere cresciuta in modo sano ed equilibrato, abbia anche una donna che considera sua madre: in questo Raissa era al posto giusto al momento giusto. Le ho chiesto di fingersi sua madre, e ho anche chiesto a Serenity di chiamarla così, in modo da poter legalmente dimostrare che è cresciuta con noi…”. Tutto… tutto sembra avere un posto adesso… le parole di Serenity sotto il Veritaserum, il fatto che la chiamasse mamma, ma da poco tempo… era per… questo…

“Ho sperato così di poter prendere tempo con i Greengrass offrendoli del denaro… fino a quando avrò sposato Raissa ed avrò adottato Serenity…” Draco si volta finalmente a guardarmi, ha un sorriso un po’ più triste e qualcosa che, ancora, tace nell’espressione. Ancora… c’è qualcosa che non mi sta dicendo “Quindi… come vedi… non è esattamente la favola degli anni duemila… è una persona che tiene a me e a Serenity… o ci teneva, fai come ti pare… e ha accettato di farmi questo favore… vedila come diamine vuoi. L’avrà fatto per tutti i motivi che credi… ma l’ha fatto, o meglio l’avrebbe fatto. E a me tanto bastava. E basterebbe persino adesso… se non avessi saputo di tuo figlio… e del fatto che potrebbe mettere in pericolo anche Serenity…”.

“L’hai… usata… per questo… hai fatto la stessa cosa che hai fatto con Astoria…” commento instupidita, non sapendo d’improvviso che dire, la gola secca.

“Serenity è la cosa più importante della mia vita…” dice lapidario Draco con sguardo sprezzante “Credi forse che non avrei sposato anche il diavolo in persona se non avessi avuto la certezza di tenere lei?!”.

“… ma non era così, vero?” lo interrompo d’un tratto, la speranza che si accuccia in un angolo della mia mente. Il paragone con Astoria ha messo sinistramente in moto il mio cervello. Non era come con lei, non era come con lei… Astoria… lei non avrebbe avuto foto sulle pareti, uno spazio nel suo bagno, un posto nella sua vita. L’avverto subito… come una cosa diversa. Non che mi sarebbe andato bene che avesse usato anche lei, ma considerando che Raissa comunque l’avrebbe sposato, solo per controllarlo ed amando Ilai… bè, la speranza mi avrebbe spinto persino a perdonarlo. Ma non è solo questo… dannazione, non è solo questo. Astoria era un’inquilina mal sopportata nella sua esistenza. Raissa era diventata padrona e regina, al punto da togliere persino alla memoria di Helena il nome di mamma di quella bambina. E so che Draco ci bada tanto, troppo, a queste cose. Non avrebbe mai… lasciato che Serenity chiamasse una qualunque estranea così.

Non avrebbe mai lasciato che lei entrasse così tanto nella sua vita, solo per un mero calcolo anche se indirizzato a proteggere sua figlia.

No… c’è dell’altro… le spalle mi si afflosciano, Draco mi guarda con l’espressione dura, quasi di sfida, mentre biascico più a me stessa che a lui: “Non stavamo parlando solo di un matrimonio interessato… o mi sbaglio? Hai detto… che non c’entrava con quello che c’era tra voi, no?”.

“No…” mormora stentoreo, chiudendo i pugni “Non c’entrava e non c’entra… probabilmente, se non ci fosse stata questa cosa… la storia di Serenity e dei Greengrass… non avrei mai chiesto a Raissa di sposarmi. O l’avrei fatto tra chissà quanto tempo… o l’avrei fatto con un’altra donna… ma lei era qui, e quindi…”.

“Ma lei non era qui solo perché era superficialmente interessata alla tua salute, o perché amava la spiaggia…” lo interrompo di nuovo, innervosita, sta girando attorno alla questione ed è come essere una mosca che sbatte contro un vetro. I palmi delle mani mi sudano, la testa mi scoppia e la speranza incancrenisce, diventando un fango melmoso che mi nausea: “E non rimaneva qui, nemmeno per controllarti con te che la pativi in modo insofferente… era qui anche perché tu la volevi qui…”. Concludo con un filo di voce, sapendo che ci ho azzeccato in pieno.

Aver bisogno di Ilai. Volere che Raissa resti qui. La stessa cosa: siamo proprio uguali.

Ricaccio quel pensiero con rabbia, che idiozia… non sarà mai la stessa cosa.

Draco annuisce spavaldo, guardandomi dall’alto in basso. Sì, la voleva qui.

“Ne sei innamorato?” chiedo nervosamente prima di rendermene conto, dopo aver fatto qualche passo ansioso nella sua direzione ed essermi parata di fronte a lui minacciosamente.

“Che vuol dire innamorato?!” ride lui, in tono derisorio, guardandomi come se fossi un insetto o una bambina stupida “Mi chiedi se era come era con te? Stai diventando improvvisamente prodiga di domande…”.

“Lasciamo stare me allora…” concedo con tono accondiscendente, ma credo che in realtà io questa risposta non la voglio proprio, non sopporterei che mi dicesse di sì. Ma che dico… non sopporterei nemmeno che paragonasse le due cose. Borbotto pedantemente, irritata persino dalla mia voce: “Era come con Helena?”.

“No…” risponde rapido, veloce, senza nemmeno pensarci su, poi prosegue indifferente, come se stesse parlando del tempo, ogni sua parola mi si conficca dentro come una scheggia “E’ sempre stato sesso quando eravamo tristi, e tenerezza da amici del cuore quando eravamo vicini alla felicità. Questo è stato…”. Le gambe mi tremano, gli occhi mi si eclissano e le sue parole sbattono nella mia testa come le onde del mare. Lo sapevo, me l’aveva già detto Raissa, l’avevo già intuito da questa casa… ma, ora… non c’è appello, revisione, terzo grado, grazia, perdono. Niente. Ora davvero sono conscia che sia tutto vero, ed ora che lo so, ora che ce l’ho davanti con quegli occhi grigi pieni di provocazione silente, provo una tale nausea che sento ogni parte di me contorcersi. Temo persino di essere diventata bianca in viso. Ma lui non se ne accorge, non se ne preoccupa, stringe solo le labbra sottili e mormora distaccato: “Che c’è? Non capisci come sia possibile? Vuoi uno schemino? Non è lo stesso bisogno che tu hai di Radcenko?”.

Il sangue che mi va al cervello, sibilo: “Non osare mettere a paragone le due cose, non c’entra assolutamente n…”.

“Perché?! Eh, perché?” mi interrompe, e stavolta è lui ad urlare, è lui ad avvicinarsi a me con aria di minaccia, è lui che non cerca nemmeno di trattenere per un istante la sua rabbia “Perché lui ha l’aria da tenebroso e dannato e ha perso sua moglie, e io invece sono uno stronzo della peggiore specie?! O perché Raissa è un’assassina e tu sei un’eroina da guerra?! Eh, perché sarebbe diverso?! Perché?! Me la sono scopata e mi è piaciuto farlo, mi faceva stare bene, mi annullava il pensiero… e di giorno si prendeva cura di me come una mogliettina affettuosa. Cosa c’è di diverso dal tuo bisogno? Cosa? Io di te non mi sono preso cura… e neanche tu di me. Non ne abbiamo avuto il tempo, benissimo… sarà anche non stata colpa nostra. Ma se Raissa è riuscita a farsi strada dentro di me, e Radcenko ce l’ha fatta con te, perché credi che sia successo? Eh, perché? Perché non ci siamo mai dati quello di cui avevamo davvero bisogno, eccotela la realtà… e l’avrai pensato anche tu, no? Lo so, ci scommetto, te lo leggo scritto in faccia…”.

Taccio, assimilando il colpo: ha ragione, ha maledettamente e stupidamente ragione. Eppure non riesco ad accettarlo, non riesco a pensarlo, non riesco ad immaginare… che io e lui… non siamo stati nulla di diverso da una storia stupida di dieci giorni. Le lacrime mi sgorgano improvvise, scoppiando sul viso come fuochi d’artificio, e d’un tratto vorrei ancora parlare, dirgli di più, dirgli tutto, e non di Alex, ma di me, della vera me, delle notti con Ron, delle novecento tredici lettere, dell’Italia che mi toglieva il fiato, della paura dell’acqua, delle rose, della gelosia per Pansy e per Dean, di ogni dannato momento in cui ho ripensato a quei dieci giorni e me li sono fatti bastare come se fossero stati dieci anni. Dilatavo minuti, distorcevo ore e mi bastava, mi bastava. Ed ora, invece… a che è servito? A che è servito tornare qui? A far rapire mio figlio? Ad uccidermi il cuore… a cosa diamine è servito… non è stato sesso con Raissa… quello… forse un giorno, con il mio bambino vicino, lontana dalla repulsione per la rapitrice di nostro figlio… forse, dico forse, l’avrei accettato…  ma non… tenerezza da amici del cuore… cosa diamine è? Forma edulcorata e stanca di amore? Patetico pudore di non chiamare le cose con il loro nome? Ultima difesa del moribondo sentimento che ci ha uniti? Che cosa diamine è?

Una parte di me, mentre singhiozzo, mentre lui mi guarda quasi digrignando i denti, restando freddo e convinto che come sempre io stia facendo due pesi e due misure, mi suggerisce che anche io ho fatto lo stesso. Anche io ho promesso ad Ilai di stare con lui, anche io mi sono fatta abbracciare da lui, anche io ho lasciato che mi entrasse nel cuore… ma è facile mandarla via questa parte codarda di me stessa.

Io ho davvero ceduto solo ieri sera, baciando Ilai. Ieri sera… dopo cinque anni.

Lui ha ceduto tre mesi dopo avermi lasciata… ed io… ero ancora in coma in Italia, incinta di suo figlio.

Glielo vomito addosso, pazza, ormai non più conscia di me stessa in nulla: “Con la differenza che per me questo è successo ieri sera… ieri sera, maledizione, ieri sera ho lasciato che mi baciasse… non cinque anni fa…”.

“E invece tuo figlio è stata una scopata occasionale? O te l’ha portato la cicogna?”.

Lo dice di nuovo con una risata sardonica, crudele, malvagia. E capisco che mi ha mentito la sua faccia, il suo viso, i suoi occhi… ha notato di Alex, ha notato che non è figlio di Ron, ha notato che non è nemmeno figlio di Ilai. Ma non ha concluso per quella che era la soluzione più ovvia del rebus, se solo davvero mi conoscesse, se solo davvero sapesse di me e di questi anni e quindi potesse intuire che poteva essere solo il suo di figlio.

No.

Stava con un’assassina che amava un altro e gli andava bene, gli andrebbe anche bene adesso, se non avesse messo in pericolo Serenity.

Ma io… io che sono madre di suo figlio, io che ho baciato solo due uomini dopo di lui ed entrambi, in modo diverso, per salvarmi la vita, perché anche Ilai la vita me l’ha salvata…

Io… che l’ho amato sempre in cinque anni, senza dubbi, senza scappatoie e senza incertezze.

Io, invece, sono una puttana che mi sono fatta qualcuno una sera, al punto da concepire un figlio.

Lo schiaffeggio con tutte le forze che mi sono rimaste, sibilando poi, colma di odio: “Non ti azzardare a nominare più mio figlio”.

Resta immobile, il mio schiaffo non lo sposta nemmeno di un passo. Si massaggia solo la guancia arrossata, socchiude gli occhi e mi guarda come se stesse per sputarmi in faccia: “E tu non ti azzardare a rimettere piede qui… aspetta Radcenko, sposatelo, fai quello che ti pare… basta che te ne vai da qui…”.

“Me ne sarei andata ore fa… se non fosse stato per te e Seth…” aggiungo, facendo qualche passo indietro ed asciugandomi nervosamente il viso “Io non ti perdonerò mai. Mai…”.

“Non mi pare di avertelo chiesto…” soggiunge a voce bassa, guardandomi con sussiego “Non sei la dispensatrice del perdono universale, Granger… vattene via di qui… e lasciami in pace una buona volta…”.

Non me lo faccio ripetere due volte: non lo guardo neppure un’altra mezza volta, mi volto su me stessa ed attraverso correndo il salone, aprendo la porta con rabbia e disperazione.

Vorrei solo scappare, fuggire fuori, prendere aria… ma invece vado a sbattere contro una persona che stava aprendo la porta nello stesso momento.

L’odore delle violette mi avvisa subito di chi si tratta. Pansy.

La guardo per un attimo con la vista annebbiata, sconvolta, atterrita, improvvisamente persino desiderosa di una sua parola mordace, che mi faccia uscire fuori da queste sabbie mobili in cui si è trasformata poco a poco questa giornata. So che lei capirebbe, so che magari mi rimprovererebbe, so che comunque in ogni caso sarebbe qui con il suo sdegno algido da Serpeverde… lei sola, al mondo, in questa stanza, è madre come me, è donna come me, è innamorata come me. Resto immobile, guardandola, mi sento figlia anche se non dovrei, ho gli occhi che non trattengono le lacrime, il labbro che sanguina per la forza che ci ho messo mordendolo, e l’aria di una che è sopravvissuta ad un disastro nucleare, nascondendosi sotto una pila di cadaveri.

Pansy ha i capelli spettinati, l’espressione stravolta, il volto rosso e gli occhi accesi: persino il suo abito nero è spiegazzato e ha annodato malamente il foulard con le rose attorno al collo. Ha parlato, ha detto qualcosa, ma io non l’ho sentita. Non sono riuscita a capire che stesse dicendo ed ora sembra più calma, meno agitata. Mi guarda e basta, nelle iridi di ardesia scatta comprensione ed empatia, ma le ricaccia subito indietro, gettando uno sguardo di ghiaccio nero alle sue spalle in direzione di Draco.

“Mi dispiace per Alex…” dice solamente, e la vedo stringere forte la mano che tiene a Charisma, che non avevo notato e che è accanto a lei, intenta a guardarmi fissa, gli occhi azzurri spalancati sul mio viso in lacrime. Mi asciugo malamente le guance ed annuisco, tirando su un sorriso smunto che tranquillizzi almeno la bambina.

“Lo so…” sussurro senza forze, mentre lei piano si ricompone e impacciata mi mette una mano sulla spalla, dandomi una specie di goffa pacca “Lo troviamo… stai tranquilla…”.

Annuisco ancora, improvvisamente la dimensione della scomparsa di mio figlio mi prende daccapo, causandomi una vertigine indolente che controllo solo chiudendo gli occhi.

“O Dio santissimo, ancora qui sei?” la voce di Pansy è tagliente e severa, quando sfiora di nuovo le mie orecchie e si infrange alle mie spalle, ricordandomi di Draco e del discorso appena avuto con lui. Un conato di vomito mi fa trasalire e mi siedo pesantemente su uno sgabello basso, prendendomi la testa tra le mani e cercando di calmarmi, isolando la mia mente dalle immagini di lui e Raissa assieme, oltre che da quelle ormai celeberrime di Alex in pericolo, che piange, sanguinante o connesso a Dimitri per sempre. Solo dopo un po’, mi accorgo della manina di Charisma che stringe forte le mie dita. Sorrido, alzando il capo, e la piccola mi sorride a sua volta in modo caloroso e luminoso, al punto che mi sento rincuorata senza alcun motivo. Le stringo la manina senza dire nulla, e lei ride felice.

Draco, dopo qualche secondo di silenzio, risponde acido a Pansy: “Questa sarebbe casa mia, fino a prova contraria…”.

“Ti pagherò l’affitto per l’uso del tuo mefitico ossigeno da carogna…” biascica per nulla impressionata Pansy, sollevando le sopracciglia con aria fintamente innocente “La tua fidanzatina assassina e traditrice… dove potrebbe essere? Lo sai?”.

Certo che lo so… non sono corso da lei solo perché avevo una terribile unghia incarnita al piede sinistro…”.

“Peccato che non ti sia incarnito anche altro, tipo… non lo so… la lingua…” riprende Pansy senza nemmeno cambiare espressione “…dato che la Granger ha appena perso suo figlio… e scommetto che a te è saltato in mente persino di raccontarle di te e della consolatrice dei vedovi…”, giuro che questa me la segno, Pansy Parkinson che mi difende davanti a Draco Malfoy “… comunque visto che sei utile come un ombrello nel bel mezzo di uno tsunami, e visto che a me del tuo raccontino porno soft da sfigato non interessa nulla, potrei continuare la mia conversazione con la Granger con te che magari ti eclissi e sparisci nel tuo giardino, nel tuo bagno o da qualche altra parte? Prometto che lo pago l’affitto dell’aria che consumo… sarà insalubre, ma devo pur sempre sopravvivere…”.

“Ma Thomas allora deve essere davvero impotente…” erompe ancora del tutto indifferente Draco, guardando Pansy con una smorfia dispiaciuta che sembra finta come una moneta da sette sterline “Questa si chiama frustrazione sessuale in piena regola…”.

“Se… questa, qualsiasi cosa tu alludi, si chiama in qualche modo… si chiama ormoni da seconda gravidanza in quattro anni di un uomo che se la cava decisamente meglio del mio primo fidanzato…”.

Per qualche secondo, sono certa di aver capito male: ho le orecchie che fischiano, il cervello ingolfato e le lacrime che non ne vogliono sapere di smettere di scendere.

Poi capisco, ed è come una specie di esplosione di suoni e parole che provengono da ogni direzione, che intonano un coretto al quale tutto sommato mi unisco anche io e che ripete che Pansy è incinta. Seth, che come era prevedibile stava ascoltando tutto probabilmente da ore, entra nella stanza saltellando, Pansy gli ingiunge di smetterla e mi chiede quando tornerà Dean e se “tornerà tutto intero dalla missione che gli ho affibbiato” e io mi congratulo con il primo vero sorriso senza pensieri della giornata.

Che ovviamente dura poco, pochissimo… perché Draco è ancora lì, dall’altra parte della stanza, a braccia conserte che, per un attimo, guarda me in modo indecifrabile e poi scappa via, gli occhi grigi lontani. E io ripenso che, quando ho saputo che ero incinta di Alex, non c’erano palloncini, feste e risate gioiose. C’era polvere, sangue e sbarre.

Alla fine, dopo la notizia, Pansy decide finalmente di dover parlare anche lei con Draco. Non che lo faccia con la massima tranquillità, anzi storce il naso, simula nausee mattutine da gravidanza che le sono spuntate solo adesso e ripete ottanta volte “di quanto sarà contento mio marito Dean Thomas, che è un vero ed autentico stallone, roba che di notte non posso nemmeno dormire per un’ora consecutiva”, cosa che, mio malgrado, mi provoca un accenno nervoso di risate che mi soffoco in gola, represse solo quando vedo la faccia basita e schifata di Draco che evito comunque di fissare.

Recuperata la calma, io, Seth e Charisma li lasciamo soli nella stanza, chiudendo la porta. Seth, imbarazzato ed ancora impossibilitato a guardarmi in faccia, mormora che va a telefonare a Kevin, dato che è da tempo che non si fa sentire. E io resto sola con Charisma, meditando se non sia il caso di andarmene e non tornare più.

Poi concludo che devo aspettare Dean per sapere della collana… e, adesso, a maggior ragione, devo e voglio aspettare che Ilai torni. Quindi resto seduta sulle scale che portano al piano superiore, i gomiti sulle ginocchia, mentre Charisma gioca con qualcosa, seduta accanto a me.

“Zia!” la voce di Charisma mi fa sobbalzare, mi devo essere assopita senza rendermene conto. Mi volto alla mia sinistra dove Charisma si è seduta sul gradino sotto il mio, e mi guarda fisso con gli occhi azzurri accesi, che Dean mi ha raccontato aver preso da sua madre. E’ impossibile non sorridere a questa bambina, ti strappa pur non volendo pieghe delle labbra che non sapevi nemmeno di avere. Per quello Alex la adora. Con un groppo in gola dico: “Dimmi Char…”. Il groppo non passa, anzi diventa ancora peggiore, quando penso che ho chiamato la bambina esattamente come la chiama Alex.

“Io e Biscotto abbiamo deciso che quando torna Alex, dobbiamo andare alla spiaggia…” dice convinta, mettendo su un broncio che mi intenerisce come non mai, sciogliendo il groppone del respiro “Perché Alex è proprio scemo, e non sa nuotare! Quindi se parliamo al mago cattivo e gli diciamo che Alex non sa nuotare, lui ce lo deve ridare per forzissima!”.

“Certo piccola… hai proprio ragione… ce lo deve ridare per forzissima…” sussurro con un sorriso, nascondendomi una lacrima nel palmo della mano, mentre Charisma batte le mani contenta.

Sono ancora in preda a quella strana sensazione di pace senza spiegazioni che Charisma mi ha istillato, che sento un pop provenire dalla cucina, pochi istanti prima che Dean compaia di nuovo davanti a me. 

“Ciao papà!” urla Charisma, alzandosi in piedi e correndo ad abbracciargli la gamba sinistra, su cui cerca di arrampicarsi. Dean sorride, la prende in braccio e le mormora canzonatorio: “Ciao ragnetta!”.

Li guardo con un sorriso mesto che vorrei davvero non avere, adesso: immagino l’espressione che assumerà Dean quando saprà che sta per diventare padre per la seconda volta. Lui è nato per essere genitore, l’ho sempre saputo, credo che sia perché è un bambino anche lui, in fondo. Charisma, difatti, adora suo padre, la vedo spesso intrattenersi in lunghissimi discorsi o giocare nelle maniere più buffe con lui. Me la vedo già, frizzante adolescente, confidarsi con più facilità con Dean che con sua madre. Quando stavamo assieme, una cosa che mi tranquillizzava spesso se facevo progetti su me e lui, era pensarlo padre dei miei figli. Sono contenta che questo non sia cambiato, che la mia previsione si sia realizzata, anche se non per i miei di bambini.

Ho accostato tante figure all’immagine del padre che avrei voluto per Alex, dicendomi sempre che nessuno sarebbe stato come Draco.

Adesso, oggi… vorrei davvero che Alex fosse nato da nulla, senza avere a che fare con lui.

Dean, dopo qualche minuto, esorta Charisma ad andare a prendere Biscotto di cui deve mostrargli un nuovo gioco, e si siede accanto a me, sospirando a lungo. Mi guarda di sottecchi, sono ben certa che le ombre lunghe sul mio viso mi stiano scavando i tratti di ulteriore stanchezza ed angoscia, dato che Dean asserisce senza domandare, ma solo constatando: “E’ andata male…”.

Annuisco e basta, stringendomi nelle spalle, prima di aggiungere che non ho voglia di parlarne al momento e che sono, invece, interessata a sapere che cosa ha scoperto del ciondolo. Dean sorride in modo tirato, poi mi chiede: “Prima che iniziamo a parlare… Pansy è tornata? Non stava benissimo in questi giorni, sempre con la nausea, le vertigini… e quando esce di casa da sola… ho sempre paura che svenga da qualche parte…”. Sorrido, dicendo che sta parlando con Draco, e Dean si sistema meglio seduto, rincuorato, non sapendo ancora che il malessere della moglie ha la migliore delle spiegazioni.

“Ovviamente non dirle che mi sono preoccupato per lei…” borbotta come un adolescente scornato, che non vuole far sapere che si interessa ad una coetanea, perché fa troppo poco figo. Mi viene ancora da sorridere, mentre annuisco: sono una coppia, a loro modo, fantastica. Scommetto che lei sa che lui si preoccupa, e scommetto anche che lui sa che va esaltando le sue doti amatorie davanti agli ex fidanzati, ma non sia mai che se lo dicano in faccia tra loro. Dopo la conversazione tra me e Draco, dopo l’iceberg freddo che mi perfora lo stomaco convincendomi persino che la sola cosa che ci unisce è il fatto di avere un figlio assieme, ma di cui lui adesso non sa nulla… guardo Pansy e Dean con molta meno invidia, e molta più tenerezza.

Per quello che hanno costruito, che adesso so che non sarebbe stata una cosa scontata nemmeno restando con Draco; per l’equilibrio che li consente di restare sé stessi, nonostante tutto; per la serenità allegra che ha Charisma, che non ha paragoni, mio malgrado, con quella di Alex e nemmeno con quella di Serenity. Sono tre bambini completamente diversi, sebbene amati allo stesso modo.

Alex è un bambino allegro ed intelligente, ma sente quando sono triste, lo percepisce e cambia quello che dice e che vuole in base a ciò che sento io.

Serenity, per quello che mi è parsa, è una bimba dolce ed educata, ma ha dei gesti, dei modi, delle posture innaturali, ancora come una cresciuta nel velluto di una protezione persino asfissiante.

Charisma è divertente, scanzonata, spontanea, spiritosa, in costante scoperta del mondo, che esplora in un modo fiducioso ed aperto, come se Dean e Pansy avessero davvero evitato per anni, nel modo più discreto possibile, che qualcosa la toccasse senza che però lei se ne sentisse soffocare.

Giuro che, se mai un giorno avrò un altro figlio, ripenserò sempre a come Pansy e Dean hanno cresciuto Charisma.

Finalmente Dean inizia nella sua spiegazione, borbottando che la negromante che ha contattato, grazie a delle sue conoscenze sparse sempre in ambasciata, aveva l’aspetto di un transessuale malaysiano e parlava pure per filastrocche, però ha riconosciuto subito il ciondolo e ha detto immediatamente che è qualcosa di molto potente, intriso di magia bianca.

“Così potente da andare anche contro il potere di Adamar?” chiedo speranzosa, guardando meglio Dean. Lui arriccia il naso e spiega con voce incerta: “Non ne sono sicuro… o meglio la negromante non ne era sicura. Cioè, ovviamente, sai che in pochi sanno di Adamar… e difatti lei non sapeva chi fosse. Ho parlato di una fortissima fonte di magia nera… e l’ho paragonata a quella di Colui che non deve essere nominato… anche se…”.

“Voldemort non era nulla in confronto ad Adamar e a quello che può darti…” completo sconfitta, le spalle che si afflosciano.

“Esattamente… però se almeno poteva andare contro di lui, possiamo intendere che abbia degli effetti contro Adamar, no?”. Annuisco pensosamente, non del tutto convinta, mentre Dean prosegue, cercando di dirmi tutto quello che sa nei dettagli: “Lei dubitava che si potesse parlare di sconfitta o di morte, o di grave menomazione… in breve non potresti ordinare al ciondolo di ammazzare Dimitri e Raissa anche se per proteggere tuo figlio. Ogni desiderio esprimibile, che è solo uno naturalmente, è in ordine alla protezione di Alex. Ma anche se loro attaccassero direttamente lui, e tu volessi salvarlo, la negromante dice che devierebbe il colpo, ma difficilmente compirebbe azioni risolutive come quella di uccidere o privare quei due della loro Magia… specie se ha un’origine oscura…”.

Ad ogni parola di Dean, mi sento sempre più tradita: è come se avessi investito tanto, troppo, nel dono di Tatia ed adesso mi rendo conto che molto probabilmente, non potrà fare nulla di che. Come faccio allora a salvare mio figlio? L’ansia minaccia di sopraffarmi, quindi chiedo sbrigativa: “E quindi? Che cosa può fare?”.

Dean si sistema meglio sul gradino e noto ancora lo sforzo che sta facendo, per non tralasciare nulla: “Il potere del ciondolo è un catalizzatore di magia bianca, per la protezione di un figlio da parte di una madre… ha la stessa base della magia che salvò Harry, grazie all’intervento di Lily Potter… ma anche in quel caso, se ben ricordi, salvò il figlio ma non uccise il Signore Oscuro o lo privò dei suoi poteri. Lo pose in una forma innocua per il bambino… stavolta, però, non si potrebbe nemmeno sperare in qualcosa del genere: là c’era più squilibrio di forze, la magia di Lily fu veicolata con un sacrificio…”, Dean si ferma e mi guarda seriamente, presagendo nei miei occhi il pensiero che sto avendo e cioè che potrei anche io morire per Alex: “E no, non ci pensare nemmeno a morire… sarebbe inutile, comunque… l’hai detto anche tu. Colui che non deve essere nominato era un bimbetto dell’asilo in confronto al potere di Adamar… stiamo parlando di un demone millenario, messo lì chissà da chi e chissà perché… moriresti e a lui probabilmente provocheresti un dolore pari alla rottura di un’unghia… ed Alex a quel punto non avrebbe nessuno che lo salvasse…”.

Taccio con frustrazione, guardandomi le scarpe, ed annuisco controvoglia: purtroppo ha ragione.

Certo, io non ho a che fare con Adamar, ma con Dimitri e Raissa: ma il loro potere viene da lui. Ed è un potere malato, perverso, folle ed incomparabile.

Se solo Adamar fosse stato interessato a Voldemort… deglutisco con terrore, difficilmente tre ragazzini come me, Harry e Ron, l’avremmo mai potuta avere vinta su di lui.

“La negromante ha detto che anche desideri generici sono pericolosi…” continua Dean, la voce più tranquilla dopo il mio cenno di assenso “Cose come salva mio figlio o portalo qui… è una Magia che ha una sua logica, una sua mente, un suo destino… potrebbe concludere che salvare Alex è allontanarlo definitivamente da te… o persino ucciderlo per impedire che soffra ancora… è troppo instabile, catalizza appunto le emozioni materne… e tu sei preoccupata, agitata, sconvolta. Realizzeresti una cosa negativa, pur non volendo, dando adito alle voci nefaste che hai nel cuore… ”, gelo come se fossi immersa nel ghiaccio, improvvisamente la superficie del ciondolo che mi tocca la pelle del collo mi dà i brividi. L’avevo visto come qualcosa di rassicurante e caldo, adesso mi pare un serpente pronto a strozzarmi.

“Per questo devi essere molto specifica, quando formulerai il desiderio…” soggiunge Dean, guardandomi dritto negli occhi “In modo da isolare la tua mente e renderla meno permeabile…”. Mi chiedo onestamente che cosa resti ancora da chiedere. Pensavo di poter salvare Alex così, o di poterlo portare qui, oppure di eliminare Dimitri e Raissa. L’ansia, ancora, mi chiude la gola, annaspo e cerco di concentrarmi sul mio respiro come mi ha insegnato Ilai, per prevenire gli attacchi di panico. A calmarmi davvero, però, sono le successive parole di Dean che mi sorprende come non mai.

Nel miasma di agitazione che mi travolge, capisco quanto sia vitale avere qualcuno vicino che pensi a mente fredda e lucida.

Difatti, Dean mi appare estremamente sicuro mentre dice: “Mi pare ovvio che la sola cosa che possiamo chiedere al ciondolo è di liberare Alex dalla connessione con Dimitri…”.

Il volto mi va in fiamme per il sollievo e la gioia: ha ragione, è un desiderio sufficientemente specifico, ha come fine la protezione di Alex e non si scontra troppo con il potere oscuro dei Karkaroff. Se riuscissimo, infatti, a liberarlo da questo collegamento, almeno avrei la certezza che, smaterializzandomi con Alex, lui non possa subire conseguenze da Dimitri in ritorsione. Ovviamente, mi resta da elaborare un piano su come trovare i Karkaroff, ingannarli, prendere tempo, convincerli magari che ho anche ucciso Ilai e Draco… ma se tutto questo mi riesce in qualche modo, Alex è salvo.

Abbraccio Dean di slancio, ringraziandolo, è la soluzione più giusta e normale ed io sono davvero arrugginita per non averci pensato da sola. Dean sorride e mi accarezza goffamente la testa, dicendo che non c’è problema, che tutto si risolve e che riporteremo mio figlio a casa, costi quel che costi. Poi, però, diventa improvvisamente serio, la mano che mi aveva poggiato sulla nuca scivola via ed io mi sollevo a sedere, osservando i suoi occhi dorati che tornano su di me un po’ tristi ed un po’ preoccupati.

“Cosa c’è?” chiedo, tornando a guardarlo e rabbrividendo leggermente, mentre lui sorride in modo tirato e mi sussurra: “Adesso viene la parte peggiore, Herm…”.

“Peggiore?!”.

“Il ciondolo… non ti ho detto come funziona…”.

Mi artiglio alla manica della sua camicia, spaventata, immaginando tutti i modi più neri e macabri per utilizzare questo ciondolo, cosa che alla fine renderà la cura peggiore della malattia e mi porterà a considerare impossibile l’uso dell’unica speranza di salvare Alex. Ma le prime parole di Dean mi sconcertano per la sua semplicità, sebbene resti teso e nervoso: “Ci vuole solo del sangue… e una formula magica…”. Inarco un sopracciglio, ancora non riuscendo a seguirlo: certo, non mi ha detto quanto sangue ci vuole, potrebbero anche voler dire che ci vogliono pinte di sangue così da farmi restare dissanguata, ma, a parte in quel caso, non ci vedo niente di strano o preoccupante.

Dean prosegue, evitando il mio sguardo, gli occhi nocciola che puntano lontano, seguendo qualcosa che vede solo lui: “Ci vuole il sangue della madre, ovvio… poche gocce, niente di che… ma ci vuole anche il sangue del figlio…”, mi sgonfio e il petto diventa una lastra di ghiaccio, come una lapide che mi tiene seppellita. Eccola la fregatura… il sangue di Alex… che non è qui, al momento.

Apro e chiudo la bocca un paio di volte, in apnea, pensando a qualche soluzione, ma Dean mi precede e torna a guardarmi, un ulteriore piega mortificata negli occhi: “La negromante ha detto che non è questo il problema… il sangue del figlio può anche essere ricreato… anzi forse, dice, la mistura sarebbe persino più potente e garantirebbe una protezione maggiore…”.

Ricreato? Che significa?” chiedo, un terribile sospetto che mi si affaccia dentro, causandomi un tonfo al cuore.

Dean mi stringe la mano e la tiene stretta forte nelle sue.

“Il sangue di Alex…” sussurra Dean a bassa voce, quasi temendo di farsi sentire da qualcuno, le mie mani graffiano quasi le sue, mentre lo tengo stretto: “Il sangue di un figlio è creato dall’unione del sangue di due persone… la madre… e il padre…”, Dean accentua quell’ultima parola con fermezza traballante, si rifrange su di me e mi costringe al mutismo, mentre la testa pensa che ancora, quando decido qualcosa, la vita ha sempre la consuetudine bastarda di lasciarmi prendere una decisione solo per poi divertirsi a vedermela smontare.

La sola speranza di salvare mio figlio è il ciondolo di Tatia. Il solo modo di far funzionare il ciondolo, anche senza Alex, è il sangue di suo padre.

Dovrò dire a Draco che Alex è anche suo figlio.

 

Sapete che di solito da un bel di tempo, tendo a non scrivere nulla nei capitoli, diciamo che ho altre vie, spesso, per comunicare con chi segue la mia storia e quindi spesso me ne dimentico, presa dall’ansia di aggiornare con i miei soliti ritardi mostruosi. Poi davvero certe volte mi auto-convinco che questa storia stia su EFP quasi per caso, che nessuno la curi eccessivamente, che posso anche limitarmi a parlarne solo con chi ne parla assieme sul gruppo di facebook… e poi arriva una recensione improvvisa, un commento, e mi squaglio rendendomi conto di quanto questa storia, che va avanti da anni, e di cui adesso mancano circa 4/5 capitoli alla fine, sia seguita. Halft oggi ha 40 capitoli, 466 recensioni, 273 preferiti, 100 da ricordare e 392 seguiti… e quando l’ho iniziata a scrivere anni fa, per gioco, non immaginavo niente del genere. Quindi il mio oggi è prima di tutto un grazie, enorme come una casa, per chi legge questa storia, per chi la commenta, per chi fa tanto per me ogni giorno, per la mia armata halftiana, per chi perdona ed accetta i miei ritardi che vorrei che fossero minori, ma che purtroppo, mio malgrado, sono sempre presenti. Halft sarà completata, ma con i miei tempi, purtroppo: questo capitolo sarebbe arrivato prima, se il mio pc non l’avesse distrutto. Metteteci anche un po’ di cattivo umore e il mio desiderio di finire una dramione incompleta… e i tempi si sono allungati al punto che sono stata costretta a dividere questo capitolo in due. Sono perfezionista e pazza, perciò purtroppo dovrò sempre dirvi che Halft non sarà mai aggiornata celermente… ma spero davvero che resterete ugualmente con me…J Per le recensioni, io spesso rispondo in ordine sparso, sono davvero un disastro… o me ne dimentico… quindi cercherò di rispondere a quelle dello scorso capitolo che mi mancano, in tempi brevissimi, specie di chi non frequenta il gruppo… grazie davvero ancora dell’enorme pazienza che avete con me…L

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Capitolo 41
*** You weren't there part 2 ***


Capitolo 41 – You weren’t there part 2

 

Il sangue di Draco. L’ho visto ben più volte di quanto sarebbe normale.

Una volta, da ragazzina, mentre giocava una partita di Quidditch. Quando Fierobecco lo aveva colpito al braccio. A Grimmuald place, una sera in cui era stato ferito durante un’operazione contro i Mangiamorte. Nello scontro finale, quando eravamo nella tenda del pronto soccorso. Nei suoi ricordi con Helena. Quando si era scontrato con Astoria. Quando aveva litigato con Dimitri.

Il sangue… era la cosa che, in passato, mi avrebbe sempre tenuto lontana da lui. La purezza di quel sangue e la sporcizia nel mio, erano discrimine ed argine che ci avrebbero tenuti divisi per sempre. Per questo, quando avevo visto quel liquido rubino, spesso mi ero data pena di osservarlo più del necessario. Non trovandoci, come ovvio, alcuna differenza.

Rosso, dall’odore ferrigno, dalla consistenza densa: era esattamente come il mio, portava alle stesse lacrime di dolore se versato, aveva la stessa funzione necessaria di trasportare vita.

Addirittura un giorno, in guerra, a causa di una sua ferita particolarmente emorragica, mi fu chiesto il mio gruppo sanguigno, in modo che, se le cose si fossero messe male, si potesse valutare la possibilità di una trasfusione. Avevamo persino lo stesso gruppo sanguigno, 0 positivo lui e 0 negativo io. Lui a me non poteva donare sangue… ma io a lui sì.

Non arrivammo a questo, il sangue ce lo siamo mescolati nella più comune delle maniere, con l’amore e quello che ci sta attorno, ma mi ricordai di questo particolare, quando nacque mio figlio.

Il suo sangue… era quello di Draco. 0 positivo.

Avevo annotato questa cosa il giorno della sua nascita con un sorriso mesto. La stirpe dei Malfoy era stata definitivamente sporcata, forse gli antenati si stavano rivoltando nelle loro tombe fredde, ma quel segno, quel minuscolo impercettibile segno, recava in sé la traccia di una colpa quasi cancellata, nella purezza che veniva data a mio figlio nel sangue gemello di suo padre.

Ora quel sangue è anche la sola chiave di salvezza di Alex.

Ho pensato tanto, ore intere, mentre Draco ancora discuteva con Pansy, ad un modo che comportasse non dirgli di suo figlio, ma assicurandomi il suo sangue. Dean ne aveva di metodi per farlo, tutti poco ortodossi, ma che in fondo mi hanno fatto sorridere. Qualcosa dentro di me, di mogio, spento, sordo e pigro, si era mossa in modo imprevisto, ed è stata davvero come una ferita da cui gocciava sangue e che minacciava di farmi morire dissanguata. Uno stillicidio che mi rendeva debole, di secondo in secondo, sempre più annebbiata, sempre meno lucida, sempre meno presente a me stessa, mentre in testa prendeva forma un pensiero che non saprei definire se positivo o negativo.

Tatia, Helena… il loro continuo collegamento con me, i miei sogni su di loro, mi hanno reso più aperta ed attenta ai segni che la vita mi dà sotto la forma delle più impensabili delle coincidenze, quelle che io per inciso, non so nemmeno quanti decenni fa, odiavo perché sembravano togliermi il controllo della mia esistenza.

Tatia mi ha lasciato una collana che, per funzionare, necessita del sangue di Draco. Mi ha ammonito di non toglierla. Ci vuole poco a fare due più due.

Dal Cielo, da dovunque ella sia, vogliono che io dica a Draco di suo figlio… e non tra una settimana, un anno, dieci anni, come io pensavo mi fosse concesso fare.

No.

Adesso, ora… perché tanto oramai sono già a pezzi, e tanto ormai comunque le cose stanno andando male, e tanto ormai conta sempre Alex e lui per sempre. Quindi, chissenefrega di me stessa: del resto, ormai, che è rimasto di me stessa?

Non ho mai pensato di togliere a mio figlio suo padre, di non dirgli mai che Alex è suo figlio… ho solo pensato che adesso non fosse il momento.

Per me.

Sì, per me sola, che per una volta volevo essere egoista: Alex è la sola cosa che mi resta, e forse non volevo spartirla con lui, specie dopo che lui ha conquistato tanto, tutto, senza di me. O forse mi sento così devastata che non trovo il coraggio di inventarmi un discorso che sia la rivelazione di quella verità… o forse, ancora, dirgli di Alex avrebbe significato dover accettare che lui rientrasse nella mia vita, ma non dal portone principale di una ricongiunzione voluta dal destino e perpetuata da un amore mai morto, quanto invece dalla porticina secondaria di un dovere verso suo figlio e di un affetto istantaneo per lui, che avrebbe visto me solo come mediatrice. Ecco: quando ho capito questo mentre Dean parlava, quando ho capito che volevo tenermi quella verità dentro non perché pensavo ad Alex e volevo proteggerlo, ma perché pensavo solo a me, quando mi sono resa conto che forse Tatia da me invece voleva proprio che superassi il mio egoismo non scambiandolo per amore per mio figlio… in quel preciso istante, ho capito che avrei detto a Draco tutto, senza remore e senza rimorsi, smettendo di usare mio figlio contro di lui. Dopo le parole di Draco, la parte remota di me, quella ancora innamorata, ancora vogliosa di combattere per lui, quella che l’ha aspettato cinque anni ed è tornata a riprenderselo… credo che sia definitivamente evaporata da me. Ed era quella parte, tesa sempre ad immaginare il ritorno di Draco nella mia vita, che non voleva e non poteva dirgli di Alex. Perché voleva che tornasse perché mi amava, non perché doveva. Ora, invece, ogni ritorno di quel tipo mi è precluso per sempre. Forse mi vuole ancora bene, forse non gli sono indifferente, forse è anche geloso di me… ma l’amore, quello che mi ha tenuto ancorata a lui per cinque anni, lui se l’è dimenticato da un pezzo.

Da tre mesi dopo che io ero scomparsa.

Quindi nella nostalgia di un ritorno che non ci sarà mai, posso smettere di desiderare qualsiasi cosa che non sia riavere mio figlio.

E se il cielo, il ciondolo, Seth, la vita o come la voglio chiamare, vogliono che io dica a Draco di Alex… così sia.

Quella che sono ora, la madre di Alexander Leo Malfoy e basta, ha interesse e cura nell’avere quel sangue: se il modo più celere è questo, allora va bene così.

Dean continua a parlare e io sento solo che la mente si annacqua nella colpa: perché, ancora, dal ritenermi la mamma meravigliosa che mi sono sempre creduta, ho compreso che invece sono egoista e codarda. E sono una di quelle donne che si diverte ad affilare suo figlio contro il padre, solo perché lo detesta. In che cosa mi sono trasformata? In che cosa il risentimento per Draco mi ha trasformato? Oppure… continuo a dare la colpa a Draco, a Raissa, ad Helena, allo Zahir, a Dimitri. Ma forse… questa sono io.

Una che si diverte a fare l’eroina, ad ergersi stoica sull’altare del buonsenso e della giustizia… ed in realtà non assomiglia nemmeno al riflesso sporco di quello che professo.

L’apatia mi travolge becera e fioca, come se mi avessero sfilato di netto dal corpo la colonna vertebrale, alla maniera in cui si spina un pesce. Avverto le membra intorpidite, formicolanti, prive di forza mentre Dean accanto a me continua a parlare, descrivendomi ancora qualche altro particolare dell’incontro con la negromante. D’improvviso, sono così stanca da non reggermi nemmeno in piedi.

“Herm, stai bene?” la voce premurosa di Dean mi raggiunge a stento le orecchie, mi tocca la guancia con le nocche della mano e mi guarda preoccupato “Hai il viso caldo… non avrai la febbre?”.

Non lo so, non credo, mi sento solo incredibilmente spossata: nego con il capo, dicendo che sto bene e che forse ho solo bisogno di riposare un pochino. Dean annuisce pensosamente, commenta che deve essere stata la tensione, non ho nemmeno mangiato nulla a pranzo ed ormai è pomeriggio inoltrato. Mi indica sommariamente una camera al piano di sopra, dice che deve essere degli ospiti, niente tracce o ricordi né di Draco e nemmeno di Raissa. Annuisco con un sorriso ringraziandolo, ma salendo le scale ho ancora la sensazione che mi siano state risucchiate le forze in un momento ben preciso, tra la conversazione con Draco e quella con Dean. Sfibrata, mi appoggio al corrimano della scala, cercando di calmare le vertigini che minacciano di farmi scivolare al suolo, finché sento un braccio stringersi attorno alla mia vita, sollevarmi in modo deciso ed aiutarmi a camminare. Penso a Dean, ma lui è ancora ai piedi della scala, lo intravedo con la coda dell’occhio ancora bloccato in un gesto che stava facendo verso di me per aiutarmi e che poi si è arenato in sé stesso. Con lo sguardo annebbiato, sollevo il mento verso la persona che mi sta aiutando.

“Ti porto a letto… vieni…”. Nella foschia che mi ha preso subdola le iridi, intravedo solo lo scintillio verde di un paio di occhi lucidi e tristi, che mi osservano con dolcezza malinconica.

Annuisco e, del tutto esausta, mi lascio andare, affondando il viso nel collo di Seth e ritrovandomi persino a chiudere gli occhi. Bastano pochi passi che faccio a stento, le ginocchia di pastafrolla, che Seth è costretto a caricarmi sulle spalle e a trasportarmi così al piano di sopra. La testa che continua a pulsarmi, il volto rosso, riapro gli occhi solo quando sento Seth adagiarmi piano su un letto morbido. Dalle palpebre semi-chiuse, spio la stanza in cui mi trovo con il cuore in gola e la sua anonimità mi rassicura sul fatto che non sia quella di Raissa. C’è solo un letto, una libreria vuota ed una finestra piccola, la cui luce è coperta però da delle tende pesanti e scure, cosa che rende la camera in penombra.

“Mi dispiace Herm…” la voce di Seth mi sorprende, provocandomi un piccolo sussulto che reprimo raggomitolandomi di più su me stessa, una parte di me registra che si è seduto alle mie spalle, una mano contratta sul lenzuolo “Non avrei dovuto arrogarmi il diritto di parlare al tuo posto con Danny… ero stato zitto fino a quel momento… e poi non ce l’ho fatta più…”. Il materasso trema sotto il peso di una risata amara e nervosa che non gli appartiene e che mi spinge, improvvisamente, a considerare tutto dimenticato. Così, come nulla, come rugiada al sole. Quella che era arrabbiata con Seth… quella era sempre la Hermione che non si sentiva così spenta e fiacca, tutt’un tratto. Quella che poteva rimproverare tutti e non sé stessa. E adesso, invece… io sento che non posso fare più niente del genere. Mai più. E poi… sembra dispiaciuto, sinceramente. Lui posso perlomeno provare a perdonarlo, sentendomi anche sincera, e non solo in colpa come con tutto il resto.

“Tranquillo…” sussurro con un filo di voce, voltandomi su un fianco per guardarlo in viso, ha un’aria da bambino dispettoso che mi spinge persino ad un lievissimo sorriso “A tuo modo avevi ragione, anche se avrei voluto avere il tempo e il modo di decidere quando e come dirgli tutto…”, la mia voce risuona acidula e sfiancata, presagisco che, così facendo, Seth penserà che ce l’ho ancora con lui. Quindi completo con il più convincente dei toni che mi esce: “Non sono molto razionale al momento… e mi dispiace anche di quello che ti ho detto… che sono sola e tutto il resto… so che non è vero… è ingiusto verso te, Pansy e Dean. In ogni caso, fosse anche solo per Alex, era giusto che lui sapesse la verità…”.

“Sì…” conferma Seth, tormentando la coperta con le dita e sospirando in modo rumoroso come a darsi forza “Però poi… l’ho sentito parlare di Raissa…  e lì ho capito che magari anche tu avevi ragione. Che non era il caso adesso di sapere anche questo… Pansy ha ragione, io non sono padre… e non posso sapere come è perdere un figlio. Non avrei dovuto premere perché tu avessi anche questo carico sulle spalle, adesso. C’era tutto il tempo di chiarirti con Danny…”, il tizzone ardente che esplode come sempre al ricordo della prigionia di Alex, mi raggiunge anche nella quiete narcotica che mi annebbia, ma mi limito ad annuire con il capo, mentre Seth ancora sorride triste, dicendomi: “E’ stato Kevin a farmelo capire… noi… un giorno vorremmo diventare genitori, adottare dei bambini…”, Seth si stringe nelle spalle e mi sembra piccolo piccolo mentre mi parla di quella fantasia dolce, mi avvicino a lui e gli poggio con tenerezza la mano su un ginocchio. Seth me la stringe e continua: “E Kevin mi ha detto che un figlio viene prima di tutto, prima persino di te stesso… e mi ha detto che, se non ero stato in grado di capirlo con te ed Alex, forse non ero pronto ad essere papà...”, stringo le labbra e sospiro a fondo, Kevin mi ha fatto decisamente migliore di quella che sono come tendono a fare tutti, ma non ho energia per controbattere, mentre Seth prosegue: “Mi ha fatto riflettere … ed allora ho capito che aveva ragione… e che io, in realtà, non era a te che pensavo… era a me che pensavo…”. Aggrotto le sopracciglia, non comprendendolo, la mano nella mia è sudata e fredda di quella confessione e mi chiedo se non sia la giornata dell’egoismo universale. Seth pigola piano, trattenendo le lacrime: “Danny è stato il mio primo amore… e non lo dico con malinconia o con tristezza, ormai, lo sai bene… ma nella mia testa, quando ho rinunciato a lui, l’ho fatto per te, per quella che credevo il suo grande amore, per quella che era il suo destino… quel pensiero non è mai andato via, nemmeno quando siete scomparsi… e si è rafforzato quando ho visto Alex…”, fa una pausa, sofferta, lunga, la sua mano nella mia trema e io cerco di non dare adito alle lacrime che stanno esplodendo sinistre sotto le palpebre abbassate “… volevo che parlaste, perché ero convinto che con Raissa fosse una magia delle vostre. Ero certo che lei l’avesse ingannato, circuito o incantato. Ed invece era la più normale delle cose… e questo ha fatto più male al mio vecchio orgoglio ferito, che a te… per questo, Herm, ti chiedo scusa…”.

“Non devi farlo…” dico piano, con un sospiro tremulo, sistemandomi meglio sul letto “Sia quel che sia… era la cosa giusta dirgli che cosa era successo…”, prendo fiato e continuo ancora con un filo di voce “… e stasera… gli dirò anche di Alex… se sul resto potevo avere dubbi… su questo, devo cercarne di non averne… è di mio figlio che si parla. Ha diritto ad avere suo padre…”. Spiego anche sommariamente la questione del ciondolo a Seth e del sangue di Draco, cosa che ha solo indirizzato la mia scelta. E Seth sussurra, stringendomi ancora la mano: “Vedi che io il padre ancora non lo posso fare? Io adesso me ne andrei e basta… ed invece tu stai giustamente pensando ad Alex…”, sorride intenerito e mormora: “Sei una mamma eccezionale…”.

Nego con il capo e mi schernisco con vergogna, quando in realtà sto solo annaspando dalla volontà di urlare che non è vero, che se lo fossi stata mio figlio sarebbe ancora qui, che se lo fossi stata avrei fatto ben altre scelte negli anni e forse qui sarei arrivata con ben altro spirito, che quello dell’innamorata ferita. Ma non dico nulla, ci vorrebbe troppa forza che non ho e Seth controbatterebbe, mi darebbe contro.

E non avrebbe mai ragione… mai.

Seth mi dice, alla fine, di riposare, così da recuperare le forze per il confronto che mi aspetta stasera e di non preoccuparmi di nulla, Dean sta organizzando tutto per un’eventuale incursione e comunque stiamo aspettando che Harry ci faccia sapere qualcosina di più, magari da Helder. Mi accarezza la fronte e si chiude la porta alle spalle. Scivolo in un sonno nervoso ed inquieto, dove ogni volta che mi addormento mi sembra di tradire Alex e di stare perdendo tempo, ed allora penso a che cosa fare, a come organizzare la sua fuga, a come salvarlo. Ammassando strategie, il sonno mi colpisce di nuovo, a tratti, facendomi ripiombare in un denso e colloso riposo che non mi calma, ma mi agita solamente, prostrandomi di immagini cupe e sanguinose, accompagnate da una litania infernale di cui non distinguo le parole. Se poi penso a cosa dire a Draco, a come spiegargli che il bambino di cui ho parlato fino ad ora, è anche suo… allora, la possibilità di dormire si allontana ancora di più, maciullando le mie articolazioni. Devo avere davvero la febbre, in fondo.

Non so esattamente a che ora mi risveglio, la gola secca ed il respiro corto, sentendo qualcosa di diverso: non mi sono neanche accorta di essermi addormentata, la sensazione di calore non è passata, così come quella maledetta sensazione di stanchezza paralizzante. Però avverto la presenza di qualcuno nella stanza, quindi, ricordandomi che indosso ancora il vestito della mattina, mi copro pudicamente con il lenzuolo. Forse perché una parte di me ha già capito chi si è seduto sul letto accanto a me, e questo ha portato il mio cuore decelerato ad assumere un ritmo quasi normale. Quando sento una carezza lenta e dolce sulla mia testa, come se fosse fatta ad una bambina ammalata, respiro a pieni polmoni l’odore dello sconosciuto, che già so chi sia, sebbene ho gli occhi chiusi, serrati. Tabacco. Cuoio. Aghi di pino.

È un odore quieto, fresco, tranquillo, che rende la mia febbre più sopportabile, che mi assolve e perdona, che mi protegge e capisce. E mi fa piangere, sebbene stia ancora fingendo di dormire. Inutilmente. Perché se è come sempre, se va tutto come sempre… Ilai già sa che sono sveglia, già sa che non ho mai dormito, già so che forse non ci riuscirò mai più.

“Mi hai lasciato sola…” sussurro, gli occhi sempre chiusi, alla mano che mi accarezza la fronte e che d’improvviso si ferma, immota, colpevole, vinta. Un sospiro un po’ più forte, un brivido sulla schiena, il ricordo di un bacio, poi lui riprende ad accarezzarmi con lentezza, non voglio che smetta e non lo fa, mentre mi risponde pacato: “Non l’ho mai fatto… né mai potrei. Ero qui fuori… non mi pareva il caso di stare in casa di Malfoy, senza uno specifico invito…”. Non penso che Pansy e Dean abbiano avuto bisogno di un invito, ma capisco che cosa voglia dire Ilai. È qualcosa di ben diverso: è accettazione che lui sia qui, adesso, a far parte della mia vita in questo modo così strano e fatalista. Dubito che Draco riuscirebbe a formulare un invito in quel senso… come non penso che lo farei mai io, al contrario.

“E adesso, allora, che cosa è cambiato?” chiedo con un filo di voce, non aprendo ancora gli occhi.

“Seth…” mormora Ilai laconico, facendo una pausa “Mi ha visto in giardino… e mi ha detto che dovevo essere qui… con te… e che con Malfoy ci parlava lui… non volevo ancora, ma ha insistito…”. Sorrido mio malgrado, ripensando alle parole di Seth del pomeriggio e ricordandomi di quanto può essere convincente o assillante, se ci si mette. Comprendo, in sottotesto, anche altro: Seth non aveva mai accettato il legame che io avevo con Ilai. Mai, perché era convinto che io e Draco appunto ci appartenessimo. Se si è convinto, noto con una spina lacerante in petto, vuol dire che non lo pensa più.

Mi muovo velocemente nel letto, avvicinandomi con improvvisa risoluzione ad Ilai, pur restando distesa nel letto. Poggio la testa sulle sue gambe, lo sento irrigidirsi sorpreso e sento, persino nel buio della stanza e delle mie palpebre chiuse, il suo sguardo di ghiaccio nero soppesare la mia reazione. Poi qualcosa si fa più leggero, più vischioso e più caldo assieme, e giurerei di averlo sentito sorridere. Si incaglia quel sorriso dentro di me, in un punto morbido nel petto, e sorrido timidamente a mia volta, ringraziando il buio.

“Ti hanno detto del ciondolo di Tatia?” chiedo senza preamboli, affondando il viso sulle sue ginocchia.

Ilai sospira ancora piano, ed annuisce, confermandomi anche che sa di Draco e del fatto che dovrò dirgli di Alex.

“E’ la scelta giusta… e lo sai anche tu…” la sua voce tintinna nel buio, causandomi un altro brivido lungo la schiena e di nuovo la dimensione di quello che sta per accadere mi frastorna ancora. Tremo, mentre mi sforzo di annuire ad Ilai, che naturalmente si accorge di questo. Lentamente, dolce come sempre è stato, si china su di me, mi stringe per i fianchi e mi solleva seduta con facilità, come se fossi davvero una bambina piccola. Ho ancora un capogiro, ma si smorza quando sento il torace di Ilai reggermi saldamente, mentre mi ha sistemato in braccio a lui e mi ha chiuso con le sue braccia. Poggia la guancia sulla mia fronte, mentre mi raggomitolo contro di lui, e poi mi sussurra: “Andrà tutto bene… mi hai capito? È suo figlio, ti aiuterà… e non sarai sola in questa storia…”.

Una scossa elettrica lungo la schiena mi fa aprire velocemente gli occhi, mentre sollevo il collo, rivolgermi a quel buio caldo che so essere lui: “Non sono mai stata sola… tu… ci sei stato tu…”.

“E non è servito a granché…” ride amaramente, il cuore che mi diventa minuscolo “Non ho salvato te… non ho salvato tuo figlio… non ho vendicato Tatia… e quel che è peggio è che…”, Ilai tace a disagio, le sue braccia tremano ed improvvisamente la testa mi gira daccapo: “Continua… ti prego…”.

“Perché?” mastica amaro, muovendosi nervosamente e sistemandomi meglio tra le sue braccia, il cuore mi annega in una melassa condensata, sentendo la sua voce scoraggiata “Perché, Hermione? Fino a che punto, uno può ammettere che tutto quello che ritiene giusto, vero e corretto… tutto quello che sa che dovrebbe fare… poi, semplicemente, non lo fa… non lo riesce a fare, perché ogni fibra del suo corpo lo spinge da una parte diversa, ed adesso… io… non ci dovrei nemmeno pensare, dovrei solo andarmene via da qui e basta…”, quel pensiero mi immobilizza, mi fa trattenere un singhiozzo e mi spinge ad aggrapparmi alla sua camicia con le dita, mentre mormora con tono disperato: “Io devo andarmene da qui, Hermione…”.

So che ha ragione, so che non ha torto, so che è ingiusto che io lo trattenga qui per questo senso di bisogno che ho maturato nei suoi confronti e che non so spiegare. So che dovrei avere la mente libera e il cuore sgombro per riflettere su quello che davvero provo per lui, senza che mi si frapponga la rabbia, la disperazione, la rivalsa, il dolore. So che probabilmente dovrei proteggerlo per Tatia e mandarlo via, concedergli di salvarsi, e so forse adesso per la prima volta che quest’uomo era di un’altra che mi ha aiutato da un’altra vita ed un altro mondo, e che io sto ringraziando cercando di insinuarmi nel ricordo che ha ancora di lei. È quel pensiero, turpe, immondo e schifoso, che batte l’apatia e mi spinge a prendere coscienza di me stessa. Con le mie residue forze, mi alzo in piedi a fatica, tenendomi vicina ad un comodino. Da fuori non filtra alcuna luce, deduco che sia ormai sera e mi arrischio velocemente ad accendere la luce di un abat jour, che ho visto poco fa. Mi abbaglia una luminescenza perlacea e smorta, che conferisce al viso di Ilai una sfumatura decadente che me lo mostra più fragile e debole di quanto mi sia mai parso.

Resta seduto sulla sponda del letto guardandomi, mentre resto immobile, in piedi, davanti a lui, le braccia chiuse sotto il seno a proteggermi e contenermi. Ilai ha lo sguardo più triste di quando l’ho conosciuto in Finlandia, ha i capelli spettinati, le labbra rosse e il respiro affaticato, eppure gli occhi sono vivi, liquidi, intensi, incollati ai miei.

“Hai ragione…” biascico, osservandomi i piedi nudi “Hai ragione… questo… non è giusto… io sono semplicemente un’egoista… non posso… anzi… non devo… trattenerti qui…”, non faccio nulla per nascondere la lacrima che mi accarezza la guancia e che muore nel mio collo, tanto lui l’intuirebbe lo stesso. Ilai stringe le labbra, fa un verso di gola e bisbiglia: “Tu sei egoista, adesso? Tu?”, si alza in piedi e si para davanti a me, prima di sollevarmi il viso con due dita e sorridermi mesto, la luce bianca che disegna ombre scure sotto i suoi occhi che mi appaiono sempre più stanchi. Non mi sforzo nemmeno di trattenere le lacrime, mentre mi dice: “Io ti ho baciato, io ti bacerei ancora, io dico una cosa e ne faccio un’altra, io mi impongo di andarmene e resto in giardino, io mi obbligo a non toccarti mai più e godo nel fare l’incoerente con me stesso… io… io e basta… che so che sarai per sempre di Draco Malfoy, eppure tento di strapparti pezzo dopo pezzo a lui…”. Il cuore mi va in gola, ancora, di nuovo, soffocandomi, il contatto con i suoi occhi è d’improvviso così destabilizzante, che rimpiango il buio e la stasi misericordiosa che ci aveva dato.

“Io… non sono più di nessuno… non hai nessuno a cui strapparmi via, se non me stessa…” piagnucolo, cercando di sfuggire i suoi occhi, Ilai sorride triste e dice: “Lui è sempre qui, Hermione, non è dall’altra parte del cielo come Tatia… fino a quando sarà qui, sarai sua per sempre…”. Non so più che dire, resto in silenzio, mi divincolo dalla sua presa e faccio un passo indietro, finendo per scontrarmi contro il muro alle mie spalle. Non ce la faccio più a guardarlo, non ce la faccio più. Il pensiero che se ne vada, che non possa più rifugiarmi in lui, che non ci sia più… mi uccide. È bastato un secondo, un solo secondo, e già misteriosamente mi sono sentita meglio… però, poi, il pensiero di tenerlo qui, ad aspettare… che cosa, poi? Che mi dimentichi Draco, che possa tornare quella ragazza pura e semplice che si meriterebbe, che tutto sparisca in una nebbia vorticante di buone intenzioni? Almeno con lui… non posso e non devo essere egoista.

Il cuore che mi martella in petto, sollevo lo sguardo e dico con un sorriso tremulo: “Hai ragione, cioè… è giusto che tu vada via… io non sono sola, non ti devi preoccupare… ce la farò in qualche modo… e poi Raissa e Dimitri vogliono anche la tua pelle… è meglio davvero che tu vada via… tranquillo… io… starò bene…”, fingo ancora un sorriso, sperando di rassicurarlo.

Ilai sorride a sua volta, tristemente, poi mi guarda piegando la testa di lato, e soggiunge: “Non torno in Finlandia… ma prendo una camera in paese. Quando affronterete Raissa e Dimitri… io ci voglio essere… solo, è meglio che non resti più qui…”. Lo ripete ancora, come per convincere sé stesso e me, ed io annuisco daccapo, il vuoto che si allarga nel petto, risucchiandomi, la mascella tesa nel tentativo di mantenere su questo sorriso spento.

“Certo, hai ragione, lo capisco… vai, non ti preoccupare, starò bene…” sussurro ancora, poggiando la schiena al muro e cercando di nascondergli il tremito convulso delle mie gambe al pensiero che davvero se ne vada. Quella sensazione si acuisce ancora, quando lo vedo estrarre la bacchetta per pronunciare l’incantesimo di Smaterializzazione, mantengo il respiro fermo e il sorriso statico e tranquillo, ma so già che appena sparirà, crollerò piangendo, di nuovo, daccapo, come ormai so fare benissimo. Lui soppesa la bacchetta tra le mani, la rigira e la guarda come se scottasse, e getta un’ultima occhiata a me, che ancora trattengo le lacrime, che ancora sorrido, che ancora cerco di rassicurarlo quando so benissimo che non ce la posso fare. Perché nessuno è lui, perché è troppo facile stare tra le sue braccia e sentirmi a casa, perché sarà anche egoista ed inconcepibile, ma sto bene adesso solo se c’è lui. Eppure, anche solo l’ombra del sospetto pigro che possa volerlo qui solo per sostituire Draco, mi incatena a questa parete, non facendomi muovere.

“Ciao Hermione…”.

“Ciao Ilai…”.

Ilai ha già sollevato in aria la bacchetta, compiendo la torsione del polso che lo porterà via da me, ed io mi lascio sfuggire un singhiozzo lento, che infrange il mio sorriso, che lo spezzetta in mille pezzi, che lo rende un plastificato retaggio di memorie che non ho più. Con gli occhi sgranati, con l’espressione persa, con il cuore in gola, vedo Ilai gettare rabbiosamente la bacchetta a terra, avvicinarsi rapido a me e chiudermi tra il suo corpo e il muro alle mie spalle, prima di prendermi il viso tra le mani e baciarmi con tutta la forza e la disperazione di cui è capace. Le sue dita si artigliano gentili sulle mie guance, giocando poi dolcissime con i miei capelli, mentre le sue labbra, caldissime come un fiore d’agosto, si poggiano silenti sulle mie, costernate, distrutte, piegate ed afflitte. Piange nelle mie labbra chiuse, e piango anche io, non resistendo più, ma restando immobile, atterrita, inerme, catturata nell’attimo dell’inspirazione, e ritrovandomi improvvisamente senza fiato, come se annegassi. Cerco di resistere, cerco di impormi di fermarmi, cerco di comandare il mio corpo di non fare nulla, assolutamente nulla, ma le mie braccia lo cingono alla vita prima che me ne renda conto, le mie labbra si aprono ed assaggiano avide il suo sapore, il mio cuore si scontra con il suo mentre gli volo tra le braccia e la mia mente mi scoppia in mano, suggerendomi di non smettere di baciarlo. Piango ancora, ed è giusto così, perché lui aveva ragione, siamo solo capaci di amarci in questo dolore sordo, continuo, costante, incessante, e se non sento le lacrime sulle sue labbra, sulle mie labbra, io non lo riconosco, io non so che è lui, io non posso piegarmi a baciarlo. Perché non è amore questo, come non è amore quello per Draco, ormai. Io so amare solo mio figlio, adesso: questo ha i contorni malaticci di un sentimento sbriciolato che la sola cosa che mi è rimasta da dare a qualcuno. Anche a lui, anche ad Ilai, anche a lui che adoro tanto, che forse avrei amato persino, che magari potrebbe rendermi felice. Anche a lui.

Non mi basta più, con terrore mi accorgo che baciarlo soltanto non mi basta più: che voglio averlo dentro, addosso, ovunque, ad annullarmi la memoria ed il pensiero.

Me la sono scopata e mi è piaciuto farlo, mi faceva stare bene, mi annullava il pensiero…

Con un sussulto, mi ricordo le parole di Draco su Raissa. Siamo uguali, non c’è che dire… sempre a cavare fuori l’anima, da chi ci sta vicino… chi è mai stato davvero il Serpeverde tra me e lui?

Quando Ilai si stacca da me, non vorrei che lo facesse: guardo i suoi occhi annebbiati e stanchi, le sue labbra rosse e gonfie, il segno che senza volere gli ho lasciato sul collo con le dita della mano nel tentativo di attirarlo più vicino… ed abbasso il viso, la vergogna che si spande come un manto sulle mie spalle.

“Devo andare, adesso…” bisbiglia lui, che invece è saldo in sé stesso, non ha cambiato idea, sa che non dovrebbe stare qui. E che poi mi bacia ancora, piano, da fratello, a fior di labbra. E io gli strappo ancora altri baci, veloci, rapidi, dolci come caramelle ed amari come veleno, mentre mi rassicura che, se ho bisogno di lui, potrò chiamarlo in ogni momento. Ogni parola che dice, gliela soffoco sulle labbra. Ed ho freddo quando si allontana, quando afferra la bacchetta caduta per terra e quando si prepara a sparire. Ho un sorriso meno tirato, più tranquillo, reso morbido dalle sue labbra, che diventa persino sincero, mentre mi guarda serio e dice dolcemente: “Se esiste anche un solo destino per cui Tatia ha voluto che ci incontrassimo perché dovessi restare con me… questa sarà l’ultima volta che ti lascio andare…”.

Con un groppone in gola, annuisco e sussurro: “Se sarà così… sarò io a non permetterti di andartene più…”. Glielo dico sincera, onesta, vera come non sono da giorni e come si merita che io sia. Glielo dico, perché ne sono convinta e con questa convinzione riesco ad assolvere me stessa e quello che ho appena fatto. Forse, esiste davvero un mondo in cui, se non appartengo più a Draco, divento sua. Ma se avverrà, se accadrà, sarà senza tutto questo che mi sconquassa il cuore: sarà con Alex con me che gli gioca sulle spalle ma che chiama Draco papà, sarà con me che lo bacio solo perché voglio baciarlo, sarà perché voglio stargli accanto completamente presente a me stessa, sarà con Draco diventato una memoria innocente e piacevole nella testa, e non l’incendio boschivo che è adesso.

Sarà con me che amo Ilai ed Ilai solamente, e sarà con me che mi dico che ho bisogno di lui perché lo amo, e non che lo amo perché ho bisogno di lui.

Se esiste un solo destino, anche uno soltanto, che mi vede accanto a lui… mi avrà tutta, senza sconti, per sempre, tersa, limpida ed immacolata come un bucaneve fiorito.

Nessuno, soprattutto lui con quello che ha passato, si merita questa versione marcia e lercia di me stessa, che ama ed odia nello stesso istante, che mente ed è sincera, che ha fede nello spergiuro e che ha le vene sature di dolore. Nessuno… persino Draco  si merita questa versione di me stessa.

Ilai sorride alle mie parole, ed è anche il suo è un sorriso aperto, sincero, dolcissimo, onesto. Mi saluta con il palmo della mano aperto, poi pronuncia la formula di Smaterializzazione e scompare.

La stanza, d’improvviso, sembra così piccola e vuota che voglio solo uscire da qui. Ritemprata da un nuovo coraggio, persino da una speranza fioca nel futuro, mi sussurro decisa che devo immediatamente parlare con Draco, dirgli di Alex e utilizzare il ciondolo di Tatia. Prima riporterò mio figlio a casa, prima tutto tornerà normale, prima tornerò me stessa… e prima potrò risolvere tutti questi nodi irrisolti che mi sto lasciando alle spalle. Nel silenzio della preoccupazione dissolta, potrò davvero capire se è finita tra me e Draco… e se è iniziata tra me ed Ilai.

La febbre sembra non essersene andata, lo specchio mi rimanda una mia immagine dagli occhi lucidi e dalle guance rosse come mele mature, ho il passo ancora traballante e il fiatone, ma decido di scendere subito di sotto per chiudere la questione con Draco. Il vestito azzurro è spiegazzato e aggrinzito, quindi decido di cambiarmi velocemente: Seth deve aver portato qui la mia valigia, perché la trovo ai piedi del letto. Un paio di jeans ed una canotta bianca, mi fanno sentire più a mio agio, ma il freddo che mi sento fin nelle ossa a causa delle febbre, mi spinge a poggiare malamente una felpa sulle spalle. Decido di assecondare immediatamente i residui della calma che Ilai mi ha lasciato addosso e di cui chissà per quanto tempo non potrò usufruire, e decido di scendere di sotto immediatamente a cercare Draco. Apro la porta, percorro il corridoio e scendo le scale, la luce della luna mi informa che devono essere almeno le otto passate.

Gironzolo un po’, ma in salotto non c’è nessuno, e nemmeno nelle altre stanze. Alla fine, trovo in cucina Pansy e Seth, seduti attorno al tavolo ed intenti a sbocconcellare dell’insalata. Charisma si è addormentata tra le braccia di sua mamma, dorme con un ditino in bocca. E sul divano poco distante, vedo anche Serenity addormentata a sua volta, i codini biondi legati con dei nastri azzurri. Per terra, sono sparsi dei giochi e delle bambole, cosa che mi fa dedurre che devono aver giocato assieme fino ad ora.

“Herm!” Seth si alza subito in piedi, premuroso, avvicinandosi a me e sfiorandomi la fronte con il palmo della mano “Hai ancora la febbre?”. Sorrido rassicurante e rispondo che credo che sia scesa un pochino, Pansy alle spalle di Seth, mi guarda indecifrabile ma impercettibilmente sembra allentare la tensione delle spalle.

“Dove sono gli altri?” chiedo velocemente, sedendomi accanto a Seth che mi porge subito da mangiare.

“Dean credo che sia andato a svaligiare una farmacia… per comprare del magnesio, o che so io…” risponde svogliata Pansy, punzecchiando con la forchetta un pomodoro “Se avessi saputo che doveva trasformarsi nella versione maschile di Nonna papera, gli avrei detto che ero incinta a moccioso sgusciato fuori…”. Roteo gli occhi con espressione fintamente partecipe, rendendomi conto che adesso Dean sarà semplicemente elettrico, avendo saputo della nuova gravidanza della moglie. Certo, Pansy la liquida bruscamente, ma lo splendore terso che ha assunto il suo sguardo, lei non lo può negare e nascondere. E per fortuna, non può nemmeno vederlo, così da non vergognarsene o da cercare di sottrarlo agli altri. Charisma, nel sonno, fa una buffa risata e si accoccola meglio contro il petto della madre.

Chissà se Alex ha avuto un incubo stanotte… mi caccio a forza un’altra manciata di insalata in bocca, lottando con il solito impulso di rimettermi a piangere.

“Chi ha i denti e non ha il pane…” mormora Seth, mettendo su un broncio “Io non ho coccole da nessuno da settimane…”. La sua espressione mi spinge a ridere sommessamente, Seth mi guarda felice e lieto che abbia sorriso alla sua piccola battuta: sono davvero felice che possiamo tornare a guardarci così.

Pansy però prende la mia risata come se gli stessi dando manforte, magari lamentandomi anche della mia di astinenza da coccole, e difatti blatera, agitando la mano con aria truce: “Green, tu hai un fidanzato da qualche parte o mi sbaglio? Quindi non farei propriamente il delirio tragico… e tu Granger, vogliamo parlare del tuo tozzo di pane russo? Mi sa che hai i denti ed anche la pagnotta…”.

“Non dire sciocchezze…” arrossisco fino alla punta delle dita dei piedi, nascondendomi dietro la frangetta di capelli mentre continuo a mangiare.

“Ah bè sì certo, il taglio sul labbro da bacio alla “come se non ci fosse un domani” te l’ha fatto Seth in un accesso tardivo di mascolinità post adolescenziale…” asserisce tagliente Pansy, mentre io in imbarazzo mi strofino le labbra con il palmo della mano in modo febbrile, ricavandone una piccola striatura rossastra. Seth ridacchia del mio imbarazzo, sghignazzando, lo minaccio brandendo una forchetta e asserendo: “E comunque… il tozzo di pane, insomma, Ilai, accidenti a te… se n’è andato…”.

“Herm!” squittisce Seth deluso, alzandosi in piedi e facendomi sobbalzare “Ma allora dillo che hai maturato uno spirito di contraddizione nei miei confronti! Che ti ho fatto, eh? Te l’ho mandato persino in camera così che… potesse farti provare il suo sfilatino!”.

“Possiamo smetterla con queste metafore da panificio?!” biascico sempre più violacea e con la temperatura corporea che minaccia di arrivare a 45 gradi centigradi, non credendoci nemmeno che lo stia facendo questo discorso “Sebbene io ed Ilai volevamo…”.

“… strapparci i vestiti di dosso…”.

“…usarci come farmaco per la castità pluriennale che ci accomuna…”.

“Questa è bella, Pans!”.

“Esercizio, Green... tra qualche anno ci arrivi anche tu…”.

Dicevo…” continuo, massaggiandomi con le dita le tempie e controllando il mio viso congestionato “… sebbene io ed Ilai ci siamo avvicinati molto in queste settimane, al momento non era giusto che lui stesse qui… quando la situazione tra me e Draco…”, devo prendere fiato per proseguire: “… non è poi così chiara… e poi, io devo parlargli di Alex adesso, lo sapete… ed al momento è meglio che mi concentri solo su questo…Ilai l’ha capito ed ha deciso di allontanarsi… lui…” divento rossa in viso ancora, ricordandomi il bacio che mi ha dato solo pochi minuti fa, e non so più in grado di continuare.

“… lui ti vuole molto bene…” completa Seth con un sorriso tenero e dolce, accarezzandomi la testa fraternamente, ed io annuisco, stringendomi nelle spalle.

“E te lo meriti Granger…” sottolinea Pansy, sistemandosi meglio Charisma tra le braccia così da nascondermi il suo viso, la guardo sconcertata per la sua gentilezza rude, mentre prosegue: “Tutti, persino tu, ti meriti qualcuno che si prenda cura di te, adesso… e so che il tuo nobile spirito Grifondoro si rivolterà nel senso di colpa… ma non devi alcuna fedeltà a Draco, se non quella di madre di suo figlio… non contorcerti nell’olio bollente…”.

“Non lo sto facendo…” sorrido quietamente, guardandola.

“Lo so… sei più simile a te stessa di quanto tu non sia stata da settimane… tutta tesa a fare la cosa giusta… e se è merito di Radcenko, allora… deo gratias per l’addio alla tua te stessa martire…”. In modo inconsapevole, mi viene da sorridere ancora, non so per quale motivo, ma l’approvazione di Pansy ultimamente per me è diventata la più importante. Non so se la considero strettamente una mia amica, ma forse è proprio per questo che so che, quando sbaglio, non avrebbe alcuna remora d’affetto a farmelo notare, come invece accade con Seth, Dean o Ilai. Perciò, anche se a lei non lo dirò mai, capisco che sto facendo la cosa giusta solo se me lo dice lei. E considerando che cosa siamo state fino a qualche anno fa, questo è davvero il vertice dei paradossi che conosco da quando mi sono innamorata di Draco.

Mi ricordo improvvisamente di lui e quella tenue sensazione di sicurezza tiepida si raggela come ghiaccio rappreso. Fingendo indifferenza e riprendendo a mangiare, chiedo pacata: “E… Draco… dov’è?”.

“Ah bè, certo… nella scaletta della giornata da ritorno al passato, adesso viene la paternità tardiva…” bofonchia Pansy con un sorrisetto sardonico, guardandomi di sbieco “Malfoy non potrebbe aver avuto giornata peggiore di questa… e io l’ho visto quando ha preso gli orecchioni e la varicella assieme, nella stessa giornata… non era una bella e mistica visione…”. Quando però aggrotto le sopracciglia, in attesa, chiedendole in modo alquanto palese ed impaziente dove diamine sia andato, Pansy sospira e borbotta qualcosa sottovoce che non riesco ad intendere, prima di aggiungere: “Dopo l’illuminante chiarimento con la sottoscritta… il quale per inciso si è concluso con le pareti del salone immacolate e non sporche di sangue, cosa che è il massimo possibile adesso… Seth ha pensato bene di parlare a Draco della necessità che Radcenko stesse qui… un momento epico… da poema cavalleresco…”, a quelle parole Seth gonfia il petto tronfio di sé stesso, ma distinguo una lieve sfumatura verdastra sul suo viso, cosa che mi fa ragionevolmente assumere che non sia stata esattamente una passeggiata corredata di gelato parlare con Draco di me ed Ilai. Gli do comunque una pacca sulla mano, alla quale Seth mi restituisce un’occhiata soddisfatta, mentre Pansy conclude con tono indifferente: “Alla fine il drago, geloso marcio della sua principessa mezzosangue di cui non ammetterebbe mai di essere ancora stracotto, è andato da qualche parte a sbollire la sua rabbia… ma penso che stia per tornare… insomma, è sempre la sua di casa, anche se tecnicamente desideriamo sfrattarlo ad ogni piè sospinto…”.

Una parte di me, nemmeno così piccola come potrei fingere, ha un singulto tremulo alle ultime parole di Pansy: è una parte adolescenziale, acerba, imberbe, ancora strettamente legata a Draco come uomo che amo, e non come padre di mio figlio, la sola cosa a cui riesco a pensare adesso. Sentire la supposizione per cui lui potrebbe essere ancora innamorato di me mi fa arrossire e tremare il cuore come se fosse fatto di cera. Non credo che passerà mai questa sensazione, non abbiamo smesso di amarci per scelta e convinzione, limando odio e rabbia giorno per giorno. È stato più simile ad un aborto spontaneo, doloroso, terribilmente acuto e di cui portiamo ancora i segni e le tracce addosso, come tagli di sangue nella carne. Difficilmente un giorno dismetterò l’abitudine di sussultare sentendolo nominare, oppure di sobbalzare parlando di lui, o anche di sperare che tutto possa tornare a posto, specie considerando che sono la mamma di suo figlio e sarà sempre mia fantasia che Alex possa avere i suoi genitori assieme. Figuriamoci se posso improvvisamente, adesso, smettere di sentire il cuore in una centrifuga se penso a lui.

Per fortuna, almeno, ho imparato a nasconderlo: difatti, quando mugugno che spero che si spicci a tornare, Seth e Pansy annuiscono partecipi, non accorgendosi del tremito della mia voce, percettibile solo alle mie orecchie. A quel punto, finito di mangiare, Pansy porta Charisma in una camera al piano di sopra, mentre Seth fa lo stesso con Serenity, dopo di che decidiamo di organizzare al meglio il piano contro i Karkaroff, definendo delle linee guida, almeno fino a quando non tornano Dean e Draco. Ci sediamo in salotto, io con una tazza di tisana che ha l’effetto di calmarmi e di cercare di snebbiare la mente da tutte le cose che potrebbero andare storte, ferendo Alex o peggio. Quando però la tristezza minaccia di sopraffarmi, Pansy fa una battuta divertente o Seth mi stringe meglio la coperta sulle spalle, così da non farmi prendere freddo dato che la febbre non accenna a scendere, ed allora mi sento un pochino meglio. In ogni caso, ad ogni rumore proveniente dall’esterno e che potrebbe tradursi nel ritorno di Draco, mi scopro ancora vogliosa di prendere tempo prima di dirgli di Alex e sospiro di sollievo quando capisco che non è lui, affannandomi nella testa per trovare le parole giuste. Non so davvero se esistano queste fantomatiche parole giuste… anzi… di minuto in minuto, credo di capire che non ci sono parole giuste tra me e Draco, da quando ci siamo conosciuti. Non ci sono mai state. Ergo, sarà meglio che nemmeno ci pensi… dovrà venire da sé. A costo di prendergli il sangue a forza, sibilando solamente che mi serve il sangue del padre di mio figlio. Almeno glielo avrò detto… parlare di come agire con i Karkaroff, paradossalmente, è più semplice. Il mio istinto da ex Capo degli Auror prende il sopravvento, rendendomi più fredda e lucida, mentre analizzo la situazione. Non sappiamo dove sono nascosti, quindi in ogni caso dobbiamo aspettare che siano loro a contattarci, non possiamo pertanto studiare il terreno di scontro e capire bene come affrontarli. Ho solo alcune cose chiare e nette in mente. Primo, usare il ciondolo solo in presenza di Alex, quindi arrivata nel loro nascondiglio. Non posso rischiare che il suo potere non sia sufficiente, se Alex fosse lontano da esso. Secondo, Dean, Pansy e Seth ovviamente restano qui. Non esiste che li metta in pericolo in alcun modo e se questo non è un problema per Seth, che sa di essere d’impiccio essendo babbano, e per Pansy, che è consapevole di dover restare fuori a causa della sua gravidanza, non sarà ugualmente semplice convincere Dean, ma spero che in questo sua moglie sia più persuasiva di quanto potrei essere io. Ed arriviamo all’ultimo ed ovvio punto: con me dovranno venire Ilai e Draco, se non altro perché dovrò fingere in qualche modo che li ho uccisi, altrimenti Dimitri non mi farà nemmeno avvicinare ad Alex. Senza contare che Ilai non rimarrebbe mai fuori da questa storia… e dubito che lo farà anche Draco, specie quando saprà che Alex è suo figlio. Ovviamente, è questo il punto maggiormente difficile da sbrogliare al momento: se so che, sciolto Alex dall’assimilazione con Dimitri, potrei tentare di fuggire o di far fuggire almeno lui, affidandolo o a Draco o ad Ilai, so che sarà difficile farli collaborare pacificamente assieme, vista la situazione complicata di me con ognuno dei due. E, punto non trascurabile, non so praticamente come inscenare la loro morte. Dimitri e Raissa sanno qualsiasi cosa, scoprirebbero subito falle ed inganni di pozioni o incantesimi anche ben congegnati. Sanno tutto quello che è stato scritto da uomo, me l’ha detto Dimitri… come trovare qualcosa di sconosciuto a loro? Mi lambicco il cervello per ore attorno a quella domanda, ma non ne vengo assolutamente a capo. E non vale nemmeno l’aiuto di Dean quando ritorna, lo sguardo acceso, carico di integratori per Pansy che riprende a sbuffare. Quando Seth inizia a sbadigliare e Dean ingiunge a Pansy di andare a letto, che “le neo-mamme devono dormire almeno sette ore a notte”, cosa che gli fa guadagnare una rispostaccia acida sul “se dormissi sempre sette ore a notte, adesso non sarei proprio incinta”, capisco che dobbiamo rimandare la questione a domani. Penso di chiamare Helder ed Harry per chiedere il loro aiuto: la prima ha sottomano il più grande patrimonio non scritto, ossia quello degli Empatici, ed il secondo ha accesso a fonti che sicuramente io non conosco, come i centri di sperimentazione di pozioni. Saluto Dean, Pansy e Seth, rassicurandoli e dicendoli di andare tranquillamente a dormire, mentre io mi stendo sul divano in salotto, scossa dai brividi della febbre che sicuramente ha ripreso a salire. Ma devo aspettare Draco, non c’è verso di rimandare a domani.

Crollo di nuovo in un sonno fragile ed instabile, ogni rumore mi fa rizzare in piedi e la febbre peggiora le cose, dandomi la sensazione di essere sospesa su un vulcano di lava bollente, sebbene i brividi di freddo non mi lascino in pace. Nel buio, ogni ombra nasconde un nuovo terrore per Alex, una nuova ansia al pensiero di non trovare una soluzione o di non riuscire a parlare con Draco. Poco prima dell’alba, fiaccata e distrutta dai dolori alle articolazioni e dalla sensazione di essermi ridotta come un ramoscello secco e bruciacchiato, mi appisolo lievemente, scivolando in un sonno nero e privo di sogni che non mi riposa, ma mi agita soltanto. A calmarmi, giunge solo una carezza fresca sulla mia fronte, che ha l’effetto di placare la mia angoscia, la luce dorata che preme contro le mie palpebre chiuse e sudate. È un tocco delicato, lieve, dolce… come il battito delle ali di una farfalla. Ed è umido, bagnato, infinitamente rilassante e corroborante sulle mie tempie bollenti. Morbido, soffice… nessuna mano potrebbe esserlo, è sicuramente un asciugamano imbevuto d’acqua fresca, che corre lungo le vene del mio sangue a portarmi refrigerio. Respiro profondamente ad occhi chiusi, mentre passa lungo i miei zigomi e giunge a bagnarmi anche le labbra secche e spaccate dal delirio della febbre. Non apro gli occhi, non so se sia perché non ci riesco, o perché non voglio: ed in quel momento che un sospiro più forte, da annegata, sospinge un profumo familiare nelle mie narici, giungendo a farmi capire che non apro gli occhi perché non posso.

Perché, sebbene tutto di me spinga a forzare la resistenza degli occhi serrati, so che nel momento in cui li aprissi, Draco smetterebbe di prendersi cura di me così.

Varrebbe la pena anche solo per vedere i suoi occhi grigi fissi su di me, non furiosi, non arrabbiati, non colmi di livore… ma solo di quel residuo di tenerezza melodiosa che aveva per me, anche sbiadita, scolorita, sporca, contaminata, ma ancora straordinariamente vera e presente. Basterebbe anche solo questo, pure se si allontanasse subito, comprendendo che non sto dormendo, ma che sono sveglia.

Mi basterebbe.

Ma violerebbe le regole non scritte tra me e lui, quelle per cui tutto quello che ci nuota nel cuore davvero, può avere forma solo di tocchi, di sguardi, di fruscii, da poter negare l’attimo dopo. L’attenzione solerte che ha adesso per me, se fossi cosciente o pensasse che lo sia, me la tributerebbe solo se fosse certo al mille per mille che io non la userei come arma contro di lui. E questa mancata ritorsione è accaduta solo dieci giorni della nostra vita assieme, quando ci siamo così fusi l’uno nell’altra da generare un bambino.

Sono troppo orgogliosa per ammettere che respiro davvero, adesso che mi sfiora così. Sono troppo arrabbiata per convincermi che ha sempre l’odore più buono del mondo. Sono troppo addolorata per svegliarmi e sorridergli grata, come se non fosse accaduto nulla. E lui è troppo orgoglioso, arrabbiato ed addolorato a sua volta per leggere meglio il mio respiro affannato, per fare un gesto meno cauto che mi costringa a dismettere la recita, per dire il mio nome con prudenza affinché possa accorgermi di tutto. Si limita a picchiettare con solerzia la mia pelle con la stoffa bagnata, come se non fosse capace di fermarsi, come se in fondo fosse normale farlo, come se non ci fosse altra scelta. Lo sento sospirare a tratti, allontanarsi e bagnare nuovamente il tessuto, per poi tornare a me con nuova cura, diligenza ed attenzione. Ad ogni tocco, la mia pelle assetata ne domanda ancora e, ad ogni tocco, conosce fame e sete nuove, al punto che comprendo ben presto, con un brivido, che non ho necessità di quella acqua seppure piacevole. Ho ancora e sempre necessità che sia lui a farmi questo. Non dovrei, e lo so bene, ma non posso evitarmi di abbandonarmi a questo gesto semplice eppure perfetto.

Che è affetto ed interesse… sebbene sia ad occhi chiusi. Gli occhi aperti, la luce, il sole, la vita ci ricorderebbero troppo, così da non poter essere più naturali e sinceri come eravamo ere fa.

Il buio, il sonno, la luna, la febbre, la stanchezza, gli occhi chiusi… sono la coltre insincera, dove ci concediamo sprazzi di passato per nasconderci al presente.

Draco si prende tutto il tempo del mondo per rinfrescare il mio viso, piano, con gesti misurati e premurosi, prima che ancora lo senta sospirare e sussurrare, la voce bassa che fatico a sentire: “Tu e Radcenko non avete bisogno di alcuna mia benedizione…”, sobbalzo, rendendomi conto che era perfettamente cosciente che fossi sveglia, eppure mi serro nelle spalle e non accenno ad aprire gli occhi, mentre prosegue: “Dubito che ne avresti mai avuto bisogno… e dubito che tu ne abbia bisogno adesso… so di Raissa, so di Dimitri, so tutto… e non posso convincerti ad accettare che io ti aiuti per tuo figlio… se hai bisogno di andare via, fosse anche con lui… fallo e basta. Ma fallo presto… sai come va tra me e te… come va sempre tra me e te…”, sospira ancora profondamente come per prendere fiato e sussurra: “Non possiamo mettere a posto quello che è stato. Eppure fingeremmo di dimenticarcene così da trattenerci l’uno nella vita dell’altra… e poi… alla prima occasione…”.

“… verrebbe tutto fuori daccapo… lo so…” completo io al suo posto, triste, riaprendo finalmente gli occhi e trovandomelo davanti, chino su di me, il fazzoletto bagnato ancora in mano, i capelli biondi spettinati e gli occhi grigi slavati dalla stanchezza. Si siede goffamente per terra, accanto al divano, la testa reclinata all’indietro, guardando il soffitto con espressione distratta, prima di annuire.

“Forse doveva andare così…” sussurro piano, fissando un punto imprecisato alle sue spalle, per fermare le lacrime sotto gli occhi.

“No… non doveva andare così…” dice lui deciso, forte, stringendo i pugni anche se non mi guarda ancora “E’ andata così per i Karkaroff… non posso credere che non ce l’avremmo fatta…”, il suo sguardo torna d’improvviso nel mio, fiero, lucido, spavaldo, mentre aggiunge lapidario: “Io e te… quelli che siamo stati, allora… ce l’avremmo fatta…”.

Annuisco, non sapendo se lo faccio solo per fargli intendere che l’abbia sentito, oppure perché sono d’accordo con lui: cosa importa, in fondo? Lui non mi perdonerà mai per Ilai. Io non lo perdonerò mai per Raissa. Chi se ne frega di quelli che eravamo… ormai non ci siamo più, ugualmente.

“Non che importi, adesso…” riprende, facendo nuovamente scivolare lo sguardo lontano da me e prevedendo il filo dei miei stessi ragionamenti “Credo che quella parte di me… di noi… sia morta e sepolta, ormai… è rimasto solo… il padre di Serenity. E quello che farei per lei… e la madre di Alex…e quello che tu faresti per tuo figlio… tutto filtra da questo. Persino i sentimenti che ho per te, e quelli che tu hai per me… o mi sbaglio?”. Annuisco ancora, dicendomi intanto che in realtà qualcosa di diverso c’è. E passa tutto da quello che lui farebbe per mio figlio… per suo figlio. La consapevolezza che le cose stanno prendendo una piega più definitiva di quelle che dovrebbero avere, mi frastorna d’improvviso, facendomi sentire spossata. Sto salutando intimamente Draco, ma in realtà io non posso ancora farlo, forse non potrò mai, perché è il papà di Alex. Ma lui non lo sa, non lo sa ancora, mi sta giustamente rescindendo dalla sua vita… e non posso permetterglielo, non ancora. E non c’entra il sangue di cui ancora ho bisogno… c’entra Alex, il mio bambino. Qualsiasi cosa accada, comunque vada tra me e Draco, Alex ha bisogno di suo padre. L’ho capito tardi… ma l’ho capito.

“Io devo parlarti… c’è ancora una cosa che devo dirti…” le mie parole mi esplodono in gola, mentre mi tiro ritta a sedere, rompendo la quiete mesta che ci attorniava. Draco sussulta, si rimette dritto e mi guarda in attesa. Ho la gola secca, ma improvvisamente so esattamente che cosa dire. Non penso a me stessa, non penso a Draco. Penso solamente a nostro figlio. Penso che ha bisogno di suo padre. Penso che non voglio e non posso più essere da sola a fargli da genitore. Penso che tutto questo è così maledettamente giusto, a così tanti livelli, che ormai non posso nemmeno concepire l’ombra di un dubbio. Il mio sguardo, che si era inconsapevolmente abbassato sulle mie mani chiuse sulle ginocchia, ritorna alto e cerca gli occhi di Draco, mentre dischiudo le labbra.

Ma non trovo i suoi occhi, bassi dove erano prima, mentre lui era seduto di fronte a me. Si è alzato in piedi, guarda un punto alle mie spalle, stringe i pugni e serra la mascella. La febbre rallenta e di molto, i miei riflessi, perché di primo acchito non capisco che diamine stia guardando: devo persino sbattere le palpebre un paio di volte, per snebbiare la vista. Poi comprendo che sta guardando il camino spento alle mie spalle e mastico maledizioni sottovoce: proprio adesso doveva essere contattato da qualche amico suo? Io e il tempismo abitiamo decisamente in due dimensioni spazio temporali parallele.

Sto già per alzarmi e togliere il disturbo, pronta a tornare dopo, quando lo sguardo di Draco torna nel mio, ed è torbido, teso, preoccupato.

E lì, con un brivido che nulla ha a che vedere con la febbre, mi volto piano su me stessa. Nel camino non è comparsa una testa fiammeggiante, come accade in tutte le comunicazioni tra maghi. È invece comparsa una nebbia perlacea, dalla consistenza più densa del mero fumo, che sta rapidamente invadendo la stanza. Preoccupata mi tiro su a sedere, coprendo il viso con una mano e temendo che si tratti di qualcosa di tossico. Cinque secondi dopo, ne ho la conferma. Ma non si tratta di una tossicità che concerni direttamente i miei polmoni… riguarda, invece, un alto grado di dannosità valevole per la mia intera persona, i miei affetti, la mia anima, il mio corpo, il mio passato, presente e futuro. La nebbia assume la consistenza netta di un muro, e le fogge di una superficie rettangolare, quasi come se si trattasse di un televisore: splende di un bagliore smunto ed intermittente, ronzante, finché vortica in modo sinistro, materializzando due figure che assumono progressiva definizione.

Traballo su me stessa, reggendomi in piedi ed aggrappandomi al bracciolo del divano, gli occhi che mi si fanno lucidi. Mi mordo le labbra, trattenendo le lacrime, che non so se siano d’ansia, di preoccupazione, di dolore, di irritazione dovuta alla nebbia o di febbre. Poco importa, non le devono vedere lo stesso. Draco, alle mie spalle, fa un passo verso di me, mi afferra per un gomito e quasi mi costringe a stare dritta, mentre le figure mi appaiono finalmente limpide. Lo ringrazio mentalmente, mentre lascia cadere il braccio, dopo essersi sincerato che potessi stare in piedi da sola.

“Buongiorno tesoro…” la voce disgustosamente roca di Dimitri mi fa accapponare la pelle, mi chiudo nelle spalle per impedire che se ne accorga. Ha un aspetto più florido del possibile, sembra ben nutrito, riposato e sereno. Tutto il contrario di come sto io… e solamente a causa sua e di sua sorella. Lei, come di consueto, non parla, ha la mascella serrata e lo sguardo rivolto ostinatamente su di lui.

“… e buongiorno anche a te, Malfoy…” sogghigna Dimitri, un tetro scintillio nei beffardi occhi chiari, Draco si irrigidisce ancora di più “Non nego che avrei avuto maggiore soddisfazione a trovarti già in perenne posizione orizzontale… ma almeno possiamo darci agli ultimi convenevoli…”, Dimitri fa una studiata pausa ad effetto prima di aggiungere biecamente: “Non c’è bisogno di ringraziarmi per essere riuscito in ciò in cui fallivi da anni… ossia uccidere gli assassini della Greengrass… ed anche per averti tolto di mezzo l’altra Greengrass… non nego di aver tratto anche del piacere personale da entrambe le situazioni…”. Draco non risponde, resta immobile, non posso guardarlo in viso, ma la tensione che emana il suo corpo la sento persino io che sono davanti a lui.

“Dov’è Alex?” chiedo terrorizzata, guardando Dimitri con odio puro, stringendo le palpebre “Che cosa gli hai fatto?!”.

“Nulla Granger, credimi…” mi rassicura malevolo Dimitri, guardandomi di sbieco “Ho reputato che il miglior modo per far vivere ad Alex questa esperienza, fosse che non la ricordasse affatto… quindi tuo figlio dorme da quando l’abbiamo… prelevato… e come ben ricordi, siamo una sola cosa adesso… domani sera lo saremo definitivamente… quindi, se mangio io, puoi star certa che ne trae anche lui giovamento…”. Un piccolo sospiro mi cattura i polmoni, effettivamente la sola cosa buona di questa dannata assimilazione è che se Dimitri sta bene, sta bene anche Alex. E quel bastardo sembra stare benissimo: quindi anche il mio bambino sta bene. E se sta effettivamente dormendo come dice… non si sarà nemmeno reso conto di nulla. E spero che non se ne renda conto mai… fino a quando non sarò andata a prenderlo…

“Quindi Granger, non essere noiosa…” blatera Dimitri con un gesto noncurante, come se stesse scacciando una mosca molesta, poi, ispirato, soggiunge: “Qui, sta succedendo qualcosa di sommamente più interessante e a cui darei la priorità al momento…”, non capisco di che diamine stia parlando, finché non mi rendo conto che Raissa si è stretta nelle spalle ed ha sollevato lo sguardo lievemente. Un brivido mi fa trasalire, mentre mi volto leggermente e guardo alle mie spalle. Draco ha lo sguardo fisso su di lei, gli occhi di acciaio che la trapassano da parte a parte, l’espressione dura.

“Tu… hai fatto tutto questo… a me?” l’intimità di quella domanda è peggiore di tutte le illazioni fatte mentalmente su di loro, peggio persino delle risposte poco filtrate che ha dato alle mie domande. La confidenza dei pronomi personali, il tono accorato ed incredulo di Draco che, davvero, non ha mai pensato che quella donna potesse fargli del male… mi hanno comprendere in modo fulmineo e poco delicato quanto si sia fidato di lei e quanto ci abbia tenuto a lei. È come uno spiraglio di una vita che queste due persone hanno condiviso per cinque anni: il respiro di questa casa, d’improvviso, sa ancora pesantemente di giorni trascorsi assieme, a spartirsi poca gioia e moltissima sofferenza, mischiate tutte assieme tra le lenzuola della camera da letto. Mi sento estranea, terzo incomodo, cerco di farmi piccola in questa confidenza sussurrata tra queste due persone, mentre Dimitri ridacchia ed io non so nemmeno dove guardare. Alla fine è lui che guardo, Dimitri, perché lui è responsabile anche di questo, anche di farmi stare qui in questo momento, anche di quest’ondata di fuoco liquido che mi scioglie le viscere, inducendomi al pianto.

Draco, senza esitazione alcuna, prosegue con tono spento e volutamente basso, come se stesse cercando di arrivare a qualcosa di ben diverso dalle mere orecchie di Raissa: è come se, a suo modo, stesse cercando di farla rinsavire, ragionare, tornare in sé. Ed ancora sento caldo, un rovente e vorticante incendio allo stomaco. Sa di poterselo permettere, Draco. Sa che lei lo ascolterebbe. Ovviamente, spero che lo faccia, spero che l’ascolti… ma qualora accadesse… avrei ancora una prova ben diversa da un mero rapporto fisico tra loro. E questo, nonostante tutto, farà sempre un male dannato dell’inferno.

Eppure lo lascio fare, chiudo gli occhi, cerco quasi di sparire come se non li volessi disturbare: ho imparato troppo, in poche ore, per permettermi recriminazioni cretine da donna innamorata che mi allontanino ancora di più da mio figlio.

“Tu hai permesso che lui me la portasse via…” pronuncia affannato Draco, non un solo muscolo lascia intendere che stia guardando me e non lei, mi stringo ancora nelle spalle, il fuoco che si placa un pochino, sentendolo ricordarsi di me “Io mi sono fidato di te, da subito… e tu mi hai consolato, aiutato. E sapevi che lei… sapevi che Hermione stava rischiando la vita, e tutto quello che era nelle mani di tuo fratello…”, Draco abbassa ancora di più la voce, ringhiando: “Se le fosse successo qualcosa, se oggi non fosse stata in grado di essere qui, se l’aveste uccisa come avete fatto con la moglie di Radcenko…”, fa una pausa voluta, forte, tonante che ha l’effetto anche di gelare Dimitri, ma Draco scuote il capo come a ricacciare indietro quei pensieri in un punto oscuro dentro, non prima di aver gettato uno sguardo confuso nella mia direzione, come ad accertarsi davvero che io sia qui. Tento un timido sorriso con gli occhi, ma lui volta subito il viso altrove, riprendendo: “… avevate un debito con me. Tu avevi un debito con me… e l’hai saldato, allontanando da me la sola persona che avesse mai contato fino a quel momento nella mia vita…”, ancora rabbrividisco e mi serro nelle spalle, il calore che non so se sia febbre, che mi toglie il fiato e mi azzera la salivazione.

“Ed adesso…” soggiunge stoico Draco, sibilando freddo “Per me non fate alcuna differenza… entrambi... lasciate libero il bambino…prima che vi pentiate tutti e due di esserti mescolati alla mia stramaledetta esistenza…”. Dimitri, ovviamente, non si scompone, ridacchia beffardo e sta per aprire bocca, ma Raissa finalmente solleva lo sguardo, gli occhi verdi corrono prima al mio viso, ritraendosi disgustati, e poi vagano su quello di Draco, mentre aggiunge, ignorando la sua minaccia: “Fino ad una settimana fa… fino a pochi giorni fa… non avrei mai voluto chiamare Dimitri indietro dalla morte falsa, che si era imposto…”, parlano come se non ci fossimo, Dimitri non ne pare disturbato, sghignazza e basta, guardandomi; io, in compenso, non riesco a stare ferma con i piedi, la febbre che rende i miei movimenti fin troppo lenti “… ed anche se l’avessi fatto… tu e Serenity dovevate restare fuori…”. L’aria assente di Raissa torna improvvisamente fin troppo presente, mentre soggiunge digrignando i denti: “Ma lei si è presa Ilai… me l’ha portato via… i-io ho visto come la guardava… Ilai la guarda come guardava Tatia, come non ha mai guardato me, con quell’ansia di uccidersi pur di proteggerla…”, mi stringo nelle spalle, distolgo il viso, come se lei potesse leggerci anche il modo che ha avuto Ilai di baciarmi. Non so se sia lo stesso che aveva con Tatia, e nemmeno mi interessa, ma non vorrei mai che lo intuisse. Draco, alle mie spalle, segue le mie manovre in silenzio, lui che invece difficilmente posso ingannare. Il mio sguardo corre un secondo nel suo, ma è lui a distoglierlo per primo, tornando a Raissa che riprende a parlare: “Ma ho visto anche come lei guardava lui… e come guarda ancora anche te… se non fosse la puttana che è, se si fosse accontentata solo di Ilai… tu almeno saresti stato salvo… ed invece vi vorrebbe entrambi, quella cagna…”, ancora Raissa parla come se io non ci fossi, non mi do pena di rispondere ai suoi patetici insulti, mi basta sapere dove diamine sia mio figlio, ma se non finiscono sto discorso inutile, non posso ovviamente saperlo “… ed io non posso lasciare che abbia né te, né Ilai… si consolerebbe con il superstite, l’aiuterei persino a scegliere… ed invece così non avrà nessuno dei due… come non vi avrò io…”. La rabbia ovviamente mi raggiunge nonostante il velo della prudenza, della disperazione e della febbre, costringendomi a mordermi l’interno della guancia nervosamente, finché non sento il sapore del sangue in bocca. È come benzina sul fuoco quel tono ferrigno sulla lingua: i pugni chiusi lungo i fianchi, mi ritrovo ad urlare stremata prima di rendermene conto: “E tu per punire me, accetteresti anche di ammazzare la persona che dici di amare? E quella con cui hai vissuto per cinque anni? Ed ammesso che ciò non ti convinca… che cosa diamine c’entra mio figlio, sua figlia?! Sei stata con Serenity per cinque anni… ed adesso la priveresti di suo padre?! Che razza di persona sei?!”. Draco alle mie spalle, raggela, come se avessi detto troppo, cosa che mi fa chiedere se non abbia esagerato. Ma, dopo, la pressione gentile che fa con due dita sulla mia schiena mi fa rabbrividire di sollievo.

Dimitri chiude le braccia al petto, divertito, osservando in tralice la sorella, come ad aspettarsi la prossima battuta nel dramma che stiamo mettendo in scena per suo esclusivo divertimento. Raissa non si scompone minimamente, ha un’aria folle ed allucinata che non le ho mai visto. È come se davvero avesse perso ogni cognizione del reale. Sussurra solamente: “Se Serenity resterà sola… sarò io a farle da madre… come in fondo Draco voleva…”, le dita di lui, sulla mia schiena, tremano piano, come se d’improvviso e finalmente abbia capito con chi diamine abbia a che fare. I suoi occhi perdono la sfumatura quieta della diplomazia che aveva assunto, perdono ogni accenno tenero di affetto verso quella donna e si spalancano nervosamente, comprendendo quanto i Karkaroff abbiano in comune tra loro. Qualsiasi ostacolo ai loro obiettivi, deve morire… e, in modo diverso, sono io il loro obiettivo. Lui, Ilai, Alex e persino Serenity… sono inciampi trascurabili. Saranno soddisfatti solo quando sarò distrutta, marcia, morta, ma di Dimitri. La mano di Draco abbandona la mia schiena, si serra a pugno e resta sospesa lungo il fianco.

“… e in quanto al bambino…” prosegue Raissa monotona, come se stesse semplicemente organizzando una gita al mare “Te lo potrai pure tenere, Granger… se fai esattamente quello che ti abbiamo chiesto…”. Per un folle e sconsiderato attimo, mi immagino in un castello nero, colmo di morte ed odio, a crescere mio figlio assieme a Dimitri. È la cosa più orribile e sciagurata che abbia mai immaginato, non posso pensare che ci credano sul serio. Ma è così e me ne dà conferma Dimitri cinque secondi dopo, aggiungendo casuale: “Il bambino, poi, non è nemmeno fastidioso… credimi, Granger, mi sono anche ricreduto sul tuo moccioso, sembra un bambino intelligente e sveglio… era decisamente più odioso quando era nel tuo grembo, con quella stramaledetta barriera magica… ma non ci conoscevamo ancora, adesso siamo una cosa sola… andremo davvero d’accordo…”.

“Sei ancora più pazzo di quanto non pensassi se sei arrivato persino a concepire una cosa del genere…” mormoro a denti stretti, facendo un passo che spero suoni come minaccioso, sebbene nella febbre è molto più traballante di quello che vorrei “Mi riprenderò mio figlio… e la farò finita con voi due, una volta per tutte…”. Dimitri ovviamente non si scompone, scuote il capo come farebbe un fratello maggiore che deve sempre sopportare i capricci della sorellina e mormora con voce annoiata: “Domani sera, l’assimilazione diventerà definitiva… a meno che tu non mi porti i cadaveri di Radcenko e Malfoy… ed allora finalmente sarà finita sul serio…”. Digrigno i denti, nella testa rincorro già la soluzione al problema di ingannarlo sui corpi di Ilai e Draco e divento cieca e sorda del mondo circostante, al punto che non mi accorgo subito che è calato uno strano ed inquieto silenzio nervoso, di cui non capisco l’origine e il motivo. Sollevo lo sguardo nebuloso e mi rendo conto che Raissa è ferma, immobile, gli occhi sbarrati ed incuriositi: ha persino un singulto sinistro di gioia, che le trasfigura il viso di una luce cattiva che subito mi dà i brividi lungo la schiena. Dà una gomitata quieta a Dimitri, che segue la direzione del suo sguardo, e sorride a sua volta, divertito, stupito, autenticamente felice. Aggrotto la fronte, non capendo e, sebbene tenti di seguire la direzione del loro sguardo, non mi sembra che ci sia granché di nuovo nella stanza. Poi Dimitri scoppia a ridere senza ritegno, ottenendo di farmi ancora di più innervosire, così che automaticamente apro bocca per vomitargli addosso una serie di insulti e bestemmie, che però mi muoiono in gola. Perché lui, con calma e divertimento, mentre persino Raissa si trattiene dallo scoppiare a ridere, dice perfido: “Sai che c’è, Granger? Voglio essere generoso… portami solo il cadavere di Radcenko…”, lo guardo senza capire, comprendendo che deve essere successo qualcosa che, nel delirio della febbre, mi è evidentemente sfuggito. Mi sento così idiota che sto quasi per chiedere il perché, ma poi di istinto, guardo la schiena di Draco, grata che lui possa essere in salvo e possa restare fuori da questa storia. E gelo su me stessa.

La sua schiena è contratta, la maglia appare sudata e ha i pugni stretti così forte lungo i fianchi, che piccole gocce di sangue franano al suolo. Sto già per correre verso di lui, quando un’aura di colore nerastro attorno al suo corpo mi avvisa che probabilmente non riuscirei a toccarlo. Sembra… elettricità pura. Che diamine sta succedendo? Gli hanno fatto… qualcosa? Ma non ho visto nulla, non gli hanno nemmeno rivolto la parola… è lui… che sta reagendo, così. Ma a cosa, diamine? Non c’era già abbastanza da essere furioso? Ripercorro mentalmente le ultime fasi della conversazione, cercando qualcosa che non so, ed arrivo alla soluzione nello stesso momento in cui Dimitri, prima di sparire, sibila dolciastro: “Non ti perdonerà mai, Granger… tanto vale che resti vivo ad odiarti per sempre…”.

La nebbia si dirada come era nata, spegnendosi con le risate sguaiate di Dimitri e Raissa: ma il gelo nella stanza non passa, l’aura di Draco non passa, i suoi capelli ondeggiano di potere nero come se fosse immerso nell’acqua. Non riesco a guardargli il viso, non so che espressione abbia, terrorizzata mi rendo conto che forse non lo voglio sapere. Mi sta facendo autenticamente paura, davvero… e cerco immediatamente di farmi vicina, di parlare, di spiegare. Ma lui, con un solo singolo e flessuoso movimento della bacchetta, dopo aver pronunciato un irato: “Silencio!”, tronca la mia voce in gola. Ricado seduta al suolo per il forte contraccolpo dell’incantesimo, stringendo una mano sul collo: non ha mai usato un incantesimo contro di me, mai. E mai, con quella voce… come si trattenesse dall’uccidermi. È quello, forse, a lasciarmi seduta inerme al suolo, senza tentare la benché minima reazione, senza provare a forzare l’incantesimo. Non saprei nemmeno che dire.

Ormai… nemmeno importa più.

Dimitri ha accennato che ero incinta di Alex quando ero nel suo castello... cinque anni fa…

Draco, davanti a me, la bacchetta quasi spezzata tra le dita nervose, pronuncia un altro feroce incantesimo che fa sollevare la carta da parati della parete di fronte, che esplode in mille pezzi, soffiando polvere sul mio viso. Sulla parete, dietro la carta spezzata, emerge un ritratto dalla cornice antica e rovinata: una donna dall’aspetto nobile, gli occhi azzurri stropicciati dal sonno e una lunga massa di capelli corvini. Draco le si rivolge inquieto, la voce tenuta faticosamente normale dal tono di voce urlato che vorrebbe sputare fuori: “Nonna! Il tuo quadro… il tuo quadro a Grimmuald place… accanto all’arazzo dei Black… voglio che tu vada lì! Gli ultimi nomi dell’albero genealogico… leggimeli!”. Quella che adesso ho riconosciuto come la nonna materna di Draco, Druella Rosier, sparisce dopo aver fatto un vezzoso inchino, lasciando la cornice vuota. Attonita, cerco di liberarmi dall’incantesimo, perché non posso sopportarlo, non posso sopportare che accada così, non posso permettere che succeda così… e dovrei essere io, adesso, a togliergli i dubbi, persino quello infamante che, cinque anni fa, ero incinta di un altro uomo. Piango ed apro la bocca come uno stupido pesce rosso in una boccia, Draco che non si gira e volta affatto, lo sento solo digrignare i denti nell’attesa, come se li stesse per spaccare. Si muove solo quando mi vede alzarmi in piedi, e tentare di arrivare verso di lui: rapido, letale, veloce, mi costringe con un altro movimento della bacchetta al suolo, facendo esplodere una scarica di luce violetta contro il mio petto. Le mie costole tremano affannate, il fragore attira anche gli altri, li sento scendere le scale ma Draco, furioso, gli occhi ciechi, pronuncia un Colloportus così forte, che la porta sembra quasi staccarsi dai cardini. Finalmente lo guardo in viso: grosse gocce di sudore gli imperlano la fronte, le pupille sono dilatate e ricacciano l’aura grigia verso il fondo degli occhi, le labbra sono violacee e serrate, il respiro convulso, i capelli biondi ancora ondeggiano di potere represso. Mi getta una sola singola occhiata, mentre giaccio inerme ai suoi piedi, tenendomi il petto dolorante con una mano, e non è pena, dispiacere, dolore o confusione. È solo rabbia, disgustata, livorosa, rancorosa, che mi farebbe a pezzi, se potesse. Nemmeno quando pensava che fossi l’omertosa complice dell’omicidio dei suoi, o di Helena, mi guardava così… e scopro che fa così male, da farmi desiderare di morire all’istante, in sfregio persino ad Alex, in sfregio al mio orgoglio, in sfregio a tutto. Piango disperata, senza poter emettere un solo suono, l’incantesimo che mi blocca anche a causa della febbre, ed ogni parola si putrefà nella faringe, trasformandosi in una cascata di odiosi cristalli di sale che scartavetrano la gola, facendola sanguinare di offesa e di umiliazione, oltre che di sofferenza e tristezza.

Quando Druella Rosier torna, ha anche lei l’espressione disgustata: guarda il nipote con astio, tenendosi un fazzoletto ricamato sulle narici come se avvertisse un fetido odore di fogna.

“Di chi sono gli ultimi nomi, nonna?!” scoppia Draco come se non ne potesse più, il vaso sul tavolino accanto a lui esplode in mille pezzi, mi proteggo il viso dai frammenti di vetro.

“Di traditori del loro sangue, di feccia, di mezzosangue che inzozzano la nostra purezza di stirpe…” piange Druella, guardando biecamente Draco che, ansimando, urla di nuovo, incendiando la tenda: “Di chi sono i nomi?!”. Druella sembra spaventata, assume un colorito bianco ed esita, poi, terrorizzata, sputa fuori due nomi, prima di sparire nel paesaggio bucolico alle sue spalle.

“Teddy Lupin, nipote di quella sciagurata di Andromeda… ed Alexander Leo Malfoy, nipote della mia piccola Cissy… e figlio tuo e della Sanguesporco Granger…”.

Tutta l’aria, tutto l’ossigeno viene succhiato via dalla stanza, sostituito da un qualcosa di acquoso, viscido, denso come gli abissi di un oceano morto: qualcosa che rallenta i movimenti, qualcosa che rende tutto soffuso ed oscuro ai miei occhi, qualcosa che fa pulsare dolorosamente un punto fiammeggiante sopra il mio seno sinistro. Ed allora, forse, non è solo l’aria che manca, non è solo il cervello che annaspa, chiedendo qualcosa che non ha più e che probabilmente non avrà mai – l’aria limpida, serena, pulita, come se tutto fosse a posto - : forse allora, è il tempo stesso che se ne vola fuori, assieme alla vita, al delirio dell’esistenza, alla cognizione di chi siamo e di che cosa vogliamo, divento piatta come un foglio di carta, devitalizzata come un embrione abortito, secca come una foglia d’autunno. Tutto si atrofizza, tutto resta immoto per qualche secondo, amaro come un limone mangiato in modo improvvido e sleale, che annienta il senso del gusto per sempre.

Una nuvola abbatte il sole, lo cancella, le pareti si rivestono di piombo e sembriamo chiusi dentro una cassaforte in fondo al mare, come l’esperimento di un mago escapologo.

Ma fuga non c’è: è la fine, perché la fine si annuncia, bussa, sparge segni come semi al vento che ti soffiano in viso, costringendoti a chiudere gli occhi. E se anche non vedi, senti e sai, lo sai che alla fine stai arrivando, perché il cuore si fa pesante tra le costole, diventa d’improvviso così rovinosamente greve che ti schizza fuori il poco respiro che raccatti in una stanza che sa di piombo e di acqua sporca. Io, questa fine l’ho costruita pezzo dopo pezzo, l’ho ricamata come la tela di un arazzo da guardare con spasmodica attenzione tronfia, calibrando il colore di ogni filo e recidendo ogni fibra che mi tenesse ancorata a qualcosa che stridesse con la fine stessa. Da quando sono entrata qui, l’avrei voluta mia questa fine, l’avrei voluta tenere stretta tra le mani così da conoscerne foggia e forma e non poterla confondere con null’altro, né con una pausa di riflessione, né con un moto di pigrizia emotiva, né con un spasimo di orgoglio funereo. L’avrei voluta decisa e spontanea, ineluttabile eppure convinta, con quell’ombra soffusa di speranza che solo il tempo sa risolvere e rivoltare, rivelandola come un retaggio d’abitudine o un autentico investimento nel futuro. Ma io, che sono quella dell’essere responsabili delle proprie azioni, quella che ponteggia sul libero arbitrio, quella che “se vuoi qualcosa, la fai”, quella de “le coincidenze non esistono”, ecco quella… mi ritrovo a subire la fine, senza che l’abbia innescata, senza che l’abbia vista arrivare. E la subisco anche fisicamente perché resto seduta per terra, senza voce, il labbro spaccato. Debole, sconfitta e vinta che, se ci fosse Dio, gli chiederei il motivo di tante elaborate punizioni e se mi rispondesse che ne avrò ricompensa, direi che ricompensa e premio non c’è. Perché tutto mi è tolto, tutto mi è rubato come se io non me lo fossi nemmeno dovuto drappeggiare addosso, che forse vivo la vita di un’altra ed allora me la strappano pezzo a pezzo.

Forse vivo l’amore che doveva essere di Helena, forse vivo la maternità che doveva essere di Tatia: quindi, adesso, se le vengono a prendere con gli interessi.

E allora strappatemele tutte, dannate streghe, ed è all’inferno che marcite perché nessun Dio potrebbe volere questo: strappatemi via ogni goccia stupida di amore per quest’uomo, fate che ne abbia emorragia, tiratemelo fuori dal sangue, dal petto, dall’anima, dal respiro, dal fiato, dal ricordo, e fate un lavoro certosino, preciso, lungo, accurato. Strappatemelo dalle unghie, che non mi ci aggrappi più, che non diventi amicizia, stima, tenerezza, imbarazzo, perché deve bruciare come l’inferno che vi brucia, perché solo così abbiamo pace, odiandoci ed uccidendoci. E strappatemi l’amore di madre, perché mio figlio merita tutto, merita altro che non sono io, e di errori ne ho troppi, decine, migliaia di cui presentare il conto. E sarà salato, salatissimo… ed allora che sia salvo mio figlio, il mio bambino, ma che non sia con me, che vi prendiate tutto di me e io che possa restare involucro nella terra, a dormire, a riposare finalmente, a giacere illibata e vergine in una tomba di nulla, perché è troppo sfiancante andare avanti, ed in questo corpo forza non ce n’è più. Me l’avete drenata dal corpo: ed allora… adesso… posso riposare ora?

L’orgoglio, per primo, ha subito la fine: non mi riesco ad alzare da terra, non mi sforzo di parlare, guardo solo le mie ginocchia, provando solamente ad escludere dalla mia mente che cosa possa provare Draco. Non sapevo ancora che parole avrei usato, probabilmente avrebbe avuto comunque un colpo... ma avrei cercato ogni balsamo per lenirlo. Posso odiare il Draco che amo e che mi ha sostituito tre mesi dopo che ero sparita… ma non avrei mai odiato il padre della cosa che amo di più al mondo. Ma lui, adesso, non ha avuto alcuno schermo: la verità è stata fango, limo, sabbia, buttate in faccia a schiacciargli il fiato, accompagnate poi da una turba di pensieri neri che posso solo intuire. Con la coda dell’occhio, mi accorgo che Draco, d’improvviso, ha ripreso a muoversi come un animale in gabbia, l’aura ghiacciata che ancora gli gravida attorno, i pugni serrati lungo i fianchi ed un’espressione stralunata che non gli ho mai visto. I nostri amici continuano a bussare alla porta, ma non raggiungono le sue orecchie. Misura a grandi passi la stanza, pazzo, feroce, animalesco, ripetendo tra le labbra: “E’ mio figlio. E’ mio figlio. E’ mio figlio”. E, ad ogni passo, ad ogni invocazione, ad ogni movimento dei piedi, prende qualcosa che infrange violentemente al suolo: un vaso colmo di peonie bianche e rosa, una cornice con una foto di Serenity, un soprammobile di un viaggio a Londra… un ricordo, uno slancio di passione, un monito di tenerezza, un singulto di perdono: rovinano pezzi di vita sul pavimento, infranti dalla sua furia cieca, e non faccio nulla per spostarmi dalla loro traiettoria. Distrugge tutto di quella vita serena, da rivista d’arredamento, che tanto avevo invidiato entrando qui: come se bruciasse su una pira quello che è stato fino ad ora. Sembra godere nel calpestare frammenti e pezzi di carta, finemente, fino a ridurli ad una polvere sottile ed apparentemente innocua. Si porta spesso le mani nei capelli, si morde il labbro, calcia con violenza sedie e tavoli, ma mai guarda verso di me.

Perché ora è il sangue che ti spinge: il sangue del padre, vero?

Chi abitava in questa casa, nonostante tutto, era sempre Danny Ryan: magari più tranquillo, riconciliato, felice. Ma di quel riflesso, tu hai preso in prestito sembianze di calma, che non hai mai posseduto ed, alla fine, avevi fatto così finta di essere lui che lo sei diventato sul serio. Avevi la sua mente tersa, banale, concentrata su un oggi patinato di gioia rafferma. E ci hai creduto sul serio: hai appeso foto di un passato che potevi ignorare, hai cresciuto una bambina, ti sei persino detto che andavi avanti perché stavi con Raissa. Poi sono entrata io… e sei tornato Draco, il mio Draco, che ha il cuore spremuto dall’amore e che cerca di mettere a tacere con l’ironia sbruffona; che confonde l’odio con l’adorazione, che di me tutto odi e disprezzi, e tutto poi ami e idolatri. E Draco conosce gelosia, passione, rabbia, e le mescola tutte assieme, in un calderone che ucciderebbe altri, ma non smuove te, che hai il cuore allenato a sopportare il quadruplo delle reazioni umane. Draco, lui sì, che poteva anche accettare che oggi fosse la fine… perché in fondo è generoso come nulla, e mi avrebbe lasciato andare. Io amo Draco, disprezzo Danny Ryan… ed odio Malfoy. Ed ora, io ti ho fatto tornare Malfoy, quello che magari tu stesso eri convinto che non ci fosse più… ma invece c’era, è un legame che si nutre di placenta ed orgoglio genitoriale, rinsaldandoti alla stirpe marcia che ti porti dentro.

E, sebbene padre lo sei già… Serenity non è tua. E’ libera di amarti o no… è legata non dal sangue, ma dall’amore… e quello è Draco.

Di Alex avresti avuto prima dell’amore, sangue, orgoglio, rispetto… ti avrebbe fatto nascere padre come padre nacque Lucius Malfoy.

Purosangue, traditore, fariseo, becero doppiogiochista… che del sangue vive e del sangue, ora, ha un riflesso sconfessato e scoperto per caso. È il sangue che chiama adesso.

Sei un Malfoy, a cui hanno tenuto nascosto un figlio.

Non c’è essere più pericoloso, cattivo ed imprevedibile nell’intero Universo.

Repentinamente, Draco si ferma immobile nella stanza e scoppia a ridere in modo così stridente e folle, da farmi accapponare la pelle. Si piega in due, ma intanto continua a calciare oggetti sparsi.

Non ho paura, di lui. Non devo averne.

Ancora non mi guarda, si rivolge all’aria stantia che ci circonda, come se non esistessi, come se fossi evaporata qualche istante fa e lui parlasse ad una sgradita ospite lontana della memoria: “Non ha detto la sua età. Non l’ha descritto. Non ha detto nemmeno il suo nome completo… Leo fa persino di secondo nome…”, ancora gli sfugge una risata astiosa, denigratoria, che vede in quel piccolo gesto che io volevo come legame, solo un ulteriore beffa a suo danno. Difatti commenta: “Il contentino, certo…”, insegue frotte di pensieri lugubri, mentre ancora fa avanti ed indietro: “Ne ha parlato da quando è entrata qui, non voleva che l’aiutassi, voleva che stessi lontano da… da mio figlio…”. Quell’aggettivo possessivo, lo pronuncia con voce dolente e tremante, è un delirio incosciente, un rantolo da ubriaco che conosce sintassi scomposta e pause nevrotiche. Ha perso completamente il controllo… lui, che il controllo non lo perde mai. Rabbrividisco ancora, mentre prosegue con voce più sottile, guardandomi in tralice, una smorfia di ribrezzo che gli deforma il viso: “Sei stata furba, eh, Granger? Peccato che Karkaroff abbia parlato… peccato, davvero… avrei pensato per sempre che tuo figlio fosse davvero solo tuo, fosse davvero una scopata occasionale…”, la sua voce improvvisamente si alza di tono, chiude i pugni e mi affronta a muso duro, gridandomi contro: “Me lo avresti tenuto nascosto per sempre, vero?! L’avresti persino spinto ad odiarmi, perché mi facevo quella che l’ha rapito, vero?!”, frustrato, afferra la bacchetta e la punta nella mia direzione, tremo come se davvero temessi che possa uccidermi, mentre invece si limita ad urlare minaccioso: “PARLA, dannazione!”. Un’ondata di calore mi avvolge la gola, mentre riacquisto l’uso della parola. Lo guardo come non credo di averlo mai guardato, perché mai nella vita, sin dalla preistoria di Hogwarts e sin dai tempi della guerra, ho associato tanti aggettivi negativi e terrorizzanti sulla sua persona. Mi sforzo mentalmente di rintuzzare orgoglio e coraggio, come farei di una brace addormentata punzecchiata con un bastone: cerco vie e strade inesplorate, sentieri impervi che mi facciano risorgere me stessa da questo involto tremolante che sembro essere diventata. Ma non c’è verso: non posso richiamarmi alla ragazzina di scuola, che intimamente riteneva di essere migliore di lui per merito e destino; non posso appoggiarmi all’eroina di guerra, che magnanima accettava supponente un traditore che veniva dalla sua parte; non posso nemmeno rifarmi alla donna innamorata che mai avrebbe permesso che lui mi parlasse ed usasse così, perché quella donna l’ho talmente seppellita ed uccisa per far posto solo alla mamma di Alex, che ormai non so manco dove sia. E la donna che non sa che prova per Ilai, è ancora maledettamente debole, perché brandisca quel sentimento nebuloso come una spada ed un bastone ed un sostegno. C’è solo la madre di Alex, adesso, e quella, senza suo figlio, basta un alito di vento per spezzarla e portarsela via.

La mia voce, pigolante, gracchiante, terribilmente somigliante al peggiore dei miei peggiori incubi, squittisce, mentre cerco a fatica di alzarmi in piedi: “I-io… io te lo stavo dicendo… poco fa, ricordi… ti ho detto che ti dovevo p-parlare…”. Sono parole nate deformi, nate già handicappate, quando escono dalle mie labbra, e suonano come suonerebbero degli sgraziati fracassi prodotti da utensili inutili. E difatti Draco, lo sguardo cieco di furia, non perde un secondo per interrompermi, contraddicendomi. La sua voce non è come la mia, è dura, forte, urlata, come mai è stata.

Il padre di Alex e Draco Malfoy non hanno quasi nulla in comune. Stessa cosa per la madre di Alex ed Hermione Granger.

Forse… non torneremo mai noi stessi.

Chiudo gli occhi inconsciamente, mentre Draco mi urla addosso: “Quando, eh? Quando? Dieci minuti fa? Sei qui tra ventiquattro stramaledette ore… ed abbiamo parlato di tutto, DI TUTTO, tranne che di questo… mi sono dovuto sentire per ore le menate su te e Radcenko, Weasley, Thomas o chi cavolo ti fai al momento! E non ti è passato per la testa di dirmi che il figlio di cui parlassi, era anche mio?! Dovevi dirmelo appena entrata! Ed invece no…”, si ferma, prende fiato, si massaggia stanco la tempia e riprende, la voce più malevola: “E’ stata tutta elusione continua, ci hai girato attorno, ecco che cosa cazzo mi stavi tenendo nascosto, ecco che cosa evitava di dire Seth, Pansy… hai costretto anche a loro a mentirmi!”.

“Non dire sciocchezze!” qualcosa di me stessa rispunta fuori, come un raggio di sole nell’abisso nero dell’oceano, ma è ancora poco, ancora poco, ancora gracchia insopportabilmente la mia voce “Sapevano che era una scelta mia, che ero io che dovevo…”.

“Fare, cosa? Eh? Cosa?! Dirmelo quando ti aggradava, dirmi che mio figlio è in pericolo e io non so nemmeno di avercelo un figlio?!” è senza controllo, senza freno, mi interrompe ancora e so che ha ragione, so che avrà sempre ragione “T-tu… mi hai guardato negli occhi, hai detto di essere sincera… e non mi hai detto tutto questo?! Tu dovevi tornare da me cinque anni fa, appena hai scoperto di aspettare il mio di figlio!”. Si avvicina minaccioso a me, il volto trasfigurato dall’ira che sembra la maschera cattiva di un demone da teatro, colma di rosso e nero e di lineamenti luciferini, rabbrividisco e gemo, come se temessi ed aspettassi il colpo fatale. Ma lui mi afferra per le spalle, mi scuote violentemente, la febbre mi fa sentire tutto triplicato e mi fa a pezzi il cuore, sbriciolandolo del tutto. Grida a muso duro, ad un bacio dal mio volto: “Nessuno ti dava il diritto di scegliere per il mio di figlio!”.

È quella improvvisa vicinanza che quasi mi sveglia, mi tramortisce, mi acceca: pensare che, quando due persone sono così vicine, quando si sono amate, si colma il sangue del desiderio di un bacio. Lo scopro ancora nel fondo di me stessa, è simile ad una piccola fiammella rosata che mai sarà spenta, nemmeno da questa conversazione. È come afferrare il filo e procedere a ritroso fuori da un labirinto, recuperando ad ogni passo ed ostacolo superato, una parte di me stessa, di lui e di quelli che siamo stati assieme. Recupero ricordi e forza d’improvviso, tanto per persino la febbre mi sembra sopportabile, diventa una carezza fresca. Io ho cresciuto mio figlio, nostro figlio, nell’amore: quello che ho dato a lui, quello che lui ha dato a me, quello che gli ho sempre detto che l’ha forgiato. Dentro di me, per mesi, hanno battuto due cuori, come se davvero si volesse triplicare e moltiplicare l’amore. Il mio è un cuore piccolo, rugoso, colmo di imperfezioni e rughe. Il cuore di mio figlio era ed è, dentro di me, luminoso, chiaro, circondato da un’aura di fiducia smisurata nel mondo e nella vita, da un’allegria scanzonata, da una sorridente vivacità. Ora, adesso, lo sento ancora nel ventre quel battito lontano. Ed esso mi riporta sulla retta via, come l’ago di una bussola: l’amore che ispira anche solo il ricordo di un bacio, nutrendosi di un’ostile vicinanza… l’amore che fa battere due cuori nello stesso corpo fallace di una donna… è lo stesso amore che ha messo al mondo quel figlio, che Draco adesso rivendica come suo. L’amore non sbaglia mai. Furia e fuoco nelle ossa, ammetto con me stessa di aver potuto sbagliare come amante, come moglie finta, come donna imperfetta… ma non come mamma. Ho strattonato ogni parte di me stessa per essere la migliore delle madri, ed il migliore surrogato di un padre.

Posso accettare il rimprovero alla mia me stessa innamorata, quella che tiranneggia quest’uomo, quella che non perdona che sia stato con un’altra, quella che nutre sentimenti confusi per Ilai, quella che non è mai sicura e che odia ed ama assieme, e posso condannarla per aver prevalso quando sono entrata qui dentro, e per avermi tappato la bocca nel parlare con Draco… se lui mi rimprovera di non avergli detto di Alex appena sono entrata, ha ragione. E ne avrà sempre. Non avrò mai sufficienti scuse a riguardo. Ma non può nemmeno osare fiatare su questi cinque anni. Una sola imperfezione non cancella quella che sono stata per cinque anni: non cancella che un minuscolo frammento di merito nel modo in cui sia venuto su mio figlio, sia anche mio. Non cancella che mio figlio sia cresciuto sereno e felice, per quanto era possibile, sebbene sostanzialmente prigioniero. Non cancella che io, adesso, sempre… farei qualsiasi cosa, anche morire, anche uccidere, anche rinunciare a lui, per averlo in salvo.

La colpa dell’amante, non cancella le scelte della madre.

Nemmeno se provasse a cancellarle il padre di mio figlio. Specie se mi rimprovera di non essere tornata cinque anni fa.

Finalmente la mia spina dorsale torna dritta, raddrizzo la schiena, le guance si asciugano e il coraggio risorge, mostruoso e terribile. Lui mi guarda sbattendo le palpebre, in questo infinito gioco di parti di teatro sembra Draco per un attimo, e non più Malfoy, gli occhi sono meno neri, e più grigi, meno grigi e più azzurri.  Mi divincolo dalla sua presa sulle mie spalle, lo guardo socchiudendo gli occhi ed urlo a mia volta, la voce adesso finalmente somigliante alla mia: “Mi hai sentito almeno quando ho parlato, prima?! Hai capito che cosa diamine mi è successo?!”, glielo chiedo davvero come se davvero non avesse capito, e lui davvero per un attimo sgrana gli occhi, ci sono tante dimensioni del non dire e del solo sentire tra me e lui, che è autentico stupore che si mescola all’ira nei suoi occhi. Questo rende la mia voce più bassa mentre proseguo, ma non meno amara, confondendosi con un accenno indistinto di pianto: “Scusami tanto se mentre ero imprigionata nel castello di Dimitri, non ti ho potuto immediatamente chiamare per appendere il fiocco azzurro dietro la porta… l’ho scoperto nella peggiore delle maniere, buttata in una cella polverosa, con un ragazzo che avevo condannato all’immobilità accanto e con il pensiero di dover partorire lì… e se ben ricordo, non credo nemmeno che avessimo propriamente programmato la cosa…”, lo sguardo di Draco si tinge di qualcosa di caldo e tiepido, che però fa scomparire immediatamente sotto le palpebre, mentre mi affanno a continuare: “E scusami se i primi tre mesi della mia gravidanza fossi in coma, in Italia, non propriamente in grado di prendere telefono e carta da lettera e scrivere ad una persona che, peraltro, era scomparsa per tutti…!”. Abbasso il viso, frenando il rigurgito da innamorata che lo accuserebbe ancora di essere andato a letto con Raissa quando io ero in coma ed incinta, poi, quando sono certa di stare ferma con le parole sgradite, continuo a voce ferma: “E scusami ancora se ho pensato prima di tutto ad Alex, lasciando che crescesse in Italia, fino a quando non sapessimo che fosse al sicuro… e nonostante tutto vedi come è andata…”, devo ancora distogliere lo sguardo per impedirmi di piangere, aggiungendo casuale: “Astoria voleva per sé il figlio di un Malfoy, era assurdamente convinta che tu l’avresti voluta indietro se ti avesse fatto credere di aver partorito lei Alex… credi che io potessi tornare con questo pensiero? Credi che l’avrei messo in pericolo… per, cosa, poi? Non avevo nessuna certezza, nessuna garanzia che tu…”, le parole si sfaldano e vengono seguite da un silenzio pesante che odio, perché è colmo di ogni sciocca speranza lercia che avevo di mettere su una vera famiglia, quando l’avessi trovato. Lo rompo questo silenzio odioso, tornando a guardarlo e gridando a pugni chiusi: “Ho pensato solo a proteggere mio figlio!”.

Draco, quando mi volto, ha un singulto deciso negli occhi chiari che non intendo appieno e non intendo subito: per un attimo sembra rammarico, rimorso, e sono sensazioni tutto sommato dolci, retaggio restio di un amore che forse ancora prova per me. Ma anche in lui, l’amante ha vita da farfalla: dura un battito d’ali e muore. Il padre è più forte. Serra la mascella, acquisendo altre cose che gli avevo omesso come la minaccia costituita da Astoria, ma evita ulteriori recriminazioni. Il torto di non avergli detto di Alex assorbe tutto, tanto lo ritiene grave. Infatti si limita a guardarmi con ferocia, masticando: “Hai pensato, nella tua contorta e discutibile maniera, a proteggere nostro figlio… smettila immediatamente con questa smania di possesso”.

La rabbia scaccia la diplomazia ed il tatto, ed improvvisamente esplodo, senza il benché minimo controllo, ringraziando che Alex non sia qui adesso, ringraziando che posso urlare contro quest’uomo che di mio figlio ha solo sangue ed occhi, ma nulla del suo cuore, della sua gentilezza, di quel battito regolare che mi batte nel ventre. Lascio che il fiume di parole mi dreni e mi lasci esanime, ma che mi impedisca di implodere in me stessa: “Smania di possesso?! Ma ti senti?! Sei padre da quanto, cinque minuti, e già ti vuoi immischiare in quella che è la sua vita, le mie scelte, le mie decisioni?! Io l’ho cresciuto, io gli ho insegnato a camminare, a parlare, a leggere… io ho fatto di tutto perché non soffrisse, perché sapesse di avere un padre che non poteva stare con lui… perché non ti odiasse, ma anzi chiedesse di te, ti volesse bene, ti cercasse…”, ogni parola che mi ero arenata dentro, ogni mezza verità che avevo prima scioccamente taciuto, adesso, diventa piena, completa, assoluta, mentre ancora piango sotto il suo sguardo indecifrabile: “Ho avuto Ron vicino per cinque anni, e potevo anche non tornare mai più… eppure mai ho permesso che pensasse a lui come padre, perché eri tu suo padre, sei tu suo padre… non permetterti di giudicare le mie scelte, le mie decisioni, riguardo a MIO figlio, non te lo permetto! Specie tu che…”. Ancora mi devo trattenere per non vomitare fuori quello che penso, per lasciare ancora fuori lui e Raissa, ma stavolta purtroppo lui se ne accorge e mi ingiunge duramente, fronteggiandomi: “Io che? Io che? Dai finisci, finisci… io che mi sbattevo Raissa?! Io che mi sono fatto per cinque anni quella che l’ha rapito? Questo stai dicendo, questo?! E dai, sputalo fuori, aggiungiamoci altro schifo a sto calderone che siamo diventati io e te… perché questo siamo diventati io e te… uno schifo…! Quello che adesso tu hai magicamente reso me e tutto quello che siamo stati…”.

“Io?!” sbotto sconvolta, guardandolo ad occhi sbarrati, mentre Draco, come se di nuovo la rabbia minacciasse di sopraffarlo e tentasse un rimedio qualunque, inizia a camminare nervosamente per la stanza, avanzando tra frammenti di vetro e cocci vari, non guardandomi più in faccia: “Tu, sì, tu… tu ci hai reso questo schifo. Tu… con queste tue scelte… ma il bello… è che io non sono migliore di te. Io ho scelto in questi anni, ho fatto una scelta per salvare mia figlia, per tenermi Serenity… ho tenuto qui Raissa, per salvare mia figlia… e così ho condannato Alex, perché se avessi buttato per strada quella dannata stronza, tutto questo non sarebbe successo…”, si accascia stancamente su una poltrona, d’improvviso spossato, vecchissimo, le mani tra i capelli, la voce un rantolo scomposto: “Io avevo un figlio, e non lo sapevo. Un figlio, dannazione, un Malfoy…”. Solleva lo sguardo verso di me, ed è inespressivo, immobile, sembra che stia parlando di un articolo di giornale sciocco, ma invece mi fa la peggiore delle confidenze, come se la sputasse fuori biecamente. Già so che non lo dirà mai più, già so che lo negherà sempre, già so che questo momento io me lo dovrò cancellare, lo so dai suoi occhi spenti, come se li avessero cavati da un’altra persona ed attaccati sulla sua faccia. Sussurra piano, assurdamente sincero: “Io, Serenity la amo con tutto me stesso… è mia figlia. Ma non hai pensato che sia un dolore continuo per me guardarla? Non hai pensato che è la prova continua che Helena ed Amos sono morti per colpa mia? Non ci hai mai pensato che Serenity è la prova continua che lei… che Helena… non ha mai davvero scelto me? Non fa male questo… dopo anni non fa quasi più male. È come un fastidio, ecco, che nessun bene che provi per quella bambina cancellerà mai, perché questo sono, Granger, sono abietto ed egoista, e quando sono altruista, non lo sarò mai del tutto…non ci hai pensato mai, vero? Ovvio, non sia mai che tu ci pensi…”, ride tra sé e sé in modo amaro, si scompiglia i capelli, chiude gli occhi prima che ci distingua una pagliuzza di lacrime al loro interno “Ma Alex… sarebbe stato mio figlio, senza alcuna remora, ricordo, rancore. Con il mio cognome, con la mia storia addosso, con il mio sangue… mi avrebbe pulito, purificato, asciugato dalle mie colpe… avrei amato meglio Serenity attraverso di lui, perché avrei capito che potevo essere padre senza fare da surrogato ad uno che ho tradito…”. Non so quando ho iniziato a piangere, non so quando sia accaduto, me ne accorgo solo quando Draco si alza in piedi, recupera il suo viso normale, quello stravolto dall’ira, e mi si para davanti di nuovo, ormai lontano dalla sua confessione: “Adesso me ne rendo conto, dannazione, è sempre stato così maledettamente ovvio… l’altra sera, quando mi hai visto… ti ho ricordato lui, non è così? Mi somiglia pure, non è così?”.

Esplode la mia voce in singhiozzi, destinata ad avere nella vita un solo paio di occhi tempesta alla volta: “E’ tuo figlio… è ovvio che ti somigli…”.

Draco è come se implodesse ed esplodesse assieme, poi i pezzi si rinsaldano in una forma confusa che ha almeno il pregio di tenerlo assieme. Respira profondamente un paio di volte, chiude gli occhi ed è come se si trattenesse ancora dal piangere, dall’urlare, dal farmi del male, dal fare qualcosa di stupido. Nel suo viso passa una considerazione nuova, un lampo di luce, lo seguo ancora singhiozzando. Poi la sua voce torna calma, stentorea, tranquilla e chi conosce Draco Malfoy sa che si dovrebbe solo fuggire a questo punto: “E quindi mi ami e mi odi, vero? Radcenko non c’entra un cazzo… è questo che odi di me, vero? E’ questo che non sopporti? Che abbia condannato nostro figlio. Questo ti fa schifo, vero? Benvenuta nel mio mondo, benvenuta nello schifo che mi hai riversato addosso… perché diamine sei venuta a cercarmi?”, non lo so, oggi me lo sto chiedendo anche io… l’Italia poteva durare per sempre, diceva Harry. Perché davvero non è durata per sempre? Perché non sono rimasta lì, con Ron come marito, Alex accanto e lui incastonato nel cuore, al punto che nessuno me l’avrebbe portato via? “Io non potrò mai perdonarti. Mai. Perché tu mi hai fatto scegliere chi dovevo condannare tra i nostri figli. E questo non lo potrò mai perdonare a me stesso. Se anche lo salvassimo, se anche ce la facessimo… io non potrò mai perdonarti… né perdonare me stesso…”, lo schifo, eccolo qui, lo schifo. Avevi ragione, l’hai sempre avuta: ci siamo fatti a pezzi in tanti di quei modi, in tante di quelle vite ed Universi che ormai sembrava l’abitudine. Ed invece questa farà più male, perché non c’è niente che ci riporti a posto, nulla, ed anche di quel legame che ci unisce, nostro figlio… noi lo faremo a pezzi. Pansy aveva ragione, tutti avevano ragione, io stessa anni fa avevo ragione. “Io non sono mai pentito di niente. Di niente, quando si trattava di te, Dio santo, che sei sempre stata così perfetta, così meravigliosa, che persino ora, persino adesso… persino poco fa… ti ho detto che era finita, ti ho detto che doveva andare così… ma ero convinto, certo, sicuro… che in fondo ce l’avremmo fatta, una parte di me l’ha sempre pensato… e se fossi entrata qui dentro, un giorno qualunque, un giorno qualsiasi, un giorno pure che avessi avuto moglie, figli, cane e casa di proprietà, e mi avessi detto che volevi stare con me… io avrei mandato sempre e tutto a fanculo, pur di averti anche altri cinque secondi, fossi pure entrata quando avessi avuto novant’anni e dieci giorni da vivere davanti…” la cosa più bella, la cosa più bella… dimmela daccapo, dimmela sempre, dimmela per sempre… perché non me l’hai detto subito? Perché me lo dici adesso? Subito, avrebbe fatto ogni differenza, subito ti sarei volata tra le braccia, legittimata a strapparti da ogni vita che non fosse la nostra. Ed adesso, invece, tu me lo dici solo per ferirmi, me lo dici solo perché io sappia che cosa ho fatto, che cosa ho distrutto, che cosa ho ucciso, così mi odi e ti odi per sempre “Da quando ho scelto di amarti, perché sì, io ho scelto di amarti… mai, mi sono pentito di niente. Ed adesso, come ho scelto di amarti, io scelgo di odiarti… sia maledetto il giorno in cui sei entrata al Petite peste, sia maledetta Helena che ti ha portato da me, sia maledetto tutto quello che è stato tra me e te… e non hai idea dello schifo enorme, immenso che provo… a pensare di avere un figlio con te…”, è questa la fine, l’autentica fine: annunciata, temuta, stroncata, mangiucchiata, ricacciata, assaporata, e poi ancora rinnegata, seviziata, violentata, aspettata, accettata, abbracciata, baciata. Eccola la fine, è qui in questa frase, in questo momento, in questi occhi estranei, in questo che stai per dire, nella cattiveria che ci metterai, nel freno molle che era amore ed è morto, nell’ira che sgorgherà in me, nella minaccia che farai, nel singhiozzo che risponderò, nelle dita che tremeranno, nelle labbra che si graffieranno. Eccola la fine: come un cerchio che si chiude, e di cui l’inizio è lontano. Ne vedo ancora l’inizio, ma forse è per poco, forse è ancora un attimo prima che vibri il colpo fatale, la cosa peggiore che tu possa dirmi e che mi pieghi del tutto, quella che io ormai veda come imperdonabile. L’inizio… che è una saracinesca con una bambina sorridente. O forse è una richiesta di scuse affrettata dentro la tenda di pronto soccorso. O forse è lo sfrecciare di un treno rosso, mentre ho undici anni. O forse… non c’è mai stato inizio… solo fine, tante di quelle fini, incanalate una dietro all’altra a separarci.

Era più facile stare divisi, odiarci… che amarci.

Ecco che oggi diventa più facile: forse farà bene ad entrambi, amore mio. Gli inizi, ogni inizio… ha fatto così male, che ce lo siamo cuciti addosso per non perderlo di vista.

Questa fine, questo gridare… scivola come olio sull’acqua.

Facile.

Le parole che ci scambiamo a questo punto, dopo questo interminabile secondo, sono cattive, dure, fanno schifo. Non sono mie. Non sono sue.

“… ma è mio figlio… è un Malfoy… e io lo riporterò indietro… è stata solamente colpa tua… non hai protetto nostro figlio, e la pagherai anche per questo… dovevi tornare da me cinque anni fa… e ce l’avremmo fatta, l’avremmo salvato… la vera sciagura di Alex è avere te come madre e me come padre, l’abbiamo condannato entrambi… ma rimedierò, a costo di andarmene all’altro mondo…”.

“Io non ho condannato mio figlio! Non l’ho fatto! E cosa credi, che me ne starò qui ad aspettare che tu distrugga la vita di mio figlio?!”.

“Invece sì, te ne starai proprio qui…! E quando questa storia sarà finita, quando l’avrò salvato… mio figlio verrà qui, da me… e te lo potrai sognare di rivederlo per almeno altri cinque anni…”.

“CHE COSA?! Non puoi togliermi Alex!”.

“Posso e lo farò… credi che mettere al mondo un Malfoy sia una cosa normale?! Sarà pure un Mezzosangue, ma è l’ultimo di una casata nobile… e la madre non conta niente, non conta nulla… sarà mia decisione quando e come farti rivedere mio figlio… io… non ho visto mia madre per due anni e mezzo da bambino… e si sopravvive benissimo…”.

“Non puoi farmi questo”.

“Mi ci hai costretto tu… tu dovevi tornare da me cinque anni fa…”.

Queste parole non sono nostre.

Ma non sono nostre nemmeno le parole che, dopo uno scoppio di tuono, ci fanno tacere.

Sono le parole della sola persona che ci potrebbe salvare, quella che mi ha salvato sempre.

Sono le parole di Helder, spuntata nel soggiorno, dopo aver fatto saltare la porta.

… ma le sue parole non sono parole di salvezza.

“Ed ecco come muore l’unica speranza di salvare Alex…”.

Sono parole di fine.

 

 

 

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Capitolo 42
*** Unraveled chains ***


Capitolo 42 – Unraveled chains

 

I momenti peggiori della vita hanno un’ombra tale, lunga come quella degli oggetti al tramonto, che li distingui persino mentre li stai ancora vivendo. Proiettano un cono nero dentro il futuro, che deglutisce tutto quello che ci sarà da quel momento in avanti, stritolando colori e gioie non ancora nemmeno concretizzate. I giorni belli della vita, i migliori, non avvisano mai, così che tu possa sottovalutarli e non lacerarti nell’angoscia che scivolino via, perché se lo capissi, se lo intuissi, perderesti la leggerezza necessaria a vivere quel momento e a renderlo il migliore, forse, mai visto. Quindi, sono lievi, sottili, frastagliati nella memoria dall’ansia irascibile di non aver mai fissato abbastanza particolari di quell’attimo.

Ma i momenti brutti sono come lastre di cemento: e soffocano, comprimono, schiacciano. E non smettono mai di farlo.

Io, già adesso che urlo contro Draco, avverto la premonizione che questo sarà il momento più brutto della mia vita. Ed è qualcosa di vagamente ironico e sarcastico, considerando che cosa ho passato e che cosa probabilmente ancora passerò. Eppure, quel presagio mi fa drizzare i capelli sulla nuca. Non è riposante o consolante pensarlo, non è che mi dico automaticamente che ciò significa che ho davanti il riscatto di una pacifica serenità, se questo fosse davvero il momento peggiore della mia vita. Potrebbe esserci anche una distesa di giorni né troppo belli, né troppo brutti: vuoto davanti, come quello che lascia un tifone al suo passaggio. Quindi non c’è alcuna soddisfazione nello stare dentro al tifone, preconizzando che se ne uscirebbe vivi, solo per trovarsi nel bel mezzo del deserto post Apocalisse. Ma quella premonizione si rivela con una mano calda sul collo, dietro la nuca. E lì capisco che è Tatia che me lo sta dicendo.

Non sono solo io a capirlo, con i miei sensi offuscati dalla rabbia o dal dolore. C’è qualcosa di vero in tutto questo.

Quel calore se lo inghiotte il gelo della stanza, rimasto inalterato anche dopo l’ingresso di Helder, che dice solo: “Ed ecco come muore l’unica speranza di salvare Alex…”. Mi dimentico presto di una sciocca profezia che non mi interessa se si auto-avveri, è davvero questo il momento peggiore della tua vita, Hermione.

E non distinguo, soffocata dalla pioggia di parole che vomito adesso a Draco, una piccola voce sottile da uccellino che bisbiglia nei miei pensieri.

Ti ricorderai questo, solo alla fine di tutto… e la fine non è questa.

Arsa dalla rabbia e dalla sofferenza, pronta ormai a scagliarmi contro Draco per fargli il maggior male concepibile per aver anche solo pensato di togliermi mio figlio, non avverto alcun sollievo nel arrivo della mia amica, tantomeno curiosità per le parole che ha detto. Non provo nemmeno un adeguato senso di vergogna per rendere spettatori Pansy, Dean e Seth del peggiore momento della mia vita, quello dove sto dando prova di tutto il contrario di quella che mi sono sempre professata essere. Continuo ad urlare parole scomposte, Draco fa lo stesso, ci fronteggiamo lividi in volto come mai è accaduto, persino ad Hogwarts, persino al Petite peste. Nulla ci aveva mai unito abbastanza da trasformarsi poi in un tale odio, se calpestato. Forse arriva qualcuno a cercare di dividerci, Seth che prende lui per le spalle, Dean che trattiene me per la vita, ma sono deboli e molli legacci. Le parole non si fermano, esplodono, scoppiettano, spandono veleno attorno.

Per fortuna, quelle invece le scorderai. Ti dimenticherai le sue di parole e le tue, come se non fossero mai esistite.

Sarà persino facile, semplice, in confronto a quello che stai per passare.

Buona fortuna, Hermione Granger.

Scuoto il capo, come se fossi disturbata da un insetto che continua a ronzare nel mio cervello, mentre mi preparo a rispondere all’ennesima accusa di Draco. Poi, d’improvviso, io e lui precipitiamo al suolo, seduti, cascando sulle ginocchia e poi restando immobili a terra, come pupazzetti addomesticati. Uno strano senso di gelida calma mi trapassa il petto, si espande come una melma nera e corrode le mie vene riarse, anestetizzandomi e rendendomi insensibile. Non capisco che cosa diamine mi stia succedendo, è come essere stata drogata, non è assolutamente piacevole come sensazione, sebbene sia stata bruciata dalla rabbia fino a pochi secondi fa e questo dovrebbe darmi pace. E’ come calare un corpo ustionato nell’acqua ghiacciata: il respiro rallenta fino quasi a scomparire, il volto mi torna gelido, persino la febbre sembra svanire. Le voci dei miei amici tacciono tutte assieme. Guardo Draco senza capire, cercando nei suoi gesti rallentati la risposta all’uguaglianza che sento nei miei, ed anche lui è sconvolto, atterrito, sbigottito, incapace di fare una cosa qualunque, fosse pure guardarmi con odio.

“L’empatia non è solamente un bel trucchetto di cambio estetico del colore degli occhi…” la voce di Helder suona così cupa e remota che mi fa tremare di freddo, sembra d’improvviso antichissima e solenne come quella di una dea o di una regina “Usiamo di rado il nostro vero potere perché è ingiusto controllare le emozioni degli altri. Credo di averlo fatto due volte nella mia vita… con questa. Non costringetemi a farlo di nuovo…”. Sento lentamente il giogo ghiacciato della calma forzosa allentarsi, il respiro tornare ad accelerare, la rabbia riprendere a mulinare, la febbre fiaccarmi di nuovo i sensi.

“… vedete di trattenervi, entrambi, per il bene di vostro figlio…” soggiunge Helder con voce un po’ più acuta e meno bassa, più simile alla sua. Riesco finalmente a vederla in viso, ruotando leggermente il collo, ha le palme sollevate e rivolte davanti a sé, fisse nella nostra direzione. Gli occhi sono spaventosi: senza la benché minima espressione, l’iride e la pupilla sono annegate nel bianco dell’occhio sparendo. Forse, per la prima volta, mi rendo davvero conto di che cosa sia il potere di un Empatico… e quanto essa sia letale e pericoloso, qualora decidessero di usarlo appieno e per fini sbagliati.

La stretta della calma imposta inizia a passare piano, così come l’espressione luciferina di Helder che riacquista colore in viso, nelle labbra e sulla pelle delle braccia, che prima erano trasparenti come vetro. I suoi occhi tornano scuri mentre riabbassa le palme e si rivolge a me, un guizzo d’oro nelle iridi della stessa tinta delle mie: “Questa… non sei tu. Devo forse ricordartelo io chi sei davvero?”. La calma si è disciolta del tutto, con essa adesso scompare anche la rabbia, ma con l’empatia non c’entra granché. Sono io che provo autentico imbarazzo per quello che mi sta dicendo, tanto che mi chiudo nelle spalle a disagio, distogliendo lo sguardo da lei e fissandolo sulle mie ginocchia ancora poggiate sul pavimento. Ha ragione, lo so, inutile anche che lo pensi. Mi sono trasformata in poche ore in tutto quello che ho sempre aborrito… tutto, da quando mi hanno tolto Alex. Un singhiozzo mi si incastra in gola, lo ricaccio indietro con fastidio.

“… sono stata con te cinque anni in Italia e hai sempre avuto bene in mente chi era il nemico contro cui dovevi combattere…” riprende Helder, chinandosi alla mia altezza e guardandomi ancora fisso negli occhi gemelli dei suoi, poi fa un cenno alle mie spalle verso qualcuno, che capisco essere Draco dalle parole che subito sussurra quieta: “E non è mai stato lui… ma Karkaroff. Se vuoi riprenderti tuo figlio… devi usare le tue forze contro Dimitri, non contro il padre di tuo figlio… e credimi, avrai bisogno di tutte le tue forze…”. Annuisco come una bimbetta scornata, e lei mi aiuta silenziosamente ad alzarmi in piedi. Si avvicina furtiva al mio orecchio e mi bisbiglia lievemente, senza farsi sentire da nessuno: “Tu sei quella della scatola di latta azzurra che non si chiudeva, mentre la mettevi in valigia… devo ricordarti anche questo?”. Arrossisco, sento il viso andarmi a fuoco e la guardo con gli occhi sbarrati, convinta d’improvviso che le sia successo qualcosa, che abbia nuovi poteri, forse anche di telepatia.

La scatola di latta azzurra… nascosta nel fondo della valigia… con il coperchio accostato e non chiuso, perché era troppo piena per poterci riuscire…

Le novecento tredici lettere per Draco.

Mi ha visto scrivere ogni mattina, appena alzata, mi sedevo in veranda e scrivevo a lui. Socchiudo gli occhi, quasi travolta dai ricordi della luce afosa della Sicilia e dell’odore pungente dei limoni e delle arance, mentre Alex mostrava a Ron qualche altro dei suoi giochi… e torna quel senso acquoso di riscatto che avvertivo scrivendo a Draco, raccontandogli di che cosa facesse suo figlio, di come una piega del suo volto fosse inaspettatamente simile alle sua, di quanto ancora lo amassi, di quanto fossi così piena di domande per lui da poterci riempire carta su carta. Riapro gli occhi, tornando a guardare Helder che ha un’espressione pacata ma seria. Sapeva che le lettere erano per Draco, credo che me l’abbia anche chiesto, probabilmente avvertiva il sentimento per lui, può anche supporre che mi sia portata quel pacco di corrispondenza mai inviata… ma che ne sa di dove sia? Che ne sa della scatola? Ma soprattutto… e questo mi dà un brivido caldo alla schiena, mentre lo spazio tra i polmoni punge irrisolto… perché me lo sta dicendo adesso? Non sente quanto sono lontana da quello che ha animato quelle lettere? Non sente quanto anche Draco lo sia? Non capisce che è finita?

Helder, però, ignora bellamente il mio sguardo interrogativo e sconvolto, rivolgendosi alle mie spalle, verso Draco, con voce molto più ferma. Adesso i suoi occhi sono grigio tempesta, come quelli di Alex e Draco, ma la loro espressione è persino più dura di quella degli occhi del loro legittimo ed originario proprietario, specie mentre chiosa seria: “Devo poi davvero fare prediche ad un uomo che minaccia di togliere un figlio a sua madre, quando il suo peggiore terrore è che i Greengrass vengano a riprendersi la sua di figlia, avendone tutte le ragioni legali e nessuna d’amore ed affetto? Faresti a tuo figlio quello che temi che facciano a Serenity… ed anche nel tuo caso, il nemico è Karkaroff, non lei… la donna che in ogni caso ti ha dato un figlio e l’ha protetto per cinque anni…”.

Quando Draco riprende a parlare, sebbene non lo guardi, capisco che anche nel suo caso che le parole di Helder lo hanno colpito e ferito. Solo io, ma sicuramente anche lei con l’empatia, distingue quella sfumatura tremula nella voce arrogante che chiede sarcastico: “E in nome di quale diritto dovrei ascoltarti? Quello di un’altra amichetta della Granger?”.

“In base a molti diritti…” enumera apparentemente spensierata Helder, facendo qualche passo avanti ed indietro e contando sulla punta delle dita “Vediamo… punto uno, sono un’emissaria del ministro e sono a conoscenza dei sospetti dei Greengrass su tua figlia, dato che hanno chiesto di riaprire le indagini sulla morte di Helena Diggory… ergo, potrei persino aiutarti con questa situazione, o chiedere al Ministro di farlo… o sei stato davvero così sciocco e presuntuoso da credere che non avrebbero mai scoperto nulla?”, il silenzio alle spalle mi avvisa dello sconcerto misto a preoccupazione ansiosa che Draco sta cercando di trattenere, mentre Helder prosegue ironica: “Punto secondo, sono la sola al momento in grado di dirti come salvare l’altro tuo figlio, anche se dubito grandemente che tu possa riuscirci con questo collaborativo stato d’animo… punto terzo, e qui vado vagamente sul personale, sono la figlia dell’uomo che tuo padre ha torturato fino alla follia… e non nego di essere grandemente attratta dalle seduzioni ricattatorie verso una coscienza non propriamente pulita… e vediamo un po’… punto quarto…”, esterrefatta, esattamente come penso sia Draco alle mie spalle, vedo Helder chinarsi di nuovo per terra e toccare con la bacchetta una manciata di frammenti di ceramica, distrutti dall’impeto di Draco di poco fa. Dopo un veloce Reparo, i frammenti si rinsaldano assieme, assumendo la forma del più ordinario dei souvenir londinesi, una riproduzione dozzinale del Tower Bridge. Aggrotto le sopracciglia ancora vagamente confusa, mentre Helder lo soppesa nella mano aperta, quasi con affetto, prima di sussurrare, gli occhi grigi quasi incattiviti: “Ed ecco il punto quarto… non è un po’ strano che uno che ha vissuto anni a Londra si tenga in casa un souvenir del genere?”.

“Ho capito… possiamo darci un taglio…” la voce di Draco l’interrompe velocemente, mentre lui fa qualche passo febbrile e mi sorpassa, mormorando che ha bisogno di un po’ d’aria prima di fare qualsiasi cosa. Si sbatte la porta alle spalle nel più assoluto dei silenzi, mentre io continuo a non capirci niente.

Helder sorride tra sé e sé, muta alle mie domande silenti, mentre gli occhi tornano i suoi e cinguetta, la voce da uccellino: “Dio, quanto amo l’empatia…”.

 

 

L’arrivo di Helder è una boccata d’aria fresca.

Letteralmente.

In cinque anni, in Italia, ho già abbondantemente chiarito che è lei la persona che ho avuto più vicina, e che quindi ha sempre avuto il dono di rendermi maggiormente calma e lucida, al punto da farmi concretamente pensare che usasse l’Empatia su di me per controllarmi: questo, prima della scena di stamattina, in cui ho avuto modo di appurare che cosa accade quando davvero uno con i suoi poteri condiziona i sentimenti altrui.

E non parlo solo della calma ghiacciata che ci ha fatto rovinare addosso… ma delle sue parole… a me… e a Draco…

Che io l’abbia ascoltata, bè, non è così assurdo. Ma che l’abbia ascoltata lui, specie nello stato in cui era, dove non ha esitato persino a spintonare Seth che cercava di calmarlo… è autenticamente un miracolo. Non ha sa nemmeno che cosa abbia in mente per aiutare Alex. Si è fermato e basta.

Specie quando ha parlato di quel souvenir… che diamine sarà? Che cosa poteva esserci sotto, da averlo convinto così d’un tratto? Come se… temesse… che lei dicesse qualcosa di troppo…

Quelle considerazioni mi accompagnano mentre, meccanicamente, sistemo il salotto della casa di Draco, agitando pigramente la bacchetta che va a ricomporre quadri, vasi e tessuti lacerati. Con l’altro mano, sorseggio piano un decotto all’anice stellato che dovrebbe farmi abbassare la febbre, anche se in realtà non sembra che abbia un grande effetto.

Sbatto le palpebre un paio di volte, cercando di snebbiare la vista, anzi la febbre sembra persino salire sempre di più.

Helder ha chiarito che ha delle novità molto importanti che ci potrebbero aiutare con i Karkaroff e con Alex, ma ha asserito convinta che non ne parlerà fino a quando non metteremo ordine “fuori e dentro di noi, che non posso stare a fermare sedizioni e rivolte ogni tre secondi”. Insomma, morale della fiaba è che, quando ci avvertirà compiutamente calmi e pronti alla collaborazione, si deciderà a sputare il rospo. Sebbene quindi lo stomaco mi ribolle dall’ansia e dalla preoccupazione, senza contare l’odio per Draco e per quello che si è permesso di dirmi qualche ora fa, cerco di tenere la mente occupata in faccende futili, così da tenere fuori le sensazioni negative che mi pregiudicherebbero l’aiuto di Helder. Lei, al momento, è uscita con il monito di starcene buoni, perché “se iniziate a distruggere altri pezzi di mobilia, me ne accorgerò a chilometri di distanza”. Ho storto il naso, annuendo, la sensazione scomoda di essere una mocciosetta in castigo. Ma, mentre appunto sistemo il salone, la testa un po’ meno ingolfata dai pensieri rabbiosi ed ansiosi, non posso fare a meno di ripensare a quello che è appena successo.

La scatola azzurra di latta… e il souvenir del Tower Bridge…

Anche se non so che cosa Draco nasconda in quell’oggetto, deve essere per forza di cose qualcosa di emotivamente rimarchevole, se lei se n’è accorta. E certo, ne sono curiosa, come negarlo, specie perché con la sola allusione ad esso, lui si è istantaneamente convinto a collaborare. Che diamine sarà? Sembrava un oggetto così comune… qualche altra cosa su Raissa, che non so?

Figuriamoci, allora, che se ne sarebbe fregato di farmelo sapere… magari me l’avrebbe sputato in faccia apposta…

Eppure, nonostante la mia curiosità, la cosa maggiore che al momento non capisco, è come Helder si sia accorta di tutto questo e di come abbia sentito anche la mia scatola, nascosta in valigia al piano di sopra. Non aveva tali poteri quando ho lasciato l’Italia: le sue percezioni sono sempre state forti, d’accordo, ma sempre limitate alle persone… non agli oggetti. Ed adesso sente anche le cose? E poi, rifletto massaggiandomi la tempia destra… il potere che ha usato su di noi e l’avvertimento che adesso può sentirci anche a chilometri di distanza… c’è qualcosa di diverso in lei, decisamente. Non è mai stata così… forte. L’Empatia è sicuramente un potere misterioso ed inspiegabile, antico ed ancora poco conosciuto, quindi ci sono ancora tantissime dimensioni di queste capacità che non conosco e che magari non è nemmeno facilissimo per lei spiegare a parole, come mi ha sempre fatto sottintendere… ma ci sono stata accanto per cinque anni e non era così, non lo è mai stata. La mia mente ripercorre febbrile tantissimi episodi di vita assieme di questi cinque anni, e ne enumero decine dove era evidente che Helder non possedesse un potere del genere.

Mi siedo sul divano al centro della stanza ormai in ordine e faccio mente locale su quello che può essere il piano di Helder. Anche su quello, diversi punti non tornano. Ha detto che doveva uscire per mettersi in contatto con il Ministro e con altre non meglio identificate persone, cosa che quindi presuppone che Harry sia pienamente a conoscenza della situazione. E fin qui, più o meno, ci possiamo ancora essere. Ma la cosa strana è che ha chiesto che Dean rintracciasse immediatamente Ilai, asserendo che dovrebbe tornare immediatamente e che ha bisogno di tutti coloro che sono coinvolti in questa storia. E qui, la cosa particolare è che, da come ha parlato, sembrava pienamente consapevole persino di quello che è successo tra me e lui e della necessità che lui si allontanasse da qui: mi ha lanciato uno sguardo obliquo, mentre lo diceva, una strana nebbia negli occhi dello stesso colore dei miei, a metà tra la preoccupazione e il rimprovero silente. Ancora non ci ho capito granché, certo le mie sensazioni possono averle comunicato qualcosa, ma non tutto nei particolari, l’Empatia non ha mai funzionato in questo modo. Ilai non era nemmeno qui, quando è arrivato: come ha fatto a sentire quello che è successo? L’Empatia è sempre stata una serie di frammenti di sensazioni captate, non di interi pensieri e memorie. Avrebbe potuto capire un legame tra me ed Ilai ma poco della sua natura, e poco delle decisioni che abbiamo preso poche ore fa. Ed anche in quello, lo sguardo preoccupato non avrebbe motivo di esistere… di che cosa si preoccupa? È Draco che può farmi del male, non Ilai… ed invece lei, in sfregio completo del mio cuore e dei miei sentimenti che pure sembra sentire così bene, mi ha ammonito di ricordare la donna che si struggeva per il primo in Italia, e mi ha rimproverato silenziosamente sul mio attaccamento al secondo. Non è un comportamento tipico di lei, che non si è mai minimamente permessa di giudicare i miei sentimenti, nemmeno quando ne avrebbe avuto ogni voce in capitolo, visto che viveva a strettissimo contatto con me e Ron, e poteva benissimo esprimere perplessità su questo matrimonio fasullo. Inoltre, non è che sia mai stata una grande fan di Draco stesso, anzi: quando ero scomparsa, rapita da Dimitri, non aveva esitato a dirmi di aver avuto il sospetto che Draco potesse avermi ucciso. E nemmeno si era fatta eccessive remore nel dirmi dello Zahir, proprio perché capiva quanto mi lacerasse amare proprio lui.

Perché, invece, ora ha reagito in questo modo?

Ma la ciliegina sulla torta è stata che ha chiesto a Seth di contattare Kevin, il suo ragazzo, dato che avremmo bisogno anche di lui. Seth, ovviamente, è saltato sulla sedia entusiasta, finalmente partecipe dei piani d’azione che lo fanno sentire come James Bond. Ma, naturalmente, io ho continuato a non capirci nulla: cosa diamine c’entra il ragazzo di Seth, babbano fino al midollo, con i Karkaroff? E perché sta coinvolgendo tutta questa gente? Dimitri è me che vuole. Ammazzerà chiunque si metterà tra me e lui, compreso Alex. È davvero necessario che così tante persone rischino per colpa mia? Già non sopporto che ci siano Dean e Pansy, che è pur sempre incinta… ed Ilai, ovviamente, che Tatia voleva che io proteggessi…

E Draco.

Con un groppo in gola che mi impedisce di respirare agevolmente, mi lascio cadere sul divano, chiudendo gli occhi e prendendomi la testa tra le mani. Al momento, vorrei solamente che lui fosse dall’altra parte del mondo, dell’Universo tutto. Il male che mi ha fatto pulsa ancora nelle profondità di me stessa, come un punto fiammeggiante che non cessa mai di ardere: e quindi, mi pare ovvio il sollievo che proverei se fosse lontano. Ma in realtà non è solamente questo. Adesso, nonostante sia accaduto nella maniera peggiore possibile, lui sa di Alex. Sa che è suo figlio, sa di essere suo padre.

Ed ancora, nonostante tutto, mio figlio è più importante di ogni cosa. Vorrei Draco al sicuro… perché vorrei che Alex lo fosse, qualora mi accadesse qualcosa.

Mi porto indietro i capelli, le mani che mi tremano senza sosta, un improvviso senso di panico e disagio allo strambo piano di Helder. Quest’impotenza e questa attesa mi stanno facendo diventare pazza… senza contare la febbre, che non ne vuole sapere di lasciarmi in pace. Poggio la tazza ormai vuota sul tavolino, sfiorandomi distrattamente la fronte, è inutile, la temperatura non cala. Ci mancava anche questa, adesso. Devo essermi davvero debilitata in queste settimane, di solito non ho mai la febbre. Le mie riflessioni sono interrotte dall’ingresso di Pansy che, con aria scocciata, si siede accanto a me sospirando forte, prima di esordire velenosa, asciugandosi la fronte in modo teatrale: “Capisco se avessi contagiato Radcenko con tutto quello sbaciucchiamento clandestino… ma Malfoy come cavolo ha fatto a prendersi anche lui l’influenza, adesso?!”.

“Eh?!” commento instupidita, non seguendo le sue parole, ho i pensieri talmente annegati in una melassa di ragionamenti contorti, che faccio fatica a capire le cose più basilari.

Al che Pansy, con la calma di un insegnante saccente che si rivolge ad una bambina scema, mi spiega che era andata a portare Charisma e Serenity a casa di una vicina, che a quanto pare fa spesso da babysitter a Serenity stessa. Ed in giardino, ha visto Draco seduto sotto un albero, rosso in viso, che batteva i denti per il freddo. L’ha portato in casa e messo a letto controvoglia, mentre lui inveiva, dato che vuole ovviamente conoscere il piano per salvare Alex. Gli ha promesso che lo chiamerà per tempo, gli ha ingiunto di riposare e ha dato anche a lui una pozione all’anice stellato.

Con un brivido, mi rendo conto che quindi anche lui ha la febbre alta.

“Non ti pare… strano?” mi inalbero sospettosa, la febbre che ancora mi provoca un capogiro e mi costringe a chiudere gli occhi per fermarla.

“E che cosa non è strano, quando si tratta di voi due?” borbotta Pansy annoiata, sistemandosi i capelli con nonchalance “Vi fate venire anche le malattie contemporanee, adesso…”. Non do voce ai miei pensieri, ma mi chiudo nel mio silenzio colmo di un’accozzaglia di riflessioni. La febbre mi fa sentire completamente distrutta, mi spezza le ossa, ma per il momento almeno lascia in pace il mio cervello. Sta succedendo qualcosa… e qualcosa di strano. Non può essere un caso tutto quanto.

Questa… febbre… non è normale.

È magica.

Non ci vuole tanto per capirlo… è immune ai rimedi più comuni e colpisce solo me e Draco. Che siano Raissa e Dimitri? Che stiano cercando di indebolirci? Ma allora… dovrebbe averla anche Ilai, colpirebbero anche lui. Anzi, al momento, sono anche convinti che io e Draco non ci riappacificheremo mai, magari anche a ragione… che motivo avrebbero di colpire lui? E poi… non è il loro stile. Decisamente. Sceglierebbero una cosa ben più mortale, questa febbre… è solo fastidiosa.

Che cosa diamine può essere?

Più ci penso e più la febbre sembra liquefarmi il cervello, martellandomi i pensieri come un picchio.

Nel momento in cui mi lascio andare ad un sospiro frustrato, sento provenire dalla stanza accanto il rumore sordo di una Smaterializzazione, immediatamente seguito da un tramestio di passi. Dean varca la soglia con un sorriso rivolto prima a Pansy e poi a me, poco prima di sedersi accanto alla moglie di cui accarezza il viso in modo tenero. Dietro di lui, vedo comparire la sagoma conosciuta di Ilai, cosa che mi manda in fiamme il viso e mi fa alzare in piedi d’istinto prima ancora che me ne renda conto. Ilai mi guarda timidamente per qualche secondo, salutandomi a bassa voce, poi si avvicina piano e mi chiede sommariamente come sto e come è la situazione. Mi limito a scrollare le spalle, imbarazzata dal fatto che Dean e Pansy ci stiano guardando, e replico velocemente che stiamo aspettando che torni Helder. Sollevo piano lo sguardo, cercando quasi di fargli capire solo con gli occhi che Draco adesso sa tutto di Alex e che questo è successo nel modo peggiore possibile; probabilmente distingue un barlume di tristezza rabbiosa della mia espressione che gli fa contrarre la mascella, intuendo che sia successo qualcosa. Ma naturalmente, così come abbiamo deciso e così come conviene per il fatto che non siamo propriamente soli al momento, sussurra una tenue rassicurazione dicendomi che andrà tutto bene, sistemandosi accanto alla finestra, la schiena poggiata alla parete e le braccia conserte. Le ginocchia di pastafrolla, mi siedo nuovamente sul divano accanto a Pansy, cosciente sia della presenza silenziosa di Ilai dietro di me, che di quella ghignante di Dean ed insinuante di Pansy. Ho appena il tempo di pensare che la situazione da imbarazzante diventerà surreale con tendenze allo sterminio, quando Draco scenderà dal piano di sopra, che sento la porta d’ingresso aprirsi. Scatto di nuovo in piedi, convinta che si tratti di Helder, ma invece si tratta dell’ennesima tessera del mosaico denominato “portiamo Hermione Granger all’ipertermia per vergogna”. In poche parole, è Seth.

Per fortuna, mi rendo subito conto che stavolta Seth non è minimamente interessato a prorompere in uno dei suoi consueti commenti riguardanti la mia vita sentimentale, cosa che di solito avviene nel beato menefreghismo che uno dei suoi protagonisti è presente nella stanza ed ha ancora un apparato uditivo funzionante, e il secondo è al piano di sopra, non quindi propriamente in Olanda a guardare i mulini a vento. Stavolta, Seth è preso dalla sua di vita sentimentale, considerando che entra in casa dando il braccio ad un ragazzo, che riconosco immediatamente come Kevin, il suo fidanzato, anche se è la prima volta che lo vedo. Di lui, però, grazie alla bocca larga di Seth, so praticamente tutto, mi ha anche mostrato delle sue fotografie. Quindi non mi stupisce né il fatto che sia notevolmente alto, né il colore chiaro degli occhi oltremare, né tantomeno l’espressione dura ed arcigna che cela, in realtà, un ragazzo autenticamente d’oro. Mentre gli porgo la mano presentandomi, non mi stupisce nemmeno la divisa della polizia che indossa, sapevo del suo lavoro. E visto come mi guarda, con una piega tra l’affettuoso e il costernato negli occhi, capisco che anche lui sa tutto di me. Seth quasi saltella come un bambino piccolo, parlando a raffica e dicendo che lui stava già venendo qui per chiedermi se avessi bisogno di aiuto, considerando che c’è di mezzo la sparizione di un minore. E quindi, come ovvio che sia, inizia a cianciare di destino, di fili rossi dell’amore, di telepatia e di tutta una serie di altre scempiaggini, che costringono me a sospirare in debito di pazienza, Pansy a reprimere le sue risposte taglienti e Dean a trattenere un’espressione sbalordita per la quantità di parole che può stipare in un minuto. Poi succede il miracolo. Kevin si limita semplicemente a ruotare il capo, guardandolo con un sopracciglio inarcato, e Seth sorride in colpa, si stringe nelle spalle e biascica imbarazzato, con gli occhi luccicanti d’amore: “Scusami, tesoro… tu volevi parlare con Herm, giusto?”.

Nessuno fa tacere Seth e Kevin ci riesce solo con un’occhiata nemmeno di minaccia, ma solo di constatazione amichevole.

Questi due si sposano, sono fatti per stare assieme.

Kevin sorride dolcemente a Seth annuendo, prima di dire con tono contrito: “Mi dispiace per quello che ti è accaduto, Hermione… come puoi immaginare, Seth mi ha raccontato tutto… di Alex e della faccenda dei Karkaroff… vorrei davvero poter essere d’aiuto, e quindi chiedimi davvero tutto quello di cui hai bisogno…”. E qui ovviamente viene la parte difficile: io non ho assolutamente bisogno di Kevin. O perlomeno, penso che sia così. È Helder che sembra aver bisogno di lui. Quindi non so assolutamente che cosa diamine gli debba rispondere: anzi, l’istinto e la mia tendenziale voglia di fare tutto da sola, senza mettere in pericolo gli altri, mi spingerebbero anche a dire a Kevin di tornarsene a casa sua, magari portandosi dietro Seth. Però, in fondo a me stessa, mi fido di Helder. È la sola giunta qui con un vago senso di sicurezza su che cosa sia necessario fare per salvare Alex… devo avere fiducia in lei. Perciò, con riluttanza, allargo le braccia impotente e sussurro a Kevin: “La mente del piano, al momento, non è ancora tornata, è lei che ha chiesto il tuo aiuto… vorrei dirti di più, ma non so nemmeno io granché…”, poi con un sorriso aggiungo: “Ma ti ringrazio di esserti precipitato qui. In fondo nemmeno mi conosci…”.

“… ma ti conosce Seth, e ti vuole bene…” soggiunge lui con espressione tenera, come se fosse ovvio che lui corra per aiutare una persona amata dal suo ragazzo, Seth sorride a sua volta e gli mette affettuosamente una mano sul braccio, mentre Kevin continua: “Probabilmente non sarò granché utile, ma sono contento di esserci…”. Nonostante tutto, però, mi affretto a dirgli che, in ogni caso, sarà mia premura che non succeda nulla né a lui, né tantomeno a Seth, e che in qualsiasi momento sono liberissimi di andare via, se avessero la sensazione che tutto sia semplicemente troppo per loro. In fondo, è un mondo completamente sconosciuto per loro, Seth fa ancora certe facce grigiastre e sconvolte quando ci vede usare la magia. Una vertigine mi fa tacere all’improvviso, la febbre ancora non ne vuole sapere di lasciarmi in pace, traducendosi adesso in un vago senso di confusione mentale che somiglia a centinaia di persone che parlano nello stesso momento, trasformandosi in un ronzio fastidioso ed irritante. Mi accascio nuovamente sul divano, questa stramaledetta sensazione sta diventando così invalidante che mi sta portando alla nausea. Ilai si stacca dal muro e si viene a sedere accanto a me, gettandomi un’occhiata preoccupata ed ansiosa, prima di toccarmi la guancia con due dita e sussurrare quieto: “Hai ancora la febbre…”.

Mi stringo nelle spalle, un rossore che stavolta non ha a che fare con la febbre mi incendia il viso, ma per fortuna Pansy e Dean sono presi dalla conversazione con Kevin, che ha appena rivelato di conoscere qualcosa del mondo della Magia, perché sua cugina era una strega. Respiro quindi di sollievo e mi lascio lievemente andare alla carezza di Ilai, annuendo alla sua domanda.

“Anche Draco ha la febbre…” aggiungo con nervosismo, la mano di Ilai si stacca dal mio viso e si contrae agitata, mentre l’appoggia su un ginocchio.

“Strano…” commenta lui, guardando davanti a sé, gli occhi scuri una folla di domande senza risposta “E non è nemmeno la più comune delle febbri… si dovrebbe essere già abbassata, adesso…”, lo sguardo di Ilai si illumina e mi dice convinto: “Perché non chiedi alla tua amica Empatica? Magari lei ci capisce qualcosa di più di noi… Dean mi ha detto che riesce a sentirvi anche a distanza, ora… forse puoi chiederglielo anche adesso…”. Ha ragione, ultimamente davvero sto perdendo ogni nozione di giudizio autonomo.

Non faccio nemmeno in tempo a provare a contattare mentalmente Helder che lei si affaccia con prepotenza nella mia mente, la voce squillante che mi trapana i neuroni.

“La febbre è magica, Herm… probabilmente ho anche il modo di farla passare…” mormora lei concitata, facendomi ancora chiedere come diamine faccia a sentirmi con tale chiarezza adesso. Naturalmente, lei sente anche questo, perciò si affanna a sorridere e a sussurrare: “E tranquilla… appena la febbre sarà passata, non vi sentirò più come vi sento adesso… ammetto che sia divertente, specie con la mente contorta di Malfoy… ma siete troppo visibili così…”.

“Visibili?!” chiedo, non capendo e sbattendo le palpebre un paio di volte. Ilai mi guarda confusamente, le sue dita abbandonate sulla gamba sinistra sembrano quasi formicolare, mentre si trattiene dal toccarmi anche solo per richiamare la mia attenzione. Pansy, Dean, Seth e Kevin continuano a parlare tra loro, ignari di tutto.

“Già… diciamo che al momento siete visibili a tutti gli Empatici del mondo… ogni vostro barlume di pensiero e sensazione è di dominio pubblico…quindi ne guadagnerà anche la vostra privacy, oltre alla vostra sicurezza…”. La voce di Helder suona quasi dispiaciuta ed imbarazzata ed il mio viso semplicemente esplode di calore. Al momento, non sono granché interessata al motivo per cui questo stia succedendo… ma a quello che sta succedendo in sé, a quello che è successo da quando ho questa febbre. La conversazione con Ilai, il bacio, lo scontro con Draco… tutti i miei pensieri e sentimenti, per chissà quale assurdo motivo, sono stati letti e sentiti da tutti gli Empatici del mondo?! Non saranno propriamente quindici miliardi, ma anche solo che li abbia sentiti Helder… già è insopportabile. Figuriamoci se penso a centinaia di persone sconosciute, che mi hanno sentito nei momenti peggiori della mia vita, in ogni aspetto più delicato ed intimo di me stessa. Mi affloscio come un palloncino sgonfio, sopraffatta dalla frustrazione di non sapere che cosa diamine stia succedendo e che cosa questo possa portare in termini di salvezza per Alex… e la mia prima inconscia reazione è chiudere gli occhi, serrare la mente, proteggerla e cercare di tenere fuori quanti più pensieri possibili. Ma l’Empatia non è Legilimanzia, è più forte. E io non sono mai stata una brava Occlumante, nemmeno a scuola.

“Mi dispiace Herm…” sussurra contrita Helder nel mio cervello, avverto ogni goccia del suo dispiacere “Ma posso consolarti dicendo che solo adesso, con l’aumento della febbre, ti posso sentire in modo più preciso… e così tutti gli altri… fino a ieri non eri così visibile e Malfoy non lo sentivamo proprio… erano solo sparse sensazioni… ma, appena torno, lo mettiamo a tacere, tranquilla…”.

“Che cosa c’entra tutto questo con Alex?” chiedo, ancora con l’assurdo tentativo inconscio di nascondere alla platea che mi ascolta silente ed invisibile ogni traccia di angoscia ansiosa per mio figlio.

“C’entra, Herm… la febbre, a suo modo, è una cosa buona… cinque anni fa non ha fatto in tempo a… ma ti spiegherò tutto meglio dopo. E’ chiaro, però, che rallenta la tua mente, ti rende troppo visibile… e ci manca soltanto che se ne accorgano Raissa e Dimitri… o qualsiasi altra persona, che abbia ottenuto qualcosa da Adamar…” enumera lei mentalmente, in modo veloce, non riesco ancora a seguire nulla del suo ragionamento, né di che cosa diamine c’entrino le persone che hanno ottenuto qualcosa da Adamar. Helder se ne accorge naturalmente, e mi rassicura con voce dolce: “Non ti preoccupare… appena torno, ti spiego tutto… tra poco sarò lì…”. Deve evidentemente sentire qualche altra cosa in fondo a me stessa, qualcosa che nemmeno io avverto compiutamente e che può essere solo insicurezza e non totale fiducia in quello che sta accadendo, e su cui non ho il benché minimo controllo. Difatti aggiunge con un filo di voce, incerta e d’improvviso spossata: “Herm… so che è difficile, ma fidati. Fidati di te… e fidati di lui, di Draco soprattutto. Fidati delle persone che ti circondano… e fidati anche di me, se puoi… credimi, non vorrei portarti a questo, ma è l’unico modo. E’ la vostra sola arma, al momento…”.

Poi, come colta da un’ispirazione improvvisa, soggiunge allegra, con un trillo della voce: “C’è una persona in tutto questo, su cui non hai mai avuto dubbi… mai, nemmeno per un istante…”.

“Chi?”.

“Tatia Krasova…”. Sobbalzo, sentendo quel nome nella testa, la presenza silente di Ilai accanto a me si traduce in un ulteriore brivido lungo la schiena.

Helder prosegue, adesso certa di avere tutta la mia attenzione: “Hai fatto un sogno qualche giorno fa… lo vedo nella tua testa…”. E d’improvviso, come se la mia mente si schiarisse e si liberasse, come se diventasse bianca e nivea da corvina che era, rivivo in pochi fotogrammi quel sogno strano che avevo persino seppellito nella mia mente, fino a cinque secondi fa. Il deserto, le parole di Tatia, i suoi avvertimenti, il canto infernale delle altre anime… è come afferrare al volo un oggetto, prima che cada e rovini al suolo, distruggendosi.

L’arma, qualsiasi essa sia, non è il ciondolo.

Helder annuisce nel mio cervello, quasi sorridendo e dandomi implicita conferma ai miei pensieri, mentre ricordo finalmente le esatte parole della nenia delle anime dannate.

L’arma… è la Solutio damnationis”.

 

 

Quando Helder torna, è passata solo mezz’ora dalla nostra conversazione mentale, eppure mi sembra passata un’eternità di tempo.

Una mezz’ora stancante e sfiancante, perché contrariamente a quanto sono abituata da tutta la vita, ho fatto di tutto per non pensare né al piano di Helder, né alla connessione che ho al momento con gli Empatici, né tantomeno alla fantomatica Solutio damnationis, descrittami in sogno da Tatia. C’è un perimetro di vita che deve restare mia e non di centinaia di persone legate, chissà come e chissà perché, alla mia mente: perciò, sebbene mi causi un cerchio alla testa sempre più pressante, trascorro il tempo ascoltando le chiacchiere di Seth che ci racconta ancora come ha conosciuto Kevin e di come si sono innamorati, compreso l’ennesimo ricordo dell’arrampicata sulla torretta della centrale di polizia, che stavolta però si colora anche dei particolari descritti dall’altro protagonista, il quale la fa molto meno eroica di quanto l’avesse fatta Seth. Ascolto anche Pansy raccontare di come Charisma sembra andare d’accordo con Serenity, sebbene sia più piccola di lei, e non spingo la mente nel limo dei rimpianti e delle amare considerazioni che farei sulla distanza incuneatasi tra me e Draco. Non sfioro, né parlo con Ilai, perché anche questo aspetto deve restare solo mio. E quando l’ansia per il mio bambino e per il tempo che passa, mi riassale, stringo forte il ciondolo di Tatia tra le mani, convincendomi che lei mi sta guardando da qualche parte e non mi lascerà sola neanche adesso.

Questo si traduce, inevitabilmente, in un mio perdurante silenzio che, però, per fortuna, nessuno in modo caritatevole e comprensivo si sogna di disturbare. E sebbene il cerchio alla testa per lo sforzo sia opprimente e mi porti alla nausea, noto che la febbre, di fronte a plastificate e insensibili riflessioni, diventa meno rovente, artigliandosi invece come un giogo di fuoco se mi avventuro su altri pensieri più coinvolgenti del mio cuore. La testa semplicemente diventa lava e magma se mi azzardo a pensare, anche solo per errore o associazione di idee, a Draco.

Quello è il momento in cui, davvero, ho l’impressione che mi stia evaporando il sangue dal cervello, per quanto sia diventato bollente.

Un moto di curiosità mi assale in modo involontario, avendo come conseguenza immediata che la maledetta febbre ardente si artigli in modo più snervante attorno a me, spingendomi persino a respirare a fatica, mentre non trattengo l’inevitabile domanda su come stia Draco, invece, e su che cosa stia pensando. Ovviamente, non può avere pensieri limpidi e cristallini su di me, coronati da arcobaleni ed unicorni… come nemmeno ci riesco io, mi pare ovvio. Vorrei quasi salire di sopra, verificare come stia, ammonirlo sulla febbre e sul fatto che tutti gli Empatici possono sentirci adesso… e vorrei persino dirgli di non pensare a me, se vuole avere la friabile illusione di non scoppiare di calore. Ma, poi, il fiume di parole ed insulti che ci siamo scambiati mi rovina come una cascata addosso e resto incollata al divano.

Credo che sia un’abitudine preoccuparmi per lui, un riflesso condizionato, un movimento istintivo che probabilmente mai riuscirò a sradicare da me stessa, e che adesso, oltre ad associarsi ad una sferzata di odio e rancore frammisti ad orgoglio rabbioso, si manifesta in un ulteriore aumento della mia temperatura corporea, così da farmi sentire davvero come se fossi in fiamme. Quindi, lo sedo velocemente e facilmente, come un animale che associa un particolare evento a qualcosa di negativo, imparando a non farlo più.

Helder sta per tornare, la febbre passerà anche a lui. Io la sopporto da quasi dodici ore. Può sopportarla anche lui per un po’.

Respiro di sollievo rinfrancata, avvertendo la fronte più fresca e la vista più chiara.

Sto riprendendo a forzare me stessa per ascoltare con quanta più calma e freddezza possibile, i miei amici che chiacchierano amichevolmente, che d’improvviso, quasi con un rombo di tuono, compare al centro esatto del salone Helder, il mantello oltremare smosso dal contraccolpo della Smaterializzazione, i capelli lievemente increspati ed un’aria seria e compunta. Mi alzo dal divano nel silenzio generale, facendomi vicina a lei ed interrogandola nervosamente con lo sguardo; ma Helder solleva piano il palmo, spingendomi all’immobilità e al silenzio in modo riverente, mentre lei si stacca dalla cintura un sacchetto di velluto nero, che osservo senza capire.

“Titanca…” soggiunge lei, seguendo ed indovinando la direzione del mio sguardo “Non è facilissima da trovare come puoi immaginare, fiorendo solo ogni cento anni… e tendenzialmente allora se ne fa incetta tra ricettatori e pozionisti…”. Sgrano gli occhi sconcertata, replicando con un moto istintivo di autodifesa: “La Titanca… è il fiore che ha usato Dimitri per fingersi morto e non essere percepito neanche da te come vivo… che cosa c’entra con me?”. Helder afferra la bacchetta e fa comparire sul tavolo alle mie spalle due bicchieri di cristallo, finemente intarsiati d’argento: sono pieni di un liquido scarlatto, che rilascia un vapore di condensa dall’invitante odore di frutti di bosco. Con eleganza disinvolta, svuota il contenuto del sacchetto in entrambi i bicchieri, una polvere di colore argenteo che rende il liquido scintillante. Pensosamente, Helder mi fa cenno di afferrare un bicchiere e di berne il contenuto, mentre spiega: “Tecnicamente, la Titanca non induce una finta morte… dosi eccessive possono avere questo effetto, richiedendo quindi voltaggi elevati che riattivino il cuore mediante stimolazione elettrica… sicuramente Dimitri ne deve aver ingurgitata parecchia. Ti ho già spiegato che chi ha ottenuto qualcosa da Adamar, non viene sentito dagli Empatici, se non con moltissima difficoltà… ma per quel poco che si può sentire restano scolpiti nella mente. Come lui è rimasto scolpito nella mia, dopo averlo sentito… quindi aveva bisogno di qualcosa che fosse persino più forte di questo…”, Helder fa una pausa per riprendere fiato, mentre io afferro il bicchiere con mano malferma: “In realtà, la Titanca in piccole dosi, non quelle eccessive che deve aver assunto Dimitri per andare sul sicuro, tendenzialmente annulla solo l’Empatia, rendendo chi la assume praticamente impossibile da percepire per un Empatico… certo, altre parti della pianta hanno altri effetti, ma i petali sminuzzati hanno solo questo…  ”.

“Rendermi cieca agli Empatici… farà passare la febbre?” chiedo dubbiosa, le labbra accostate al bicchiere che non svuoto.

“Sono la stessa cosa…” mormora Helder, piegando la testa di lato “La febbre… è solo un segnale. Per gli Empatici. Un segnale… di quello che vi sta accadendo. E quello che vi sta accadendo… ha a che fare con la connessione aperta con gli Empatici stessi. Chiusa la connessione, passa la febbre…”.

“Io continuo a non capirci niente…” borbotto con nervosismo, tendendomi come una corda di violino, poi mi rilasso sussurrando: “Ma se questo intruglio può farmi passare questa maledetta febbre…”, ghigno sarcastica e sollevo il calice con aria pomposa: “Alla salute”. Lo vuoto in un solo sorso, ha un sapore fruttato piacevole e rinfrescante, e scivola nella mia gola come ghiaccio sciolto. Immediatamente, mentre penetra nel mio corpo, sembra portare un’aria fresca di tramontana: la febbre cala d’improvviso, lasciandomi scariche di brividi ghiacciati sulla schiena, ma anche una sensazione di forte chiarezza mentale come non mi accadeva da giorni. I pensieri si snebbiano come la mia vista, la pelle torna tiepida come sempre, il respiro si calma, la spossatezza sparisce e si trasforma in forza e maggiore coraggio. Dal riflesso della porta del salone e dall’aria sollevata di Helder, capisco che anche il mio aspetto torna decisamente più florido e sano.

Guardo Helder con gratitudine, pronta contemporaneamente anche a sommergerla di domande, ma lei ancora previene le mie rimostranze, dicendo con tono accorato: “Lo so, lo so, ti spiegherò tutto… quello sguardo lo conosco, non c’è bisogno dell’Empatia… però sii clemente, è già una storia terribilmente complicata… fammela dire solo una volta, ok? Ed al momento ho ancora alcune cose da sistemare… e per queste cose, mi serve immediatamente l’altro malato…”, si guarda attorno con nervosismo, poi getta uno sguardo in direzione del soffitto, facendomi presagire che naturalmente sente ancora Draco. “Qualcuno potrebbe chiamare il padrone di casa, per favore?” biascica stancamente Helder, massaggiandosi il collo. Poi, quando già Seth si sta muovendo per andare di sopra, Helder sgrana gli occhi e mormora seria, il volto improvvisamente cinereo: “Meglio che ci vado io di sopra… Malfoy sta decisamente peggio di te… dubito che riesca ad arrivare qui…”. Un alito di vento e si Smaterializza al piano di sopra. Vorrei davvero evitare alla mia gola di articolare quel suono duro, gutturale, strozzato, simile a quello di una bestia presa al laccio, mentre le vie respiratorie si contraggono e faccio fatica ad inalare ossigeno. E vorrei anche evitare al mio cuore di battere forte, sordo, terrorizzato, al pensiero che possa essere persino vicina a perderlo. Vorrei davvero non considerare estranee le mani di Ilai che, adesso, mi sfiorano la vita cercando di rassicurarmi. Vorrei che tutto questo non ci fosse… e per fortuna faccio in tempo a negarlo a me stessa. Perché dura tutto solo pochi secondi.

Draco scende le scale di corsa, i capelli spettinati, l’aria affannata, gli occhi grigi accesi. Si ferma davanti a me, ha il colorito acceso, il fiatone, ma sta bene. Soppesa il mio viso, lo studia ed io studio il suo, abbeverandomi della sua salute. Poi sbatto le palpebre, ricordandomi tutto, allo stesso modo in cui anche lui si ricorda tutto. Lancia un’occhiata torva ad Helder che lo segue sorridendo, mentre Draco distoglie il viso da me, incrociando le braccia e borbottando qualcosa. A mia volta, guardo Helder confusa, ha le mani incrociate dietro la schiena e saltella spensierata.

Ci sta manipolando.

La rabbia a quel pensiero raggiunge le mie mani facendole tremare di nervosismo a stento represso: non so quale sia il fine di Helder, non so quale sia il suo piano, ma sto esattamente, adesso, che cosa sta facendo. Sta manipolando me e Draco, come due marionette. Si è ripreso troppo in fretta per pensare che stesse davvero così male, come mi ha detto… e lui… aveva un’espressione troppo sconvolta, scendendo, come se avesse pensato a sua volta che io stessi malissimo. E certo, d’accordo, posso essere ancora maledettamente felice che, nonostante tutto, non desideriamo ucciderci a vicenda, ma è una cosa abbastanza scontata, credo. È sempre il padre di mio figlio. Sono sempre la madre del suo. Ci mancherebbe.

Ma che lei stia sfruttando il germe di questo attaccamento, non mi va proprio. C’è troppa gente che si insinua, o si è insinuata tra me e lui. E spesso non faccio altro che pensare che sia stato anche questo a far andare tutto a scatafascio tra me e lui. Quindi, anche adesso che le cose sono chiuse, anche ora… anzi, forse soprattutto ora… gli altri, compresa Helder, devono stare fuori da questa storia, specie per provocare discutibili reazioni per i propri ancor più discutibili scopi. Senza nemmeno un attimo di esitazione, annebbiata ed innervosita, afferro Helder per il polso con malagrazia, trascinandomela dietro in giardino, sotto lo sguardo ovviamente atterrito degli altri. Non mi interessa, prima chiarisco questa storia meglio è.

Il sole è forte, il contrasto con la penombra dell’interno mi fa bruciare gli occhi e non mi fa mettere bene a fuoco. Inoltre la calura è asfissiante, le cicale friniscono impazzite. Ma la mia voce tintinna netta e chiara, mentre sibilo: “Si può sapere che cosa diamine hai in testa? Credi forse che siamo all’asilo? E che mi devi chiudere in una stanzetta con Malfoy, così facciamo pace con il mignolino?”, Helder mi guarda con un impercettibile sorriso e le spalle afflosciate, come se fosse semplicemente preoccupata, e questo mi fa salire ancora di più l’acido in gola: “Questo… tutto questo casino tra me e lui… sono affari miei e di nessun altro. Puoi aiutarmi con mio figlio? E allora non farmi perdere tempo con queste stronzate, ok? Non me ne frega niente degli Empatici, della connessione, della febbre… e tantomeno mi interessa al momento dimostrare a qualcuno che posso ancora sentirmi legata a Malfoy… non c’è niente tra me e lui, meno di quello che c’è mai stato… quindi se puoi aiutarmi con Alex, bene, parla. Altrimenti, se sei qui solo per fare la consulente matrimoniale… puoi tornartene da dove sei venuta…”. So che sono stata dura, e forse anche ingiusta, la voce mi trema e mi manca persino il fiato, ma adesso mi sento decisamente più lucida, da quando è passata la febbre che mi stava tormentando. Mi annacquava i pensieri, li scoloriva, mi impantanava nel disastro di non avere più forza e coraggio. Adesso che mi sento meglio, ogni secondo che sto qui a fare altro che non sia salvare mio figlio, è un secondo in cui farei una strage. Anche delle persone a cui voglio più bene al mondo.

Helder, però, non è minimamente sconvolta dalla mia reazione, anzi ancora si stringe nelle spalle, sorride e si chiude in sé stessa a farsi più piccola e minuta. Quando già sto per urlarle di nuovo contro, volge il viso alla sua destra, in direzione del vialetto d’ingresso della casa di Draco, e dice solamente: “Ve l’avevo detto che ci sarebbe voluto più tempo del previsto…”.

Quando guardo dove sta guardando lei, il cuore mi martella nel petto con un sentimento frammisto di angoscia, ansia, preoccupazione, e poi sollievo, gioia, felicità rapprese che mi esplodono addosso, come insolenti fuochi d’artificio. Come facessero a starsene lì, tutti, in silenzio completo, senza nemmeno respirare, è un mistero, ma appena mi accorgo della loro presenza, è come se semplicemente non li potessi ignorare più, non potessi più distogliere il viso da loro.

I primi che riconosco sono Harry e Ginny, forse perché inconsciamente desideravo così tanto rivederli, da averli immediatamente tracciati nella mia vista non appena sono comparsi. Certo, Harry veniva a trovarmi ogni tanto in Italia, ma le sue erano sempre visite rapide, timorose, istituzionali, nel timore che qualcuno potesse seguire i suoi spostamenti. E Ginny… sebbene mi sentissi con lei regolarmente tramite lettere e con telefonate e spesso la vedessi anche attraverso il camino, non la vedevo di persona da anni, esattamente da quando mi impedì di partire per cercare Draco, quando ero ancora incinta di Alex in Italia. Era troppo pericoloso per lei venire a trovarmi, ovviamente, nonostante insistesse tanto con Harry. E poi, anche lei è diventata mamma di tre figli: si diventa ragionevoli, quando si ha qualcuno che dipende completamente da te. Tre bambini che mi chiamavano zia nonostante tutto, quando parlavo con loro al telefono… ma che non avevo mai visto.

E che adesso, finalmente, vedo, cosa che mi provoca una nebbia di lacrime negli occhi che cerco di ricacciare indietro, per poter fissare nella mia mente ogni particolare.

Harry non è cambiato di una virgola: veste lievemente più elegante adesso che è Ministro, ma la sua aria scanzonata ma al contempo sempre un po’ triste non cambia mai. È in piedi, le gambe magre coperte da un paio di pantaloni kaki, sotto una polo bianca che fa risaltare in modo quasi molesto gli occhi verdi. Sorride nel guardarmi, piega le spalle sotto il peso di una bambinetta minuscola che ha sulla schiena, addormentata. Lily. Ha tre anni adesso, e Ginny me l’ha sempre descritta come un terremoto. Adesso, però, dorme sulle spalle del suo papà, ha i capelli rossi annodati in due treccine e l’aria pacifica sul viso tondo. Accanto ad Harry, con una smorfia impertinente e le braccia conserte da piccolo adulto scornato, sta un bambino della stessa età di Alex: ha due profondi occhi azzurro chiaro, capelli neri scarmigliati e l’aria di chi già conosce tutti i segreti del mondo civilizzato. James. Mi viene ancora da sorridere, ricordando di quando Ginny mi aveva detto che, alla nascita, sembrava aver già suggerito il suo nome, mostrandosi come il ritratto perfetto del suo defunto nonno. Il mio sguardo si sposta ancora, inquadrando invece adesso la mia amica, cosa che, appunto, dopo cinque anni, mi fa scoppiare a piangere senza ritegno. Lei mi si avvicina, abbracciandomi forte, le lacrime che curvano anche il suo viso, mentre cerca scherzosamente di consolarmi. Mi stacco da lei con un sorriso mesto, asciugandomi il viso imbarazzata: in lei nulla pare cambiato. È diventata certo più morbida nell’aspetto, meno ossuta, e ha un’aria più dolce del viso, ma i capelli sono sempre una fiamma d’autunno che brilla al sole e gli occhi azzurro chiaro hanno lo stesso bagliore che avevano da ragazzina. Stringe la mano di un bambino magro e mingherlino, dall’aria più timida e spaurita rispetto a suo fratello maggiore. Albus. Sorrido, accarezzandogli la testa, era con lui che spesso parlavo di più al telefono e, ascoltando la sua voce stridula ed acuta, me l’ero immaginato esattamente così, somigliante nei colori a suo fratello James, tranne che per gli occhi, verdi come quelli della nonna Lily e del padre Harry.

La visione della meravigliosa famiglia del mio migliore amico, per un attimo, mi distrae da tutto il resto e mi consola, facendomi dimenticare persino l’accesso di rabbia verso Helder che mi ha portato ad uscire in giardino. Quella sensazione scomoda, però, ritorna immediatamente, non appena mi rendo conto di chi altro è comparso nel vialetto e che, di primo acchito, rallegratami alla vista di Harry, Ginny e dei bambini, non avevo notato. È una sensazione di soggezione ed imbarazzo, perché si tratta di persone con cui non ho mai avuto eccessiva confidenza e che quindi adesso mi vedono in un momento di fragilità. Mi affretto quindi a raddrizzare la schiena e ad asciugarmi gli occhi con il palmo della mano. Messa maggiormente a fuoco la situazione, mi esplode dentro un senso indiretto di disagio e di preoccupazione protettiva, nei confronti di Dean, Pansy e Charisma.

Di fronte a me, infatti, imperturbabili come statue greche ed ugualmente bellissimi, se ne stanno i coniugi Zabini, Blaise e Daphne.

Il loro contegno aristocratico non è minimamente mutato nel corso degli anni: Blaise ha semplicemente tagliato i capelli che ricordo lunghi, quando veniva da Pansy. Gli occhi sono sempre due lame blu-verde, affilate come quelle di un gatto che sezionano chiunque gli stia davanti, emergendo foschi nel contrasto con la pelle abbronzata del viso e con i capelli corvini. Porta un lungo mantello nero, dalla fodera azzurra, sebbene la giornata sia calda ed afosa. Accanto a lui, così perfetta ed immobile che non sembra nemmeno respirare, se ne sta Daphne, il corpo sottile coperto da un lungo abito grigio con decori d’argento. I capelli sono tirati all’indietro, biondi e lisci come sempre sono stati, e gli occhi azzurri splendono della solita freddezza. Mi appare solo un po’ affaticata… e triste, ecco. Di primo acchito, lo imputo al fatto che ha di fronte l’artefice indiretta della fine di sua sorella minore Astoria, e sta per incontrare il responsabile anch’esso indiretto della morte della sorella maggiore Helena, cioè Draco. Ma, dopo qualche istante di considerazione, capisco che non è quello: è qualcosa che si è proprio attaccato a lei, una tristezza interna che sembra vecchia di mille anni e che non ha nulla a che vedere con la dipartita delle sue sorelle. Credo anche che nemmeno le interessi come siano morte e per mano di chi. Ricordo le parole di Helena sul fatto che, per le donne purosangue, il matrimonio sia tutto. Me le aveva fatte sentire Draco, mostrandomi i ricordi che aveva di lei.

Con il matrimonio, cessa ogni rapporto con la famiglia d’origine. Helena, dopo le nozze, infatti, aveva visto allentarsi enormemente i rapporti con le due sorelle minori.

Quindi, Daphne probabilmente non si sente nemmeno più una Greengrass.

Cercando il motivo di quell’espressione, noto finalmente che Daphne tiene in braccio un neonato di soli pochi mesi, avvolto in vestitino azzurro che mi fa supporre che sia un maschio. Lo tiene come se fosse… infetto. Sembra non toccarlo neppure. Il bambino, dal canto suo, se ne sta immobile, un pugnetto chiuso in bocca e un’espressione meditabonda negli occhi neri socchiusi.

Guardo Helder con nuovo nervosismo irritato, chiedendomi che cosa diamine le sia saltato in mente per chiamare anche loro, ma lei fa un cenno timoroso del capo alle spalle di Daphne e Blaise, ignorando il mio risentimento. Seguo la direzione del suo sguardo e lì l’irritazione si affloscia così come era nata, sostituita da vergogna e amarezza.

Helder, che stavolta non ha alcun genere di giustificazione riguardo agli Zabini e Pansy di cui ovviamente non poteva sapere nulla, ha richiamato indietro anche Ron, di cui invece sa tutto.

La guardo inorridita per qualche secondo, era in Italia con me, sa perfettamente che cosa abbiamo vissuto per cinque anni e come sia stato lacerante per me, nonostante tutto. Vedere Ron qui, adesso, dopo tutto quello che è accaduto, dopo quello che sta accadendo, mi fa sprofondare il cuore in una morsa dolciastra di rimorso e senso di colpa. Non mi guarda in viso, si guarda le scarpe, ha le orecchie in fiamme e gli occhi fissi al suolo, ma tutto di lui mi fa sentire vittima di un rimprovero silente che sento di meritare appieno. È ancora qui per aiutarmi, e io me ne sono andata dall’Italia per inseguire un uomo che si era già rifatto una vita. Con lui, avevo una casa, un tetto, una routine di abitudini persino confortanti… una sedia rossa in cucina dallo schienale mezzo rotto, un post it fucsia sul frigorifero con gli orari del ritiro della spazzatura, una coppia di amici con cui giocare a tennis nel weekend, un barattolo di pesche sciroppate sull’ultimo ripiano della dispensa che nessuno mangerà mai… ed io ho buttato all’aria tutto per il miraggio di un grande ed eterno amore. Adesso, in questa situazione, con Alex lontano e in pericolo, tutto quello che rigettavo di quella vita, paradossalmente, è miele e ciliegia dolcissima. È proprio vero che si è sempre insoddisfatti di quello che si ha e si è sempre irriconoscenti seriali… con lui, non mi sono mai sforzata di cercare il benché minimo contatto, convinta che mai potesse capirmi e risoluta a mantenere sempre una distanza tra lui e mio figlio, che doveva restare il figlio di Draco e mai il suo. Forse, in fondo a me stessa, mi sono persino sentita superiore a lui. Sempre…  in modo peggiore di quanto accadeva ad Hogwarts o di quanto accadeva quando stavamo assieme. Io sola avevo davvero amato qualcuno, io sola capivo di che cosa avesse bisogno mio figlio, io sola potevo sapere lo strazio di amare una persona tanto diversa da me, io sola ero depositaria del bene assoluto. Ed intanto, fino a quando sono stata con lui, Alex è stato al sicuro. Poi, da povera idiota, mi sono legata ad un perfetto sconosciuto come Ilai senza nemmeno rendermene conto, e ho scoperto che Draco poteva essere padre, solo odiando me.

Vorrei davvero parlargli, adesso, chiedergli scusa, implorare un mondo in cui possiamo ancora essere amici, senza che null’altro si metta in mezzo. Ma, adesso, come tante altre cose, sento di non averne il diritto. O forse è semplicemente troppo tardi. È come cercare l’origine di una slavina che ha devastato una valle, seminando morte ghiacciata. Sulla vetta, deve essere stata solo una piccola palletta di neve sporca, ma dopo, con la gravità che incalza e il tempo che scorre, difficilmente potresti capire che cosa ha creato tutto. Raccogli ciò che hai seminato, metti toppe alla devastazione e ti sforzi di dire che andrà meglio, un giorno. Ed il mio sforzo è soltanto un sorriso debole, grato, infinitamente riconoscente verso di lui. Ron, quello goffo, imbranato, insensibile e superficiale… lo ricambia, stringendosi le spalle.

Accanto a lui, vedo una persona che non avevo notato, una ragazza non molto alta, esile come un giunco, che mi sembra di conoscere. La guardo meglio, ha lunghi capelli liscissimi castano chiaro, sottili, e due grandi occhi verde chiaro, è vestita in modo semplice e colorato. Mi sorride anche lei, ha le guance rosse come due mele, tanto da avere l’aria di una bambina. Le mani sono strette su un passeggino, al cui interno distinguo un bambino di pochi anni, forse tre o quattro. Ha i capelli spettinati castano scuro, e non so come un bambino possa sembrare già così serio ed arcigno. Studia pensosamente un sonaglio che ha in mano, come se stesse cercando di scoprire il segreto di una formula quantistica. Quando torno a guardare la ragazza, improvvisamente mi sovviene chi sia.

Natalie McDonald, un ex Grifondoro di qualche anno più piccola di me… l’avevamo persino sospettata tra le spie di Astoria al Ministero, dato che era nell’entourage di Harry.

La sua presenza vale a rendermi ancora più confusa, mi volto con le braccia conserte e sempre più innervosita verso Helder, nello stesso momento in cui i bambini, naturalmente, giudicano sufficiente il loro contegno così a lungo trattenuto. James dà quindi una pacca sulla schiena di Albus che inizia a piagnucolare, cosa che fa svegliare Lily, che smania per essere messa a terra e per poter correre nel giardino. Come era naturale, il bambino di Daphne inizia a sua volta a strillare, richiamando attenzioni, lei lo culla distrattamente come se stesse pensando a tutt’altro. Il piccolo, invece, di Natalie se ne resta tranquillamente al suo posto, ipnotizzato dal suo giochino, persino incurante di Lily che lo osserva da vicino, facendogli delle domande con vocetta stridula. Ginny cerca di dividere Albus e James, Harry e Ron mi si avvicinano prodighi di spiegazioni, Zabini smania per entrare in casa… e io guardo Helder, la sola artefice di questo caos, con la voglia di commettere un omicidio.

“Ammazzami dopo, cortesemente…” gorgheggia lei allegra, mettendosi le mani dietro la schiena con noncuranza “Manca ancora il secondo atto …”.

Non faccio nemmeno in tempo a chiedere che cosa diamine voglia dire, che comprendo che il secondo atto non è null’altro che l’aumento esponenziale della confusione, quando tutti coloro che erano all’interno della casa, pensano bene di uscire nel giardino, evidentemente richiamati dalle voci oppure dal fatto che io non sia ancora rientrata. Quindi, negli stessi cinque metri quadrati, si ritrovano persone che non si vedevano da anni e che, nella migliore delle ipotesi, si ignoravano. Il più calmo di tutti è naturalmente Kevin, che non fa assolutamente una piega. Ilai appare sospettoso, ma avendomi vista relativamente tranquilla, si calma a sua volta anche lui e si siede pigramente accanto a Kevin, sui gradini della casa. Seth, la cui giovialità è direttamente proporzionale al numero di persone presenti in una stanza, diventa semplicemente indemoniato e se ne va in giro, stringendo mani ed abbracciando spalle, soprattutto quando naturalmente rivede Harry e Ginny, che conosceva dai tempi del Petite Peste. E fin qui, tutto sommato, siamo alle reazioni pseudo normali.

Le peggiori sono, naturalmente, quelle di Pansy, Dean e Draco.

La prima, non appena vede chi c’è nel giardino ed incrocia lo sguardo improvvisamente attento e serio di Blaise, sgrana gli occhi ed impallidisce. La sua mano corre veloce al basso ventre, stringendo forte la presa sul bambino che porta in grembo. Giurerei persino che abbia avuto un capogiro e giurerei persino che se n’è accorto anche Dean che, alle sue spalle, corre immediatamente a reggerla per il gomito, guardando in cagnesco Blaise e Daphne. Quest’ultima, ancora, non dà segni di alcuna reazione, resta bella ed impassibile, persino dell’espressione del marito, che sembra al contempo illuminata e sofferta, tesa e rilassata, felice e dilaniata. Questi, però, sono Serpeverde: in capo a pochi secondi, ritornano l’emblema dell’aplomb e dell’impassibilità. Dean, naturalmente, no. Continua a stringere il gomito di Pansy, la tiene stretta a sé ed ha un’espressione che vorrebbe essere di minaccia, di rimprovero, ma sembra solo inquietudine irrequieta. Come se gliela volesse portare via. Sarebbe lo sguardo che forse io, anni fa, avrei avuto se avessi incontrato Helena. Al destino, magari si scappa pure, ma se ti si ripresenta davanti, crederai sempre di essere stato solo fortunato. Dean, però, sebbene non lo capisca, non è stato solo fortunato… la conosco Pansy ormai, capisco le sue reazioni anche se le nasconde dietro strati di menefreghismo cinico. Ha reagito male, probabilmente le è scoppiato il cuore, ha il viso lievemente rosso e la pelle lucida e bianca… ma si è subito stretta al bambino che porta dentro, al figlio di Dean. E, contrariamente a quanto farebbe sempre, non si sta divincolando dalla presa di lui, non gli ingiunge severa che non è una paralitica e che può camminare da sola. Lascia che lui la sorregga, lascia che lui la stringa. Non si farà mai portare via.

Mentre in pochi secondi si consuma tutto questo, l’altro che ha naturalmente una pessima reazione, essendo a pieno titolo il Principe delle pessime reazioni, è Draco. La sua replica alla massa di gente comparsa, è come sempre calma, misurata, assolutamente serafica. E non starò ancora qui a dire quanto questo significhi tutto il contrario di quello che pensa. Respinge al mittente lo sguardo torvo di Ron e quello evidentemente scocciato di Harry e Ginny, non presta attenzione alla situazione di Pansy, non alza gli occhi al cielo per Seth, non mostra curiosità alcuna per i bambini che giocano.

La sua reazione è pessima, perché, in tutto questo marasma, guarda me. Ed è pessima come reazione, perché io già lo stavo guardando.

Gli occhi sono socchiusi, fissi, implacabili. Mi tagliano il respiro. E so già che cosa vuole, che cosa sta pensando, che cosa chiede. Perché lo sto pensando anche io.

Ed è quello che dico ad Helder, sfibrata, cinque secondi dopo: “Lasciando stare l’opportunità o meno di fare questa allegra riunione…”, respiro e guardo con riconoscenza Harry, Ron, Ginny e Natalie, meno Blaise e Daphne “Si può sapere che cosa diamine c’entra tutto questo con Alex?”. Draco sospira, incrocia le braccia e distoglie lo sguardo da me.

Helder, finalmente, piega la testa di lato, ha gli occhi colmi di scintille colorate, scommetto che le si è fritto il cervello con tutti questi sentimenti contrapposti. Poi, con serietà, fa tornare gli occhi del suo colore normale e dice compunta: “Per quello che abbiamo intenzione di fare… per quello che dovrete fare per salvare vostro figlio… serve il più grande numero possibile di maghi e streghe, credetemi. Al momento qui ci sono solo le persone che potevo concretamente contattare… e che sapevano del fatto che Draco Malfoy fosse ancora vivo…”. Helder getta uno sguardo a Draco, che assorbe il colpo e guarda la gente riunita, finalmente ammutolita. Ovviamente i suoi occhi, così come i miei, si concentrano su Natalie che non sappiamo ancora cosa diamine ci faccia qui, ma qui è Ron che interviene, le orecchie sempre più rosse, facendo un minuscolo passo verso di lei: “Eravamo assieme quando Helder mi ha contattato. E quando ha capito che era in pericolo il figlio di Hermione… è voluta venire con me…”.

Non mi soffermo su quell’ “eravamo assieme”, sarebbe così maledettamente stupido ed ingrato da farmi sentire un’imbecille… ed inoltre, credo sul serio che, se avesse una connotazione sentimentale, mi metterebbe a posto la coscienza in un modo che non posso ancora concedermi. Quindi sorrido a Natalie e dichiaro, dolcemente salda: “Grazie…”.

“Tu sei sempre stata gentile con me… è il minimo…” sorride lei gaia, sotto lo sguardo soffice di Ron.

“Ma non bastiamo…” riprende Helder con vigore, guardandosi attorno ponderatamente “Non siamo ancora sufficienti…”, deglutisco a disagio, chiedendomi perché le serva tutta questa gente, compreso un babbano come Kevin. La paura di quello che sto per affrontare si mescola venefica al coraggio e alla consapevolezza che, così, potrei davvero salvare mio figlio.

“Per questo, ho bisogno del tuo, diciamo, permesso, Malfoy…” prosegue Helder, ritornando a Draco “Se tu hai intenzione di rivelare che sei ancora vivo, di rinunciare alla tua copertura come Danny Ryan… potremmo chiamare molta più gente, ci serve più aiuto possibile… e tu ed Hermione siete stati così tanto stimati in due ambienti così diversi, come quelli dei Serpeverde e dei Grifondoro, degli Auror e degli ex Mangiamorte, che potremmo davvero avere molte più persone disposte ad aiutarci…”, Helder respira forte nel silenzio di Draco, che non ha per nulla mutato espressione del viso, poi prosegue atona: “Qui siamo ben oltre il concetto semplice di bene e male, così come l’abbiamo sempre conosciuto… le vecchie barricate sono morte. E credo che lo sappiate tutti voi, in questo giardino, considerando le relazioni che vi uniscono tra voi… e con il figlio di Draco Malfoy ed Hermione Granger…”. Tutti, con mia grande sorpresa commossa, annuiscono, persino Ron o Daphne o la stessa Ginny. Nessuno di loro ha mai accettato che io stessi con Draco, nessuno l’ha mai capito… ma da quando è nato Alex, le cose sono cambiate. E tutta questa gente, tutte queste persone, sono disposte a mettersi a rischio, pur di salvare mio figlio. E’ come se, nella sua esistenza, Alex fosse un simbolo. Il perno di un mondo che potrebbe cambiare e a cui tutti, dopo Voldemort, vogliono davvero credere.

“Mi avevi già convinto alla parola permesso, Empatica, senza bisogno di questa pappa sociologica…” mormora arrogante Draco, serrando le braccia al petto, prima di aggiungere in modo epigrafico: “Una volta sola ho cercato di fare tutto da solo e ci sono andati di mezzo Helena ed Amos. Non rifarò lo stesso errore con mio figlio… fai pure quello che serve…”.

In un altro momento, in un’altra vita, in un altro mondo, adesso ti avrei stretto le dita, avrei riscaldato la tua mano, dandoti quel coraggio da leone che tu non hai. Avrei letto la tua voce fratta, avrei seguito le tue labbra strette, avrei distinto netto ed evidente quel barlume di incertezza che ti ha oscurato lo sguardo. Ti saresti aggrappato a me, forte, ma non così angosciosamente da far sì che qualcuno se ne accorgesse. Avresti solo accarezzato piano le mie dita, strette nelle tue, così che tutti pensassero che la debolezza fosse la mia e non la tua, che oggi uccidi Danny Ryan.

Uno schermo, un’identità posticcia, un falso nome…  ma comunque un ricovero, un asilo, una capanna in mezzo alla tempesta, un salvagente a cui mai avresti voluto rinunciare, specie ora, specie adesso, per la salvezza di un figlio.

Che vale tutto, tutto.

Lo so e lo capisco: è nelle ossa che lo chiamano ininterrotte, nel respiro che piange l’assenza, nel sangue che invano scongiura. Lo sento anche io, come sento quel dilaniamento a cui, ancora, ti sottoponi. La scelta di un figlio sull’altro.

Anni fa, implicitamente, senza saperlo, hai scelto di salvare Serenity e condannare Alex, tenendo Raissa qui.

Adesso, esplicitamente, con ogni coscienza, hai rotto la promessa con Helena che voleva Serenity cresciuta tra i babbani.

Hai scelto di salvare Alex e condannare Serenity, tornando ad essere te stesso ma restando suo padre.

Hai scelto di sfidare apertamente i Greengrass, tornando alla vita con l’erede della fortuna dei Diggory.

In un altro momento, in un’altra vita, in un altro mondo, adesso ti avrei detto che troveremo una strada, che Serenity resterà con noi e riporteremo Alex a casa.

Ed invece in questo momento, in questa vita, in questo mondo… so solo chiudere gli occhi, serrare le spalle e respirare forte, distogliendo lo sguardo da te.

“Se si tratta di andare a fare l’ambasciatrice credo di potermene occupare io…” asserisce convinta Ginny, prendendo per un braccio James e per l’altro Albus che continuano a bisticciare “E ne approfitterei anche per scaricare questi marmocchi nel Gran Canyon e sperare che siano sbranati dai coyote…”.

“E Lily?” chiede Harry, preoccupato, dato che la bambina al momento è impegnata nella ricerca spasmodica di vermi nel terreno, cosa che ha ridotto il suo vestitino azzurro in una collage di macchie d’erba e terreno. Sentendo il suo nome, Lily solleva il capo e fa un grande sorrisone sdentato.

“Non abbiamo fatto un accordo prematrimoniale… ma credo che ci fosse la divisione equa dei compiti, no?” mormora Ginny, arricciando il naso “E ringrazia che il numero dei nostri figli sia dispari, sennò te ne toccava anche un altro…”. Harry incassa il colpo e tace, recuperando la figlioletta prima che si infili qualche lombrico in bocca.

Ginny, dopo avermi salutato con affetto ed avermi rassicurato che contatterà quante più persone possibili, si Smaterializza con James ed Albus, ancora impegnati a darsi calci negli stinchi. A quel punto, Daphne rompe il silenzio algido che aveva tenuto fino a questo momento, per sussurrare flautata e mesta che ha intenzione anche lei di andare a cercare aiuto, molto probabilmente dalle persone che, per ovvi motivi, Ginny non potrebbe contattare. Serpeverde. Mangiamorte più o meno pentiti.

Non riconosco la sua voce, è terribilmente bassa e sottile. Sentendola, mi provoca una fitta allo stomaco, mentre Blaise non reagisce minimamente, resta perso nell’immagine di Pansy e Dean davanti a lui, ancora stretti l’uno all’altra. Blaise li continua a studiare senza ritegno e senza nemmeno tentare di nasconderlo.

È Pansy, allora, a reagire, raddrizzando la schiena e dicendo greve: “Grazie Daphne… non frequento più alcune persone del nostro vecchio… gruppo… e non credo di poterlo fare personalmente…”. È anche lei terribilmente cortese ed impersonale, senza alcuna sfumatura scherzosa o irritata, segno evidente che non è sincera e non è sé stessa. Dean la guarda preoccupato, non lasciando mai però il viso di Blaise, di cui analizza ogni fremito di palpebre. Helder stessa serra gli occhi, diventati per un attimo del colore di quelli di Daphne, reprimendo una smorfia di dolore.

“Non ci sono problemi…” risponde lei con distacco, agitando noncurante la mano “Ne approfitterò anche per riportare Jacob a casa dalla sua balia…”. Fa un gesto indolente in direzione del bambino che ha in braccio, che ha preso a giocherellare con una ciocca dei suoi capelli biondi e lucidi. Lei ne sembra quasi infastidita per un attimo, trasale e rabbrividisce, ma poi lo lascia fare.

“E’ un bel bambino…” commenta educata Pansy, il silenzio attorno a loro è immenso, completo, impossibile da rompere nemmeno volendo. Tutti fingiamo di non stare ascoltando, ma nessuno riesce davvero a dire qualcosa, neanche Seth che si è andato a sedere mogio accanto a Kevin. Daphne reagisce in modo incomprensibile ancora una volta, serra le spalle ed annuisce piano, a disagio, aumentando in me la curiosità su che cosa diamine le sia successo. Poi Pansy fa un commento, scivolatole fuori quasi per caso, e Daphne ha ancora un comportamento incomprensibile. Impallidisce, gli occhi le si fanno lucidi, la presa sul bambino trema al punto che temo che lo faccia cadere a terra.

Pansy ha solo detto con voce casuale: “Non so perché, ma ero convinta che Jacob fosse più grande… ero sicura che fosse coetaneo o poco più grande di Charisma…”.

“Ti sarai sbagliata…” ingiunge duramente Blaise, parlando per la prima volta ed abbandonando l’espressione mollemente assente che aveva, assumendone invece una scavata e fiera, che fa da contrappunto a quella terrorizzata ed incomparabilmente malinconica della moglie. Pansy annuisce a disagio, sembra stordita, ma nei suoi occhi qualcosa è spuntato improvvisamente.

Un… sospetto.

Daphne, in fretta, fa quindi per congedarsi, dicendo che tornerà quanto prima, portandosi dietro tutti coloro che vorranno aiutarla. Andando via, prima di Smaterializzarsi, guarda Pansy e Dean e, per un attimo, le spunta un sorriso debole ed inespressivo, ma comunque un po’ più caldo di qualsiasi espressione che abbia avuto fino ad ora.

“Sarà una bambina…” sussurra solamente, guardando la pancia di Pansy, che se la stringe piano, gli occhi lucidi che vanno subito a cercare Dean, che finalmente si rilassa e chiede a Daphne spiegazioni su come se ne sia accorta. Blaise serra la mascella, fa qualche passo nervoso, si appoggia al tronco di un albero, sembra improvvisamente più stanco.

“Intuizione puerpera, un potere di premonizione delle gravidanze che hanno molte Purosangue… specie nella mia famiglia…” sorride lei, stavolta in modo più aperto “Helena l’aveva più forte di me… ed Astoria invece doveva sempre usare una bacchetta… ma l’abbiamo ereditato tutte e tre…”. I nomi delle sue due sorelle sono come una spada sulla testa mia e di Draco, ricordo improvvisamente l’incantesimo all’odore di rosa che Astoria mi fece al castello di Dimitri, mostrando la mia gravidanza. Una donna che non poteva avere figli… ma era perfettamente in grado di capire quando li avessero gli altri… che dono crudele. Draco contrae le braccia, resta immobile e apparentemente indifferente quando sente il nome di Helena, ma persino io sento il suo respiro farsi irregolare. Daphne, però, sebbene la sua voce sia tornata il flebile e gelido alito di vento di poco fa, sembra quasi calmarci tutti, dicendo prima di sparire: “Non vi do alcuna colpa per la morte delle mie sorelle… nessuna di nessun tipo. Entrambe hanno scelto la loro strada ed io la mia. Ed in quanto alla bambina, alla figlia di Amos ed Helena… quella che hai nascosto alla mia famiglia per cinque anni, Draco… non me ne interessa assolutamente nulla. Sono una Zabini, adesso…”.

L’eco di quell’ultima frase, dal tono così risoluto ma al contempo così tremendamente triste da sembrare la pronuncia di una condanna a morte, si spegne nell’aria, mentre Daphne si Smaterializza, portandosi dietro il figlio Jacob.

Finalmente, sistemate quelli che erano gli aspetti più impellenti della matassa che ci circonda, possiamo conoscere il piano di Helder. La guardo in attesa assieme con Draco, e lei accenna ad un gazebo di legno color ciliegia approntato nel giardino. Pansy decide di non seguirci, dice di volersi occupare di Lily e del figlio di Natalie che apprendiamo chiamarsi Elias, ma è evidente che vuole stare da sola e magari raccogliere i pensieri e le emozioni all’imprevisto incontro con Blaise. Quest’ultimo la osserva crucciato, Dean invece la lascia andare comprensivo all’interno, gli occhi ancora umidi al pensiero della bambina che farà compagnia a Charisma. Seth si offre immediatamente di accompagnarla, aggiungendo che comunque lui è abbastanza inutile e che Kevin può dirgli comunque tutto dopo. Dean lo ringrazia in modo pacato, sapendo che almeno farà compagnia alla moglie. Natalie, però, gentile ma ferma, dice che è meglio che Elias resti con lei, quindi il bimbo, che ancora non ha dato nessun segno di interesse a nulla se non il suo giocattolo, rimane con noi. Ci sediamo nel gazebo, all’ombra la temperatura è molto più fresca, specie sotto gli alberi. Draco rimane in piedi, poggiato con la schiena ad una colonna, mentre io scelgo prudentemente di sedermi in una posizione neutra, ossia tra Harry e Dean. Al momento, per la mia salute mentale, meglio stare equidistante sia da Draco, che da Ron ed Ilai.

Helder prende un profondo respiro prima di cominciare e sussurra come preambolo: “Fatemi il piacere di interrompermi il meno possibile… e di perdonarmi se inizio da molto lontano… è una storia davvero complicata, dove voi due paradossalmente siete solo gli attori finali… ed è una storia che riguarda gli Empatici ed Adamar… ma dovete avere chiaro tutto per capire che cosa dovete fare…”.

Annuisco ancora, quasi affascinata da questo nostro collegamento con segreti più vecchi della Magia stessa, e spio con lo sguardo Draco che, contrariamente a me, non ha ancora minimamente mutato espressione. La voce di Helder risuona d’improvviso nella mia testa, molto più debole e fioca di quanto fosse prima quando riusciva a leggermi nel pensiero, mentre sussurra: “E mi dispiace se purtroppo nel mio discorso ti farò soffrire o ti metterò in imbarazzo… ma credimi non c’è altra scelta…”. Sebbene preoccupata, annuisco silenziosamente al suo indirizzo, esortandola a continuare.

Helder respira ancora, e finalmente comincia: “Partiamo dalla cosa più ovvia… la febbre che vi ha colpito e che ho provveduto a farvi passare… ed il fatto che, assieme ad essa, si fosse aperta una connessione con tutti gli Empatici del mondo, così che i vostri pensieri più intimi e le vostre sensazioni fossero percepite anche a chilometri di distanza da tutti coloro che avessero questo potere… non è una cosa così ovvia, nemmeno scontata e tantomeno naturale per la nostra gente, ma ha un suo nome, un suo motivo ed una sua spiegazione. Si chiama Segno di fuoco. È un avviso… ecco. Per gli Empatici. A trovarvi… ed è già successo cinque anni fa…”.  

“Non avevamo nessuna febbre cinque anni fa…” l’interrompe prontamente Draco, con voce dubbiosa e caustica “Me ne ricorderei… non è stata una passeggiata al luna park…”. Lo guardo storto, meno male che Helder aveva detto di non interromperla. Ma lei non ne sembra disturbata, anzi annuisce tra sé e sé in tono riflessivo, e sussurra: “Era iniziata in realtà… ma non ebbe grandi effetti su di voi. Il segno di fuoco aveva due fasi, la prima che riguardava solo noi Empatici, la seconda che avrebbe riguardato voi due… e voi, cinque anni dopo, avete vissuto questa seconda fase quando vi siete rincontrati. Comunque andiamo con ordine…”. Helder, a quel punto, si rivolge a me, quasi isolandosi da tutto il resto e mi guarda fisso negli occhi, chiedendomi: “Cinque anni fa, quando tu e Draco vi siete messi assieme… io ti ho parlato di una sensazione che avevo provato assieme ad altri Empatici, ricordi?”. Faccio velocemente mente locale, cercando di rendermi impermeabile all’imbarazzo e al dolore per quei ricordi, poi facilmente ricordo cosa mi aveva detto telepaticamente quando mi aveva liberato dalla prigionia di Dimitri. Era una cosa che negli anni mi era sempre rimasta impressa.

Non credi che un amore così, sia qualcosa di semplicemente… troppo… anche per un Empatico? Tu hai rotto lo Zahir… lui ha battuto Adamar… due segreti vecchi come la Magia stessa… noi Empatici… io e gli altri, anche a grandissima distanza… vi abbiamo sentito ininterrottamente, come si sente il fuoco di un incendio quando si è avvolti dalle fiamme… sono settimane che ho il cervello che brucia…

Annuisco tra me e me guardandola e lei riprende con più energia, rivolgendosi di nuovo agli altri: “Tutti noi Empatici, soprattutto nei dieci giorni che loro hanno condiviso a casa di Pansy, provavamo una strana sensazione. La sensazione che il cervello andasse a fuoco, che bruciasse, ecco… era una cosa che nessuno aveva provato mai prima, che nessuno sapeva descrivere, che sembrava nutrirsi di loro due ed averne in loro origine e spiegazione. Di storie d’amore su questa terra ne sono esistite tante, decine di migliaia, era impossibile pensare che la motivazione fosse solo questa. Io, che vi conoscevo, l’ho collegata alla forza del vostro legame ed al fatto che aveste battuto Adamar e lo Zahir. Ma quando decine di Empatici mi hanno riferito in quei giorni la stessa sensazione, anche se erano distanti migliaia di chilometri da voi… abbiamo capito, tutti, che c’era qualcosa che non andava come doveva. C’era qualcosa di strano in tutto questo. D’accordo vivevate un forte sentimento, che era stato travagliato, ma come poteva questo provocare delle conseguenze in tutto il mondo, a migliaia di persone che non si conoscevano tra loro e che tantomeno conoscevano voi?”.

Helder fa ancora una pausa, come se raccogliesse i pensieri tra sé e sé, il silenzio attorno a lei è assoluto. Draco, finalmente, ha sciolto le braccia che teneva strette al petto, ho sentito il suo sguardo addosso, ma non mi sono premurata di rispondergli. Non adesso che tutto, in me, pulsa e batte forte di ricordo.

“Ma poi la sensazione è passata, siete stati divisi, il fuoco si è spento…” riprende Helder, giocherellando con le dita con l’orlo della sua veste “Ed io in cinque anni non ci ho quasi mai più pensato… fino a quando qualche settimana fa, ho ricevuto una chiamata. Eravamo ancora in Italia… c’eri anche tu…”, ancora si rivolge direttamente a me, guardandomi dritto negli occhi: “E non ti ho detto nulla, perché in fondo non serviva a nulla per te saperlo… era una cosa degli Empatici, solo nostra. E tu eri solo una causa accidentale di tutto questo…”, Helder di nuovo distoglie lo sguardo da me e riprende: “Noi Empatici siamo organizzati in una specie di consiglio, si chiama Senato celeste, ma onestamente l’ho sempre trovata una cosa abbastanza folcloristica e nient’altro. Gavril, l’uomo che mi ha chiamato… è a capo di questo Consiglio. Mi chiese se ero io Helder Cassidy Bode, se ero con una donna chiamata Hermione Granger, se era stata lei a creare uno Zahir qualche mese prima, se era stato l’amore per un tale Draco Malfoy a creare lo Zahir poi distrutto, se era anche vero che quest’uomo aveva affrontato e battuto Adamar… ovviamente incuriosita, confermai tutto. Al che, mi fu chiesto se avevo provato anche io quel fuoco nella testa… me ne fu detto il nome, mi fu detto che era un segnale, mi fu detto che non era stata una coincidenza che si fosse acceso allora e mi fu detto che aveva un motivo ben preciso, legato a voi due. Mi fu persino anticipato che molto probabilmente, a lungo andare, avrebbe provocato delle conseguenze anche a vostro carico: malessere fisico, rallentamento a livello celebrale, ipersensibilità emotiva, febbre altissima che non si sarebbe placata con nessuno dei rimedi più conosciuti. Ma soprattutto l’apertura di un canale privilegiato con i vostri pensieri e sensazioni, per tutti gli Empatici del mondo. Gavril mi disse di raggiungere immediatamente Hermione, quando avessi iniziato a sentire i suoi pensieri anche a distanza. Questo è successo più o meno ieri mattina... e, allora, dopo aver saputo da Harry del rapimento di Alex da parte di Dimitri ed aver finalmente udito tutta la storia da Gavril, ogni pezzo è andato a posto. E quindi sono partita subito per raggiungervi…”.

Ieri mattina… la febbre è iniziata allora…

“Mettiamo che mi interessi tutta questa faccenda di questa febbre misteriosa…” ancora Draco interviene, le mani contratte a pugno e gli occhi accesi di rabbia, guardando Helder. È come se improvvisamente qualcosa si fosse rivoltato in lui, imponendogli di prendere di nuovo la parola “E mettiamo ancora che io mi voglia sentire tutte queste menate empatiche… che cosa diamine c’entra tutto questo con nostro figlio?”. Il cuore mi fa improvvisamente tanto male da darmi l’illusione che stia volando fuori dal petto, mentre fa una capriola buffa. È la prima volta che dice nostro figlio.

Mi schiarisco silenziosamente la gola, facendo passare la morsa che la stringe forte. Ilai, di fronte a me, sembra intuire qualcosa dal mio sguardo, ma non lo guardo in viso per non esserne smascherata.

Helder si fa serissima, guarda prima Draco e poi me, la sua voce riassume il tono caparbio ed autorevole che aveva quando ci ha parlato e rimproverato, non appena ci ha visti litigare: “Non sto raccontando questa storia per mio personale divertimento, ma per un motivo molto semplice. Che è questo: non salverete Alex in nessuna delle maniere che credete di poter utilizzare…”. Annaspo, il respiro si ferma, mi chiudo il petto tra le braccia e mi mordo il labbro, colma di angoscia. Draco, a sua volta, diventa livido, bianco, i pugni tremano serrati. Helder, con nuova decisione, prosegue: “Non lo salverà il ciondolo di Tatia Krasova, non lo salveranno interventi magici dei più potenti e non lo salverà nemmeno ricorrere a rimedi babbani. Certo, potreste avere fortuna, potreste ingannare Dimitri al punto da liberare Alex e fuggire… ma non cambierebbe nulla. Non credo che il ciondolo possa sciogliere l’assimilazione, e, anche se lo facesse, Dimitri ci metterebbe tre secondi a ripristinarla, stavolta magari facendosi davvero del male. E in ogni caso… pensateci… anche se doveste riuscire a salvarvi, anche se doveste riuscire a salvare vostro figlio… passereste una vita in fuga. Perché loro, i Karkaroff, non si fermeranno mai. E prima o poi, arriveranno a voi e ad Alex. Anche se esiste una scappatoia non sarete così fortunati in seguito… il potere dato da Adamar è assoluto, fortissimo, senza scampo. Non ci sono rimedi ad esso…”, Helder sospira nel nostro silenzio angosciante, improvvisamente stanca, prima di aggiungere faticosamente: “O meglio… non ci sono rimedi conosciuti ad uomo, per esso. Un rimedio, il solo, esiste. Ed è talmente pericoloso anch’esso che solo suggerirvelo per me è sbagliato. Specie… nelle condizioni in cui siete adesso…”, la guardo disperata, senza capire, gli occhi che mi pizzicano, non riuscendo minimamente a comprendere che cosa voglia dire. Poi lei fa vagare gli occhi da me a Draco, come a descrivere un’improbabile ellisse che ci unisca, quando invece non siamo mai stati così distanti. Ed allora capisco di che situazione parla. Parla di noi due, dei nostri sentimenti, di che cosa proviamo adesso. Persino i suoi goffi tentativi di unirci, adesso, e quelli di mostrare disappunto riguardo ad Ilai, mi sembrano improvvisamente più chiari. Ho improvvisamente un senso di soffocamento, fortissimo, che mi porta quasi a tossire per liberarmi di un blocco che non esiste.

Ma non lo faccio, me ne resto ferma con la bocca impastata a fermare i pensieri che franano da una parte all’altra, sempre più convinta che il piano di Helder prevede me e Draco in una forma che adesso non abbiamo, in un sentimento ed una fiducia che neanche nei sogni, forse, abbiamo avuto. E per la prima volta, davvero, con un senso di stordimento che mi fa sentire soffuse le altre voci, ho davvero terrore di non poter salvare Alex.

Helder, intanto, ha continuato a parlare nel mio momento di assenza, confermando tutto quello che da sola avevo già intuito: “Però non mi perdonereste mai, se non ve lo dicessi, se non vi parlassi di questa possibilità… la sola che abbiate… conosco il vostro cuore, conosco il sentimento che lega un padre ed una madre al loro figlio. Fareste di tutto per salvarlo. E quindi tanto vale che ve ne parli io adesso… il rimedio, l’arma… lo conosce solo Adamar. Non è mai stato scritto da nessun uomo, perché è un rimedio Empatico, e, come forse sapete, loro sono sempre poco avvezzi alla scrittura. Difatti la sola pecca che hanno Dimitri e Raissa nella loro Conoscenza Assoluta, è proprio l’Empatia… ma questo, ecco, rimedio, forse, non sarebbe stato scritto comunque, anche se non fosse stato Empatico, perché semplicemente è troppo antico… è nato con gli Empatici e con Adamar stesso, affonda nella loro storia ancestrale, era già scritto nel momento della creazione di quel demone. E gli Empatici non hanno mai potuto davvero tramandarlo… lo capirete presto… quindi se n’è persa ogni traccia nel corso degli anni…”.

Helder fa ancora una pausa, si mette una ciocca di capelli dietro le orecchie e bisbiglia, proseguendo con voce ferma: “Questo rimedio… è una condizione stessa dell’esistenza di Adamar, non può opporsi, qualora sia scagliato nei suoi confronti, se ce ne sono le condizioni… deve subirlo e basta. Ma non per questo vuol dire che, siccome non può impedire che usiate quest’arma, l’avreste vinta con lui… significa solamente che deve accettare di giocare, non che è destinato a perdere… tutt’altro…”.

“E’ normale che non ci sto capendo niente?!” borbotta Dean, roteando gli occhi ed incrociando le braccia. Helder sorride ed annuisce, dicendo che sarà tutto decisamente più chiaro quando avrà finito di parlare. A quel punto, aggiunge lapidaria, rivolgendosi alla silenziosa platea che l’ascolta: “Il rimedio si chiama Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione. Ed in realtà ha un effetto semplicissimo, anche se di portata cosmica… se funzionasse… se ci riusciste… Adamar cesserebbe di esistere. Ogni desiderio oscuro da lui esaudito verrebbe estinto, persino nell’aldilà… le anime l’aspettano da secoli… Tatia te l’ha fatto capire chiaramente in quel sogno, Hermione… e devo ammettere che sentire anche lei premere in questa direzione, leggendo i tuoi pensieri, mi ha spinto a rivelarvi tutto…”.

Ilai ha ovviamente uno scatto improvviso, nervoso quasi, e torna a guardarmi, chiedendomi implorante: “Hai sognato… Tatia?”. Ha il volto acceso, angosciato, lontano anni luce dall’immagine calma e tranquilla che ho sempre di lui. Per un attimo, vedo Draco guardarlo, stringere gli occhi grigi e restare in un’attesa pensierosa, che non so che cosa lasci presagire. Poi, con un maledetto senso di angoscia, penso che probabilmente si è sentito simile ad Ilai per una volta, penso che forse immagina che avrebbe avuto la stessa reazione se io avessi parlato di Helena a lui.

Sei solamente il rimpiattino delle donne morte che cercano una sostituta innocua per i loro fidanzatini e maritini. Prima Helena, e adesso Tatia. Non te lo sei mai chiesto, Granger? Non ti sei chiesta come mai tutto questo interesse dall’alto dei cieli? Non sei niente di speciale in fondo… ed è questo il punto… sanno che resteranno indimenticabili. E scelgono te per avere questa certezza.

Le parole malevole di Raissa rimbombano nel mio cervello, le mando fuori dalla mia testa con nervosismo, mentre annuisco ad Ilai, raccontando sommariamente il contenuto del sogno a cui non avevo dato molto peso, alle parole di Tatia che mi ammonivano sul fatto che avessi già tutto quello che mi serviva, alla nenia infernale che ripeteva le parole Solutio damnationis, al fatto che Tatia sembrava la messaggera di qualcosa che milioni di persone sembravano condividere, ma che non avevano potuto comunicarmi, cosa che invece aveva potuto fare Tatia.

“Se Adamar cessasse di esistere, quindi…” completa alla fine Harry, quasi mettendo una chiusa a tutto il ragionamento “Raissa e Dimitri Karkaroff perderebbero la loro Conoscenza assoluta, tornando due maghi ordinari… e sarebbero decisamente più gestibili… potremmo persino arrestarli, no?”. Draco fa un’espressione così scettica che capisco perfettamente che non avrebbe alcuna intenzione di consegnare i Karkaroff alla giustizia ordinaria, ma per fortuna Harry non se ne accorge. Non credo che, al momento, sopporterebbe facilmente le sue intemperanze. Spesso, in Italia, parlando di Draco, in Harry emergeva chiaro l’avversione che avesse per lui, ed io, stavolta, non c’entravo niente. Harry si è sempre sentito tradito dalla sua sparizione cinque anni fa, visto che lo stava aiutando da anni di nascosto da tutti. Se è qui, adesso, non è per lui, ma per me ed Alex. E se Draco non si è mai mostrato riconoscente con Harry stesso, io non smetterò mai di esserlo.

Helder annuisce, rivolgendosi ad Harry ed aggiungendo stoica: “E dubito che Raissa e Dimitri, se maghi normali, potrebbero avere storia con il traditore di Voldemort e l’ex Capo degli Auror, impegnati a salvare il loro unico figlio…”.

“Una cosa, però, non mi è chiara…” chiede Natalie, che fino a questo momento era rimasta in silenzio, spingendo avanti ed indietro il passeggino di Elias, Helder la guarda in attesa e con un piccolo sorriso, già come se prevenisse la sua domanda “Se questo rimedio esiste da secoli, se è agognato persino nell’aldilà, se Adamar non potrebbe rifiutarsi di subirlo… perché allora voi Empatici non l’avete usato prima? Perché avete dovuto aspettare il segno di fuoco di Malfoy ed Hermione?”.

“E qui che la questione si complica… ed è qui che capirete perché questo rimedio, in realtà, è pericoloso al pari di Adamar stesso…” riprende Helder con un profondo sospiro, più simile ad un singhiozzo che la scuote dall’interno “E capirete anche perché ho avuto bisogno di convocare così tante persone e tante ancora me ne servono… perché questo rimedio è stato già usato una volta, con conseguenze disastrose. E quando è stato usato, ha comportato una pena salata per tutti gli Empatici e per Adamar stesso… usarlo implica la quasi certezza del fallimento. E non solo perché Adamar è quello che è ed è con lui che dovete vedervela… ma perché la Solutio damnationis, specie se fallisce, comporta conseguenze planetarie… potrebbero perdere la vita decine di migliaia di persone ed è già successo… e voi due sareste semplicemente i primi a morire…”, un brivido mi scorre lungo la schiena, mi stringo nelle spalle mentre cerco di fermarlo “Per anni la Terra dovrebbe fare i conti con gli effetti di tutto questo. Ed io, come rappresentante degli Empatici e del Senato Celeste, ho l’obbligo morale di impedire che persone innocenti perdano la vita. Ma al contempo ho anche il dovere di dirvi della Solutio damnationis che appunto è l’unico modo concreto di salvare Alex, liberandovi dei Karkaroff e di Adamar… e liberando il mondo stesso da quel demone empio…”.

“Parla, Bode…” la voce di Draco è dannatamente ferma, molto più di quella che avrei io, se avessi dovuto chiederle di proseguire. Lo ringrazio mentalmente, guardandolo intensamente, i suoi occhi trovano i miei, prima che ne scappi ancora. Helder annuisce con comprensione, poi inizia finalmente a raccontare: “Per farvi capire bene tutto, devo raccontarvi del modo in cui sono inscindibilmente legati gli Empatici ed Adamar. Un modo di cui nessuno di noi aveva memoria, fino a qualche mese fa. Quando il fuoco si è spento, cinque anni fa, quando voi due siete stati divisi, io, come tutti gli Empatici, ho iniziato ad avere sogni strani. Cose di poco conto, in persone come me, che nel Senato celeste avevamo una posizione marginale. Non ci avevo dato peso nel modo più assoluto: vedevo solo un’inondazione e basta, la distruzione di una grande città, desolazione e morte. Poteva essere un sogno come tanti altri, indottomi dalla mia paura per Hermione, Alex ed Hayden, dato che ero in Italia con loro. In persone, invece, con più potere, quei sogni erano stati ben più nitidi ed intensi, colmi di particolari raffrontabili tra di loro. Dopo cinque anni, la cerchia più alta del Consiglio era stata in grado di ricostruire una storia che ci appartiene da decine di migliaia di anni, ma che ci era stata cancellata dalla mente fino appunto al Segno di fuoco di cinque anni fa, che aveva dato origine allo snebbiamento della nostra memoria mediante quei strani sogni. Avevamo solo delle teorie, sebbene abbastanza attendibili, specie quando gli altri Empatici mi hanno contattato ed è venuta fuori la faccenda vostra e dei Karkaroff, e quindi hanno capito che avevate ancora, in qualche modo, a che fare con Adamar… ma quelle teorie sono diventate certezza adesso, quando il Segno si è riacceso con il vostro incontro di pochi giorni fa, con la febbre e la connessione aperta. Anche io ho potuto ricordare tutto. E, come me, tutti gli altri. C’è voluto del tempo… ben cinque anni… e la consultazione con diverse persone per giungere a tale storia, il Segno di fuoco era durato solo poche settimane e non aveva potuto far recuperare completamente la memoria. Ma, mettendo assieme i pezzi provenienti da diversi sogni e le leggende che comunque si conoscono e sono tramandate oralmente riguardo ad Adamar, il Senato era già giunto ad un elevato livello di chiarezza, confermatoci pienamente quando il Segno di Fuoco si è riacceso ieri mattina…”.

“Come si fa a scordare un’intera storia?” chiede Ron perplesso, mi ero dimenticata completamente di non essere da sola, rapita com’ero dal racconto di Helder.

“… ma soprattutto…” aggiunge ancora Dean meditabondo, grattandosi una guancia e inarcando un sopracciglio “Come fa un’intera storia, a sparire dalla mente di centinaia di persone? Che io sappia… gli Empatici non sono proprio pochissimi al mondo… e poi tutto è tornato per qualcosa che riguardo Malfoy ed Hermione, che nemmeno sono Empatici?”.

“Strano, vero?” commenta leggera Helder, il vento le scompiglia i capelli e la fa apparire molto più giovane di quanto mi sia mai sembrata “Ma credetemi, ragazzi… è decisamente possibile… ho memorie nette e ricordi di un intero popolo… e non li avevo fino a ieri. I miei stessi poteri sono cambiati…”, Helder sorride tra sé e sé ed aggiunge gioviale: “E’ la magia… di che cosa altro vi sorprendete ancora?”.

“Di nulla in effetti…” mormora Kevin, che se n’è stato in silenzio fino ad ora e che si porta le mani ai capelli, reprimendo un sorriso di circostanza, maschera di un’incredulità difficilmente reprimibile.

“Nulla sarà mai come uno come Potter che sconfigge davvero Voldemort… dopo quello, mi sono fatto il vaccino alle cose assurde…” biascica Draco sarcasticamente, Harry lo guarda minacciosamente, prorompendo in una parolaccia che spero che Alex non impari mai. Ma, paradossalmente, tutti scoppiano a ridere con tono leggero e vivace, persino Ron e Dean, costringendo persino me a scuotere il capo incredula con un sorriso sbieco. Draco non si unisce alla risata collettiva, ma le sue spalle si rilassano, il respiro si allenta, gli occhi diventano più chiari. E mi guarda ancora, per un attimo solo, dritto negli occhi, come se dovesse constatare di persona se quell’attimo di apparente distrazione abbia fatto bene anche a me. Lascio stavolta che il mio sguardo non lo abbandoni troppo presto, lascio stavolta che i pensieri non mi affollino la mente, chiudendomi le palpebre di orgoglio e rabbia. Stavolta è lui a sfuggirmi, voltando il capo e rivolgendosi di nuovo ad Helder: “Andiamo alla favoletta, Cantastorie…”.

L’atmosfera rilassata torna d’improvviso concentrata e tesa, mentre Helder, dopo essersi sistemata meglio, a sedere, ricomincia pacata: “La storia che avevamo scordato è la storia della nostra stessa razza e di come un tempo, Adamar, fosse stato uno di noi, un Empatico. Migliaia di anni fa, gli Empatici vivevano tutti in un regno che molti di voi conoscono anche solo di nome e di fama… e che una persona, qui, ha già sentito nominare quando ha creato lo Zahir… il regno di Atlantide…”.

Naturalmente, ho immediatamente addosso gli sguardi di tutti, cosa che mi fa sentire a disagio e nervosa.

Atlantide… e lo Zahir. La Regina Artemisia… lo Zahir d’amore, il primo, l’unico, a parte il mio. La fine di un Regno, per un amore trasformato in odio.

Speravo di non dovermene più ricordare, dello Zahir intendo. Il più grande errore della mia vita. Non ne ho fatte molte di scelte assennate in questi anni, ma quella credo che sia stata la peggiore. Ancora, spesso, sogno che quel fiume d’odio mi ritorni nel sangue. Mi scorro lentamente l’indice sul polso, dove si chiudeva quell’infernale serpente e dove la cicatrice gemeva e pulsava prima di sparire.

Il serpente… che credevo avrebbe preso il posto di mio figlio, quando ero incinta.

Quella paura… sorda e cieca… che Ron mandava via, abbracciandomi e dicendomi che avevo il cuore di una leonessa.

Ron è seduto esattamente di fronte a me, tra Natalie ed Ilai, e Draco è alle sue spalle, immobile come una statua. Persino adesso, non posso guardare Ron, senza incontrare gli occhi di Draco o quelli di Ilai. E mi fa male terribilmente, perché vorrei ancora renderlo partecipe della gratitudine che provo assieme al senso di colpa. Però, per un attimo, ho come l’impressione che segua le mie dita che torturano la pelle del polso e neghi impercettibilmente con il capo, ammonendomi di fermarmi, ancora a convincermi che quella cicatrice non c’è più.

Come faceva cinque anni fa, accarezzandomi la pancia che cresceva e nutriva Alex.

La mia mano si stacca subito dal polso e respiro forte, mentre Helder, dopo una pausa, continua a raccontare: “Le leggende hanno trasmesso l’idea che questo regno, Atlantide, fosse un autentico paradiso terrestre e questa non era una bugia. Lo era sul serio. Si trattava di un’isola lussureggiante, cresciuta dalla terra ed amata dall’acqua, la cui architettura ricordava molto quella della nostra odierna Venezia. Era praticamente un’isola strappata al mare… dagli Empatici. Era un paradiso non solo naturale, ma anche umano. Dato che era appunto abitata da gente in grado di sentire i sentimenti degli altri, non esisteva guerra, dolore, sofferenza, invidia, odio. La gente, sentendo cosa poteva provocare con i propri sentimenti negativi, semplicemente evitava il male e lo censurava persino dai propri pensieri. Ed Atlantide conosceva prosperità e fortuna, sebbene si isolasse dal resto del mondo, percepito come ostile e crudele. Atlantide era una monarchia costituzionale, la prima della storia: c’era un sovrano, coadiuvato nei suoi poteri e prerogative da un Senato celeste, che aiutava la Corona a reggere il peso del Regno. Il sovrano, infatti, doveva essere il più potente tra gli Empatici, in grado quindi di prevenire i desideri della sua stessa popolazione, e doveva vertere sempre in una posizione di pace ed equilibrio interiore, tale per cui potesse svolgere al meglio il suo compito e non far riflettere alcun sentimento negativo su Atlantide e sulla sua gente. I sovrani erano giovani, vergini, imberbi adolescenti che regnavano per pochi anni, al massimo cinque o sette. Si consumavano presto, come candele bruciate dal fuoco, a causa della miriade di sentimenti che provavano e del controllo che ne dovevano comunque avere. Il Senato impediva che morissero, aiutandoli a reggere il loro potere e sostituendoli presto, ma in ogni caso era decisamente troppo per una persona sola. All’avvento della 45° dinastia, fu proclamata Regina di Atlantide una ragazzina nobile di soli quindici anni, figlia di uno dei più grandi dignitari del Regno: si chiamava Artemisia, era intelligente e vivace, forte del fulgore della sua giovinezza. Negli stessi anni, fu eletto capo del Senato celeste uno degli uomini più potenti del regno, fratello del padre della Regina. Il suo nome era Adamar Varsos, conosciuto in tutta Atlantide per la sua saggezza e chiarezza di pensiero. Sotto la guida congiunta di Artemisia ed Adamar, Atlantide conobbe per alcuni anni il periodo più florido della sua storia: Artemisia ruppe l’isolamento del Regno, che poté finalmente aprire le frontiere commerciali a città stato potenti e forti come Atene e Sparta, guadagnandone in ricchezza e benessere della gente. Adamar, d’altro canto, uomo di grande ingegno ed acume finissimo, riuscì a mettere a punto tutta una serie di sistemi e stratagemmi che consentissero che l’energia magica della Regina non si esaurisse prematuramente, visto quanto era rigoglioso il suo governo. Il risultato fu che, a venticinque anni, Artemisia era ancora Regina ed Atlantide era al massimo del suo splendore. Ma i problemi e la crisi del Regno erano già dietro l’angolo, legati invariabilmente alla circostanza per cui la Regina non era più adolescente, scevra da sentimenti forti e da passioni brucianti… Atlantide aveva retto perché governata da una bambina. Sarebbe crollata perché ormai retta da una donna.

“La fine di Atlantide venne per mano di un commerciante di sete e broccati, di nome Ferele. Un Ateniese bello, giovane, ma spregiudicato ed ambizioso, il cui ruolo di piccolo commerciante stava stretto. Arrivò ad Atlantide ed irretì la giovane ed inesperta Regina, che se ne innamorò perdutamente. Ferele cavalcava molto l’onda di questa cotta della sovrana, ne rideva con gli amici, la sfruttava per ottenere dei vantaggi di natura economica per la sua patria, cosa che gli valse molti riconoscimenti in Grecia. Atlantide iniziò una forte parabola di decadenza, specie nei rapporti commerciali dove veniva sempre favorita Atene a discapito di Atlantide stessa, che divenne quasi suddita della città greca. Ferele, maliziosamente, consigliava male la regina, sempre più isolata dal suo Regno e dalla sua gente. Si giunse ad un punto tale di rottura, che alla fine il Senato celeste decise di intervenire nella persona di Adamar, appunto, che escogitò un sistema per liberare la Regina dal suo sentimento malsano di attaccamento a Ferele. E questo sistema fu lo Zahir…”.

Non fu Artemisia a sceglierlo, non fu lei a volerlo… lo dovette… subire. Le strapparono letteralmente quell’amore… per il benessere della sua gente.

Ripenso alla sensazione orribile dello Zahir che mi lacerava dentro, come un artiglio che brandisce la carne e, senza fretta alcuna, sbrindella la cosa a cui tenevi di più al mondo. Avverto, come se fosse di nuovo mio, lo strazio che deve aver subito Artemisia che, contrariamente a me, lo viveva senza volontà e da parte delle persone di cui si era sempre fidata… in fondo Adamar era anche suo zio.

Riprendo ad ascoltare Helder con una stretta allo stomaco: “Sapete ormai perfettamente come funziona uno Zahir: un sentimento ossessivo viene estirpato dall’anima di una persona, dandone forma di un oggetto. Con il tempo, però, tale sentimento se nutrito ancora dalla vicinanza con la persona che suscita quell’emozione stessa, si trasforma nel suo contrario, contaminando l’anima e diventando ugualmente devastante. Questo processo, per ovvi motivi, è più forte e lacerante con gli Zahir d’amore che non si possono rompere se non con molta difficoltà, e che si convertono in odio. Un odio irrazionale, corrosivo, cancerogeno. Solo due persone hanno rotto uno Zahir d’amore: una sta seduta di fronte a me e l’altra… fa parte di questa storia, quindi non ne avevamo memoria fino a qualche giorno fa...”.

“Un’altra persona… ha rotto uno Zahir d’amore?” chiedo perplessa, con l’assurda speranza che questa persona sia stata Artemisia stessa, visto che cosa era stata costretta a subire. Ma Helder, dopo un primo accenno di assenso, mi smentisce con decisione: “Questa persona, però, non era Artemisia: dopo qualche tempo di calma interiore e sollievo, prese ad odiare Ferele, riflettendo il suo rancore verso Atene, al punto da dichiarare guerra alla città dell’uomo che amava. Voleva distruggerla dal mondo, cancellarla, annientarla. L’ondata di sentimenti negativi iniziarono a riversarsi su Atlantide, che conobbe criminalità e corruzione, omicidi e prostituzione, ladrocinio e mistificazione. Persino la terra iniziò a marcire, gli alberi a non dare frutto, il bestiame a morire, mentre diverse sciagure naturali cominciarono a sconquassare l’isola. Quando la guerra con Atene iniziò, Atlantide era già allo stremo. Atene ebbe facilmente la meglio su un regno sempre abituato alla pace e alla non belligeranza. La distrusse in pochissimi giorni e la Regina Artemisia fu trucidata da Ferele stesso. I pochi superstiti rimasti sull’isola e non deportati ad Atene perirono in una feroce inondazione, che annientò Atlantide dalla faccia della Terra, dopo che l’ondata di sentimenti negativi aveva completamente devastato l’ecosistema.

“Adamar, suo malgrado, sopravvisse, trascinato in catene e schiavo ad Atene. Dovette persino subire di vedere Atlantide sprofondare negli abissi mentre una nave lo deportava, consapevole di averci lasciato sua moglie e i suoi cinque figli nel vano tentativo di salvarli dalla prigionia. Distrutto nell’orgoglio e nell’animo, traboccante di dolore e lutto, era diventato un servo della peggiore specie, destinato a morire presto nei feroci giochi olimpici dei Greci o nei loro tributi sacrificali. Ardeva del fuoco di quella che chiamava giustizia, di quello che definiva ordine, di quella che chiamava pace… aborriva la fragilità umana, la debolezza dei sentimenti, il cambiamento futile delle anime che amano ed odiano con la stessa intensità, finendo per distruggersi, e sognava un mondo che forse lui non avrebbe visto, ma dove agli uomini sarebbe stato posto un freno per impedire di diventare facili prede dei propri sentimenti. Sognava la pace che lo Zahir aveva dato ad Artemisia prima che tutto virasse verso la tragedia… sognava quella che, invece, era solo morte. Però, qualcuno ascoltò questa sua preghiera…

“Il mondo è un continuo dondolo tra luce ed ombra, bene e male, bianco e nero. A volte sembra prevalere uno, a volte l’altro. Ma, semplicemente, non vince mai nessuno. Vince sempre e solo l’ordine, l’equilibrio, la compensazione tra le due anime dell’Universo. A tutela di quest’ordine, esistono delle entità che, dopo la fine di Atlantide, decisero di intervenire. Si potrebbero chiamare Angeli, si potrebbero chiamare Dei, si potrebbero chiamare Custodi ed io, per semplicità, li chiamerò così. Custodi dell’ordine. Queste entità, addolorate dalla fine tragica di Atlantide e dalla perdita di tante vite, decisero che questa sarebbe stata l’ultima volta che l’uomo si distruggeva così: Adamar sarebbe diventato censore dell’uomo, dei suoi sentimenti, delle sue passioni, della sua stessa vita. Gli diedero i poteri assoluti che ben conosciamo, la capacità di realizzare desideri e di imbrigliare in tal modo sentimenti divenuti troppo molesti e pericolosi, fossero essi buoni o malvagi, gli lasciarono lo Zahir come mezzo di controllo… sono entità che non si possono definire malvagie, né tantomeno buone. Hanno solo a mente l’ordine e il disordine e perseguono il primo. Basta. Ad un gesto malvagio, ne deve corrispondere uno buono e viceversa, ed il mondo, per loro, deve appiattirsi nell’assenza di emozioni che distruggano. I Custodi dell’Ordine, delusi dall’uomo, diedero ad Adamar una vita lunghissima, quasi eterna, ma ad una condizione. Anche lui, un giorno, doveva morire, come tutte le altre cose. Anche il mondo, un giorno, doveva essere restituito agli uomini e ai loro sentimenti, e questo quando sarebbero stati in grado di controllare le loro passioni e sconvolgimenti dell’anima. Questo momento di restituzione sarebbe stata appunto la Solutio damnationis: se lo stesso sentimento avesse sconfitto Adamar per ben due volte, egli avrebbe avuto l’obbligo di concedere una prova al detentore o ai detentori di tale sentimento puro. Garanti di tale correttezza sarebbero stati gli Empatici superstiti: alla seconda sconfitta di Adamar subita dal medesimo sentimento, si sarebbe acceso il Segno di fuoco che ormai conoscete, così che gli Empatici riconoscessero chi era riuscito in tale arduo compito e lo avrebbero preso in custodia, fino alla prova scelta da Adamar. Se tale prova fosse stata superata ed Adamar quindi fosse stato battuto per la terza volta, avrebbe cessato il suo compito e i Custodi avrebbero lasciato la Terra di nuovo agli uomini, come ai tempi prima della fine di Atlantide. Adamar avrebbe cessato la sua lunga vita e si sarebbe sciolto ogni giogo posto da Adamar stesso agli uomini, compresi quelli già morti e successivamente dannati per la loro debolezza. Anche costoro avrebbero raggiunto la pace.

“Adamar, all’inizio, non prese molto seriamente il suo compito: i primi anni della sua vita assolse quel compito in modo quasi indolente, stanco, affaticato. Era ancora un uomo, la distruzione della sua gente e il fallimento della sua politica ad Atlantide, gli gravavano dentro al punto di non sentirsi giudice di nulla. Successivamente però, venendo sempre più in contatto con gli uomini, ne comprese la fragilità lunatica e la forza masochista, comprese che, se lasciati liberi, potevano solo uccidersi a vicenda. Iniziò a considerarli inferiori, deboli, sciocchi, e dismise tutta la sua umanità. Era convinto che dovevano essere comandati, guidati, resi schiavi docili della volontà superiore. Questo senso di distacco fece evaporare ogni sentimento di vicinanza alla razza umana. Diventò sempre più asservito all’idea che fossero malvagi e corrotti nell’anima, impossibili da redimere. Moltiplicò la Terra di Zahir, dai maggiori ai minori, ma evitando quegli d’Amore le cui conseguenze devastanti potevano risvegliare i Custodi dell’Ordine, specie adesso che la popolazione umana stava crescendo di numero e un sentimento d’odio avrebbe ucciso molta più gente, se non controllato. Si lasciava invocare da centinaia di persone solo per dimostrare quanto potesse essere facile devastare un cuore umano ed esaudiva desideri anche di dittatori e tiranni, i quali conoscevano impunita fortuna grazie a lui, che aveva appunto a mente solo l’ordine ed il discutibile modo di raggiungerlo. Sono imputabili ad Adamar tantissimi conflitti e guerre, morti, stragi. L’assassinio di Giulio Cesare, la caduta dell’impero romano, un paio di crociate. Pensiamo persino che sia ascrivibile a lui l’invenzione dell’Horcrux, ma è solo un sospetto. È certezza che, invece, abbia creato lui i Dissennatori che, se ci pensate bene, hanno un potere a lui simile: assorbono sentimenti, perlopiù positivi. Li mandò in giro sulla terra a sbrigare le faccende che considerava inezie. Nulla sfuggiva al suo insindacabile giudizio onnipotente: divenne un demone, logorato dal potere ed oramai dimentico del primario scopo della sua vita. Viveva e vive tuttora per dimostrare che la razza umana merita solo la dittatura morale di qualcuno di migliore, e quel qualcuno sarebbe lui e lui soltanto. Mette a tacere ogni voce più forte nel coro umano, o perlomeno cerca di farlo. Talvolta qualcuno sfugge al suo controllo e gli dimostra che gli esseri umani sono ancora degni di onore e fiducia: ci sono state persone che hanno rotto degli Zahir, o che hanno rinunciato a ciò che prometteva all’interno delle sue prove, o che, sebbene sappiano di lui, non hanno mai sentito dentro il desiderio di invocarlo. Ma questo serviva solo a dimostrargli che siamo deboli, non nobili, indegni del libero arbitrio. Proprio per questo, anche al fine di controllare meglio l’uomo, prese un’abitudine attorno al Medioevo, a cui si è malauguratamente assuefatto e a cui ormai non rinuncia più: quando esaudisce un desiderio, quando uno Zahir viene creato ma non distrutto, lascia una parte di sé nel cuore della sua vittima, così da poterne sempre avere controllo ed influenza. Di uomini che vivono così, al mondo, sempre pronti a poter essere da lui manovrati e condizionati, ce ne sono al momento un milione e duecentocinquanta settemila…”.

Rabbrividisco, distraendomi per un attimo dalle parole di Helder. Il racconto sulla storia di Adamar è così oscuro e malvagio, che non posso fare altro che chiudere gli occhi, serrarmi nelle spalle, ripensare alla folla di persone che possono essere controllate da questo demone e che, chissà quante volte, ci passano accanto nella nostra vita.

1257000 vite mutilate, che hanno sacrificato la cosa più preziosa che avevano per un desiderio, smettendo di disturbare Adamar con il cicaleccio dei loro sentimenti, qualsiasi essi siano.

Helder mi guarda, come a sincerarsi che io la segua ancora, e prosegue la sua spiegazione: “Sono persone cieche all’Empatia, con l’anima sfregiata e il cuore in rovina. Se a questi aggiungiamo coloro che sono già nell’Inferno, comprendete di quanto si sia allungata l’ombra di Adamar su questa terra nel corso dei secoli. Tra queste persone, ovviamente, ci sono anche Dimitri e Raissa. Sono loro stessi, certo, hanno una loro individualità e coscienza, lui è stato davvero ossessionato da Tatia ed adesso lo è da Hermione. Lei è veramente innamorata di Ilai. Ma Adamar può sempre controllarli e condizionarli in qualche modo, spingerli in una determinata direzione, smorzarli o accenderli in quello che provano. Inoltre vede e sente quello che vedono e sentono loro. Per questo era importante spegnere il Segno di fuoco. Una persona qualunque che abbia ottenuto da lui qualcosa, qualora se ne fosse accorta, lo avrebbe messo in allarme. E, se sono ciechi all’Empatia, difficilmente noi stessi possiamo sentirli, a meno che non siano molto vicini e ci imprimano una sensazione negativa che ci permette di ricordarci di loro… abbiamo davvero bisogno, dalla nostra parte, dell’effetto sorpresa… o farete la fine delle persone che hanno provato la Solutio damnationis, anni fa…”. Non chiedo la fine che hanno fatto queste persone, mi sembra abbastanza logico da tutto il preambolo di questo discorso, che probabilmente sono state distrutte da Adamar stesso. E, con la gola riarsa, mi rendo conto che questo probabilmente aspetta anche me e Draco.

Una prova, a cui sottoporre un sentimento puro. Il nostro già è morto per la vita normale. Come potrebbe resistere ad una prova sovraumana? E poi… esiste davvero ancora qualcosa che possa essere sottoposto ad una prova?  

È in questa direzione che sta andando il discorso di Helder. Ha detto chiaramente che la Solutio damnationis è la nostra sola risorsa. E io continuo, invece, a volerla ignorare, dicendomi che deve esserci dell’altro che possiamo fare. Qualcosa che eviti che io pensi compiutamente a quanto io e Draco, ormai, siamo distanti anni luce. Qualcosa che non metta mio figlio nel mezzo di una guerra millenaria con un demone. Ma per il momento scanso i miei pensieri, rimandando il momento in cui dovrò davvero pensarci, e continuo ad ascoltare Helder: “Mentre Adamar era al massimo del potere e dell’onnipotenza, gli Empatici hanno sempre cercato il modo di sciogliere il suo potere, di invocare la Solutio damnationis. Consideravano riprovevole quello che Adamar faceva, in quanto non distingueva dal bene o dal male e perché spesso agiva anche in situazioni, dove non vi era alcun rischio concreto di disordine, insensibile alle conseguenze delle sue azioni. Ma, per quanto facessero, nulla attivava il Segno di Fuoco, nessun sentimento umano, nemmeno quelli più semplici, riuscivano a sconfiggere Adamar per ben due volte. Si andò avanti in questo modo fino al 1774, anno della creazione del penultimo Zahir della storia antica.

Era uno Zahir di Dolore e fu creato dalla Regina Maria Antonietta di Francia, pochi anni dopo la salita al trono. Ancora una Regina si poneva di traverso sulla strada di Adamar, infastidito dal sordo dolore di fondo della sovrana, trascinata quattordicenne in Francia per contrarre matrimonio con un uomo che non amava affatto. La Collana di Zaffiro della regina Maria Antonietta di Francia la rese, di riflesso al dolore, insensibile alle esigenze della sua gente, trasformandola in una creatura capricciosa e viziata. E ciò provocò quella che conoscete tutti come la Rivoluzione Francese. Anche quando lo Zahir venne distrutto dalla Regina stessa, la Rivoluzione rimase in piedi, sobillata dal carico di frivolezza e vizio che aveva avvolto la sovrana agli occhi del suo popolo. Sapete tutti, poi, come andò a finire, Maria Antonietta venne ghigliottinata e la monarchia crollò. Le conseguenze per anni furono devastanti e il carico di vittime fu notevole.

“Fu la goccia che fece traboccare il vaso: gli Empatici Francesi, nella persona del Capo del Senato celeste, Laurence Dubois, decisero che non si poteva più attendere il naturale corso degli eventi, sperando che un giorno qualunque qualcuno fosse degno del Segno di Fuoco. Così compirono il più grande crimine che un Empatico possa compiere…”, Helder si ferma, improvvisamente ha sul viso un’espressione addolorata, imbarazzata, sconvolta. E non è che fino ad ora il suo racconto sia stato propriamente un bagno caldo al termine di una giornata stancante. Sembra sentirsi lei stessa improvvidamente complice di questo crimine ancestrale, di cui non aveva neanche memoria fino a ieri. Il volto è cinereo, le labbra bianche e gli occhi sono spenti. Respira a fondo, sembra guardarci come a cercare una sorta di perdono, e poi riprende a spiegare con voce smorta: “Nelle lezioni elementari di Magia, quando si studiano i filtri d’amore o l’Amortentia, ci viene detto che possono solo creare l’illusione dell’amore, ma mai un vero sentimento. I sentimenti sono quanto di più complesso l’uomo possegga, ma al contempo anche la cosa più preziosa che ha. È lì il fulcro del libero arbitrio, è lì ciò che ci distingue gli uni con gli altri. Lo stesso oggetto, la stessa persona, può provocare odio in una ed amore in un’altra… Adamar agisce in modo profondamente errato perché pretende da qualcosa di diverso dall’uomo stesso, che questi sentimenti siano messi a tacere, perché potenzialmente pericolosi. Gli Empatici, però, non sono stati migliori. Li hanno esaltati, pontificati, beatificati, considerandoli come fonte di potere immortale… un uomo che ama può fare tutto. Questo si sono detti, sempre, e questo si sono detti soprattutto due secoli fa… ma siccome nessun sentimento nasceva con la possibilità, davvero, di potere tutto… ne hanno creato uno”.

“Ma non avevi detto appena adesso che non è possibile creare un sentimento?” la interrompe volutamente Dean, piegando la testa di lato.

“Non è esatto… o perlomeno non è completamente esatto… un sentimento non può essere creato dal niente da un Mago comune… ma non da un Empatico…” spiega sommariamente Helder ed è un attimo prima che comprenda livida la dimensione di questa cosa e irrompa con voce tremula: “Quello che hai fatto poco fa… a me e a Draco… la calma che sentivamo... era una cosa simile?”. Draco resta ancora completamente indifferente, non guardandomi neppure, come se ricordasse d’improvviso quella rabbia cieca che provavamo, sedata in un niente.

Helder annuisce esangue, aggiungendo con calma: “Esattamente. Un Empatico in realtà può creare un’emozione dal niente, fa parte dei suoi poteri. Solo… che non è strettamente voluto dalle leggi della nostra gente, né tantomeno da quelle dell’Ordine universale, è un peccato contro natura, rende l’uomo schiavo e vittima di reazioni più forti di lui. I poteri di un solo Empatico potrebbero condizionare le sensazioni e questo non sarebbe visto esageratamente come un problema… nel vostro caso, ho semplicemente premuto un po’ sulle vostre reazioni, rendendole più tollerabili, ecco… è una cosa difficile ed anche disgustosa per una come me. Fa male più a me che a voi. Ma la cosa buona è che un solo Empatico può farlo solo per pochi minuti e, difficilmente, se non a costo dei propri poteri e finanche della propria vita, lascia tracce permanenti nell’animo della persona colpita. Ma, nel 1799 non lo fece solo un Empatico… ma l’intero Senato celeste. Immaginate decine di persone, centinaia forse, che concentrano i loro poteri per creare un sentimento. E non un sentimento qualsiasi, ma il più forte di tutti. L’amore… poteva essere una cosa sublime e meravigliosa, ma volutamente fu creato dal niente un Sentimento d’amore, malsano, ossessivo, patologico. Le vittime furono gli stessi figli del Capo del Senato che si offrirono volontariamente, considerando un grande onore quello di poter essere utilizzati per la sconfitta di Adamar. Si chiamavano Angelique e Francois Dubois, erano fratelli e furono spinti ad amarsi di un amore incestuoso e riprovevole. Una cosa orribile, insana, che li spinse quasi alla pazzia…”.

Amare il proprio fratello. Considerare un onore logorarsi per quest’ossessione.

Pupazzi… semplici pupazzi nelle mani degli Empatici, o di Adamar. Pedine… in un gioco molto più grande di loro.

Lo diventeremo anche io e te, Draco?

Abbasso gli occhi fissandomi le ginocchia, mentre Helder prosegue: “Angelique creò uno Zahir d’Amore, il secondo della storia umana, quello che, come vi dicevo, era stato dimenticato da tutti gli Empatici. Francois si rivolse ad Adamar chiedendo maggior potere magico così da diventare un uomo potente che poteva ambire ad un conveniente matrimonio e, per ottenere questo, impegnò l’amore malato per la sorella. Entrambi vinsero: lo Zahir di Angelique fu distrutto da lei stessa e Francois si ritirò dalla prova, in quanto entrambi, essendo prima che amanti due fratelli, non volevano rinunciare all’affetto normale per il proprio consanguineo. Il Segno di Fuoco fu attivato, gli Empatici cantarono vittoria ed Angelique e Francois furono addestrati per la prova di Adamar. Quest’ultimo, però, non è mai stato stupido. Mai.

“Si accorse della stranezza della cosa, della facilità con cui Angelique aveva rotto lo Zahir prima che tramutasse l’amore in odio, della richiesta indefinita di Francois di maggiore potere magico che sembrava chiaramente un pretesto. E i suoi sospetti furono confermati quando li vide entrambi invocare la Solutio damnationis, bardati di tutto punto ed evidentemente allenati a qualsiasi prova, fisica o mentale. Non poteva rifiutare, non avrebbe mai potuto farlo, ve l’ho già spiegato. Ma… si vendicò. Crudelmente, intenzionalmente, orribilmente. Li fece a pezzi, in ogni senso metaforico e fisico. I loro corpi non furono mai trovati, non si è mai saputo a che prova fossero stati sottoposti, ma fu qualcosa di così malvagio e dissennato da impregnare la terra per anni ed anni, provocando il Terrore rivoluzionario in Francia ed una serie di altre orrende disgrazie in tutto il globo. Adamar era diventato deliberatamente malvagio, si era sentito preso in giro ed aveva reagito nella peggiore delle maniere, perdendo ogni intenzione alla giustizia. E gli Empatici stessi avevano provocato una tragedia senza pari che sembrava non avere mai fine e si perpetuava sempre in sé stessa. Laurence Dubois si suicidò… e i Dubois furono solo le prime vittime…”.

Ed è questo quello che io e Draco dovremmo fare. Gettarci come agnelli sacrificali nelle fauci di un demonio, che nessuno hai mai sconfitto, aspettando che ci faccia a pezzi, magari distruggendo anche il resto del mondo e i nostri figli? Incrocio lo sguardo di Draco mentre sollevo gli occhi, sempre più convinta che questo piano sia talmente demenziale e pericoloso che qualsiasi cosa sarebbe meglio, persino consegnarmi a Dimitri. Non so come e perché Helder me lo stia suggerendo, non capisco se davvero anche per lei sia più importante sconfiggere Adamar, che salvare mio figlio. Non può essere la sola cosa che ci è rimasta da fare… e Draco, mentre mi guarda, ha la mia stessa espressione, i miei stessi pensieri iracondi e nervosi, che si riflettono nelle braccia contratte e tese. Annuisco silenziosamente al suo indirizzo, quasi ingiungendogli di aspettare che lei finisca il suo racconto, così che possiamo dirle di no, senza problemi. Draco sospira rumorosamente, tanto che Ron si volta a guardarlo schifato.

Helder, intanto, continua, apparentemente ignara delle reazioni mie e di Draco: “Stavolta i Custodi dell’Ordine non restarono silenti testimoni, stavolta il danno aveva sconvolto anche i loro perfetti canoni di ordine, considerando come il mondo era stato mandato nel caos. E decisero per una pena per entrambe le fazioni. Adamar perse la sua vita lunghissima e perse il suo corpo, dovendosi accontentare di prenderne in possesso uno di quelli da lui controllati per la loro intera vita; per questo, in questa epoca storica, usa il corpo del congiunto di Grindelwald, che evidentemente si è rivolto a lui in anni passati. Adamar perse anche la formula dello Zahir, giudicato troppo pericoloso, e la sua formula andò perduta dalla mente e dal cuore degli uomini, nonché dalla loro tradizione scritta. La formula fu affidata agli Indicibili, che ne dovettero mantenere il segreto. La punizione degli Empatici fu quella che vi ho accennato: la perdita della memoria. Nessuno avrebbe più ricordato questa storia in quel momento e nel futuro, finché un genuino Segno di Fuoco si fosse acceso ed avesse risvegliato in modo autentico la memoria degli Empatici allora in vita. Ecco perché nessuno sapeva questa storia dal diciannovesimo secolo… ed ecco perché voi due ci siete finiti in mezzo, senza che nessuno potesse preavvertirvi del rischio che correvate… nessuno, compresa me naturalmente, che diedi ad Hermione la formula dello Zahir con una leggerezza che ancora non posso perdonarmi. E se fino a poco tempo fa, era solo il terrore delle conseguenze di quell’oggetto riprovevole, se qualcosa fosse andato storto ed Hermione non fosse riuscita a romperlo o a vincere l’odio, adesso so invece che quello fu il primo passo di questa catena di eventi che vi hanno posto nell’occhio del ciclone, assieme a vostro figlio…”.

“Occhio del ciclone?” chiedo incapace di trattenermi oltre, il contraccolpo della mia rabbia mi spinge ad alzarmi in piedi, ormai stanca di questa stupida leggenda “Al momento non siamo nell’occhio di nessun ciclone… d’accordo, io ho creato uno stramaledetto Zahir… e lui…”, ed indico con un gesto insofferente Draco, che serra la mascella “… si è rivolto ad Adamar. Siamo due idioti, si era capito! Ma al momento non ci interessa rivangare gli errori o infilarci in questa guerra millenaria! Sono i Karkaroff i nostri nemici, sono loro che hanno Alex… me ne frego di Adamar! Possiamo anche aver attivato questo… Segno di fuoco, o come caspita si chiama… ma non abbiamo il tempo, adesso, di pensare ad Adamar e alla sua stupida prova! E sono certa che se lo ignoriamo, pensando a cose ben più importanti, lui ci ignorerà a sua volta, lieto che non vogliamo invocare sta maledetta Solutio damnationis che…”.

“Non vi ha mai ignorato fino ad ora… e tu credi che inizi a farlo adesso?”.

La voce di Helder è sorprendentemente calma e misurata, si infrange contro la mia frustrazione stizzosa, lasciandomi sconvolta ed atterrita, oltre che svuotata. Le ginocchia mi tremano come se fossero di cristallo e biascico un: “Cosa?” debole e pigolante. Draco, a sua volta, che se ne era stato in silenzio al mio sfogo, pronto semplicemente a dare la stoccata finale quando ce ne fosse stato bisogno, si stacca dalla colonna e fa qualche passo verso Helder, suonando vagamente minaccioso. Ma la sua voce è solamente tremante, mentre chiosa serio: “Che cosa vuol dire che non ci ha mai ignorato, Empatica?”.

Helder a quel punto fa qualcosa di strano, che non ho mai visto e che mi lascia assolutamente senza parole. Estrae la bacchetta dal mantello, mormora delle parole soffuse e si sfiora con la punta prima la fronte, e poi il collo, premendo leggermente. Quando riapre bocca, la sua voce è diversa… sudando freddo, mi accorgo che è la voce di Draco.

Dice solo qualche parola che risuona cupa come se provenisse dal fondo di un contenitore basso e fondo, come se provenisse da un lontano tempo e passato. Le sue parole mi risuonano familiari, e ricordo distintamente di averle già sentite, anche se di primo acchito non ricordo quando. Poi, rapido come lo sfrecciare di un treno, mi sovviene l’odore delle rose, la luce calda di un mattino, le braccia di Draco attorno a me e la sensazione di essere immortale e destinata solo alla gioia. La mattina dopo che era tornato… quando mi raccontò dell’incontro con Adamar… trasalgo così tanto a quel ricordo, da lasciarmi cadere sulla panca su cui ero seduta in modo pesante ed impacciato, come se fossi caduta. Dean mi afferra per un polso, ed Harry mi chiede se mi sento bene, mentre Helder finisce la sua frase con la perfetta intonazione di Draco stesso, che la guarda ad occhi spalancati, le iridi diventate mercurio sfuggevole e metallico.

Adamar mi ha detto che erano anni che mi stava aspettando, da quando ho tradito i miei genitori… “Eri sufficientemente debole e stupido da cercarmi, ma purtroppo eri ancora così legato ad una sciocca ed antiquata moralità per sentire quel bisogno. Dovevi perdere tutto, per arrivare a me…” questo ha detto. Oramai non sperava più di vedermi, “credevo che lei ti bastasse...”. Si riferiva a te…

Helder, prendendo fiato come se fosse stata sott’acqua, ci guarda entrambi con improvvisa compassione, apparentemente stanca, snervata, abbattuta. Sussurra lieve: “Non vi ha mai ignorato…”.

I suoi occhi, colmi di una foschia umida, tornano soprattutto a Draco, mentre mormora: “Con lei, con Hermione… è stata lei, per colpa mia, ad andarsela a cercare… ma nel tuo caso… lui ha sempre voluto far tacere quel tuo fastidioso cuore…”. Draco, a sua volta, si abbandona di nuovo contro la colonna, ha l’espressione persa e sconvolta di un cucciolo abbandonato e farei di tutto, adesso, per allontanare da lui il fantasma che si è rappreso nei suoi occhi. Ma resto incollata al mio posto, stringendo la mano di Dean con forza.

Helder si siede daccapo, sospira e riprende, la sua voce suona impersonale e statica, come se d’improvviso volesse scrollarsi di dosso e velocemente questa vicenda: “Quando Hermione creò lo Zahir e quando poi lo distrusse, probabilmente non entrò negli interessi di Adamar… non fu vista come una minaccia. Era certo, convinto che il suo sentimento non fosse corrisposto, quindi non poteva esserne minacciato, seguiva Draco Malfoy da anni perché era convinto di poterlo piegare ad avere bisogno di lui, invocandone l’aiuto. Sapete come funziona, Adamar deve essere invocato mentalmente ed è lui, poi, a decidere se si è degni della sua attenzione. Per questo, anche se il sentimento che lo aveva vinto una volta era legato a Draco Malfoy, era sicuro che quando Draco l’avesse invocato, l’avrebbe fatto per altro… per paura, rimorso, codardia, ma mai per amore. E mai, soprattutto, per quel amore che all’inverso già lo aveva battuto, l’amore per Hermione Granger, una Mezzosangue…”.

Sono passati anni, abbiamo un figlio e, nonostante tutto, restiamo legati in un modo che difficilmente qualcuno potrebbe slegare… eppure, ancora adesso, alle parole di Helder che descrive i pensieri di Adamar sull’impossibilità che io e Draco fossimo innamorati… ancora adesso… impercettibili segni di assenso e comprensione silenziosa, mi circondano indolenti. Me ne accorgo, sebbene sia ancora a testa china, con lo sguardo fisso sulle mie ginocchia e sulla mano che ancora tengo stretta in quella di Dean. E, in questa buffa posa, in questo gioco delle parti che si allentano ma non muoiono mai, mi sento ancora imputata e colpevole, condannata innocente al crimine di essermi innamorata, riamata, di quell’uomo. La mano di Dean nella mia, lui che è avvocato e vittima della mia stessa colpa, è fredda, ghiacciata, sudata, come se lui stesso tremasse e fremesse di un processo che sta subendo anche lui. Sento distintamente la piega viscida della voce di Helder, mentre parla e descrive quella sensazione assolutamente giustificabile di Adamar, come se quasi per una volta condividesse il suo operato. Sento lo sbuffo spazientito di Ron, a cui fa eco il movimento dei piedi di Harry, innervosito, cupo, oscuro. Distinguo nettamente lo sconcerto imbarazzato di Natalie che, senza necessità apparente, si china a sistemare qualcosa nel passeggino di Elias. E persino Ilai e Kevin, che con questa storia hanno ovviamente meno a che fare, sono più silenziosi di prima, intenti persino a non respirare, come se questo possa sembrare assenso a quello che è successo.

Poi, feroce ed ostile ma al contempo dolce, lieve, sottile come un pianto, avverto qualcosa rifrangersi sulle mie spalle, sui miei occhi bassi, sulla mia fronte… tutto attorno a me. Come calore, che sembrerebbe di una fiamma omicida, ma poi diventa solo riparo dall’inverno. Sollevo gli occhi piano, lentamente, e Draco è ancora lì, nei miei occhi, l’espressione al contempo spaventata ed astiosa, terrorizzata e spavalda, amara e delicata. Guarda me e mi uccide negli occhi come fa da stamattina, ma non c’è più eco di rimprovero o di disgusto per la faccenda di Alex, non è lo sguardo del padre tradito. Rabbrividisco, la schiena che trasale di pelle d’oca e brividi fulminei. È uno sguardo odioso, eppure mi fa battere il cuore come mai da cinque anni a questa parte.

Mi sta rimproverando… perché lo sto lasciando da solo. Perché, a mio modo anche io, con questi occhi bassi e con quest’aria colpevole, rinnego e spergiuro i sentimenti che aveva per me.

E quelli che avevo per lui. Rinnego persino Alex, che da quell’amore è nato, come se fosse incidente ed ostacolo di percorso.

Raddrizzo le spalle, sollevo il mento, lo guardo con la stessa espressione sua e riprendo a respirare, lasciando gentilmente la mano di Dean. Li guardo tutti, uno per uno, sfidandoli a proseguire, minacciandoli in silenzio per il loro giudizio sordo. Perché se adesso siamo meno di niente, nessuno deve azzardarsi a pensare che allora non siamo stati tutto.

E non permetterò a nessuno, tantomeno a loro, di continuare a rimproverarmi per questo… mai più.

Helder si schiarisce la voce, ha un’ombra bizzarra di sorriso nella voce, poi continua: “Purtroppo per Adamar, però, qualche giorno dopo la rottura dello Zahir, quando foste imprigionati da Astoria, dovette scoprire che Draco, invece, era innamorato di Hermione, la corrispondeva. Certo, Draco ancora non sapeva dell’esistenza di Adamar, non voleva invocarlo, non aveva il benché minimo istinto in tal senso, quindi la Solutio damnationis era ancora lontana… ma era Adamar che voleva Draco sin dai tempi di Voldemort e del suo tradimento. Era attratto dalla sua anima, così piena di dissidi, lo disturbava, era come un ronzio che si cerca di eliminare da una stanza perfettamente in silenzio. Con Draco, Adamar fu stranamente ingordo, tradendo la sua natura ancora mezza umana. Poteva lasciarlo perdere, poteva rinunciare a lui, ma non sapeva farlo. Lo voleva ugualmente, persino rischiando la Solutio damnationis. Era così sicuro della sua anima malvagia, della sua pavidità, della sua indole traditrice che tanto lo avevano irritato ai tempi di Voldemort, che adesso era convinto che avrebbe sacrificato facilmente il sentimento per Hermione Granger. Quindi fece in modo che Draco volesse venire da lui… attraverso i Karkaroff. Erano le sole persone che controllava, avendo già ottenuto qualcosa da lui, e che erano al contempo vicine a Draco…”, Helder si interrompe, la sua voce suona più leggera, quasi casuale, mentre chiede a Draco direttamente: “Ricordi come ti venne in mente di rifarti al debito che avevi con loro per averli salvati durante la guerra?”.

Draco ci pensa su qualche secondo, poi borbotta sicuro: “Ero a casa di Pansy… e lessi per caso “La gazzetta del Profeta” dopo anni… c’era un articolo di Rita Skeeter su Igor Karkaroff e sulla sua eredità… mi ricordai dei suoi figli allora…”.

Helder annuisce grave, prima di mormorare riflessiva: “Rita Skeeter, certo… è cieca all’Empatia, me ne sono resa conto da anni… ha avuto qualcosa da Adamar, chissà cosa…”, non avevo il minimo dubbio che quella avesse qualcosa di marcio dentro, adesso ne ho la conferma “Adamar deve averlo reputato il modo più veloce per arrivare a te, istillandoti l’idea di poter chiamare Raissa e Dimitri. Lui agisce così, è subdolo, bieco, abietto… e può contare, come immaginate e come vi ho detto, su persone che manovra facilmente, condizionandone la mente e il cuore come faceva da Empatico. Comunque Draco contatta i Karkaroff. Adamar suggerisce a Dimitri di indurre in Draco l’idea di sottoporsi ad una prova del demone per ottenere più potere per salvare Hermione. Adamar sottopone Draco ad una prova semplice nei suoi standards… un biglietto di andata e ritorno per il regno dei morti… ed è sinceramente convinto che Draco, il traditore, la supererà…”.

“Se quella era una prova semplice…” mormora Harry, improvvisamente partecipe e rimarcando la parola “semplice”, senza che però Draco dia segno di averlo perlomeno sentito.

“Il grande difetto di Adamar, ormai, è proprio l’empatia…” prosegue Helder, cercando di spiegarsi “E non intendo il potere che ho io… ma proprio la capacità di avvertire il dolore delle persone. Lui, ormai, ragiona solo nel termine di ordine e disordine, ciò che fa troppo rumore va eliminato. E siccome di Draco aveva fatto sempre più chiasso il suo lato negativo, era certo che la prova l’avrebbe superata alla grande, sordo al rimorso e cieco al dolore. Era convinto che lui avrebbe ricacciato indietro facilmente la gente morta, convinto che la loro morte non era stata colpa sua, ma che era stata o necessaria alla sua sopravvivenza, oppure conseguenza del tradimento che aveva primariamente subito. Ma aveva decisamente considerato Draco peggiore di quanto in realtà sia, così come aveva fatto quando era stato convinto che non corrispondesse Hermione. La prova lo dilaniò, specie l’incontro con i suoi genitori, per cui Draco sembrava non aver mai provato rimorso…”, con la coda dell’occhio vedo Draco muoversi a disagio, distogliere lo sguardo e fissarlo lontano, come ipnotizzato da un albero di magnolia. Solo il respiro, veloce ed inquieto, mi fa capire che non è semplicemente distratto, ma in realtà è profondamente colpito dalle parole di Helder, come quando ripensa ai suoi genitori o ad Helena. Colpiti, in modo diverso, sono anche gli altri, come se, ad eccezione di Blaise che, a dire la verità, avevo completamente rimosso per quanto sembri perso nei fatti suoi, tutti avessero sempre pensato che lui fosse il perfido e bieco doppiogiochista senza rimorsi, che Adamar voleva per sé.

Lieta che dopo cinque anni, ci stiano arrivando finalmente.

“Adamar sapeva che cosa sarebbe successo a quel punto: se Draco si fosse ritirato dalla prova, considerando a quel punto l’amore per Hermione e i suoi ricordi più importanti della brama di potere, lo avrebbe battuto. Il sentimento che lo aveva vinto una volta lo avrebbe sconfitto di nuovo. Si sarebbe acceso il Segno di fuoco ed avrebbe dovuto concedere la Solutio damnationis, dato che gli Empatici avrebbero ricordato tutto. Quindi, contravvenendo alle regole, non ascoltò Draco quando urlò di volersi ritirare… penso che anche tu, Draco, ti sia accorto che stava contravvenendo al suo codice e sembrava intenzionato più ad ucciderti che ad altro. Adamar non ne voleva ovviamente fare di Draco la causa della sua rovina. Però non aveva fatto i conti con i Custodi dell’ordine, che quelle regole le avevano scritte. Mandarono Helena Greengrass a salvarlo… intromettendosi nella prova come punizione per Adamar. Difatti, interrompendola, Adamar fu sconfitto per la seconda volta.

“Il Segno di fuoco si accese al ritorno di Draco dallo scontro con Adamar, gli Empatici provavano addosso l’amore che vi univa. Ancora per l’ennesima volta, Adamar trovò facilmente riparo a quella che ormai doveva essere una sorte segnata. Si accorse che le memorie tornavano lentamente, gravate dagli anni trascorsi, e capì di avere ancora tempo prima che gli Empatici si risvegliassero. Ed era certo che Draco Malfoy ed Hermione Granger si sarebbero distrutti e bruciati da soli, facendo spegnere il Segno di fuoco prima che la memoria fosse completamente tornata. Esso si alimenta dal sentimento che lo crea… quindi, se si fossero separati, il Segno si sarebbe spento e gli Empatici avrebbero avuto per le mani mozzicati cenni di memoria, insufficienti a ricostruire tutto. Dalla sua parte aveva peraltro Raissa e Dimitri, poteva sfruttarli ancora come armi: incendiò l’animo del secondo dell’ossessione che già provava per Hermione Granger, così che potesse appellarsi al Voto Infrangibile con sua sorella. E… riuscì ad ottenere anche Astoria Greengrass…”.

“Astoria?” chiedo sconcertata, stringendo le braccia al petto “Anche lei… ottenne qualcosa da Adamar? E come fate a saperlo?”.

“Dal suo corpo…” biascica velocemente Helder, rabbrividendo “Restano delle tracce della possessione di Adamar… impercettibili se è durata poco, ma in lei anche questi segni infinitesimali c’erano. Penso che Dimitri, sempre sobillato da Adamar, al momento di allearsi con lei, le impose questa condizione… aveva bisogno di serrare i ranghi. Adamar aveva il controllo su Raissa e Dimitri, ma con una terza persona sarebbe andato sul sicuro. Probabilmente, considerando le sue reazioni successive, penso che abbia impegnato l’amore che aveva per Draco… in cambio del desiderio impossibile di avere un figlio da lui… che ottenne quando catturarono Hermione, già incinta di Alex…”.

Non vi ha mai ignorato… adesso capisco appieno che cosa vuol dire. Ho paura di chiedere altro, mi accorgo che, senza rendermene conto, mi sono aggrappata al bordo della panca, mentre le mie unghie scrostano la vernice secca. Ho paura di chiedere se ha fatto sì che io restassi incinta proprio allora, così Astoria potesse avere mio figlio. Ed ho paura di chiedere quanto del destino del mio bambino si sia intrecciato per questo a quello di questo demone. Non voglio chiedere niente.

Ma Alex, adesso, non è solamente mio figlio. E’ figlio di Draco, che, in silenzio e senza risposte, non sa restare.

Masticando amaro, mormora: “E’ stato per Adamar… che lei è rimasta incinta proprio in quel momento?”.

“Probabilmente sì…” sussurra Helder e il mio cuore sprofonda così in basso nella gabbia toracica, da darmi l’impressione di diventare un pantano umido e soffocante “… ma, in fondo, a voi cambia qualcosa? Alex sarebbe nato in un altro momento se lui non fosse intervenuto… ma se era destino che nascesse, sarebbe nato. Basta… non interrogatevi oltre, Alex è nato dal vostro sangue, da voi e basta… per il bene che volete a vostro figlio… è importante che, in quel momento, Adamar abbia fatto sì che nascesse prima?”.

Sì che è importante… lo pensiamo sia io che Draco, quando restiamo in silenzio e non rispondiamo ad Helder. È importante perché significa che potere ha sulle vite delle persone. È importante perché significa che non è stato un caso che mio figlio sia stato messo in pericolo, dalla prigionia di Dimitri. È importante perché è il motivo per cui Draco non ha potuto conoscere e crescere suo figlio.

È importante perché mi dimostra fino a che punto davvero non ci ha mai ignorato.

È importante perché mi dimostra quanto probabilmente non ci ignorerà mai.

Mio figlio sarebbe nato ugualmente, certo, e lui, dentro, non ha nulla del destino manovrato che l’ha fatto venire al mondo per assecondare al desiderio di una donna sterile e affamata di potere. Tutto questo è vero… ma questo pensiero è ugualmente insopportabile. Paradossalmente, è la cosa che maggiormente non riesco a sopportare al momento.

Al punto che, per la prima volta da quando Helder ha iniziato a parlare prendo davvero in considerazione la Solutio damnationis.

“Separando Draco ed Hermione, anche fisicamente, il Segno di Fuoco si spense…” prosegue Helder dopo un po’ “In entrambi c’era qualcosa di più forte dell’amore reciproco: in Draco era il dolore della separazione; in Hermione il terrore per suo figlio. A quel punto, Adamar lasciò fare ai Karkaroff, senza condizionarli ancora. Del resto, avevano la Conoscenza assoluta, potevano agire benissimo per conto loro, come ha fatto Dimitri quando ha scoperto che ero con Hermione, ingannandoci per simulare la sua morte con la Titanca. E credo che, anche adesso, li stia lasciando liberi di agire, perché è certo che il sentimento sia stato distrutto, come peraltro credo che abbia pensato quando vi ha visto assieme, stamattina, attraverso gli occhi di Raissa e Dimitri… ed ha scoperto che Hermione non ha mai detto a Draco di Alex…”, un fastidioso groppo in gola mi spinge a muovermi sulla panca, come se fossi punta da una zanzara. Draco chiude i pugni, si rinnova l’astio nei suoi occhi. Helder segue quelle manovre e, misericordiosa, sussurra le parole successive solo nel mio cervello, così che almeno mi sia risparmiata la vergogna dei miei amici che mi fissano curiosi, soprattutto Ron.

Come si è accorto, attraverso gli occhi di Raissa, che tu ti stai legando anche ad un’altra persona, ad Ilai Radcenko… annuisco, guardandola e ringraziandola silente. Dalla reazione di Draco, capisco che anche lui ha ascoltato: sbuffa impaziente, guardandosi attorno. Helder continua a parlare nella mia e nella sua testa, rivolgendosi stavolta a lui: “Come, peraltro, ha sempre saputo, del legame che tu avevi con Raissa…”. Mi viene fuori un sorriso sarcastico e soddisfatto a guardare l’espressione colpita ed irritata di Draco, ecco almeno mettiamo le cose in chiaro, siamo entrambi responsabili allo stesso identico modo. Helder, a quel punto, riprende a parlare con la sua voce, rivolgendosi a tutti: “Adamar è certo e sicuro di aver fatto tutto per dividere Draco ed Hermione attraverso i Karkaroff, ed è certo e sicuro che, quindi, il Segno di Fuoco non possa riaccendersi e completarsi. Peccato per lui che esso si sia acceso ieri mattina, risvegliando le memorie empatiche che erano state messe già in moto lento, cinque anni fa. Come e perché si sia riacceso, lo sapete solamente voi…”.

Vorrei che avesse detto anche questo solo nella mia testa… mi ritrovo, prima di potermi fermare, ad arrossire e a distogliere lo sguardo, cercando di rifuggire gli occhi che mi inseguono. Certo, sapere nella mia testa che posso essere ancora ed in parte innamorata di Draco, è una cosa. Sapere che questo ha creato questa reazione ancestrale, visibile in modo netto nella febbre e nella connessione aperta con gli Empatici... è un altro paio di maniche. È qualcosa di meno negabile, meno trascurabile, meno liquidabile con retaggi di memoria persa e morta. Non posso dirmi, solidale con me stessa, che è normale che io provi ancora qualcosa per il padre di mio figlio, e non posso enumerare sarcastica i momenti in cui posso essermene resa compiutamente conto… la febbre è salita subito dopo la nostra conversazione su quello che era successo cinque anni fa… che non si è conclusa in modo idilliaco. Ma la rabbia e il dolore non erano sufficienti a farmi dire che non ero, dentro, in fondo, contenta che fosse lì con me, che non ero ancora arsa dal desiderio che mi baciasse, che non ho ricambiato il suo abbraccio, che non mi macinavo dalla gelosia per lui e Raissa.

È chiaro che sono ancora innamorata di lui. E’ ovvio che lo sarò sempre.

Però è ben diverso sapere questo in questa forma. Perché ero innamorata di lui, forse anche di più di adesso, anche cinque anni fa, quando ero prigioniera di Dimitri. Ma il Segno si era spento, era più importante la paura per Alex, che Draco. Adesso… di nuovo, l’amore per lui è diventato più importante… dentro quella conversazione, in cui mi sono persino dimenticata che ero la mamma di Alex, sono tornata la donna ferita ed innamorata di quest’uomo che mi ha spezzato il cuore. Ovvio che il Segno si sia riacceso… e ciò mi rende egoista verso mio figlio ed insensibile verso Ilai e Ron.

Respiro forte, lentamente e profondamente, e così mi calmo senza premeditarlo. Perché, d’accordo… sarà anche idiota… ma se lo amo ancora, forse posso uscirne viva da questa storia. E farci uscire vivo anche mio figlio… e Draco stesso. E poi… un angolo della mia bocca si piega all’insù, mentre ci penso… forse, nonostante tutto, se il Segno di Fuoco si è acceso… forse… mi ami ancora anche tu. Forse… non l’ho fatto riaccendere solo io. Forse… sei stato anche tu.

Mi volto piano, quando sono certa di essere padrona di me stessa e delle mie reazioni, preferendo non guardare in viso Draco. Se ci leggessi indifferenza, sarebbe il colpo di grazia, ricaccerei indietro tutto ciò che di buono ho ancora dentro per lui. Se ci leggessi imbarazzo, probabilmente lo fraintenderei. Se ci leggessi tenerezza, allora mi svestirei di orgoglio e forza che adesso mi servono ancora.

“Sapete solamente voi se il male che vi siete fatti, sia più forte di quel germe d’amore che è ancora sopravvissuto e che ha fatto sì che il Segno di Fuoco si riattivasse…” Helder lo sussurra quasi in silenzio, come se avesse paura di disturbare “Ed è su quel germe che dobbiamo fare affidamento per salvare Alex… perché solo questo, se invocate la Solutio damnationis, potrà aiutarvi durante la prova con Adamar, è ciò che lui metterà alla prova, è ciò che cercherà di distruggere… che lui non sappia al momento che il Fuoco si è riacceso, che gli Empatici sanno tutto e che invocherete la Solutio damnationis, cambia poco. Fa solo sì che possiamo sfruttare l’effetto sorpresa, impedire che ancora infranga le regole, magari premendo su Raissa e Dimitri affinché uccidano vostro figlio, così da farvi lacerare nella rabbia e nell’odio reciproci…”, e lo farebbe sul serio… come l’ha fatto nascere, così lo farebbe morire… “Ma quando la prova inizierà, sarete in sua balia. Completa. Significherà affidare tutto di voi stessi ad un demone che non vuole assolutamente che vinciate. Significherà correre lo stesso rischio che hanno corso Angelique e Francois Dubois…”.

“Se è un rischio tale…” chiede Kevin incerto, come se tentennasse nel parlare di cose che non capisce appieno e fosse timoroso di fare qualche errore “… perché loro dovrebbero correrlo, Helder?”. Lei lo guarda senza appunto comprendere di che cosa parli, ed aggrotta la fronte in modo incerto, ma Natalie afferra il filo dei pensieri di Kevin, che tace e riordina il suo ragionamento, mentre la ragazza spiega le sue rimostranze: “Quello che Kevin, credo, voglia dire è… se già duecento anni fa, la Solutio damnationis è stata provata e fallita da due fratelli Empatici, per giunta… che speranze hanno loro due di vincere? Non sarebbe meglio… trovare un altro modo…?”.

“Infatti…” commenta ferocemente Ron, guardando Draco in cagnesco “Sono incerti su quello che provano, non si parlano neppure… e devono rischiare la vita di Alex per questo? Per qualcosa che non sanno nemmeno loro, se esiste ancora? Scommetto che se li chiediamo se si amano ancora, manco sanno che rispondere…”.

Colpita nel vivo, sto per aprire bocca e replicare caustica, ma Draco mi precede tagliente: “Weasley, credimi… te lo dico spassionatamente. Lei in ogni caso, non ci torna con te a fare la mogliettina frustrata… insomma, non sarà il caso di rassegnarti un pochino?”.

“E’ ad Alex che penso, razza di bastardo!” inveisce Ron, alzandosi in piedi ed afferrando rosso in viso Draco per il colletto della camicia. E diciamo addio, alla conciliazione e alla pace universale. Dean ed Harry si alzano immediatamente per cercare di dividerli, cosa che diventa problematica quando Draco, per nulla intimidito, soffia freddo: “Posso avere anche perso ogni diritto su quella donna… su quella che era la tua di donna, se non l’avessi tradita con la Brown… ma non ho perso alcun diritto su quello che è ancora e sarà sempre mio figlio… e non tuo. Spiacente che cinque anni di pausa siciliana dalla vita ti abbiano reso certo del contrario…”.

“Per cinque anni è stato mio figlio! E tu lo sei da cinque minuti, e già parli di metterlo in pericolo! Perché non ti suicidi, così Adamar si tranquillizza che non potete nemmeno provare questa Solutio qualche cosa?!”.

“Ron! Smettila!” urlo a mia volta, alzandomi in piedi, a cui fa eco la voce di Natalie che cerca di far calmare senza successo Ron. Continuano a vomitarsi insulti l’uno sull’altro, con la ferocia rabbiosa di due che hanno solo visto accrescersi negli anni i motivi per cui odiarsi. Quando ormai sono sicura che, all’ultimo sibilo velenoso di Draco, Ron risponderà con un pugno in faccia, finalmente la sola in grado di intervenire, si decide a farlo. Helder ripete la stessa identica scena di stamattina, inducendo la calma ad entrambi, e di nuovo mi fa così spavento che ringrazio che stavolta non ne sono vittima io.

“E con questo, fanno due volte in una giornata, che non rispetto la legge Empatica…” mormora acida, sistemandosi il mantello, quando Ron e Draco finalmente sembrano normali, solo sbuffanti “Alla terza volta, a chiunque mi costringa daccapo indurrò un sanissimo e corroborante istinto alla mutilazione genitale…”. La minaccia sembra aver il risultato sperato, specie negli uomini naturalmente, e finalmente tutti restano in silenzio, meditabondi. L’eco della domanda di Kevin e Natalie sull’esistenza di un altro modo per salvare Alex torna agli occhi di Helder che, più calma, riprende: “Se esistesse un altro modo, non sarebbe stata mia premura farli conoscere questo… che è rischioso per loro, e per tutti noi. Nulla varrebbe tanto… e sebbene gli altri Empatici premano perché loro adempiano a questo destino, in cui, loro malgrado, si sono trovati coinvolti…  questo non è quello che penso io. Ho pensato ad ogni possibile altra soluzione… a tutte, sul serio. E tutte si concludevano in un vicolo cieco. Raissa e Dimitri hanno la Conoscenza assoluta, quindi conoscono formule ed incantesimi che io nemmeno posso pensare di immaginare… e conoscono ogni contromisura. Hanno la pecca della Conoscenza Empatica che è orale, d’accordo… ma non c’è nulla che possa piegarli definitivamente, o darci un vantaggio per liberare Alex. La collana di Tatia… è potente, è intrisa di magia bianca, ma è instabile, come vi ha spiegato Dean, forse persino insufficiente a sciogliere l’assimilazione di Alex.  Senza contare che poi è un vantaggio trascurabile… abbiamo un solo desiderio. Tolto quello, se sbagliassimo o fosse manchevole il suo potere, il potere del ciondolo si esaurirebbe… inoltre, come credo che vi abbia già fatto capire… ammesso e non concesso che riuscissimo a trovare un modo per liberare Alex, che al momento non so immaginare… non elimineremmo il problema alla radice. I Karkaroff ci hanno già dimostrato che fuggire non serva a nulla… ci hanno messo cinque anni, ma sono tornati ed in una posizione di vantaggio… potreste vivere sempre con questo pensiero, ammesso e non concesso di liberare Alex? Potreste vivere con la paura che possano trovare voi e vostro figlio in qualsiasi momento?”, Helder fa una pausa sofferta, lunga, straziata, mentre quella domanda si ripercuote nella mia testa che insegue una risposta “… ma soprattutto per forza di cose… qui, non si tratta dei Karkaroff, potenti quanto lo si vogliano, ma umani, nonostante tutto… possiamo arrivare ad ingannarli, colpirli, ferirli, ucciderli. Potremmo metterci anche anni, ma forse… e dico forse ce la potremmo persino fare. Ma qui non sono loro il problema… ma Adamar. Mettiamo anche che assecondiate le richieste folli dei Karkaroff, pensiamo anche alla soluzione masochista di Hermione che si consegna a Dimitri, uccide Ilai Radcenko e libera Alex… pensiamo anche di fare una cosa del genere per prendere tempo, sebbene credo che per tutti sia una soluzione francamente assurda e nemmeno concepibile… come andrebbe a finire? Per tutta la vostra vita, finché Adamar esiste e sa che potreste invocare la Solutio damnationis, sarete sotto il suo controllo. Un controllo continuo, perenne… vi ha già dimostrato che può farlo. E lo farebbe anche senza i Karkaroff, ammesso che riuscissimo a farli fuori. E da lui non si scappa invece, ha troppi strumenti di controllo, troppo potere, troppa gente che condiziona… e noi Empatici non possiamo proteggervi. Basterebbe che Hermione ripensi a Draco, basterebbe che Draco ripensi a lei, basterebbe che Adamar percepisse un seme di quell’amore che può sconfiggerlo, basterebbe che cominci a temere per sé stesso e per il suo potere… per uccidere voi e vostro figlio, prima che abbiate il tempo di invocare la Solutio damnationis. Sarebbe… facile. Ad Adamar non piace condizionare le persone, evita di farlo… e non per scrupolo morale come gli Empatici… ma perché gli fa schifo, odia mescolarsi alle pulsioni umane.  Ma in una situazione d’emergenza… credete che non lo farebbe? Credete che non comanderebbe Dimitri di uccidere Hermione, sebbene lui nel suo modo malato la ami pure? Credete che non condizionerebbe Raissa a credere che Alex sia qualcosa di insopportabile, persino da lasciare vivo? E credete che non possa spingere una persona qualunque, magari un ladro, un rapinatore, un omicida che ha ottenuto qualcosa da lui…  ad uccidervi entrambi, solo perché passava vicino a voi?”.

Vicolo cieco: si può esprimere in un altro modo questa sensazione? Il cuore in gola, il sudore freddo, le palpitazioni e il soffocamento, come se mi stringessero la gola con un paio di mani ghiacciate ed incredibilmente forti. Non sono mai stata immune alla paura in questi anni e ho sempre saputo che cosa sia combatterla e vincerla, in virtù di un coraggio carminio e dorato che un cappello sdrucito, anni fa, scelse per me. Ho affrontato maghi oscuri tra i peggiori, ho battuto Mangiamorte dei più temibili, ho incontrato criminali efferati, provando il piacere sottile di infilarmi io stessa in situazioni che mettessero a dura prova la mia intelligenza e la mia forza: spesso la morte ha soffiato su di me, beffarda, gelida, ma sempre restando sufficientemente lontana per non ghermirmi. Voldemort, gli Horcrux, la maledizione della Luna nuova… sono stati un incubo. Mi sono trascinata fuori dalla guerra, con la consapevolezza di avercela fatta forse solo per fortuna, piuttosto che per vera abilità.

Però… avevo davanti sempre qualcuno da considerare il nemico, e nessuno, dietro di me, di cui essere scudo a costo della vita.

Adesso, invece, è tutto diverso: tutto deve essere setacciato dall’amore per mio figlio. Devo pensare a proteggere lui, a salvarlo. Anche quando dovessi cadere io stessa… deve essere il mio cadavere ad impedire che si faccia male. Ma soprattutto questa volta… non ho un nemico vero e proprio davanti. Ho un mostro a milioni di teste, che può raggiungermi in ogni modo, in ogni momento, con qualsiasi persona che mi scivoli accanto. E, netto eppure terrorizzante, comprendo che non c’è soluzione alcuna che mi preservi viva, che questa è una condanna a morte di cui posso scegliere solo il modo.

Ed il modo, per una come me, sarà sempre la Solutio damnationis. Inutile che pensi a scorciatoie o che insista per fuggire, o che mi incaponisca sul consegnarmi, o che ordisca inganni.

Ogni piano avrebbe un buco, un’incognita, una variabile pazza… che può uccidere Alex. La Solutio damnationis, nonostante tutto, sebbene metta me e Draco a rischio, dà maggiori garanzie che lui resti vivo.

Specie se riesco a strappare agli Empatici… che proteggano mio figlio, anche se dovessi fallire.

Chiudo gli occhi e respiro piano, a fondo, cercando di restare lucida. È questa… la sola strada.

Vicolo cieco.

Perché mi lascia un’impercettibile traccia di speranza, sufficiente a non farmi impazzire. Perché può salvare altre vite. Perché può rendere libero mio figlio, anche se non sia più con me.

… e perché, se dovesse andare tutto bene… saremo davvero liberi e per sempre. Mi ridaranno potere sulla mia vita. Niente più spiriti che mi manovrano, niente demoni che decidono quando devo restare incinta, niente sogni premonitori, niente fughe ed esili dalla mia vita, niente falsi nomi e matrimoni fasulli.

Mi riprenderò tutto… e ci fosse anche solo una possibilità su un miliardo di riuscirci… ci proverei sempre.

Sollevo il viso, già sapendo che cosa risponderò, già sapendo che cosa sto per dire, ma avendo a mente che, qui, adesso, non è soltanto una scelta mia. E’ anche sua, è anche di Draco.

La mia condanna a morte, se sarà la Solutio damnationis, vorrà dire… morire assieme a te.

Ed in un modo stupido, sciocco, insensato e maledettamente idiota… è forse l’unico modo in cui accetterei di morire.

Draco ha un’espressione che sembra fredda, distaccata, lontana anni luce: non ha nulla del mio viso arrossato, dei miei occhi accesi, delle mie spalle tremanti. Non ha niente che presagisca che abbia ascoltato qualcosa fino ad ora, sembra solo annoiato e stanco. Ed è così che appare a tutti, anche ad Helder, che quasi lo interroga impaziente con gli occhi, arsa dalla voglia di sapere che cosa abbia in mente. Quando parla, un debole singulto si insinua nella sua voce, rendendola tremula come il fuoco che si spegne agitato dal vento. E, allora, fulmineo, so che cosa ha deciso, so che cosa ha pensato.

So che una Grifondoro abbraccia il coraggio ed un Serpeverde sceglie la furbizia…  ma se amano, se sono genitori… sei di fronte ad una spiccia proprietà commutativa.

Cambiano i fattori… ma il risultato non cambia.

Avrà più paura di me, più ansia di uscirne vivo. Sarà più prudente, più sottile di me.

… ma la risposta è sempre quella.

Se la Solutio damnationis salverà nostro figlio… è la sola strada possibile.

Draco parla con la solita voce tagliente e sarcastica, sembra persino irriverente e scherzoso, ma, dentro, nella voce, scivola un’onda amara di rammarico e rimorso che le mie orecchie non possono ignorare e che mi fanno battere il cuore forte ed inumidire gli occhi.

“Allora, Empatica… mettiamo che io sia così voglioso di darmi alla Sindrome da Prescelto stile Potter…” mormora atono, gettando uno sguardo obliquo ad Harry che risponde con un’occhiataccia “Ammetterai anche che dopo il tuo cianciare da Cassandra profetessa di sventure, non siamo proprio così entusiasti di gettarci in un piano suicida, senza alcuna rassicurazione di successo e di previsione dei rischi… e se su di me e la Granger… che scommetto già entrata nell’assetto eroina…”, lo fulmino con lo sguardo, perfettamente ignorata, mentre Draco prosegue nervoso, trattenendosi dall’urlare di frustrazione: “… ci può anche stare che rassicurazioni non ne esistano, visto che dovremmo fare gli agnelli sacrificali di questo fottuto demone e del tuo clan di acrobati emotivi… credi che questo sia sufficiente a farmi scegliere di adempiere al tuo piano da fantasy di quinta categoria?!”. 

“Malfoy, la connessione con il tuo cervello putrefatto si è chiusa, ergo non posso più leggere i tuoi contorti pensieri… potresti essere lievemente più chiaro?”.

“Quello che lui vuole dire… con il suo parlare da primate…” lo prevengo io, con voce chiara e guardando Draco con tracce di rimprovero che lui ovviamente respinge al mittente, scrollando le spalle con noncuranza “… è che abbiamo bisogno di garanzie…”.

“Garanzie?” Helder continua a non capire di che assicurazioni abbiamo bisogno, se quelle riguardo a noi non ci possono essere date. Lo sguardo, invece, di Harry è evidentemente colmo di comprensione, così come quello di Natalie e quello di Ron. I primi due sono genitori, l’ultimo sa esattamente che cosa significa esserlo.

Tutti e tre sanno a che cosa sto alludendo. Se non ce la facciamo… se, come probabile, ci lasciamo le penne… Alex che fine fa?

“Sì, sto parlando proprio di garanzie, Helder…” commento con decisione, la voce ferma “Non farò nulla, di alcun tipo, non voglio nemmeno iniziare concretamente a pensarci… se non avrò delle certezze… riguardo ad Alex e a Serenity. Voglio delle garanzie per i nostri figli…”. Helder finalmente comprende e tace, meditando sulla risposta che deve darmi.

La guardo in attesa e, senza volerlo, i miei occhi si spostano su Draco, quasi a cercare l’assenso a quello che lui voleva dire poco fa e che, sono certa, dovrei aver interpretato al meglio. Quando mi rendo conto che la sua espressione è cambiata in modo impercettibile ma innegabile, mi rendo conto di che cosa ho detto. I nostri figli. Sgrano gli occhi meravigliata e mi stringo nelle spalle, mentre lo sguardo di Draco non mi lascia in pace. È la cosa più simile a quello che eravamo cinque anni fa, rispetto ad ogni sguardo che è intercorso tra noi da quando sono qui. Non c’è rabbia, non c’è ironia, non c’è dolore e non c’è nemmeno odio risentito. È lieve, leggero, sfumato di una morbidezza calda che mi fa sentire il respiro più facile. E mi fa persino pensare che ce la possiamo fare, adesso, ad uscirne fuori, mi fa persino pensare che, dentro, in fondo ci amiamo ancora e ci ameremo sempre. Draco piega la testa di lato, gli sfugge un sorriso sottile mentre scrolla il capo ed ancora mi guarda, ed è quasi uno sbuffo incredulo e stupito, meravigliato e attonito. Sorrido a mia volta, piano, timorosa, vergognandomi di come questo sorriso mi nasca incerto e di come mi nasca comunque, nonostante tutto.

Perché è incredibile che tu, adesso, ancora possa dubitare che consideri entrambi figli miei. Figli nostri.

Quello che ho messo nelle mie parole, e che a tutti è sfuggito, lui l’ha sentito perfettamente. Gli altri hanno semplicemente pensato che io parlassi di mio figlio e di sua figlia, e li unissi sotto l’aggettivo nostri.

Lui sa, l’ha letto nel mio imbarazzo schietto e nella mia consapevolezza istantanea, che io volevo invece dire mio e suo figlio, e mia e sua figlia.

In cinque anni, è la sola cosa che per me non è mai cambiata.

“Se dobbiamo arrivare a parlare di questo…” riprende Helder con energia, stiracchiandosi “Vuol dire anche che dobbiamo arrivare alla parte operativa della Solutio damnationis… a quello, cioè, che concretamente dovete fare voi… e noi tutti…”.

“Ecco, così magari mi passa il complesso del - non prescelto -… ed inizio ad avere un’utilità…” biascica Dean acido, incrociando meccanicamente le braccia.

“Mettiti in fila, Dean… io ce l’ho da Hogwarts, questo complesso…” risponde Ron, scoccando un’occhiata ad Harry che sbuffa, facendomi sorridere.

“… e comunque, tanto per chiarire…” riprende Dean, con espressione fintamente offesa e canzonatoria, guardando sia me che Draco “Non ho capito ancora di che garanzie abbiate bisogno…”, quando sto per ripetere nervosa ed esasperata che cosa voglio dire, e ciò che cosa dannazione succede ad Alex e Serenity se noi crepiamo nella Solutio damnationis, lui mi interrompe e dice stoico: “Nella malaugurata ipotesi che tutto vada male… pensate che lasceremo Serenity in mezzo ad una strada? Oppure lasceremo Alex prigioniero dei Karkaroff?”. Lo ripete con una voce talmente sicura e calma da non indurmi la benché minima rimostranza, anzi mi fa sentire quasi in colpa per aver fatto una domanda simile. Il suo tono è così convincente che nemmeno Draco replica nulla, nemmeno quando Dean prosegue: “Io e Pansy… siamo gli unici, qui, ad essere regolarmente sposati e a non avere una masnada di figli come Harry… se dovesse succedervi qualcosa, se non doveste tornare… e se a voi va bene, ad entrambi intendo… ci prenderemmo noi cura di Alex e Serenity… li cresceremmo come figli nostri…”.

È un attimo così forte, così potente che, senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovo ad asciugarmi di nascosto le lacrime dagli occhi, annuendo con vergogna. Ripenso alle riflessioni di ieri mattina, di come avessi notato la differenza tra i nostri figli e Charisma, di come avessi invidiato il modo leggero e spensierato in cui lei è stata cresciuta.

Non ci sarebbe soluzione migliore, se Alex dovesse restare solo.

Dean è un ottimo padre: è comprensivo, paziente, giocherellone. Renderebbe la mia perdita più tollerabile per mio figlio. E Pansy è sufficientemente aspra e sarcastica, da pungolarlo pur di farlo reagire. Avrebbe Charisma vicino, che vede già come una sorella, e ciò lo spingerebbe ad accettare meglio anche Serenity. Inoltre, alla nostra morte, loro dovrebbero essere al sicuro. Adamar, ormai, non dovrebbe avere nessun interesse a perseguitare Alex e la sua nuova famiglia. Non sono pensieri piacevoli, non lo sono affatto, specie perché si accompagnano all’ansia e all’angoscia che potrei morire senza aver rivisto e senza aver di nuovo parlato con il mio bambino. È questo che mi fa sentire maggiormente condannata, è questo che d’improvviso mi provoca un’angoscia tale che vorrei solamente scappare e correre via, codarda ma salva. Il pensiero di non poterlo vedere crescere, innamorarsi e vivere la sua vita… andarmene, senza nemmeno provare ad immaginare che cosa diventeranno il suo viso, i suoi occhi, i suoi gesti, quando non sarà più così piccolo. Forse, potrei non esserci quando andrà a scuola per la prima volta. Forse, potrei non esserci quando insisterà per andare a studiare con un’amichetta. Forse, potrei non esserci quando andrà ad Hogwarts. Forse, potrei non esserci quando si farà la barba per la prima volta, o quando vorrà imparare a farsi da solo il nodo della cravatta, o quando non capirà un compito di Pozioni e si lambiccherà il cervello per venirne a capo. Senza di me, senza me. E senza neanche Draco. E lui… neanche lo conosce suo figlio.

È quel pensiero che mi sospinge coraggio nei polmoni.

Draco.

Ricordarmi che non conosce suo figlio per colpa di Adamar e dei Karkaroff. Ricordarmi che, nonostante tutto, voglio disperatamente che questa catena di sudditanza a forze più grandi di me, di noi, si interrompa adesso, fosse anche con la mia morte. Ricordarmi che io, prima di morire, ho dei ricordi di Alex e persino di Serenity da portarmi appresso. Lui, di nostro figlio, non ha nulla. Eppure è lì, fermo, saldo, con solo una patina negli occhi, ad affrontare questa cosa assieme a me. A me che, comunque la si metta, gli ho fatto così male. Ricambiata, certo.

Ma sempre più fortunata di lui, sempre.

Annuisco finalmente a Dean, senza dire altro. Era una speranza che non avrei nemmeno osato concepire, ma sono così grata loro che, adesso, con questo pensiero mi sento persino più spinta ad affrontare la Solutio damnationis. Al cenno di assenso silente di Draco, che, senza eccessive parole, dà anche lui il suo consenso, ci accordiamo in modo rapido e fulmineo sulla possibilità di firmare dei documenti per la loro custodia, prima di affrontare Adamar. Harry dice che garantirà lui, naturalmente, impegnandosi al contempo per far sì che i Greengrass continuino a non sapere nulla di Serenity stessa, cosa che viene accolta da Draco con sollievo malcelato. Nessuno, neanche Ron, ha da dire nulla sulla soluzione, Kevin promette che, in quel caso, lui e Seth daranno una mano a Pansy e Dean. L’unico che sembra contrariato, è Zabini che, come ho precisato, non è stato molto collaborativo fino ad ora. Se n’è rimasto seduto sui gradini del gazebo, dandoci volutamente le spalle. Solo quando sente questa questione, volta lievemente il capo, incrociando lo sguardo duro di agata di Dean. Ma, comprendo subito, i miei figli non c’entrano niente. E’ facile capire che cosa lo abbia fatto reagire.

L’allusione a Pansy e Dean, al loro matrimonio. Non lo accetterà mai.

“Mi pare ovvio che, durante la Solutio damnationis, Serenity sarà fuori da ogni pericolo…” riprende Helder, la voce più incrinata rispetto a prima “Probabilmente sarà il caso che restino con lei Pansy e Seth, se siete d’accordo… nel suo attuale stato, Pansy è meglio che stia del tutto fuori dalla vicenda. Non voglio che si prenda dei rischi insensati a carico della bambina che porta in grembo…”, Dean annuisce grato con un lieve sorriso ed ancora una volta Blaise si irrigidisce, ma stavolta non si volta, restando ostinatamente di spalle “E riguardo a Seth, insomma, ammetterete che è la soluzione migliore per intrattenere i bambini…”. Stavolta è Kevin ad annuire con un sorriso, gli occhi blu colmi di luce.

“… per quanto riguarda Alex… probabilmente, se voi…”, Helder esita e lascia in sospeso la frase, confermando naturalmente che, con me e Draco morti, Alex non corre nessun pericolo “Insomma, se la Solutio damnationis, finisce male… i Karkaroff non dovrebbero avere più interesse in lui… e riguardo ai tempi della Solutio damnationis e a come arginare il pericolo dell’assimilazione definitiva con Dimitri, ho un paio di idee… ma a questo punto sarà meglio che vi dica per filo e per segno come ho intenzione di agire, sempre se voi siete d’accordo, così da spiegare anche il compito di tutti gli altri…

“Come potete immaginare sulla Solutio damnationis non abbiamo certezze o conoscenze, i soli che l’hanno subita sono morti durante la prova, quindi non si può sapere né quanto duri, né in che cosa consista. Potrebbe durare secondi, come potrebbe durare settimane intere. Sappiamo, però, che ha delle conseguenze negative, qualora inizi ad andare male. Viene liberata energia malvagia in forma di sentimenti malevoli, a causa della corruzione che Adamar cerca di portare sul sentimento puro, indipendentemente dal fatto che lui rispetti o meno le modalità della prova. Naturalmente, questo è un rischio che non possiamo correre, nessuno può farlo… se anche la prova finisse bene, la liberazione di queste ondate di negatività comporterebbe degli sconvolgimenti mondiali, che potrebbero durare anni. Ed è qui che intervengono i maghi e le streghe che ho convocato, e che spero arriveranno ancora. Il principio è creare una barriera magica attorno al luogo della Solutio damnationis, quanto più grande possibile, così che i sentimenti negativi non possano diffondersi… e non è complicata da realizzare, se si hanno molti maghi e streghe a disposizione. Vi ho anticipato che i Dissennatori sono una creazione di Adamar, delle sue emanazioni che hanno un potere molto simile a lui… il rimedio ad essi è il Patronus ovviamente, che dà forma a sentimenti positivi in grado di contrastare il male. Adottando questa logica, possiamo pensare di conseguenza che una barriera di Patronus possa ovviare alle conseguenze della Solutio damnationis, preservando la popolazione innocente. Tanto più saranno i maghi e le streghe… tanto più la barriera sarà potente. Ed è a questo che servirete voi…”.

Quando finalmente il compito dei miei amici viene chiarito, mi rassicuro ancora: non si tratta di nulla di pericoloso, o difficile da realizzare. Tutti sembrano disponibili a tale compito che si rivela, rispetto a quello che aspetta me e Draco, comunque più facile del previsto. Naturalmente è sempre meglio che Pansy ne resti fuori a causa della gravidanza, ma per gli altri non ci dovrebbero essere rischi.

“Ovviamente una tale barriera non è propriamente discreta ed invisibile… e comunque qualcosa potrebbe filtrare fuori…” prosegue Helder con compostezza, incrociando le mani sulle ginocchia “Una strega ed un mago potrebbero anche difendersi… ma un babbano no. Per questo è necessario un cordone di sicurezza per i babbani. È per questo che ho chiesto a Kevin di venire qui, è un poliziotto, conosce le procedure, dovrebbe essere più semplice per lui convincere le forze dell’ordine che ci sia un allarme bomba o qualcosa del genere… Harry poteva contattare il Ministro babbano… ma i tempi si sarebbero allungati troppo, ed abbiamo invece poco tempo…”, anche questo finalmente diventa chiaro, facendomi meravigliare di come Helder sia riuscita a mettere assieme tutti i nostri talenti e le forze che possediamo. Io, così abituata a fare sempre tutto da sola, probabilmente non ci avrei nemmeno pensato. Lei, invece, che fa della capacità di pensare a tutti il suo potere, ha ovviamente arginato ogni possibilità che le cose vadano male. Kevin, naturalmente, annuisce convinto, dicendo che non dovrebbe avere problemi eccessivi.

“Di tempo ne abbiamo davvero pochissimo…” continua Helder, con voce affrettata ed affannosa “Domani sera scade l’ultimatum di Karkaroff: alla luna piena l’assimilazione di Alex sarà completa. Inoltre, dobbiamo stringere i tempi per sfruttare l’effetto sorpresa ed impedire che Adamar capisca che volete provare la Solutio damnationis… meno preparato è, più possibilità avrete di farcela…”.

“Tecnicamente, però, noi non sappiamo nemmeno dove siano…” obietto con un filo di voce “Come facciamo a sorprenderli?”.

“Per quello… per trovarli, intendo… credo che ci sia il ciondolo di Tatia…” sorride incoraggiante Helder, facendo un cenno verso la goccia d’ambra che mi brilla al collo “Hai un solo desiderio, no? Il desiderio di una madre per un figlio… chiedili semplicemente di trovare tuo figlio. Probabilmente Raissa e Dimitri sono nascosti dalla Titanca… e forse l’hanno fatta prendere anche ad Alex, così che gli Empatici non lo trovino, anche se si avvicinassero a lui. Ma non dovrebbe essere complesso e neanche equivoco per il potere del ciondolo chiedergli di rintracciare tuo figlio…”.

Hai già tutto quello che serve, Hermione Granger… hai sempre avuto tutto, Hermione Granger. Solo che non lo sai, non l’hai mai saputo. Anche stavolta sarà così…

Tatia aveva già cercato di dirmi tutto, in quel sogno. Persino del ciondolo, quando mi aveva ammonito di non toglierlo.

Lo avevo scambiato per un’arma, ed invece era solo un pezzetto di questo intricato piano.

“Attaccando all’alba, avremo un ragionevole lasso di tempo, prima che Dimitri completi l’assimilazione…” la voce di Helder assume un colore più scuro, come se d’improvviso, dopo tutto quello che ci ha detto, fosse più esitante nel proseguire “Ha bisogno della luna piena per completarla. E, certo, non sappiamo quanto la prova possa durare, ma dovremmo avere tempo prima che l’assimilazione di Alex sia completa. E, se si dovesse protrarre oltre… ho anche il modo per impedire che la completi…”.

“Come?” chiedo, con una strana fitta d’angoscia. Strana sì, perché non è che fino ad ora, siamo propri stati nel racconto di un’allegra scampagnata al mare. E c’è l’altissima possibilità che tutto vada verso la mia prematura scomparsa, visto che io e Draco non ci fidiamo nemmeno l’una dell’altro e non sappiamo nemmeno fino a che punto ci amiamo davvero o sia solo un ricordo intriso di rimpianto... quindi non è che mi incammino verso la Solutio damnationis e verso questo piano, colma di fiducia e speranza. Eppure, Helder, che è stata sempre chiara fino ad ora e poco incline a farci illudere, adesso sembra improvvisamente titubante e restia a parlare. E capisco subito che ciò che deve impedire il completamento dell’assimilazione, non dipende da me o da Draco, probabilmente già morti o in procinto di morire o ancora impegnati in questa prova dannata… dipende da qualcun altro, a cui sta per affibbiare il compito più pericoloso, dopo quello che darà a me e Draco.

E, con un brivido, prima ancora che parli, so perfettamente a chi lo darà.

“Se dobbiamo ingannare Adamar… dobbiamo ingannare anche Raissa e Dimitri…” comincia Helder, la sua voce è flebile e sottile “Non devono sospettare nulla, né notare nulla di strano in voi che li faccia presagire qualcosa di strano… quindi deve sembrare che siate giunti ad adempiere alle loro richieste. Sarete distrutti dall’odio e dal rancore, probabilmente dovremmo anche inscenare che sia Draco a voler consegnare Hermione. Ma soprattutto…”.

“… soprattutto… io devo essere morto, no?” completa Ilai, dando voce a tutti i miei sospetti. Le mie mani iniziano a tremare prima ancora che me ne renda conto, e faccio ogni sforzo possibile per simulare tranquillità e freddezza, dato che sono sempre di fronte a Draco e a Ron, e non mi pare il caso di trasformare questo momento in un teen-drama, dove devo dimostrare a chi tengo di più. Riesco a fingere un’ombrosa calma, perché sono naturalmente sicura che Helder non può proporre davvero di uccidere Ilai. Eppure, la pelle sudata del suo volto ed il fatto che i suoi occhi dardeggiano continuamente nei miei, come a cercare assenso a quello che sta per fare, mi fanno sentire inquieta e nervosa.

“Sì…” annuisce lei pensosamente, guardandolo “I Karkaroff si aspettano il tuo cadavere. Quindi vederti morto… porterebbe decisamente meno attenzione da parte loro a Draco ed Hermione…”.

Ok, adesso arriva la parte dove dice come si finge la morte, in un modo ancora sconosciuto.

“Devi, però, sapere che quello che ti sto per proporre, Radcenko…” Helder respira a fondo, con calma, come se si volesse rassicurare da sola, cosa che porta ulteriormente me a sentirmi andare a fuoco dall’angoscia “… non è stato mai provato prima… quindi c’è l’altissima possibilità che tu non ne esca vivo sul serio…”. Mi muovo ancora sulla sedia, innervosita, tormentata, agitata: non posso sopportare che lui rischi la vita per me, non esiste. Tatia... le ho promesso che sarebbe stato al sicuro, che non gli sarebbe successo nulla. Se io e Draco rischiamo la vita… è diverso. Siamo uniti da questa circostanza, siamo uniti come genitori… abbiamo un legame che presuppone anche questo. Ma Ilai è qui, per caso, per una fatalità che lo ha portato qui. Non posso permettere che rischi anche lui, che rischi uno solo dei miei amici in questa storia. E sto odiando decisamente Helder anche solo per proporlo. Perché lui accetterà, già lo so. Non si tirerà indietro, non lo farà. Ed è infatti quello che succede.

Ilai, la mascella serrata, gli occhi tersi, risponde ad Helder, ma puntando dritto gli occhi nei miei, come se a me in realtà che stesse parlando. Ha la voce tenue ma sicura, quando dice: “Non mi terreste fuori nemmeno volendo… quello di cui c’è bisogno… io lo farò…”.

“Stai scherzando, vero?!” chiedo d’improvviso, non riuscendomi più a trattenere, sebbene sia perfettamente conscia che, così, ho attirato l’attenzione tanto di Ron che degli altri, quanto di Draco. Stringendo i pugni, lo guardo assolutamente sconvolta, con il fiato corto e il viso rosso: “Io… non ti permetterò di rischiare la vita per me…”.

“Qua rischiamo tutti la vita, Granger, o non hai capito la parte sul fatto che ci potremo lasciare le penne?!” interviene Draco, con voce affannata e spezzata, guardandomi dall’alto in basso come se volesse fulminarmi “Non vedo perché Radcenko non debba dimostrare la sua grandiosa utilità…”. Gli lancio un’occhiata infastidita, prima di replicare a suoni mozzicati: “Perché… in questa storia ci siamo dentro io e te e basta… io e te siamo i genitori di Alex, io e te abbiamo fatto scattare questa dannata cosa con Adamar… ed io e te la dobbiamo finire! Nessuno deve finirci in mezzo, tantomeno lui…”.

“Ah siamo a questo… Radcenko è degradato a terzo incomodo?” sibila freddamente Draco, fraintendendo volutamente il senso delle mie parole e pungolandomi sarcastico, prima di rivolgersi con scherno a lui: “Scusa amico… ma la Granger è una donna molto volubile… solo io resto immutato destinatario del suo amore…”. Lo dice con un tono talmente tronfio, spavaldo e convinto, che vorrei davvero prenderlo a pugni, cosa che si palesa fastidiosamente prossima, quando irride anche Ron: “Immagina tu, quindi, di quanto sei retrocesso…”.

“Malfoy, dobbiamo ripetere la meravigliosa scenetta della calma indotta?!” lo minaccia Helder, come farebbe con un moccioso dell’asilo che sta facendo i capricci, salvandolo dalla possibilità che la calma gliela faccia venire io attraverso il rigor mortis dopo averlo fatto trapassare, poi con il medesimo tono si rivolge a me, guardandomi storto: “Radcenko ha il diritto di decidere e di ascoltare la mia proposta, come avete fatto voi… dopo, quando sarò andata a recuperare la mia sanità mentale a seguito di quest’estenuante conversazione, sarai libera di fare a lui le tue rimostranze e di inventarti un altro modo di agire…”. Taccio nervosa, incrociando le braccia con sussiego, ripromettendomi che la questione è solo rimandata e che troverò un altro modo di muoverci e che non implichi mettere a rischio Ilai.

La mia reazione, naturalmente, non passa indifferente e sotto silenzio: mi rendo conto subito che, adesso, improvvisamente Ron si è accorto di Ilai, lo squadra dalla testa ai piedi, probabilmente chiedendosi che cosa nasconda quello che, fino a poco fa, immaginava essere solo il vedovo di Tatia Krasova. Harry, a sua volta, lo fissa con la coda dell’occhio e con il tipico sguardo da raccoglitore di particolari da riferire a Ginny. Ho lasciato naturalmente intendere che ci sia qualcosa tra me e lui… e le parole di Draco hanno fatto il resto. Se alla mia preoccupazione potevano obiettare che era una cosa normale e che avrei fatto, ovviamente, lo stesso per chiunque altro, adesso un sottotesto di sospetto si è insinuato in loro.

Se Draco Malfoy per una volta mi rendesse le cose più semplici invece che più complesse, quel giorno sarebbe festa nazionale in tutti e cinque i continenti.

“Dimitri ha bisogno della luce della luna piena per completare l’incantesimo di assimilazione di Alex, è una formula che ho studiato anni fa…” riprende Helder, massaggiandosi le tempie “Ovviamente è una formula in possesso degli Indicibili, per quello la conosco… e Dimitri la conosce, perché è scritta, quindi naturalmente è nella sua memoria… la luna piena sorgerà domani sera, quindi per quello vi ha dato tale ultimatum… ma noi abbiamo intenzione di attaccare all’alba. Però, non sappiamo quanto la Solutio damnationis duri…  e, del resto, non sappiamo che livelli di difesa abbia instaurato Dimitri… potrebbe esserci proibito l’accesso, tranne che a voi… e al cadavere di Ilai Radcenko, naturalmente… è sostanzialmente cogliere due piccioni con una fava: non far insospettire i Karkaroff, consegnandogli appunto il corpo di Ilai, e dall’altra parte avere un basista, una sorta di cavallo di Troia, quando voi sarete impegnati con la Solutio damnationis… il metodo per creare queste condizioni è qualcosa di intentato, stupido e rischioso… perché in realtà… non si tratta di simulare un decesso… ma di ammazzarti sul serio, Ilai…”.

Ovviamente sbianco, aggrappandomi alla sedia e sporgendomi come se stessi vincolata ad ogni parola di Helder, solo per impedire di soffocare, come se fosse il solo ossigeno rimasto. Non può stare proponendo sul serio… di ucciderlo. Ilai, calmo come sempre, si schiarisce semplicemente la voce che reca comunque una traccia di esitazione, mentre si dichiara disposto a conoscere questo metodo, esortando Helder a parlare.

“E’ complicato da spiegare, cercherò di farla semplice con un esempio…” riprende Helder con voce netta, gesticolando con attenzione “Conoscete il trasferimento di chiamata?”, non riuscendo a capire dove diamine stia andando a parare questo discorso assurdo, annuisco con il capo assieme agli altri.

“E’ un servizio offerto da tutti i principali gestori di telefonia che permette di deviare le chiamate che si ricevono su un dato numero verso un altro, qualora il primo sia occupato o non disponibile. Al momento, Hermione e Draco, per gli Empatici, sono come due telefoni muti o occupati. La connessione stabilita dal Segno di Fuoco esiste ancora naturalmente… ma con la Titanca ne abbiamo eliminato gli effetti. E quindi, se mi concentro su di loro… arrivo a loro, ecco, ma non li sento. È come appunto fare una chiamata, ad un numero a cui nessuno risponde… fino a quando la chiamata non viene deviata. E ti risponde qualcuno che, invece, non ha la Titanca nel suo corpo… ed è perfettamente sensibile all’Empatia. Non si può deviare questa connessione con una persona qualunque… non posso, che ne so, stabilirla con Dean o con Ron… ma con Ilai questo può riuscire… perché lui ed Hermione sono… legati, ecco…”.

“Che diamine significa che sono legati, Empatica?!” l’interrompe nervosamente Draco, staccandosi dalla colonna su cui era appoggiato.

Arrossisco, abbassando lo sguardo, questa giornata, probabilmente l’ultima della mia vita, sarà anche ricordata come la giornata più dannatamente frustrante ed imbarazzante della mia esistenza.

La sensazione di conoscere una persona da sempre…” prosegue Helder, guardando me ed Ilai, io rifiuto anche solo di prendere in considerazione il pensiero di alzare di poco lo sguardo “L’ho sentita in Hermione, quando avevo accesso ai suoi pensieri… empaticamente si chiama Assonanza alchemica. È all’origine dei più diversi rapporti umani, Assonanti alchemici possono essere amici del cuore, fratelli e sorelle, padri e figli, mariti e moglie, innamorati divisi… per sempre si sentiranno meglio di qualsiasi altra persona al mondo. Si parla di sensazioni appunto, poi sta nella vita della persona far fruttificare o meno un’Assonanza… considerando che spesso non avere schermi, né barriere con un’altra persona, può anche essere una cosa sommamente sgradita, e per altri invece infinitamente desiderabile. Comunque, tornando a noi, l’Assonanza è anche una condizione magica, che consente maggiori capacità nella Legilimanzia, nella Telepatia… e difatti Hermione ed Ilai hanno combattuto contro Dimitri, sfruttando inconsciamente questo meccanismo… esistendo quest’Assonanza è possibile deviare appunto la connessione di Hermione con gli Empatici su Ilai… sarebbe quindi collegato a noi. E questo collegamento è biunivoco, lo è sempre stato… solo che ovviamente Draco ed Hermione non se ne sono accorti, o non hanno fatto in tempo ad accorgersene… aprendo la connessione con Ilai, potremmo trasmettergli mentalmente tutto ciò di cui ha bisogno… in particolar modo, se la Solutio damnationis si protraesse ed arrivasse la notte. Esistono duecentottanta cinque incantesimi, settecento nove pozioni e cinquantadue rimedi babbani, per nascondere la luna ed impedire così l’assimilazione. Gli Empatici, come parte dell’accordo se doveste accettare la Solutio damnationis, si impegnano a liberare ad ogni costo vostro figlio. E quindi stanno studiando i rimedi contro la luna, proprio in questo momento… Dimitri conoscerà anche il modo di contrastarli, tutti fino all’ultimo. Ma il modo di fargli perdere tempo per l’intera notte, lo troviamo. E dovessimo andare oltre la notte… Ilai sarebbe sempre lì, a studiare la situazione con i suoi occhi… elaboreremmo in divenire un’altra strategia, passo dopo passo, fosse anche quella di irrompere in forze nel luogo dove sono nascosti… morirò io stessa, pur di portare Alex in salvo, quando ormai non sarà assimilato a Dimitri… ma, e qui arriviamo alla parte peggiore… Ilai potrà entrare in quel luogo, solo se morto. E con morto… si intende morto sul serio, non esistono trucchi con Dimitri e Raissa che non conoscano per poter simulare la sua dipartita… quindi dobbiamo sfruttare la connessione con gli Empatici, il loro sapere è la sola pecca dei Karkaroff… non esiste nulla, però, di Empatico che abbia un effetto di simulazione di tale tipo. Tranne appunto… ucciderti sul serio…”, finalmente sollevo gli occhi guardando Helder ancora più sbigottita, un eco dello sguardo di Draco resta su di me, laconico ed assente, ma cerco a fatica di ignorarlo. Ilai, in tutto questo, resta pacato, chiedendo ad Helder di proseguire.

“Il corpo fa ciò che la mente comanda, ciò che il cuore comanda…” spiega lei con pazienza incerta “Mediante la connessione aperta, sarà possibile modulare la gamma delle tue emozioni, fino ad indurti stati di sofferenza, di dolore, di disperazione, di angoscia, in proporzione tale… da mandarti in arresto cardiaco. Alternando poi queste sensazioni ad alcune più positive, che avranno l’effetto di renderti tachicardico, dovremmo riuscire a mantenerti ad un ritmo vitale molto basso, in modo da far sì che tu non muoia… ma, attraverso i tuoi occhi, vedremo quando i Karkaroff saranno vicini a te o ausculteranno il tuo cuore… ed allora ti indurremo l’arresto cardiaco. Almeno fino a quando Hermione e Draco avranno invocato la Solutio damnationis… dopo… ripristineremo il tuo battito normale ed il naturale corso delle tue sensazioni. Cercheremo naturalmente di non tenerti in arresto cardiaco oltre i quattro minuti, che sono il tetto massimo per non avere danni irreversibili… ma… il tuo cuore… potrebbe non farcela comunque… potrebbe non resistere a questo sovraccarico di emozioni, come non potrebbe resistere a questi ritmi forsennati. Ti alleneremo, certo, a sopportarlo, ma dipende dalla forza del tuo organismo… e tu… potresti morire sul serio, Ilai…”.

Se il discorso su me e Draco, sulla leggenda millenaria che ci unisce, sulla Solutio damnationis e sullo scontro con Adamar, mi è sembrato quasi folcloristico ma, dopo tante vicissitudini, quasi impossibile da non prendere in considerazione come vero, la parte su Ilai, per quanto me la ripeta nel cervello, è semplicemente assurda. E non riesco nemmeno a guardare Helder, senza pensare che non doveva nemmeno sognarsi di proporla, specie sfruttando questa specie di legame incomprensibile che abbiamo. Se morisse… se gli accadesse… probabilmente lo sentirei dentro, come se stesse accadendo a me.

Ha detto che è un crimine controllare le emozioni altrui, e con lui vorrebbero farlo, al punto da mandarlo avanti ed indietro dalla morte? È carne da macello fino a questo punto? Lo siamo tutti, fino a questo punto? Io e Draco… posso accettarlo, posso accettare di essere una semplice marionetta. Lo facciamo per nostro figlio. Perché dovrebbe farlo Ilai? Che cosa c’entra lui?

Se Ilai affronta da solo i Karkaroff… muore. Con un singulto interno, mi ricordo delle parole di Tatia, della sua lettera: ecco che voleva dire. Ilai morirà, se affronterà i Karkaroff, accadrà sul serio.

La sola incognita è se tornerà indietro.

Non posso permetterglielo, semplicemente non posso.

Sto già per aprire bocca, urlando tutto il mio disgusto e sdegno, incurante di chi mi circonda, quando Ilai si alza in piedi e risponde sicuro ad Helder, ma senza smettere un secondo di guardare me. Intercetto per un attimo gli occhi di Draco, fissi di acciaio su di me, ma cerco di non farmene distrarre.

“Se è il solo modo concreto di aiutare Alex…” risponde quieto e serio Ilai, non una singola esitazione nella voce “… lo farò. Qualsiasi tipo di rischio vale la salvezza di quel bambino, specie se la Solutio damnationis va male. In questa storia… sono in debito… e questo è il minimo che io possa fare… mi allenerai a sopportarlo, Helder…”.

Ilai non aggiunge altro, si alza e va via, lasciandomi con un senso di amaro in bocca che non riesco a mandare via. Tutto questo… è sbagliato. È sbagliato, maledizione.

Mi riprometto di parlare con lui, mi riprometto di fermarlo, mi riprometto di trovare un altro modo…

… eppure quando Helder mi chiede, alla fine, se proverò davvero la Solutio damnationis… quando lo chiede anche a Draco…

Entrambi diciamo di sì.

 

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Capitolo 43
*** The ballad of silver linings part 1 ***


Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatia non voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente e psicologicamente, minando forse per sempre la fiducia nei confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis.

 

Capitolo 43 – The ballad of silver linings part 1

 

Questo potrebbe essere l’ultimo tramonto che vedo.

Un pensiero del genere potrebbe uccidere prima ancora che lo faccia qualcos’altro. Lo so. È la prima regola della sopravvivenza: non trastullarti in dettagli romantici e melensi su quello che stai perdendo, o potresti perdere sul serio tutto. Affrontare la morte non richiede paura se non nella dose necessaria a diventare coraggio.

E c’è un punto di equilibrio, un punto morbido e nascosto, dove si deve restare assolutamente immoti e fermi per poterne trarre forza. È il punto dove hai un piede nella rievocazione nostalgica di ciò che stai lasciando alle spalle e che non puoi mai dimenticare, altrimenti diventeresti incosciente ed affronteresti il pericolo senza la necessaria premeditazione; ed un piede invece nel distacco cinico, nella dimenticanza di ciò che ti circonda, e dove ne trai freddezza e spavalderia. Devi salutare il mondo, come se fossi già fiero e soddisfatto di ciò che ti ha dato.

Come se questo fosse davvero possibile.

Quando diventai Auror mi dissero che, se non riuscivo a trovare quel benedetto punto di equilibrio, l’isolamento sarebbe stata la cosa migliore. Stando soli, difficilmente i sentimenti di rimpianto e ricordo filtrano in modo così mortificante da farti mancare la forza. La gelida determinazione che, invece, trai dalla solitudine, non può essere scalfita facilmente.

E così io, schiacciata, piegata e sconfitta dal turbinio di una vita ancora giovane ed irrisolta a cui devo rassegnarmi a dire un ben probabile addio, mi sono arrampicata sul tetto per restare da sola, per recuperare lucidità e logica, per infondermi una forza benigna che ancora non provo al pensiero di affrontare Adamar e, realisticamente, non tornarne viva.

Ad occhi chiusi, seduta sulle tegole del tetto, le ginocchia abbracciate al petto, ho potuto ignorare per ben un’ora le volute argentee dei fumi dei vari Patronus che salivano in cielo, mentre la gente nel giardino, corsa ad aiutarci in questa missione suicida, si esercitava nell’incanto che dovrebbe tenere a freno il potere negativo di Adamar.

Le voci erano anch’esse facili da ignorare: si trattava di squillanti saluti e moti repressi a stento di ilarità, frutto di incontri che probabilmente non avvenivano da anni. Io stessa ho rivisto persone che, davvero, non credevo che ancora si ricordassero di me e ci tenessero alla mia persona. Seamus, Calì, Neville, Luna, i fratelli Weasley, ma anche Hannah Abbott, Cho Chang, Penelope Light, Terry Steeval. Ognuno mi ha accolto con gioia e sollievo, dichiarandosi felice di mettersi a mia completa disposizione per salvare mio figlio.

Nessuno di loro sa di preciso che cosa stia accadendo, Helder dice che è meglio che la questione della Solutio damnationis resti solo nostra, affinché nulla trapeli troppo e giunga eventualmente ad Adamar: per questo, lei stessa controlla scrupolosamente la gente che entra in casa e che Ginny continua ad arruolare, verificando che non siano anch’esse persone controllate da Adamar.

I miei ex compagni ed amici sanno quindi di dover lottare contro un nemico, di cui non possono sapere molto per motivi di sicurezza: ma non se ne dolgono granché. C’è ben altro di cui poter conversare, appestando l’aria di brusii e motti di sorpresa. In poche parole e qualche rapida occhiata, buona parte del mondo magico, avvezza da anni ormai all’ignoranza e alla dimenticanza su di me e Draco Malfoy, ha scoperto che non solo lui è vivo, ma ha avuto una relazione a dir poco improbabile con la sottoscritta e da cui è nato un bambino di nome Alex.

E questo basterebbe a metterci sulle copertine di ogni giornale per mesi.

Che abbia di meglio a cui pensare adesso, non significa, però, che possa sopportare le lunghe occhiate che mi vengono riservate tra un saluto e l’altro, tra un abbraccio e l’altro, tra un bacio e l’altro, infarciti spesso di commenti mozzicati e risate che contribuiscono a rabbuiarmi: tutto questo, peraltro, devo sopportarlo da sola, dato che di Serpeverde tornati ce ne sono davvero pochi, quindi Draco non ha alcuna occasione di doversi intrattenere in civili convenevoli. Anzi, si è chiuso nella sua camera e preferisce starsene per i fatti suoi, e non posso nemmeno rimproverarlo o ingiungergli di collaborare, dato che, per questa prova di Adamar, non può esserci alcun genere di preparazione. Preparazione che, invece, sta affrontando Ilai che, dopo le spiegazioni di Helder, è stato prelevato da un paio di Empatici prima ancora che io potessi fare tutte le mie rimostranze al pericoloso piano che lo riguarda. A questo si aggiunge la delicata faccenda tra Pansy, Blaise e Dean, che provoca scintille elettriche percettibili in ogni parte della casa: Seth, Natalie e i bambini vengono quindi usati come comodi parafulmine, per impedire che quei tre restino da soli a scannarsi. Harry, assieme a Ron, ovviamente si sta dando ad una sorta di controllo generale di tutto e tutti, cosa che secondo me gli ricorda enormemente le riunioni dell’ES, riempiendolo di sollievo cauto. E Kevin è andato via per organizzare la parte del piano che gli compete.

Ed io, dunque, alla fine ho preso esempio da Malfoy: starmene per i fatti miei era la cosa migliore. Sono apparentemente priva di occupazione, se non quella di impensierirmi per il mio bambino e angosciarmi saltuariamente per quello che accadrà se non dovessi farcela. Il tetto, quindi, come sempre, è stato per me il ricovero ideale: starmene in pace, sopra tutto e tutti, ad ignorare il conto alla rovescia del mio sangue che scorre verso la fine. Il segnale della fine, in fondo, è difficile da ignorare o da dimenticare: è l’alba, Helder ha detto che ci muoveremo appena trascorsa questa notte.

Una notte insonne, naturalmente: quindi non è che c’è pericolo che non mi accorga di quando arrivi il momento, dormendo troppo.

Mentre il sole descriveva la sua curva luminosa nel cielo, richiamato dietro l’orizzonte, mi sono ricordata della lezione di autocontrollo del mio maestro ai tempi del corso per Auror. Ho chiuso gli occhi, cercando di concentrarmi e di ignorare ogni spinta al rammarico, al terrore o al ricordo che provenisse dalla mia mente e dal mio cuore; ma, dentro di me, qualcosa emergeva sempre più forte, sempre più incontrollabile, sempre più travolgente, finché mi ha aperto gli occhi nella luce del tramonto, rendendo i miei occhi specchi lucidi color rubino.

Mi accorgo che le mie mani mi tremano, che il mio cuore batte più forte e che il respiro arranca, e capisco che quel punto di equilibrio non lo troverò mai.

Perché posso accettare che questo sia il mio ultimo giorno sulla Terra. Posso accettare che ci sia ancora tanto che io voglia fare e che non farò. Posso accettare di dire addio a tutti. E posso persino accettare di non rivedere più il mio bambino, purché con la mia morte io lo liberi e lo salvi, affidandolo a mani amiche che veglino su di lui al posto mio.

Ma c’è una cosa che non riesco ad accettare. Una sola, in cui si perpetua l’esistenza stessa del mio fallimento.

Del nostro fallimento.

L’ultimo giorno su questa Terra, io lo passo lontana dall’uomo che forse non ho mai smesso di amare.

Lo passo, sola, su un tetto a guardare il sole che muore. Lui lo passa, solo, in una stanza a guardare sé stesso che muore.

Non siamo in grado di starci vicini nemmeno adesso che, forse, è la fine. E così facendo, la stiamo davvero scrivendo la nostra fine: perché solo sorreggendoci, solo recuperando l’amore che abbiamo, possiamo vincere e tornare. Invece, a tutti e due è venuto naturale e scontato stare da soli. Non c’è più nulla che ci riporti indietro, l’uno nell’altra, se non nostro figlio.

E questo, nella prova contro Adamar, può significare soltanto e davvero che ci distruggerà.

Vincerebbe un amore puro, disinteressato, sgombro, pulito, senza dubbi, remore o rammarichi.

Forse noi non l’abbiamo mai provato. E questo sarà davvero l’ultimo tramonto che vedo.

Respiro a lungo, mentre il sole scompare dietro gli alberi, tingendo il cielo di arancio, verde ed indaco. La luna è già spuntata sulla linea bassa dell’orizzonte, ha una luce smunta e triste e il suo ultimo spicchio è ovviamente ancora mancante, determinando la sopravvivenza di Alex, la cui assimilazione con Dimitri non è ancora completa. Una sola fase, e la luna sarà piena… quando io sarò chissà dove e chissà in che condizioni.

Stanca, mi distendo supina, le braccia incrociate sotto la nuca, il cielo che fiorisce di stelle. Nel petto che agghiaccia, sento la sensazione che mi sto davvero distaccando da tutto, persino da Draco, persino da Alex… e forse va bene così. Non ho bisogno di altre domande irrisolte, non ho bisogno di portarmi dietro quesiti che non scioglierò mai. In fondo… va bene così.

Va bene anche trovare l’equilibrio nell’indifferenza verso tutto, ormai.

Chiudo gli occhi, pronta persino ad addormentarmi perché ormai non mi preoccupa più nulla, quando alle mie spalle sento un rumore quieto, gentile, preoccupato. Per un attimo, una sciocca speranza tremula si accende nel fondo di me stessa, poi sparisce fulminea, sedata dalla scarica ghiacciata della mia calma apparente.

“Sapevo che eri qui…”.

Mi tiro bruscamente a sedere, dando comunque le spalle alla voce che mi ha appena chiamato. La riconosco naturalmente, cosa che mi fa drizzare la schiena come se fossi in punizione, prima che le mie mani si artiglino ad una tegola, come se temessi di ruzzolare giù. Il vento spira un odore buono di mare che è un ulteriore calcio subdolo agli stinchi: soffia ricordi vecchi eppure non lontanissimi nel tempo, che stringono il cuore e mangiano il fiato. Annuisco solo con il capo, l’eco della voce di Ron nella mia testa che echeggia ancora come dentro una chiesa deserta. È una voce conosciuta, come quella di un padre o di un fratello, è una conoscenza ormai quasi amniotica, che mi fa percepire ogni pagliuzza di emozione nelle parole che si lascia sfuggire. Ha un tono duro, rancoroso, nervoso, ma sempre stemperato da una dolcezza irrinunciabile e che non riesce a dismettere, come una mania da impazzirci di ossessione. È un tono che, con me, negli anni ha sempre usato, ha sempre avuto. È il tono di quando litigavamo ad Hogwarts, il tono di quando stavamo assieme e mi accusava di essere poco elastica, il tono di quando tentò di spiegarmi perché mi aveva tradito con Lavanda. Ma, negli anni, in questi cinque anni, ha assunto un colore più scuro che avevo erroneamente associato al fatto che fosse cresciuto e si fosse fatto uomo. Poi, con il tempo, nel lampo gelido di una memoria che non volevo saperne di lasciare andare, ho capito che invece era un tono cieco di tristezza che, ormai, aveva sempre parlando con me. Ogni volta che mi guardava… Ron vedeva Draco. E non riusciva a sopportarlo.

Adesso, ovviamente, dopo averlo lasciato in Italia per tornare qui, quel velo di tristezza si è incancrenito, diventando sempre più pesante ed opprimente, sfumando in una rabbia ulteriore che rende la sua voce ancora più terrea e profonda. E, comprendo subito, quel tono suo malgrado dolce e tenero non è per me. E’ per Alex, che da me ha sempre preso anima e cuore.

E Ron, ora che sono più lucida da ammetterlo, è stato la cosa più vicina ad un padre che Alex abbia mai avuto.

E’ la verità incontrovertibile di quel pensiero, rinnegato fino a qualche settimana fa, a mandarmi a fuoco il viso e a farmi luccicare gli occhi, rendendomi conto di quanto questo potrebbe essere anche l’ultimo momento in cui vedo Ron, ed ho occasione davvero di parlare con lui, da sola. Provando almeno a chiedergli scusa, a lasciargli un buon ricordo di me, a ricacciare indietro tutto quello che è successo… ma soprattutto, e lo capisco solamente adesso, a dargli la certezza enorme e sconfinata di quanto sia stato importante averlo vicino a me e a mio figlio in questi anni. Con la cocciutaggine del mio amore per Draco, ho sporcato l’affetto innocente e sincero che c’era tra loro, impedendo che diventassero in un modo naturale qualcosa di simile a padre e figlio. Certo, magari non sarebbe stato giusto verso Draco… ma sarebbe stato più giusto verso Alex e verso Ron stesso. Lasciarli liberi di essere loro stessi, senza che io mi mettessi continuamente di mezzo con il mio rammarico e ricordo. E adesso, sebbene forse sia tardi, sento di dovere questo a Ron, prima di qualsiasi altra cosa.

Mi viene curiosamente da sorridere intenerita, mentre, voltandomi su me stessa, dico piano all’ombra alle mie spalle: “La soffitta a casa nostra… ero convinta che non ti fossi accorto che mi ci rintanavo sempre dentro…”. Ron sembra esitare, resta per un attimo immobile a guardarmi e gli occhi blu sono specchi incerti ed affranti. Poi qualcosa sembra convincerlo. Adesso, nella luce slavata della luna, lo vedo finalmente in viso: è stanco, ha gli occhi arrossati di sonno ed i capelli rossi disordinati, il volto è pallido e segnato da profonde occhiaie scure. Eppure ha anche qualcosa di sottile e lieve nell’espressione da spingermi persino a pensare che, in fondo, stia bene. Non so perché e non so come, è come una sorta di… speranza… che nemmeno sembra palesare a sé stesso. Un sollievo, quasi, da qualcosa che non so immaginare e che, paradossalmente, sento che nemmeno mi riguarda. Meglio così, davvero… spero davvero con tutte le mie forze che possa trovare qualcosa a cui aggrapparsi, dopo il caos che ho gettato nella sua vita. Si torce le mani nervosamente, palesando il suo conflitto interiore, le dita sono sporche del colore di un pennarello verde e deduco che forse deve aver giocato con i bambini fino ad ora. Forse… anzi sicuramente… gli manca Alex. Poi fa un respiro profondo e si siede accanto a me, non sfiorandomi, né guardandomi neanche per sbaglio.

Fissa ostinatamente gli occhi di fronte a sé, perdendosi nelle chiome scure degli alberi, poi nel mare che luccica di stelle. Ed è allora che è come se si ricordasse di me e del mio commento di poco prima, sulla soffitta di casa nostra in Sicilia. Stringe le spalle ed assume la faccia di uno che ha masticato un limone, ma ugualmente sussurra tenue: “Sparivi per ore… e non eri in giardino. Dovevi essere in casa. Sapevo che fuori non potevi uscire facilmente, senza che Helder controllasse che non ci fosse pericolo. Semplicemente… credevo che fosse meglio per te restare da sola, quando ne avevi voglia… e poi… è da Hogwarts che cerchi sempre un punto in alto, quando sei triste. La Torre d’Astronomia, poi quella specie di verandina al piano superiore della signora Sanchez quando vivevamo assieme… la soffitta a Favignana… e adesso qui…”. 

“Quindi… credi che io sia triste?” mormoro con un filo di voce, guardando il suo profilo contratto. Ancora, non mi guarda in faccia, resta immobile a fissare gli alberi. Non so precisamente che risposte cerco da lui, forse voglio che qualcuno definisca meglio quello che sento. Perché magari potessi dire di essere semplicemente triste… peccato che io sia svuotata, adesso. Ed è peggio.

“Bè, felice non sei…” sputa fuori Ron con durezza, serrando la mascella ed alzando la voce “E questa, adesso, è la parte peggiore… se tutto questo casino che è successo fosse servito a renderti felice, almeno ne sarebbe valsa la pena per uno dei due, o almeno per Alex… ed invece… non sai neanche se…”. Ron si interrompe, stringe le spalle e tace, improvvisamente a disagio.

“Hai ancora paura di parlare a questo punto?” replico più acida di quello che vorrei, forse semplicemente perché ha ragione a definirmi così, forse perché con la solita poca delicatezza che gli appartiene mi mette di fronte all’inutilità della scelta di tornare qui. Non so per quale motivo la mia voce si stemperi di nervosismo, ma è quasi confortante poterci parlare come parlavamo un tempo, definendoci intimamente stupidi e continuando a sentircisi, anche se per motivi ormai profondamente diversi da un invito al Ballo del Ceppo o una pila di calzini sporchi abbandonati vicino al letto.

I ricordi dell’intera vita che, nonostante tutto, mi legano a Ron, mi spingono ad essere ancora più tristemente ostile, mentre biascico, alzando la voce di un’ottava: “Domani probabilmente sarò morta, Ronald… se devi dirmi qualcosa, parla… adesso…”.

Finalmente lui torna a guardarmi, ha il viso di nuovo rosso e gli occhi accesi di furia. Mi afferra per le spalle, mi scuote e mi dice frettoloso, il respiro ansante e veloce: “E’ tutto collegato, Mione! Tutto! Non capisci? Se domani muori… è proprio perché… non sai se…”. Ancora si interrompe, mi lascia le spalle come se si fosse accorto d’improvviso di aver osato troppo.

“Cosa non so, dannazione?!”.

“Se lo ami…” sussurra piano Ron, senza rabbia, senza rancore, solo con un terribile sentore di vuoto lacerante che mi strazia “Se ami ancora Malfoy… tu non lo sai se ami ancora Malfoy. Non lo sai, vero? Dopo cinque anni in cui te l’ho visto stampato in faccia ogni dannato minuto della nostra vita… oggi… non lo sai. Ed è fantastico, credimi, è perfetto… a che cosa è servito tutto questo… se non lo dovessi amare più Hermione? Se… domani… per questo… davvero tu non torni più?”. Le sue parole vere, oneste, dannatamente reali smontano la mia rabbia frustrata in un istante, costringendomi a stringermi nelle spalle e a distogliere lo sguardo mentre Ron, con ferocia, affonda le mani nei capelli rossi e si guarda le scarpe. Biascica solo, con un suono strozzato di gola che assomiglia ad una risata tetra ed amara: “Ed è assurdo che te lo dica io, adesso… che adesso te lo stia io anche a chiedere… dovrei essere solamente felice di questo. Che forse non lo ami più, che non sei sicura di te e lui, che come prevedevo ti ha ferito al punto da riportarti, un giorno, arresa ed arrendevole da me… ed invece… non lo sono affatto. Felice… non sono affatto felice. Perché tu domani…”, la sua voce si spezza, si incrina, diventa un pigolio indistinto che mormora: “… se non lo ami e se lui non ama te… tu domani non ci torni viva. Ed è così che ti voglio ancora. Viva. Così che tu possa rimpiangermi per sempre, così che tu possa capire per sempre che lui non era quello giusto… ma è così che ti voglio, Mione. Viva. E tu, viva, forse non ci tornerai affatto da me… tornerai in una cassa piena di fiori, che non posso insultare, maledire o bestemmiare… così te ne torni, se va bene ed Adamar me lo lascia un corpo da piangere. Sennò diventi nebbia, fumo, pioggia… e nemmeno ti seppellisco… ed allora, allora, Hermione, ti prego… dimmelo che lo ami, dimmelo che sarà per sempre lui, dimmelo che non hai smesso un istante di amarlo e dimmelo che non è cambiato niente in questi cinque anni… che se non ti fidi di lui, comunque lo perdoni e lo ami sempre, per sempre, e che domani sarà una passeggiata, e che tu da me ci torni viva così che possa odiarti, affrontarti e ripeterti che non lo accetterò mai che ami lui, e non me… ma dimmelo Hermione, dimmelo ti prego. Dimmelo”.

La voce di Ron si stempera alla fine nelle lacrime che versa nelle palme chiuse, spegnendosi come un lamento da moribondo. Le sue spalle magre sono scosse dai singhiozzi che lo scuotono dall’interno e io, inorridita, agghiacciata, sconvolta, non riesco a fare altro che chinarmi su di lui ed abbracciare quelle sue spalle tremanti, cingendole tra le mie braccia. Ron mi stringe per i fianchi, piange ancora, sento le lacrime scivolare indolenti lungo il mio collo. E piango con lui, assieme a lui, cercando sollievo e ristoro, coraggio e salvazione, perdono ed amnesia. È in questo pianto che, per miracolo, lo sento di nuovo mio, lo sento vicino davvero. Siamo stati assieme per anni, migliori amici, poi innamorati, infine perfino sposati. Ma mai davvero vicini… come ora. Ed in questo so che il suo sfogo non ha a che fare con Draco, so che non ha bisogno davvero di una risposta che non ho. Se lo amo ancora, se amo davvero Draco.

Che senso avrebbe dirgli che lo amo ancora, ammesso che questo basti nella prova con Adamar?

Che senso avrebbe invece dirgli che non lo amo più, ammesso che questo serva a consolarlo sul serio?

Ho messo sempre qualcuno tra me e Ron: prima Harry, poi il mio lavoro, poi Lavanda. Infine Draco ed Alex. Adesso siamo soli, adesso è solo tra me e lui. Non voglio dirgli bugie, non voglio nascondermi e non voglio nemmeno arrampicarmi sugli specchi, mettendomi a descrivere i sentimenti che ho per Draco e le possibilità che ho di tornare viva o morta. Voglio dirgli addio… comunque vada. Voglio dire addio alla versione marcia che siamo stati per cinque anni. Voglio che ci siamo sul serio soltanto io e lui, adesso. Ho troppo da dirgli, troppo da farmi perdonare. E, per una volta, Draco non c’entra niente.

C’entro solo io. E il mio migliore amico, che ho lasciato a caricarsi del peso di qualcosa che davvero non gli apparteneva e non gli competeva.

Non dovrà più preoccuparsi di me e Draco, mai più, lacerandosi nella gelosia e nel dolore: non dovrà più preoccuparsi né che io lo ami, né che io non lo ami. Sarà un problema mio… come sempre doveva essere. È il mio ultimo regalo per lui… che spero, davvero, che accetti.

Per questo, quando sento il suo respiro più calmo e la sua stretta sulla mia vita meno salda, mi azzardo a sussurrare con voce spezzata, prendendo fiato dopo il pianto: “Immagino che domani sapremo a che punto siamo io… e Malfoy. Almeno, in un contorto e discutibile modo, la chiariremo una volta per tutte…”. Ron si stacca da me, guardandomi con le sopracciglia aggrottate, prima di dire nervoso: “Dovrebbe essere una cosa buona, dunque, gettarti in pasto a quel mostro senza sapere se ne uscirai viva?”.

Respiro a lungo, distogliendo lo sguardo da lui per puntarlo sulla luna lontana. Quando sono certa che sono sufficientemente calma ed in grado di dissimulare la mia reale paura, mescolandola ad un’audace noncuranza, torno a guardarlo con espressione quasi scocciata: “Andiamo Ron… non è una novità. Rischio la vita da quando avevo undici anni… c’eri anche tu, no?”.

“Ma… stavolta… io non ci sarò. E nemmeno Harry. Ci sarà solo lui… solo Malfoy…” la voce di Ron si colma di preoccupazione rancorosa “E di lui non mi fiderò mai”.

Gli prendo la mano tra le mie, Ron deglutisce un paio di volte a disagio e le sue orecchie diventano rosse, come accadeva quando eravamo ragazzi. Questa cosa mi fa sorridere di tenerezza, rendendomi conto che una parte di noi, sepolta chissà dove, esiste ancora.

Incoraggiata, proseguo e lo guardo negli occhi: “E allora fidati di me. Fidati che farò l’impossibile per tornare. Questo puoi farlo? Puoi ancora fidarti di me?”.

Non ha esitazione Ron nel rispondere, è rapido, veloce, sicuro. Uomo, come non mi era mai sembrato, nonostante tutto. Stringe forte le mie mani: “Io mi sono sempre fidato di te. E non smetterò adesso”.

“Grazie” dico con un groppone in gola, che rende quella semplice parola più acuta di quanto dovrebbe essere. Nascondo le lacrime poggiando la guancia sulla sua spalla e chiudendo gli occhi. Il silenzio della notte ci avvolge come una preghiera di perdono, che forse qualcuno oggi si degnerà di ascoltare. Ron resta immobile, accogliendomi contro di lui, respira piano sui miei capelli, baciandomi la testa con affetto. È solo fraterno, non c’è nulla di passionale e nemmeno di lontanamente sensuale. Una calma friabile si insinua dentro di me, mentre i pensieri si allontanano. Tutti, tranne uno. Che mi spinge a riaprire bocca dopo qualche secondo, seppure non muovendomi di un millimetro.

“Ho bisogno di dirti delle cose… ma credimi, non c’entra niente quello che sta succedendo adesso. Non è un patetico addio o discorso da moribonda. È solo arrivato il momento che io te le dica. Credo che fosse arrivato da tempo… ma ero troppo persa ed egoista per rendermene conto. La perdita di Alex ha rimesso le cose in prospettiva, almeno questo”.

Ron non si muove nemmeno lui, resta immobile, si sistema meglio e basta, articolando un suono di gola che assomiglia ad un cenno di assenso.

“Scusami per averti costretto a sopportare tutto questo per cinque anni” lo sputo fuori velocemente, senza remore, solo con rimorso. Una lacrima mi sfugge senza accorgermene, la freno con la mano prima che rovini sul mio collo, rendendosi visibile. Sono parole semplici e complesse assieme, racchiudono davvero tutto. Non potrei aggiungere altro, se non risultando falsa o compassionevole, ispirando una pietà marcia e tardiva. E non si merita anche pietà, adesso… non dopo tutto quello che gli ho costretto a passare, illudendolo nella forma farinosa di una famiglia che non era la sua, impedendogli di cercare la sua di strada e non mostrandomi nemmeno riconoscente per quello che faceva.

Ron sospira, sembra persino sorridere e mi bacia ancora i capelli, prima di sussurrare quieto e tranquillo: “Ti amavo, ti amo ancora e forse ti amerò sempre. Ed amo tuo figlio… non è stata una sopportazione. È stato il mio sogno… essere tuo marito. Semplicemente non lo era anche il tuo…”.

Non lo riconosco, davvero non riconosco quest’uomo capace di cedermi così facilmente, senza artigliarsi di fuoco sul mio cuore per strapparlo a chi ha osato rubarlo a lui. Non riconosco la sua calma, la sua quiete, la sua placidità. La sua rassegnazione matura di chi ha smesso di lottare. Eppure non c’è, d’improvviso, dolore lacerante in lui, tantomeno rabbia o orgoglio tradito. È triste, questo sì… ma improvvisamente riconciliato con l’idea di lasciarmi davvero andare.

Sussurro a mia volta, piano, come timorosa di rompere un fragile equilibrio, lieta di non doverlo guardare in viso ma di poter restare ad occhi chiusi ad immaginare il mare lontano: “Tu però non avresti dovuto vivere con questo peso costante… che non fosse quello che volevo anche io. Non avrei dovuto ricordarti ogni minuto che…”.

“… che non ero lui…” completa Ron, dando voce ai miei pensieri. Sgrano gli occhi, rabbrividendo, irrigidendomi per un attimo. Lui… me lo immagino chiaramente davanti agli occhi, come se fosse qui.

Draco.

Mi trema il cuore, mentre biascico: “Già”.

“Non è stato piacevole…” sorride amaramente Ron, prima di continuare con voce monocorde: “Ma Mione… andiamo, è stata anche colpa mia… io semplicemente non ti volevo sentire, non volevo vedere. Cinque anni a foderarmi gli occhi e le orecchie di prosciutto per non rendermi conto che…”. Ron si interrompe a disagio, grattandosi la nuca: “Insomma hai avuto un figlio da lui. Non avevi alcun istinto materno, alcun desiderio di diventare madre… ma è bastato che fosse suo figlio per spingerti a farlo nascere. Avrei dovuto capirlo già da allora… ma per anni ho pensato solo che tu avessi sbagliato, che ero io quello fatto apposta per te. L’amico d’infanzia, il tuo complementare, la favola buona e pure un po’ sciocca dell’amore che nasce da bambini e non cambia e muta mai. Probabilmente una parte di me penserà sempre che io fossi quello perfetto per te. Ma non sono quello giusto… vorrei soltanto che quello giusto non fosse proprio Draco Malfoy…”.

“Non immagini quante volte l’ho pensato io…” dico sinceramente, riaprendo gli occhi “Mesi, anni. In Italia. Alle volte, volevo davvero che tu diventassi la mia famiglia. Sul serio, senza finzione… ”.

L’ho davvero voluto, l’ho davvero pensato. Se quello che provavo per Draco non fosse stato così forte, così assoluto, così maledettamente totalizzante da non farmi prendere in considerazione null’altro che lui, e se non ci fosse stato Alex a ricordarmi eternamente che era suo figlio… probabilmente avrei davvero pensato di tornare con Ron. Se Draco fosse stato un amore semplice, normale, da consumarsi in un paio di anni e da non ripensarci mai più… non avrei resistito all’idea assolutamente giusta e migliore di appartenere a Ron. Ma non era così, non è mai stato così.

Da quando sono entrata al Petite Peste, da quando ho suonato Forbidden colours al pianoforte, da quando sono stata davvero sul punto di sposare un uomo con cui stavo da dieci giorni…

… io non ho mai avuto scampo.

Mai.

Ron si schiarisce la voce, come a nascondere qualcosa di sepolto che conosce solo lui, poi greve prosegue: “Da qualche parte, magari io e te davvero siamo stati felici. Ci siamo sposati, abbiamo avuto dei figli, siamo invecchiati assieme. Ma in questa vita, in questo mondo… non è stato mai il nostro destino. Io ti ho tradito, ti ho lasciato, ci siamo fatti del male… ma la verità è che siamo cresciuti, siamo cambiati. Non saprò mai darti quello che ti dà lui, anche se non lo capisco. E tu… nemmeno. Dovevo smettere di essere così cieco per capire anche questo, Mione. Mi merito di essere il primo, l’unico. Non il secondo, non il ripiego. Tu non potevi darmelo, non più. Ero così imbalsamato in questa fantasia di vita perfetta con te… da non aver capito anche questo… ho sempre cercato di cambiarti. Tu lo stesso. Non ho mai avuto la spinta a cambiare io da solo. Tu lo stesso. Tu… e lui… vi siete cambiati così tanto nel corso degli anni, da essere diventati due estranei per chiunque, tranne che per voi stessi…”.

Vi siete cambiati così tanto nel corso degli anni, da essere diventati due estranei per chiunque, tranne che per voi stessi…

Rabbrividisco, sento il sangue affluire tutto alla testa, lasciandomi ghiacciata nel resto del corpo. La verità semplice che ha snocciolato Ron in poche mozzicate parole, mi ha raggiunto con la forza di un uragano. Solo Draco sa chi sono davvero. Solo lui capisce chi sono sul serio, dentro. Tutti sono bloccati ed ostaggi in memorie morte e sepolte di me, tutti. Tranne lui.

Mi ha tagliata fuori dal mio mondo, passo dopo passo, emozione dopo emozione, bacio dopo bacio. Senza apparente fretta, senza nemmeno che me ne rendessi compiutamente conto… ed alla fine sono diventata estranea ai miei amici, alla mia famiglia, persino a me stessa. Solo lui riesce a riconoscermi davvero. Soltanto lui… ed il bello è che quella che gli altri conoscevano non era la vera me stessa, non è che io d’improvviso sono diventata un’estranea. Gli altri mi vedono così, d’accordo, ma io in verità… ho semplicemente smesso di sembrare perfetta e sono diventata vera. La vera me.

Draco mi ha fatto capire che non avevo bisogno di essere perfetta per essere amata: se mi amava lui, con tutto quello che ci aveva sempre diviso, poteva riuscirci chiunque altro.

Gli devo tanto, nonostante tutto: alla fine, in uno strano e goffo modo, sono contenta di quella che sono diventata. Sono più… serena, perché libera di sbagliare, di peccare, di non essere impeccabile.

Mi sono sentita libera al punto di avere un figlio da non sposata; al punto di abbandonarmi ad un bacio solo perché lo volevo; al punto di non lasciarmi travolgere da giudizi morali sui miei amici e su chi ha sposato chi. In fondo, credo che Draco mi abbia persino reso migliore… e mi ha donato Alex.

Questo non credo che lo dimenticherò mai.

Sono rimasta troppo in tempo in silenzio e la tensione imbarazzante del momento sembra essere risalita tra me e Ron, allontanando quella leggerezza spensierata che ci aveva sfiorato per un attimo. Ritorna di nuovo cupo il ricordo di ciò che mi aspetta domani, cosa che curva le mie spalle e serra le mani di Ron in una morsa ghiacciata. Respirando forte, spintono scherzosamente una sua spalla con la mia, aggiungendo sarcastica: “Quando sei diventato così saggio, Ronald?”.

Lui coglie il mio invito ad alleggerire l’atmosfera e sospira casuale: ““Bah sarà l’influenza di Natalie. Lei è fissata per queste cose… destino, karma, fato. Se ne va in giro tranquilla e serena che tutto quello che le succede è solo quello che le doveva, per forza di cose, accadere… si fida troppo dell’Universo…”.

“Vorrei essere così pura ed ingenua come lei, davvero…” aggiungo con un moto inconsapevole d’invidia, distendendomi sulle tegole del tetto ed incrociando le braccia sotto la nuca.

Sembra ingenua. Lo sembra sul serio…” commenta Ron, imitandomi e distendendosi accanto a me, il volto rapito dalle stelle. “La guardi, la senti parlare… e all’inizio ti dà quasi sui nervi. Così certa, convinta, sicura… che il bene torna sempre indietro, che la vita in fondo sia giusta e che bisogna solo avere pazienza. Però non riesci a risponderle male, a smontare le sue illusioni. Stai zitto. E lei invece alla fine ha la meglio su di te…”. Mi poggio su un fianco, una mano aperta a sostenermi il mento, e studio il viso di Ron con attenzione.

Lui tiene gli occhi ostinatamente rivolti al cielo, sono lievemente illuminati dalla luce della luna, eppure li distinguo più azzurri del solito. Non sarà che…?

Mi viene inconsciamente da sorridere, un ulteriore peso che mi alleggerisce il cuore. So di non potermelo permettere, so di non voler liquidare il senso di colpa che sento per Ron con una stupida supposizione gratuita, ma so anche che incamminarmi verso la morte con il pensiero di non lasciarlo del tutto solo… è quanto di più piacevole io potessi immaginare, adesso.

La sua voce si è tinta di una dolcezza stemperata da una sorta di paura, parlando di Natalie, e come da tradizione le sue orecchie si sono fatte lievemente più rosee.

Non ha mai avuto quel tono, parlando di nessuna, tantomeno di Ginny, di Lavanda o di me.

Non so se sia per curiosità autentica, per voglia di tranquillizzarmi o semplicemente perché con lui non abbandonerò mai l’istinto di voler avere ragione, ma gli chiedo apparentemente indifferente: “La conosci bene… era un’amica di Lavanda? Ad Hogwarts non ricordo che la frequentassi più di tanto… era più piccola di noi di tre anni… ed anche se era nella segreteria di Harry, Lavanda faceva il lavoro grosso, lei non la vedevamo quasi mai…”.

Ron, a quel punto, mi racconta tutta la storia di Natalie. Lo fa senza fretta, con attenzione, con una cauta dolcezza e una ferma ammirazione che ancora mi conferma che ci tiene parecchio a lei. Non l’aveva incontrata moltissime volte mentre stava con Lavanda, ma in una di quelle occasioni si era ritrovato a parlarle, dato che erano i soli che ad una particolare festa dove non conoscevano nessuno. La guerra aveva lasciato Natalie orfana di entrambi i genitori e di sua sorella, aveva anche perso la sua casa e quel poco di sicurezza economica che aveva. Affamata, sporca, lacera, era stata raccattata per strada da Florian Fortebraccio, il proprietario della gelateria di Diagon Alley che conosceva sua madre da molti anni e che si era quindi preso cura di lei. Natalie iniziò a lavorare nella gelateria, che però stentava ovviamente ad andare avanti durante la guerra, situazione che divenne ancora più complicata alla scomparsa di Florian. A quel punto, finalmente, il figlio di Florian, Damon, era tornato dalla Spagna dove viveva da molti anni per aiutare la ragazza con l’impresa di famiglia. Damon era un ragazzo sicuro di sé, forte, imprevedibile, dal carattere impetuoso e passionale: in pochi mesi, lui e Natalie si erano innamorati. Alla fine della guerra, avevano deciso di sposarsi, dopo due anni e mezzo in cui stavano assieme. Quando Ron aveva incontrato Natalie alla festa di Lavanda, a cui ci era andata da sola perché Damon aveva da lavorare, lei gli aveva appunto raccontato che era sposata da qualche mese e questo aveva destato molta curiosità in Ron, dato che lei era ancora molto giovane, essendo poco più che ventenne. Lo aveva colpito anche il modo pacato con cui parlava della sua relazione con Damon, del fatto che lui fosse molto diverso da lei, ma che era sempre stata certa, da quando lo aveva visto, che doveva diventare suo marito. Si completavano a vicenda. Ron l’aveva trovata ingenua, infantile, mentre gli raccontava queste cose, mentre gli diceva che aveva sempre sentito che la guerra le aveva insegnato che non aveva senso aspettare, che quando hai l’occasione di essere davvero felice, dovresti cogliere le occasioni al volo. Eppure quel discorso lo colpì molto, specie perché da tempo aveva più o meno capito che non amava Lavanda e che stava solo perdendo tempo con lei. Di Natalie non seppe più nulla per anni. Quando poi io tornai in Inghilterra dopo averlo lasciato in Italia, Ron dopo qualche giorno tornò a sua volta a Londra. Andò a Diagon Alley, vide la coda nella gelateria di Fortebraccio e si ricordò di lei, del suo discorso.

“Di quel sentimento assoluto che ti impedisce di scappare quando lo trovi. Mi ricordai di quando Natalie mi aveva parlato di lei e Damon, della sua impossibilità di aspettare un solo giorno per sposarlo. E ripensai a te e a Malfoy… al fatto che dopo cinque anni, con tutta la logica e la razionalità del mondo contro… ancora non riuscivi a lasciarlo andare…”.

Mi stringo nelle spalle mentre Ron continua a raccontare. Natalie lo aveva accolto con calore, facendolo accomodare subito, e Ron si era immediatamente accorto di come il locale fosse cambiato. Era diventato più luminoso, più nuovo, persino migliore di come era prima della guerra, era pienissimo di gente. Natalie a quel punto gli aveva raccontato che era la nuova proprietaria della gelateria, da quando Damon circa un anno prima era morto. A Ron, però, quella rivelazione non era parsa così lacerante per la ragazza e, conversando, aveva capito il perché. Lei e Damon si erano lasciati circa tre anni prima, pochi mesi dopo la nascita del loro figlio, Elias. Natalie era stata molto vaga, non aveva parlato delle motivazioni, aveva solo detto laconicamente che non andavano più d’accordo. Aveva però garantito che erano rimasti in buoni rapporti, lei aveva iniziato a lavorare come tata e lui aveva ripreso le redini della gelateria. Ogni weekend, Natalie portava Elias da suo padre. Durante, però, uno di questi weekend, Damon fu misteriosamente ucciso nella gelateria stessa. Fu letteralmente fatto a pezzi, probabilmente da Mangiamorte impenitenti o da rapinatori scontenti. Era riuscito a nascondere il figlio Elias sotto una scrivania, impedendo che si facesse male anche lui, ma il bambino evidentemente aveva assistito comunque alla scena.

Ascolto sconvolta le ultime parole di Ron, stringendomi convulsamente le mani in grembo, mentre finalmente collego il motivo della stranezza di Elias non appena l’avevo visto.

“Elias, da quel momento, si è chiuso completamente in sé stesso…” aggiunge Ron stancamente, stropicciandosi gli occhi “I medici dicono che ha sviluppato una sorta di autismo di reazione al trauma della morte del padre. Non parla, non vuole farsi toccare, non ha la benché minima relazione con nessuno. È contento di starsene in silenzio e basta…”.

Agghiacciata, ripensando istintivamente a mio figlio con un moto di autentica empatia per la povera Natalie, chiedo: “Ha subito dei danni celebrali?”.

“No… ed è questa la cosa strana…” commenta con una risata amara Ron, sospirando di frustrazione “Elias… ha un quoziente intellettivo molto alto. Ha imparato a leggere a due anni. Sa già risolvere problemi ed equazioni… e ha solo tre anni. Legge tantissimo, divora libri su libri, conosce a memoria la tavola periodica e le capitali di ogni stato del mondo… è semplicemente… un genio, ecco… solo… non è molto interessato alle iterazioni umane… e credimi, non è che non sappia parlare, lo sa fare…”.

“Come lo sai? Con Natalie parla?”.

“A volte… soprattutto per fare delle domande sugli argomenti più disparati che gli saltano in mente…” aggiunge Ron “Natalie si documenta, dato che si tratta spesso di cose che nemmeno lei conosce appieno, lui ascolta crucciato e poi se ne torna nel suo silenzio. A riflettere, a pensare. È come se volesse smontare il mondo per capire come diamine funziona… sono gli unici momenti di vera relazione che hanno tra loro… e a Natalie, nonostante tutto, va benissimo così. Basta che lui la chiami mamma e le chieda perché il cielo è azzurro, ed è autenticamente felice… anzi…”. Ron d’un tratto si interrompe a disagio, grattandosi la testa, come se fosse improvvisamente reticente nel continuare, quasi imbarazzato.

“Cosa?” lo incoraggio, guardandolo in modo comprensivo.

Ron sospira a lungo come a darsi un contegno, storce il naso ancora indeciso, prima di continuare con un cenno nervoso della mano: “Natalie era felice di questi piccoli gesti di Elias… quando era convinta che a suo figlio fosse precluso altro… poi… ha scoperto che non è così…”.

“Come?”.

“Il giorno in cui io l’ho incontrata a Londra… lei all’inizio mi aveva solo raccontato della morte di Damon e del fatto che avesse avuto un figlio, non tutta la sua… situazione, ecco… c’era molta gente nel locale, si è dovuta allontanare per alcune cose… ed in quel momento è arrivato Elias. Spuntato dal nulla come un fungo. Mi ha guardato e basta per qualche minuto, come se mi stesse studiando. Io… ho intuito che era suo figlio. Non sapevo naturalmente delle sue difficoltà relazionali… e…”. Ron si ferma, respira forte, poi prosegue con un filo di voce: “Sentivo la mancanza di Alex. E mi è venuto naturale… parlargli normalmente, come si fa a qualsiasi bambino…”.

Punta da quella vena di nostalgia e da un nuovo afflato di senso di colpa, mi affretto a chiedere comprensiva: “Ed Elias ha reagito male?”.

“No…” sorride Ron, ostentando un’espressione quasi incredula “Ha reagito bene… cioè… neanche bene. Ha reagito come un normale bambino. Mi ha chiesto chi fossi, che ci facessi qui, come conoscessi sua madre, se eravamo amici da tanto, quale casa frequentassi ad Hogwarts. Mi ha chiesto persino perché i miei capelli sono di questo colore. E che la fragola bollente è il suo gusto preferito di gelato. Sono riuscito persino a… prenderlo in braccio…”.

“Davvero? Ma è una cosa miracolosa, Ron!”.

“Natalie, quando è rientrata… è scoppiata a piangere, vedendolo… ha fatto cadere un vassoio pieno di coppette di gelato… e io non capivo che ci fosse di così strano… ma lei… non riesce a prenderlo in braccio dal giorno dell’omicidio di Damon… anche se lo fa, per esigenze concrete, Elias si dimena dopo pochi secondi… che se ne stesse tranquillo, in braccio ad uno sconosciuto, a mangiare il gelato… era incredibile per lei… per quello mi ha raccontato tutto…”.

Scuoto il capo a mia volta, incredula, immaginando la faccia di Natalie a quella visione. Probabilmente sarei stata invidiosa al suo posto, ma soprattutto… felice, ecco. In un certo qual modo, è quasi una conferma di quello che ho sempre pensato di Ron. Che sia una persona speciale… Elias, a suo modo, con la sua sensibilità di bambino particolare, deve averlo capito subito.

“Da allora… insomma Nat… ha voluto che li stessi vicino…” balbetta Ron rosso in viso, dandomi ulteriore conferma che la situazione non gli è affatto dispiaciuta, sorrido cercando di non farmene accorgere “Elias… a volte parla con me. Non ha uno schema preciso. Ci sono giornate sì… e giornate no… ma per qualche motivo, che ancora nessun medico si spiega… a me dice più cose del suo solito. Stipa decine di parole in quei pochi secondi… per questo… ero con lei quando Helder mi ha chiamato… Natalie… sapeva già tutto di te, di Malfoy, di Alex… alla fine… le avevo raccontato tutto… mi dispiace…”.

“Figurati… non hai niente di cui scusarti… non dirlo neanche per scherzo…” dico convinta, sorridendo. Ci mancherebbe che, dopo anni, non potesse nemmeno confidarsi con qualcuno sul casino che ho deliberatamente gettato nella sua vita peggio dell’uragano Katrina.

“Quando ho saputo del rapimento di Alex… ero con lei e lei ha deciso di aiutarci, ovviamente… ” aggiunge Ron con voce casuale, cercando quasi di non darci importanza. Ma lo capisco, lo vedo… lo conosco troppo bene per non rendermene conto. Ha gli occhi di una persona presa di sorpresa. Ha lo stesso sguardo che affastella particolari su una persona, sentendosi sempre incredulo, al limite tra il rifiuto e la voglia.

Ha lo stesso sguardo che forse lui ha visto in me, cinque anni fa, al Tourquoise Party, mentre mi voltavo su me stessa per guardare Draco.

Si potrebbe innamorare di lei. Si è già innamorato di suo figlio.

È una favola così perfetta e giusta che, se davvero dovrò morire, la chiederò come ultimo desiderio.

E non per avere la remissione dei peccati ed andarmene contenta… ma perché Ron se lo merita. Tutto. Si merita un miracolo venutolo a cercare dagli angoli della vita stessa. Si merita di essere indispensabile, come mai è stato né con me, né in famiglia, né con Harry. Si merita di sentirsi unico al mondo, speciale in un modo che ha tutto della magia e della predestinazione. Si merita la bontà di Natalie che, un giorno, se mai accadrà, gli farà persino accettare la mia morte. Se lo merita.

E Natalie merita lui, così come Elias.

Sarà davvero il mio ultimo desiderio, se dovessi morire.

“Prima di andarmene, la dovrò ringraziare sul serio…” dico con decisione, una pausa sofferta che piega le mie parole in tutti i sensi possibili, così che anche Ron possa capire, pur fingendo di non essersene accorto “E dovrò ringraziare anche te… ti tocca, Ronald…”.

“Lo farai quando torni. Viva. Non ho intenzione di parlare con una bara…” biascica lui sicuro, afferrandomi per un polso come a volermi ancora trattenere.

Sorrido ancora a quel tentativo colmo di disperazione caparbia ed intensa, che mi ricordano il ragazzo di cui mi sono innamorata anni fa, la struggente intensità ostinata del primo amore. Poi soggiungo quieta: “Non ci voglio tornare in una bara. Ma può succedere, Ron, e, prima che tu mi interrompa, c’è davvero una cosa che posso dirti solo adesso…”.

“Non voglio ascoltarti…” protesta lui, accennando persino ad alzarsi in piedi, innervosito e furente. Lo imito, fronteggiandolo con lo sguardo, sfidandolo ad andarsene. Ma lui ovviamente non lo fa: mastica dolore e rabbia negli occhi, ma resta inchiodato al suo posto, ad ascoltarmi, i capelli scompigliati dal vento.

“Se non torno indietro…” inizio con la voce spezzata, incerta, ingoiando le lacrime “Voglio che lo dica tu ad Alex. E voglio che gli stia vicino sempre… Dean e Pansy erano la scelta giusta per crescerlo. Lo sono ancora. Era la sola cosa che…”, che Draco avrebbe concesso, penso con ferocia, ma non lo dico. Il nome di Draco è nascosto nelle pieghe di questa conversazione, se uscisse deflagrerebbe come una bomba atomica, ricordandoci davvero tutto quello che sta nel sottotesto di noi stessi, restando non detto per paura di spezzare quel poco che ancora c’è tra noi. Quindi taccio, distolgo lo sguardo, guardo la luna incompleta e cerco di caricare il silenzio di altre parole, magari della consapevolezza che affidare Alex ad una coppia sposata sarebbe più facile dal punto di vista legale, o magari anche più gestibile per loro, che sono in due ed hanno già una bambina. In realtà, e forse Ron lo sa perché stringe gli occhi e piega le spalle, al di là della stima per Dean e Pansy, ho scelto loro perché era giusto così. Perché volevo che questa scelta non fosse solo mia… ma anche di Draco. Volevo sentirmi unita a lui come genitore per la prima e forse unica volta della nostra vita. Volevo dividere il carico di questa responsabilità con lui… non volevo più sentirmi sola. Ma questo non toglie che, sebbene io sappia e riconosca che Draco sia padre di Alex ed abbia ogni diritto del mondo di condividere le mie scelte, il vero ed autentico padre che Alex ha avuto per cinque anni… è stato Ron. Anche se non l’ha mai chiamato papà, anche se sapeva la verità, anche se lo vedeva come un amico solo più grande.

Ron gli ha insegnato a nuotare. Ron gli ha fatto il bagno con l’amido di mais, quando ha preso la varicella. Ron l’ha accompagnato agli allenamenti di calcio. Ron gli ha spiegato, a suo modo, perché lui e la mamma non si baciavano mai. E se è la morte imminente e probabile che ha fatto sì che ricordassi tutte queste cose, poco importa. Basta che ci sono arrivata.

“Promettimi che non lo lascerai solo…” mastico amaro, chiudendomi la bocca con la mano e fermando questa serie idiota di rantoli scomposti della mia voce “So che non ho alcun diritto di chiederti niente, ma…”.

“Non dovevi neanche chiedermelo…” sorride Ron, dandomi un buffetto sulla guancia, nascondendo in questo gesto casuale le lacrime che non vuole versare “L’avrei fatto lo stesso… ma adesso che so che lo vuoi anche tu… ti giuro che non lo lascerò mai solo…”.

“Grazie…” pigolo incerta, schiarendomi la voce nel tentativo di farla sembrare assolutamente normale, il pianto si incaglia in gola, distorcendo i suoni che mi escono dalle labbra e facendoli sembrare ancora più acuti del normale. Gli do le spalle, cercando di ricompormi. Mi asciugo il viso e respiro a fondo, Ron mi lascia fare. Con la delicatezza che non gli ho mai riconosciuto, non mi sfiora né mi consola, né tantomeno dice altro. Lascia che il silenzio si prenda i miei singhiozzi come a volerli cancellare, come a voler far finta che non ci siano. Gli sono grata, ancora. Perché sa quanto detesti essere guardata mentre piango, o essere compatita. Gli sono grata per la promessa che mi ha fatto.

Adesso, posso andarmene quasi serena.

Natalie gli starà accanto. Gli ho chiesto scusa. L’ho ringraziato. Ed Alex avrà lui, se io non dovessi tornare.

Quasi ad avvisarmi di questa pace, respiro forte il silenzio calato tra noi che ha un odore placido, soave, assorto di pensieri ormai puliti, cristallini, sgombri. La notte è ormai calata a grandi stelle su di noi, il mare borbotta poco lontano e il vento sa di magnolia e resina. Quando mi volto verso di lui, so di aver detto tutto quello che volevo, so che ha fatto altrettanto.

Ha gli occhi rossi, ha pianto anche lui, approfittando che fossi voltata e gli dessi le spalle. Ma sulle sue labbra comunque compare un sorriso dispettoso, mentre mi dice: “Malfoy mi aveva mandato a chiamarti quando sono arrivato… circa quarantacinque minuti fa…”.

“Che cosa?! Che diamine vuole, adesso?” chiedo sconvolta, la calma che mi viene strizzata fuori dal petto come se fossi un indumento appena lavato.

Ron fa spallucce, disinteressato: “Non lo chiedere a me… sembrava solo… nervoso…”.

“Non che sia un discrimine del suo comportamento… quello è nato nervoso…” borbotto, incrociando meccanicamente le braccia, mentre a Ron sfugge una risata leggera: “Avrei voluto dirtelo subito… ma poi abbiamo iniziato il nostro chiarimento cuore a cuore… e mi è passato di mente…”.

Inarco un sopracciglio scettica, costringendolo a confessare con aria candida: “E va bene, d’accordo… è stato un piacere per l’anima ignorare deliberatamente che cosa mi aveva detto…”. Mi viene da ridere in modo incontrollato, ricordandomi a mia volta tutte le volte in cui usavo Draco come una palletta antistress al Petite Peste, ricavandone un sadico piacere. Però, sforzandomi al massimo, sbuffo e dico con voce fintamente seria: “Il mio ultimo pensiero quando Malfoy mi ucciderà sarà per te, mio caro ex marito improvvidamente intempestivo nella comunicazione dei messaggi…”.

Il candore spensierato della risata di Ron è la migliore delle ricompense, persino di fronte alla probabile arrabbiatura di Draco. È il segno che possiamo tornare ad essere quelli di prima, io e Ron. Questo valeva ogni cosa. Si meritava di essere più importante di ogni cosa per una volta nella vita.

Dopo averlo salutato, scendendo le scale, mi cerco nelle tasche l’anello con la pietra rossa che simboleggiava il nostro matrimonio, quando ero in Italia. L’ho sempre odiato, era una promemoria della stucchevole vita finta che conducevo e che mi teneva separata da Draco. Adesso significa gratitudine, stima, speranza, amicizia. Contenta lo indosso di nuovo, ma all’anulare destro.

Il sinistro, quello dei matrimoni e delle promesse, mio malgrado resterà per sempre vuoto.

Ciondolo per un po’ nel corridoio, incerta sul da farsi. Cerco Draco guardinga, chiedendomi nervosamente che cosa voglia al momento.

Nulla di buono, sicuramente. E se ha ancora intenzione di farmi rimproveri o scenate, lo manderò a quel paese e tanti saluti.

Se è davvero il mio ultimo giorno sulla Terra, ho di meglio da fare che sentirlo inveire per cose che mi ha restituito doppiamente, e con tanto di interessi.

Finalmente, mentre sono ancora incerta se scendere al piano inferiore oppure se iniziare ad aprire camere a casaccio, lo vedo uscire da una stanza. Fingo il maggiore disinteresse possibile, ostentando calma gelida mentre si accorge di me, ma non riesco ad impedirmi che mi sfugga un respiro più forte del solito, a simulare un sospiro d’ansia repressa.

“Weasley anche come messaggero fa pena…” commenta tra sé e sé, guardandomi in tralice “Sarà utile allo sviluppo umano in qualche modo ulteriore oltre a paravento per le formiche?”. Lo guardo ad occhi socchiusi, incrociando le braccia impaziente e facendogli intendere che non è che abbia tutta questa voglia masochista di sentirlo parlare. Quindi ci può anche dare un taglio. Draco, a sua volta, mi guarda con espressione tra il curioso e l’insofferente, quasi studiandomi. Evidentemente è alla ricerca di qualcosa nel mio viso che gli suggerisca il motivo del mio ritardo, oltre che della mia assoluta noncuranza ai suoi insulti gratuiti. In realtà non rispondo, sia perché non ne ho voglia, sia perché non me ne sento colpita. Vibra nelle sue parole una stanchezza apatica, una patina di pessimismo e rassegnazione che può essere solo la consapevolezza della condanna a morte che ci pende sulla testa da qualche ora. Il suo aspetto è sempre impeccabile: capelli biondi in ordine, occhi grigi aperti e limpidi, vestiti puliti e stirati. Ma lo conosco troppo bene per non distinguere bene che cosa nasconde: il colletto della camicia lievemente stropicciato, perché si è steso sul letto a pensare; le pupille vagamente dilatate, perché se n’è stato al buio; l’indole arrendevole, quando vede che non gli rispondo; la voce vistosamente impastata di finzione, perché al momento vorrebbe dire altro.

Come so che anche io sembro vagamente più autoritaria ed irritata del solito, tutto per nascondere la paura che ho al momento ed al contempo l’ansia di rimanere troppo da sola con lui.

Quindi, impaziente, biascico severa: “Si può sapere che diamine vuoi? Mi sembra che ci siamo già detti abbastanza in due giorni da riempire cinque vite umane…”.

“E domani dobbiamo dimostrare il nostro imperituro amore ad un demone millenario…” commenta Draco assente con un sorriso malevolo, appoggiandosi con una spalla al muro e guardandomi di sbieco “Devo proprio aggiornare il mio testamento, mi sa, Granger? Dici che se lascio un bel po’ dei miei indumenti a Weasley apprende un po’ di senso dell’eleganza nel vestire? Naaah, hai ragione… meglio lasciargli a Thomas… con lui non è del tutto un’impresa disperata…”.

“Sei sempre stato uno da one man show…” mormoro innervosita, muovendomi per allontanarmi da lui “Comprenderai quindi se ti lascio al tuo teatrino da quinta categoria…”.

Non sono certamente dello spirito adatto per perdermi in una delle sue contorte discussioni: se lui è ancora così bellamente di buon umore, lo invidio, mi chiedo che cervello malsano abbia e sono anche contenta per lui. Ma che mi stia qui, a sentirlo… non se ne parla proprio. Ovviamente il suo sadismo non mi consente di andarmene tranquillamente, così da godermi le mie ultime ore di vita in pace. Mi richiama indietro con un verso inarticolato di gola che, nonostante tutto, sebbene neanche assomigli lontanamente al mio nome, mi fa voltare su me stessa. È a testa bassa, ora, ben più preoccupato ed ansioso, più vicino al suo reale stato d’animo piuttosto che al suo alter ego malvagio e supponente che avrei già avadakedavrizzato all’istante, se non fosse il padre di mio figlio e la sola occasione di salvezza per lui. Sospiro e rimango in attesa, le braccia conserte, Draco sembra mangiarsi pensosamente le parole prima di pronunciarle, ha il volto bianco e livido, gli occhi iniettati di sangue. Poi le spalle si rilassano, sospira, appare stanchissimo. E mormora fiocamente, facendomi drizzare i peli sulla schiena: “Ho bisogno che tu parli con Serenity…”.

Sussulto, le spalle si contraggono ed inevitabilmente mi metto in posizione di difesa, non capendo l’assurdità della sua richiesta. Una parte di me ovviamente mi informa in modo remoto, che non userebbe mai sua figlia per uno scopo meno che nobile e necessario. E probabilmente, visti come sono i nostri rapporti attuali, non mi metterebbe nemmeno nella stessa stanza con lei, se in un caso vistosamente vitale. Eppure, ugualmente, il sospetto mi fa reagire in modo stizzito, mentre biascico: “E per quale motivo, scusa? Di che diamine dovrei parlarle? Non le hai già detto tutto di me?”, e, prima che me ne renda conto, sto già borbottando acida: “Ah già, giusto, Serenity non sa nemmeno chi sono… Raissa era molto esclusiva nella sua percezione di primadonna della tua vita. Bè, comprenderai se la rievocazione storica di me stessa non mi interessa. Non ho niente da dire a Serenity…”.

“Ed invece sì…” mormora lui, in risposta, calmo, i pugni chiusi e il fuoco negli occhi “C’è un argomento sul quale sei sufficientemente erudita e su cui io sono spaventosamente ignorante, mio malgrado…”.

“Quale, Malfoy? Per favore, falla breve…”.

Nostro figlio…” sputa alla fine fuori, facendomi rabbrividire “Serenity vuole che le parli di…”, la sua voce si spezza, si curva, sguscia fuori quasi con timore delicato e raffermo, mentre per la prima volta pronuncia il nome di nostro figlio: “Serenity vuole che le parli di Alex…”.

Non so se è l’ombra del sospetto malfidato che si è insinuato viscido tra me e lui, ma sentirlo dire per la prima volta il nome di Alex suona terribilmente strano, incomprensibilmente strano. Quel nome nella sua bocca non ha l’accenno tenero e dolce che ha sempre avuto per me, accompagnandosi ad un odore soffuso e rappreso che ricorda talco, margherita, arancia. Ha invece un sapore indiscutibilmente amaro di bile, ira, come mosto selvatico, come fiele, come limone acerbo. Sento tutta la difficoltà che ha provato a chiamarlo quel bambino, di cui rivendica sangue e carne, con un nome che probabilmente sente che non gli appartenga, sente che lo fa uscire dalla nebbia rassicurante di una cosa indistinta ed indistinguibile, per dargli una tangenza tagliente che finisce solo per tagliarlo ancora di più fuori.

Da Alex, appunto, ma anche da me e da una vita che è scorsa senza di lui, srotolandosi in modo asettico e sterile per quanto mi riguarda, ma in modo comunque presente ed innegabile per lui.

Non so come faccia a capire tutto questo dalla semplice inflessione sofferta che Draco ha messo nel pronunciare il nome di nostro figlio, venandolo persino da un’onta di disgusto che credo che sia quasi scontata, se penso che suo figlio, l’ultimo dei Malfoy, ha anche un nome completamente babbano.

Non ci avevo mai davvero pensato a questo, al fatto che potesse non accettare come avevo chiamato Alex.

Quel nome, in me, non nacque istintivo come può pensare lui, né tantomeno fu una specie di vendetta e rivalsa: non ho desiderato macchiare un Malfoy con un nome che lo designasse immediatamente come estraneo verso suo padre, altrimenti non avrei fatto sì che portasse il suo cognome con manovre al limite dell’illegalità, per fortuna accondiscese da Harry, e non avrei nemmeno insistito che avesse come secondo nome Leo, come la stella dell’omonima costellazione, così da ricordare che nostro figlio è anche l’ultimo dei Black, assieme a Teddy Lupin. Ho sempre voluto che Alex si sentisse figlio del retaggio che porta diluito, e per fortuna per lui innocuo, nel sangue. Ma mio figlio è cresciuto da babbano, ha conosciuto solo la parte di famiglia che potevo dargli io, i miei genitori, alcuni miei parenti italiani.

Ed avevo sentito quasi subito la necessità di legarlo, a doppia mandata, anche a quella parte del suo sangue: di legarlo a me, quando ancora avevo paura di non essere pronta a fargli da mamma.

Il primo che accettò Alex, forse prima ancora di me, fu mio padre. Si candidò nonno, dal momento in cui spiegai che mio figlio non era frutto della violenza di Dimitri Karkaroff, ma di una normalissima ed ugualmente straordinaria storia d’amore. Andò persino contro mia madre per questo, lei era più riflessiva, più posata, più preoccupata che la sua bambina potesse non essere ancora pronta per pensare alla sopravvivenza e al futuro di una creatura che dipendesse in tutto da lei.

Mio padre invece ha avuto fiducia in me, prima che ne avessi io. Mi portava al corso preparto, mi accompagnava a comprare vestiti quando nemmeno mi importava che mio figlio non fosse nudo, mi forzava a prendere decisioni. Lo odiavo. Fino a quando non vidi Alex, e capii fino a che punto aveva avuto ragione.

Non sono mai stata brava a ringraziare, a fare gesti affettuosi, a profondermi in pompose attestazioni d’amore e riconoscenza.

Semplicemente, dopo tre giorni in cui il mio bambino era un senza nome tra i più carini al mondo, dissi chiaramente che il suo nome era Alexander.

Il nome di mio papà.

Sarebbe difficile spiegare questo a Draco, adesso: probabilmente non sarebbe nemmeno tra le cose più urgenti a questo mondo, visto quanto poco ci rimane probabilmente da vivere.

Quindi, dopo aver accolto la sua stoccata con una fitta al cuore che dubito potrei negare a me stessa, mi limito a chiedere spiegazioni sul perché debba parlare a Serenity di Alex, ignorando tutto il resto. Sinteticamente, Draco mi spiega che ha raccontato a Serenity del fatto che suo fratello sia in pericolo e che lui deve andare a salvarlo, ma la bambina ovviamente più che preoccuparsi del destino del suo padre putativo, la cui grave situazione naturalmente è stata taciuta da Draco, si è notevolmente incuriosita per l’esistenza di questo nuovo fratello, che non ha mai conosciuto e di cui non ha mai sentito parlare. Ha iniziato a fare domande a Draco che non poteva granché rispondere, conoscendo in pratica di Alex solo il suo nome ed il fatto che sia figlio mio e suo.

“Voglio che lei sappia di lui… che lo conosca…” aggiunge infine con voce stanca, massaggiandosi una tempia in modo distratto “Se… non dovessimo farcela… Alex sarà tutto ciò che resta della sua famiglia. E viceversa. È giusto… che lei sappia di lui, prima di vederselo piombare in casa e nella sua vita…”. Draco solleva lo sguardo, spiando la mia reazione, prima di mormorare caustico: “Con lui, non faccio in tempo a dirgli niente di lei… almeno con Serenity posso…”.

“Alex sa tutto quello che poteva sapere di Serenity…” lo interrompo subito, meccanicamente, guardandolo storto “Ha sempre saputo che era sua…”. Mi fermo, rendendomi conto di quello che sto dicendo, di come lo sto dicendo e della persona a cui lo sto dicendo. Draco infatti resta attonito, meravigliato, mi guarda ad occhi sgranati e spalancati, autenticamente sorpreso. Sono così belli i suoi occhi adesso, sanno di diamante e perla che per un attimo mi scordo di dove sono, e di che cosa sto facendo e dicendo.

Lo vedo fare un minuscolo passo nella mia direzione, insicuro, e spiare con lo mio sguardo acceso la mia reazione, che resta quasi terrorizzata, incerta, spaventata. Si ferma allora, lascia ricadere lungo il fianco la mano che aveva inavvertitamente sollevato e sospira a lungo, prima di dire con voce piatta: “Che cosa sa Alex di Serenity?”.

“Quello che sapevo io… quello che potevo dirgli io…” mormoro, guardando altrove, prima di sussurrare nervosamente: “… e quello che mi auguravo per loro…”.

“Cosa?”.

Torno a guardarlo con decisione, sfidandolo persino, mentre dico: “Sa che è sua sorella… l’ha sempre chiamata così… e la chiamerà ancora così…”.

Draco accusa il colpo, tace, abbassa lo sguardo, evidentemente comparando le nostre due situazioni. Serenity non ha mai saputo niente di me. Certo, di Alex non poteva dirgli nulla, non sapendo della sua esistenza, ma non ho mai negato a mio figlio la sua storia, inserendoci anche quella bambina, perché l’ho sempre considerata parte della mia famiglia e perché ho sempre inconsciamente creduto che Draco non l’avrebbe mai lasciata andare. Ma c’è dell’altro, e Draco se ne rende conto subito, perché il suo sguardo torna d’improvviso nel mio, e brucia, splende, arde come l’inferno. Mi fa sentire nuda, spoglia, indifesa, e mi stringo nelle spalle quasi a tenermi unita ed incollata assieme.

Draco è il padre biologico di Alex e quello adottivo di Serenity: era ovvio che li definisse fratelli. Io, per Serenity, non sono mai stata nulla. Eppure, in cinque anni, l’ho chiamata sorella di mio figlio ed involontariamente anche figlia mia, e non perché rivendicassi qualcosa su quella bambina… no. Perché ero certa che quando avrei trovato Draco, avrei trovato anche lei… e speravo di poterla chiamare figlia, come Alex. Ne ero certa, altro che sperare… e si è visto la mia bella certezza che fine ha fatto.

Fa male, fa malissimo adesso ripensarci, e lasciare che quella meravigliosa illusione si sciolga come zucchero nello sguardo di Draco che mi accarezza, spogliandomi, baciandomi, incensandomi, e di nuovo odiandomi, disprezzandomi, maledicendomi, mentre si ricorda di tutto il resto che c’è tra noi.

Lascio cadere le braccia, mormorando: “Lasciamo perdere. Va bene. Parlerò con Serenity… portami da lei…”. Draco apre la bocca come se stesse ancora per dire qualcosa, poi si arrende e mi fa strada. Lo seguo in silenzio nel corridoio, fino ad una porta bianca di legno come le altre, che però reca una vezzosa targhetta che, in roselline fucsia, descrive le lettere del nome di Serenity. Draco sospira, mi guarda come a chiedermi assenso definitivo e, al mio cenno statico di resa, apre la porta con decisione.

La camera è in penombra, le tende bianche sono tirate e la sola luce proviene da una lampada sul comodino, che proietta cuori e stelle colorati sul soffitto. È la tipica camera di una bambina: pareti rosa, disegni di principesse alle pareti, una libreria ed una piccola scrivania sempre di colore rosa, peluche e bambole, un letto la cui testiera assomiglia ad un castello. Tutto ha un odore penetrante di ciliegia e lavanda, mi ricorda il profumo che Draco associava ad Helena e mi chiedo se sia una cosa più o meno voluta, o casuale, che sua figlia abbia lo stesso profumo di sua madre.

Serenity è già a letto, seduta composta come una regina: ha i capelli biondi sciolti, ricadono in onde leziose lungo la schiena. Porta un pigiama con i coniglietti rosa anch’essi, ma ha il viso imperturbabile di una ventenne. Gli occhi sono fissi, fuoco ceruleo, su me e su Draco, attendono risposte, si affollano di domande. Sussurra un semplice saluto affrettato ed educato nella mia direzione, prima di guardare Draco in attesa. Lui mi sorpassa e si siede accanto a lei, sul letto. Hanno un modo di guardarsi particolare, muto, silenzioso, che va al di là della comunicazione normale ed anche al di là di come normalmente ci si guarda tra padre e figlia. Serenity lo guarda con un sottotesto di adorazione, che Draco ricambia in eguale modo. Io ed Alex non ci siamo mai guardati così: certo è la persona che amo di più al mondo, ma ho sempre mantenuto la distanza ovvia che dovevo tenere per proteggerlo come madre e preservarlo da me stessa e da ciò che poteva danneggiarlo. Lui comunque spesso capiva le cose da solo… ma io non lo guardavo così, mai, da pari a pari. È un bambino, penso che fosse giusto così. Serenity ha invece già le fattezze e lo sguardo di una donna, a cui suo padre può persino appoggiarsi se crede. Sono un mondo a sé, una bolla luminosa, dove dubito che qualcuno entrerà mai. Ciò quasi mi risarcisce del posto che, quindi, doveva avere Raissa. Ma al contempo mi incute una strana diffidenza, specie nell’ottica delle fantasie che avevo su una nostra famiglia e dove avevo sempre considerato Serenity ed Alex come pari figli miei e di Draco.

Serenity sarà sempre diversa per Draco, sempre…. Anche quando e se conoscerà nostro figlio.

Sarà per sempre così, c’è troppo legame tra loro… in un modo morboso quasi, che finisce persino per spaventarmi.

Mi stringo nelle spalle, mentre Draco spiega a Serenity in modo laconico: “Lei… è la mamma di tuo fratello, bimba… puoi fare a lei le domande che volevi farmi. Va bene?”.

Serenity mi studia per un attimo, in attesa. I suoi occhi azzurri soppesano interamente la mia figura, come a volersi imprimere ogni particolare nella testa alla ricerca di qualcosa che la spinga a fidarsi di me o, viceversa, a cacciarmi fuori. Trova evidentemente qualcosa che la convince positivamente, ed annuisce all’indirizzo di suo padre. Draco sospira, accarezzando la testa della bambina, e dopo fa cenno a me di sedermi sul letto accanto a lei. Imbarazzata, mi accorgo che Draco non fa altro che alzarsi dal letto ed accomodarsi in una poltrona poco distante. Non ha alcuna intenzione di lasciarmi da sola con la bambina. Mi chiedo che cosa prevalga in lui, al momento: se la curiosità su ciò che dirò su nostro figlio, o la preoccupazione per sua figlia.

In ogni caso, non ho molta scelta. Esitante, mi siedo sul letto accanto a Serenity e, cercando di essere quanto più allegra e rassicurante possibile, dico dolce: “Ciao Serenity…”.

“Buonasera…” mi risponde lei educatamente, guardandomi in tralice. Sono a disagio, mi sembra di essere seduta su un letto di spine. Serenity ha ben poco della bambina di un anno, che tenevo tra le braccia e a cui facevo il bagno, raccontandole i miei pensieri. È impettita, seria, composta. Persino il suo saluto è formale. È un curioso controsenso: ha l’aspetto di una bambina, ma non si comporta come tale. Lo avevo già intuito, paragonandola a Charisma, da cui porta solo quattro anni di differenza. Ma adesso è evidente come il sole. Ha occhi torbidi, foschi, sporchi: nulla del candore infantile, tutto della consapevolezza adulta. È cresciuta in modo strano… non assomiglia neanche ad Helena. Lei era il suo opposto. Occhi da primavera, da bimba, in un corpo da donna. Serenity è il contrario.

Cerco di non farmi impensierire né da questo, né dalla presenza silente di Draco alle mie spalle, e mormoro, decisa a darci un taglio prima possibile: “Chiedimi tutto quello che vuoi…”.

Serenity annuisce, mette su un’espressione imbronciata. Guarda la coperta rosa, su cui poggia le mani contratte, poi chiede d’un fiato: “Lei… per caso… è Helena?”.

Sento Draco muoversi sulla sedia, in modo fulmineo, facendo cenno di alzarsi e di venirci incontro. Prima che però lo faccia, intenerita da quello che finalmente sembra un accenno infantile in lei, recupero l’autocontrollo da mamma che per fortuna ho ancora nel sangue. È normale che abbia pensato che sia anche la sua di mamma. I fratelli, in fondo, sono tali per l’uguaglianza dei genitori. E sebbene Draco le deve aver già detto che Helena è morta, la speranza in una bambina è l’ultima a morire, sempre. Si colora di fiaba, illusione e magia, diventando semplicemente una storia qualunque e fantastica a cui credere. La morte non può essere per sempre: un bambino neanche ci arriva a pensare al “mai più”.

Essere di nuovo sul mio terreno, scoprire in quella piccola qualcosa che sembri finalmente autentico, mi spinge persino a fare un cenno verso Draco, imponendogli di stare dov’è. Lui mi guarda storto, ma non si muove. A quel punto, mi sistemo meglio sul letto, sorrido ed accarezzo lievemente le dita di Serenity. Lei mi guarda un po’ dubbiosa, ma non si ritrae.

“No, tesoro, mi d-dispiace… non sono la tua mamma…” dico serenamente, guardandola in viso “Era una bellissima donna. Sembrava una principessa… credimi, non somigliava affatto a me…”. Faccio una buffa smorfia, arricciando il naso. Serenity, finalmente, sorride calorosamente, divertita. Istintivamente chiude la manina su quella che ho ancora sulla sua.

Solo adesso, d’un tratto, mi ricorda la bimba che mi chiamava Mione.

Le sorrido ancora, Draco alle mie spalle sembra più tranquillo e si siede daccapo.

“Io mi chiamo Hermione Granger…” spiego con voce calma “Ci siamo viste parecchio in questi giorni, ma non credo di essermi mai presentata. Mi dispiace… sono stata davvero maleducata. Tu invece sei proprio una signorina…”, Serenity sorride fiera di sé stessa, raddrizzando la schiena. Continuo quindi più tranquilla, optando ovviamente per una versione neutra: “Sono una vecchia amica del tuo papà, lavoravamo assieme in un bar a Londra…”.

“Il Petite Peste? Assieme a zio Seth?” mi precede lei, le guance rosse.

“Sì, sì, bravissima…” sorrido incoraggiante, mi sono accorta subito che adora essere lodata. Dubbiosa ma incoraggiata dal fatto che Draco non stia intervenendo, decido di rincarare la dose aggiungendo: “Ti ho conosciuta quando eri molto piccola. Ricordo che ti piacevano molto i cavalli… una volta sei persino scappata per andare a giocare con loro…”. Serenity per un attimo mi guarda ancora incerta, poi qualcosa si illumina nella sua espressione. Evidentemente deve conoscere questo episodio, quello della sua sparizione a Wonderland… io lotterei per diventare il motivo che cerchi… scrollo il capo agli sgraditi e molesti ricordi, tornando a Serenity che, entusiasta, mi risponde: “Papà me l’ha raccontato. Mi piacciono molto anche adesso i cavalli… vado a scuola di equitazione. Ed il mio cavallo si chiama Cannella. Ha il pelo lucido e marrone”.

“Deve essere molto bello…”.

“Molto… ma un po’ indisciplinato… non vuole correre quando glielo dico io, ma solo quando va a lui…”.

“Scommetto che imparerà…” commento sinceramente, ormai più vicina ad una conversazione normale con una bambina. La sensazione di estraneità e disagio sembra quasi passata del tutto. Mi metto persino più comoda, mentre aggiungo calorosa: “Sei sempre stata molto brava con gli animali, sin da bambina. Me lo ricordo ancora…”.

Serenity quindi si sporge su di me, prende a sussurrare complice, guardandomi come se stesse confidando un segreto: “Lei quindi era con papà, allora? Il giorno in cui sono scappata?”.

“Sì, ero con il tuo papà… eravamo…” mi interrompo alla ricerca di una verosimile definizione di quello che eravamo. Il silenzio di Draco, alle mie spalle, e la sensazione degli occhi che mi stanno perforando la schiena non è decisamente d’aiuto. Ma alla fine sputo fuori con falsa tranquillità: “Eravamo amici, ecco…”.

Amici…

Non ricordo un maledetto momento in cui ho potuto chiamare Draco Malfoy mio amico.

Nemmeno allora a Wonderland: era già un mistero nel sangue, che scoppiava di febbre peggio di una malattia.

Mai mezze misure, mai grigio, mai quieto ricordo acquattato nell’ombra. Sempre odio, morte, sangue, amore, passione, sopravvivenza. Mai meno. Semmai sempre di più.

Torno a Serenity, simulando ancora calma e serenità e dicendo gentile, certa ormai di essermi guadagnata un po’ della sua fiducia apparentemente riottosa: “Quindi se ti conosco non c’è bisogno che mi dai del lei, non credi?”.

“Credo di sì…” dice alla fine lei con un profondo sorriso, e solo adesso, per un attimo, vedo Helena nei suoi tratti, quella che ho imparato a conoscere dai ricordi di Draco. Persino l’aura del profumo alla ciliegia si fa più forte. Sembra pensare un po’, aggrottando le sopracciglia, prima di chiedere incerta: “Quindi lei, anzi, tu… sei la mamma di mio fratello?”.

“Sì…”.

“Come si chiama?”.

“Si chiama Alex…” dico con voce sommessa, persino il suo nome mi fa contrarre lo stomaco, poi aggiungo a voce più alta, quasi rivolgendomi alla silenziosa platea alle mie spalle: “Alexander Leo Malfoy…”.

Onestamente, non so perché ho bisogno di dirlo a voce alta, perché lui lo senta, lo ricordi. Semplicemente, con una nettezza disarmante, so adesso che probabilmente questo sarà l’unico momento in cui Draco saprà qualcosa di suo figlio. E voglio che sappia quanto possibile… ha ragione, in fondo. Lui vuole che Serenity sappia di Alex, io voglio che lui sappia di Alex.

È per mio figlio.

Idealmente oggi cucio la famiglia che non ha mai potuto avere.

Serenity sgrana gli occhi, sorpresa, ed erompe con voce squillante: “Ha lo stesso cognome di papà!”. Draco, alle mie spalle, si schiarisce la voce, non mi azzardo a voltarmi nella sua direzione, annuendo piuttosto alla bambina che continua, ispirata: “Io invece no… mi chiamo Diggory. Sono nata da un altro papà, quindi mi chiamo così…”. La dolcezza quieta e pacata che Serenity mette in queste parole, facendomi ricordare automaticamente il volto sereno di Amos Diggory mentre affrontava la sua fine, mi spinge a chiudere gli occhi velocemente per nascondere un pizzicore diffuso che potrebbe diventare lacrime assolutamente inopportune. Ancora, dietro di me, Draco si schiarisce la voce.

“E perché mio fratello si chiama proprio Alex? È un nome babbano… non è un mago come me?” chiede ancora curiosa Serenity, il volto rosso. Non sapeva del mondo della Magia fino a quando l’ho interrogata con la pozione della Verità. Evidentemente, poco fa, Draco deve averle spiegato anche questo. Continuo, dopo qualche secondo: “Sì, sì, anche lui è un mago… ma si chiama così perché il mio papà si chiama Alexander… volevo chiamarlo come lui…”.

Ecco, adesso, sa anche questo. In silenzio, lo sfido quasi ad obiettare, a dire qualsiasi cosa. Ma Draco continua a tacere come dall’inizio di questa conversazione. Vorrei tanto girarmi per vedere qualcosa della sua espressione, capire che cosa sta pensando, ma Serenity riprende a parlare vivace, prevenendo qualsiasi mia intenzione: “Quindi anche Alex fa delle magie? Io una volta ho sollevato il tavolo e rovesciato le sedie… ma Raissa si è arrabbiata… ”.

Le spalle mi si contraggono a quel nome, mentre un enorme pezzo di ghiaccio mi cade enorme e gelido nello stomaco, dandomi la nausea. Stringo forte il lenzuolo tra le dita, trattenendomi dall’impulso di prendere di andarmene da qui per correre altrove, così da trovare quella maledetta donna che mi ha distrutto la vita. Poi ricordo che, purtroppo, nella matematica della vita e nella somiglianza delle cose impossibili, Ron sta ad Alex come Raissa sta a Serenity. Lui è stato una copertura per me, e una specie di padre per Alex. Raissa, a suo modo, è stata anche una specie di madre per Serenity. Non posso accettare quella specie di surrogato sporco di compagna che è stata per Draco, ma perlomeno il ruolo che ha avuto nella vita di Serenity devo accettarlo. Per il bene di questa bambina.

Quindi, dopo qualche secondo di esitazione, ingoio il veleno, faccio il migliore dei miei sorrisi e riprendo gioviale: “Sì, anche Alex fa delle magie ma molto piccole… spesso quando fa i capricci e non vuole mangiare la verdura. La fa sparire. E poi ricompare in giro per casa…”.

“Neanche a papà piace la verdura, specie le carote…”.

Questo è persino peggio. Questa cosa stupida fa persino più male di tutto il resto del discorso… Alex che odia le carote. Draco che odia le carote.

Mi mordo l’unghia del pollice con ansia, borbottando: “Specie le carote, già…”.

Sento alle mie spalle un movimento involontario di Draco, come se si fosse nuovamente poggiato sulla poltrona, dopo essersi inarcato con ansia in avanti.

L’altra sera, quando mi hai visto… ti ho ricordato lui, non è così? Mi somiglia pure, non è così?

E’ tuo figlio… è ovvio che ti somigli…       

Quante somiglianze hanno, ancora, che io ho già non ho visto? In quanto è ancora suo figlio, oltre che mio?

Il palmo delle mani prende a sudarmi in preda all’ansia, lo asciugo freneticamente sulla stoffa del piumone, la voce di Serenity continua ad interrogarmi e la sento con una parte remota della mia mente, presa in tutti altri pensieri. Sembra la vendetta al contrario del Veritaserum che le ho propinato io. Il karma è davvero una brutta bestia.

Ogni sua domanda è porta di ingressi privilegiati in ricordi, uno più letale dell’altro, e in immaginazioni di giorni che non verranno mai. 

“Quanti anni ha? Va già a scuola?”.

“Ha cinque anni. In Italia andava all’asilo… inizierà la scuola elementare a settembre…”.

“Gli piace il calcio? Io lo detesto!”.

“Purtroppo sì, gli piace… ma anche io lo detesto, tranquilla!”.

“E gioca spesso a calcio?”.

“Non tanto… è ancora piccolo. Ma sta imparando a nuotare… Charisma, l’hai conosciuta? Vuole che impari a nuotare… così possono andare in spiaggia con Biscotto”.

“Papà non vuole che io abbia un cane… perché lui ce l’ha, invece?”.

“Perché… era un cagnolino abbandonato… e papà ha fatto un’eccezione…”.

“Quindi anche un po’ mio Biscotto?”.

“Certo piccola…”.

Gli occhi della bambina iniziano lentamente a socchiudersi progressivamente, vinti dal sonno. Respiro di sollievo al pensiero che si addormenti, e mi liberi da questo interrogatorio. Ma, infida come la lama di un coltello, mentre Serenity reclina lievemente il collo di lato, quasi vinta dalla stanchezza, mi giunge in un sussurro la domanda che temevo: “Papà dice sempre che io sono uguale a mia mamma, ad Helena… anche Alex è uguale a te?”.

No. Eccola la risposta.

No.

Due maledette lettere incastonate nel cervello. E io andrò in pezzi, se lo dico. E se non lo dico, sarò bugiarda e spergiura, rinnegando mio figlio. E se lo dico, come mi trattengo tutta assieme dentro questo corpo, senza esplodere lontana? E se non lo dico, come sopporterò il suo silenzio alle mie spalle, sapendo che gli sto mentendo?

Perché la verità è che è uguale a lui… ma se lo dico, io ricordo Alex con la chiarezza che non mi farebbe più ragionare… mi unisco di nuovo a Draco, nel sangue che è fluito in me e ha generato Alex. Se lo dico, ricordo che ce l’ho avuto dentro, sopra di me, ad accarezzarmi i capelli, spostando petali di rosa, a dirmi che mi amava, a respirarmi di fuoco sulla spalla, a ridermi nelle orecchie, a piantarmi il cuore e il corpo di questo bambino che non sarà più solo un bambino qualunque.

Sarà suo figlio.

Sarà mio figlio.

Sarà carne e sangue, respiro ed anima. Sarà me e lui, uniti, in una forma che non avremo mai più. E che non posso sopportare che non avremo mai più.

Non lo posso sopportare. E lo odio, per questo. Mi odio per questo. Perché lo voglio ancora, lo vorrò sempre. Lo amo ancora, lo amerò sempre.

Non nella maniera perfetta e nobile che vuole Adamar per salvarci… ma in un modo lercio e voluttuoso, che è solo una vendetta mai libera.

Si nutre di rammarico e rimpianto, mangia pezzi di mio figlio, gode di simmetrie e somiglianze, si strappa di dosso differenze e si scava di distanze.

Questo sono diventata: amando lui, odio me stessa. Come mai era successo, nonostante tutto, nonostante lo Zahir.

Allora io mi odiavo perché non ero abbastanza per lui. Adesso… non è così.

Come faccio a rispondere, adesso? Come faccio a dire la verità, adesso? Come faccio a sentirlo dentro di nuovo, sapendo che non lo avrò mai più?

Respiro a fondo, scelgo le parole, sono sincera ma non completamente. Fingo che non ci sia, mi iberno e mi chiudo a chiave, sperando che basti.

“Alex ha qualcosa di me… ma non è uguale a me. Mi fa arrabbiare tante volte proprio perché è diverso da me…”.

“E’ cattivo?”.

Serenity è una bambina, è innocente, non è la maliarda ingorda che vedo io. Non fa le domande per scavarmi il cuore con un cucchiaino. Dice quello che sente, quello che crede. È innocente.

Sono io che esplodo, in mille pezzi diversi.  E non so nemmeno con chi maledizione sto parlando. E di chi sto parlando.

Di mio figlio. Di quanto amo lui. O di Draco. E di quanto potrei ancora amare lui.

Non lo so più.

Ho gli occhi congelati su un quadrato di stoffa del piumone. Vedo fucsia e rosa, oro e cremisi. Ma in realtà è tutto grigio perla, diamante, latte e ghiaccio.

Il mio colore preferito: il rosso non ha mai retto il confronto. Non è mai stato il colore del cuore, per me. Mai.

Il cuore, il sangue, le viscere: tutto grigio. Tempesta, lampo, mare di dicembre, nube acquosa, strada maestra, spuma di onda, carta e libro, pietra carsica, caverna di roccia, capelli di vecchio, argento vivo, luna e stella, pioggia dalla finestra, cenere e fondo di fiume, lacrima sporca: gli occhi di Alex. Gli occhi di Draco.

“No, tesoro. È un bravissimo bambino. Ma è sempre convinto di avere ragione… ed è furbo, testardo, fa di me quello che vuole, cerca sempre di trovare il pelo nell’uovo per dimostrarmi che ho torto. Ed è terribilmente orgoglioso, permaloso. Ha bisogno sempre delle prove per tutto ciò che fa. È allergico alle fragole, per esempio? Non ci crede, fino a quando non sta male dopo averle mangiate. Mi contesta spesso, mi sfida in continuazione… ma mai con arroganza, maleducazione, spavalderia. È semplicemente fatto così. Però… capisce le persone. Capisce chi sta male, prima ancora di averne conferma. Ed è delicato, sta attento a quello che dice, cerca di non fare soffrire nessuno. Spesso penso che si senta solo. Ma non me lo fa capire mai. Se ne sta zitto, in silenzio, finché non passa. È gentile, specie con i più piccoli, con gli anziani e con gli animali. Mi fa dei regali, ma me li nasconde in posti segreti e, quando li trovo, si vergogna nell’essere ringraziato. Gli piacciono i brownies, mangerebbe solo quelli. Ed ha un’intera collezione di magliette azzurre, perché dice che il rosso è da femmina. Ha paura del mare, perché ne ho paura io. La sua fiaba preferita è “Il piccolo principe”, ma non gli piacciono le fiabe, preferisce i fumetti dei supereroi e le storie di guerra. Ha letto una versione dell’Iliade in prosa di nascosto, temevo che fosse troppo violenta. E da allora adora Patroclo, perché dice che è morto per un amico. Quando piove, deve sempre camminare nelle pozzanghere. E mi fa arrabbiare come non mai. Poi sorride, mi chiede scusa, e so che non lo pensa, so che mi sta prendendo in giro, ed allora mi arrabbio di più. E lui allora mi abbraccia le ginocchia, nasconde la faccia e mi dice che mi vuole bene. E solo allora ci credo davvero…”.

Tiro su con il naso, prevenendo le lacrime, e mi chiudo nelle spalle. Mi trema il labbro, per favore sfiorami… anche solo per sbaglio, anche solo per pietà. Soffri con me, piangi con me, straziati il cuore con me. Non posso perdere lui. Non lo posso perdere, Draco. Ho già perso te. Non posso perdere anche lui.

Ho già perso te.

Sollevo lo sguardo, cercando di simulare un’espressione normale e serena per tranquillizzare Serenity. Il letto va giù, e poi su di nuovo.

E Draco si è seduto alle mie spalle, in silenzio, vedo con la coda dell’occhio le sue gambe piegate, poco distanti dalle mie. Non fa nulla, non dice nulla. Ha un odore buono, di casa. Non riesco a guardarlo in viso, ho gli occhi fissi su Serenity. La mia schiena trema, pelle d’oca e brividi.

“E’ in pericolo, adesso? Tornerà a casa?” la voce di Serenity suona fioca, spaventata.

Draco si fa più vicino, non so come si muova così in silenzio. Il cuore scoppia, ovunque.

“Puoi starne certa, tesoro… lo vedrai presto… e se vorrai, gli insegnerai ad andare a cavallo…”. La mia voce è quasi un singulto, un gemito.

La sua mano si poggia sul mio ginocchio. Sussulto, sono giunco e lui tempesta, sono ramo secco e lui fuoco. Mi sfugge un respiro più forte dei precedenti, la mia pelle riconosce le sue dita sopra la stoffa dei pantaloni leggeri che porto. La mia mano scivola dallo spazio che aveva guadagnato nell’intermezzo tra le nostre due gambe, smette di stringere il piumone con l’ansia di lacerarlo. Sale sulla mia gamba. Si accuccia vicino alla sua mano.

“E lui può insegnare a me il calcio…”.

“Non ne vedrà l’ora…”.

Si trovano le nostre mani a metà strada. Si sfiorano lievi prima, e quasi si spaventano, si ritraggono. Poi si riconoscono di nuovo. Lui scivola sulla mia mano, la copre con la propria. Io blocco le sue dita nell’incavo tra le mie. Lascio che stringa forte, stringo forte. Chiudo gli occhi, mi manca il fiato, l’aria. E non so che altro.

Lo sputo fuori e basta. Serenity si sta addormentando e io lo dico e basta, a bassa voce. A lui. Non alla bambina.

“Vuoi vedere una sua fotografia?”.

Serenity mugugna qualcosa, la testa piegata sulla testiera del letto. Draco accarezza con il pollice il palmo della mia mano, rabbrividisco. Sembra che persino le vene, sotto la pelle, vadano a fuoco. Tutto il corpo formicola di un contatto lieve e leggero. Stupido, da bambini… ed impersonale, da genitori. Tenersi la mano come due adolescenti. Ed invece… è peggio che fare davvero l’amore.

Possibile che mi faccia ancora quest’effetto? Possibile che non smetta mai di farmi effetto? Possibile che tutto diventi ghiaccio sciolto, carta straccia, cenere di legno, se solo mi tocca? È davvero possibile, ancora? È solo una mano nella mia, la premura asfittica del genitore e il rimpianto acre dell’amante. Ed ancora, impossibile da dirsi, mi fa effetto.

Un effetto lercio, sfilacciato, monco: un retaggio di abitudine, un avamposto di ricordo, un grimaldello di rimpianto, un singhiozzo di desiderio. Ma non smette di fare effetto.

Contro orgoglio. Contro logica. Contro amor proprio.

Amando lui, odio me stessa.

Con la scusa di afferrare la bacchetta dalla mia tasca, stacco velocemente la mia mano dalla sua, con la sensazione benefica di tornare a respirare. Sento l’esitazione nel suo sguardo e nella mano che resta ancora, per un po’, poggiata sulla mia gamba. Poi sfugge via, rabbiosa, lesta, veloce, mentre io con voce rotta dico: “Accio album”. Dopo qualche secondo, l’album di pelle azzurra che tenevo nascosto nella mia valigia, compare fluttuando nella stanza, cascando dolcemente sulle mie gambe. Mi volto verso Serenity, la bambina ormai è cascata addormentata, sarebbe inutile svegliarla come alibi di una conversazione civile tra me e Draco. Seguendo la direzione del mio sguardo, Draco alla fine si alza in piedi, sospirando, e sistema meglio sotto le coperte sua figlia, che non fa cenno di svegliarsi. Le bacia la fronte e le accarezza i capelli per qualche secondo, forse chiedendosi intimamente se la rivedrà ancora. Resto seduta lì, le unghie artigliate sulla superficie dell’album di fotografie, sentendomi di troppo e chiedendomi se non sia il caso di uscire, per lasciarlo da solo. Ma dopo pochi secondi, Draco si avvicina alla poltrona su cui era seduto prima, la prende per i braccioli e si sistema di fronte a me, non accennando più a volersi sedere accanto a me per toccarmi ancora. La sua manovra mi fa trasudare di tenace sollievo.

Apro l’album, ma decido con ostinazione di arrivare velocemente alle ultime pagine: non ho granché intenzione di commentare con lui le prime fotografie, risalenti nel tempo al periodo della gravidanza e alla nascita di Alex, sperando che non si accorga o concentri sulla mia manovra diversiva. Trovo immediatamente la foto che stavo cercando, l’abbiamo scattata appena arrivati a Londra, dopo il nostro viaggio dall’Italia, ed è l’ultima che ho di Alex, la più recente. È quella che meglio lo rappresenta: glielo ho scattata nel giardino di Pansy, in una pausa del gioco con Charisma, ha la faccia imbronciata e sporca di terreno, l’espressione dispettosa di chi è stato distolto da una faccenda molto importante. I capelli biondo scuro sono tutti spettinati, ma sembra più lui di tutte le foto impostate che gli ho fatto in duemila occasioni diverse. Accarezzo la superficie liscia della fotografia, trattenendo un singhiozzo, per poi passare l’album a Draco che lo prende quasi con la punta delle dita, poggiandolo poi in grembo e lisciando la pagina con la mano aperta.

Soppesa la pagina per lunghissimi attimi, minuti che si srotolano senza soluzione di continuità. Di primo acchito, la sua espressione sembra quasi clinica, fredda. Esamina la fotografia con attenzione maniacale, vedo gli occhi saettare da una parte all’altra senza pace, saziandosi di particolari. Le nocche delle sue mani sono bianche, fredde, artigliate attorno alla copertina dell’album come se ne morisse lasciandolo andare. Sembra… lontanissimo. Il cuore mi batte furiosamente in petto, cerco assenso nei suoi tratti, cerco l’amore istantaneo che nasce per un figlio, cerco la consapevolezza che io l’abbia cresciuto nella migliore delle maniere possibili. Ma è impossibile leggergli dentro, adesso, è impossibile. È solo immoto, fermo, ad occhi sgranati.

Mi manca il respiro, davvero. Mi sembra di stare sott’acqua. E ho già chiarito quanto detesti adesso l’acqua, grazie ad Astoria.

Solo dopo quello che io considero un’eternità, Draco finalmente si muove. Semplicemente, respira forte, un greve sospiro trattenuto. E si massaggia lentamente con due dita, lo spazio tra gli occhi chiusi.

Come se stesse facendo di tutto… per non…

Un luccichio balugina nel suo sguardo, quando torna a guardare me, arreso, vinto, sconfitto, distrutto.

per non piangere.

È un momento intimo, segreto, nascosto. Non dovrei essere qui a vederlo. Faccio quindi la sola cosa che mi viene in mente di fare, conoscendo Draco e sapendo quanto sia parco con le sue emozioni, specie con le lacrime. Mi ha concesso pochissime volte di vederle. E mi ha sempre detto che, dalla morte di Helena, piangere per lui è la cosa peggiore che gli possa succedere, ci arriva solo quando non è in grado di fermarsi, quando semplicemente… è troppo. Ecco: e so anche che, quando è troppo, se ne vergogna. Vuole stare da solo, non vuole che nessuno lo veda, non vuole che nessuno pianga con lui. E io, a piangere, ci sono davvero molto vicina, adesso.

Quindi, semplicemente, prendo tempo, fingendo occupazioni diverse. Mi alzo in piedi e mi fermo in piedi davanti alla finestra, prima di socchiuderla appena, come se io avessi bisogno d’aria. Soffia salsedine e pino nella stanza, spero che gli porti sollievo. Poi, ancora, fingo di voler controllare che Serenity stia dormendo serenamente, che il suo cuscino sia ben sprimacciato, che non abbia freddo o caldo: occupazioni da mamma che non mi distraggono affatto, visto che sono giorni che non posso compierle con Alex, ma almeno gli do il tempo di provare a ricacciare indietro… il troppo.

Un figlio che non conosce e forse non conoscerà mai. Un figlio che… è identico a lui.

Io sarei già esplosa in mille pezzi.

Tento con tutte le forze di concentrarmi su altro, ciondolando per la stanza e guardando libri, fotografie, giochi. Se piango anche io, adesso, è la fine.

Per fortuna, quando ormai sono certa che, a breve, scoppierò in lacrime, vanificando tutti i miei sforzi, sento un colpo di tosse nervosa. Mi volto verso di lui, ha gli occhi arrossati ma sembra non aver pianto. È riuscito a trattenersi. Sembra solo… stanco, sfatto. Con quell’album ancora sulle gambe. Sussurra solo, la voce bassa come quella di un morente: “E’ alto… sembra molto… alto…”.

Si riferisce ad Alex, ovviamente. Sorrido con il maggiore calore che mi riesce, e mi siedo daccapo sul letto di fronte a lui. Segue le mie manovre in silenzio, gli sfugge qualcosa sul viso che assomiglia ad uno sbuffo di rassegnazione, come se si fosse accorto di tutta la mia manovra diversiva. Non commenta però, resta in attesa della mia risposta.

“1 metro e 20 centimetri…” dico con una punta d’orgoglio, sorridendo ancora “È il più alto della sua classe...”.

“Nella tua famiglia non sono molto alti che io ricordi…” replica a voce più accorata, qualcosa che gli fiammeggia nello sguardo. Orgoglio. Immediato, istantaneo.

Così brucia l’amore del genitore. Un moccioso urlante tra le braccia, ancora sporco di placenta e sangue. Una fotografia stupida tra le dita, saporosa di passato e rimpianto.

E non sei più uguale a prima: tessi tele e ricami che siano i vessilli del sangue che vi lega. Se ci somiglia, è la migliore versione di noi stessi. Se non ci somiglia, è il migliore rimpiazzo a noi stessi.

Sorrido ancora, immaginando tutto quello che ora, nonostante tutto, sta accadendo nella mente di Draco.

E quindi gli concedo di dire lieve: “No. Nella mia famiglia non siamo molto alti. Non ha preso da me…”.

“Non ero così alto da bambino…” obietta giustamente, guardando ancora la fotografia attentamente.

Sono incerta, a quel punto, nel continuare. So perfettamente da chi ha preso Alex la sua altezza. Me ne sono accorta subito, scorrendo mentalmente i nostri alberi genealogici.

Ripenso alle foto in camera di Draco, ripenso a come in alcune di esse semplicemente c’era una figura che comprimeva tutte le altre.

Lucius Malfoy.

Esitante, preoccupata di risvegliare chissà che fantasmi, sussurro: “Ma lo era… tuo padre…”.

Draco inarca un sopracciglio, continuando a guardare la fotografia, senza apparire sconvolto o irritato. Continua ad essere semplicemente curioso. Ti sei davvero riconciliato con il loro ricordo, allora.

Quella mia impressione viene confermata dalle sue parole successive, pronunciate con voce chiara e tersa, senza che nulla le spezzi o pieghi: “Hai ragione. Ha qualcosa di lui… di… Lucius…e persino… di mia madre…”.

“Lo so…”.

“Il mento. La forma dei capelli…”.

“E il colore degli occhi…”.

La prima cosa che vidi di lui: quella per cui pensai che era davvero tuo figlio. Non vedi che ha i tuoi occhi?

Sono innamorata follemente di quegli occhi.

Draco soppesa ancora la foto, ha uno sguardo più luminoso, mentre asserisce in un sussurro spezzato: “E’ un Malfoy. L’avrei riconosciuto anche se non avessi saputo che era mio…”. Mi stringo nelle spalle, annuendo, l’ho sempre saputo, ha preso tantissimo dalla sua stirpe. Tranne il male. Quello è rimasto nel mio sangue. L’ha iniettato lui, Draco, e l’ha lasciato lì, pronto a farmi marcire dall’interno.

Draco, improvvisamente, alza lo sguardo, mi studia come se stesse cercando qualcosa nel mio viso, sgrana gli occhi, torna a guardare la fotografia.

“Ma… ha anche qualcosa di tuo…” dice d’improvviso serio, pensoso, mordicchiandosi il labbro inferiore con un sorriso storto, prima di sputare fuori con aria sofferta: “Dio… ti somiglia così tanto…”.

Il mio cuore ha un battito più forte, bloccato, smorzato e soffocato dalle costole. Mi stringo sotto il seno, cercando di fermarlo, ed obietto acida: “In cosa, scusa? A parte che gli piace leggere e qualcosa del carattere… esteticamente è la tua fotocopia…”.

Draco non si scompone di un millimetro, mi guarda ancora, ha uno sguardo penetrante di madreperla che mi sembra mi screzi dentro. Piano, replica: “Granger, lo conosco bene il tuo dannato viso. Ha le tue labbra, il tuo taglio degli occhi... e quel broncio non è mio. È tuo. L’espressione da pesce palla…”, sorride teneramente e qualcosa di caldo e denso si scioglie dentro il mio petto, rischiando di soffocarmi. Mi schiarisco la voce, distogliendo lo sguardo, mentre lui sussurra sarcastico: “Quella avrei evitato volentieri che la ereditasse…”.

Sorrido ancora, sbuffando con finta irritazione: “Ereditata e migliorata con una notevole dose di impertinenza che non è mia … appena lo vedrai, te ne renderai conto…”.

Qualche secondo di silenzio, un muscolo del viso che si contrae in modo involontario, una smorfia fastidiosa, come uno spasmo al ventre che lascia senza fiato.

Poi lo sguardo su di me, occhi tempesta e ghiaccio, labbra contratte. E la voce accorata, sofferta, che si aggrappa senza speranze. A me. E dice: “Perché io lo vedrò, Hermione? Credi che lo vedrò? Conoscerò mio figlio?”.

Boccheggio senza fiato, non ce l’ho ovviamente la risposta. O intimamente, credo anche di averla, ma non palesarla a me stessa la rende meno reale. Se odio il pensiero di non rivedere più Alex, semplicemente non sopporto che lui neanche lo possa conoscere. Quindi, per mitigare quell’atrocità, sussurro la prima cosa che mi viene in mente, cercando di cambiare discorso: “Vuoi vedere il resto delle foto?”. Draco fa un sorriso piccolo ed obliquo, che non gli arriva agli occhi, probabilmente intuendo la mia elusione, ma annuisce e mi ringrazia. Non avevo la benché minima intenzione che vedesse altro di quell’album, specie perché è pieno di foto dell’Italia che mi ricordano un periodo di cui vorrei sapesse il meno possibile. Ma, ancora, devo tutto questo ad Alex. Se suo padre molto probabilmente non lo conoscerà mai, si merita perlomeno di averne il quadro più esauriente possibile, sebbene in sua assenza. E quelle foto sono il mezzo migliore, mio malgrado.

Draco le scorre avido, girando le pagine con attenzione, come se tenesse una reliquia. È prodigo di domande, cerca spiegazioni, mi inonda di richieste di chiarimenti e di particolari a cui neanche io, con tutto che ho vissuto cinque anni con mio figlio, ho mai prestato attenzione. Nota cose che il sangue richiama immediatamente, quel sangue che ovviamente io non ho e che invece Draco riconosce subito. Spesso assume un’espressione triste, sofferta, ed è in quel momento che interrompo le sue riflessioni staticamente dolorose con un aneddoto divertente, che ha perlomeno il pregio di distrarlo. Esibisce di frequente un sorriso nuovo, appena scoperto, dal carattere luminoso e dall’impronta malinconica: è un sorriso di orgoglio, di presunzione persino, a vedere quel figlio che gli somiglia così tanto, che detesta le stesse cose che detesta lui, che ama quello che ama lui, sebbene neanche lo conosca. Sfodera quel sorriso quando gli ripeto che Alex fa sparire la verdura per casa, quando gli sussurro che la sua frase preferita è “i Malfoy questo non lo fanno!”, quando asserisco che vorrebbe diventare Cercatore. Non mi limito a questo, però, collego anche l’anima e il respiro che io invece gli ho dato. Dico anche questo, perché ha diritto di sapere anche questo, quanto di me c’è in nostro figlio. A quello, Draco talvolta risponde con una smorfia, ma si mescola al suo sorriso, con il risultato di indurmi ad una risatina tra il nervoso, il rassegnato e il sereno. Gli dico quindi che adora leggere e che divora libri alla velocità della luce. Gli ingiungo che, per il momento, non ci pensa proprio a finire a Serpeverde, ma che non gli fa impazzire neanche Grifondoro. Sorrido mesta, rimarcando che è terribilmente testardo, permaloso ed ostinato. Ma questo, mi accorgo dopo, non so davvero da chi l’abbia preso di noi due.

Io e Draco siamo testardi, permalosi ed ostinati in uguale misura rispetto a nostro figlio.

Le foto scorrono indietro, riavvolgendo il nastro della vita di Alex, fino a che è di nuovo una minuscola nocciolina dentro la mia pancia. Sono quelle le foto che non avrei voluto che vedesse e, per un attimo, sono quasi tentata di strappargli l’album di mano. Ma Draco ha le dita così ancorate alla superficie di cuoio, che dubito che ci riuscirei senza fare la parte di una pazza isterica.

Draco ha ben tollerato la sequenza di foto, dove Alex appariva sulle spalle di Ron, o intento a giocare con lui, o a tentare di nuotare. Ha solo fatto un respiro più forte, prima di chiedere veloce: “E’ stato bravo come padre surrogato?”. Non ho esitato nel rispondergli sicura che è stato il migliore padre che Alex potesse avere date le circostanze. Ovviamente mi ha irritato l’aggiunta della dicitura “surrogato”, ma glielo ho concessa, glissando sul commento. Però, naturalmente, la cosa cambia quando, arrivando alle prime foto dell’album, Draco trova quelle più vicine temporalmente al periodo che ricordava lui.

In realtà, non sono molte: figuriamoci se avevo la voglia e la volontà di farmi fotografare in quel periodo. Ma fu mio padre ad insistere, e quindi sono esattamente due.

Una è in clinica, sono seduta a letto, e porto ancora i segni del terribile scontro con Dimitri. Ho la flebo attaccata al braccio, bende sparse, ecchimosi sul volto. E l’aria di una che, se potesse, si sarebbe suicidata. Sono terribilmente denutrita, magra. La pelle è trasparente e scarnita, le occhiaie viola si mangiano la salute del viso. La curva della pancia spunta dal mio corpo scheletrico come una specie di escrescenza sbagliata: ero a sette mesi, ero ancora convinta che dovevo trovare Draco e basta, di lì a dieci giorni avrei provato a fuggire per poi essere fermata da Ginny. Naturalmente, odio quella foto. Ma l’avevo comunque aggiunta all’album, essendo una delle poche che preservavo della gravidanza ed avendomi Alex dato il tormento per un intero pomeriggio, per avere qualcosa di simile. Quindi l’avevo attaccata e basta, senza darci peso. Tale peso ed importanza, però, adesso la sta dando Draco. E colgo il lampo fulmineo che gli passa negli occhi, quando, a fronte delle parole scarne e rapide che gli ho rovesciato addosso descrivendo che cosa mi fosse successo, adesso ne ha invece una rappresentazione grafica fedele. Erano passati solo sette mesi da quando mi aveva vista, ed ero già un’altra persona. Accarezza piano la superficie della foto in uno slancio di affetto e pena sinceri che per un attimo mi tramortiscono, come se si fosse scordato che io sia presente qui, di fronte a lui. Non solleva lo sguardo, ostinatamente rivolto in basso, coperto dai capelli biondi, mentre sussurra: “Mi dispiace… dovevo… esserci io con te…”.

“Lo so…” soggiungo a voce bassa, spostando il peso del corpo da una gamba all’altra.

“… ma c’era lui, almeno…” commenta ancora Draco piatto, con voce al limite tra il veleno e la rassegnazione. E ciò lo dice, perché è passato all’altra fotografia. Quella del mio matrimonio con Ron.

Quando mi ero finalmente rassegnata al fatto di restare in Italia e alla copertura della falsa identità di Hermione Weasley, Harry mi convinse che la cosa migliore sarebbe stata celebrare un vero matrimonio con Ron, per poi eventualmente invalidarlo in seguito. Era più sicuro a livello legale, non essendo le convivenze quasi per nulla tutelate in Italia. Sarebbe stato più facile annullarlo successivamente. Ero oramai prossima al parto, stanca, demotivata: accettai senza tante storie. In realtà, come poi avrebbe ammesso un paio di anni dopo, Harry premeva in quella direzione perché era convinto che, una volta sposata, avrei recuperato le cose con Ron e non sarebbe stato più mio interesse sciogliere effettivamente il matrimonio. Naturalmente, perlomeno allora, a Ron la cosa era andata bene. Quindi il loro interesse non era celebrare un matrimonio legale in modo da aumentare la sicurezza mia e di Alex: una vera cerimonia non immetteva alcun valore aggiunto alla nostra serenità.

Semplicemente era un trucco da propinarmi nella speranza che abbandonassi questo amore idiota per Draco Malfoy, per uno decisamente più sensato per Ron Weasley.

Ovviamente, quando lo seppi, due anni dopo il nostro matrimonio, andai su tutte le furie e pretesi immediatamente l’annullamento, essendo stato celebrato il rito canonico. Avremmo continuato a vivere come marito e moglie, ovviamente, ma legalmente dovevo tornare nubile. Ron ed Harry, compreso alla fine che non avrei lasciato andare Draco in alcun modo, acconsentirono. Ed il Ministro si fece perdonare, premendo sull’acceleratore delle pratiche naturalmente secretate del nostro annullamento. Poco più di anno dopo, il mio matrimonio era stato annullato. Del resto, io e Ron tecnicamente non avevamo mai consumato la nostra unione, Alex non era figlio suo, potevo averlo ingannato e circuito per essere sposata: di motivi per un annullamento, ce ne erano a iosa.

Ciò, però, non toglie che ai tempi il nostro matrimonio fu celebrato, immortalato e tutto. Fu una cerimonia veloce e sbrigativa, al termine della quale andammo in un ristorante spartano sulla costa toscana, dato che ero lì per sistemare alcune cose a casa dei miei. C’eravamo solo io, Ron, i miei, Harry e Ginny. Persino Helder se lo perse, era al capezzale di Hayden, ancora ricoverato, avevano appena iniziato a legare. Facemmo poche foto, alle quali diedi il mio assenso solo nello scenario futuro di mostrarle ad Alex, o di conservarle come conferma del nostro matrimonio. E, sempre per Alex, una di queste foto è finita in questo album. Aveva tre anni, era un periodo in cui voleva assomigliare ai suoi coetanei, insisteva parecchio per avere un quadro di famiglia che fosse simile a quello dei suoi amichetti. Ed in questo rientrava la foto del matrimonio di quelli che, all’esterno naturalmente, presentava come i suoi genitori. Quindi, sbuffando, allegai anche questa foto.

Stavo meglio rispetto alla foto di due mesi prima, avevo un aspetto più florido, non avevo più ferite ed escoriazioni. Mi ero persino arrischiata ad una specie di sorriso, che però restava statico ed impostato. Ron, invece, e ciò fa persino male a ricordarlo, era raggiante: sorrideva, abbracciandomi, una mano sul pancione. Avrei partorito solo quindici giorni dopo. Ed io, invece, avevo insistito per un abito semplice, corto, sopra il ginocchio, coperto da un pesante cappotto bianco della stessa lunghezza ed accompagnato da un modesto bouquet di roselline. Mi ero solo impuntata per un cappello con la veletta. Motivo? Volevo piangerci dietro quanto mi pareva e piaceva.

Dubito però che tutti questi dettagli Draco li possa apprendere da una semplice fotografia. Per lui, c’è solo il ritratto di una apparente felicità mitizzata per sempre. Lo vedo guardare la foto con evidente rabbia, stringendo forte le mani sull’album, come se lo volesse fare a pezzi. Ma nemmeno l’accenno di un fiato gli solca le labbra: se non fosse per le mani, apparirebbe il perfetto ritratto della calma e della pace. La stessa finta serenità filtra nelle sue parole, mentre dice pacato: “Deve essere stato il sogno di Weasley averti lì finalmente… vinta… e… sua…”.

La tregua ovviamente è terminata: il segnale della ripresa dell’ostilità è l’acido che mi corrode lo stomaco, soffiandomi in gola la risposta venefica che mi affretto a sputargli addosso: “Bè, se avessimo aspettato ancora qualche mese, avremmo avuto una perfetta foto simile tra te e Raissa, no? Mi dispiace davvero tanto… doveva essersi fatta un bel po’ di film sul diventare la signora Malfoy…”.

“Effettivamente come titolo ha un’onorabilità maggiore della ben poco ambita posizione di signora Weasley…” schiocca lui la lingua, fingendo disinteresse e guardandomi con astio.

“Dipende dai punti di vista, suppongo…”.

Alla mia finta e sdolcinata aria da convenevole, Draco replica con un’alzata di spalle, le mani ancora contratte sull’album: “Non mi sognerei mai di asserire preferenze su una scala universale… ho di fronte a me l’esempio di una donna che ha preferito di gran lunga l’appellativo Weasley a quello di Malfoy… in fondo l’hai portato con grande onore e soddisfazione per ben cinque anni… ed invece… se la memoria non mi inganna, hai tipo… rifiutato la mia proposta di matrimonio… con l’annessa implicita e spero ben reclamizzata possibilità di diventare una Malfoy… sei sempre stata cristallina nei tuoi punti di vista, Granger…”. 

“Bene, visto che siamo tornati noi stessi, con tutto l’ovvio corollario di recriminazioni ante prima guerra mondiale, comprenderai se tralascio il secondo atto…” mugugno nervosa, alzandomi in piedi dopo l’ennesima stoccata che non credevo assolutamente di meritarmi e che invece, come sempre, mi è piombata tra capo e collo “Del resto so come va a finire. Hai ancora un discreto carico da riversarmi addosso, no? Probabilmente comprensivo anche dei tempi di Hogwarts e delle beghe tra i miei e tuoi antenati… quindi grazie, incasso, ma me ne vado a letto…”. Prima che abbia il tempo di riprendere con le sue frecciate, afferro l’album di fotografie, pronta a riprendermelo, pentita dal mio accesso di gentilezza di poco fa. Draco, preso di sorpresa, lascia l’album poco prima che io l’abbia saldamente tra le mani, con il risultato che cada a terra, rovesciandosi. Una fotografia scivola fuori e ricade sul tappeto della stanza di Serenity, sbuffo, guardando Draco storto. Con le mani occupate dall’album, non ho il tempo materiale di raccoglierla prima di Draco, che fa per porgermela con aria scocciata. Poi qualcosa attrae la sua attenzione, ritira indietro la mano e si sofferma sulla foto, ad occhi sgranati.

Che altro diamine ha visto, adesso?

Incrocio le braccia e batto il piede a terra con impazienza, ha visto tutte le foto dell’album, non ne ha tralasciato nessuna. Ma questa la sta degnando di un’attenzione diversa, eccessiva. E lo sguardo che porta a me, ai miei occhi, è d’improvviso così sbigottito, impetuoso, intenso che mi fa tremare le gambe. Fa solo un singolo passo e, con delicatezza, mi porge la fotografia tra le mani, sento che indugia con il pollice per qualche secondo su di essa, come a non volersene separare. E, mentre la guardo, comprendendo infine, il suo sguardo non mi lascia per un solo istante, facendomi sudare ancora di più freddo. Perché quella fotografia… è un segreto. Turpe, eppure dolce. Sgraziato, eppure gentile. Molesto, eppure innegabile.

Un segreto che ho seppellito nel fondo di me stessa, per evitare di pensarci ancora. Un segreto che riecheggiava ogni giorno della mia vita con Ron. Un segreto che, fino a qualche settimana, andavo urlando e professando a chiunque me lo chiedesse, attendendo di dirlo nuovamente a lui, a Draco, ma che adesso, invece, si è fatta la vergogna più inconfessabile e tremenda mai esistita. Un segreto che può salvarmi, ma non mi salverà. Un segreto che accende il fuoco degli Empatici, ma agghiaccia il mio cuore.

Un segreto che non è mai stato davvero segreto… e cioè che non ho mai smesso, per un solo secondo della mia vita, di pensare a Draco Malfoy.

E non nella maniera che si conviene ad una donna, ad una madre… no. Nella maniera scomoda ed imbarazzante di un’adolescente alla prima cotta, tanto da farmi concretamente supporre che il karma mi stesse punendo per non aver mai avuto episodi simili a tredici, quattordici anni.

Il periodo peggiore era stato quando Alex aveva circa tre mesi: mia madre, per aiutarmi, viveva a casa mia in Sicilia, cosciente che forse non ero ancora del tutto in grado di prendermi cura di me stessa, figuriamoci di un bambino. Mia mamma è sempre stata una donna teutonica, instancabile. Sostanzialmente lei faceva tutto per Alex, e io restavo a crogiolarmi nell’autocommiserazione e nella depressione. Che mia madre, ingenuamente, trattandomi da malata, mi facesse più male che bene, l’ho capito dopo qualche mese. Ho iniziato a stare meglio solo quando, finalmente, mi sono occupata da sola di Alex e i miei pensieri neri si sono accucciati in un angolo, schiacciati dalla luce accecante dell’amore per mio figlio.

Prima, però, io avevo dato fondo a tutta la mia dignità ed amor proprio, piangendo da sola, mettendo su capricci assurdi, mangiando chili di gelato. Ed impuntandomi su una cosa: dopo un anno, ormai, in cui non vedevo Draco, ne stavo scordando il viso. Volevo una sua foto, la volevo disperatamente. L’avevo cercata, l’avevo spasimata in tutti i modi, ma le foto di scuola o quelle del periodo immediatamente successivo alla guerra non mi ridavano il volto del mio Draco, del ragazzo che avevo conosciuto al Petite Peste. C’era troppo che mi infastidiva in quelle di Hogwarts, troppo che mi intristiva in quelle del periodo con Helena. Ma, naturalmente, del periodo successivo non c’era nulla. Draco per tutti era morto, non si era fatto fotografare da nessuno. Ed ovviamente non potevo mettere a repentaglio la sicurezza mia o di Alex, contattando per una sciocchezza simile Seth, o Pansy.

Alla fine, però, ottenni qualcosa.

Di piccolo, sgranato, sfuocato.

Ciò che Draco ha tra le mani.

La Gazzetta del Profeta aveva pubblicato in un vecchio numero una foto della festa a casa di Pansy: per caso, nella mia infinita ricerca, avevo notato una fotografia nel cui fondo, appena visibili, c’erano due persone abbracciate. Una ragazza mora, cinta alle spalle da un ragazzo alto: Calista Parkinson e il suo ragazzo. Che ovviamente non erano mai venuti a quella festa… eravamo io e Draco.

Avevo incantato la carta per rimuovere gli incantesimi che avevano ingannato anche la pellicola fotografica per proteggere me e Draco. La foto si era schiarita ancora di più. L’avevo ingrandita, migliorata e modificata in tutte le maniere possibili, ma comunque era rimasta una foto sbiadita e sfuocata, incapace di restituirmi il ricordo dell’uomo che amavo. Eppure l’avevo divorata con lo sguardo notte e giorno, così da sentire di nuovo il profumo di quelle braccia addosso. L’avevo custodita sotto un cuscino, l’avevo inondata di pianto, l’avevo baciata come una mocciosa.

Poi, come premesso, l’avevo seppellita a fondo in un cassetto, quando finalmente avevo preso ad occuparmi attivamente di mio figlio. E da quel cassetto era uscita solo quando Alex mi aveva chiesto di vedere suo padre, quando non avevo trovato niente di meglio da fare che mostrargli quella foto, per poi comprare un album di cuoio e farne la sua prima immagine.

Adesso, come tutto quello che in questa notte sta tornando indietro per punirmi prima della mia probabile morte, anche questa fotografia è uscita fuori al momento meno opportuno. È una prova principe, maestra, di fronte al quale, se si nega, si è spergiuri ed apostati. È un coltello dalla parte del manico, pronto a conficcarsi nella carne morbida del fianco. È tutto ciò che ho cercato di negare fino ad ora, perché lui non lo sapesse, spinta dalla possibilità a suo modo terribile che l’attaccamento che ho sempre continuato ad avere per lui e per il suo ricordo, non avesse in lui un corrispondente. Lo sento il suo sguardo addosso, quel senso riottoso di vittoria e possesso che si riprende sulla mia vita e su quella di nostro figlio, facendo evaporare l’onta di esclusione che le altre foto gli avevano biecamente disegnato negli occhi e nelle parole. Lo sento vicino, vicinissimo, seppure non si è spostato. E la sola cosa che mi resta da fare, vinta, vergognosa, rossa in viso come una scolaretta smascherata, è afferrare con rabbia quella foto, schiacciandomela contro il cuore, restando a viso basso e reprimendo l’istinto di piangere. Proteggo quel Draco e quell’Hermione della foto, nascondendoli dalla luce scomoda e falsa della realtà presente, del mio imbarazzo crescente che neanche insegue il suo sguardo che immagino già tronfio, presuntuoso, colmo di sicurezza molesta e mortificante.

D’un tratto, lo sento con una parte della mia mente muoversi per la stanza, fare qualche passo incerto ed in silenzio, fermarsi davanti alla libreria della camera di Serenity. Spio le sue spalle, abbasso furiosamente il capo quando lo vedo voltarsi ed avvicinarsi a me, di nuovo. Resta ancora immobile qualche istante, soppesandomi ancora, poi sospira a lungo, forte, come a darsi coraggio. La sua mano raggiunge fulminea e veloce il mio polso, staccandolo dal mio petto con un movimento che mi mozza il fiato, per quanto è veloce, naturale, dolce. Le sue dita corrono rapide lungo il polso e la mano, forzando le mie dita per aprirsi, prima di intrecciarsi a loro con decisione. Ha la mano calda, caldissima, rovente. Incapace di fare qualsiasi cosa, lo sento trascinarmi piano fino al letto di Serenity, prima di sedersi. Mi invita in silenzio a fare altrettanto. Fa ancora un grosso sospiro, non lascia la mia mano neanche per un secondo, non obietto, non mi tiro indietro, non la lascio. Forse perché mi aiuta a non perdere l’equilibrio. O forse perché, come tutto il resto di lui, mi è mancata così tanto che se ne posso godere con una scusa qualunque, lo faccio e basta, prima che si risvegli l’orgoglio.

In silenzio, non spostando neanche l’aria, mi porge qualcosa.

Un libro.

Un semplice libro dalla copertina di pelle rossa, con ghirigori dorati che inanellano la parola “Fiabe”.

Un semplice libro per bambini, dall’aria antica, magari anche pregevole, ma niente che possa sembrarmi familiare e giustificarmi la sua volontà di mostrarmi qualcosa.

Lo tengo sulle ginocchia per qualche istante, poi lui sussurra quieto: “Aprilo…”. Ha una voce diversa, più morbida rispetto a prima. Incerta, tremante persino.

Sfoglio le pagine senza capire, con attenzione, apparentemente disinteressata. È solo una raccolta di fiabe, niente di che. Ad ogni pagina, con il racconto, si intervallano bellissimi disegni dei personaggi, fatti con gli acquerelli. Non noto niente di particolare, niente che mi faccia sobbalzare: sono storie ordinarie. La Sirenetta, Cenerentola, la Bella Addormentata nel Bosco, Raperonzolo, Biancaneve.

Storie adatte ad una bambina. E difatti, i disegni sono tutti di bellissime e graziose principesse che prima lottano, combattono, e poi si godono felici il loro lieto fine.

Qualcosa, però, ad un certo punto mi fa salire i brividi sulla schiena. C’è qualcosa in quei tratti che, a sua volta, mi ricorda qualcosa. Lo stile, le pennellate delicate eppure decise, il modo di dipingere gli occhi come se fossero la parte più importante del viso, la carezza ai corpi femminili come se l’artista li possedesse… e lì, subito, in modo fulmineo, capisco che i disegni sono di Draco.

Ha lo stesso identico stile di quando dipingeva Helena. Difficile non rendersene conto, solo lui riesce a vedere la bellezza in ogni cosa, trasformandola, trasfigurandola persino.

Ed è per questo che, di primo acchito, neanche me ne accorgo. Per questo che, anche se era così evidente, io non me ne rendo assolutamente conto, se non dopo qualche minuto, bruciandomi il cuore.

Come la sua mente mi ha visto in modo ben diverso da come pensavo che fossi, così ha fatto anche la sua arte nei cinque anni in cui non ci siamo visti.

La mia mano, nella sua, ha uno spasmo improvviso, pallida imitazione di quello che scoppia nel mio petto.

Ogni principessa, nel libro di fiabe di Serenity, ha il mio viso.

 

 

Questo capitolo, mio malgrado, merita una spiegazione. Se mi avete seguito in questi anni, se a vostro rischio e pericolo, ancora lo fate, sapete più o meno come sono e chi sono. Sono una che si nasconde dietro questa storia, che non ama parlare granché al di là di questa, che si imbarazza per i complimenti e ha anche difficoltà a rispondere alle recensioni, perché spesso le sembra di dire le stesse cose e di non meritarsi nulla di quello che riceve. Sono una persona lunatica ed emotiva: e in questa storia, negli anni, ho trasfuso talmente tanto di me stessa, che quando sarà finita probabilmente perderò un forte pezzo di me stessa. Questa storia, che è nata come una fic, mi ha dato tanto, tutto. La determinazione a capire che cosa voglio fare della mia vita e dove sto andando. La consapevolezza di chi profondamente sono. L’amicizia e la vicinanza di persone meravigliose. Un punto di vista sul mondo e su quello che penso e vivo.

Ecco, cosa è Halft per me, oggi.

Ed ecco perché questo spaventoso ritardo merita una spiegazione.

Non mi annoierò con il racconto della mia vita, con quello che mi è successo in questi mesi, dalle cose più piccole e belle, a quelle più grandi e terribili. Non mi esibirò nel patetico lamento di un’infelice ed occupata persona, che a tempo perso fa finta di essere una scrittrice. Non ve lo meritate, insomma. E neanche aggiungerò che sono una persona perfezionista, ed il capitolo non vede la pubblicazione finché non sono soddisfatta; e nemmeno che ormai è una storia così complessa che seguirne ogni personaggio ed ogni storia, non è semplicissimo. Non vi incuriosirò dicendo che ho già in mente il seguito di questa storia, che però non so ancora se pubblicherò su EFP visto che è quasi del tutto una storia mia, e che quindi dissemino già Halft di indizi. E neanche mi giustificherò con la parabola rilassante di sapere che ormai mancano solo una manciata di capitoli alla fine.

Piuttosto, vi chiederò scusa, a tutti voi, per l’enorme ritardo. Scusa e basta. Perché, non ve lo meritate. E non ci sono giustificazioni, le mie, che tengano. Se non seguirete più questa storia, vi capisco. Se vi siete arrabbiati, sentiti presi in giro, ancora vi capisco.

Io non abbandonerò mai Halft. La completerò, la scriverò tutta come credo e spero. Ma purtroppo non sono una da un aggiornamento al mese. Non lo sono mai stata. Ma non vorrei neanche diventare una da un aggiornamento all’anno. Quindi in questa sintesi, sta il senso del mio “scusa”.

Ma sta anche il senso del mio “grazie”.

Alle ragazze del gruppo di Halft, che sempre mi seguono, incoraggiano e capiscono. Ad una mia amica, che non nomino perché lei sa chi è, ed è l’unica che sente e vive questo sogno con me, leggendo questa storia. Ai lettori che non mi insultano, ma che mi recensiscono. A chi sente questa storia, dentro. A chi si è lasciato cambiare da essa.

Grazie quindi ad Astoria GM e all’essersi sentita prolissa. Grazie del fatto che ti sei incollata gli occhi al pc, e grazie anche del tuo punto di vista. Io adoro Ilai, ma sono terribilmente parziale. Ho voluto scrivere una storia vera, quindi sono quasi felice dell’angoscia che provi. E del fatto che, oggettivamente, proprio perché esiste anche Ilai, proprio perché esiste anche Raissa, non si sa come potrebbe finire. Grazie.

Grazie a Feffola della pazienza, dell’essersi preoccupata che ci fossero motivi gravi per la mia assenza. Grazie di avermi rassicurato sul fatto di non essere “pesante”.

Grazie a GHIM 92, per avermi definito una delle più belle storie su EFP. Non so se sia vero, ma tant’è… grazie.

Grazie a Nyteshade e scusa se ti ho fatto sentire come se avessi perso qualcuno, quando hai visto che non aggiornavo da così tanto.

Grazie a DAFNEDAFNE, se ti è sembrato che i personaggi non fossero stravolti, ma solo cresciuti. Per una fanatica dell’IC come me, fa davvero molto.

Grazie Asaq, e spero che alla fine tuo figlio la merenda l’abbia mangiata!

Grazie Alchimista93, e grazie di tutte le tue domande. Perché sono tutte cose che vorrò inserire nel seguito.

E grazie a tutti gli altri che mi hanno recensito, ma che al momento non ricordo se ho risposto, ringraziato, scritto via facebook o altro. Prometto e qui mantengo, che alle recensioni risponderò qui, non via risposta automatica, a meno di domande urgenti. Perché altrimenti me ne dimentico, e sono costretta ad una nuova parabola di scuse.

Quindi la sintesi è: scusate. Vi ringrazio. E se ci siete ancora, e se qualcosa non vi è chiaro, contattatemi pure.

Cassie.

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Capitolo 44
*** The ballad of silver linings part 2 ***


Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatianon voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente e psicologicamente, minando forse per sempre la fiducia nei confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Dopo essersi chiarita con Ron, Hermione parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello” Alex. Ma proprio durante la conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco le fotografie del loro figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con Draco, scattata e conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che Draco mostra ad Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity. Ogni principessa del libro ha il volto di Hermione.

 

 

Capitolo 44 – The ballad of silver linings part 2

 

Belle, nella libreria della Bestia, ha tra le mani una copia di Twilight ed assume con uno sbuffo la mia espressione da pesce palla.

Aurora, in una foresta di rovi, dorme con un vestito rosso e sembra sempre inquieta e nervosa, anche quando dorme.

Raperonzolo, prigioniera in una torre, è circondata di rose e ne ha depositati tra i capelli qualche petalo sparso.

Cenerentola, ballando con il suo principe, ha un vestito turchese dal taglio greco ed accessori tutti dello stesso colore.

Ariel, diventata umana, usa per raccogliere i capelli una matita come se fosse un fermaglio.

Biancaneve, appena sveglia, sposa il suo principe azzurro con l’anello di Narcissa Malfoy ed Helena Greengrass.

Ognuna di loro, ciascuna di loro, cambia vestito, capelli, storia.

Ma mai gli occhi, mai il viso, mai le labbra.

Sono sempre io. Sono sempre rimasta io.

La mano che Draco stringe ancora nella sua, piano, delicato, quasi timoroso di romperla, suda freddo e caldo assieme. Per un attimo ho la scomoda e sgradita sensazione adolescenziale delle prime volte in cui davi la mano ad un ragazzo e temevi, come se ne andasse della tua vita, che l’avessi sudata. Eppure, non riuscirei a staccarmi nemmeno provandoci con tutta la forza possibile.

È il solo punto fermo, in un mondo d’acqua. Tutto, compresa me stessa, sembra d’improvviso fluttuare senza peso alcuno, trascinandosi la mia mente, che si allunga, allarga, diluisce e perde consistenza e significato. Ogni pensiero galleggia nebuloso, ondeggiante e palpitante: d’un tratto incerto, sbaragliato, inerme.

Come la mano non lascia Draco, così gli occhi non lasciano il libro. Lui non aveva bisogno come me di razzolare fotografie sconfitte dalla memoria. Ha creato il suo personale album di ricordi, scolpendo di matita e colori ogni minima traccia che aveva preservato di me, ma dandone una forma innocua, infantile, inoffensiva, che addirittura scivolasse di sogno ed incanto nella mente di sua figlia.

Le principesse sono bellissime, soavi, fatate: non c’è rabbia, rimorso, ricordo, rammarico. Hanno la forma statica ed assurdamente perfetta di ciò che non cambierà mai. È difficile riconoscermi in esse, se non fosse per quei particolari messi così accuratamente a fuoco, se non fosse per gli occhi di ognuna e le forme del viso che non sono assolutamente rinnegabili. Spiccano di quella bellezza incomprensibile, in mezzo a figure maschili sempre di spalle, sempre poco accennate, sempre fosche. Solo le foreste, il mare, il cielo, diventano adeguate cornici. Il resto sparisce.

Mi accorgo, nell’oceano volutamente apatico in cui nuoto, che il respiro di Draco è accelerato negli ultimi minuti e che la sua mano si è fatta più calda, più scivolosa, più stretta.

Eppure, sebbene mi accorga che sono rimasta in silenzio troppo a lungo, sebbene sappia che debba dire qualcosa, è come se avessi improvvisamente dimenticato persino come si apra la bocca, come si facciano muovere le labbra, come si articoli il vibrato indifferente delle corde vocali in parole coerenti e corrette. Di salsedine porosa brillano i miei pensieri, come se davvero fossi sott’acqua ed avessi la sola concreta esigenza di ricordarmi come si respira. Espira, inspira. Espira, inspira.

E poi accade.

Tutto assieme, tutt’un tratto, come l’onda che spazza gli abissi, tracimando fango, confondendo sabbia, masticando alghe e pesci.

Il solo segno esteriore che mi concedo è un respiro un po’ più forte, intenso, come se prendessi fiato dopo essere stata in apnea. Rintocca nella stanza con il suono forte di una campana a morto. E sento, come se neanche mi spiegassi il perché, che ho bisogno di aria, di vento, di sole. Di uscire, andarmene, scappare, fuggire.

Perché? Mi chiedo sciocca, il respiro che si affanna, la mano in quella di Draco che d’improvviso sguscia, scivola, arranca, scappa.

Non dovrebbe essere questo che stavi cercando? Non dovresti essere… felice, adesso?

Non ti ha dimenticata. Ti ha pensata in questi anni. Non ti ha cancellato dai pensieri.

Lui non parla, non inonda i figli di parole e ricordi. Non è come te, che hai soverchiato tuo figlio di incommensurabili ed ineffabili discorsi, neanche prendendo fiato, neanche esitando, neanche cercando le parole. Le parole fiorivano sempre come le primule a marzo. Veloci, rapide, colorate. E mai morivano, mai conoscevano ghiaccio o afa. Mai. Erano sempiterne di gloria d’amore.

Lui non è come te: lui non parla. Lui disegna.

Non sei assurda, adesso? Non vorrai forse che lui diventi come te? Logorroico, verboso, costantemente teso all’evoluzione semantica dei tuoi sentimenti?

Non dirmi che, davvero, adesso… ancora… non sei felice?

Quelle domande, pregne di senso di colpa necrotico, mi costringono a reprimere il nodo in gola che, ancora, di più, mi impedisce di respirare normalmente. E quando inizio a piangere, quando le lacrime mi affannano la vista, quando scivolano sule guance, d’istinto stacco la mano da quella di Draco per asciugarmi il viso. Ancora, non lo guardo, ma il suo silenzio è dolce, morbido, soffice.

Pensa che sono felice, pensa… che piango di gioia. Ci sono tutti i motivi per essere felice.

Ed invece io non riesco a respirare: ed invece, come una che sta per avere un infarto, mi sbottono i bottoni del colletto della camicia, avverto le vene affluire troppo sangue al viso, facendomi scoppiare di calore.

… perché non riesco ad essere felice? Perché non fa bene? Perché fa solo male?

Sono diventata così assurdamente rancorosa, da non provare più gioia?

Oppure… ormai ci siamo fatti così male, che non riesce più a farmi stare bene?

Da quello spiraglio, d’incanto, respiro: è aria calda, schifosa, oscena, miasmatica. Avvelena, distorce, contamina, rende cancro i polmoni. Ed è un pensiero così assurdamente vero, così drammaticamente onesto, così impossibile da negare che se ne sta di marmo davanti a me, contemplandomi con la percezione scomoda delle cose scontate. Sorride beffardo, mi deride, mi ingiuria, mi dice che essermi sentita in colpa per non riuscire a gioire, è ancora più idiota. Perché lui, quel pensiero, stava sempre là.

Non se n’è mai andato.

Mai… da quando ho saputo di Raissa.

Incerta, indegna, vergognosa, alla fine mi azzardo a dischiuderlo quel pensiero: quello ride, orrendamente, come il primo della classe che spiega il teorema al bambino con il cinque in pagella.

Eccotelo: goditelo. Goditi il motivo per cui domani non tornerai più.

È così semplice, immediato.

Ce l’hai davanti agli occhi, stupida.

La foto che nascondi nell’album, i disegni che fa lui su un libro. Chi sono quei due? Siete voi?

Annaspo, l’aria mefitica mi chiude il fiato. Certo che è lui, certo che sono io.

Ed ancora la mia stessa mente ride, crudele, malefica.

Non siete più voi.

Tu ami il ragazzo del Petite Peste. Quello delle rose nei capelli, quello dell’abbraccio a Wonderland, quello che si struggeva per Helena e i suoi genitori, quello che chiamava Serenity sorella.

Questo che ti stringeva la mano, neanche lo conosci.

Non conosci la rassegnazione spavalda che ha nello sguardo. Non conosci la gloria riflessa di cui ora bacia il passato. Non conosci l’accettazione amorevole di sentirsi padre.

Tu non c’eri, lui è un altro, adesso. E questo non cambierà mai. Non avete né il tempo e né la voglia di cambiare le cose.

Di lui ami il passato ed odi il presente. Odi il padre di Serenity, odi che ti abbia tradito, odi che sia andato avanti, odi che forse si sarebbe innamorato di Raissa.

E lui… uguale.

Se ti declina e ti ama, ti declina e ti ama al passato.

Odia la mamma di Alex, odia che tu lo abbia tradito, odia che sia andata avanti, odia che forse ti saresti innamorata di Ilai.

Che speranza hai di perdonarlo? Che speranza ha di perdonarti? Che speranza avete, domani, di tornare?

L’amore vive nel presente, si appoggia sul passato e si proietta nel futuro.

E voi vi aggrappate al passato, per scordarvi che nel presente vi odiate e nel futuro neanche vi vedete assieme.

Se il cuore ogni tanto mi vomitava addosso avvisaglie di disperazione acuta ed assoluta mancanza di fiducia nella convinzione di tornare a casa, la mente clemente mi aveva sempre protetto da questi pensieri, che una volta formulati, riconosciuti… semplicemente non se ne vanno più. E se le ondate di dolore che mi colpivano come frustate sulla schiena, ogni tanto potevano darmi qualche segnale confuso di qualcosa, ora invece è come se avessi smesso di dibattermi in un giogo che più lo rifiutavo, più mi stringeva, schiacciandomi il respiro.

Ed adesso, davvero, non ho più nulla a cui aggrapparmi. Nulla.

Non posso restare in questa stanza con lui un minuto di più. Devo andarmene, prima che i singhiozzi che mi stanno salendo in gola, mi cadano sulle labbra e li senta anche lui.

Chiederebbe spiegazioni, mi scambierebbe per una pazza ingrata, crederebbe che vado cercando tutto per non essere contenta. 

E allora dovrei spiegarmi, dirgli la verità che lui ancora non vede. E capirebbe, sì che capirebbe, ed allora sarebbe finita.

Quello che sto provando io… questa… cosa… che manco chiamarla disperazione rende l’idea… la proverebbe anche lui. E non posso permetterglielo. Non posso.

Non può accorgersene, non può capire anche lui.

Perché questo pensiero, capirlo e rendersene conto… è essere condannati. È la prova ultima che Adamar ci farà a pezzi.

Se lui non se ne accorge, se non lo capisce, se ne rimane escluso ed estraneo… forse c’è ancora speranza.

“Hermione…” mi chiama piano, con una punta di sospetto nella voce, come se avesse infine compreso che tutto questo silenzio spezzato di lacrime non ha a che fare con una gioia inesprimibile ed indescrivibile.

Cosa è più insopportabile?

Fargli pensare che neanche questo mi basta o fargli pensare che niente ci basterà mai, arrivati a questo punto?

Farmi credere ingrata ed ingiusta? O farmi riconoscere condannata a morte, come lui?

Gli mentirò con una bugia o lo accecherò con la verità?

Il male minore è, ovviamente, il primo.

Assecondo la mia volontà di andarmene, mi alzo in piedi e mormoro sconfitta, non guardandolo neanche in faccia: “Scusami… n-non ce la faccio…”. Accento la mia voce di quel tono rancoroso ed ostile che so che lo manderà in bestia, ma lo lascerà qui, inchiodato al pavimento. Mastico la presunzione e l’arroganza di fargli credere che non sarà mai abbastanza, e non trattengo le lacrime che so che gli spezzano il cuore e che non sa come gestire. Ed alla fine fuggo nel corridoio, codarda, infida, perfida. Ma salvandolo dal rischio che capisca anche lui fino a che punto, ormai, non ci siamo più.

Senza fiato, con la mano premuta contro la bocca a schiacciare i singhiozzi in gola, apro la prima porta che trovo, rifugiandomi in una specie di sgabuzzino.

Non accendo neanche la luce, lascio che l’oscurità sia spezzata solo da quel poco che filtra dagli opachi vetri azzurri della porta.

E finalmente, contro la parete, la mano ancora sulla bocca per paura che qualcuno mi senta, mi sfogo piangendo. Non ho mai pianto così, in nessun momento della mia vita, come se mi stessero strappando a viva forza la carne di dosso, come se un acido mi stesse corrodendo la pelle. I singhiozzi sono così forti da farmi tremare il petto, le ginocchia, le gambe. Mi accascio al suolo, ancora la mano sulla bocca per il terrore che qualcuno mi senta e voglia consolarmi, ascoltarmi, farmi parlare. Perché io non voglio essere consolata, ascoltata, fatta parlare.

Voglio solo che qualcuno riempia questa voragine, dentro.

Perché lui ce l’avevo dentro, sempre.

Ed ora, adesso, non ce l’ho più.

Solo se il mare evaporasse d’un tratto, lasciando abissi vuoti, capiremmo quanto spazio prendeva sulla terra.

E io, quanto avessi dentro Draco Malfoy, nonostante tutto, malgrado me stessa, non lo sapevo fino a questo momento.

Non passano neanche cinque minuti che sento immediatamente, come l’eco di una fiera pronta a prendermi, l’eco sordo di porte aperte e sbattute nel corridoio dove mi trovo. Traballante, incerta, mi alzo in piedi, pronta a scappare via ancora, ma non faccio in tempo a fare nulla che anche la porta dello sgabuzzino dove mi trovo si apre con un tonfo, sbattendo contro la parete. Gli occhi arrossati, sorpresi dalla luce, non mettono a fuoco chi ho di fronte, ma non ne ho bisogno. La porta si chiude, facendomi restare di nuovo nella pietosa semioscurità. Sento un respiro affannoso proprio di fronte a me, pioggia, terra bagnata, settembre.

“Esci immediatamente” ingiungo severamente, la voce comunque pigolante come quella di un pulcino bagnato a cui cerco di dare un tono, non riuscendoci. I singhiozzi piegano e spezzano le parole, colmandole di pause inopportune e di rantoli spezzati. Mi asciugo velocemente la faccia, inutilmente, perché ormai la patina fosca sugli occhi è calata rapida e la luce è troppo poca perché davvero veda qualcosa. Le guance si impastano di lacrime e mascara, dandomi l’aspetto sicuramente di una derelitta. Eppure, come l’ultimo stendardo di una flotta che si prepara all’estremo sacrificio richiesto dal mare, pianto saldamente i piedi per terra, sollevo il mento e guardo Draco con inflessibile ira, sperando che se ne vada.

“No”.

Non c’era bisogno che mi dicesse di no: sapevo che lui non mi ascolta mai. Specie quando ha quel viso: la mascella contratta, i denti stretti, le pupille dilatate e il respiro veloce, ansante. Disordinati i capelli, disordinati gli occhi, disordinato il torace che si alza ed abbassa velocemente. Mi guarda e basta, a pugni chiusi, stretti, serrati. Non mi ascolta mai, non ti fidi mai di me, neanche la fiducia l’uno nell’altra abbiamo. Dove pretendiamo di andare? Uno suono strozzato esce fuori dalla mia gola, confondendosi con le lacrime.

Ma stavolta mi deve ascoltare, se ne deve andare, non si azzardasse a stare qui un secondo in più.

Non posso sopportarlo, non posso parlare adesso.

“Ti ho detto di andartene! Lasciami in pace!” urlo ancora a voce più alta, tremando, lasciando che la voce di nuovo si spezzi e sperando che questo lo faccia andare abbastanza in panico da lasciarmi sola.

“No”.

Niente. Non c’è niente da fare: la voce è sempre quella, salda, seria, forte, fiera. Neanche trema, neanche è incerta, neanche si piega. Non gli ho mai fatto paura, terrore. E sebbene so che si sta dilaniando perché mi vede in queste condizioni, l’angolo della bocca che si solleva, le narici che fremono, gli occhi che pungono, le mani che vogliono correre, vogliose, rapide, attente, apparentemente egoiste e distrattamente generose, a chiudermi le labbra, a baciarmi le lacrime, mentre mi implora di non piangere… eppure, ancora, non se ne va. Non si muove.

Decido di combattere, decido di fingere che quella che ho davanti sia solo una manifestazione d’orgoglio e di prepotenza. Decido di non vedere il resto, perché mi uccide e non ce la faccio più.

Dalla tasca dei pantaloni, estraggo la bacchetta, la faccio sfrigolare di scintille rosse che accendono la stanza come il sole a mezzogiorno, gliela punto contro. Lui non si muove, non fa nulla, fa un sorriso beffardo e triste. Di sfida. E allora, ancora, scoppio, piango, glielo urlo contro, sperando di spostare quella montagna inerme che è.

“Esci subito da qui!”.

Le scintille volano, cadono al suolo.

Assieme alla bacchetta.

E non è stata la mia presa a lasciarla, perché qualsiasi cosa ho adesso tra le mani rimane salda perché mi ci reggo alla ricerca di un sostegno come se non mi tenessi in piedi.

Ho mollato la presa… perché Draco, urlando un ultimo no che ha fatto tremare la parete, ha stretto lui la presa su di me. Lo guardo atterrita, terrorizzata, e poi implorante, supplice, con una preghiera disperata in bocca, mentre la schiena trova la parete e resto bloccata in pochi respiri tra lui e il muro. Sento il calore delle sue mani che mi tengono ferma per gli avambracci, distinguo appena nelle lacrime che mi velano gli occhi il suo viso adesso così vicino, da farmelo studiare come non ho potuto fare in tutti questi giorni. I suoi occhi non lasciano i miei neanche per un attimo, sono bloccati, fissi, incantati come quelli del predatore che si pregusta la preda, prima di calare i denti nella pelle indifesa. Eppure, c’è sempre una dolcezza mesta, struggente, ferita, che non lascia mai i suoi occhi, un’incertezza misericordiosa che percorre i tendini delle braccia e fa tremare le dita che mi tengono stretta. Piango, non riesco a smettere, mi divincolo, ma non riesco a fuggire.

Fidati di me una santissima volta. Fidati, per favore. Lasciami andare. Non farmi parlare.

Arresami al fatto che, come sempre, non l’avrò vinta su di lui con la forza, sollevo il mento e lo guardo con disperazione, come se fossi moribonda, sanguinante, ma, ancora, non fossi in grado di arrendermi. Gli urlo contro, folle, pazza, inselvatichita: “Che c’è? Che diamine vuoi ancora? Perché non puoi smettere di farmi male? Lasciami in pace, maledizione!”.

Draco non si scompone, oserei dire che neanche respira. Il suo viso è chiarissimo ai miei occhi, nonostante la semioscurità e le lacrime. È ghiaccio, gelo, roccia. Resta immobile, segue le tracce che il pianto mi lascia sulla pelle arrossata delle guance. La presa sulle mie braccia si allenta appena, ma non così tanto da consentirmi di fuggire.

“Ho bisogno di sentirtelo dire” sussurra piano, lieve, leggero. Ma deciso, stoico, implacabile, inamovibile. E lì tremo, agghiaccio, mi paralizzo.

“Cosa? Cosa hai bisogno di sentirmi dire?!” rantolo fuori, ansimando, sbarrando gli occhi. La pelle delle braccia, sotto le sue mani contratte, si riempie di brividi, così come la schiena. Vado a fuoco, congelo, mi sciolgo come se fossi cenere e poi di nuovo mi immobilizzo vittima del ghiaccio: tutto in neanche un battito di ciglia.

“Il perché avessi quella foto in quell’album…” biascica lui severamente, le sue mani sempre artigliate sulla pelle delle mie braccia. I suoi occhi seguono una lacrima che mi cade sulle labbra, mentre le riapro per dire, sfibrata, esausta: “Perché, dannazione, Draco? Perché?”.

Respira a fondo, forte, come se davvero stesse cercando una risposta in una selva di pensieri, pronti a sbranarlo. Lo sguardo cade al suolo, fruga lontano come se neanche esistessi più. Le sue mani non mi lasciano andare, neanche si sforza più di tenermi ferma. La percepisce la mia assoluta mancanza di forze nel sangue, sente quanto, sotto la pelle, tutto è algido mercimonio di calma finta.

Non ha assolutamente bisogno di fare nulla.

Quando riapre la bocca, la sua voce tuona da un punto lontanissimo nel tempo e nello spazio, come se fosse d’improvviso prigioniero altrove. Paralizzato, bloccato, incatenato.

È una voce irosa, furiosa, masticata di rabbia. Ma non riesce a farmi tremare: perché quella rabbia non so nemmeno verso chi la rivolga, probabilmente neanche verso di me. È una rabbia stanca anch’essa, soffiata fuori solo quando diventa così corrosiva che, a stare in gola, ucciderebbe. Ma non saprei nemmeno se lui stesso creda che serva a qualcosa. Che serva davvero a toccarmi e a farmi male.

Perché, in fondo, è un’arma spuntata se la punta contro me. Crede di impugnarla dal manico, brandendola contro di me, ed invece la regge dalla lama.

Se cerca di colpirmi, prima anche solo di sfiorarmi, è lui a finirne dilaniato.

“Non hai ancora finito di farmi a pezzi, c’è ancora qualcosa di intero in me che merita di andare in frantumi… devi finire il tuo lavoro…” sussurra alienato, come un pazzo beccato a parlare con i fantasmi, prima di tornare a guardarmi negli occhi. Sento i suoi polpastrelli premere sulla mia pelle, affondare, lasciare segni che non se ne andranno mai. Ha una contrazione dell’angolo della bocca, che deforma le parole in un rigurgito odioso: “Avanti, dai… fammi a pezzi. Dimmi di nuovo che non basta. Dillo, ancora, che io… non ti basterò mai…”.

La freccia colpisce il suo cuore prima ancora di colpire il mio. Perché prima ancora che io ricordi quella notte di inizio luglio di cinque anni fa, l’odore delle rose, il singulto febbrile della pioggia e gli echi sterminati dei tuoni, prima che ricordi io stessa come suonava la mia voce quando potevo permettermi di amarlo senza alcun problema o remora d’orgoglio, prima che rammenti di che sapeva quella vicinanza accennata e in attesa che diventasse mano accostata, labbra sfiorate, cuore sovrapposto… prima ancora che me ne renda conto io, se ne rende conto lui.

Riesco… a… bastarti anche così?  

Tu non mi basterai mai

Fa più male a lui ricordare quelle parole, sapendo che non potrebbe più udirle con lo stesso senso, che a me, che comunque subisco quello spasmo improvviso al cuore di sapermi scissa per sempre dalla versione migliore e più bella di me stessa. Le sue labbra si arricciano di qualcosa che a definirla angoscia, pure si sbaglierebbe, pure si mentirebbe, pure non si renderebbe giustizia abbastanza a quegli occhi così atterriti e sconvolti, come se fossero stati sorpresi dalla luce neonata di un’apocalisse vicina ed ineluttabile. È l’agnello, la bestia, il cucciolo, mandato al sacrificio.

Le sue mani, sulle mie braccia, scivolano, perde un po’ la presa, mentre guarda in basso, cercando un punto meno doloroso ai suoi occhi del mio viso e delle mie lacrime. Non lascio che la desolazione mi travolga, non lascio che l’effetto delle sue parole mi sconvolga e mi sgomenti al punto da lasciarmi inchiodata qui, a finire di distruggerci.

Le parole sono diventate mercenari bastardi, affamati di razziare gli ultimi scampoli sopravvissuti del nostro amore sepolto.

Approfittando del suo silenzio, ignorando quel viso basso e quelle spalle piegate, sfuggendo gli occhi improvvisamente foschi e incatenati al suolo, biascico supplice: “Per favore, lasciami andare… per favore…”. Le dita di Draco tremano un po’ sulle mie braccia, per un attimo fortunato penso che si stia convincendo, che tutto questo sia diventato troppo, che mi lascerà andare, risparmiandomi di finire questo scempio maledetto di me stessa assieme a lui. Penso che abbia trovato in ritardo un po’ di spirito di conservazione, di istinto alla sopravvivenza che, se non ci lascerà vivere incolumi dopo Adamar, almeno ci consentirà di andarcene fisicamente da questa vita con la consapevolezza ridicola di avere nel cuore un amore riottosamente indissolubile e piegato solo dalle circostanze.

Ed invece, come sempre, Draco non mi dà mai sollievo, pace, gioia tremebonda della vergogna di fuggire. Le sue mani si rinsaldano sulle mie braccia, i suoi occhi tornano spaventosi nei miei, riassume il contegno spaventoso del demone e della fiera. E sorride crudelmente, masticando le parole con voce sottile e flautata: “L’ho mai fatto? Ho mai concesso che prendessi una porta e te ne andassi, anche quando sarebbe stato giusto, normale, ovvio? L’ho fatto una sola volta, Granger. Una sola singola volta. E ti ho persa. Pensi che lo farò daccapo? Pensi che ci proverò daccapo?”, hanno un rantolo le sue mani come a trattenermi, come a tenermi ferma, come a strapparmi al tempo che già mi ha portato via, e io lo guardo senza fiato, senza forze, senza respiro, neanche provandoci più a scappare.

Insiste, feroce, affamato, gli occhi deliranti, le dita che torturano la pelle: “Dillo, Granger. Finisci il lavoro. Dillo… perché avevi quella foto?”.

“No” ripeto testarda, scuotendo il capo, cercando un’impossibile fuga nel muro alle mie spalle.

“Dimmelo, dannazione, Granger! Dimmelo!” ripete lui, non preoccupandosi di tenere ferma e bassa la voce, scuotendomi per le braccia come a cavarmi fuori le parole di bocca “Domani a quest’ora potremmo essere morti… sputalo fuori… perché avevi quella foto?”.

“Perché non ho smesso un secondo di pensare a te!”.

La mia voce esplode come una mina, imprevista, letale, mortifera. Scoppia, deflagra, neanche le pareti ne assorbono il colpo. Rovina contro il mio petto e il mio cuore esposto, spingendomi curiosamente all’indietro come per contraccolpo, mentre mi manca il fiato, mentre si spezza il respiro. La verità scoppia fuori e Draco lascia stare le mie braccia come se scottassero. Deve finire, dovrebbe finire questa maledetta abitudine di non pensare quando sono con lui, di perdere i freni, di lasciare andare tutto fuori come se fosse rovente, venefico, mortale. Come faccio ora a rinnegare tutto questo? Come faccio ora a negarlo? Come faccio ora ad andarmene da qui dopo tutto questo? Non lo guardo in viso, non ne ho bisogno, perché l’aria è cambiata, il suo respiro è cambiato. Me ne rendo conto immediatamente, come sempre è stato, come sempre sarà. Prima questa stanza era quasi insopportabilmente colma di elettricità statica: preannunciava tempesta. Ogni fiato, ogni respiro spezzava il silenzio con la forza di una coltellata. Adesso invece il silenzio è fragrante, dolce, profumato. Avverto Draco vicino, anche se neanche si è mosso, neanche ha respirato. Le pareti sembrano vibrare ancora delle mie parole, che non posso rimangiare, che non posso ricacciare indietro, che se ne stanno lì a dare l’ultima ora d’aria al condannato a morte.

E, al condannato a morte, se la pena è solo a due passi, non serve nulla della vita e del suo ricordo. Serve solo buio soffice, e rassegnazione. Non luce, non calore, non rimpianto. Come si fa a morire, poi?

Eppure, dentro, nelle mani che mi chiudo frenetica al petto, nelle dita che tormentano le asole della camicia, nelle labbra che mordono le lacrime, qualcosa persino mi rende felice, contenta, esplosivamente soddisfatta. Perché lo sai, adesso. Perché te lo porterai dentro, questo segreto, ora anche tuo.

In un attimo, all’improvviso sento un suo respiro più forte, più profondo, come a raccogliere tutta l’aria che non ha respirato fino ad ora. Con la coda dell’occhio, vedo i suoi piedi muoversi piano, lenti, nella mia direzione. Sebbene sobbalzi, sebbene la mia schiena agghiacci di brividi, sebbene cerchi ancora rifugio nella parete alle mie spalle, non riesco a muovere neanche un passo. Basterebbe poco per scartare di lato, superarlo, andarmene. Basterebbe poco, solo un movimento delle ginocchia, e recupererei la bacchetta abbandonata al suolo, gliela punterei contro, lo spingerei via. Ed invece i piedi sono incollati al pavimento, non si muovono di un muscolo neanche a violentarmi il pensiero. Il cuore batte forte, come se si preparasse a consumare tutti i battiti di una vita in questi pochi secondi che si srotolano tra i passi di Draco che si avvicina a me. Un calore d’inferno affluisce dal sangue al mio viso, che arrossisce e a cui solo le lacrime portano pietoso sollievo. E la sola cosa che riesco a fare, è mordicchiare l’unghia del pollice, restare a testa bassa, singhiozzare come una bambina ed… aspettare.

Aspettarlo, come sempre ho fatto.

Come in tutta la vita, sempre, ho fatto: persino prima di sapere che esistesse, persino prima di sapere che avrei potuto amarlo.

Con un piccolo sussulto, sento le sue mani poggiarsi sui miei fianchi, i polpastrelli giocano un po’ con le pieghe della camicia, cercando varchi, spazi, passi esposti. Rabbrividisco e sento il sapore del sangue in bocca, dove i denti hanno escoriato la pelle fragile del pollice che continuo a mordicchiare come una bimba spaventata. Come se si abituasse di nuovo piano a me e al mio corpo, cambiato, trasformato, mutato da quel suo figlio che ho partorito senza di lui, le sue mani sono dubbiose prima, incerte, delicate e timorose. Restano poggiate e basta, ed ancora io potrei scacciarlo con facilità, potrei ancora fuggire, potrei ancora salvarmi. Ed invece non lo faccio.

Ed invece aspetto che prenda forza e sicurezza.

Aspetto che il suo profumo si faccia più forte e mi annebbi.

Aspetto quel movimento dolce mentre, con delicatezza, tenendomi ancora per i fianchi, mi spinge contro la parte.

Aspetto che le sue braccia si chiudano attorno alla mia vita.

Aspetto che le dita si intreccino sulla mia schiena.

Aspetto e bramo, poi, la prigione: quella tra la parete e il suo corpo, caldo, meraviglioso, forte. Mi cinge e mi culla piano, lentamente, ed io ancora resto con quel braccio contratto sul petto, con il pollice tormentato dai denti, con il sangue che mi bagna le labbra, con le lacrime che invadono le guance. Draco poggia lieve le sue labbra sulla mia fronte, come se carezzasse un bambino. Non è un bacio, non è niente, resta solo lì per qualche secondo, e io già vado a fuoco, già sussulto, già socchiudo le labbra, già comando le mie braccia stanche di cingerlo a mia volta. Chiudo gli occhi, comandandomi di restare immobile, e respiro forte, i denti trovano ancora la pelle del pollice. Compreso che non farò nulla, che non mi sposterò di un passo, che me ne starò lì ferma, Draco mi tiene facilmente stretta solo con un braccio. L’altra mano sale sul mio fianco, mi accarezza nel solito modo distratto ed insolente che sa che gli lascerò fare, sospirando e sussultando. Piano, percorre con le dita tutto il mio braccio teso, raggiunge la mano che continuo a tormentare e la stacca velocemente e delicatamente dalle mie labbra serrate. Lo guardo con gli occhi spalancati, finalmente cosciente di quanto sia vicino, di quanto sia ad un passo da me, di quanto io non potrei scappare neanche volendo. E non lo voglio. Dio, non lo vorrò mai.

Le sue labbra si poggiano piano sul mio pollice ferito, baciano il mio sangue e diventano rosse come le mie. Ha gli occhi accesi, luminosi, fissi nei miei, mentre cura a suo modo quella piccola ferita. Ed io avvampo, distolgo lo sguardo, mi sposto a disagio quando non posso fare neanche il più piccolo dei movimenti. Quando lo lascia andare, il mio pollice resta comunque sulle sue labbra, percorre distratto tutto il loro contorno, prima che me ne renda conto e lo nasconda dentro la mia mano chiusa. Non mi lascia, però, libera dai suoi occhi: è un attimo prima che sollevi il mio mento con la mano, portandolo ad un respiro dalla sua bocca. È annebbiato, nella coltre delle mie lacrime. Eppure, lo vedo benissimo come se fosse fatto di luce liquida. Accarezza piano il mio viso con la mano aperta, solletica la nuca con le dita e gioca con i miei capelli; poi, di nuovo, chiude gli occhi, poggia la fronte sulla mia e si piega su di me, arso, vinto, eppure ancora esitante.

Riapre gli occhi, guarda i miei spalancati, spia la pelle del mio collo sconfitta dal cuore che batte impazzito, facendo pulsare le vene. E sussurra in un respiro di menta e limone che accarezza le mie labbra: “Dovrebbe essere facile adesso, no?”.

L’aria che respiro è la stessa aria che respira lui, ho gli occhi socchiusi, come se ci fosse improvvisamente troppa luce in questa stanza buia.

Senza convinzione, senza realmente pensarlo, sussurro ancora, vittima dell’orgoglio: “Per favore, Draco… lasciami andare…”.

Capisce subito che non lo penso, passa un fulmine negli occhi grigi, dice severamente senza muovere un muscolo: “Avanti, su… vai via… non ti sto tenendo legata… vai via, se vuoi…”. Ogni volta che dischiude le labbra, ogni volta che le apre e le muove, accarezza e sfiora piano le mie, riducendomi in cenere. Mi aggrappo al suo braccio, come se mi stessero risucchiando via, come se davvero a qualcuno sia saltato in mente di strapparmi via da lui. Draco, quasi con comprensione, continua ad accarezzarmi piano i capelli con un sorriso dolce, quieto, gentile, eppure affamato, non pago, mai sazio. Mi mordo il labbro inferiore con ansia, ogni cellula del mio cervello che mi ordina di prendere ed andarmene via, possibilmente per non tornare più: mi si ripropongono frammenti di immagini che non hanno senso e non hanno scopo alcuno, come se mi volessero distogliere e salvare da questi occhi grigi puntati nei miei.

Gli occhi lucidi di Ron sul tetto. Qualche parola sparsa di Dean. Lo sguardo pietoso di Harry.

Ilai.

Diecimila volte Ilai nella mia testa.

Sussulto, rabbrividisco, serro gli occhi come a fermare la sua immagine nella mia testa, qualche altra lacrima rotola giù. Ma nulla, niente, riesce a farmi muovere di un passo. Il mio corpo e il mio cuore sono sempre stati più sinceri di me, mi hanno sempre smascherato e sbugiardato. Sospiro, gemo, respiro ancora. E riapro gli occhi, trovandomi Draco sempre lì, concentrato sulle mie labbra con quel sorriso meraviglioso che è la sola cosa che ho voluto, sognato e desiderato in cinque anni.

“Dovrebbe essere facile adesso, no?” ripete ancora in un sussurro caldo sulle mie labbra, la mano che mi teneva il viso sollevato scivola piano sul volto, si apre sulla guancia, chiude il mio viso a coppa assieme con l’altra che ancora gioca con i miei capelli. È vicino, vicinissimo, sento già un’eco del sapore delle sue labbra, e socchiudo gli occhi, vinta, sconfitta, arresa, affamata, esausta, colpevole, vincitrice, ipocrita. E di fondo, persino la mia mente si arrende, persino il mio cervello geme in silenzio perché darò la colpa a lui, dirò che è sua la colpa, dirò che non ce l’ho fatta a scacciarlo, dirò qualunque cosa ed avrò ragione, perché sarò morta, e i morti non si contraddicono.

Ed allora avrà avuto persino senso baciarlo, perché tanto stavo per morire, ed allora andrà anche bene andarci a letto per un’ultima volta, perché tanto stavo per morire, e poi sono morta sul serio, ed allora sarà solo un segreto tra me e lui, e poi di fondo il corpo non ha alcuna decenza, sanità o orgoglio, e dirò che sarà stata colpa sua, e rinnegherò il cuore che brucia, il cuore che mastico tra le labbra chiuse, il cuore che urla, il cuore che scoppia in petto, ed allora sarò peccatore irredento ed innocente, macchiato dalla venale vergogna di non essere forte abbastanza nella carne, ma con spirito e respiro intatto; sarò angelo, dea, fata, quando dentro invece saprò solo io quanto sono demonio, mostro, tiranno.

Lo sento ancora respirare sulla mia bocca, si mescola il fiato della mia e della sua, eppure aspetta, esita, non si muove ancora. Riapro gli occhi lenta, piano, e lo vedo sempre lì, sempre immobile, sempre con il mio viso tra le mani, e penso a quanto sarebbe facile adesso prendermelo io questo bacio. Basterebbe solo inarcare un po’ la schiena, basterebbe solo portare le mani che si torturano tra loro sulla sua nuca, attirandolo a me. Leggo persino quel bagliore di luce nei suoi occhi, che mi implora di farlo io questo passo, di fare quello che lui… non riesce a fare.

Ci provo persino, comando persino me stessa di muovermi, ma… non ci riesco. Sgrano gli occhi, inizio a respirare a fatica e quasi gli chiedo scusa con gli occhi. Non ce la faccio.

Dio… non ce la faccio.

Ci guardiamo entrambi, sconvolti, disperati, con gli occhi aperti e spalancati da un terrore che, per noi, è più ancestrale della vita stessa. La mente ci rinnega. Il cuore ci scaccia. Anche il corpo, adesso?

Davvero, tutto si è fatto così estraneo adesso?

Ed allora, pur di smettere di pensare, pur di non ricordare, pur di cancellare quello che in fondo allo stomaco già so, già sapevo e che non volevo semplicemente ricordare, dico la prima cosa che mi viene in mente, guardandolo dal basso verso l’alto, fingendo una malizia che non ho ma che perlomeno celi la disperazione che ruggisce sottopelle.

“Magari semplicemente non lo vuoi più…  non mi vuoi più…”.

Non attende neanche un secondo per rispondermi, si stacca da me solo il necessario per potermi guardare e soppesare con lo sguardo di nuovo deciso, offuscato, buio.

La voce è forte, intensa, dolente, senza alcuna esitazione: “Dubita di qualsiasi cosa, Hermione Granger. Tranne che di questo… che abbia mai smesso di volerti più di quanto sia possibile ed auspicabile per restare sano di mente…”.

Ricomincia. Tutto ricomincia come le tempeste a luglio, quando le nuvole si addensano all’orizzonte, compare un scampolo di sole, giunge un tuono lontano e sai già che ricomincerà a rovinare la pioggia sulla terra, distruggendo, inondando, scavando fango. Ricomincia: perché quando hai sete, se cerchi di saziarti di una bevanda dolcissima, hai sollievo per solo cinque secondi, poi ricomincia la sete più rovente di prima. Ricomincia, perché quando le parole ormai sono assassine, non smettono mai di esserlo. Ricomincia, perché se non sei più in grado di chiuderle fuori le parole con i baci, le carezze, anche se sono solo pallidi e sbiaditi rimedi, allora sei condannato. Siamo condannati.

Mi trema il labbro, mentre riapro bocca e sussulto mormorando: “Avevi bisogno anche tu di finire il lavoro? Di finire di farmi a pezzi? A che cosa serve che io lo sappia adesso? A che cosa serve dirti adesso che non ho mai smesso di pensare a te?”.

Draco agghiaccia, sobbalza e si stacca ferocemente da me, come se d’improvviso la verità indubitabile delle mie parole gli sia giunta alle orecchie come una bestemmia incalcolabile. Freme, chiude i pugni, ansima, le narici dilatate nella stasi della rabbia. Mi si affolla la pelle di brividi ghiacciati, e non c’entra che ho paura di lui, non ne ho mai avuta, c’entra solo che improvvisamente è di nuovo lontano.

C’entra solo che ormai è vicinissimo a capire, a comprendere. Ogni ombra che si mangia i suoi occhi, è un terribile ed osceno passo in avanti.

La rabbia raggiunge ed arma le sue mani, colpisce violentemente il muro alle mie spalle con le palme aperte, proprio ai lati del mio viso. Non sobbalzo, non trasalgo, non mi sposto nemmeno.

“Lo vedi? Lo vedi?” sibila glaciale, guardandomi storto, prima di allontanarsi da me con frustrazione e iniziare a misurare la piccola stanza a grandi passi come se, improvvisamente, non riuscisse più neanche a guardarmi “Perché è così maledettamente facile farsi del male per me e per te… ed invece non riusciamo più a farci stare meglio?”.

Questo…” dico esitante, con un sospiro mesto “Dovrebbe farci stare meglio?”.

Draco si ferma al centro della stanza improvvisamente, mi guarda con le spalle piegate e sussurra piano, ingenuo, dolce, innocente come mai è stato: “Non funziona come le fiabe, Granger, come quelle che disegnavo per Serenity? Non funziona così? Se ti bacio, non va tutto a posto, come per magia, come per miracolo? La principessa si sveglia e il principe diventa Re… non funziona così… Hermione?”.

Ritrovo il sapore delle lacrime in bocca, mentre scuoto il capo a cancellare quella sensazione di miele che me lo ripropone di fronte con quella dolcezza arrogante e sfrontata che ha anche nostro figlio. Ed ancora sono mamma, crudele mamma con i piedi per terra, che replica stanca ed affannata: “Io e te non siamo mai stati una fiaba… ci faremo solo più male così…”.

“Perché?” mi chiede ancora, sincero, onesto, ancora caparbio martire di una causa persa. Fa un passo, e poi ancora un altro, avvicinandosi di nuovo a me, riprendendo a sussurrare ad un sospiro da me, mentre io non mi chiudo tra lui e il muro, non concedendomi questo alibi idiota. Poggio le mani sulle sue spalle, lo tengo lontano e vicino assieme, non lascio che si avvicini e neanche che se ne vada.

E lui mi stringe i fianchi, non accenna a nessun movimento ulteriore, parla e basta, la fronte di nuovo poggiata sulla mia, gli occhi chiusi, il tono della voce soffuso come se si confessasse in punto di morte.

“Ti bacio e te lo tolgo a forza il sapore di Radcenko dalla bocca. Ti bacio e ti tolgo il modo che ha di guardarti, come se fossi un regalo fatto apposta per lui, quando tu sei stata fatta per essere un regalo a me e a me soltanto. Ti bacio e ti tolgo a forza il modo che hai tu di guardare lui, come se ti servisse per respirare, per andare avanti, come se avessi sempre più bisogno di lui e non di me. Ti bacio e mi tolgo dagli occhi il pensiero di che cosa può averti fatto Karkaroff che non mi dici, perché ti guarda come se un po’ ti avesse avuta, e persino una briciola di te in mano a quel mostro, mi fa ribrezzo e gliela toglierei con la forza, con il sangue, con il dolore, pur di saperla di nuovo solamente mia. Ti bacio e ti tolgo a forza che Weasley è stato il padre migliore che potesse avere mio figlio a causa delle circostanze, ti tolgo il ricordo che vivesse con te, dormisse con te, magari ti baciasse persino, sentendoti sua. Ti bacio e sparisce che ti appoggi a Thomas se hai paura, o guardi Potter se sei incerta, e sfuggi i miei occhi come se scottassero, come se non li sopportassi, come se non potessi neanche sopportarne la vista. Ti bacio e ti tolgo dall’orbita di ogni uomo che ti ha guardato, respirato, accarezzato, sfiorato. Ti bacio… e ti perdono per aver osato pensare di poter vivere senza di me. Per averci anche provato. Per aver creduto che un altro, chiunque, potesse essere me. Per averlo persino augurato per nostro figlio. Per non essere corsa da me. Per non avermi detto subito di nostro figlio. Perdono quella pancia che cresceva senza di me ad accarezzarla e a prenderla in giro, perdono le labbra strette se arrivavi a pensarmi ma senza che i piedi si muovessero ed andassero via dalla tua vita in naftalina, perdono la rabbia che hai per me, perdono la morte che mi puoi dare… ti bacio… e tutto questo andrà a posto… vero?”.

Non so quando ho cominciato a singhiozzare così forte, da temere che il cuore mi esca dal corpo. Non so quando ho cominciato a temere che gli occhi mi bruciassero così forte, che forse stessi piangendo sangue. E non so nemmeno quando ho chiamato nella testa queste parole testamento. Non so nemmeno se la sensazione che abbia il petto pieno di spine, non sia solo un’illusione e non una strana certezza dell’anatomia. So solo che, ad un certo punto, ho chiuso le braccia attorno alle sue spalle, ho cominciato a piangere con la fronte poggiata sulla sua clavicola, mentre con la testa negavo febbrilmente e gli imponevo quasi di fermarsi, di smetterla. Ogni singola dannata parola è un rocchetto di filo, che ti illude di portarti fuori dal Minotauro, ma invece ti getta dritto nelle fauci del mostro. Ogni parola, è una conferma. Ogni parola, è una certezza. Tutto quello a cui cercavo di non pensare, che in realtà tra noi è solo vendetta sporca, nulla dell’amore se non quello romanzato del passato, detona dentro di me.

Ed ora siamo davvero alla fine: ora, davvero, non posso più nascondermi. Ora, davvero, saprà tutto anche lui. E dovrò strappare, come petali di una margherita setosa, ogni suo pensiero, farlo rassegnare alla morte, farlo scendere nella fossa scavata apposta per noi, assieme a me. E non volevo, non voglio. Non posso.

Vi prego, qualcuno, chiunque… non me lo faccia fare. Non me lo faccia dire. Mi uccida adesso, e basta.

Ed invece, come la megera che sogghigna quando deve dire ad un bambino che Babbo Natale non esiste, sento già le mie corde vocali atteggiarsi a parlare, comprendendo dalla tensione del corpo di Draco contro il mio che sta attendendo una risposta, sta attendendo che io parli, sta attendendo che io, l’amica delle parole, spieghi tutto e srotoli inoffensivi pensieri ai suoi occhi.

Non sa quanto le parole mi si siano ritorte contro, e siano diventate attentatrici alle spalle.

“Non puoi davvero pensarlo…” sussurro contro il suo petto, sperando che passi, trincerandomi ancora dietro una frase innocua.

Draco mi stacca gentilmente da sé, tiene ancora il mio viso tra le sue mani, mi accarezza piano gli zigomi con le dita, prima di bisbigliare con voce dilaniata: “Perché?”. Ho ancora un sussulto nello sguardo, un accenno di diniego nel collo, una preghiera bloccata tra i denti, non mi far parlare per favore.

Lui invece aspetta, lui invece attende quello strale fatale che lascerebbe scagliare solo a me.

E quello alla fine arriva. Alla fine, semplicemente scoppia fuori.

“Neanche riesci più a baciarmi, Draco. Non vuoi perdonarmi… vuoi solo punirmi…” le sue mani perdono la presa con il mio viso, mi guarda come una Sibilla crudele, come i troiani guardavano Cassandra che preconizzava sventure. Con gli occhi atterriti, gli arti abbandonati, la mente affollata delle parole che mi ha appena detto e che ora acquistano il loro verso senso e significato.

Benzina sul fuoco, è il bacio che non è riuscito a darmi, che non siamo riusciti a darci, che ancora non riesce a pensare di darmi.

È la prova dell’omicidio: il coltello sotto il tappeto, sporco di sangue. La pistola fumante. Il bicchiere pieno di veleno.

Singhiozzo ancora e già rimpiango le sue dita sul mio viso, faccio un passo in avanti verso di lui a braccia tese come a trattenerlo, ma poi le mie mani si bloccano e ricadono lungo i fianchi.

“Vuoi punirmi perché ad un certo punto, per un motivo qualunque, ho scelto altro. E non te…” piango ancora, stringo gli occhi e pigolo fuori con voce straziata ed acuta: “Come io non riesco a perdonare te. Non sarà un bacio a mettere a posto le cose. C’è… troppo, Draco… che ci fa male ancora adesso. Non basta stringerci, stavolta, dirci che ci amiamo, stavolta…”.

Mi interrompe, fa un passo verso di me, allunga una mano che poi si arrende e ricade piano, come un vessillo spezzato. Gli occhi sono esitanti, il corpo pure.

Ha la voce spezzata dal pianto, quando mi chiede disperato, come se davvero non ci credesse: “Mi ami? Tu… mi ami ancora?”.

Le lacrime si fermano, si bloccano, si arenano. Sicura, spavalda, sollevo il mento e pronuncio il mio giuramento, con la forza di un dogma divino: “Non esiste più un’Hermione Granger che non ami Draco Malfoy”. E l’osmosi è completa, lui accusa il colpo, si chiude le dita sul petto, stringendo la camicia. Parla a sé stesso, folle, pazzo, lo sguardo fisso al pavimento.

“Dici una cosa così… e da una parte ti prenderei contro questo muro, facendo l’amore per tutta la notte. E da una parte, non riesco a sopportare neanche di guardarti…”.

“Perché ti ho tradito… come tu hai tradito me…” sussurro, e i singhiozzi di nuovo deformano la mia voce “Non lo capisci? Perché me lo stai facendo dire? Perché mi ci stai facendo pensare? Potevo tenerlo nella testa… e fare finta che non ci fosse…”. Nascondo il viso nelle palme, cancellandomelo dal viso, fingendo che non ci sia più, invocando il pensiero di Alex, di Ilai, di Ron, o di qualsiasi altro angelo o demonio che mi strappi da qui.

“Ami la ragazza del Petite Peste, la tua cameriera che camminava scalza per casa…” lo sto dicendo davvero, perché sto parlando ancora? Perché nego e spergiuro l’amore, e qualcuno non mi uccide adesso? Perché non mi sentono gli Empatici? Perché non vengono a dirmi che solo l’amore può salvarci ed allora me lo incastona nel petto, me lo innalza con la magia, me lo incatena al cuore così non fugga?

Nessuno arriva. Nessuno. E le mani chiuse sul viso, le lacrime che mangiano gli occhi, mai si sono mangiate anche le parole.  

“Ed io amo il mio capo arrogante e presuntuoso, che mi ha baciato sotto la luna nuova… ma quelli…”.

L’ultima freccia, l’ultimo fendente, l’ultimo colpo… almeno lo scaglia lui. Comprendendo, infine, a voce mozzata, a lacrime fiorite, a vita spezzata.

“… quelli non siamo più noi…”.

Silenzio. Rombo. Tuono. Terremoto. Voci lontane. Risa. Grida. Bambini. Bambine. Amori. Odi. Saluti. “Torna presto”. Contraccolpi. Erba bagnata. Vaniglia e tè nero. Respiro. Respiro. Singhiozzo. Sussulto.

Fine. La fine.

Questa è la fine.

“Domani… noi non torneremo, vero?”.

“No, Draco”.

Le ginocchia si piegano, cado per terra, supplice, implorante, spezzata. Non tocco il suolo, però: Draco corre, mi stringe, mi abbraccia.

Piange sul mio collo, tutta la notte.

Piango sul suo collo, tutta la notte.

 

 

Dietro le palpebre chiuse, mentre torno lentamente alla coscienza, si disegna una trama di parole mozzicate e di rantoli scomposti. Per un attimo, non ricordo nulla, resto ad occhi chiusi beandomi del silenzio e di un vento fresco che spira da una qualche finestra vicina. Non ricordo per un secondo neanche come mi chiamo: accolgo solo una sensazione piacevole di pace, in fondo allo stomaco, e la curiosa convinzione di avere davvero dormito profondamente per la prima volta in settimane. Riposata, rinvigorita, resto ad occhi chiusi con un sorriso inspiegabile.

La prima cosa di cui mi accorgo è una luce grigiastra che preme contro le palpebre: automaticamente penso che manchi poco all’alba ed associo la sensazione di benessere alle domeniche di ottobre, ad Hogwarts, quando potevo poltrire a letto un po’ di più. Lento, però, mentre il mio corpo si risveglia lieve, la percezione di esso mi rimanda ad una sua foggia ben diversa da quella della ragazzina.

Sono grande, sono una donna: ho ventotto anni. Ho preso il diploma, ero un’Auror, poi una cameriera squattrinata.

Quelle immagini, però, non hanno consistenza alcuna: non acquisiscono definizione e si confondono nel vento che mi soffia sul collo, portandosi un odore salmastro. Il mare. Non è Hogwarts allora. Ma non può essere neanche Favignana: quando mai sono stata in pace, lì? O forse è successo qualcosa… e io… non me lo ricordo… è rapido, allora, fulmineo, che in un solo respiro, torni tutto alla mente.

Come un treno che passa in una stazione deserta con i vagoni che sferragliano sulle rotaie, riducendosi a macchie luminose e saettanti nelle pupille, così le immagini di questi ultimi giorni mi si ripropongono velocemente, causandomi un vuoto allo stomaco. Raissa in casa di Draco. Il ritorno di Dimitri. Il rapimento di Alex. La Solutio damnationis. Il senso di ansia e di angoscia per mio figlio riprendono pieno possesso del mio cuore e dei miei pensieri, causandomi il solito pizzicore diffuso negli arti immobili e negli occhi che già percepisco come arrossati, come se avessi pianto per giorni. Sono così pesanti che nemmeno riesco ad aprirli. Ed è a quel punto che, risalendo a ritroso nella memoria, ricordo anche perché ho pianto così tanto.

Io… e Draco. Il libro di favole. La fotografia. La fuga. Quel ripostiglio buio. Ha cercato di baciarmi… e non ci siamo riusciti. La consapevolezza che domani, anzi oggi… non torneremo indietro.

Non ci unisce un amore puro e meraviglioso, incontrastabile, privo di colpa e rimorso, ma solo stralci di sentimento che solo il tempo avrebbe potuto rendere vergini di rancore ed odio.

Un tempo che… adesso non abbiamo. Un tempo che… ci condanna innamorati di persone che non siamo più.

Quella sensazione di… non farcela più.

Semplicemente.

Lui… che mi stringe forte, le labbra premute sulla mia fronte. E che piange, con me, assieme a me.

Quando le lacrime si sono pian piano arenate nei miei occhi, quando semplicemente mi sono sentita troppo stanca per fare altro, quando improvvisamente la coscienza di non poter fare più nulla per cambiare il mio futuro, quando ho compreso che l’importante era che mio figlio fosse in salvo in qualche modo, quando persino la rabbia che provavo per lui si è trasformata in un senso ineluttabile di pace sconfitta e di rassegnazione nervosa… ho avvertito d’un tratto tutta la stanchezza di questi giorni, gli occhi che mi si chiudevano, la guancia premuta contro il torace di Draco.

E, da lì, è diventato tutto confuso, una nebbia luminosa ed iridescente che profumava di lui. Il profumo della terra a settembre.

Mentre con fatica riapro piano gli occhi, chiudendoli quasi subito per una lama di luce che mi ferisce, mi sento così impregnata di quel profumo che mi chiedo se non mi sia entrato nelle ossa stesse. Lo sento ancora, fortissimo, vicinissimo. E lì ricordo gli ultimi tasselli delle scorse ore.

Il sonno che calava sulle palpebre, pietoso. Draco seduto per terra, le guance ormai asciutte, il mento poggiato sulla mia testa, le braccia strette attorno alle mie. Un sospiro, il respiro finalmente sciolto. Qualche parola che non ho inteso. E poi... ero nel corridoio, in braccio a lui, le braccia allacciate alle sue spalle salde. Il buio della sua camera. Il letto. Una coperta.

“Dormi un po’, adesso, ok?”. La voce un po’ spezzata, un po’ tremula, poco sicura.

“Puoi stare un po’ con me, però?”. Come se fossi ubriaca, come una bambina con la febbre alta che sragiona nel sonno.

“Fino alla fine del mondo. Anche se fosse stanotte”.

Calma, pace, dolcezza. E poi finalmente… la quiete del sonno.

I miei sensi, finora addormentati, tornano tutt’un tratto, assieme al cuore che si ridesta e riprende a battere forte, come farneticante. Con un senso di meraviglia e timore inconscio mescolati assieme, riapro gli occhi lentamente. Sono effettivamente distesa sul letto della camera di Draco, quella dove mi risvegliai dopo lo scontro con Dimitri. Riconosco la mobilia e la finestra aperta sul giardino, dove si sentono ancora le voci allegre di qualcuno che non ne vuole sapere di andare a dormire. Ma non è quello che, ovviamente, mi fa andare in fiamme il viso. Attorno alla mia vita, poggiato come a proteggermi e a tenermi contemporaneamente vicina, c’è un braccio dalla pelle chiara che non potrei mai confondere con quello di nessun altro. Tiene la sua mano sul mio ventre, chiusa e coperta dalla mia. E solo adesso, non so come e non so neanche perché, con un sussulto, distinguo un respiro nei miei capelli e la forma delle sue labbra su di essi.

Mi sfugge un sorriso che non so da dove mi sia spuntato, specie adesso, specie quando, con ostinazione e pietosa ipocrisia, mi volto lentamente su me stessa, rigirandomi nel letto per sincerarmi che sia davvero lui. Compio la mia manovra in silenzio e con cautela, non spostando il suo braccio ancora chiuso sulla mia vita, trovandomi finalmente di fronte a lui.

Draco ha il respiro regolare e lento di chi è profondamente addormentato e, come ricordavo ancora, nel sonno si lamenta un po’ come sempre. Ha il labbro inferiore leggermente sporgente come se avesse un buffo broncio, cosa che ancora mi ricorda Alex, ed ha le ciglia biondissime così lunghe che mi chiedo come non si attorciglino tra loro. Sono ancora bagnate, non so se per le lacrime o per il sudore di questa notte calda, e tremano leggermente. I capelli sono disordinati, ricadono a grandi ciocche sulla fronte, spostandosi un po’ a ritmo del suo respiro. Il suo braccio è fermo, immobile, decisamente chiuso sul mio fianco, la mano aperta e poggiata sulla mia schiena. È così bello, così irrealmente meraviglioso averlo qui, così, vicino a me, come lo sognavo sempre in Italia, che mi chiedo se davvero non sto sognando. E, vittima di quella sciocca ed infantile paura, allungo lentamente una mano per toccargli il viso. Ma non faccio in tempo a sfiorarlo che Draco spalanca le palpebre con un sobbalzo, come dopo un incubo. Respira di sollievo vedendomi lì, gli occhi si sgranano e tornano poi alla normalità. Però, immediatamente, si accorge del braccio che teneva poggiato su di me e lo stacca bruscamente, un’ombra di rossore sulle guance. Metto a tacere la punta di delusione che sento nel ventre, assolutamente sgradita ed inopportuna, ed abbasso lo sguardo, concentrandomi su altro.

“Scusami…” sussurra con la voce impastata, a malapena udibile.

“Non importa…” sorrido, tornando a guardarlo, ha gli occhi ancora foschi e nebbiosi, nascondo con un sospiro le mani sotto il cuscino, prima di bisbigliare pacata: “Stai tranquillo”. Il tono delle nostre voci è cambiato repentinamente, dalla sera prima. È soffice, gentile, timoroso, mai urlato. Non ci siamo mai parlati così, anzi… tra di noi, tendenzialmente usavamo un colore di voce abbastanza stridulo ed antipatico, anche quando stavamo assieme. Eppure, questa… delicatezza… adesso è persino giusta, necessaria. Come se camminassimo su un terreno minato. Come se ieri sera, con il suo carico di scoperte, avesse fatto scoppiare una bomba, il cui conto alla rovescia durava da mesi, forse anni. Adesso, nelle rovine, ci muoviamo come reduci: rimpariamo a comunicare, a conoscerci.

Anche se tutto questo durerà solo poche ore. E, forse, la pace è cominciata proprio perché manca così poco alla fine.

“Sei riuscita a dormire?” mi chiede con premura, gentilmente, spiando le ombre del mio viso.

“Un po’… e tu?”.

“Un po’ anche io…”.

Imbarazzata, gli sorrido in risposta, giocherellando con le pieghe delle lenzuola. Poi, a voce bassa, mormoro: “Grazie… di essere rimasto…”.

Draco non risponde, non dice assolutamente nulla. Annuisce con un sorriso nuovo, diverso. Forse anche chiamarlo sorriso, è troppo. È una semplice piega delle labbra, un po’ statica, tirata, inespressiva.

Ma almeno vera.

Si sistema meglio sul cuscino, uno sprazzo di luce negli occhi grigi che spero, davvero, che sia ancora la luce della luna. Non potrei sopportare che fosse già il sole. Sembra che stia per dire qualcosa, dischiude le labbra ed accenna a parlare. Poi tace, restando in silenzio a guardarmi. Non riesco a mia volta a smettere di fare lo stesso. Starmene qui, su questo letto, a contare i secondi che passano indifferenti nella mia testa, con questo sorriso mesto, guardandolo negli occhi.

“Sarà un segreto tra me e te, Hermione. Non è necessario che… lo sappiano…” bisbiglia Draco con un filo di voce, un’ombra nerastra che si rapprende nella sua espressione, portandomi a stringere le spalle quasi a moto di difesa. Comprendo a che cosa si sta riferendo, non è necessario che nessun altro, a parte noi, sappia quanto questa missione sia semplicemente suicida.

Draco prosegue monocorde, lisciando un’invisibile piega sul cuscino: “Specie Seth, Pansy… penseranno che… ce l’abbiamo messa tutta e non ce l’abbiamo fatta… non c’è bisogno che… soffrano da ora…”. Per qualche secondo mi incanto a guardarlo, meravigliata, stupita. La tenerezza, la dolcezza, la preoccupazione che mette in queste parole, per quelli che considera i suoi migliori amici, mi lascia frastornata. Fino ad ora, ho visto l’evoluzione di Draco Malfoy solo in termini negativi, solo in tutto quello che mi divideva da lui. Ora, vedo anche gli albori di tutto quello che di bello è sorto in lui in cinque anni. Non solo il padre… ma anche l’amico: l’uomo non più così egoisticamente concentrato su sé stesso e la sua sofferenza, ma che addirittura comprende quella degli altri. Avevo sempre avuto fiducia nel fatto che potesse diventare così… e so che avevo ragione. Ora ne ho la conferma, anche se purtroppo non potrò vedere altro.

Rimasta troppo a lungo in silenzio a fissarlo, mi affretto a replicare affannosamente: “Sì. Hai ragione. Non ce n’è bisogno… è già abbastanza difficile senza che loro…”. Lascio la frase a metà, grata che lui non la finisca. Un magone si deposita velocemente sul mio petto, cerco di scacciarlo respirando profondamente. Mi concentro sulla sensazione di calma che ho provato appena sveglia, cosciente che, tutto sommato, avevo sistemato tutto quello che mi restava da fare. Con Ron, con Serenity, con Draco. Per gli altri, non ho veri e propri addii. Non devono sapere fino a che punto io sia cosciente di non tornare più. Spero solo di riuscire a rivedere Alex anche di sfuggita. Le lacrime iniziano a pungermi di nuovo gli occhi, cerco quindi di distrarmi come posso, e penso a quanto sia bello poter stare nella stessa stanza con Draco, senza che tutto mi esploda nel petto, costringendomi ad odiarlo. Non è cambiato davvero nulla. Raissa e il suo ricordo sono sempre lì, con le recriminazioni, i rimpianti, i ricordi. Solo che, appunto, per fortuna e purtroppo, non c’è tempo per pensarci. Per la prima volta da ore, con un vago senso di nausea che mi colpisce allo stomaco, mi chiedo dove sia Ilai. Ed è lì che la mia calma vacilla, si spezzetta, minaccia di scomparire. Abbasso il viso, respirando, cosciente dello sguardo di Draco che, ancora steso su un fianco vicino a me, non si perde nessun mio movimento.

Lascio che, però, anche il pensiero di Ilai se ne vada dalla mia testa, nella somma e consapevole coscienza di dover lasciare libero anche lui.

Mi muovo nel letto piano, cercando assenso nei suoi occhi, fino ad arrivargli vicino e ad affondare il viso nella sua camicia spiegazzata. Lo sento sorridere contro il mio viso, il torace che vibra piano, mentre lo stringo forte, restando con la testa seppellita sul suo petto. Mi cinge alla vita, rimane sempre con le labbra poggiate sulla fronte nel gesto che ha imparato da qualche ora, e che ora considera naturale.

L’anticamera di un bacio, che non riusciremo più a darci.

Ancora, per scacciare i pensieri, mormoro quieta: “Dimmi qualcosa su di te che ancora non so…”.

Draco sembra irrigidirsi un po’, resta qualche secondo a chiedersi perché mi sia saltato in mente di fargli questa domanda. Non lo so neanche io. So solo che voglio morire sapendo più cose possibili su di lui, so solo che ce ne sono troppe che non saprò mai, so solo che quelle forse che ci farebbero più male, comunque, non riusciremmo a dircele. So che ne ho bisogno. So che ho bisogno di lui, adesso, come mai nella mia vita. Le dita di Draco si avventurano tra i miei capelli, giocando distratte. Chiudo gli occhi, rabbrividendo appena, e sospiro nel suo petto. Il suo profumo è così forte, che penso non se ne andrà mai più da me. E non c’è cosa migliore al mondo.

Finalmente, con un sorriso che sento nelle orecchie, Draco risponde cauto: “L’importante lo conosci, Granger. L’hai sempre saputo. E il superfluo… conta davvero adesso?”.

“Dimmelo lo stesso. Per favore…” ribatto cocciuta, stringendomi di più a lui.

Ci pensa ancora su, non parla ancora. Si limita a tenermi stretta, e davvero mi andrebbe anche bene così.

Quando ormai mi sono arresa a non avere una risposta, inizia a parlare a voce soffusa, bassa.

“Odio tutti gli ortaggi color arancio, mi dà fastidio il sapore e da qualche anno li associo ai capelli di Weasley, quindi adesso li detesto proprio. Non ho mai buttato la sciarpa che mi facesti avere a Grimmuald Place, ci ho provato per mesi dopo allora e non ci sono mai riuscito. Quando ho pensato che fossi andata via, ho comprato come un’idiota Orgoglio e pregiudizio, ma l’ho richiuso dopo tre capitoli. Sono felice che Pansy stia con Thomas, non mi chiedere perché, e se glielo dici, ti uccido. Mangio anche io il gelato fritto quando sono felice, adesso, ed anche su questo preferirei che non commentassi. Ho scritto una lettera per Alex, ci ho messo due ore e non sapevo che dirgli perché neanche lo conosco. Poi ho cominciato a scrivere e non smettevo più. Gli ho detto che mi piace il suo nome. Gli ho detto che, anche se fino a ieri non sapevo nulla di lui, è assieme a sua sorella ciò che di più caro ho al mondo. Gli ho chiesto scusa per non averlo potuto conoscere. Gli ho detto che, se avessi scelto da chi avere un figlio, anche avendo mille anni e mille vite a disposizione, avrei scelto sempre sua madre. E gli ho detto che, nonostante tutto, tu sei la cosa più bella che mi sia mai capitata…”.

Draco non ha quasi mai preso fiato mentre parlava, ha affannato le parole in un solo respiro soffice. Adesso, recupera fiato, sento il suo torace abbassarsi e alzarsi velocemente contro la mia guancia. Non dico nulla, non aggiungo altro: piango naturalmente, tiro su con il naso e cerco di non farmi sentire da lui, limitandomi con il capo ad annuire e basta. Senza neanche prevederlo, senza nemmeno premeditarlo, mi ha detto tutto ciò che volevo sentire e sapere. Non c’è nulla dell’amore mistico e magico che può sconfiggere Adamar, c’è solo la corsa affannosa a vivere quel poco tempo che ci resta nella maniera più onesta e serena possibile… eppure, c’è tutto. È un miracolo in cosa ci siamo trasformati in poche ore, solo con la coscienza che stiamo per morire.

Se le cose fossero normali, non sarei qui. Se le cose fossero normali, probabilmente ci sottoporremo a mesi di chiarimenti e di risoluzioni che chissà come ci lascerebbero, due derelitti imbruttiti dall’odio.

Invece ora, non c’è più pressione, ansia. Nulla. Non siamo abbastanza per Adamar, non lo siamo neanche per noi stessi. Siamo solo Draco ed Hermione, nonostante tutto. Sempre.

Solo questo, non cambierà mai.

Mi asciugo una guancia con il dorso della mano, sei la cosa più bella che mi sia mai capitata. Non è ti amo, non è non ti lascerò mai, non è torneremo a casa, non è neanche cresceremo assieme nostro figlio. Ma posso portarmi questa frase dentro, dietro, senza che nulla me la tolga dal cuore.

Draco mi tocca la guancia con un dito, richiamando la mia attenzione, prima di sussurrare tra il suadente e l’arrogante: “Non mi merito anche io un fantastico discorso cuore a cuore in punto di morte, adesso, Granger?”.

Sorrido, inarcando un sopracciglio, prima di sollevare il viso e guardarlo dal basso verso l’alto. Ha gli occhi tristi, un sorriso smorto che immagino replichi il mio. Nego con il capo e biascico velocemente, descrivendo piccoli cerchi sulla sua camicia, senza guardarlo: “Non ho mai avuto problemi di comunicazione, Malfoy. Sai già tutto di me. Sai anche troppo”.

“Dimmi tutto daccapo, allora…” ribadisce lui, testardo, mettendomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Mi nascondo di nuovo nel suo petto, aspettando di nuovo le sue braccia che mi stringano forte alla vita. Non penso a che cosa sto per dirgli, respiro forte come a prendere fiato e lascio che sia la mia voce, timorosa ma ferma, delicata eppure salda, a fare tutto il resto.

“Odio il mio mignolo sinistro da quando Lavanda mi disse, a quindici anni, che avevo le dita troppo tozze. Mi è sempre piaciuto il tuo naso, ma preferirei che non commentassi. Da quando me l’hai fatto notare, compro molti più vestiti rossi. Quando ero incinta, ho divorato un’intera torta alle carote e mandorle, e sono convinta che Alex detesti le carote anche per questo. Non so come diamine è successo, ma credo che adesso chiamo Pansy Parkinson la mia migliore amica, ma se glielo dici, ti uccido. Alex ogni mattina, da quando sa parlare, ti ha sempre salutato con un Buongiorno papà! In Italia ti ho scritto novecento tredici lettere in cinque anni, ho cominciato a scrivere e non smettevo più. So che non ha senso adesso, so che non le leggerai mai per tempo fino all’alba… ma voglio che le abbia tu. Sono tue. E credo di non averti mai detto che… sei la persona che ho amato di più in tutta la mia vita. E, nonostante tutto, se devo accettare un modo per morire oggi, lo accetto solo perché sarà con te…”.

Sotto le mie dita, sotto il tessuto della camicia, il cuore di Draco rimbalza forte, battendo più veloce. Per qualche secondo, non sembra neanche respirare, se ne sta in silenzio completo. Solo alcune cicale rompono la quiete della fine di questa notte. Incerta, insicura, spio con la coda dell’occhio la sua reazione ed è allora che vedo quella singola, minuscola e perfetta lacrima che gli scivola indolente dall’angolo dell’occhio destro. La asciuga con rabbia, non appena incontra i miei occhi, premurandosi di rassicurarmi con i suoi e di fare spallucce con espressione fintamente rilassata. Ma la tensione delle vene del braccio che mi tiene stretta, è evidente: scattano i muscoli sotto la pelle tesa. Questa è solo una tregua armata, in fondo: tutto è sempre lì, sepolto, come braci sotto la cenere. Basta un soffio per dare la vita a tutto. Basta una sola parola che esca fuori dal seminato, dal tracciato inoffensivo, e potrebbe scoppiarci tutto in faccia. E forse, quelle parole le ho dette io, adesso. Me ne accorgo da come, adesso, mi diventa innaturale vedermi dall’esterno stretta a lui, in questo letto. Me ne accorgo da come le ombre delle pareti mi sembrino gli occhi di Raissa. Me ne accorgo del pensiero risorto di Ilai, che ora punge nello stomaco più forte di prima. E me ne accorgo perché avverto la sua mano sulla mia schiena in modo diverso, molto diverso. Un modo che non è affatto pacifico, affettuoso e dolce. Piuttosto un modo che brucia i suoi polpastrelli sulla mia maglia, facendomi improvvisamente chiudere gli occhi a quell’improvvida carezza, come ad implorare che vada oltre, quando invece io stessa so che, se lo facesse, lo odierei senza posa.

Draco sembra intuire i miei pensieri, tanto che la sua mano sulla mia schiena dismette quella carezza bellissima ma pericolosa, e sussurra lievemente noncurante: “Non è stata una grande idea fare questo discorso, non credi?”.

“Credo anch’io” asserisco convinta, poggiando di nuovo il palmo aperto sul suo petto, rassicurata dalla sua voce di nuovo pacata e tranquilla.

“Un tempo facevo altre cose a letto con te. Bei tempi” biascica in tono sognante ed insolente, facendomi mio malgrado scoppiare a ridere, non prima di essermi sollevata con il busto ed averlo colpito leggermente sul braccio. Lui sbuffa un po’, sorride ancora. Mi appoggio di nuovo con le braccia incrociate sul suo torace, con il viso rivolto verso il suo, il mento poggiato poco sotto il collo. Lo guardo e basta, non riesco a fare altro. Sono svuotata in senso buono, incapace di pensare o di dire altro. Voglio solo guardare i suoi occhi, voglio imprimermeli nella testa.

Restiamo per un po’ così, non saprei nemmeno io dire quanto. Con quel sorriso addosso che è solo una smorfia che cela e disvela, che nasconde e mostra, che ama ed odia assieme. Piego la testa di lato, poggiando la guancia sul braccio piegato, chiudendo gli occhi quando le sue dita mi sfiorano piano lo zigomo, con la delicatezza riservata di solito ad una cosa di cristallo, già mezza scheggiata, già con qualche crepa. Forse mi addormento di nuovo, forse passa davvero troppo tempo, perché quando parla di nuovo, quando mi accorgo della luce che ha cominciato a diventare più chiara, mi sembra che siano passati solo qualche secondo.

“Voglio stare con Serenity. Fino all’alba…” mormora in tono di scusa, la sua mano sulla mia guancia trema un po’. Sussulto, chiudendo le spalle e sollevandomi, restando in ginocchio sul materasso. Lui mi imita, sedendosi di fronte a me, prima di afferrarmi il polso, sfiorandomi con il pollice l’interno del palmo della mano. Sussurra lieve: “Vuoi… venire con me?”. Torno a guardarlo in viso, la sua espressione è autenticamente spezzata in due, ancora gemella della mia. Non vuoi lasciarmi. Ma al contempo sai che questa notte e questa vita devono finire… e hai bisogno anche di stare con tua figlia.

Chiudo le dita sulle sue, sorridendo forzatamente e rassicurandolo: “No, tranquillo. Posso stare da sola. Ti… aspetto giù…”.

La sua espressione si addolcisce un po’, come se avesse compreso che voglio lasciarlo da solo libero di salutare la sua bambina, in pace. Qualcosa gli passa negli occhi, qualcosa che ruggisce nel fondo dei suoi occhi, passione, odio, rabbia, dolore, rimorso, desiderio, e la mano che è ancora nella mia trema un po’, si distende e si contrae. Apre le labbra, fissando le mie, come se stesse per dire qualcosa, come se stesse di nuovo per provare a baciarmi. Ma la paura ancora di non riuscirci, la paura di affrontare di nuovo quel demone che è la coscienza di non amarci più come prima, lo fa desistere, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Mi scopro a chiudere le labbra che avevo già dischiuso involontariamente, serrandole in una morsa.

La sola cosa che fa, prima di uscire, è di prendere la mia mano tra le sue, stringerla forte, quasi a fermarmi la circolazione del sangue. Annaspo, gliela stringo a mia volta, cercando di fugare le domande nei suoi occhi e a renderle certezze inoffensive.

“Granger…”.

“Dimmi”.

“E’ per Alex…”.

“E’ per Alex…”.

 

 

Un capitolo un po’ più piccolo del solito, ma un capitolo che è un ringraziamento come sempre, a tutti coloro che mi hanno consolato e spronato con i loro commenti nello scorso, dopo lo spaventoso ritardo. Io davvero ho i lettori migliori del mondo. Ho risposto a tutti singolarmente stavolta, anche nelle fic Missing moments di Halft, ma ancora e sempre… grazie.

Un abbraccio speciale lo do ad Emme e Francesca. Sempre i miei generali, e sempre prodighe di consigli quando ne ho bisogno. Siete le mie rocce…J

 

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Capitolo 45
*** No rest for the wicked ***


Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatianon voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente e psicologicamente, minando forse per sempre la fiducia nei confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Dopo essersi chiarita con Ron, Hermione parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello” Alex. Ma proprio durante la conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco le fotografie del loro figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con Draco, scattata e conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che Draco mostra ad Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity. Ogni principessa del libro ha il volto di Hermione. È la molla per la peggiore delle rivelazioni possibili. Sebbene entrambi sono consci di essere ancora profondamente legati l’uno all’altra, Draco ed Hermione affrontandosi si rendono conto di essere innamorati del loro passato, più che di loro stessi al momento. Troppo dolore e rancore è intercorso tra loro, e purtroppo ormai non sanno se potranno recuperare loro stessi vista l’imminente prova con il demone. Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte.

 

 

“Devi ricordarti sempre che hai un debito verso questi personaggi”.

Dedico questo capitolo a Demetra, per tutto quello che mi ha detto mentre scrivevo questo capitolo, ricordandomi perché sono una pseudo-scrittrice.

 

 

Capitolo 45 – No rest for the wicked

 

Quando Draco esce dalla stanza si porta via tutto. Luce, calore, pace.

Il primo istinto che mi colpisce svogliato alla bocca dello stomaco, è di stendermi sul letto alle mie spalle ancora impregnato del suo profumo e di nascondermi sotto le coperte fino all’alba.

Forse, non è stata una buona idea restare da sola.

L’indolenza minaccia di paralizzarmi mentre aspetto chissà che cosa piangendo, disperandomi, sprecando tempo e basta. Respiro quindi a fondo, con una mano sul torace, decisa, cercando di darmi coraggio e di focalizzare tutte le mie energie sul tempo che mi resta.

Due ore. Mancano due ore all’alba.

Mi guardo attorno spaesata, apparentemente ho tantissimo da fare… ma niente, davvero, con cui riempire il tempo. Un po’ di vento notturno mi scompiglia i capelli soffiando dalla finestra e costringendomi a trattenerli con una mano. Un gemito di profumo diverso mi raggiunge le narici. Odore di fiori, fresco, gentile, dolce. Nella luce pigra della lampada azzurra sul comodino di Draco, noto qualcosa che inspiegabilmente attira la mia attenzione addormentata. Aggrotto le sopracciglia in direzione del profumo insolito ed allungo un braccio verso un libro che forse Draco stava leggendo, prima di addormentarsi. Ne riconosco subito la copertina con un tonfo al basso ventre.

Orgoglio e pregiudizio.

Sorrido in modo triste, malinconico, ripensando alle parole di Draco di poco fa.

Quando ho pensato che fossi andata via ho comprato come un’idiota Orgoglio e pregiudizio, ma l’ho richiuso dopo tre capitoli

Forse, non riuscendo a dormire, ha cercato di andare oltre nella lettura.

A fare da segnalibro, una piccola peonia bianca incantata con la magia perché sia così piccola da stare in un libro, sia sempre in fiore e sia sempre meravigliosamente bella. La sfioro con le dita, è soffice e fragile come velluto. Con curiosità, nel nitore accecante che emana, noto una piccola macchietta nerastra.

La studio meglio, avvicinando il fiore al viso. Il profumo è così dolce che mi stringe il cuore. Sussulto stringendo le spalle: non è una macchiolina. È una piccolissima serie di lettere, calcate delicatamente con l’inchiostro nero di una piuma. H.J.G..

Ed è la prima volta nella vita che so che non sono le iniziali di Helena, ma le mie.

Una peonia bianca per alcuni significa una ragazza indimenticabile per bellezza ed arguzia.

In Oriente, simboleggia coraggio: i guerrieri se lo tatuavano a grandi petali sulla pelle.

In Occidente, simboleggia il matrimonio, il coronamento di un amore scelto dal destino.

Per gli antichi, proteggeva dal male.

E per altri ancora, è un fiore che significa rabbia.

Quale significato hai scelto tu, Draco, da associare a me?

Accarezzo i petali del fiore con sconforto comprendendo che non lo saprò mai: l’incantesimo sulla peonia mi impedisce anche di capire se l’abbia sempre avuta, o l’abbia colta solo stanotte. Nel dubbio, in ogni caso, la nascondo nelle pieghe degli abiti che indosserò per affrontare Adamar, come se stessi portando con me un amuleto magico.

Con quell’odore ancora nel naso a solleticarmi gli occhi di lacrime, decido prima di tutto di lasciare un messaggio alle persone che amo. Dubito di riuscirle a salutare degnamente adesso, visto che io e Draco abbiamo concordato di tenere per noi quanto consideriamo impossibile tornare. Trovo la mia bacchetta sulla libreria di fronte al letto di Draco. Probabilmente l’ha portata qui dopo il nostro scontro nel ripostiglio. Estraggo quindi una scatolina di argento smaltato in cui riponevo gli anelli quando non li indossavo, per conservarli al sicuro in valigia. E la incanto perché, come fece Helena ormai sei anni fa, trattenga il suono della mia voce e lo trasmetta, una volta aperta, ai miei genitori e ai miei amici. Piango naturalmente, ma cerco di tenere ferma la voce per impedire che ricordino questo di me. Soffoco le lacrime nel palmo quando non riesco a parlare e, ad ognuno di loro, lascio un messaggio, un ringraziamento, una raccomandazione, una frase affettuosa.

Concludo con una comune esortazione. Per favore, prendetevi cura di Alex e Serenity.

Con lui, con mio figlio, non parlo. Ho altro in mente. Non può sentire che cosa ho detto agli altri, non adesso. Quindi, ancora a costo di lacrime e di un sapore amaro in gola che mi induce a tossire spasmodicamente, scrivo una lunga lettera e la nascondo nel libro del Piccolo Principe che ho ancora in valigia. La incanto perché, come fece Tatia con me, solo Alex la possa leggere e non prima del giorno del suo diciassettesimo compleanno.

Lo considero il tempo ottimale perché lui possa conoscere tutta la verità.

Gli dico tanto, troppo: che lo amo, che sono fiera di lui, che sono certa che è diventato tutto quello che voleva diventare, che sicuramente ha già una ragazzina che gli fa battere il cuore, che suo zio Dean è fissato che questa ragazzina sia Charisma. Gli dico che, qualunque persona sceglierà di essere, con chiunque decida di condividere la vita, io sarò dalla sua parte. Gli dico di amare sempre, e non pentirsene mai, perché io non mi sono mai pentita di aver amato.

Né te e neanche tuo padre.

E gli dico che, dovunque sarò, non smetterò mai di stargli accanto.

Nessun Dio o diavolo potrà impedirmelo.

Con cura, ripongo la lettera nel libro che, a sua volta, nascondo nella valigia. Sistemo sul letto i vestiti di Alex, li piego con attenzione per l’ultima volta, sbattendo continuamente le lacrime per impedirmi di crollare. E, con maniacalità, compilo una lista per Pansy e Dean su tutto ciò che devono sapere su Alex: i vestiti che adora, i suoi libri preferiti, cibi o medicinali a cui è allergico, malattie che ha già contratto, vaccinazioni, fratture, patologie pregresse mie o di Draco, altre vicende mediche accadute durante la gravidanza e il parto. Ripiego la lista in due e la sistemo accanto alla scatolina incantata, al libro del Piccolo Principe e alla lettera per Alex. Quando finisco, respiro di nuovo. La luce all’esterno è lievemente più chiara.

Per eliminare le tracce di quel pianto, mi faccio una lunga doccia con acqua bollente, godendomi il tepore sul mio corpo. L’acqua nelle mie orecchie non riesce, però, ad ovattare del tutto i miei pensieri che ripetono con accenni duri e strozzati una sola litania.

Fa male. Fa malissimo.

Scuoto il capo a tenerli fuori da me stessa, mentre mi asciugo velocemente. Indosso un paio di jeans corti ed una camicia rossa, così che possa sentirmi me stessa. Per lo stesso motivo, impulsivamente, punto la bacchetta contro i miei capelli e li ordino di ricrescere: ricadono adesso in morbide onde sulle mie spalle. Assomiglio alla mia me stessa della guerra contro Voldemort, cosa che voglio prendere assolutamente come un buon presagio.

L’ultima cosa che faccio, prima di scendere di sotto ed indossare la mia migliore maschera di calma e seraficità, è poggiare sul letto la scatola di latta azzurra con le novecento e tredici lettere per Draco.

Sono tue. Sono sempre state tue.

A far compagnia al ricordo dei miei cinque anni in Italia, c’è anche l’anello di Narcissa Black. È giusto a questo punto, visto che non è mai stato davvero mio, che io lo lasci a Serenity.

Il mio solo bagaglio è la collana di Tatia, l’anello di Ron con la pietra rossa e la peonia bianca di Draco.

Quando mi chiudo alle spalle la porta della camera di Draco, mi sorprende il silenzio del corridoio e del resto della casa. Tutti evidentemente devono essersi addormentati. I miei passi riecheggiano forte, quindi decido di andare in giardino così da evitare di svegliare qualcuno e di dover intrattenere conversazioni che non ho la forza di tenere. La porta della camera di Serenity è chiusa, mi fermo a disagio davanti ad essa.

Immaginando Draco e Serenity lì, abbracciati, in quel letto piccolo e femminile al profumo di ciliegia e lavanda.

Li invidio, come li avevo invidiati anni fa a Wonderland, stretti in quel vincolo d’amore da cui mi ero sentita esclusa.

Invidio Draco, perché ha una figlia da stringere, prima di morire.

Invidio Serenity, perché ha lui da stringere, prima di perderlo.

Cancellando quei pensieri, continuo a camminare nel corridoio, sentendo con una parte della mia mente qualcuno parlare a mezza bocca. Il sangue è troppo, è davvero troppo. Aggrotto le sopracciglia guardandomi attorno ed intravedo Theodore Nott che parlotta con Blaise Zabini, tenendo un libro in mano. Probabilmente qualche stupido racconto dell’orrore: come se non ne stessi vivendo uno sulla mia stessa pelle. Li studio con silente rimprovero, borbottando a mezza bocca, ma loro non si curano di me, sbuffando rumorosamente guardandomi. Per tutti loro, in fondo, oggi è solo una gita nella memoria con i vecchi compagni di scuola. Scendo di sotto, dove c’è un’aria stagnante di sonno e pace. Pansy è profondamente addormentata, distesa su un fianco sul divano, una mano sulla pancia ancora inesistente. Ha sul viso un sorriso che non le ho mai visto, meraviglioso, luminoso e bellissimo: libero. Fa inspiegabilmente sorridere anche me, anche se non so da che cosa sia causato, se dalla gravidanza, oppure da… altro. Dean è seduto sul tappeto, un braccio piegato e poggiato sul bracciolo del divano a poca distanza dalla testa della moglie, su cui tiene una mano aperta come a proteggerla anche nel sonno. Ha la bocca spalancata, russa un po’, eppure non credo che sia mai stato così felice. Mi porterò questo ricordo stupendo di loro, di quello che sono, di come avrei voluto somigliarli anche solo un po’. Mi guardo attorno nel resto del salone, il cuore gonfio di una sensazione insopprimibile tra la tristezza e la tenerezza. Ron si è addormentato anche lui, vestito di tutto punto, seduto sull’altro divano a braccia incrociate, un’espressione aggrottata sul viso. Natalie dorme serena accanto a lui, la guancia poggiata sulle sue ginocchia. Elias, invece, riposa nel passeggino poco distante. È sporgendomi oltre che ho la sensazione davvero di stare per crollare: sul tappeto, per terra, Seth russa della grossa con le braccia e le gambe spalancate stile stella marina. Attaccate ai suoi fianchi, una a destra ed una sinistra, ci sono Charisma e Lily profondamente addormentate a loro volta. Sul petto, però, c’è un’altra bambina che non credo di aver mai visto. È bionda, ha la pelle chiarissima ed indossa un vestitino di lino bianco con la stampa di ravanelli fucsia. Sorrido, anche se non me l’avessero presentata, saprei perfettamente chi è.

Kara, la piccola di Luna Lovegood.

È venuta anche lei quindi…

Dal numero di giochi sparsi in giro e dalla faccia di Seth, impiastricciata con i pennarelli per farlo somigliare ad un panda, deduco che devono aver giocato fino a crollare esausti.

Sarai un buon padre, in fondo.

Anche lui, sono felice di poterlo ricordare così.

Quel senso di pienezza tra i polmoni che rischia però di gonfiare il muscolo cardiaco al punto di farlo esplodere, mi spinge a correre fuori nel giardino, a contatto con la luce chiarissima dell’alba ormai imminente e con il vento che spira il vociare inesauribile delle rondini che si risvegliano. Riprendo fiato, poggiandomi con la fronte al tronco di una magnolia, chiudendo gli occhi sofferente. J

Una serie di rumori soffocati però mi costringono a riaprire le palpebre immediatamente, mentre aggrotto le sopracciglia e ne cerco l’origine. Sembrano provenire da un punto imprecisato alle mie spalle dietro alcuni alberi che descrivono una piccola radura seminascosta del giardino di Draco. Incuriosita o forse semplicemente vogliosa di distrarmi, faccio qualche passo in quella direzione, uscendo dal sentiero che descrive il perimetro della proprietà ed addentrandomi nel terreno brullo e coperto da aghi di pino. Mentre sposto qualche ramo basso che minaccia di farmi sbattere la testa, mi rendo conto del punto preciso da cui arrivano i rumori soffocati che, ancora, non distinguo pienamente. È dalla parte opposta rispetto alla casa, in un angolo completamente nascosto dalla vegetazione. Non appena i suoni assumono una dimensione lievemente più chiara mostrandosi somiglianti a rantoli confusi, penso semplicemente ad un animale sofferente ed afferro la bacchetta, pronta sia a curare la bestiolina, che a difendermi da un probabile attacco.

Quando però scosto con attenzione un ulteriore ramo basso di pino marittimo ed aggiro un altro paio di alberi, la vista che mi compare davanti agli occhi mi agghiaccia il sangue nelle vene, costringendomi a fare qualche passo indietro, come se ne avessi avuto un contraccolpo sordo al centro esatto del petto.

Di fronte a me, con un ginocchio poggiato sul fogliame secco ai piedi di un grande albero, non c’è alcuna bestia ferita.

C’è Ilai.

Ha il volto emaciato, scavato: la pelle del viso è terrea, bianca, ma segnata da profonde macchie violacee che somigliano terribilmente a lividi ed ematomi non riassorbiti. Inspiegabilmente sembra persino dimagrito ed anche meno alto del consueto, mentre è così piegato al suolo. Non sembra assolutamente il ragazzo che ho baciato ventiquattro ore fa e che mi ha cullato nel sonno: non ha più nulla di quella placida e serafica sicurezza, ma un’espressione addolorata e completamente devastata dalla sofferenza fisica. Non si è ancora accorto di me, quindi ho tutto il tempo di rendermi conto di che cosa sta accadendo. I versi che ho sentito… era lui. Chino al suolo, tossisce ancora un paio di volte, il torace completamente sconquassato dai sussulti.

La mano che si tiene premuta sulle labbra si bagna di sangue che gronda copioso dalla sua bocca, allargando sempre di più una già ampia chiazza sul terreno, di cui non mi ero ancora accorta.

È lì che comprendo la gravità della situazione e che, senza ulteriori indugi, corro verso di lui, chinandomi in ginocchio alla sua altezza e prendendo il suo viso tra le mani così da poterlo guardare in faccia.

“Ilai! O mio Dio!” gemo in preda all’ansia e all’angoscia, mentre lui mi guarda con le pupille dilatate per il terrore. Trattiene ancora la mano insanguinata sulla bocca e sembra reprimere a fatica un ulteriore accenno di tosse che minaccia di esplodergli in petto. Poi, accorgendosi della mia attenzione per la mano sporca del suo sangue, sembra cercare di fare un cenno noncurante e disinteressato che voglia rassicurarmi, ma nessuna sillaba lascia le sue labbra come se fosse anche in debito di ossigeno.

“Ilai… che ti succede?” chiedo ancora disperata, i pollici che cercano di cancellare il sudore freddo che gli impregna la pelle fredda del viso, poi con fermezza lo costringo a spostarsi verso un albero vicino così che possa appoggiare la schiena contro il tronco. Lui asseconda i miei movimenti con lentezza come se fosse esausto, e continua a premere la mano sulla bocca.

Il sangue continua a gocciare tra le dita, mandandomi nel panico. 

“Vieni qui, siediti, riposa… hai bisogno di acqua? Vado a prendertela…” dico stupidamente, completamente disorientata, non capendo nulla di quello che sta succedendo e non riuscendo nemmeno a capire l’origine dell’emorragia. Mi guardo attorno cercando aiuto, portando alla memoria nozioni di primo soccorso che si affannano l’una sull’altra senza alcun senso. Siamo troppo lontani dalla casa, devo tornare indietro da sola… e se lui intanto… proteggilo, Hermione, per favore proteggilo… come faccio… io… Tatia… glielo ho promesso… deve… vivere, come faccio?

Il mio cervello va completamente in corto circuito e la sola cosa che continuo a pensare è a portargli quella maledetta acqua, che non so che diamine di utilità potrebbe davvero avere con una cosa del genere. Faccio quindi per alzarmi in piedi per correre verso la casa, quando sento la mano di Ilai chiudersi sul mio polso fermandomi. I capelli mi sbattono in faccia, facendomi ricordare di averli di nuovo lunghi e restituendomi un po’ di chiarezza mentale, accucciando il panico in un angolo di me stessa. La pelle della sua mano… è ancora calda. È ancora la sua.

Lo guardo in viso, una calugine di lacrime che mi impedisce di metterlo bene a fuoco. La dirado sbattendo furiosamente le palpebre. Ha il viso lievemente più roseo, meno pallido. Il sangue… ha smesso di scorrere. La mano resta sporca, ma riesce finalmente a staccarla dalla bocca senza che nuovi conati possano scuoterlo dall’interno. Il petto però si alza e si solleva ancora troppo velocemente: lo vedo quindi poggiare sofferente la nuca contro il tronco dell’albero, dopo aver lasciato il mio polso ed avermi fatto cenno con la mano di restare dove sono. Portandomi i capelli indietro con entrambe le mani per fermare il tremore nelle dita, mi chino di nuovo e mi avvicino a gattoni nuovamente a lui, studiando il suo viso e le ombre che ne mangiano la salute. Ed è lì che, seguendo una traccia di sudore che scivola lungo la mascella morendo nel collo, noto qualcosa che di primo acchito non avevo notato. Senza rendermene conto, mi avvicino ancora a lui, approfittando del fatto che stia riprendendo fiato ad occhi chiusi con la testa ancora poggiata mollemente al tronco dell’albero. Non riuscendo ancora a capire di che si tratta, le dita che mi tremano convulsamente, sposto con delicatezza i lembi solo accostati della sua camicia aperta per i primi tre bottoni a lasciare scoperta un’ampia porzione del torace. Quel movimento fa trasalire Ilai che, d’improvviso, spalanca gli occhi e ferma le mie mani, stringendomi per i polsi.

Iniziando finalmente a comprendere di che cosa si tratta, la mia voce ingiunge minacciosa e colma di livore: “Cosa… sono? Fammi vedere…”.

Ilai nega con il capo ancora incapace di parlare: ha gli occhi più chiari di prima, eppure appaiono ancora spalancati, terrorizzati. E comprendo subito che non è il dolore a tenerli sbarrati e dilatati su di me… come anche poco prima, quando mi ha vista arrivare. Non era la sofferenza, no.

Non voleva che me ne accorgessi. Non voleva che lo sapessi.

“Fammele vedere subito!” urlo allora sull’orlo delle lacrime, stringendo i pugni e digrignando furiosa i denti.

Ilai trasale, si stringe nelle spalle, ha un sussulto nelle mani che ancora stringono i miei polsi. I suoi occhi assumono una piega carezzevole, tenera, come se ancora cercasse di calmarmi solo con lo sguardo, dato il mutismo che l’apnea del respiro ancora gli impone e i rantoli del dolore ancora non del tutto scomparso. Restiamo per qualche secondo immobili, io in ginocchio di fronte a lui, le dita ancora artigliate al colletto della sua camicia, mentre lui mi tiene ancora per i polsi, il respiro affannoso e spezzato. Il sangue vischioso sulla sua mano sporca la mia pelle, lo sento scivolare caldo lungo il braccio.  E’ ancora caldo, tremendamente caldo.

Sospiro a lungo, gli occhi fissi nei suoi.

Alla fine, la tensione delle sue mani si allenta appena, accompagnata da un lungo e trattenuto respiro che rilascia tutt’assieme con evidente e malcelata rassegnazione. Finalmente libera di muovermi, sebbene le sue mani siano ancora saldamente ancorate sui miei polsi, riapro con attenzione e delicatezza la sua camicia, deglutendo a disagio per la contemporanea intimità di quel gesto che si mescola con lo sgomento neonato per le sue condizioni.

Il cuore mi sprofonda in petto, mentre annega in un’incandescente lava melmosa di pena che sembra subito trovare corrispondente nell’immagine che vedo di Ilai. La pelle, che dovrebbe proteggere quel cuore di cui ho sentito mio il battito troppe volte, è mangiata da lunghi e profondi segni di bruciature da cui fuoriesce l’odore acre e nauseabondo della carne in suppurazione. Le striature rossastre e lucide attorno alle ferite rimarcano come l’infezione si stia diffondendo ai tessuti circostanti, contaminando il sangue. La porzione di tessuto necrotico è estesa, ampia, uniforme… parte dall’incavo del cuore e si irradia tutt’attorno nello spazio occupato dai polmoni.

Il respiro mi si affanna subito, diventando veloce, irato, incomparabilmente nervoso e furibondo. Sento lo sguardo di Ilai addosso, sento le sue mani sui miei polsi allentare la loro stretta e renderla molto più dolce e gentile, eppure nella mia testa sento solo le parole di Helder e la sua spiegazione di come avrebbero utilizzato Ilai nel loro piano contro Dimitri e Raissa, inscenandone una presunta morte.

Sarà possibile modulare la gamma delle tue emozioni, fino ad indurti stati di sofferenza, di dolore, di disperazione, di angoscia, in proporzione tale… da mandarti in arresto cardiaco. Attraverso i tuoi occhi, vedremo quando i Karkaroff saranno vicini a te o ausculteranno il tuo cuore… ed allora ti indurremo l’arresto cardiaco. Almeno fino a quando Hermione e Draco avranno invocato la Solutio damnationis… dopo… ripristineremo il tuo battito normale ed il naturale corso delle tue sensazioni. Il tuo cuore potrebbe non farcela comunque… potrebbe non resistere a questo sovraccarico di emozioni, come non potrebbe resistere a questi ritmi forsennati. Ti alleneremo, certo, a sopportarlo, ma dipende dalla forza del tuo organismo… e tu… potresti morire sul serio, Ilai…

“E’ quella cosa che ti ha imposto Helder, non è così?” esplodo alla fine furibonda, collegando tutti i pezzi e rendendomi maledettamente conto di come, presa dal mio sciocco egoismo, ho concesso che iniziassero ad allenarlo per questo mascherato suicidio. Mi stacco da lui alzandomi in piedi, non riuscendo più neanche a guardarlo, la colpa e il dolore che minacciano di detonare dall’interno riducendomi a brandelli.

Come ho potuto… come dannazione ho potuto lasciarlo da solo? Come ho potuto permettere che accadesse… e a lui, poi?

Vado avanti ed indietro come una fiera in gabbia, prendendo a calci in modo isterico sassi e foglie, prima di biascicare a denti stretti: “Ti sta riducendo in queste condizioni, vero? Ma sì, tanto in fondo avevano bisogno di te morto… e ben presto ti uccideranno sul serio, no?”.

“Non è niente…” la voce di Ilai mi sorprende, facendomi trasalire ed inchiodare sul posto come se fossi stata fulminata. È la sua solita voce, calda, dolce, tenera… un po’ più flebile del solito, meno salda. Ma è sempre la stessa… respingo l’ondata di automatico sollievo che provo nel risentirla, nonché quella spinta assolutamente inconscia ed ineluttabile che come sempre mi spinge a sentirmi più calma e serena.  

“Sembra più grave di quello che è…” aggiunge Ilai con tono casuale, cercando di sollevarsi in piedi e rinunciandoci per un nuovo tremito del torace che cerca di non farmi notare inutilmente.

La vista di lui debole ed affaticato rintuzza la mia furia, spingendomi ad urlare ancora, i pugni chiusi: “Sei un medico! Sei un dannatissimo medico! Credi che non lo sappia che potresti evitarti di soffrire se volessi?! Credi che non lo sappia?! Non puoi fare nulla! E’ questa la realtà!”. Ogni tratto di sofferenza sul suo viso, ogni residuo di sangue sulle sue labbra, invece che indurmi ad una sana e pietosa compassione, mi infiamma di rabbia come benzina sul fuoco: è più forte di me, non riesco a farne a meno. L’impotenza determinata dalle sue condizioni e dal fatto di non essermi accorta prima di come stava, si traducono in una morsa insopportabile alla bocca dello stomaco, che, in mancanza di sfogo, usa lui come incomprensibile bersaglio.

Ilai si solleva in piedi e, noncurante e distratto, aggiunge in tono calcolato: “Certo che posso fare qualcosa. Solo… non per conto mio…”. Di fronte al mio silenzio stizzito, si affretta ad una sommaria spiegazione dopo un nuovo e rantolato sospiro: “La mia borsa… quella di cuoio nero. C’è una bottiglietta di colore verde smeraldo. Falla riscaldare un po’… e versaci tre cucchiaini di cardamomo, sette di tarassaco ed uno di arnica. E portamela qui con delle bende.”.

Senza indugi e neanche un’ulteriore parola, mi affretto a tornare indietro verso la casa, alla ricerca della sua borsa. Ovviamente ho riconosciuto immediatamente gli ingredienti che mi ha detto di prendere, nonché la pozione che dovrei preparare: una blanda pozione rinfrescante e purificante contro le scottature. Le mani mi tremano dal nervoso, mentre preparo il medicamento cercando di non sbagliare. La casa è ancora avvolta nel silenzio, ma quando sento un tramestio di passi dal piano superiore immediatamente gelo sul posto, terrorizzata che sia Draco. So che non sto facendo nulla di male, so anche che naturalmente Ilai è in queste condizioni perché sta cercando di aiutare noi due a salvare Alex. E quindi Draco dovrebbe mostrarsi solo che riconoscente e preoccupato, esattamente come me. Dubito però che, nonostante la ritrovata tregua che ci siamo imposti, vivrebbe la cosa così. Del resto, la succitata tregua ha senso anche e soprattutto perché abbiamo evitato di chiarire davvero ciò che potrebbe renderci nemici.

Ed uno dei primi punti sarebbe stato proprio quello che provo per Ilai.

Mentre mescolo distrattamente la pozione azzurrina che sobbolle in un contenitore di rame, mi lascio andare di nuovo ad un profondo sospiro.

Avessi più tempo, avessi più vita davanti, sarei dovuta giungere ad una conclusione su quello che sento per Ilai: mettere un punto, aprire porte, concedermi possibilità, negarle in tronco.

Tutte cose che allo stesso identico modo mi atterriscono.

Invece, la codardia che la morte vicina mi impone, mi spinge a liquidare questi pensieri come assolutamente sgraditi e inutili. Non avrò alcun genere di futuro, è un puro esercizio di retorica immaginare con chi avrei preferito viverlo quel futuro.

La sola cosa che sento adesso di dover fare è lasciare libero Ilai: consentire che, dopo l’inferno che gli ho riversato addosso, lui sia in grado senza remore e colpe di non addossarsi responsabilità per la mia morte, ma di accettarla in modo abbastanza sereno, andando avanti per la sua strada. Dovrei recidere il filo rosso che Tatia ha tessuto per noi e consegnarlo ad un destino pacifico ed innocente, dandogli la mia somma benedizione per un riscatto dal dolore in un luogo e tempo dove possa curare le sue già incancrenite ferite.

Purtroppo, e qui ancora la rabbia rischia di farmi bruciare le dita con la punta della bacchetta, Helder è stata di altro avviso, avviluppando nello stesso infame fato di morte non solo me e Draco, ma anche Ilai che in fondo è un innocente estraneo.

Come faccio quindi a morire serena, se so che anche lui sta rischiando la vita?

Come faccio se so con certezza che la previsione di Tatia, quella sulla sua morte se avesse affrontato da solo i Karkaroff, non sia vicina ad avverarsi?

Come posso ripagare tutta la sua dolcezza, sicurezza, comprensione, facendogli rischiare la vita? Ed allora, più o meno inconsciamente, torno a pensare che magari una risposta onesta sui miei sentimenti sarebbe il minimo che dovrei tributargli, visto quello che sta passando. E lì i miei pensieri ancora di più si incartano, spingendomi ad ulteriore nervosismo verso Helder.

Come in trance, affollata dai ragionamenti, termino di preparare la pozione, prendo l’occorrente per una medicazione dalla borsa di Ilai e torno a passi spediti nel giardino, fino al punto dove è nascosto. Il sole non è ancora sorto, manca poco ormai, l’orizzonte è bianco e grigio di luce occulta. Ilai sembra stare un pochino meglio. Ha il volto più disteso e in mia assenza sembra essersi pulito del sangue sul viso e sulla mano. Anche il respiro ansante sembra essere scomparso. Accoglie il mio arrivo con un sorriso sereno ma fioco, a cui non rispondo, infuriata come sono. Mi inginocchio rapida accanto a lui, trasfigurando una foglia affinché diventi una ciotola di legno scuro in cui riverso il medicamento. A testa bassa, senza aggiungere altre parole, intingo la garza nel liquido azzurro e mi avvicino a lui, senza guardarlo. Con una vampata di imbarazzo, mi rendo conto che, per curarlo a dovere, dovrei perlomeno sbottonare il resto della camicia.

Con il viso che mi va in fiamme, capisco con vergogna che non sono affatto pronta e preparata ad una cosa del genere. Medito se sia possibile medicarlo anche senza sfilargli l’indumento, ma la porzione di pelle visibile non è nemmeno lontanamente quella più ferita ed escoriata. Maledicendo ancora Helder e rimproverandomi silenziosamente per la mia stupida timidezza che non ha alcun motivo di venire fuori proprio adesso, resto immobile con la garza in mano che goccia antipatica sulla mia gamba.

Quando ormai sono quasi pronta a battere in ritirata per l’imbarazzo e per la stupidità, sento un verso di gola proveniente da Ilai.

È curiosamente simile ad una risata arrochita.

Inspiegabilmente un’ondata di calore mi avvolge da capo a piedi, restituendomi calma e serenità e portandomi persino una piega ilare sulle labbra. Scuoto il capo come a scacciare fuori i pensieri e mi riaccosto a lui mordendomi il labbro inferiore, mentre cerco contemporaneamente di non guardarlo in faccia e di simulare nella mia goffa operazione di soccorso le movenze professionali che ho spesso visto in Ginny. Faccio quindi scivolare i bottoni rimasti fuori dalle asole, cercando di apparire disinvolta alla vista del suo torace, poi con lentezza esasperata dall’impaccio apro un po’ la camicia. Un tocco gentile ma deciso da parte di Ilai sulla pelle interna del mio polso, mi informa con sollievo che basta così. Con ritrovata padronanza di me stessa, inizio con delicatezza e paura di fargli del male a passare la garza imbevuta sulla pelle ferita. Ilai si lascia andare prima ad un verso quieto di fastidio e poi ad un singulto di sollievo quando la pozione inizia a fare effetto. Respiro di sollievo, l’odore di lui torna prepotente nelle mie narici, sostituendo quello fastidioso e dolciastro della carne in putrefazione. Per qualche minuto compio le mie operazioni in silenzio, beandomi del ritrovato ritmo normale della respirazione, nonché dell’aspetto delle escoriazioni che migliora notevolmente. Attorno a noi gli animali notturni si ritirano nelle loro tane e quelli diurni ancora riposano beati nelle cadenze regolate dalla natura: è un attimo di perfetto silenzio al profumo di resina e legno di pino, che mi lascia dentro la sensazione di essere rimasta sola al mondo assieme a lui senza più nessuno attorno.

Persino i pensieri sembrano essersi volatizzati, annullati nel movimento meccanico di bagnare la garza, strizzarla un po’ e passarla sulle ferite aperte.

“Grazie” sussurra Ilai quieto dopo qualche secondo. La mia mano si ferma, restando poggiata sul suo petto.

“Potevi farlo benissimo da solo. Mi stai prendendo in giro…” mormoro spazientita, comparando in modo sommario la salute della pelle della mia mano e lo stato raggrinzito e malato della sua “Serve solo a curare i sintomi delle bruciature e a mitigare il loro aspetto. Non la causa…”, mi stacco con un moto sdegnato e chioso drastica: “Adesso mi chiederai di portarti della camomilla così da calmare la tosse? O un bel bicchiere di latte e miele?”.

Ilai si abbandona di nuovo a quella risata roca e infinitamente triste che ha l’effetto di far evaporare ogni mio accenno di rabbia, svuotandomi e rendendomi solo inerme e frastornata. Ancora, nonostante tutto, non riesco minimamente a pensare di sollevare il viso, neanche quando sussurra con voce dolce: “Sarei stata un bravo medico”.

“Non cambiare discorso…” mastico amara, spiandolo dal basso a palpebre semichiuse “Mi basta uno che faccia così nella mia vita”.

L’allusione a Draco mi esce fuori dalle labbra prima ancora che me ne renda conto, prima che comprenda con chi sto parlando, prima che non mi scoppietti nel cervello ed attorno a noi con la forza insolente e prepotente di un petardo acceso. La garza mi scivola dalle mani, cadendo con un tonfo soffuso sul pavimento di foglie.

“Ti basta uno nella tua vita… in assoluto…”.

La sua voce non ha niente di rancoroso o di recriminatorio. Sarebbe stato meglio se mi stesse accusando di qualcosa. Decisamente meglio. È invece asciutta, amara, velata di malinconia, ma senza alcun tono di autocommiserazione. È semplicemente vera, reale ed onesta, come sempre è stata, come se semplicemente mi stesse spiegando con logica razionale che il sole è caldo e il ghiaccio è freddo. Eppure ha l’effetto devastante di un calcio ben calibrato agli stinchi, pronto a mozzarmi il fiato e a mangiarmi il respiro.

Guardami in faccia, per favore. Almeno questo.

Sento quella preghiera nella mia testa, pronunciata con un tono al contempo stentoreo e funereo seppur delicato e lieve, al punto che neanche sembrano i miei di pensieri. Sollevo piano lo sguardo, le spalle contratte e strette, spiando con colpa il suo viso che trovo inaspettatamente rivolto al mio. I colori dei suoi occhi sembrano improvvisamente diversi, più caldi e luminosi. Ha la pelle fragrante di miele ed ambra, scintille di caramello negli occhi, fiorisce di sanità il respiro calmo e rilassato. Persino le ferite sembrano meno spaventose, comprese le ecchimosi sparse che aveva sul volto. Sembra esattamente lo stesso di sempre, nessuna traccia di sofferenza e dolore.

Inaspettatamente, però, anche ciò che ci circonda sembra cambiare, come se si adeguasse a lui. L’aria stagnante e sospesa del primo mattino è sostituita dalla luce dorata e profumata di un pomeriggio d’estate che fa tralucere le foglie come se fossero trasparenti. Ogni ombra si accuccia quieta e gentile, risorgono fremiti di farfalle e crepitii gentili di usignoli, il vento alita fresco di muschio ed erba.

Penso solo che sia l’alba ormai imminente, vengo presa dall’ansia di parlare, di spiegarmi, di non lasciarlo andare così.

“Non devi fare questo per me…” biascico con voce rotta, le lacrime affacciate negli occhi, afferrando un lembo del colletto della sua camicia “Per Alex. Non è giusto che tu soffra così. Non puoi rischiare la vita per me, non te lo permetto…”, respiro senza fiato con titubanza, sputando fuori: “…in fondo…”.

“In fondo con questa storia io non c’entro nulla?” completa lui prontamente, ancora senza alcuna traccia di rabbia o livore, ma con quella mansueta consapevolezza che mi fa ancora più male “Io non sono… nessuno, giusto?”.

Le mie mani sussultano, rabbrividiscono, stringendosi a lui, prima che erompa scandalizzata, come se lo avessi sentito bestemmiare: “Che cosa?! Ti ho mai fatto credere una cosa del genere? Ti ho fatto mai pensare che tu non sia niente per me?”.

Ilai non replica nulla, resta immobile ed in silenzio come se le mie parole non avessero neanche raggiunto le sue orecchie, ma fossero invece scivolate lontane come acqua da una cascata. La mascella è stretta e contratta, ma ancora inaspettatamente nei suoi occhi non c’è traccia di rabbia, livore e tantomeno di quella sana pena che mi spingerebbe a reagire stizzita e nervosa. È fiero come il sovrano legittimo che viene trascinato in catene al patibolo, ma non abbassa lo sguardo per guardare negli occhi il suo boia. Non tinge neanche un’eco delle sue parole di un velato rimprovero o piuttosto di una qualsiasi sfumatura di accusa: si limita a constatare i fatti e basta, apparentemente senza alcun trasporto emotivo. Con perizia chirurgica, disseziona i miei sentimenti, sentenziando poi, clinicamente consapevole, l’impossibilità che io guarisca dal mio cancro terminale.

Non sono abituata a tutto questo, non ci sono abituata. Sono drammaticamente abituata ai segni esteriori che Draco mi dà, alle sue espressioni apparentemente fredde, ma celanti i suoi intimi pensieri che si rivelano, d’improvviso limpidi, in un cenno del capo, in un’alzata di sopracciglia, in una parola sfuggita.

Sono anche abituata alla chiarezza rancorosa di Ron, come ero abituata alla superficiale profondità di Dean.

Ilai non è così, è completamente diverso. È geloso di sé stesso, specie della sofferenza, del dolore, della rabbia… delle sensazioni negative, insomma. È sempre teso a dare un’immagine di sé di distensione e trasparenza. Ed è sicuro, inflessibilmente sicuro di sé e di ciò che lo circonda, mentre collega particolari e dettagli ed arriva alle conclusioni con uno spirito d’osservazione acuto ed affilato. E vive della teoria che ha interiorizzato.

Un po’… come… me.

Mi chiedo improvvisamente se sia venuto a cercarmi, se abbia intuito che ero con Draco, se pensa che le cose adesso con il padre di mio figlio siano a posto, se è convinto che ci siamo riappacificati.

E mi rendo conto che al momento non saprei che dire se mi facesse una domanda diretta sullo stato in cui siamo. E’ facilissimo per me e Draco capire dove siamo: abbiamo un passato di gradazioni di grigio nel definire noi stessi che ci aiuta a non dover e voler trovare definizioni.

Ma Ilai è bianco o nero.

Per i suoi gusti, ha vissuto fin troppo nell’aura dell’irrisolto, dell’atteso, dell’inspiegabile.

Se l’ha accettato fino ad ora, è stato solo per me.

Ma ora basta. Neanche io valgo questo sacrificio di quello in cui crede.

Mi andrebbe bene anche così se non fosse per questa maledetta spina dentro che mi impedisce di lasciarlo andare con una incantata bugia, piuttosto che con la verità.

Fargli credere che tra me e Draco è tutto risolto, che lui non ha mai contato troppo per me… sarebbe una bugia. Ma lo libererebbe, lo salverebbe, gli permetterebbe di farsi una rapida ragione della mia morte. La verità, invece, lo legherebbe ancora.

Ma poi… in fondo… io la conosco questa verità?

Sono davvero in grado di dirgli che cosa è per me?

Sono davvero disposta a lasciar andare parole che non torneranno più indietro da me, innocue ed inoffensive?

Mi stringo nelle spalle a disagio, incapace di fare o dire qualsiasi cosa per la prima volta nella mia vita: con Draco so sempre che fare e che dire. Al massimo, non voglio dirlo o farlo.

Ora, invece, ogni gesto ed ogni parola sono armi a doppio taglio.

Ilai guarda superficialmente le mie dita sul colletto della sua camicia ancora artigliate neglettamente, come se si reggessero a stento. Le stringe di scatto tra le sue con un movimento veloce e rapido, senza neanche tornare ai miei occhi. Non faccio neanche in tempo a rendermi conto di che cosa sta accadendo o a percepire quell’ombra piacevole di calore delle sue mani, che lui le lascia andare, facendomi immediatamente intuire che voleva solo che mi staccassi dal suo petto. In silenzio, con calma, mentre lo osservo di sbieco ad occhi sgranati, lo vedo alzarsi in piedi con decisione, chiudersi la camicia e fare qualche passo come se stesse tornando indietro verso la casa.

Ancora seduta sul fogliame sparso e secco, mi volto di scatto su me stessa seguendo la sua schiena che inizia piano ad allontanarsi. Un raggio improvviso e subdolo di sole mi ferisce gli occhi, costringendomi a socchiudere le palpebre.

Sole. Alba. Tra poco è finita.

“Aspetta…” mi sollevo in piedi in modo così brusco da avere un capogiro. La sua schiena che si ferma mentre mi ascolta, calma un po’ di quell’insopportabile panico ansioso nello stomaco.

“Aspetta…” ripeto senza fiato, una traccia di lacrime inesplose nella voce flebile.

Che cosa dovrebbe aspettare, adesso? Scuse, promesse, rassicurazioni, addii?

Lascialo andare Hermione, basta. Smettila una dannata volta.

… sarà sempre Draco no? Sarà sempre lui, vero? È così che l’hai sempre pensata e sempre la penserai. Ed allora lascialo andare. Smettila.

Contraggo le spalle con ritrosia mentre quell’esortazione interiore si perde nel fondo di me stessa, baluginando debole ed inascoltata nell’incoerenza maciullata che è diventato adesso il mio cuore.

Ilai si lascia andare ad una risata priva di allegria che ha l’effetto di rompere l’incantesimo quieto a cui si era sottoposto. Si volta verso di me, incredulo, sorpreso, più vivo di quanto l’abbia mai visto. Serra ancora la mascella, si scompiglia i capelli con risentimento come se esitasse solo per dignità sepolta a strapparseli dal capo. Respiro di nuovo sollevata, forse perché mi merito che lui sia arrabbiato con me, o perché con il livore riesco ad averci meglio a che fare.

O semplicemente, ho bisogno di sentire quello che prova per me, qualsiasi cosa sia.

Ilai ancora ridacchia, allarga le braccia in un gesto di contemporanea resa ed afflizione, poi le fa ricadere mollemente lungo i fianchi, sfibrato e stanco. Mi guarda dal basso delle ciglia nerissime, prima di sussurrare con voce dura: “Perché? Perché non è abbastanza sentire il suo odore addosso a te? Non è abbastanza vedere che è già cambiata la tua voce, o come mi guardi, o come mi sfiori? O devo sorbirmi anche la pietà, la colpa, la pena? Risparmiamelo. Almeno questo, per favore… risparmiamelo…”.

Un brivido si arrampica gelido sulla mia schiena, non ha mai usato questo tono di voce con me. Credo anzi che non l’abbia mai usato con nessuno neanche una volta nella sua vita. Neanche con Draco, seppure era percettibile dalla contrazione dei muscoli delle spalle quanto in realtà avesse voluto essere molto meno che pacato ed educato. Con me a maggior ragione è sempre stato dolce, calmo, gentile. In un modo che mi ha fatto abituare alla sua voce, così da ripetermela nella testa come una ninnananna quando avessi timore o ansia. Ora, questa voce nuova, ferrea ed arcigna, non la riconosco. Neanche le parole che mi ha detto, le ho davvero sentite. È bastato il tono per farmi rabbrividire, mentre mi chiudo la mano sul petto, stringendo la camicia rossa.

Io davvero traggo fuori il peggio dagli uomini.

Cosa speravo? Cosa pensavo in fondo? La morte vicina può rendermi vigliacca ed egoista, può avvicinarmi Draco, può farmi perdonare da Ron: ma non può darmi tutto. Certo non può darmi lui, qualsiasi maledetta cosa io davvero voglia da lui.

Questo qualcosa che non permetterò a me stessa di conoscere compiutamente. E tantomeno a lui.

Una parte di me neanche tanto piccola è rincuorata dalla sua rabbia: sarà molto più facile e semplice accettare la mia morte se mi odia.

Respiro a fondo, cercando di tornare lucida. Come poco prima con Draco, mi impongo di dire tutto ciò che so che potrebbe tenerlo lontano. Così da salvarlo da me stessa. Così da liberarlo.

Nascondo nel fondo di me stessa la forza, la decisione, l’orgoglio, la determinazione. Fingo un’insopportabile tremore della voce, una debolezza volubile, l’acuto singulto di una donna capricciosa che non sa neanche lei che cosa vuole dalla vita.

Forse in fondo è davvero così… o forse ho paura davvero ad ammettere con me stessa che cosa voglio.

Non importa quale sia la risposta.

Devo solo lasciarlo andare.

Faccio tremare il mio labbro inferiore con uno studiato broncio da bambina, mentre pigolo fastidiosa persino alle mie orecchie: “Non è cambiato niente tra me e te. Niente…”, lascio che un singhiozzo calcolatamente falso ed eccessivamente patetico interrompa le mie parole. Mi asciugo le lacrime e mi giustifico sommariamente: “Le cose… sono sempre state chiare, dall’inizio. Non è mutato di una virgola quello che sentivo per lui… e quello che sento per te…”.

Ilai scrolla il capo con un sorriso diverso da quello che gli ho sempre visto addosso.

Il suo sorriso consueto è malinconico, un po’ triste, spruzzato sempre di un po’ di amarezza mai del tutto ripudiata. Adesso invece indossa un sorriso storto che non arriva agli occhi, più simile ad un ghigno ferino. Un sorriso che mi fa rabbrividire e chiudere nelle spalle come se fossi al centro esatto dell’inferno. Respira a fondo con espressione saputa, scuotendo il capo come se non credesse alle sue orecchie, come se avessi profuso e difeso la più menzognera delle eresie.

Come se avesse capito che cosa sto facendo.

Sgrano gli occhi, non può essere che l’abbia capito, e resto improvvisamente a secco di parole, terrorizzata e spaventata. Non posso tenerlo lontano nell’unico modo che conosco: le bugie, a celare la verità. E la verità è scomoda, sgusciante, viscida.

Non posso permettermi di capire sul serio che cosa provo per te.

Mi basta Draco. Mi basta lui. Mi basta il dolore che mi provoca lui.

Mi deve bastare lui.

Basterà ad uccidermi che debba perdere lui.

Non farmi pensare ad altro, adesso.

Ti prego.

Mi abbraccio goffamente, sfregando le mani sulle braccia, ancora un intollerabile freddo nelle ossa.

Ilai solleva il capo, chiude gli occhi e poi li riapre, spiando dei ritagli di cielo tra le chiome degli alberi. Ha la voce incerta, farinosa, soffocata, quando riprende a parlare non guardandomi neanche per sbaglio: “Tatia diceva che ogni uomo ha cinque destini. Quello del cervello: la mente, la ragione, il calcolo. Quello del cuore: l’affetto, l’onore, l’amore. Quello delle ossa: gli avi, la tradizione, i doveri. Quello del fegato: l’istinto, l’intuizione, la premonizione. Quello del sangue: il caso, l’occasione, l’opportunità…”, prende fiato, sorride come se inseguisse un ricordo lontano, tira su con il naso.

Poi, d’improvviso, i suoi occhi lasciano il cielo, sfuggono i miei, si incatenano al tappeto di foglie secche che calpesta con ferocia, spostando il piede avanti ed indietro come in preda ad un tic nervoso. Sibila irrequieto, la voce che a malapena mi raggiunge le orecchie per quanto è rancorosa e fioca: “Lei mi ha detto di ricordare la cannella bruciata… cucinava una torta di mele, stava aggiungendo la cannella alla crema pasticcera, mi dava le spalle ed era china sul fornello della cucina. Aveva una schiena ampia, abbronzata. Seguivo le linee che univano nei ed efelidi, con la voglia di baciarle una ad una. Mi ero incantato ad osservare quella piccola donna bambina che era mia moglie: i suoi piedi nudi, la schiena scoperta, i capelli castani lisci, la pelle olivastra. Poi un odore strano: la cannella che bruciava. Mi avvicino a lei. Aveva gli occhi vacui, persi, lontani. L’ho scossa per le spalle, le ho allontanato la mano dal fuoco, l’ho fatta sedere. Mi ha guardato come se non mi vedesse, piangeva. Ogni uomo ha cinque destini. Non si sa se li incontrerà tutti. Le persone tranquille ne vivono e scelgono uno. Quelle felici ne trovano uno che ne comprende cinque. Tu ne avrai tre. Sangue, cuore, fegato. Io sono stata il sangue. Ci sono altre due vite, fuori di me, dopo di me, al di là di me. Questo mi disse. Poi chiuse gli occhi, finse di tornare alla normalità, come se non ricordasse la visione. Ma la sua schiena tremava, i piedi tremavano, la pelle tremava tutta. La baciai, facemmo l’amore sul tavolo sporco di farina. Non mi importava del destino, era lei il cuore. Lo era sempre stato…”.

Lo osservo senza capire, stringendomi ancora, gli occhi sbarrati. I suoi finalmente tornano al mio viso, stringe i pugni, ha la pelle del volto chiazzata e plumbea come se si stesse trattenendo dal colpirmi. Stento a riconoscerlo, mi sembra di trovarmi di fronte ad una persona completamente nuova. E di cui non so assolutamente che cosa aspettarmi e che cosa temere.

Un brivido freddo mi trapassa da parte a parte, facendomi rendere conto che sono io che l’ho ridotto così. Continuo a guardarlo, il cuore che mi fa inaspettatamente così male da darmi l’impressione che si sia spezzato a metà. Ed ero davvero certa e sicura che ormai quello che c’era da soffrire, io l’avessi già alle spalle. Invece non si smette mai.

Non smetto mai di fare male a chi… a chi tengo, a chi voglio bene, a chi amo?

Sussulto serrando gli occhi a contenere quella spinta di domande affollate nella testa, mentre Ilai fa qualche passo incerto verso di me, i pugni sempre chiusi, l’espressione di un gargoyle di pietra. Nemmeno riesco a ritrarmi, a farmi indietro, a sottrarmi al suo viso stravolto e al suo sguardo feroce. Resto saldamente incollata al suolo, come se improvvisamente fossi ansiosa che mi uccida meritatamente lui, e non Adamar. La sua voce è ormai modulata su uno sbigottimento incancrenito, su una disperazione malvagia che mi colpisce come un’onda lunga, frantumandomi come se fossi di sabbia e sale. Azzarda persino una risata amara, mentre sputa fuori cercando risposte nei miei occhi: “E poi Tatia mi lascia e scrive una lettera a te… muore, e scrive una lettera a te. A te che non eri nessuno per me. Come io che adesso non sono nessuno per te. E dice: “Ricordati della cannella bruciata”. Ed allora… dimmelo… quale sei tu? Quale destino sei tu?”.

Me lo chiede sul serio ormai a pochi passi da me, sempre con i pugni serrati, l’espressione stralunata. Noto ancora un rivolo di sangue ferirgli le labbra, e mi sembra adesso inconcepibile che io quelle labbra so di che cosa sanno, ne so perfettamente il sospiro e il sapore, so anche come sarebbe stato desiderarle, so che non mi sono concessa davvero di volerle. Però, ora, quella dimensione sembra una fantasia di purgatorio in questa parentesi di limbo infernale. La sua rabbia, il suo livore, la sua determinazione a darmi colpe, dovrebbe solo che rendermi felice e contenta.

Invece la determinazione con cui mi sputa addosso questa domanda senza alcun retro pensiero ironico, senza remore, senza coscienza del futuro o memoria del passato, ma come se davvero mi chiedesse che cosa siamo l’uno per l’altra, mi inchioda come un Cristo in croce.

Balbetto il suo nome e basta, incapace anche solo di pensare ad una miserrima risposta che possa farlo fluire lontano da me.

L’ho già legato a me. È già legato a doppio filo a me. Morirò io… e morirà anche lui.

Indipendentemente se si salvi o meno, ammazzerò una parte di lui.

Io… sarò per lui quello che è stato Draco per me.

E sarà una condanna. Per sempre.

Se non si può stare assieme, diventa una condanna.

Non c’è nessuno che lo possa sapere meglio di me.

E io non sono riuscita a salvare almeno lui.

Un vento improvvisamente caldo mi soffia un riverbero di polvere sul viso, obbligandomi a sfregare gli occhi, mentre mi chiedo dove sia finita l’alba e il tempo stesso. Tutto resta congelato, niente si muove a strapparmi via da qui, così da impedirmi di versare queste lacrime confuse nella polvere del vento, mentre ancora fingo pateticamente che io non abbia nulla di cui dolermi adesso.

Ilai abbassa la voce, mi guarda di lato come se non sopportasse la vista dei miei occhi lucidi e sospira come ispirato: “O meglio… non sei un destino. Sei una maledizione. Una disgrazia. Questo sei. La colpa di aver fatto uccidere la donna che amavo che torna indietro a punirmi…”, sobbalzo e chiudo gli occhi, come se mi avesse pugnalata. Diventa sempre meno lucido mentre parla, cammina avanti ed indietro come un prigioniero prima della pena capitale. Ha la voce distratta di chi parla con i morti, di chi bestemmia i vivi, di chi è vittima di rimorsi perversi e crudeli: “…ma a quanto pare non era abbastanza, non era abbastanza perdere la donna che amavo per colpa di Karkaroff. No, non era abbastanza… magari semplicemente sono io che non sono mai abbastanza…”. Mi guarda d’improvviso con irrazionale chiarezza, un sorriso bieco sul viso: “Questo allora sei tu. Un maledetto incidente sulla strada della mia vita. Mi danno sempre qualcosa e me la tolgono…”. Non riesco più neanche a fingere di non stare piangendo, mi appoggio all’albero alle mie spalle, soffoco i singhiozzi nel palmo aperto della mano, mentre lui bestemmia il cielo, Tatia, me. Tutte e due assieme, nello stesso maledetto calderone di odio e dolore.

“Questo volevi dire, Tatia? Questo volevi dire? Che ho il destino di masticare cose mai mie?” urla con il fiato che si spezza, gli alberi testimoni silenti e il cielo una cappa argentata “Perché sei venuta da me in Finlandia, eh, Hermione? Perché non te ne sei stata a casa tua, nella tua bella vita, eh, a sognare quell’uomo che ti ammazza anche solo guardandoti, respirandoti vicino, eh? Perché non mi hai lasciato in pace? Perché non mi lasci in pace? Io sono quello che guarisce le ferite, che si accontenta delle briciole, che va anche bene così…”, la sua voce si abbassa di nuovo, diventa solo un rantolo scomposto ed incomprensibile: “Va anche bene morire domani, basta che torni viva e salva e sua… questo sono io… e tu sceglierai sempre lui, sempre lui, che ti spezza il cuore che io ti rimetto assieme. Questo è il destino, Tatia? Questo era il destino?”.

“Smettila! Sei ingiusto!” mi ritrovo a gridare senza averlo premeditato, senza che io mi sia resa conto di essermi staccata dall’albero e di essermi fermata davanti a lui.

Solo con l’anelito spavaldo della sopravvivenza, prima che finisca di farmi a pezzi.

“Nessuno ti ha mai trattenuto! Potevi… potevi andartene quando volevi!” farfuglio ancora, spiando i suoi occhi alla ricerca di un minuscolo segno di cedimento che mi farebbe affondare ancora di più con le mie parole nel suo fianco scoperto “Puoi andartene anche adesso! Fallo! Vattene! Ti prego, vai via!”.

Lui mi guarda con una nuova crudeltà che gli distorce il viso in tratti persino sadicamente divertiti. Rabbrividisco, percependolo più vicino di quanto mi aspettassi: persino quel metro che mi separa da lui mi sembra d’improvviso troppo poco, come per paura che davvero mi faccia del male. 

“Avrei davvero avuto quest’alternativa?” sussurra con voce salda, una replica deforme di quello che mi disse settimane fa, quando volevo andare con lui in Finlandia.

L’ho davvero pensato? Ho davvero pensato di andare via con quest’uomo che non conosco affatto?

Questa nuova paura prosciuga tutta la fiducia incomparabilmente immediata che avevo per lui.

Ma, poi, all’improvviso, come il sole che torna dopo un’eclisse, come l’aria che d’un tratto si fa più tiepida e leggera, il suo viso dismette rabbia e disperazione e torna calmo, impassibile, freddo. Più simile a quello a cui sono abituata. Abbandona le braccia lungo i fianchi, mi guarda con il dolore dell’incomprensione che ha velato la sua espressione mentre mi sentiva chiedergli di andare via.

Non può farlo. Non può andare via. È condannato. Come… me.  

Torna sé stesso, come se il livore fosse fluito fuori dal suo corpo al pari del veleno succhiato via di una vipera. Si bagnano di una patina di lacrime i suoi occhi scuri, ringiovanendolo e rendendolo più simile ad un bambino.

Si arrende, si lascia andare… e mi fa più paura adesso di quanto non mi abbia fatto mentre urlava.

“Credi che ce l’abbia un’alternativa?” mormora al vento, sollevando un braccio come ad accarezzarmi il viso, ma fermandosi subito dopo scuotendo il capo.

Guardo la sua mano, e poi il suo viso, il cuore che mi soffoca in gola.

“Sei una stupida…” aggiunge lieve, ed è tenero, dolce, bellissimo. No, non esserlo, odiami, torna ad odiarmi, ti prego. “Sei tanto intelligente e bellissima, e tutto… ma sei una stupida…”, non guardarmi così, “Credi davvero che me ne sarei mai potuto andare via? In qualunque momento? Adesso? Domani? Mai?”.

“Perché, maledizione, perché?” chiedo ed urlo, grido, stringo i pugni, come a voler recuperare quel soffio nefasto di odio che lo animava fino a poco fa. E che era la miglior cosa possibile.

Lo era… perché io che fingo una debolezza che non ho e lui che finge di odiarmi, erano le sole bugie pietose che potevamo concederci, come carinerie dell’addio.

La verità farà molto più male delle bugie.

Perché è a quel punto che lui urla molto più forte di me, molto più forte di quanto abbia fatto prima, senza che i suoi occhi cambino, senza che si nasconda più, senza che metta ancora bugie a guardia armata del suo cuore. 

“Perché ti amo!”.

Non mi potrà mai odiare. Non se ne potrà mai andare.

Mi sembra che il mondo stesso abbia preso a tremare dal contraccolpo del suono delle sue parole, ed io, sciocca, piccola, inconsistente, posso solo tremare a mia volta, come una foglia nella tempesta, attaccata all’albero padre solo per un peduncolo fatuo di puntiglio. Respira a fatica come se fosse in apnea, come se quelle due parole fossero una corda attorno al collo che impicca e toglie vita. Il mondo, alla fine, è bianco e nero: non c’è più alcun confortante grigio, dietro al quale nascondersi.

Non c’è più niente.

Dischiudo le labbra mentre lui mi guarda spaventato, atterrito, implorandomi con lo sguardo. E vorrei davvero sapere che cosa dire, vorrei davvero che tutte le parole non si fossero prosciugate come un rigagnolo sporco, inaridendomi dentro, lasciandomi riarsa e secca come steppa. E poi, in una fulminea consapevolezza malata, comprendo che non mi sta implorando di dire qualcosa.

No. Mi sta implorando esattamente del contrario. Di non dire nulla. Di restare in silenzio. Di scappare lontana, fingendo che le sue parole non esistano. Fingi ancora. Fingi. Salvati.

È quello che mi fa in mille pezzi, come se davvero fossi in trappola e non ci fosse mai stata data né scelta, né possibilità. Qualsiasi cosa io faccia, qualsiasi cosa io dica o non dica… io lo dilanierò, ugualmente. Nello stesso identico modo. Ed allora scoppio in lacrime, singhiozzo e trovo contro la mia schiena l’albero familiare di poco fa, quello sotto il quale lo stavo curando e sotto il quale ero virtualmente al sicuro: potevo ancora andare via, prima che tutto mi esplodesse in faccia. Nascondo il viso nelle palme aperte e poi sento i suoi passi avvicinarsi, fermarsi di fronte a me, chiudermi stretta tra la corteccia e il suo corpo, come se solo così, solo stringendomi, possa far fermare il tempo e non farmi piombare la condanna di Adamar sulla testa.

Come se, come sempre da quando mi conosce, mi facesse scudo con tutto sé stesso a tutto quello che minaccia di farmi del male. Persino sé stesso.

Piango, singhiozzo, e non mi azzardo a muovermi, non voglio neanche respirare. Le mani mi chiudono il viso, lo nascondono pietose, mi impediscono di vedere il suo viso scolpito da quelle parole.

Ti amo. Lui mi ama.

Le sue braccia mi cingono alla vita, sprofondo con il viso nel suo petto ferito, ferita la pelle, ferito il sangue, ferito il cuore, e resto con le mani sul viso, pur di impedirmi di sentire il suo odore, pur di confonderlo nelle lacrime, pur di non smettere di respirarlo come la cosa sola esistente. Si piega su di me, il viso nell’incavo della mia spalla, e le sue lacrime scivolano lungo la pelle del mio collo, facendomi rabbrividire, costringendomi a non impormi minimamente di smettere di piangere, pur di non lasciarlo solo in tutto questo. Il suo peso su di me è così forte, come se d’un tratto non avesse più forza e si abbandonasse del tutto, che, non riuscendo più a reggerlo in piedi, scivolo con la schiena contro l’albero e ricado seduta sulle foglie secche.

Ilai mi tiene ancora stretta al suo petto, mi respira nei capelli, mi implora con voce spezzata: “E non ti azzardare a rispondere, a parlare, a dirmi niente, mi hai capito?”, nego con il capo, singhiozzo, mi sforzo di dirgli qualcosa ed ancora le lacrime confondono le parole, e lo squarcio dentro fa rovinare fuori quelle poche preimpostate ed asettiche che mi sono trovata per caso, tra quelle di convenzione e quelle di abitudine. 

Ilai mi stacca il viso da sé, mi guarda piangendo a sua volta, tenta goffamente di asciugarmi le lacrime con i pollici, con il dorso delle mani, con le labbra: “Mi hai capito, Hermione? Non ti azzardare a dirmi niente, non te lo permetto. Vattene con lui, amalo, mi hai capito, amalo… perché devi tornare, domani devi tornare. Ed allora dimentica, non ti ho mai detto niente, non ci pensare… devi tornare. Devi tornare. Dimentica, non è vero… non ti amo, mi hai capito? Io non ti amo… era una bugia…”.

Nega con il capo come un bambino piccolo, come se quelle parole se le potesse rimangiare sul serio, come se potessero sparire così come sono nate. È febbrile, disperato. Lascia la presa sul mio viso, e si stringe violentemente le mani nei capelli, strappandoseli dal capo. L’unica cosa che non riesce a smettere di fare, è muovere la testa a destra e a sinistra, negando, spergiurando, implorando che mi dimentichi che cosa ha detto e finga che non esista.

Mi spezza il cuore ancora più di quanto abbia già fatto, e lo immobilizzo, prendendogli il viso tra le mani, cancellando le sue lacrime con le dita come ha fatto con me. Lui si aggrappa ai miei polsi, mentre sussurro protettiva: “Ilai, smettila, per favore. Calmati, guardami…”.

Torna a guardarmi, mi accarezza gli zigomi, sfiora con le dita la pelle della nuca e i capelli, e tinge gli occhi di fallace decisione mentre mi fissa negli occhi, come a trapassarmi da parte a parte, come a cercare di convincermi sul serio: “Io non ti amo”. Gli sfioro il viso, piangendo, annuisco come se effettivamente fossi davvero certa di quello che sta dicendo, come se mi avesse definitivamente persuasa.

Gli bacio la fronte, gli accarezzo i capelli, non lascio che sfugga i miei occhi: “Shhh, tranquillo. Calmati”.

“Non ti amo” ripete ancora, la fronte contro la mia, gli occhi però disperatamente aperti, fissi nei miei come frecce alla ricerca di un bersaglio.

“Lo so. Neanche io” glielo garantisco, veloce, rapida, con decisione, con ferocia, con coraggio.

“Io non ti amo” sussurra di nuovo, stanco, sfibrato, gli occhi che non riescono a stare aperti sotto il peso delle lacrime, le dita sul mio viso che sussultano e tremano.

“Neanche io” bisbiglio gentile, gli occhi chiusi, le mani bagnate che lo accarezzano rassicurante, calma e paziente, mentre il mio respiro si confonde caldo con il suo.

Lo bacio prima ancora di capire che cosa sto facendo, lo bacio prima ancora che la voce della ragione mi ingiunga che è sbagliato, lo bacio prima ancora di capire che così farà ancora più male dopo.

Lo bacio con la stolta consapevolezza che sto morendo, e che tutto mi è concesso. Lo bacio con tutto l’amore che gli ho negato, e che non potrò mai dargli.

Lo bacio, come non ho potuto baciare Draco ore fa. Lo bacio, come non ho potuto salutare mio figlio prima di morire. Lo bacio, come tutti quei baci mai dati a Ron, a Dean, ad Hayden.

Sento che trasale sgomento nel sentire le mie labbra premere contro le sue. Sento persino che cerca di allontanarmi. Sento, poi, la quieta stasi eccezionalmente dolce di sentirsi baciato da me per la prima volta in assoluto, senza che sia stato lui a cominciare, dandomi alibi e scuse.

Sento che capisce che non mi posso fermare o allontanare, neanche con il pensiero, neanche per un momento.

E poi sento che si arrende, sento che non ce la fa, sento che dischiude le labbra e sento che finalmente lo assaporo intimamente, completamente, follemente. Sono rapida, folle, disperata, e lui mi risponde nello stesso identico modo in un bacio che non ha nulla di gentile, quieto o dolce, diversamente da come è stato fino ad ora tra me e lui.

Sempre soffi di amore gentile per paura che ci capitassimo nel cuore.

Ora invece è mangiarsi l’anima a vicenda, strapparsela di dosso prima che ce la strappi qualcun altro. Stringo le mie braccia attorno alle sue spalle, gli rovino addosso, accolgo le sue mani sulla mia schiena, mentre giocano con la pelle riarsa. E piango, e non smetto, e non mi faccio domande, e lo bacio e basta, e gli gravo con il mio peso addosso, prima che con bramosia, con desiderio, con foga, lui inverta le posizioni e mi rovesci sulle foglie secche che si frantumano al mio tocco. Lo sento con una parte remota della mia testa scendere sul mio collo, baciarmi la linea delle clavicole e poi, con decisione violenta e febbrile, strapparmi di dosso la camicia, mentre scende sul mio seno, respira sul mio petto, bacia la mia pelle.

E mi chiedo, spogliandolo a mia volta, perché me ne sia privata fino ad ora, perché non l’abbia preso prima di adesso… e non ricordo il motivo, faccio forza sulla mia memoria ma non ricordo il perché. Esco e rientro dentro a me stessa, come se perdessi coscienza a tratti, come se fossi nel buio di un mare lontano dove la luce di un faro fiorisce a fiotti fulminei nella tempesta. Mi sento nuda ed infreddolita tra le sue braccia, lo sento nudo ed infreddolito tra le mie, eppure è come se fosse tutto troppo luminoso per tenere gli occhi aperti, ed allora li chiudo, e lo sento entrare in me, e so che è lui, e so che lo sento, e so che è dentro di me fino ad un punto nascosto e celato della mia anima, ma nello stesso tempo è come se non ci fosse, è come se mi cingesse il mare, o la terra, o la sabbia, o l’Universo tutto, e io non esistessi più. Sotto le palpebre chiuse, nella trama di luce accecante, si intrecciano immagini e suoni. E mentre lo sento spingersi più a fondo dentro di me, quelle immagini assumono chiarezza, consistenza, lapidarietà di dogmi di fede. Si accompagnano alle sue parole, alla sua voce sofferta, all’eco delle sue spinte in me che quasi non percepisco più, quasi si spengono, quasi muoiono come ad assomigliare al dondolio di un’altalena o al ritmo di un’onda spumosa di mare.

È così che doveva andare, dice. E non capisco che sta dicendo, so solo che non riesco ad aprire gli occhi, so solo che c’è troppa luce, e lui ripete ancora “E’ così che doveva andare”. Ondeggio come se fossi immersa in oceano caldo, annegando in sprazzi di piacere e deserti di dolore. Ed improvvisamente, nel mio sguardo umido e fosco, quelle immagini che tenevo fuori mi filtrano nel cuore, tramortendomi, svegliandomi, facendomi annaspare.

Un paio di mani calde si poggiano sulle sue spalle, facendola voltare su sé stessa, prima di stringerla forte per la vita. Come se fosse un pezzo di vetro che continua ad andare in pezzi, cerca la ricomposizione dei suoi frammenti ed abbraccia Ilai davanti a lei, chiudendo le braccia attorno alle sue spalle. Singhiozza nella sua camicia, mentre lui le accarezza piano i capelli.

“Ti avevo promesso che ti avrei portato via…” bisbiglia delicatamente, non smettendo un secondo di abbracciarla “Ma sei tu che devi chiedermelo adesso… puoi andare via, adesso?”.

Serro gli occhi chiusi, lasciando sfuggire delle lacrime sospese, mentre rivivo quel ricordo come se fosse accaduto ad un’altra persona: quello del giorno in cui andai alla scuola elementare di Serenity per scoprire la verità su Draco e Raissa. Quello in cui avevo detto di no ad Ilai, quello in cui avevo insistito per sapere che cosa fosse successo. Stavolta, però, la voce di Ilai, dolce come una ninna, mi culla altrove, mi porta in un posto ed in un tempo in cui non sono mai stata.

Doveva andare in un altro modo.

Lo ripete ancora e l’immagine cambia, diventa diversa da quello che ricordo essere successo.

“Ma sei tu che devi chiedermelo adesso… puoi andare via, adesso?”.

“Devo andare via, Ilai. Per favore, ti prego… portami via… portami via da qui… ”. 

La voce di Ilai è dolce, malinconica. Dovevo portarti via, quel giorno. Non dovevo chiedertelo e basta. Dovevo macchiarmi del mancato rispetto di te e del tuo cuore. Dovevo strapparti via da qui, con Alex, e portarti via. Tenerti con me. Restare con te, sempre. Non rispettarti affatto, non rispettare quello che volevi. Sarebbe stato tutto diverso.

Succede tutto così rapidamente, come se vedessi delle scene proiettate con il tasto dell’avanzamento veloce, che non riesco più a capire dove sono o che cosa sta accadendo. Non sento più Ilai dentro di me: lo sento ovunque, dappertutto attorno a me. Afferro qualche immagine come se fossero pesci sguscianti, baluginanti nel bianco.

Io a casa sua in Finlandia. In quel letto bianco e rosso che aveva diviso con Tatia. Il viso bianco di dolore, gli occhi rossi, come se mi acclimatassi perfettamente ai colori della stanza. Lo sguardo ostinatamente fisso fuori dalla finestra, le labbra dischiuse come se facessi fatica a respirare. La pelle trasparente di chi è profondamente cagionevole, ma i tratti tutto sommati normali di chi ha la malattia nel cuore, e non nel corpo. Vedo Alex, ed è a quel punto che davvero singhiozzo e gemo come una bestia ferita, aggrappandomi alla sua immagine con tutta la forza possibile: lo vedo ciondolare attorno al mio letto, cercare di attirare la mia attenzione, ottenere in risposta solo sorrisi spenti. Vedo poi Ilai prenderlo per mano, portarlo in giardino a giocare con Anya, sua sorella. Sarebbe stata dura all’inizio, continua la voce di Ilai nella mia testa, e lo sento spingersi di tristezza ancora più a fondo dentro di me, e non so davvero più che cosa sia, se carne, spirito, fiato o sogno, sarebbe stato impossibile all’inizio, perché il cuore non lo curi facilmente, non lo curi velocemente, forse non lo curi mai davvero. Specie se uno hai il cuore che hai tu, che ami una volta ed è per sempre. E nelle notti, dormendo su un divano, sentendo il tuo respiro nella stanza accanto, mi sarei pentito di averti portato con me perché mi sarei reso conto che non potevo strapparti amore dal cuore, non più, non per me. Sarebbe stato uno stillicidio, una spina dentro. Eppure, non avrei potuto fare a meno di te. Neanche se tu ormai eri solo quel respiro sottile da uccellino nella stanza accanto. Ed un giorno avrei sognato Tatia, mi avrebbe preso per mano. E mi avrebbe detto che facevo bene, che dovevo tenere duro, che dovevo avere pazienza, che chi ama così ama sempre di nuovo. Non ci avrei creduto. Ma non avrebbe fatto differenza o caso. Ti avrei amata lo stesso, avrei amato un impercettibile movimento delle sopracciglia a sentirmi entrare, avrei amato come non sobbalzassi a sentirmi entrare nella stanza, riconoscendomi. Avrei amato il tuo passo leggero, come se temessi di disturbare. Avrei amato persino le tue lacrime, se le potevo cancellare io. Ed avrei amato tuo figlio, come se fosse il mio. Ci avrei visto solo te in lui e ci avrei inventato me in lui, dimenticandone una paternità che non fosse quella che favoleggiavo per lui.

Le immagini riprendono, acquisiscono colore e velocità, e io rifiorisco come un bocciolo di rosa. Più colore nelle guance, più rossore sulle labbra, più dolcezza nello sguardo. Il letto finalmente lontano, abbandonato. Una stanza accanto a quella di Ilai, qualche sorriso sparuto ma davvero sincero. Una corsa nell’erba, mentre inseguo Alex che scappa da me ridendo. E lui, Ilai, lontano, la spalla poggiata sul tronco di un albero, che mi guarda schermandosi gli occhi dal sole.

Un giorno avrei davvero pensato che ne eri uscita. Che ne eri fuori. Che ce l’avevi fatta. Vi avrei portato vicino al fiume dove avevamo davvero parlato la prima volta in cui eri venuta a Tampere. Avrei spiato continuamente il tuo viso, come se temessi che fosse semplicemente troppo, che magari non eri ancora pronta per uscire, che in realtà sarebbe stato meglio aspettare ancora. E tu avresti avuto il volto bagnato del sole pallido del maggio della Finlandia, ancora un po’ troppo freddo, ancora un po’ slavato, ma almeno lievemente tiepido, almeno tenuamente mite. Saresti rimasta ad occhi chiusi per un po’, come ad assaporare i profumi ed i rumori che non sentivi più. Ed Alex ti avrebbe tirato una manica del vestito azzurro che portavi, perché avresti sempre portato l’azzurro adesso, perché il rosso ti ricordava una vita che non avevi più e io mi sarei rassegnato a non vedertelo addosso mai più. Avresti aperto gli occhi, gli avresti sorriso, lui ti avrebbe detto una frase scherzosa che ti avrebbe fatto reagire, vogliosa di vivere finalmente. L’avresti inseguito, correndo nell’erba, sfilandoti le scarpe, calpestando rugiada e facendo un salto per evitare dei fiori rossi. Lo avresti acciuffato dopo qualche metro, facendogli il solletico per poi abbracciarlo, e vi avrei visti lontani da me ma finalmente vicini. E mi sarei detto che potevi anche andartene domani, tornare alla tua vita… ma ne valeva la pena. Ne era valsa la pena. Ti avrei guardato, schermandomi gli occhi dalla luce del sole. Saresti tornata indietro, dopo aver preso Alex in braccio. E il cuore mi avrebbe fatto un salto in petto a vedere quel sorriso rivolto a me. L’avrei nascosto in un colpo di tosse studiato, prima dell’effetto che aveva su di me quel sorriso. Il fiatone, le guance rosse, con tuo figlio in braccio, mi avresti detto solo: “Andiamo a casa, adesso…”.

Una casa dalla porta azzurra, con una sola stanza da letto. Un letto dalla testata bianca, con una foto di me con Seth, Pansy e Dean. Un’altra accanto di Ilai con Alex. Due sole tazze sul tavolo, una blu chiaro ed un’altra più scura. Io con i capelli più chiari e più lunghi, una cartellina di documenti in mano, un paio di occhiali dalla montatura d’osso sul naso. Alex più alto, più robusto, con un broncio spavaldo, mentre mi guarda con le braccia incrociate. “Mamma, io non ho più bisogno della babysitter! Ho otto anni! ”. “Effettivamente tra poco dovrò farti la barba…”. Risata di gola. Risata profonda. Risata vera. “Ed allora portami con te! Perché non posso venire con te ed Ilai?”. Rossore, morso sul labbro inferiore, sorriso timido. “Ti prometto che tornerò presto a casa…”.

Mi avresti detto che prendevi una casa da sola con Alex. Mi avresti spezzato il cuore. Ma ti avrei lasciato fare. Te l’avrei lasciato fare, e quel silenzio per casa sarebbe stato insopportabile, tremendo, fastidioso, odioso. Avrebbe avuto eco e rimbombo nella notte, e vuoto e risucchio di anima nel giorno. Però sarei stato felice, davvero. Ti avrei aiutato ad appendere le foto alle pareti, ed avrei sbuffato di nascosto quando avresti scelto il letto più ingombrante del mobilificio. Ci avremmo perso un pomeriggio a montarlo, prima di mangiare un panino seduti per terra perché dovevano ancora consegnarti le sedie. E, finita, la tua casa avrebbe profumato di mele e cannella, perché Alex aveva rovesciato una boccetta di profumo nell’ingresso e, da allora, avrei associato sempre quell’odore a te. Avresti ricominciato a lavorare, saresti corsa da me a raccontarmi che lo adoravi, che non lavoravi da troppo tempo, che di fronte al tuo ufficio facevano il cappuccino aromatizzato al caramello migliore del mondo. Me ne avresti portato uno ogni tua pausa pranzo. Saremmo usciti spesso con Alex. Cinema, luna park, museo della scienza. Ed una sera qualunque, con tuo figlio addormentato sulla schiena, mi avresti detto senza guardarmi: “Sono esausta di programmi da bambini! Ogni tanto avrei bisogno di fare l’adulta… magari con te… ”. Avrei spalancato gli occhi, mi sarebbe andato di traverso il respiro e tu saresti arrossita, avresti mugugnato qualcosa e poi ti saresti ritratta imbarazzata, dicendo che c’era un doppio senso grosso come una casa nella tua frase, ma volevi solo dire che avevi voglia di uscire con me, da sola. Ti avrei chiesto se ne eri sicura, non ci avrei creduto davvero. E mi avresti risposto dolce: “Non credi che sia arrivato il momento? Per me e per te?”.

Un bacio al sapore di caramello. Il buio di una casa dalla porta azzurra. Una risata soffocata. Una porta chiusa su un bambino addormentato profondamente accanto ad una ragazzina con l’apparecchio ai denti. Un divano che cigola terribilmente, ed allora fare piano, in silenzio. Il suo corpo contro il mio, il mio viso tra le sue palme. Sentirlo dentro, sentirlo davvero, come non sono sicura davvero di sentirlo adesso, come sono certa di non sentirlo più adesso. La sua voce spezzata da un gemito più forte di un altro. “Dimmelo solo una volta che mi ami quanto hai amato lui”. “Non amerò nessuno come ho amato lui”. Un sobbalzo, lui che tenta di alzarsi. Un bacio più profondo. Un sussurro sulla spalla di lui. “Non voglio più amare nessuno come ho amato lui. Voglio amare tutto come amo te”.

Forse la prima volta in cui saremmo usciti, ti avrei portata a vedere un film in bianco e nero di quelli che ti piacciono tanto. Però il terrore che fosse qualcosa che avessi già visto con lui o con un altro, mi avrebbe fatto scegliere alla fine una commedia sciocca e stupida, tutto pur di non vederti adombrare come tutte le volte che ripensavi a lui. Sarebbe stato un film che ti avrebbe fatto irritare enormemente, perché sei femminista, ambientalista o chissà che altro, e quel film sarebbe stato un’apoteosi di luoghi comuni che detesti. E quindi niente ristorante di lusso prenotato in anticipo. Avrei saputo che la cosa migliore era farti mangiare un hamburger in una tavola calda, almeno potevi fare una conferenza su “come i film demoliscono l’immagine della donna, figuriamoci se sono tutte così idiote come quella, io per esempio al suo posto…”. Ti avrei ascoltato, perché se mi distraevo sarebbe stato peggio, te ne saresti accorta, avresti messo su il tuo broncio da pesce palla. Ma forse mi sarei distratto lo stesso ed allora te la saresti presa. Però, ad un certo punto, dopo un continuo tentativo di farti parlare di quello che non avevo ascoltato, mi avresti stretto la mano, così, dal niente, dicendo che per farmi perdonare dovevo offrirti una cioccolata al caramello. Sarebbe stato il sapore del primo vero bacio che ci saremmo dati senza provare dolore. Mi sarebbe scivolato in gola, riempiendomi come un affamato. Ed allora avrei dimenticato decenza, pudore, decoro, onore. E non avrei rifiutato quando mi avresti invitato in casa tua, implorandomi di fare silenzio perché Alex dormiva con la babysitter. Piccoli rumori soffocati, come due adolescenti impauriti dal genitore… e ti avrei avuto su quel divano che ti avevo aiutato a scegliere e che ora avrei voluto grande, comodo, silenzioso. Ma ti avrei baciato lo stesso le dita ad una ad una. Avrei fatto lo stesso di tutto per non farti male, per non schiacciarti, per spiare ogni ombra del tuo viso affinché sparisse, morisse. “Dimmelo solo una volta che mi ami quanto hai amato lui”. Mi sarebbe venuto fuori così, di istinto, mentre venivo dentro di te. E tu mi avresti spezzato il cuore, dicendo che nessuno sarebbe stato come lui. E me lo avresti ricucito, dicendomi che non volevi amare mai più come avevi amato lui.

Colori, tutto è pieno di colori: e la voce di Ilai si fa più tenue nella mia testa, come se d’improvviso stesse sparendo, stesse scomparendo, stesse evaporando. Cerco di afferrarla, cerco di stringerla a me, cerco di stringerlo a me, ma non c’è niente da fare. Diventa sempre più flebile, tenue. E piango, ancora, sempre, mentre ancora, sempre, ogni immagine mi si conficca in un punto morbido del cuore che non sapevo di avere più. Due fedi uguali, una più piccola e l’altra più grande, entrambe di oro rosa. Fiori azzurri e bianchi. Un abito lungo di satin, Anya che mi sistema un velo sulla testa piangendo. Ed un parco d’estate con pochi amici, lui che mi aspetta dopo un tappeto blu. Alex più grande ancora, ormai quasi adolescente, che mi porta all’altare. E io che sorrido a mio figlio e ad Ilai, e poi getto un’occhiata distratta alle sue spalle, come se fossi preoccupata per qualcosa. E poi sorrido ancora, rassicurata. Una bimba di poco più di tre anni, capelli biondi, occhi nocciola-verdi, un vestitino giallo limone, un broncio dispettoso. “Tatia non mi perdonerà mai per non averle fatto fare la damigella”. Un sorriso, la mano guantata che stringe quella di Ilai. Lui che sorride ancora, come mai l’ho visto fare. “Sarà alta un metro scarso… ma non esiste essere più vendicativo di nostra figlia. Non credo che arriverai viva al buffet…”.

E a quel punto, sento risate, lacrime, canzoni, pioggia, baci, sorrisi, grida, compleanni, urla, temporali, risolini, fruscii, rimproveri, gorgheggi, musica … vita che scorre e passa, vita che in realtà non viene, vita che finisce. Ed io finisco con essa assieme a lui. Sparisce la luce, sparisce il sole, sparisce tutto. E ricompare lui, di fronte a me, le lacrime negli occhi. E non capisco perché io sia vestita, e non capisco perché tutto sia bianco attorno, e non capisco dove sia tutto il resto, e non capisco perché non riusciamo a smettere di piangere occhi negli occhi, lacrime nelle lacrime. E non capisco nemmeno perché lui non parli, eppure lo senta distintamente nella testa, nel cuore, dappertutto, mentre se ne sta con la fronte poggiata alla mia, gli occhi aperti, le labbra serrate.

Questo era quello che ci meritavamo. Questa era la scelta che dovevamo concederci di vedere. Questo è quello che non avremmo mai. E mi sarebbe anche andato bene darti a lui, consegnarti di nuovo a lui, ma non darti alla morte, ad un demone che ti faccia a pezzi. Ed allora sai che c’è? Non mi interessa morire, salvarmi, tornare, andare, venire, vivere ancora. Non mi interessa. Sia come sia. La mia vita era quella con Tatia, e non l’avrò. La mia vita era quella con te, e non l’avrò lo stesso. Ci può anche essere un altro destino là fuori, piccola, ma non mi interessa. Ci possono essere mille vite, ma non mi interessano. Vorrei averti strappata via al destino di martire che ti hanno dipinto addosso. Vorrei averti strappato via da lui, fregandomene del resto, persino di te, facendo l’egoista, lo stronzo, l’insensibile, il bastardo. Ma io non sono questo, no? Non lo sarò mai, vero? Non c’è destino che ti possa cambiare, in fondo, da quello che sei dentro. Un destino che da tondo ti renda quadrato. Un destino che da Ilai Radcenko ti faccia rinascere Draco Malfoy. Un destino che ti leghi alla sola donna che non avrai mai e che ti faccia morire con lei. Sebbene lei non l’avrà nessun altro, mai. Solo la morte l’avrà: e la morte, come una maledetta e dannata ladra, ha preso l’abitudine di togliermi tutto di dosso. Compresa te, che eri vita, meraviglia, terra alla fine del mare appena scoperta. Compresa te, che eri riscatto, redenzione, liberazione, ricompensa, premio. Ma non c’è mai niente di giusto al mondo. E dovremmo smettere davvero di vivere così, tu ed io, a cercare sempre quello che è giusto. E dovrei smettere io di fantasticarti qui, adesso, mia in un solo istante, prima della scure del boia sulle nostre teste.

Tu, tutto questo non lo saprai mai. Perché non sono questo, io. Sono quello che ti lascia andare, quello che ti dice che devi fare ciò che credi, quello che non ti dirà mai nulla più del necessario.

Non lo saprai mai. Non lo sai. E in fondo non serve che tu lo sappia.

In fondo ti è sempre bastato uno nella tua vita in assoluto.

“Ti basta uno nella tua vita… in assoluto…”.

Tutto si lacera con la forza di un uragano che si infrange sulla costa. Un enorme frastuono nelle orecchie, e poi mi ritrovo di nuovo nel giardino di Draco, con Ilai di fronte. Il volto tumefatto, i lividi che gli mangiano il viso, le labbra riarse dal sangue, il colorito grigiastro. E io sono di fronte a lui, di nuovo, la garza che mi è scivolata dalle mani, atterrando sulle foglie secche, dopo l’allusione non voluta che ho fatto a Draco. Mi guardo attorno sbigottita, la luce dell’alba è ancora lontana, sono perfettamente vestita, ho i capelli in ordine, nessun bacio ha sfiorato le mie labbra, nessun ti amo ha varcato quelle di Ilai.

Sono di nuovo qui a medicargli le ferite come quando? Un’ora fa, un anno fa, una vita fa? Lo guardo ad occhi spalancati, le lacrime affacciate alle ciglia, il labbro inferiore che mi trema senza controllo, mentre non riesco a capire che cosa sia successo, se io abbia sognato, se sia stata solo la mia immaginazione, se semplicemente io non stia impazzendo. Mi sento venire meno come se stessi perdendo i sensi, e mi aggrappo di nuovo alla camicia di Ilai, guardandolo disperatamente, alla ricerca di aiuto, spiegazione, soccorso.

“Che c-cosa è…?” balbetto, non potendomi impedire di piangere ancora, gli occhi fissi nei suoi, mentre cerco ancora di capire che cosa sia successo.

Ma lui fraintende la mia espressione, pensa che sia terrore per quello che ha detto o la confusione volubile che lo tiene ancorato a me.

Sorride tristemente, mi accarezza la fronte e sussurra con stanchezza: “Non ti preoccupare, era solo un commento stupido. E non ti preoccupare anche per me. Me la caverò. Pensa solo a tornare sana e salva, ok?”.

Non aspettando la mia risposta, si alza e torna verso la casa.

Lasciandomi lì con i frammenti di una vita mai vissuta tra le mani.

E senza capire se quella vita l’ho vista davvero o è stato solo un sogno. 

 

 

… ed è lì che, non so nemmeno quanto tempo dopo, mi trova Helder. Ancora seduta sotto quell’albero, una mano poggiata sulla corteccia del tronco, lo sguardo incantato e perso sul muschio sotto le mie scarpe. Sebbene la senta arrivare, sebbene con la coda dell’occhio la veda avvicinarsi, non riesco comunque a muovermi, ad alzarmi da terra, a fare qualsiasi cosa.

Sono prosciugata da tutte le mie forze.

Helder di primo acchito non si accorge di niente, si avvicina cauta forse solo perché teme che io sia spezzata dalla prova imminente, o preoccupata per Alex, o arrabbiata per il coinvolgimento di Ilai.

Perciò non si cura granché di trovarmi seduta per terra, apparentemente lontana mille miglia con i pensieri.

È prudente ed attenta anche quando mi rivolge la parola, sussurra come se avesse paura di disturbare: “Herm, manca poco all’alba… mi serve il ciondolo di Tatia per individuare dove si trova Alex… ora mi serve che…”. Poi d’improvviso si interrompe, la vedo aggrottare la fronte in preda alla confusione e alla preoccupazione, ed allora mi impongo di sollevare lo sguardo simulando un sorriso statico e tirato, mentre faccio leva sul braccio per alzarmi in piedi. Le ginocchia mi tremano ancora, ma riesco per fortuna a reggermi ancora diritta, quindi annuisco senza convinzione e faccio per muovermi per tornare verso la casa. Il mio passo è ancora malfermo, traballante, incerto, ma lei non mi sente empaticamente. Può scambiarlo per qualsiasi altra cosa, non per la sua vera ragione. La vera ragione. Sicuramente non lo può collegare ad Ilai. È Draco che mi ha sempre reso così, mai il ragazzo russo dallo sguardo gentile. E neanche sono del tutto convinta che sia stato davvero lui e non io. Non sono neanche convinta che sia davvero successo qualcosa. Fermo il flusso di immagini che di nuovo mi colpiscono nella memoria, ed accenno un cenno del capo ad Helder adesso di fronte a me, fingendo che significhi che sono pronta ad andare. Ma Helder, invece, resta con la fronte corrucciata, mi studia senza ritegno e fa un gesto d’impazienza rabbiosa ed impotente, probabilmente perché non riesce a sentire che cosa provo. I suoi occhi difatti sono del suo solito colore, non del mio. La Titanca funziona ancora, sono cieca all’Empatia. Per fortuna. Quando le passo accanto, mi afferra per un polso costringendomi a fermarmi. Mi guarda ancora, sospettosa, alla fine l’Empatia è solo un surplus per lei. Mi conosce, sa chi sono e sa anche che non è normale che io sia così… apatica.

Deve essere successo qualcosa. Qualcosa che lei non sa.

Qualcosa che nessuno sa. Qualcosa che nessuno può sapere.

Me lo chiede senza peli sulla lingua, senza esitazione, non lasciandomi il polso, come se temesse che le possa sfuggire: “Che cosa ti è successo, Herm?!”. Scrollo le spalle cercando di rassicurarla, non dirò mai a nessuno che cosa è successo. A nessuno. Non lo deve sapere nessuno.

Neanche io.

Me ne devo dimenticare.

Se me ne dimentico, non è mai esistito.

Per quanto però mi sforzi di fare uscire la voce e di dire una cosa qualunque per rafforzare la mia fallace indifferenza, le corde vocali non rispondono ai comandi. Me ne sto bellamente in silenzio, con il labbro che trema irrefrenabile, gli occhi lucidi e la testa che si limita a negare debolmente.

Helder allora alza la voce, si preoccupa sul serio, stringe di più la presa sul mio polso, scuotendomi appena: “Non farmi preoccupare per favore! Che cosa è successo?!”.

“N-nulla… n-niente, s-sto bene…” assicuro con improvvisa risoluzione, sebbene non possa impedirmi di balbettare e di avere una voce pigolante e gracchiante. Serro le spalle e decido perlomeno di sincerarmi che quello che ho supposto sia corretto. Sospiro a fondo ed aggiungo con un tono di voce casuale, ma fastidiosamente tremante alle mie orecchie: “Volevo solo chiederti una cosa prima di andare…”.

“Tutto quello che vuoi…” mi rassicura lei, pensando alla prova, pensando a mio figlio. Mi lascia il polso e mi guarda in attesa, un filo di apprensione negli occhi che non accenna a spegnersi.

“Quello che state f-facendo ad…” inizio, ma la voce mi manca al momento di pronunciare il suo nome. Respiro, cerco di darmi un contegno, cerco di nascondere il singhiozzo che già mi sta raggiungendo la gola. Riprendo con voce più stabile: “Quello che state facendo… ad…”, ancora mi fermo, ancora la voce si spezza, Helder mi guarda ancora ed improvvisamente il volto le si tinge di una consapevolezza diversa, marcata, scavata.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Mi agito, terrorizzata che capisca qualcosa. Ed allora finalmente la voce esce fuori limpida: “Quello che state facendo ad I-Ilai… mi potrebbe permettere di sentire i suoi pensieri? F-forse di vi-viverli addirittura?”. Riprendo fiato come se fossi stata sott’acqua, il mio respiro decelera ed anche il mio viso riprende colore.

Le spalle di Helder si afflosciano come se avesse perso il sostegno del corpo. Eppure non esita a rispondermi con finta nonchalance: “Probabilmente sì… qualche cosa di confuso, fino a quando non siete vicini… qualche pensiero mozzicato. Stavamo aprendo la connessione con la tua mente, ti ho già spiegato come dovrebbe succedere, no? Deviamo la connessione che abbiamo con te su di lui. Probabilmente qualcosa sarà fluito da lui a te… in modo totalmente inconsapevole. Radcenko non può rendersene conto, sei cieca anche per lui. Ma dovrebbe essere finito adesso… abbiamo finito, la connessione è stabilita. Siete Assonanti alchemici. Un po’ di Telepatia empatica… ma niente di così forte se non siete stati vicini. E tu… non gli sei stata vicina, vero?”. Me lo chiede con un’ombra di panico, di terrore, di ansia.

Che significa essere vicini?

Che cosa significa in fondo?

Siamo stati solo vicini… e quindi… io…

No.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Rispondo velocemente, troppo velocemente, quasi incespicando nelle parole: “No. Assolutamente no. Ho sentito solo alcuni voci confuse nella testa. E ho pensato ai Karkaroff… o al Segno di Fuoco… quindi era lui. L’avevo immaginato. Sentivo che parlava di sangue ed avevo pensato che fossero Zabini e Nott, ed invece era lui, nella mia testa… bene, almeno non sto impazzendo del tutto… meno male che è passato allora… non sta bene spiare la privacy di una persona…”, mi esce fuori una risata spasmodica, idiota, maledettamente somigliante ad un rantolo da moribonda, quindi cambio subito discorso ed aggiungo: “Hai bisogno del mio sangue, hai detto? Draco te l’ha già dato? Come credi che funzionerà il ciondolo? Farà luce oppure…”.

Herm…”. La voce di Helder mi interrompe e suona come un proiettile sparatomi al centro del torace.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

“No…” rantolo con le lacrime agli occhi, sollevando il palmo furiosa verso di lei “No, niente Herm. Niente Herm. Niente di niente, Helder… basta…”.

Lei per tutta risposta mi ignora e mi stringe di nuovo il polso con nuova decisione, soffiandomi contro poche parole con voce tonante: “Gli sei stata vicina, vero? Hai sentito i suoi pensieri?”.

Mi divincolo velocemente dalla sua presa, mettendo qualche passo tra me e lei, come se non ne sopportassi la vicinanza. Ed è così, assurdamente è così. Sono allo stremo, ormai. Persino la morte, adesso, mi sembra riposante. La odio per non avermi avvisato. La odio per avermi trascinato in tutto questo. La odio perché so che potrebbe mentirmi, pur di preservarmi integra al massimo per affrontare Adamar.

“Non è mai successo…” le dico, guardandola con livore negli occhi “Se non mi chiedi niente, se non sono costretta a dirti bugie, non è mai successo… rispetta almeno questo, per favore…”.

“Tu non capisci, Herm!” inveisce lei guardandomi lacerata “Era la sua mente! Non eri tu! Qualsiasi cosa sia successa, qualsiasi cosa tu abbia visto… era la sua mente, non eri tu!”.

Rido senza ritegno, amaramente, duramente, come se mi avesse raccontato una brutta storia dell’orrore.

“Avanti, allora…” aggiungo senza allegria, senza lacrime, senza emozione che non sia rabbia ed odio “Avanti allora… dimmelo, adesso. Dimmi la verità. Dimmi che quella che ho visto era solo la sua immagine di me, e non ero davvero io. Dimmi adesso che io sicuramente non avrei fatto nulla di ciò che ho visto. Dimmi adesso che è solo quello che lui voleva, e non quello che volevo io. Giurami con tutta la lealtà di questo mondo che io non mi sarei mai comportata così e che non avrei mai avuto un dubbio, un incertezza, un ripensamento. Dimmelo, dai, giuramelo…io non posso dirlo a me stessa. Ma tu a quanto pare sì, vero? Dimmelo allora… convincimi… ”, lei fa per aprire le labbra per rispondermi una cosa qualunque che non voglio sentire, che non mi interessa. Estraggo la bacchetta, gliela punto contro, la vedo esitare spaventata come se non mi riconoscesse.

“Non mi interessa che tu mi fabbrichi delle scuse idiote per assolvermi da quello che forse avrei potuto fare…” sibilo minacciosa, la bacchetta puntata contro i suoi occhi “Non mi interessa che cosa avrei fatto se davvero tutto quello che ho visto fosse successo. Non mi interessa giustificarmi, o avere alibi, scuse. Non mi interessa… e neanche ne ho bisogno…”, abbasso la voce, cerco di trattenerla ferma, ma comunque trema un po’ mentre aggiungo: “Io non avrei dovuto sapere quello che provava. Quello che sentiva. Aveva il diritto che fosse un segreto suo. E non lo potrò più guardare come lo guardavo prima sapendo che cosa ha dentro… sapendo che cosa mi avrebbe dato… sapendo che cosa avrebbe voluto dirmi davvero e che cosa non ha mai permesso che io sapessi… sapendo che cosa sente, guardandomi… io… non dovevo portarmi anche questa colpa, dentro. Io… non dovevo avere anche questo rimorso…”, rido ancora come un’isterica, una spostata, una delirante pazza, la bacchetta che quasi mi sfugge dalle mani. Ed alla fine mastico fuori una sola incerta sillaba di quello che mi si sta accartocciando dentro: “Ma non è il rimorso la parte peggiore. Non è il senso di colpa. È il rimpianto… ed il dubbio. Non dovevo avere anche questo dubbio… che davvero avrei dovuto dare una possibilità a quello che prova per me…”.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Abbasso la bacchetta, la rimetto nella tasca dei pantaloni, mi volto per tornare dentro.

Dandole le spalle, le dico davvero il mio ultimo desiderio. Il mio testamento.

“Io domani non tornerò. Morirò con Draco, come doveva essere. Ma Ilai deve tornare indietro. Se morirà con me, ti perseguiterò da qualsiasi inferno dovessi capitare…”.

 

 

Quello che succede dopo, nella mezz’ora che impieghiamo per localizzare Alex e per organizzare gli ultimi dettagli, mi scorre indifferente davanti come se neanche esistesse.

Tutti ormai sono svegli, esagitati, affaccendati a svolgere i loro compiti.

Io al contrario sono gelida come un pezzo di ghiaccio. Me ne sto seduta sul divano del salotto a braccia incrociate, aspettando solo il momento in cui avrò il segnale per poter andare.

Ignoro dove sia finita Helder, rispondo a monosillabi alle domande di Seth e Dean.

Draco scende dal piano di sopra, si siede accanto a me ed immediatamente si accorge che è successo qualcosa. Mi guarda incerto stringendo gli occhi grigi.

“Che è successo, Granger?” chiede senza preamboli, studiandomi con attenzione.

“Niente…” sorrido mio malgrado, non è mai esistito  “Voglio solo farla finita con questa storia…”.

“Non lo dire a me…” borbotta lui chiudendo gli occhi ed appoggiando la schiena al divano “Poi uno si chiede come mai Potter sia venuto fuori così disturbato… ti si squaglia il cervello a vivere con il complesso del prescelto…”. Azzardo una risata lievemente più sincera, scuotendo il capo incredula, sebbene speri solo che non indaghi più di tanto. So che non si è bevuto quello che ho detto. Mi accorgo subito che segue il mio sguardo sfuggente quando Ilai entra nella stanza.

Non è mai esistito.

La prova che Draco abbia intuito qualcosa mi arriva quando, in un momento di stallo in cui tutti sono altrove a pianificare dettagli della nostra missione suicida, mi chiede innocente: “Allora hai salutato Radcenko?”. Sussulto, non lo deve sapere nessuno, non è mai esistito.

Ha la voce assolutamente banale del genitore che chiede al figlio se ha ringraziato dopo un regalo. E lui dubito che sappia usare una voce impersonale del genere, resettata sul cortese e sull’ educato, neanche per rimproverare bonariamente sua figlia. Figuriamoci se possa usarla con me: ha capito che è successo qualcosa e con Ilai.

Non è mai esistito. Mi dimenticherò che sia mai esistito.

Ma qualcosa è successo. Sì… qualcosa. Draco non mi chiederebbe nulla altrimenti. Che cosa è successo, allora? Fantasie, ecco. Sciocche fantasie. Una vita di fantasia.

Il resto… non è mai esistito.

Concentrandomi quindi solo sui pensieri di Ilai e sul fatto che innocentemente voglio nasconderli solo perché suoi privati, rispondo tranquillamente inarcando un sopracciglio: “Mi stai davvero facendo la domanda che ho sentito?”.

“Certo, amore…” asserisce lui con strafottenza, poggiando un braccio sullo schienale del divano con noncuranza, prima di mormorare stoico: “Non siamo in una fase di riconciliazione universale dove una qualsiasi mia domanda inopportuna può passare per semplice tentativo di fare conversazione ante mortem? E non invece per curiosità morbosa, possessività paralizzante e tendenze omicide irrisolte di Mangiamorte riscoperto che sceglie le sue vittime tra i russi?”.

Mi massaggio stancamente le tempie, rispondendo con voce fiacca: “Dovrei anche risponderti, dopo che mi hai detto che ti piace fantasticare sul suo cadavere?”.

“Ma io parlavo dei Karkaroff, mica di Radcenko… quel gran bravo ragazzo…” blatera scioccato, portandosi una mano al cuore come se lo avessi ferito profondamente, prima di guardarmi come se fossi una specie di strega che pronuncia eresie su eresie “Sei proprio malpensante, Granger…”.

Certo come no. Stava proprio pensando ai Karkaroff. Ha appena guardato Ilai come se lo volesse impalare.

“Esiste una risposta qualunque che tronchi questa conversazione prima che ti ammazzi io?” chiedo con un sorriso falso, decisa a prendere questo discorso come l’ennesimo tentativo di punzecchiarmi e non altro. Non posso pensare che davvero la voglia una risposta. Draco, ovviamente, non ci sta ad assecondarmi neanche per una volta, neanche ad un passo dalla morte, neanche se lo implorassi. Poggia la nuca sullo schienale del divano, guarda il soffitto e biascica seriamente: “Probabilmente non esistono risposte giuste o sbagliate, Granger… ma esistono decine di risposte che vorrei davvero sentire adesso… scegline una a caso ed andiamo serenamente incontro alla morte…”, torna a guardarmi dall’alto verso il basso con un sorriso storto, aggiungendo canzonatorio: “Guarda, giurin giurello che farò anche verosimilmente finta di crederti…”.

“Una risposta a caso tra cosa, esattamente?” chiedo con un filo di voce, il cuore che mi va su e giù in gola. 

“Le bugie, Granger…” mi risponde lui con ovvietà, schioccando la lingua e ritornando seduto compostamente “Scegli una stronzata qualunque… e dimmela…”.

Mi stringo nelle spalle distogliendo lo sguardo da lui, pensando persino per qualche istante davvero ad una bugia da raccontargli.

Perché tanto sono diventata una Cantastorie, mi invento qualsiasi cosa pur di non dire la verità.

Poi, mordendomi il labbro inferiore, mi accorgo che non ho una scorta di nuove menzogne a portata di mano. Ci vorrebbe troppa fantasia, troppo coraggio, troppa faccia tosta. E del resto io a lui non posso mentire mai più. 

Allargo le spalle con leggerezza, dicendo cauta: “Non avevamo finito di raccontarci bugie? Non era questa la fase della… come avevi detto… della riconciliazione universale?”.

“No. La riconciliazione universale è eludere la verità…” sussurra lui, di nuovo senza guardarmi, poi i suoi occhi tornano per un po’ nei miei, grigi come il mare a dicembre “Non credo di averla mai voluta da te la verità, figuriamoci adesso che sto per tirare le cuoia. Quindi credo che le bugie caschino a fagiolo…”.

“Ci possiamo limitare alle omissioni allora?” bisbiglio con un filo di fiato, senza più forze e nemmeno coraggio, con un tono di voce implorante, da preghiera, piegandomi come un giunco secco su di lui. Appoggio la fronte sulla sua spalla ad occhi chiusi, come se davvero lo stessi scongiurando di non farmi parlare, come non mi sono piegata davvero in tutta la mia vita. A suo modo, come sempre, lo capisce. Lo sento sussultare, come se fosse autenticamente sorpreso ed al contempo sconvolto. Poi, lenta, la sua mano si arrampica sulla mia nuca, avvicinandomi a sé. Sorrido, mentre resta di nuovo con le labbra solo poggiate sulla mia fronte, parlando con finta irritazione: “Non è tanto onesto da parte tua… temo che mi scateni la curiosità morbosa e tutto il resto… ma d’accordo… effettivamente l’omissione mi impedisce di fare la faccia di quello che ti crede mentre biascichi scuse… meno sforzo e più energie per il demone. Sei una grande stratega, Granger…”.

Sorrido ancora dandogli un colpetto sul fianco, mormorando sarcasticamente: “Sei tu quello che non mi ha mai dato credito come Capo degli Auror…”.

“Ti prometto che ti darò tantissimo credito d’ora in avanti…” ridacchia lui sempre con la bocca sulla mia fronte, facendomi rabbrividire, per poi concludere ironico: “E’ davvero un’enorme sfortuna che il mio d’ora in avanti sia di poche ore…”. Sorrido ancora scuotendo il capo, poi, non appena sento dei passi nel corridoio, mi tiro bruscamente a sedere ed anche Draco torna eretto, sebbene con molta più lentezza di me.

Lo sento ancora guardarmi di sottecchi, però resto dritta con lo sguardo limpido.

A rientrare, però, è Helder, non Ilai. Resto immobile ed indifferente a guardarla, mentre a disagio mi chiede di bagnare il ciondolo di Tatia con il sangue mio e di Draco. Annuisco con il capo, senza aggiungere altro. Il ciondolo a contatto con il sangue si illumina leggermente come se stesse effettivamente reagendo a qualcosa. Quindi la tesi di Dean era giusta. Helder poi mi esorta ad esprimere il desiderio con voce tonante e decisa. Voglio trovare mio figlio.

La goccia di sangue d’unicorno persa durante il parto che Tatia mi ha lasciato, non mi delude. All’interno di essa compare una sorta di ago che somiglia a quello di una bussola. Punta in una direzione ben precisa.

Verso Alex.

A quel punto non ci resta che seguirla.

Ci muoveremo tutti assieme, per poi dividerci progressivamente man mano che individuiamo il luogo preciso dove si trovano i Karkaroff. Prima lasceremo Kevin che disporrà il cordone di sicurezza per i babbani. A quel punto, dopo qualche chilometro, sarà il turno dei maghi e delle streghe che devono lanciare i Patronus come protezione, ed infine gli Empatici che devono comunicare con Ilai. Quando ci muoviamo per lasciare la casa di Draco, intravedo fuori dal cancello un grande serpentone di gente di cui solo alcuni sono miei conoscenti. Ovviamente ci sono Harry, Ron, Ginny, Natalie, Dean e Kevin, nonché altre persone di cui intuivo la presenza come Luna, Nott e Neville, ma comunque siamo almeno sul centinaio di persone tra Empatici e maghi che hanno reclutato Daphne e Ginny. Stranamente, all’ appello manca proprio Blaise Zabini che avevo visto in casa qualche ora fa. Non me ne preoccupo onestamente, di fondo credo che non avesse nessuna voglia di restare qui ed aiutarci.

Credo che fosse venuto solo per vedere Pansy… e quello che deve aver visto, non deve essergli piaciuto affatto.

Dopo che ho raccolto i miei pochi bagagli, mentre Draco è andato a salutare per l’ultima volta Serenity, resto ad osservare tutta la gente appostata fuori dalla finestra, una mano sull’intelaiatura della tenda. Sento una sensazione familiare di calore sulla nuca, come quella di una mano piccola e sottile.

So esattamente che cosa significa, ormai è come se ci avessi fatto l’abitudine, mi aiuta persino a sentirmi più tranquilla.

È Tatia, anche lei a suo modo mi vuole salutare.

Sorrido ad occhi chiusi, come se solo così potessi vederla.

Mi ritrovo a parlarle come se fosse davvero qui.

Sono pensieri fugaci e confusi che non distinguo neanche io: assomigliano a rassicurazioni, a richieste di perdono e a confessioni. Mi pizzicano gli occhi, provando colpa, vergogna ed imbarazzo, ma la mano di Tatia sulla mia testa non mi lascia mai, come se mi garantisse la remissione dei miei peccati, il perdono, l’assoluzione.

Sebbene sia io che non posso perdonare me stessa.

Rassicurata superficialmente, mi ritrovo di nuovo a pensare alla bambina che ho visto, alla figlia mia e di Ilai che portava il suo nome. Stranamente mi ricorda quello che aveva scritto lei nella sua lettera, sulla visione che aveva avuto, sulla bambina di nome Charlotte che non aveva mai potuto avere da suo marito. Lo considero quasi un segno strano che entrambe, prima di morire, abbiamo avuto negli occhi e nel cuore il ricordo di una figlia di Ilai che non abbiamo mai davvero avuto.

Questa cosa, invece che agitarmi e farmi sentire ancora più condannata, mi rende più tranquilla come se ancora mi sentissi meno sola, come se anche lei avesse provato quello che provo io.

Ovvio che lo provava. Moriva anche lei uccisa, molto prima di quando fosse il momento, lasciando una selva di cose in sospeso. Rimpianti, rimorsi e ricordi.

Ed anche lei moriva, essendo…

Sobbalzo ancora, riaprendo bruscamente gli occhi: la stretta tiepida non mi lascia, quasi invogliandomi a terminare i miei pensieri, ma invece di nuovo li serro forte dentro di me.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Quasi a preservare quel senso di pace che però Tatia mi ha indotto, incanto la sua collana perché non mi si sfili dal collo. Voglio averla con me, fino all’ultimo.

È solo a quel punto che la presa calda mi lascia. Grazie Tatia.

Respiro profondamente, scrollo il capo e mi allontano dalla finestra.

Naturalmente adesso in continua successione come le tappe di una via crucis, so perfettamente che cosa altro mi aspetta: i saluti. È forse per quello che, inconsciamente, cerco Draco con lo sguardo mentre sto uscendo dal salotto. Sarà duro non trasformare quelli che agli altri dovranno sembrare degli arrivederci, in addii. Ho bisogno che ci sia lui con me, adesso. Finalmente lo intravedo mentre scende le scale, sfregandosi gli occhi lucidi dopo il saluto a Serenity.

Quando mi vede però in attesa sotto le scale, scuote velocemente il capo, assumendo un’espressione neutra.

“Sei pronta?” sussurra gentile, fermandosi di fronte a me. Annuisco con decisione, sfiorandomi la collana con le dita. Senza aggiungere altro, con naturalezza, mi prende la mano, intrecciando le dita con le sue. Abbasso lo sguardo guardando le nostre mani legate assieme, tentando al contempo di nascondere il rossore che mi ha già infiammato il viso.

“Insieme?” sospira Draco, una mano sulla maniglia della porta d’ingresso e l’altra stretta forte nella mia.

“Fino alla fine del mondo…” sussurro, guardandolo negli occhi e ripetendo la frase che lui ha detto a me prima di dormire “Anche se fosse stanotte”.

Usciti nella luce del primo mattino, con il cielo ancora così grigiastro da dare l’illusione di essere sospesi in un tempo eternamente fermo, la prima persona che ci troviamo di fronte è quella che, molto probabilmente, ha sempre creduto in me e Draco molto prima che lo facessimo noi.

Seth.

Ha gli occhi verdi umidi, tira un po’ su con il naso, però non piange, si sforza con tutte le sue forze di non farlo. Kevin ha una mano poggiata dolcemente sulla sua spalla come a tenerlo calmo e tranquillo. In uno slancio d’affetto, che solo a lui può venire così naturale e spontaneo, allunga le braccia per poi stringere me e Draco tutti e due nello stesso momento. Draco, ovviamente, rimane rigido e si limita a dargli fraternamente una pacca sulla spalla. Io, invece, lo stringo forte a me, cercando di imprimermi come se fossi un pezzo di argilla il calore del corpo del mio migliore amico.

“Cinque anni fa…” bisbiglia con voce tremante nel mio orecchio, quando Draco alla fine si è divincolato dal suo abbraccio “… quando te ne andasti dal Petite Peste… ricordi?”.

Annuisco solo con il capo per non affidarmi alla mia voce che non so come potrebbe suonare.

“Ero certo che ti avrei rivisto dopo tantissimo tempo…” sussurra convincente, staccandosi da me ed accarezzandomi il capo “… questa volta sono certo che tornerai presto. Ci rivedremo presto. Ne sono sicuro…”. Annuisco con un sorriso fingendo di essere convinta delle sue parole, e lo ringrazio per tutto quello che ha fatto per me.

Lui si scansa quasi con fastidio, dicendomi che non gli devo nulla.

Staccandomi da Seth, è il turno di Pansy che, ovviamente, lasceremo qui a causa della sua gravidanza, in modo da prendersi anche cura delle bambine. Ha gli occhi vistosamente lucidi, sbatte le palpebre un paio di volte, ma non abbandona mai il suo sarcastico sorriso. Nel fondo delle sue iridi castane, vedo un dolore maggiore di quello di chiunque ci sta salutando… come se davvero, come sempre, lei fosse la sola che comprende che cosa abbiamo dentro io e Draco. E quanto questo non possa passare per il sentimento puro che serve per sconfiggere Adamar.

Eppure è come se ci reggesse il gioco, come farebbe… un’amica.

Sbuffa seccata guardando me e Draco, prima di borbottare all’indirizzo di lui con uno schiocco di lingua: “Non ti abbraccio neanche morta, Malfoy… puzzi ancora di carogna…”.

“E io potrei abbracciarti solo se avessi gli avambracci lunghi un metro e quindici…” commenta Draco con voce monocorde “Stai già lievitando pericolosamente, Parkinson… sei stata fortunata una volta a non diventare una mongolfiera umana, ma farti mettere di nuovo incinta da Thomas è davvero al limite del gioco d’azzardo…”.

Lei, come se non l’avesse ascoltato, guarda tutti e due con espressione tra il serio ed il canzonatorio, prima di ribadire stoica: “Sono incinta. Sono debole e vulnerabile, nonché suscettibile sul mio aspetto. E vi preavverto che il nero… mi cade davvero malissimo sulla pancia. Quindi vedete di tornare vivi… o firmatemi una dispensa per venire al vostro funerale vestita di rosso fragola… quello sì che mi sta bene… meglio che ad una Grifondoro, direbbe qualcuno…”.

Sorrido nonostante tutto, guardando in tralice Dean che, sicuramente, è l’autore del complimento. Quando, però, la supero con un cenno del capo che spero riassuma tutto quello che voglio dire per ringraziarla del suo carattere ruvido e di quanto mi abbia spronato spesso a reagire, vedo Draco porgersi su di lui ed abbracciarla, nonostante tutto.

Distinguo persino qualche parola sparsa, che fingo di non sentire mentre parlo con Dean.

Se la sola persona che può renderti felice così è lui… non privartene mai.

Quando Draco si allontana da Pansy dandole un buffetto sulla guancia, alla quale lei alla fine scoppia a piangere rientrando in casa, lo riaccolgo con un sorriso incolore, stringendogli la mano e non facendo commenti sulle sue parole di commiato. Lui sorride in modo sbiadito, poi mi stringe la mano mentre finalmente lasciamo la villa. Lo vedo soppesarla con tristezza qualche secondo, lo sguardo grigio fisso su una finestra del primo piano, da cui proviene un bagliore rosato.

La camera di Serenity.

Non saprei che altro dire, le parole sono così bastarde che me le conto una per una. Mi limito a stringergli più forte la mano, sperando che basti. Dopo essersi lasciati alle spalle la sua casa, camminiamo in silenzio per una ventina di minuti, guidati dalla luce del ciondolo che, come una bussola, ci indica una direzione ben precisa. Gli altri, attorno a noi, sono anch’essi silenti anime in pena e, sebbene siamo così tanti, sembriamo scivolare nella nebbia del primo mattino come fantasmi in esilio.

Quando più o meno comprendiamo in che direzione stiamo andando, riuscendo ad isolare mentalmente le costruzioni che ci sono nei paraggi, comprendiamo che i Karkaroff ed Alex potrebbero essere nascosti solo in una decina di esse, tutte ammassate sulla scogliera a strapiombo del mare. Sono vecchie case di pescatori ormai abbandonate ed in disuso. A torreggiare tra esse, un monastero lasciato all’incuria da qualche decennio, fatiscente e pericolante. Descrivere a quel punto un perimetro attorno all’area, diventa abbastanza semplice.

Arriva quindi il momento di salutare Kevin che è il primo a fermarsi, giudicando sufficientemente lontano il luogo dove sistemerà i poliziotti babbani per impedire fughe di notizie, oltre che di imprevisti incidenti. Lo saluto affettuosamente augurandogli buona fortuna per tutto, e gli chiedo con maggiore sincerità di quella che avrei per Seth, di prendersi cura di lui qualora non dovessi tornare. Mi restituisce uno sguardo torbido ma non sorpreso, a dimostrazione che neanche lui in fondo è così convinto che torneremo. In un modo strano è più facile salutare una persona che sembra più insicura del mio ritorno.

Mi permette di essere più me stessa e di smettere di fingere. È più…rassicurante, ecco.

Dopo aver lasciato Kevin, ci addentriamo di più in una sterpaglia di vegetazione rada e sferzata dal vento dove non c’è alcun segno di abitazione. Decisamente meglio così, nessuno correrà inutili rischi tra la popolazione inerme. Fa freddo, nuvole basse velano il sole all’orizzonte, mentre il mare geme grigio come un lenzuolo vecchio. La luce calda del ciondolo, alla fine, individua nel monastero abbandonato il luogo in cui si trova Alex. È una specie di roccaforte sul mare, da cui si accede attraverso una minuscola lingua di terra erosa dalla salsedine. Ovvio che abbiano scelto questo posto per nascondersi… ci vedranno subito arrivare potendosi accedere solo da una direzione. Non possono temere attacchi da altri lati, né tantomeno dal mare: non si può attraccare, le onde sbatterebbero lo scafo contro gli scogli, ed anche riuscendoci, la parete di roccia è alta una quarantina di metri. Impossibile arrampicarsi. L’accesso è anche problematico dall’alto: troppo vento per scope, ippogrifi o altro. E dubito che non abbiano ripetuto il trucco dell’impedimento alla Smaterializzazione che usarono per rapire Alex.

L’unico accesso è appunto la fascia di terra sparsa di cespugli brulli.

Basterebbe vederci in compagnia o con qualcosa che non gradiscono per scappare o fare del male a mio figlio.

Come ha detto Helder ieri, effettivamente il nostro punto a favore è che non ci aspettano così presto. Probabilmente ci pensano ancora a lambiccarci il cervello su come liberare Alex. Certamente non pensano alla Solutio Damnationis.

Nei successivi quindici minuti ci limitiamo a studiare bene la situazione, cercando di nasconderci quanto più possiamo negli anfratti rocciosi: la mancanza di alberi rende problematico celarci alla vista dei Karkaroff. E siamo in numero tale da metterli sicuramente in allarme. Quando più o meno abbiamo concordato su come muoverci e su come sistemare i cordoni di sicurezza di maghi ed empatici, comprendiamo che forse la cosa migliore è che loro si sistemino dopo che noi siamo entrati e non prima. Dovranno essere veloci, rapidi e fulminei nel prendere posizione, ma ci daranno il vantaggio di arrivare meno visibili. E, avendone pochi di vantaggi, meglio sfruttare al massimo quelli che abbiamo.

Questo, però, ovviamente significa che dobbiamo salutarli tutti adesso.

E significa anche che gli Empatici dovranno abbassare i parametri vitali di Ilai ben prima del previsto: se i Karkaroff guardassero fuori, devono vedere un corpo, non lui vivo e vegeto che cammina al nostro fianco. Chiudo gli occhi annuendo, cosciente che, dopo quello che ho vissuto stamattina a contatto con la sua mente, nessun discorso potrebbe fargli cambiare idea.

Helder ha un viso che simula un’accorata richiesta di perdono, ma non riesco a guardarla più del necessario mentre spiega come dobbiamo muoverci. Non ci riesco proprio.

Non posso neanche immaginare come potrò vederlo morire.

Con la certezza che non lo rivedrò mai più.

O muoio io, o muore lui, o moriamo entrambi: non si scampa.

Dio… non lo rivedrò mai più.

Quella nuova improvvisa rivelazione mi serra il respiro in gola, mentre Ilai chiude gli occhi e trascorre il tempo successivo in uno stato catatonico di evidente concentrazione. Ma la sola cosa che riesco a pensare, sono le ferite che ha sul torace, le ecchimosi che ha sul volto, per non parlare di quella tosse convulsa.

Lo spio, mentre respira piano e tenta di meditare come gli hanno insegnato Helder e gli altri.

Ho l’illusione che, fino a quando sentirò il suo respiro, potrò respirare tranquilla a mia volta.

Darei di tutto per restare sospesa in questo istante.

Il respiro di Ilai. Il respiro di Draco.

Tutti e due che respirano ancora.

Però i secondi passano, si affannano l’uno sull’altro. E qualcuno già si allontana, salutandoci e prendendo posizione. L’angoscia mi fa bagnare la nuca di sudore, mentre non so più neanche dove guardare per non sentirmi in colpa. Ilai di fronte a me. Draco accanto a me.

Ed è alla fine è Helder che guardo, ad occhi socchiusi, livorosi, rancorosi, sperando quasi per un miracolo dell’Empatia che senta i miei sentimenti, e senta quanto la detesto, e comprenda quanto non la perdonerò mai per avermi fatto conoscere i pensieri di Ilai.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Sentendomi vicina all’implosione come se stessi andando in overdose, decido di allontanarmi per un attimo con la scusa di volermi concentrare da sola per qualche secondo. Fingo persino un calo di potere magico, non so nemmeno che dico pur di essere lasciata in pace. E torno a respirare solo quando, semi-nascosta da un cespuglio di menta, mi raccolgo le ginocchia al petto e finalmente non ho più nessuno dei due davanti ai miei occhi.

Cerco di calmarmi, cerco di respirare a fondo… ma ad ogni inspirazione, li sento entrare sempre più dentro di me.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Ma io lo so ormai.

Non c’è più niente da fare. Ogni paravento, ogni bugia, ogni scusa… è distrutta, lacerata, fatta a pezzi. E persino la resa, sebbene amara, sebbene odiosa, sebbene impossibile anche solo da pensare, ormai è quasi necessaria pur di non scoppiare come un palloncino.

Un piccolo sassolino su una montagna: una piccola ammissione. E tutto precipita come uno smottamento, trascinandomi dietro.

.

.

Odio Helder perché mi ha dimostrato che Raissa aveva ragione su di me.

E io non l’avrei saputo se non avessi visto i pensieri di Ilai.

Se non fosse la puttana che è, se si fosse accontentata solo di Ilai… tu almeno saresti stato salvo… ed invece vi vorrebbe entrambi, quella cagna…

Ciò che mi rende così furiosa è qualcosa di enormemente semplice, che Helder, neanche con intenzione, mi ha sbattuto in faccia.

Ho sempre saputo di amare Draco. Non c’è nulla che mi farà cambiare idea, mai, neanche la morte. Però, potevo ignorare quello che provavo per Ilai e nascondermelo sotto il naso pur di non vederlo. L’ho sempre trattato con una sorta di lasciva indifferenza e di ben studiato fatalismo, affastellando parole nella testa come definizioni che significassero tutto e niente, ma evitando quelle che contassero davvero. Era sempre importante altro: mio figlio, naturalmente.

E poi Draco, ovviamente. A suo modo, Ron. E i miei amici.

Io ed Ilai, in fondo, siamo solo come quei soldati che tornano dalla guerra e si legano ai loro commilitoni. Due sopravvissuti. Bastava questo a farmi relegare quello che sentivo per lui sotto mille “non so che provo”, oppure “non ho tempo adesso”, pensando solo che tutto fosse condizionato dalle circostanze e che, a non poterle eliminare quelle circostanze, allora non si poteva neanche ragionare. Era come indagare la purezza dell’acqua quando era mescolata con l’olio. Era un semplice e contorto ragionamento astruso fatto per ipotesi.

E quindi, a quel punto, potevo tranquillamente fingere con me stessa che fosse solo questo pantano di dolore ad unirci, che fosse stato sempre solo questo tra me e lui, che essere Assonanti alchemici ci facesse questi effetti strani, che Tatia a suo modo ci manovrasse per tenerci uniti, che mi piacesse fisicamente e questo complicasse le cose.

Mi andava bene così, presa com’ero dall’assolutezza di quello che è sempre Draco per me.

Mi andava anche bene riconoscere un bisogno di lui, che mi condannava debole ed instabile, ma tutto sommato mi giustificasse: ho perso mio figlio, ci manca che non mi aggrappi a chi si prende cura di me.

Avrei sempre creduto questo, questo e basta, se non fosse stato per stamattina. Ho continuato a pensare questo, mentre ero con Draco, mentre ero con Ron.

… e ora, invece, non lo posso neanche lontanamente pensare, o supporre, o inventarmelo mentalmente così da crederci.

Da quando ho conosciuto i pensieri di Ilai, non posso più farlo. Quell’istinto a volerlo contraccambiare pur non potendo, pur sapendo che c’era Draco, pur essendo vicina a morire, ha messo tutto in chiaro nella mia testa. Per poco, per il battito di ciglia di quei pensieri nella mia testa, per la prima volta ho desiderato davvero di vivere quella vita con lui. Ho sognato qualcosa di caldo, confortante e semplice, non questo strazio continuo di dilaniarmi il cuore in questo amore per Draco, che sembra così lontano dalle idee semplici di casa, famiglia, affetto, cura, tenerezza.

Con Draco è sempre fuoco mescolato al veleno, passione mescolata all’odio, pace armata dove hai anche paura di respirare, e poi ti scoppia il cuore, e poi ti si spezza.

Ed oggi per la prima volta, davvero ho dubitato che potessi ancora sopportare che il mio cuore si spezzasse ancora.

Ho visto la vita assieme ad Ilai, quella che comunque non avrò mai… e mi sono chiesta davvero perché non mi sono data modo di sceglierla, perché non l’avessi presa in considerazione fino a quel momento. Non avevo risposte. Non le ho ancora.

Di fondo… è quello che ho sempre voluto.

Di fondo… è quello che non ho mai avuto.

Di fondo… so che quella vita, probabilmente, io con Draco non la avrò mai.

Comunque vada. Comunque sia.

E lì, nel tormento di scoprire che invece era solo fantasia e sogno, in quel maledetto strappo che da allora avverto nel fondo di me stessa, ho capito che non era solo la voglia di pace come sempre ho pensato. No. Non era stato solo lasciarsi andare ad un sogno al sapore di caramello, perché magari si è molto stanchi e provati. Non era stato farsi un viaggio mentale nella pelle di qualcun altro, e vedere cosa succede e che si prova a nascere in un altro destino. Non era stato un esperimento da custodire come qualcosa di cui ridere, o gioire, o rifuggire sconfitti.

Magari fosse stato solo questo. E del resto, è intuibile che, se mi si è conficcato nella testa e nel cuore, non poteva essere solo questo.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Però ho cercato ancora di non vedere. Ho cercato ancora di fare finta che tutto non stesse lì, grande e terribile, a prendersi gioco di me.

Fino ad ora, quando li ho visti assieme. Fino a quando ho capito che non potevo fingere più, perché il pensiero di lasciare o uno o l’altro, mi straziava nello stesso modo.

Tutto è diverso… tranne questo. Non ce la faccio a lasciarli.

Ed allora la verità mi si è avvicinata, coprendo l’ultimo passo che mi mancava. 

La verità, quella che se ne stava davanti ai miei occhi sin da quando avevo rischiato l’ira di Draco pur di dirgli che avevo bisogno di Ilai, era terribilmente semplice.

È terribilmente semplice.

Io sono innamorata di Ilai.

Lo amo. E non ci posso fare niente.

In un modo profondamente diverso da come amo Draco, ovvio, non amerò nessuno come amo Draco. Però alla fine non cambia che sono innamorata anche di Ilai. È come essere innamorate di due modi diversi d’amore: inconciliabili, incompatibili, eppure tutte e due vitali. Non li avrai mai entrambi nella vita, è impossibile: dovresti scegliere e sapere che cosa rischi, buttandoti in una cosa o nell’altra.

Questo era ciò che dovevo davvero scegliere.

Questo è ciò che mi hanno tolto.

Questo è ciò che mi avrebbe reso diversa da Raissa.

Questa era la mia scelta.

Dare il mio cuore ad una persona che, sono certa, non smetterà di spezzarlo… ma lo farà battere più forte di quanto possa essere possibile per molti?

O invece darlo a chi se ne prenderà cura, lo proteggerà e lo tratterà come la cosa più preziosa al mondo… impedendoti però anche di sentirtelo scoppiare nel petto?

So cosa volevo da ragazzina: l’amore senza aggettivi, illogico e tutto il resto. E so anche che quest’amore mi ha fatto letteralmente a pezzi per cinque anni.

So che, intimamente, dentro… lo desidererò per sempre. Ed intimamente, dentro, desidererò sempre anche di essere serena ed in pace.

Ecco, cosa è Draco, per me. Ecco, cosa è Ilai, per me.

Ad amare il primo, sono abituata da anni. Ad amare il secondo, mi sono rassegnata adesso.

Per quello odio Helder: me l’ha sputato in faccia. Come si possono amare due persone assieme?

Le puttane, le vanesie, le vanagloriose, le vanitose amano due persone, assieme.

Non io.

Io no.

Io no.  

Ed invece no: morirò da puttana e da spergiura, sebbene non ho fatto nulla che mi renda colpevole, sebbene sia solo dentro che so tutto questo, sebbene solo il cuore sia il mio assassino e il mio confessore, sebbene non ho fatto promesse o giuramenti a nessuno dei due.

Però fa comunque schifo. Moriranno entrambi immaginando che io ami esclusivamente l’altro. Fa schifo perché non posso inventarmi alcun conforto né per uno, né tantomeno per l’altro.

Ilai pensa che sarà solo e per sempre Draco, e che io non lo ami affatto.

Draco pensa che quello che provo per Ilai è più puro, e che io non lo ami affatto.

Ecco perché fa schifo. Ecco perché questa è l’ultima volta che ci penso.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Lo seppellisco di nuovo, perché mi meritavo il tempo e il modo di fare una scelta. E, se questa scelta mi è preclusa, questo sarà sempre e per sempre solo affare mio: nessuno lo dovrà sapere, mai, anche se un giorno impossibile che non vedo affatto, fossi viva e potessi davvero farla questa scelta. Se fosse Draco, non saprebbe mai quanto inaspettatamente ero anche innamorata di Ilai. Se fosse Ilai, non saprebbe mai quanto inevitabilmente avrei sempre Draco dentro.

Sono cose queste a cui una donna si abitua presto, quando cresce.

È il compromesso mozzicato con te stessa che ti fa andare avanti, nelle pause doverose tra i momenti in cui menti pietosamente al tuo cuore e agli altri.

Io non potrei sopportare mai che qualcun altro mi veda per come mi vedo io adesso.

Torno indietro con uno sguardo pulito, innocente, limpido. Tutti i miei sentimenti repressi e sepolti li metto piuttosto nel discorso che faccio a tutti prima di andare. Ringrazio la gente che è accorsa qui per aiutare noi e nostro figlio, anche se ci conosceva appena, mi faccio promettere che non correranno rischi inutili contro i Karkaroff, e a tutti affido Alex affinché sia in salvo.

Alla fine, mentre gli altri vanno a prendere posizione, restano solo Harry, Ron, Natalie, Ginny e Dean.

 

Dean è il primo che mi si avvicina, ha lo sguardo terso e lucido, eppure sicuro. Mi stringe forte tra le braccia, spingendomi a piangere prima ancora che me ne renda conto, mentre non mi dice assolutamente niente e se ne sta in silenzio, come se qualsiasi parola fosse semplicemente inutile. Quando si stacca da me, mi sorride e mi dà un buffetto sulla guancia aggiungendo scherzoso: Mi prenderò cura di mio genero come se fosse mio figlio…”. Capisco come sempre il suo riferimento neanche troppo oscuro ad Alex come futuro marito di Charisma, sorrido ed annuisco con il capo, asciugandomi le lacrime con il palmo della mano. Mi ha detto, a suo modo, la sola cosa che davvero per me è importante, e cioè sapere che farà da padre ad Alex se non dovessi tornare.

Il resto, in fondo, lo sappiamo entrambi.

Quello che però a quel punto mi sorprende davvero è che fa un paio di passi in direzione di Draco, spingendomi a guardare la scena con una punta di ansia, dato che non sono così amici da salutarsi in modo struggente ed affettuoso. Draco stesso, infatti, lo guarda con la bocca arricciata e le sopracciglia aggrottate. Dean, però, calmo e tranquillo, armeggia con la sua mano destra, sfilandosi qualcosa che, imperturbabile, lancia verso Draco in un piccolo lampo di metallo argenteo. Draco, istintivamente, lo afferra e si trova tra le mani un anello pesante, doppio, d’oro bianco, con una pietra dura e lucida di colore nero. Io, con un brivido, riconosco l’anello, ma mi sembra un gesto così assurdo che resto in silenzio. Draco ugualmente non dice nulla, sebbene non sappia di che si tratta. Dean, scrollando le spalle, aggiunge casuale: “E’ la sola cosa che mi ha lasciato mio padre. L’unica”.

“Vorrebbe essere una specie di portafortuna, Thomas?” chiosa Draco, rigirandosi l’anello tra le mani, senza però alcuna ironia velenosa o retrogusto amaro nelle parole.

“Vorrebbe essere un prestito… e non a fondo perduto…” mastica serio Dean, guardandolo di lato “Devi riportarmelo indietro, Malfoy. E’ la cosa a cui tengo di più al mondo… pretendo che tu torni vivo abbastanza da restituirmela…”. 

Lo sguardo di Draco viene velato da un’ombra scura, quasi un pensiero segreto di preoccupazione e di ansia, come se d’improvviso fosse davvero teso dalla possibilità che lui non possa restituire quel regalo. E non si parla solo dell’anello e della possibilità che, morto lui, chissà che fine faccia. Sono certa, conoscendolo, che Draco improvvisamente sia dilaniato da un gesto di fiducia che non si aspettava, come mai si aspetta nulla di positivo da nessuno nei suoi confronti.  Alla fine, fa solo un sorriso storto e chiude l’anello nella mano, accogliendo di nuovo il solito salvifico sarcasmo, spezzato da una bugia misericordiosa: “Ci mancherebbe che non te lo restituisco, Thomas. Non mi faccio seppellire con un pezzo di ferraglia vecchio ed antiestetico”.

“Sei un bravo furetto ammaestrato, Malfoy…” sorride un po’ tristemente Dean, scrollando le spalle e voltandosi per raggiungere gli altri, gli occhi più lucidi di prima.

È sposato con Pansy Parkinson, sa perfettamente che cosa dicono davvero in cinque parole che sembrano solo insulti.

Draco guarda per un po’ l’anello nella sua mano, soppesandolo come se fosse pesantissimo, poi con sicurezza lo infila all’anulare destro. Fingo con perizia di non averlo visto e lo lascio allontanarsi, mentre mi appresto a salutare Harry e gli altri, a cui lui rivolge solo qualche parola veloce di stanco rancore stantio. Le prime che saluto, abbracciandole entrambe con calore, sono Ginny e Natalie. Mi sembra quasi naturale unirle assieme in questo unico abbraccio, come se fossero sorelle. Si profondono in raccomandazioni ed in rassicurazioni sul fatto che sicuramente tornerò indietro e che non devo preoccuparmi di Alex. La mia sola risposta è una frase semplice: “Prendetevi cura di loro…”, alludendo ad Harry e Ron. Natalie sobbalza un po’ ed arrossisce, come se si vergognasse a parlarne con me, però cerco di farle capire con lo sguardo quanto sia sollevata dal fatto che ci sia lei adesso nella vita di Ron.

È quando arriva il momento di salutare lui ed Harry che le mie difese crollano completamente. Salutarli per andare incontro alla morte sembra un eco infinito di centinaia di altri momenti che abbiamo vissuto sin da quando ci siamo conosciuti in quel bagno, ad undici anni. Abbiamo sfidato sempre la morte, rischiando la vita in milioni di modi diversi, tutti accomunati dalla sola costante di essere sempre assieme. Era quello l’anatema per tornare a casa, sani e salvi, sempre. Invincibili, immortali, invulnerabili. Sembra adesso un infinito gioco di parti e specchi che ci riporta indietro di anni ed anni. Ma stavolta la costante della nostra indefessa resistenza alla morte non c’è. Loro non ci saranno, loro resteranno qui: io sarò sola lì fuori. E, nonostante la vita ci abbia diviso tanto e spesso in questi anni scavandoci distanze addosso, sembra davvero assurdo adesso non vedermeli alla mia destra ed alla mia sinistra, come angeli, come guardie, come fratelli.

Singhiozzo e lascio che loro due, ormai ben più alti di me e dei bambini che ricordo, mi abbraccino forte, chiudendomi tra le loro braccia. Harry mi accarezza piano la schiena dandomi dei piccoli colpetti incoraggianti, la faccia affondata nel mio collo. Ron, cautamente, delicatamente, respira nei miei capelli e mi bacia la fronte con affetto.

“Sarà come tutte le altre volte…” sussurra con un filo di voce Harry, tenendomi stretta “Sarà come sempre. Tu che fai un paio di abracadabra a cui nessuno aveva mai pensato… e tutto finisce in una bolla di sapone…sarà come tutte le altre volte, Hermione…”.

“Noi ci saremo lo stesso…” aggiunge Ron con un filo di voce, rischiarandosi la voce roca “Noi… ci saremo sempre, Mione…”.

Annuisco forte, mormorando qualcosa che non intendo neanche io perfettamente nelle mie orecchie ovattate. Forse li dico che li voglio bene, forse li chiedo scusa, forse li ringrazio, forse chiedo loro di occuparsi di Alex. O forse non dico niente e mi limito a pensarle quelle parole senza riuscire ad aprire bocca, tra le lacrime che mi strozzano le parole in gola. So solo che, quando mi lasciano andare, il calore del loro abbraccio mi è rimasto dentro un pochino, mescolato al loro profumo sugli abiti. Sento davvero di non essere sola adesso.

Li lascio andare con Ginny e con Natalie con un sorriso mesto, salutandoli con la mano aperta, affidandoli ad un destino o ad un Dio misericordioso che possa sempre vegliare su di loro, se non posso farlo più io. Li auguro felicità, gioia, serenità, amore: li auguro tutto quello che si meritano.

Mi asciugo ferocemente gli occhi rossi, passandoci sopra le mani aperte e respirando a lungo con la bocca aperta per cancellare i singhiozzi dal petto. Mi guardo attorno, presagendo che adesso mi è rimasta solo Helder da salutare: la vedo infatti a pochi metri da me, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo basso, le spalle contratte. Con un sospiro profondo, mi avvicino a lei con lentezza, cercando di tenere a bada quella spinta alla rabbia che ho nei suoi confronti e che, in fondo, devo cercare di seppellire in me stessa, visto che non la rivedrò mai più. Mentre la raggiungo, però, noto qualcosa che per un attimo mi fa fermare, aggrottando la fronte e tenendomi la mano stretta al torace. Nel tempo che ho impiegato a salutare Harry e Ron, Draco si è allontanato molto di più di quanto mi fossi accorta… ma soprattutto non è da solo. È con Ilai. È con lui che sta parlando, l’espressione scura, ampiamente restituita da Ilai che, a sua volta, lo guarda teso e nervoso.

È così strano vederli impegnati in una conversazione che la cosa mi risulta subito strana e sospetta, al punto da spingermi ad osservarli di sbieco. Cerco di leggere il labiale inutilmente. Quando Helder mi si avvicina e comincia a ricapitolarmi le fasi del nostro piano, non la ascolto neppure, per quanto sono presa dal capire che cosa sta succedendo.

 “… Malfoy fingerà di averti voluto consegnare per salvare Alex…” sta continuando a ripetere Helder con voce monotona, evidentemente comprendendo che non la sto ascoltando “Dirà, probabilmente, cose odiose per esaltare il concetto… e getterà loro il presunto cadavere di Radcenko. Mostrati distrutta per quello che sta dicendo Malfoy, imploralo, scongiuralo… e mostrati disperata per la morte di Radcenko…più credono che ami lui e meno penseranno a qualcosa come la Solutio damnationis…”.

“Certo, certo…” mormoro distrattamente, ancora presa dalla vista di Draco ed Ilai assieme.

“… ma tu non avrai bisogno di fingere che ami Ilai Radcenko, vero?” commenta Helder con una scrollata di spalle, guardandomi obliqua. Finalmente intendo le sue parole come se mi raggiungessero solo adesso, e mi volto verso di lei, sussultando e sgranando gli occhi in un moto di nervosismo ansioso, la schiena attraversata da scariche elettriche.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Mi ritrovo di nuovo a minacciarla con lo sguardo, come se temessi che possa mettersi ad urlare quella verità, sbattendola in faccia a Draco, ad Ilai e a me stessa che, ancora, disperatamente, voglio tenerla fuori dalla mia testa.

Helder solleva le palme in un moto di difesa, poi apre le braccia in gesto impotente e sorride amara: “L’ho capito subito. E non c’entra l’Empatia… una come te… orgogliosa come te, convinta sempre di poter fare tutto da sola… potevi avere così bisogno di una persona solo se ne fossi innamorata… ed io te l’avrei augurato con tutta me stessa, se era la cosa di cui davvero avevi bisogno… ed invece per colpa di questa storia che ho cominciato io con lo Zahir… sono costretta a sperare che sia sempre più forte quello che provi per Malfoy…”, Helder sorride ancora e si lascia sfuggire delle lacrime rabbiose che, nonostante tutto, mi fanno sgonfiare l’astio e l’ansia come se fossi stata punta da un ago: “… però non ne sono pentita. Magari sono solo egoista… e voglio solamente che torni a casa, sana e salva…”.

Annuisco con il capo, masticandomi in gola le lacrime e limitandomi ad accarezzarle un braccio, non ancora del tutto pronta per abbracciarla e perdonarla del tutto. Quel gesto piccolissimo, però, è come se l’assolvesse e perdonasse.

È lei, allora, che si sporge su di me e mi stringe forte. Mio malgrado, con un nuovo scoppio di pianto, l’abbraccio a mia volta, lasciando scappare via l’astio fuori da me e cercando di ricordarmi solo il bene che ha fatto per me in cinque anni, nonché quello che ancora farà per mio figlio, salvandolo.

“… per favore…” mormoro piangendo, piegandomi su di lei “Salva Alex, Helder. E riporta indietro Ilai… fai di tutto per riportarlo indietro… io… non ho potuto salvare Draco… ma almeno lui… per favore, riportalo indietro…”. Helder mi rassicura sommariamente, lasciandomi alla fine andare.

Mi volto su me stessa asciugandomi il volto con i palmi delle mani, e faccio qualche passo incerto, gli occhi coperti dalle dita. Poi, mi ricordo di Draco ed Ilai e sollevo lo sguardo preoccupata, cercandoli.

Non sono più assieme.

Di fronte a me, c’è solo Ilai.

È di nuovo in piedi, le gambe ben piantate al suolo e leggermente divaricate, cosa che lo fa assomigliare ad un militare in attesa di attaccare. Ha la mascella serrata, le braccia conserte ed un’espressione dura sul viso. I suoi occhi sono ostinatamente rivolti alle mie spalle, in un punto ben preciso che guarda come se lo volesse incendiare con lo sguardo. Prima però che possa voltarmi su me stessa per capire di che si tratti, il suo viso torna a me, riempiendosi di un calore soffuso e di un sorriso che non gli arriva agli occhi.

Lo guardo ancora senza capire, mentre sussurra dolcemente guardandomi con tenerezza: “Prosti menya… do svidaniya sladkaya…”.

Non capisco che cosa mi stia dicendo, sta parlando in russo. Nonostante non abbia assolutamente capito che cosa mi stia dicendo, il tono con cui dice quelle parole mi spinge automaticamente a singhiozzare, comprendendo, come se mi stesse scrivendo quelle parole addosso, che mi sta dicendo addio.

Eppure non riesco a muovermi nella sua direzione, non riesco a salutarlo davvero, non riesco a dirgli forse un’ultima parola che sia un’eco sciocca ed inconsistente di quello che ho scoperto di provare per lui, senza pure che mi disveli, riveli, mostri apertamente.

Ilai dismette quel sorriso dolcissimo che sarà l’ultima cosa che mi ricorderò di lui. E torna a guardare alle mie spalle, arcigno, duro, irrigidendosi ancora come una statua di sale.

Chiosa severo, la voce come un taglio nella carne viva: “Non voglio che lei veda. Me l’hai promesso, Malfoy. Portala via”.

E io capisco troppo tardi che cosa sta succedendo.

Mi volto furiosamente su me stessa, impugnando la bacchetta, incrociando gli occhi di Draco, immobile, alle mie spalle.

La bacchetta puntata alla mia schiena, l’espressione fraternamente gemella a quella di Ilai.

Tutto è diverso… tranne questo.

Lo imploro con gli occhi comprendendo che non farò in tempo a reagire, che è troppo tardi, che già sento vibrare la bacchetta dell’incantesimo che mi sta per scagliare addosso.

Ma Draco mi ignora, contrae la mascella, ringhia l’incanto con voce ferma e caustica.

“Stupeficium!”.

La scarica di luce rossa si infrange nello spazio tra i miei polmoni: proprio nel centro del cuore.

Perdo i sensi, scivolando in un manto nero di tenebra.

Cosciente solo per una cosa.

non vedrò mai più Ilai Radcenko vivo.

 

 

Il mio risveglio non è dei migliori.

Anche se dubito ormai di poter avere un risveglio migliore.

Sono sollevata di malagrazia da un braccio ed il contraccolpo mi fa spalancare gli occhi intimorita. Attorno a me ci sono grida, urla, risate, e per un attimo non capisco dove mi trovo, né tantomeno che cosa sto facendo. La testa mi pulsa orribilmente come se fosse vessata da un martello pneumatico e gli occhi sono annebbiati, come se ci fosse calata su una calugine amorfa. Mi guardo attorno le orecchie che ronzano, ed allora improvvisamente mi tendo come la corda di una chitarra. Sono nell’androne di un palazzo vecchio quasi completamente demolito dall’incuria del tempo: rade piante secche crescono nelle intercapedini delle rocce bianche e grigie, descrivendo un ambiente triste e mesto. Il sole è nascosto da una coltre spessa di nubi e fa ancora un freddo indemoniato, troppo inconsueto e strano per il mese di luglio.

Quando riconosco la presa familiare sul mio braccio, quelle dita affusolate, sottili eppure forti che, sebbene ora siano affondate nel mio braccio, hanno la perizia attenta e dolce di non farmi davvero male… inizio con una punta di disagio ed ansia a capire dove sono e che cosa è successo. I miei riflessi per fortuna reagiscono ben prima di me, non appena con la coda dell’occhio individuo nella cornice scrostata di un balcone quasi del tutto franato, le figure silenziose e spaventose dei Karkaroff. Dimitri, come sempre, con il suo aspetto autoritario, il sorriso sadico ben modellato sulle labbra chiuse, le braccia incrociate al petto, l’espressione vogliosa ed implacabile. Raissa, con gli occhi spalancati, sgranati, sconvolti, le lacrime che scorrono sul viso di alabastro, le mani strette alla gola come se soffocasse, le gambe che cedono e la fanno cadere in ginocchio. È quella vista a farmi capire simultaneamente che cosa sta guardando alle mie spalle e a farmi finalmente sentire la voce di Draco che urla improperi, insulti, invettive contro di me, rea di avergli nascosto un figlio e di essersi innamorata di un altro. Mi sforzo di non ascoltare quello che sta dicendo Draco, mi sforzo solo di fingere di essere stata catturata, tradita, umiliata. Mi divincolo con tutte le mie forze dalla presa di Draco, sebbene appunto lui stia fingendo ed in realtà potrei liberarmi abbastanza facilmente. Mi sforzo di non concentrarmi sulle sue parole se non nella misura di apparirne sconvolta, sgomenta, così da rispondere a suon di preghiere ed appelli accorati in nome di nostro figlio.

È un bel teatrino, è un bello spettacolino. E Dimitri ne pare così oltremodo soddisfatto da non interromperci neanche per un momento, mentre si pregusta tutto con una smorfia di puro piacere sul volto, inumidendosi lascivo le labbra. Raissa, del resto, è completamente assente, è come se neanche ci stesse ascoltando. Ed è lì ovviamente che scatta il colpo di grazia: la presa di Draco si fa un attimo più forte sul mio braccio, mi guarda negli occhi come stesse per chiedermi se sono pronta e riceve da me in risposta un minuscolo segno di accenno con il capo.

Grazie per preoccuparti di questo. Grazie Draco.

Grazie per capire che non sono pronta. Né mai lo sarò.

“… quel figlio di puttana…” mi sputa Draco addosso, guardandomi con un ghigno crudele e velenoso “Quello che ti volevi fare da settimane… non lo rivedrai più, Granger…”. Draco ride in modo sguaiato ed io non ho bisogno neanche di mettere su un’espressione autenticamente devastata.

Perché è vero che io non rivedrò più Ilai.

Non lo rivedrò più.

Però ci aggiungo un tocco di consapevolezza dilaniata e distrutta dal pensiero che Draco possa aver ucciso la persona che amo. Ed è allora che Draco mi getta con violenza sul corpo di Ilai.

Neanche adesso devo fingere: non c’è bisogno. La vista del suo corpo martoriato, escoriato, ferito, come se non fossero passati pochi minuti da quando l’ho visto, mi strazia come se mi stessero tirando gli arti in due direzioni differenti.

Perdonami Tatia.

Perdonami… se te l’ho portato via, in tutti i modi possibili.

Mi getto su di lui, lo abbraccio piangendo, urlo maledizioni ai Karkaroff e a Draco stesso, simulo persino un tentativo di scuoterlo per svegliarlo ed un massaggio cardiaco per rianimarlo. Provo anche la respirazione bocca a bocca ed onestamente non so quanto questo aggiunga valore alla mia recita, o se non sia solo una goffa ricerca di alibi per baciarlo un’ultima volta. Solo che questa volta, le sue labbra sono fredde, gelide, immobili. Ed alla fine questo mi fa a pezzi più di tutto il resto. Sfibrata, mescolando la vera disperazione a quella falsa, affondo il viso nel suo petto, nascondendomi alla vista di tutti, coperta dai miei capelli. E sospiro di sollievo quando sento un minuscolo, brevissimo, battito, provenire dalle profondità del suo torace. I Karkaroff non si sono ancora avvicinati a lui, non deve essere stato ancora necessario mandarlo del tutto in arresto cardiaco.

Sento Draco prendere tempo, chiedere di vedere Alex per capire come stia, prima di consegnarmi a loro. Sobbalzo, la schiena rigida, sperando con tutte le mie forze di poter rivedere mio figlio un’ultima volta. Ma i Karkaroff sono di altro avviso: vogliono prima vedere se Ilai sia davvero morto.

Mentre ci raggiungono levitando nell’aria come se fossero fatti di vento, Draco muove impercettibilmente il capo nella mia direzione, facendomi capire che è arrivato il momento. Ha il viso distrutto, gli occhi lucidi… e comprendo che non abbiamo modo di aspettare che ci mostrino Alex. Dobbiamo lanciare la Solutio damnationis, mentre saranno ragionevolmente distratti dall’esame del corpo di Ilai.

Gli Empatici, in collegamento con Ilai stesso, si accorgono subito dell’intenzione dei Karkaroff. E con uno spasmo, scoppiatomi in bocca come l’ennesimo singhiozzo, mi accorgo che quel minuscolo battito nel petto di Ilai è scomparso. Adesso… è morto sul serio.

Sebbene sia distrutta, sebbene non riesca neanche a respirare, resto vigile ed attenta mentre Dimitri calcia con malagrazia il corpo di Ilai e Raissa uggiola fastidiosa, piangendo a dirotto e strappandosi le vesti. Come un fuoco d’artificio che esplode nel cielo nero, io e Draco riconosciamo il momento propizio: estraiamo le bacchette ed urliamo con tutta la forza che abbiamo in corpo: “SOLUTE DAMNATIONEM!”.

Dimitri e Raissa gemono, fremono, si scagliano contro di noi per tapparci la bocca.

Inutilmente.

Pochi secondi… e spariscono alla nostra vista, sostituiti da un buio spesso ed intenso che ci avvolge completamente.

Nel silenzio nero l’unica cosa che sento e percepisco è il mio fiato corto, spezzato, assieme a qualche altro singhiozzo che mi sfugge ancora dalle labbra.

“Draco?” lo chiamo spaventata, non afferrando assolutamente nulla attorno a me, se non questo gelido buio totale.

“Sono qui…” mi rassicura lui da un punto non meglio precisato alle mie spalle, sento il suo respiro sulla nuca. Rabbrividisco, prima che lui mi chieda sommariamente: “Stai bene?”. Annuisco con il capo prima di capire che lui comunque non riesce a vedermi, e ripeto il mio assenso con la voce.

“Sai dove dobbiamo andare adesso?” chiedo con un filo di voce, cosciente della sua presenza dietro di me, mentre angosciata da questo buio totale ho l’impressione di essere diventata cieca o di essere stata sepolta viva sottoterra. Draco forse avverte la tensione nella mia voce ed immediatamente con naturalezza mi stringe la mano, mentre sudo freddo. La intreccio grata con la mia, contenta di non essere sola in tutto questo.

“No, Granger… non lo so…” mormora lui con voce sconfitta, uno spostamento d’aria che mi informa che forse si sta guardando attorno alla ricerca di un po’ di luce “La prima volta non è stata così. Non ho neanche prettamente incontrato Adamar… sentivo solo la sua voce…”.

“E quindi che facciamo?”.

“A parte interrogarci su quando il demone farà l’allacciamento alla corrente elettrica?” biascica lui nervosamente, la sua mano che si contrae impercettibilmente “Non lo so. Magari dobbiamo chiamarlo oppure…”. Ci interrompiamo a disagio, quando nella nostra testa esplode una sorta di litania lamentosa, un canto, una voce stucchevole e femminile che sussurra: “Andate avanti. Camminate dritto…”.

“… oppure ascoltiamo la voce da bambina indemoniata che ci è misteriosamente apparsa in testa…” commenta malevolo Draco, iniziando a camminare nella direzione indicata dalla voce, la mano sempre stretta nella mia a guidarmi e a precedermi. Il buio non diventa meno totale mentre camminiamo, restando così fitto che non riesco assolutamente a distinguere nulla. Sembrano dei cunicoli sotterranei, ai nostri lati avverto la presenza imponente di pareti di roccia scavate, nonché di tanto in tanto il suono di acqua che goccia. Ma, per il resto, non ho più la pallida idea di dove siamo.

Dopo una decina di minuti abbondanti in cui abbiamo continuato a camminare nel perfetto silenzio, sento la necessità impellente di dire una cosa qualunque, pur di rompere quest’ansia che mi sale per quello che stiamo per affrontare.

“Ti ha chiesto Ilai di schiantarmi?” chiedo asciutta, rivolgendomi a quel silenzio odoroso di terra bagnata che so essere lui.

La sua mano nella mia si fa ghiacciata, mentre borbotta caustico: “Credi che tragga piacere dallo schiantarti, così, a titolo gratuito? Ovvio che me l’ha chiesto Radcenko. Non voleva che tu vedessi… che cosa gli stava per accadere… ma aveva bisogno interamente della sua energia magica per il trattamento degli empatici… e per quello l’ha chiesto a me, Granger…  ”.

“E’ stato così… brutto?” chiedo con un filo di voce, la gola secca.

Draco ghigna in modo fastidioso alle mie orecchie, prima di biascicare acido: “Qualsiasi cosa abbia passato Radcenko… è un delicato sonnellino nel prato in confronto a che cosa stiamo per passare io e te…”, poi abbassa il tono di voce, suonando ancora tra il minaccioso ed il derisorio: “So che avevi bisogno di lui, Granger… ma ormai sarà il caso di lasciarlo andare, non credi? Se tutto va bene… lui si salverà e si troverà un’altra mogliettina adorabile da condannare a morte… e se tutto va male… bè, almeno vi siete lasciati con ottimi ricordiun romantico addio in russo… e te schiantata da quel bastardo del tuo ex… davvero… una favola moderna… sono quasi invidioso…”.  

Le sue parole, come sempre, mi feriscono più all’interno di quanto ammetterei ad alta voce. Sa perfettamente come colpirmi al cuore quando vuole. Risbattermi in faccia che avevo bisogno di lui. Pungolarmi sulla possibilità che si rifaccia una vita senza di me. Innervosirmi con l’insinuazione per cui Tatia sia morta per colpa sua. Minimizzare quello che siamo. Però me ne sto in silenzio, non replicando e sorprendendo persino Draco, che conosce adesso un silenzio ben più inquieto.

Io devo lasciare andare Ilai, devo lasciare andare tutti adesso: la mia ultima realtà definitiva è Adamar, non c’è altro a cui pensare.

Continuo a camminare in silenzio non replicando più nulla, avvertendo le dita di Draco che si contraggono nella mia mano come se fosse lui, adesso, a voler parlare.

Ma, in ogni caso, non ne avrebbe né modo, né possibilità.

Finalmente il lungo corridoio di pietra che stavamo percorrendo, viene falciato da una luce calda che mi fa strizzare gli occhi dopo tanta oscurità. Io e Draco ci incamminiamo in quella direzione, i sensi all’erta, pronti a qualsiasi attacco. Ma ciò che ci aspetta, alla fine di quella che si rivela essere una galleria di pietra aperta su uno spazio aperto e luminoso, ci lascia letteralmente senza parole.

La prima cosa che noto è un profumo meraviglioso, soave… che non credo di aver mai sentito. Assomiglia a quello degli agrumi, delle zagare in Sicilia, ma infinitamente più dolce, più penetrante, più inebriante, come se fosse mescolato a qualche aroma zuccherato di cannella, vaniglia, caramello fuso. Non può esistere un odore del genere in natura. È paradisiaco, sazia quasi la gola e lo stomaco solo respirandolo. La seconda cosa di cui mi rendo conto, mentre la luce si fa più intensa, quasi accecante, è che lo spazio su cui si apre la galleria è qualcosa di francamente… impossibile da pensare, considerando che stiamo per affrontare un demone millenario.

Al termine della galleria, infatti, ci troviamo in un enorme e meraviglioso prato verde, circondato da floride colline ricoperte di fiori. Ha un aspetto curato, eppure naturale, sublime, come se non ci avesse mai respirato singolo uomo. Il cielo è terso, luminoso, di una nettezza azzurra così abbacinante da farmi chiedere se ho mai visto prima il sole. Sembra una giornata primaverile delle più stupende che possa conoscere l’Inghilterra… lontano, tra gli alberi di salice, gorgheggia un fiumiciattolo trasparente che sfocia in un laghetto coperto di ninfee. Ed è seguendo la linea del fiume che intravedo finalmente un enorme casa in stile georgiano, ricoperta interamente da mattoni rossi, con camini alla destra e alla sinistra del tetto, un portico centrale con una piccola finestra rotonda superiore, finestre all’inglese e balconi in ferro finemente lavorati. Sembra così… meravigliosamente perfetta da farmi dubitare seriamente che esista.

Forse, io e Draco siamo già morti e non ce ne siamo accorti… questo, non sembra l’inferno. Ma esattamente il contrario.

È solo dalla mano gelida di Draco nella mia che resto cosciente di me stessa, ricordandomi che forse è l’inferno proprio perché non ne ha assolutamente l’aspetto. Questo posto è solo una pianta carnivora che, con grande sfavillio di colori e suoni, vuole intrappolarci al suo interno. Draco appare meravigliato e titubante esattamente come me, dandomi conferma che la sua esperienza con il demone è stata completamente diversa da quanto sta succedendo adesso.

Se mai era possibile, la nostra perplessità sbigottita aumenta esponenzialmente quando ci rendiamo conto che non siamo propriamente soli al momento. Di fronte a noi, infatti, proprio sotto l’architrave della porta d’ingresso della casa, c’è qualcuno. La sua presenza è così impalpabile e leggera che non l’abbiamo avvertita fino ad ora, sembra persino non respirare. Distinguo a malapena nel nitore della giornata un cenno del capo che vuole essere un invito ad essere seguita. E quindi, con riluttanza e nervosismo, ci avviciniamo a passi lenti e guardinghi, studiando bene la figura esile.

Che non sia Adamar, è evidente: certo, Draco conosce solo la sua voce, ma Helder l’ha sempre apostrofato al maschile. E questa invece è una… donna. Per un attimo, penso che possa essere comunque lui che magari ha cambiato aspetto… ma, non so perché, sono perfettamente convinta e consapevole che non si tratti di lui. La guardo con attenzione mentre mi avvicino, sembra nata per essere inserita in questo clima ottocentesco. È una donna bellissima sulla trentina d’anni, forse solo lievemente più grande di me. Non è molto alta, eppure sembra comunque imponente, autoritaria, statuaria. Ha un fisico asciutto, proporzionato, avvolto in un abito completamente bianco che riluce come se fosse fatto di luce pura. Ancora, è perfettamente in stile ottocentesco: è plissettato sulla gonna lunga e non molto ampia, si arriccia e stringe sotto il seno, descrivendo la linea della vita sottile con una fila regolare di piccole perle bianche. Le maniche a sbuffo lasciano scoperte le braccia lunghe, la cui pelle, come per il viso, è candida, vellutata, senza alcun segno di imperfezione e discromia. Non ha alcuna ruga d’espressione, niente, come se appunto neanche respirasse e fosse una bellissima statua di cera. Solo dai fremiti delle lunghe ciglia nere che racchiudono due penetranti occhi azzurri dalla forma un po’ allungata, si potrebbe intuire che è viva. Sul collo, alcune ciocche dei suoi capelli biondo ramati sfuggono con cura impeccabile dalla crocchia che le raccoglie la chioma, impreziosendo così la linea ferma delle clavicole. I capelli nascondono quasi completamente un ciondolo dalla forma rotonda. È la prima cosa che guardo di lei non appena mi avvicino con Draco: è il cameo di una rosa bianca, lucido come un pezzo di ghiaccio.

Quando parla le sue labbra si muovono appena. Eppure la sua voce ha un colore cristallino, pulito, squillante. Da ragazzina. Sembra di sentire una cascata di campanelli che tintinnano.

“Il signor Malfoy e la signorina Granger?” domanda educata e gentile come una perfetta padrona di casa. Annuisco con sospetto, non prima che abbia gettato un’occhiata a Draco. Da come accoglie la voce con assoluta indifferenza, comprendo che, come avevo intuito, non siamo di fronte al demone Adamar.

“Sua Eccellenza vi sta attendendo…” mormora, scandendo con decisione la parola Eccellenza, come se potessimo dubitare di chi sta parlando “Vogliate farmi la grazia di seguirmi in casa… è un luogo più appartato in cui discutere della vostra situazione…”. Intimorita e messa a disagio dalla fredda cortesia impostata della donna, la seguo all’interno della casa con Draco che sbuffa, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni: “… la prossima volta dovrò noleggiare uno smoking per venire a crepare davanti a questo qui…”.

Roteo gli occhi, spero che nessuno l’abbia sentito. 

Gli ambienti della casa sono modesti e dall’aspetto antico: prevale il legno in noce che ricopre di pannelli le pareti color avorio. Ogni centimetro del pavimento è ricoperto da tappeti di colore rosso, arancio, marrone: tutti toni caldi. Passiamo di fronte a molte camere perfettamente arredate, dove la costante è sempre la presenza di enormi librerie e di arazzi dall’aspetto prezioso. Il senso di stranezza per lo scenario che ci troviamo di fronte, non fa che acuire la mia ansia: più la casa sembra confortevole ed accogliente e più ho l’impressione che Adamar non abbia bisogno di incutere paura con scenari tetri e raccapriccianti. E questo può voler dire solo una cosa, vista la mia esperienza da ex Capo degli Auror.

Non ne ha bisogno.

È perfettamente in grado di pretendere rispetto e di scatenare timore senza ricorrere ad espedienti. Questa casa, questa tranquillità, questa donna calma e pacata, sono solo raffinati mezzi di distrazione. O vezzi estetici.

Ci può fare a pezzi, in qualsiasi modo. Non ha bisogno di null’altro che sé stesso.

E ciò, ovviamente, mi agghiaccia.

Avrei di gran lunga preferito altro piuttosto che questo.

Dopo qualche minuto di silenzio, ci fermiamo di fronte ad una pesante porta di legno intarsiata. La donna la apre con discrezione, camminando all’interno in modo ancora più lieve di quanto non abbia fatto fino ad ora e ci invita di nuovo a seguirla con un cenno della testa. Io e Draco entriamo, riconoscendo una stanza che ha tutte le fattezze di uno studio antico. La parete vicino alla porta è completamente occupata da una gigantesca libreria piena di tomi preziosi, dall’aspetto sdrucito e rovinato, mescolati a libri decisamente più moderni dalle copertine agili e colorate. Di fronte, sulla parete opposta, ci sono tre grandi finestre quadrate da cui si intravede il giardino. Alla nostra destra, c’è un piccolo salottino con un tavolo basso, mentre le poltrone e il divano sono foderate di velluto rosso sangue. La stanza è ancora avvolta da quel profumo gradevole ed intenso, che qui però assume degli accenti ancora più penetranti che danno alla testa. Ma soprattutto noto immediatamente, in contrasto con gli ambienti antichi, la presenza di uno stereo moderno che riproduce della musica lirica. Ascoltando le noti possenti e la voce poderosa del tenore, faccio immediatamente mente locale. E lucevan le stelle. La Tosca di Puccini.

Vengo sconvolta dai brividi, mentre il tenore gorgheggia devastato e dilaniato.

Svanì per sempre il sogno mio d'amore...

l'ora è fuggita,

e muoio disperato!

E non ho amato mai tanto la vita!

… il canto di un uomo condannato a morte, che nel momento in cui sta per lasciare vita ed amore, capisce quanto ami entrambi. Amore. E vita.

Non può essere una scelta casuale, constato con disperazione amara e rabbiosa. Ovvio.

Ed è già un indizio su come agisce questo mostro.

La donna che ci ha guidato fino ad ora, prende posto alla nostra sinistra dove finalmente noto una scrivania ingombra delle cose più varie con una prevalenza per i manufatti in cristallo.

E lì, seduto tranquillamente, c’è… un uomo.

Sussulto leggermente dalla sorpresa e dalla contemporanea ansia immediata che mi comunica: sento ogni centimetro della mia pelle rabbrividire e gelare di sgomento al contraccolpo dall’enorme potere magico che scaturisce da lui. La mia mano inconsciamente corre spaventata al polso di Draco che stringo con paura, facendo qualche passo indietro. Draco chiude la sua mano sulla mia, ha la pelle fredda e sudata. Non ho mai sentito niente del genere in vita mia, nulla… ed ho incontrato Voldemort, il Signore Oscuro che ha distrutto questa terra per anni.

Era un bambinetto in confronto.

Incontrando Voldemort, certo, se ne poteva avere paura… ma non così. Adamar non sta facendo assolutamente nulla, è solo seduto e ha le mani incrociate elegantemente sotto il mento… eppure, quello che sprigiona dal suo corpo… è un potere immenso, nero, oscuro, che penetra in ogni poro della mia pelle, facendomi sentire spacciata e pronta all’implosione. E contrariamente a Voldemort, non ha neanche un aspetto ferino e mostruoso. Nulla del genere. È apparentemente un uomo normalissimo, sulla quarantina, dal corpo slanciato ed alto. Ha i capelli castano scuro un po’ lunghi sulla nuca, con qualche riccio scomposto; scuro è anche il rado pizzetto che gli copre il mento. Gli occhi sono penetranti, taglienti, audaci, e splendono di una luce verde smeraldo. Veste come la donna alle sue spalle in modo decisamente antiquato: pantaloni beige leggermente larghi sui fianchi, una camicia bianca, un fazzoletto al collo di velluto verde, un gilet ed una giacca dello stesso colore. Non mi è dato naturalmente di sapere o intuire se questo sia il suo aspetto da millenni, o se invece abbia il viso di Grindelwald, l’uomo di cui ha preso in prestito il corpo.

Oppure se anche questo aspetto apparentemente normale sia solo un meccanismo per mostrarsi ai nostri occhi.

Da quello che sento del suo potere, potrebbe anche mostrarsi con l’aspetto più comune per rassicurarci, e poi colpirci infido alle spalle. Al momento, sembra il più normale dei padroni di casa: affascinante, gentile, curato, preoccupato persino di fare una buona impressione.

Con le mani larghe e forti fa segno con un sorriso alle due sedie di fronte alla scrivania, invitandoci ad accomodarci.

“Buongiorno Miss Granger. Buongiorno Signor Malfoy…” esordisce con un sorriso serafico, alternando lo sguardo prima su di me e poi su Draco. Sotto la scrivania continuo a stringere il polso di Draco, incapace di lasciarlo andare sotto lo sguardo di Adamar. Il demone fa una pausa ad effetto, sospirando in modo teatrale prima di soffiare fuori con voce entusiasta: “Sono onorato di conoscervi finalmente di persona…”. Da come sento vibrare le vene di Draco sotto la pelle del suo polso, comprendo che ha riconosciuto perfettamente la sua voce. È davvero lui, se mai ci fossero dubbi. Ha una voce cavernosa, roca, profonda, ma comunque pastosa e melodiosa: non ho mai sentito una voce simile. Sembra il suono di un’arpa.

Si adatta perfettamente alle note liriche che continuano a riempire la stanza.

Sbatto le palpebre per qualche secondo, incespicandomi nelle parole: “Tu…”, mi sento irrispettosa e, scornata come una bambina ripresa dalla mamma, mi correggo velocemente in preda al panico: “Lei… è Adamar?”.

Lui fa un nuovo instancabile sorriso dolciastro, guardando la donna alle sue spalle e facendole un incomprensibile cenno d’intesa con il capo, a cui lei risponde con un sorriso timido. Poi torna a guardarmi con paterna pazienza: “Ne è sorpresa? Comprendo le frustranti limitatezze della vostra cultura così avvezza alle etichette. Suppongo che, avendo conferito principalmente con la misera progenie empatica, abbiate maturato l’idea che avessi un aspetto ben differente e che avessi residenza in un luogo diverso…”, finge di rifletterci su per qualche secondo umettandosi le labbra e gettandomi uno sguardo divertito, prima di continuare con voce scontata, come se volesse umiliare la mia deduzione spiccia: “Un demone dovrebbe avere protuberanze sul capo, un miasma sulfureo a circondarlo e magari anche un volgare oggetto a tre punte in mano, come se approntasse delle balle di fieno. Quindi dovremmo anche essere nelle viscere della terra e non in questo luogo ameno…”, abbraccia in un ideale sguardo tutta la lussuosa stanza nonché la vista serena che penetra dalla finestra. Poi sembra avere una provvidenziale illuminazione e prosegue: “Ammetto che però questo argomento è esatto. Siamo vicino al centro incandescente del vostro pianeta… ma non per mia volontà di emulare qualche infernale divinità. Semplicemente perché è uno dei pochi luoghi liberi dalla presenza umana…”. Chiude gli occhi sognante, sembra vagheggiare qualcosa di lontano anni e vite fa: “Adoravo l’Himalaya: così inospitale, algida e persino pervicace nel suo isolamento. Ma poi sono arrivati gli escursionisti… un paio di spiacevoli incidenti… e ho deciso di ritirarmi qui…”.

Tremo al pensiero di chi possa averlo casualmente incontrato e non ho dubbi nel comprendere che cosa sia accaduto a queste sciagurate persone.

La sua voce è amabile e tranquilla, sempre impostata su questo tono volutamente forbito che si snoda in un linguaggio formale ed accademico, ma sembra perfettamente consapevole di chi è, di che cosa fa e della sua natura demoniaca. Non fa assolutamente nulla per nasconderla, la esibisce anzi come se ne fosse sommamente fiero ed orgoglioso.

“Come facciamo noi allora a sopravvivere al centro della Terra?” chiede Draco allora noncurante, come se stesse chiedendo del tempo. Lo guardo sconcertata dal suo sangue freddo. Non so se sia la sua solita spavalderia arrogante che vuole mettere a tacere la paura, oppure se semplicemente ricorda perfettamente come è parlare con questo… demone… ed allora riesce a simulare calma e coraggio.

Raffinata deduzione, signor Malfoy…” si complimenta Adamar con vivo entusiasmo, sporgendosi sulla scrivania per guardare meglio Draco “Ricordavo la sua spavalda arroganza, nonché la sua intelligenza decisamente sprezzante. E lei dovrebbe ricordare perlomeno la mia… voce, giusto?”.

“La ricordo” commenta sintetico Draco con una punta di amarezza sarcastica nella voce.

Adamar sorride sardonicamente massaggiandosi una tempia con le dita in modo volutamente disattento. Il guizzo di un tendine della mascella mi informa, però, che si sta innervosendo. La gola mi si secca, mentre metto a fuoco il modo che ha di guardare Draco.

Ostile, rancoroso, sospeso tra la voglia di farlo a pezzi e quello di capire come funziona.

Ha più o meno lo sguardo che mi tributava sempre Dimitri, escludendo ovviamente alcuna componente di attrazione sessuale. Non so come faccia Draco a starsene seduto calmo e tranquillo, visto anche che il repentino cambio d’umore di Adamar è percettibile anche dall’improvvisa onda calda del suo potere che ci si infrange addosso, come mare su rocce. Poi si smonta così com’è nata: Adamar dismette il suo sguardo acceso, fa un gesto di noncuranza con la mano e sorride rassicurante, suonando solo lievemente infastidito mentre arriccia il naso e le labbra con nobiltà e distacco:  “Non abbiamo vissuto la migliore delle esperienze io e lei, signor Malfoy. Helena Greengrass che si intromette nella sua prova, lei che si ritira… confesso di esserne rimasto molto indispettito… ha incontrato un mio profondo disappunto avere a che fare con lei… non per questo non risponderò alla sua insolente domanda.”, fa una pausa ad effetto studiata ad arte per dare enfasi alle sue parole e verificare se siano andate a segno. Draco resta a braccia incrociate, ma quel luccichio dello sguardo che cela un retaggio di prudenza cauta, soddisfa profondamente l’ego di Adamar. Difatti, con tono più rilassato, prosegue tranquillo e lieve: “Avvertite una temperatura tollerabile, riuscite a respirare in modo adeguato, vedete… tutto questo…”, allarga le braccia comprendendo idealmente la casa ed il panorama fuori dalla finestra, escludendo invece volutamente sé stesso e la donna con lui “…perché io voglio che sia così. Lo chiami pure un retaggio della mia disgraziata esistenza umana, ma potrei definirmi un esteta. Sapete quanti artisti ho personalmente… patrocinato? La ricerca della bellezza è un mio punto debole. Uno dei miei momenti più sereni di questo lunghissimo arco vitale fu al confine tra il Lancashire e il North Yorkshire, nel 1840, in una magione come questa… per questo traggo profondo piacere nella rievocazione mentale di quell’atmosfera bucolica”. Si ferma a lungo a questo punto, quasi innescandoci la curiosità di chiederci che cosa sia successo in questo suo passato secolare per renderlo così felice e voglioso di reminiscenze persino nel vestiario. Ma, naturalmente, non riceve alcuna domanda ulteriore: non siamo venuti qui perché ci racconti la storia della sua depravata vita. Draco risponde con una scrollata noncurante delle spalle, spingendomi ancora a chiedermi che razza di piacere perverso tragga nel provocarlo così apertamente. Dal canto mio, stringo le palpebre ed annuisco impercettibilmente con il capo, sperando che sia sufficiente.

È un uomo incredibilmente vanitoso, orgoglioso e presuntuoso: e questo, paradossalmente, mi rassicura alquanto.

Ha un fondo di umanità con cui posso ancora trattare, intuendo da che lato debba prenderlo per non indispettirlo eccessivamente.

Peccato che questo Draco ancora non lo capisca: non dico che Adamar ci tratterà bene se facciamo i cortesi e gli educati, sottoponendoci ad una prova facile da superare. Ma sappiamo per certo dall’esperienza dei Dubois che, se capisce di essere imbrogliato o preso in giro, reagisce in modo efferato. Potrebbe persino ammazzarci qui, con una semplice scrollata di spalle, non iniziando neanche la Solutio damnationis. In fondo… chi mai potrebbe punirlo per questo? I Custodi dell’Ordine? Lo fanno stare al suo posto da millenni… probabilmente non reagirebbero neanche eccessivamente se ci uccidesse… sicuramente non al punto da eliminarlo. Magari, Adamar sa anche fino a dove può tirare la corda con loro… specie considerando che la corda sono due fragili umani di carne e sangue, come me e Draco.

Siamo già nelle sue mani… sarà anche il caso di rendere quelle mani ancora più vogliose del nostro sangue di quanto già non siano?

È il mio spirito da Auror a parlare: se sai già di essere in condizione di inferiorità, cerchi di guadagnare miserrime posizioni di vantaggio per andartene con dignità.

Non sputi e disprezzi tutto, maledicendo di stare per morire.

Ma Draco è un Serpeverde: fa del disprezzo il suo ornamento preferito.

Tra i due, quella prudente sono sempre stata io.

E del resto non so neanche propriamente come Draco sia sopravvissuto in questi anni, visto quanto poco attento è.

Lo guardo con la coda dell’occhio cercando di fargli capire il mio messaggio.

Adamar sembra soddisfatto dalla mia espressione di partecipazione superficiale e riprende accorato, rivolgendosi ancora a Draco: “Non priverei mai lei e la sua deliziosa compagna di questo armonioso spettacolo. Una donna dalla così conclamata fama merita il migliore dei trattamenti possibili…”, rabbrividisco leggermente, stringendomi nelle spalle quando la sua attenzione torna a me.

Ha il viso costernato sinceramente mortificato, mentre sussurra suadente, lasciando che un raggio di sole gli tagli a metà il viso: “Mi è dispiaciuto non conoscerla personalmente quando ha creato lo Zahir, Miss Granger. Sa che mio malgrado non posso occuparmi più di queste pratiche…”, con un brivido improvviso mi rendo conto che, se la storia non fosse andata com’è andata e i Custodi non gli avessero tolto lo Zahir, effettivamente sarebbe stato lui a vendermi quella distruzione dell’anima. Gemo silenziosamente rievocando ancora quell’antico errore, e le mie dita impercettibilmente toccano ancora il polso su cui si stringeva l’infernale monile. Draco studia le mie mosse, ma resta immobile, forse per non attirare l’attenzione di Adamar con un gesto rivolto a me che simuli debolezza. Stacco quindi le dita dal polso, rischiaro lo sguardo e torno a guardare Adamar che assume un tono estasiato: “Una persona che era sotto il mio controllo l’ha vista in occasione di una qualche celebrazione presso il luogo di lavoro del signor Malfoy… era all’apice del suo potere. Irriconoscibile, implacabile. Aveva la chioma corvina ed occhi della medesima tonalità…”. Sussulto sgranando gli occhi: la sera della festa al Petite peste, quando ero sotto il controllo dello Zahir ed incendiai lo scantinato di Draco.

Forse uno dei giorni peggiori della mia vita fino a quello in cui mi hanno tolto Alex.

Qualcuno che era sotto il suo controllo… era a quella festa… lui mi ha visto tramite quegli occhi servili…

Non vi ha mai ignorato, scoppia di ricordo la voce di Helder nella mia testa.

“Mi dolgo davvero di non averla potuta seguire nella sua vicissitudine…” prosegue Adamar con un sorriso addolorato ed assolutamente sincero, cosa che mi fa ancora di più inorridire “Non vedevo uno Zahir d’Amore da secoli nonché una tale oscura maestria nel gestirlo. Ammetto che, se fossi stato ancora umano, l’avrei persino desiderata…”, Adamar fa una risata timidamente modesta, come se stesse parlando di qualcosa di volutamente enfatico ed impossibile, seppure esibisca il contegno puro ed innocente di un adolescente innamorato. Dubito, però, che sia rimasto qualcosa di così umano in lui da fargli autenticamente desiderare una donna. Credo che l’abbia detto solo ed esclusivamente per mettermi a disagio: me ne accorgo dall’occhiata lasciva che mi lancia e da quella accondiscendente e soddisfatta con cui fissa per un attimo le mani contratte di Draco sulla scrivania.

Innervosita, sollevo fieramente il mento guardandolo storto.

D’accordo giocare alle tue regole, demone… ma queste regole non implicano che tu mi renda il tuo giocattolo mentale.

Adamar prosegue con un lampo di trionfo nello sguardo, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa di importante: “Le buone maniere mi impongono però prima di tutto di porgerle i miei ringraziamenti, Miss Granger...".

"Ringraziamenti?" chiedo sgomenta, aggrottando le sopracciglia. Non posso neanche immaginare che cosa diamine possa aver fatto per meritare i suoi ringraziamenti.

Qualcosa di riprovevole senz’altro.

Per questo sono sbigottita oltre misura quando Adamar chiosa ovvio: "Per avere contribuito alla distruzione del Signore Oscuro. Mi tediava la sua presenza... terribilmente emotivo, ossessionato e tormentato…”, le mie dita si artigliano attorno ai braccioli della sedia su cui sono seduta, mentre i polpastrelli descrivono la trama in rilievo degli intarsi. Tutto potevo immaginarmi tranne che un ringraziamento simile… e specie in questa forma. È come se avesse marcato enormemente la differenza esistente tra lui ed il male comune, al punto che può permettersi di definire un mostro come Voldemort semplicemente come emotivo. E non è assolutamente un aggettivo che avrei coniato sull’incubo di metà della mia vita.

È evidentemente al di là del male… ed al di là del bene.

Al di là di qualsiasi cosa mortale.

Si massaggia stancamente le tempie, ispirando un senso di pietosa comprensione nella donna alle sue spalle che, per il resto, è rimasta sempre immobile. Adamar quindi prosegue in modo volutamente pietoso come a voler instillare affetto nei suoi confronti: “Era causa di continue emicranie. Ero sul punto di intervenire di persona, quando lei e i suoi compagni l'avete annientato. Le sono riconoscente…". Persino la donna mi guarda con espressione cautamente sollevata, come se anche lei mi ringraziasse dell’aver liberato il suo padrone da quella indicibile fonte di irritazione.

Getto un’occhiata in tralice a Draco che, a sua volta, mi restituisce uno sguardo fosco e torbido, non prima di un ennesimo segno di indifferenza nel viso contratto. Non basta questa sua rassegnazione arrogante, però, a mozzarmi le parole in gola.

Non quando si parla della causa della morte di tanta gente che amo.

È quindi inevitabile per me dire a voce più alta ed acuta del normale: "Perché allora non l'ha fermato prima?".

Adamar mi soppesa con lo sguardo con solenne pazienza non prima di aver guardato la sua compagna con espressione indecifrabile, poi si sporge su di me con fare complice e cospiratorio come se stesse per confidarmi un segreto. Non indietreggio neanche di un centimetro, lo sfido con gli occhi a continuare. Ho silenziosamente rimproverato Draco fino ad ora per il modo in cui si era approcciato nei suoi confronti, temendo ritorsioni. Ma adesso, con la nettezza abbacinante di un fulmine, comprendo che non voglio andarmene prendendo tempo e simulando pazienza. Posso essere sgusciante e viscida, acquattandomi nell’ombra e mostrando inveterato rispetto… ma se parla di me. O di Draco. Ma dargli anche un minimo alibi di malcelata accettazione a quello che fa… non esiste al mondo.

Adamar sussurra in modo suadente, lo sguardo fisso sulle mie labbra, l’ombra sprezzante del solito sorriso: "Esaudire un desiderio del signore Oscuro avrebbe significato la distruzione di questo pianeta, Miss Granger. E la vostra razza deve essere controllata, non annientata. Ed ammetto la mia assoluta debolezza nell'essere ancora interessato al destino della vostra progenie degenerata. Inoltre per diversi anni è stato un alleato. Contribuiva a risolvere la sovrappopolazione di questo pianeta. Tutti quegli eccidi... hanno spazzato via molta frenesia umana dal globo...”.

Le mie mani si aggrappano di nuovo ai braccioli della sedia come se stessi per cadere per terra. Con una parte remota della mente, sento un movimento di Draco alla mia sinistra che pare sconvolto e sbigottito, esattamente come me. Voldemort era un suo… alleato. Ammazzava persone… e gli impediva di essere eccessivamente disturbato dai sentimenti umani.

Poi è diventato lui stesso una fonte di disagio… ed è stato grato che morisse.

È così che ragiona. È così che vive: vorrebbe un mondo ammantato di silenzio, poco importa chi sia a renderlo tale.

Se Dio o il diavolo.

La mia espressione evidentemente palesa in modo inequivoco i miei pensieri, perché Adamar si fa indietro con la schiena e guarda fuori dalla finestra, esibendo uno sguardo d’improvviso stanco ed annoiato: “Non pretendo che lei capisca. La moralità è un raffinato esercizio di perversione della vostra stirpe. Una finezza lessicale che io, al contrario di voi, non posso permettermi. Mi creda, ho ancora rimembranza di essa, la conoscevo bene nel tempo in cui ero umano. Ma adesso, dopo millenni, la trovo così laidamente inopportuna nel vostro mondo guasto da considerarla semplicemente una vetusta abitudine borghese. Da puritani, da individui con scarsa visione del disegno unitario. È come pretendere di guarire il cancro con uno sciroppo per la tosse. Sono libero da tempo immemore da tali corruzioni del buoncostume. Perciò comprenderà che, dal mio punto di vista, il gran numero di omicidi perpetrati da Lord Voldemort ha potuto falcidiare una moltitudine di sentimenti assolutamente disturbanti e molesti. E' stato... riposante, Miss Granger. Lo devo ammettere. Ogni tanto, persino un’entità come me può trarre piacere da cose come questa…”.

“E’ una cosa… disgustosa…” esplodo prima di potermi fermare, mentre Draco fa un buffo cenno di gola, traducibile più o meno con “Stavi rimproverando me… e poi sei decisamente molto più brava di me a farlo incazzare”. Sbuffo, senza guardarlo.

Adamar torna a noi con espressione autenticamente divertita, ridendo gaiamente. Ma nelle tenebre dei suoi occhi, è visibile qualcosa di sinistro e di molto meno cortese. Rabbia. Me ne accorgo dalle vibrazioni che si trasmettono ad alcuni manufatti di cristallo, sulla sua scrivania ingombra.

Tremano come se fossero impauriti.

“Mia cara…” ride affabilmente, guardandomi con dolcezza finta, una mano contratta sulla scrivania “Non mi diventi come il suo sgarbato compagno. Non ricevo molte visite, almeno non qui. E sono sempre stato affascinato dall’arte sublime della conversazione. Ho sentito molto parlare di lei, Miss Granger, so che ha delle doti dialettiche molto spiccate. Non troverò una conversatrice così mirabile per molto tempo. Mi conceda perlomeno questa parentesi di piacere in una vita di così opprimente fatica…”, la sua voce si colora anche di una venatura volutamente ironica, accompagnandosi ad un impercettibile movimento delle sopracciglia che mostra arroganza e presunzione. Aggiunge quindi ovvio: “Mi preme anche sottolineare che finanche dura il mio diletto, nonché il mio interesse in voi, potrò evitare di domandarvi che ci facciate qui. Giungendo a dover prematuramente troncare le vostre speranze ed aspettative di vita…”. La sua minaccia pare così gentile che, per un attimo, passa quasi inosservata alle mie orecchie. Poi deflagra con potenza, seccandomi la gola e ricordandomi con potenza che cosa siamo venuti a fare qui.

A morire, sicuramente. Ad uccidere lui, irrealisticamente.

“Quindi conversiamo, sarà decisamente meglio per tutti…” soggiunge gaio con un nuovo irritante sorriso, prima di chiedere con calma facendo un gesto alla donna alle sue spalle: “Tè?”.

La donna fa comparire praticamente dal nulla, senza l’ausilio di alcuna bacchetta, un vassoio con un servizio da tè antico di rame scuro, con delicati intarsi. Per pochi secondi, in un gesto così semplice e casalingo, anche in lei si rivela un enorme potere magico. Poggia il vassoio sulla scrivania porgendoci due tazze dall’odore invitante. È Earl Grey, lo riconosco dall’odore di bergamotto. Eppure, per un secondo, titubo all’idea di bere l’intruglio preparato dall’affascinante tuttofare di un demone millenario: potrebbe anche essere avvelenato. Poi, ricordo con tempismo che comunque vada, quest’essere mi ha in suo potere. Non è nel suo stile propinarmi una bevanda avvelenata. Un rimedio così banale per qualcuno di così potente è decisamente idiota. Sorseggio quindi con calma il tè, attenta a non scottarmi.

Draco, invece, lo porta alle labbra ma non vuota la tazza.

“Domando scusa…” soggiunge d’improvviso Adamar profondamente contrito, poggiando la sua tazza sulla scrivania con un piccolo clangore metallico “Non vi ho presentato la mia diletta Eva. L’ho detto, troppa poca conversazione in questi anni…”. La donna fa un cenno vezzoso con il capo come a volersi presentare, sebbene sia stata presente in questa stanza fino ad ora. La luce del sole che entra dalla finestra fa scintillare il cameo della rosa bianca al suo collo.

Prendendo al volo l’occasione di tergiversare e di assecondare almeno per ora la sua indole ciarliera di modo da capire quante più cose possibili su di lui, chiedo non senza una buona dose di curiosità prendendo un lungo sorso di tè: “Lei è… umana?”.

Adamar pare sinceramente soddisfatto dalla mia domanda come se fossi un’alunna diligente e rispettosa, e squadra Eva dalla testa ai piedi con uno sguardo frammisto tra il rispetto, l’adorazione e la soddisfazione personale. Lei si ritrae umile, piegando la testa.

“Lei è la sola umana degna di vivere sul vostro pianeta…” sussurra Adamar, non distogliendo un attimo lo sguardo da lei come se ne fosse infinitamente rapito “Per questo le ho dato il nome della prima miseranda femmina della vostra specie, sperando che un giorno tutto il mondo diventi come lei…”, i suoi occhi tradiscono una vena reale di emozione, somigliante a quello che in un uomo chiamerei palpito di cuore. Ma in verità, ancora, dubito che sia questo. Ha la gestualità di una persona, non i pensieri e le intenzioni. Quindi sicuramente c’è sotto altro. Torna quindi a guardarmi e previene le mie domande in modo quasi meccanico: “Ma se mi chiede se Eva è come me, oppure se sia come lei, Miss Granger… la risposta è quasi, per entrambe le cose…”.

Quasi…

Quasi umana… quasi demoniaca… che cosa diamine è, allora?

Improvvisamente tutto della donna mi pare clamorosamente artificioso, inumano, impossibile. La pelle liscia, i capelli privi di imperfezioni, lo sguardo trasparente, i gesti lenti. Persino la collana che porta al collo e con cui ora giocherella con due dita. Non poteva essere umana… era naturale… cosa è allora?

“Mi ricordi, Eva, cara, come ti chiamavi prima?” le chiede Adamar, poggiandole con naturalezza e confidenza una mano sul fianco, esortandola ed invogliandola alla risposta. Eva pare emozionata dal contatto, o almeno così dice la sua smania improvvisa di rispondere. Eppure i suoi occhi restano assolutamente indifferenti.

“Mi faccia pensare, Eccellenza… è passato così tanto tempo…”.

“Credo quasi trecento anni…” ride Adamar con il tono di voce di un uomo avanti con gli anni che vagheggia sul tempo perduto.

“Non ho avvertito un secondo di queste decadi con lei, Eccellenza…” mormora lei sicura, azzardandosi per la prima volta a guardarlo in viso, una traccia di rossore sul viso pulito. Adamar le risponde con un sorriso a suo modo grato, a suo modo persino romantico, da cavalier cortese. Ma so che non prova amore… so che non prova niente… e quindi ancora di più, mi stringo alla mia tazza ormai tiepida, chiedendomi come faccia a dissimulare così bene queste emozioni umane. Eva ha un singulto negli occhi chiari, che sembra incredulo e perplesso come se facesse fatica a ricordare e a capacitarsi che quello che rammenta sia vero: “Adesso ricordo. Lucille Dubois. Mi chiamavo così…”.

I sensi mi si mettono subito in allerta.

Angelique e Francois Dubois. I primi e gli unici che hanno provato la Solutio Damnationis, prima di noi. Quelli che il nostro cortese ospite… ha fatto a pezzi.

La voce incerta chiedo dubbiosa, convinta che non possa trattarsi delle stesse persone: “Dubois… come i fratelli della Solutio Damnationis?”.

“Memoria eccellente, mia cara” si compiace Adamar, guardandomi deliziato ed azzardandosi persino ad un entusiastico battito di mani, causandomi un ulteriore spasmo nello stomaco per quanto mi sia impossibile immaginare un collegamento tra lui e le vittime della sua peggiore ferocia. Peraltro ha parlato di trecento anni… questa donna ha trecento anni… che il diavolo ti renda davvero eternamente giovane?

Con i tempi ci siamo.

Angelique e Francois vissero durante la Rivoluzione Francese. Così ci ha detto Helder.

Di fronte al mio sbigottimento, Adamar spiega con lentezza enfatica: “Eva era la sorella maggiore di Angelique e Francois. Empatica anche lei, come tutta la sua famiglia. Aborrì ciò che fecero ai suoi congiunti… la creazione del sentimento incestuoso di amore… e quando morirono, comprese la portata della mia missione. Mi pregò di prenderla al suo servizio, di vincolare la sua vita alla mia, di esistere fino a quando avessi bisogno di lei, di essere mia ancella, compagna e confidente. Ammetto che all’inizio ero dubbioso, non ho mai avuto bisogno di assistenza. Ma quando Lucille ebbe l’ardimento di pormi una richiesta di cui nessun uomo mi ha ancora reso oggetto… mi soggiogò… una donna dalla così consapevole lungimiranza non credo che sia ancora nata…”.

Lucille, o meglio Eva, ha un nuovo sorriso di profondo piacere, sembra inarcarsi come un gatto che riceve le fusa: “Lei mi lusinga, Eccellenza…”.

“Cosa… le chiese?” sussurro spaventata con un filo di voce.

Adamar fa un sorrisino beffardo, saputo, profondamente arrogante, soppesandomi con un’espressione di profonda superiorità morale e fisica. Si guarda persino le unghie per qualche istante ostentando nonchalance, e sorride quietamente ad Eva che gli risponde calorosamente. Poi, sporgendosi, bisbiglia bieco: “Silenzio del cuore. Eva mi chiese il silenzio del cuore. Totale, irreprensibile, insondabile, invalicabile. Non voleva provare più nulla che non fosse la devozione per me…”, rabbrividisco paralizzata, la sensazione di mille granchietti ghiacciati che arrancano sulla schiena, sul collo, sulla nuca, sul cuoio capelluto, ovunque.

Come uno Zahir. Ma totale.

Ci ho quasi rimesso la sanità mentale, perdendo un solo sentimento. Come deve essere stato… perdere tutto… tranne l’adorazione religiosa per un demone?

Mi stringo nelle spalle, cercando di fermare il tremore improvviso che mi ha preso le membra, costringendomi anche a serrare i denti. Non riesco neanche più a guardare Eva, immaginando il tetro gelo che sente dentro: ho come l’impressione che quegli occhi calmi e serafici possano succhiarmi via l’anima dal corpo.

Adamar prosegue soffuso con il tono di una confidenza tra amici: “Lucille sapeva che una parte di lei avrebbe continuato a provare avversione per l’uccisione dei suoi fratelli. Quindi prese questa giudiziosa risoluzione. E devo concedere che la sua cooperazione è stata oltremodo remunerativa in questi secoli… Eva ha meno reticenze di me a viaggiare, trasmette la memoria della mia esistenza a chi ha in sé la capacità di invocarmi. Se non fosse per lei, probabilmente non avrei più menzione in questo mondo. Da una parte i babbani e la loro fetida tecnologia, rinnegante di qualsiasi cosa incomprensibile alle loro piccole e sciocche menti; e dall’altra parte i maghi, che non hanno la più basilare conoscenza dell’origine dei loro poteri, nonché delle loro vite. Non mi sorprende dunque che vi lasciate manovrare a scadenze regolari da tiranni in cappuccio. Eva è diventata essenziale…”, ha un sorriso da diavolo, da mostro, da inferno, oscuro e nero come la notte che fa rilucere gli occhi come se fossero di fuoco liquido. Si fa indietro con la schiena, guardando Eva con una risata, a cui lei risponde con uguale ilarità come se stesse raccontando un aneddoto divertente: “…ma del resto avrei dovuto intuirlo da come sbrigò la questione con quel tale inglese… Dorian Grey… fu davvero un momento… soddisfacente…”.

Impallidisco, mi ritraggo su me stessa e chiudo senza accorgermene la mia mano sulle labbra fredde. Dorian Grey… una creatura da romanzo.

Un uomo che vendette l’anima… per essere eternamente giovane. E ne morì devastato dal vizio e dall’immoralità.

Non era una storia. Non era un romanzo.

Era… vero.

Vendette l’anima a… lui.

Che speranze… abbiamo io e Draco? Quali… se del suo potere malvagio e cancerogeno è metastatizzata da millenni l’intera umanità?

La sensazione di impotenza, di terrore, di disgusto, diventa una cascata di sudore freddo sulla schiena, inasprita ed esacerbata dalla visione di Eva ed Adamar che continuano a sogghignare spensierati, come se stessero rievocando qualcosa di sommamente ilare. Asciugo freneticamente i palmi sudati sul tessuto dei pantaloni che porto, ricavandone solo un ulteriore sensazione di fastidio bollente, mentre il respiro aumenta di frequenza e diventa sempre più simile ad un rantolo scomposto, come se stessi andando in apnea.

È allora che, naturale come un angelo custode, la mano di Draco copre la mia, la stringe forte e mi restituisce calma e coraggio. Lo guardo terrorizzata, il viso cinereo, il respiro che non ne vuole sapere di sciogliersi, gli occhi lucidi, l’ansia che mi gonfia il petto. Draco non fa altro che simulare un lungo respiro profondo, costringendomi quasi ad imitarlo, per poi scuotere impercettibilmente il capo, come se mi dicesse silenziosamente di smettere di fare domande. Ha ragione. Io sarò anche stata il Capo degli Auror… ma come conosce lui il male… non lo conosce nessuno.

Non si deve mai lasciarlo parlare, fare domande, cercare di capirlo… ti trascina in basso all’inferno, senza darti scampo alcuno.

Lui… il male, lo conosce da anni.

Per quello è stato zitto. Per quello non ha chiesto niente. Per quello ha esibito arroganza tracimante rabbia.

Per non farlo parlare…  per non darsi spacciato, per recuperare coraggio.

Non siamo qui a cercare di resuscitare il bene. Siamo qui per battere il male.

E il male non lo si sta ad ascoltare.

Accarezzo con il pollice il palmo della sua mano annuendo, dando segno e cenno che ho capito che cosa mi sta dicendo.

Draco lascia la mia mano prima di commentare scocciato:  “Possiamo arrivare al punto della questione? Non siamo venuti qui a fare conversazione, o ad intrattenerti amabilmente…”.

Adamar ha un moto di stizza nervoso, mentre viene interrotto dalla sua piacevole rievocazione di atrocità con Eva. Ci guarda con espressione disgustata, come se fossimo delle specie di ratti, storcendo le labbra in una smorfia elegante di disapprovazione mentre osserva Draco. Ma stavolta non trova alcun gesto di biasimo o rimprovero in me: anzi gli rimando lo sguardo al mittente con forza.

“Signor Malfoy, se conoscesse le dinamiche della biologia, saprebbe benissimo che al topo non conviene richiamare l’attenzione sull’appetito del felino…” mormora seriamente, non prima di un raffinato ghigno di scherno dipinto sulle labbra sottili “La sua compagna ha avuto decisamente più buonsenso di lei, con il suo delizioso silenzio e la sua vereconda curiosità… ma visto che ci tiene così tanto, possiamo anche dedicarci alle questioni che più da vicino ci competono…”, prende fiato e ci dedica un’espressione neutra come se fossimo appena entrati in casa, mentre incrocia le mani sulla superficie del tavolo ed aggiunge sardonico: “A cosa devo il piacere della vostra visita?”.

“Come a cosa devo il piacere?!” reagisce Draco con violenza, sbattendo i pugni sulla scrivania e facendo incrinare lievemente una statuina antica “La Solutio damnationis, razza di mostro! Siamo qui per questo! Non credo che ci abbia lasciato molta scelta, bastardo… i Karkaroff hanno nostro figlio… e a quanto pare ti sei sempre bellamente impicciato delle nostre questioni…”.

Spaventata dalla sua reazione, nonché enormemente di più dalla ritorsione di Adamar, chiudo la mano sulla spalla di Draco cercando di calmarlo, mentre spio con la coda dell’occhio la reazione del demone. Adamar però non fa altro che sistemare la statuetta spostata dall’impeto di Draco, rimettendola al suo posto, per poi sfregarsi con stanchezza annoiata una tempia con due dita.

“Ah signor Malfoy, lei e la sua indignazione facile…” si rivolge a me con espressione pietosa e compassionevole “Mi dica, Miss Granger, come interloquisce con lui? Deve essere davvero snervante…”, non nego che sono fortemente tentata dal rispondere piccata che non è una passeggiata di salute stare nella stessa stanza con Draco Malfoy e un demone che giocano a punzecchiarsi come ragazzini, ma soprassiedo, esibendo un’espressione incolore. Draco, intanto, appoggia di nuovo la schiena alla poltrona, apparentemente più calmo.

“So perfettamente che siete qui per questo motivo, vi ho sentito mentre pronunciavate l’incantesimo davanti ai signori Karkaroff…” mormora scocciato Adamar, schioccando la lingua con fastidio “Ma ho sperato che la nostra piccola conversazione vi avesse dato il sufficiente tempo materiale per comprendere quanto sia vano quello che siete venuti a cercare qui. Vi lascerei persino tornare indietro se mi confessaste in tutta sincerità che avevate decisamente sottovalutato le dimensioni di tutto quello che vi potrebbe accadere, se doveste porre la vostra vita e la vostra anima in mano mia…”. Lo guardo con un sopracciglio inarcato: non è che avessimo granché scelta se non questo. L’abbiamo chiarito a noi stessi ed ai nostri cari in tutte le maniere possibili. Non avevo alcuna priorità di venire qui, anzi. Quindi le sue minacce sono abbondantemente inutili, giunti qui. Non ho nulla in comune con la causa degli Empatici e, nel mio sano egoismo, potevo anche pensarlo ad infelicitare la Terra con la sua presenza, purché non toccasse chi amo. Ma non ce l’ha permesso. La dissuasione, adesso, è un semplice giochetto mentale… sembra che gli piacciano, in fondo. Per questo ne vengo abbastanza irritata, incrociando le braccia al torace in modo meccanicamente seccato.

“Ci risparmieremmo molti fraintendimenti nonché fastidi e disagi se decidessimo di essere sinceri gli uni con gli altri. Quindi pretenderò da voi la stessa dose di adeguata onestà che adesso vi tributo…” inizia con voce monocorde Adamar ruotando lievemente con il busto, fino ad avere il panorama della finestra davanti agli occhi e non più noi due, come se d’improvviso ci trovasse repellenti “Vi riconosco un attaccamento genuino l’uno nei confronti nell’altra, non siete vittime di un artificioso affetto indottovi come accadde per gli sfortunati fratelli Dubois. Ma è il vostro solo punto a favore. L’unico. Vi ho già detto che adoro le metafore? Rendono complicate immagini molto più gestibili da qualsiasi tipologia di mente. Ve ne pongo una, dunque. La gazzella è vittima e preda naturale del leone. Se le dessimo un’arma da fuoco, avrebbe ogni mezzo per potersi difendere. Peccato che non saprà mai come utilizzare il mortifero utensile. Ecco dunque cosa siete voi due con la Solutio damnationis. Avete un’arma di incredibile potenza, ma non ne conoscete minimamente l’utilizzo. Molto deplorevole. Gli Empatici ha una strana quanto inconsueta abitudine ad indirizzarmi individui di cui io possa fare macero. La Solutio damnationis mette alla prova un’emozione umana che ho già incontrato e non distrutto per ben due volte. Nondimeno, gli uomini si sono incaponiti a volermi battere con l’amore. Madornale errore, ne converrete anche voi. Siete molto più puri ed eburnei nel disprezzo, nell’odio, nel rancore. L’amore è un’emozione troppo multiforme, da potersi considerare pura per alcuno. Necessita di vitale e quotidiano sostentamento di una gamma così ampia di sentimenti positivi, da disgustarmi profondamente. Fiducia, speranza, forza, coraggio, persino una certa ardimentosa dose di sano istinto al sacrificio e al compromesso. E mi duole ammetterlo, ma il vostro sentimento è manchevole di ognuna di queste gradazioni. Non eleviamo un’attrazione sessuale ed un becero attaccamento emozionale ad un grande amore. Neanche in due individui del tutto particolari come voi. D’accordo, avete doti complementari ed elevatissime rispetto alla media della vostra razza. Ma non si esalta una mosca bianca in uno stormo di insetti neri: è pur sempre un parassita che si nutre di letame, mi scuso per la volgarità di questo infelice paragone. Analizziamo i fatti con discernimento, volete?”, fa un lungo respiro profondo e torna finalmente a guardarci, un’ombra di sorriso sulle labbra. Ha un ultimo sguardo per Eva, lei non ha minimamente cambiato espressione a nessun accenno ai suoi famigliari. Adamar quindi prosegue spavaldo: “I fratelli Dubois erano due Empatici dei più valenti, vennero a me dopo mesi di estenuante addestramento, avevano nozioni e preparazione incredibilmente accurate riguardo alla mia intera vita e alla gamma dei miei poteri. Erano persino adorabili nelle loro pose militaresche e nelle loro menti mute, così che io non conoscessi nulla dei loro pensieri e delle loro debolezze. Erano oggetto di un sentimento oltremodo limpido, non come il vostro così sporcato da emozioni negative. Scardinai le loro difese in dodici ore. Ci avrei anche messo meno ma volevo punire la loro incredibile supponenza. Prima demolii interamente le loro menti, annegandoli nella paura. E quando non erano null’altro che fragili gusci tremanti di bieco terrore, polverizzai le loro inermi membra umane. Ricordo ancora la fragranza del sangue della ragazzina, Angelique. Mora di bosco e miele di lavanda. Dolcissima”.

Annaspo con un brivido all’espressione goduriosa e voluttuosa del demone che sembra stia pregustando di nuovo quell’aroma fragrante. Mi porto la mano alle labbra in preda ad un sinistro conato di vomito, che reprimo a stento. Ad incentivare la mia sensazione, è sempre l’assoluta mancanza di reazione di Eva.

“Che cosa sei, oltre ad un pazzo visionario?” esplode Draco con una risata disgustata, guardandolo torvo “Un vampiro, anche?!”.

“Ah no, signor Malfoy. Fu semplice frenesia rabbiosa” lo corregge bonariamente Adamar con un gesto noncurante della mano “Non riuscii a contenermi dal farli letteralmente a pezzi. Mi creda, lei e Miss Granger non correte almeno questo rischio. Non mi state ingannando, non siete così ottusamente sciocchi. Se giungessimo davvero alla Solutio damnationis, avrei enorme rispetto delle vostre spoglie umane. Concederei alle vostre famiglie il ristoro di una degna sepoltura. Non vi state burlando di me, sento l’eco di un affetto che vi ha unito e che ha generato il vostro adorabile figlioletto…”.

“Di cui lei ha avuto responsabilità nella nascita, non è così?” sputo fuori tagliente, come se stessi ingurgitando veleno.

È la sola cosa che davvero sento come fastidiosamente perforante nel mio cervello, persino più del pensiero di morire. Draco, accanto a me, ha un movimento deciso della mano. La contrae e la rilassa un paio di volte, come se si stesse trattenendo dallo spaccare qualcosa.

“Certo, Miss Granger. Dovevo esaudire le volontà della piccola Astoria Greengrass. E nondimeno la richiesta della giovane Astoria era straordinariamente incline ai miei stessi desideri, caso più unico che raro… del resto ciò che è opposizione si concilia e dalle cose differenti nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contrasto… lo diceva Eraclito, un grande filosofo…” mi risponde Adamar con calma guardandomi in tralice. Ha negli occhi qualcosa che mi sfugge, qualcosa che non comprendo, specie in quella citazione colta che sembra attaccata con un pretesto. E che mi fa congelare repentinamente sul posto.

La richiesta di Astoria… quella di avere un bambino Malfoy… era incline ai suoi desideri.

Quali desideri, maledizione?

Adamar fa volutamente sfuggire il filo di quell’allusione, proseguendo atono: “La mia natura demoniaca non ha ancora debellato tracce di una fervida e discutibile curiosità di stampo umano. Non so se compiacermene o esserne ripugnato. Tale stranezza del mio temperamento è stata ampiamente soddisfatta dalla nascita del vostro Alexander. Un fanciullo eccezionale. Non ho mio malgrado alcuna dote di preveggenza del futuro, ma è davvero semplice comprendere che diventerà un valente membro della sua stirpe. Ha ereditato quanto di migliore aveste entrambi, ma c’è qualcosa di interamente suo che potrebbe diventare fonte di enorme potere magico. La vostra avventura con i signori Karkaroff mi ha consentito di conoscerlo molto prima del tempo previsto, ne sono davvero lieto. Sarebbe nato probabilmente solo tra molti anni… o non sarebbe nato affatto. Ma il mio intervento ha facilitato la sua venuta al mondo. Avete generato vostro figlio in modo consenziente, ma ho reso lei, Miss Granger, e mi scusi la crudezza di questo discorso, semplicemente più fertile in quel dato momento. Non ha motivo di esserne colpita più di quanto non sia prevedibile, visto l’enorme divario che caratterizza me e lei, nonché i nostri potenziali, le nostre velleità, le nostre intenzioni. Mi creda, altri non sono stati così fortunati da essere stati così marginalmente interessati dal mio operare. In fondo, avete compiuto le vostre scelte con il massimo grado di libero arbitrio possibile, eravate autenticamente attratti l’uno dell’altra, persino… come si direbbe nel vostro caso?”, soppesa un attimo le parole con espressione fintamente meditabonda, prima di pronunciare caustico: “Giusto… eravate innamorati, scusatemi. È una parola così abusata nel vostro mondo che la rigetto nel suo utilizzo. Dunque gioite della nascita di quello che probabilmente resterà il vostro unico e pertanto indiscutibilmente speciale erede. In un modo del tutto consequenziale, dovreste anche porgermi i vostri ringraziamenti. Ma ho rimembranza della natura fallacemente marcia che vi contraddistingue. Quindi non pretenderò alcun omaggio in tal senso. Ribadirò solamente che è stata vostra specifica volontà entrare nella mia orbita d’azione. Lei, Miss Granger, con lo Zahir. Il Signor Malfoy, richiedendo il mio intervento”.

Roteo gli occhi con una risatina, mormorando ironica, mentre incrocio meccanicamente le braccia: “Ha parlato di essere onesti gli uni con gli altri, no? Ed allora perché non ammette che ha sempre avuto un interesse in Draco?! Perché non ammette che lo ha seguito da quando ha tradito i suoi genitori?”.

Un tremolio sulla mascella di Adamar mi informa immediatamente che devo aver detto qualcosa di clamorosamente sbagliato, che l’ha infastidito profondamente. La sua mano sinistra si stringe a pugno violentemente sulla scrivania, come se si stesse trattenendo furiosamente dal chiudermele attorno al collo. La nuca mi si inzuppa di sudore freddo, mi tiro indietro inutilmente con la schiena e la mia mano corre alla bacchetta, come se effettivamente ci fosse qualcosa da fare contro una sua reazione d’ira. Draco, a sua volta, si sporge protettivo su di me, chiudendomi il polso con la mano e parandomi alla sua vista con la sua figura. Gli stringo una manica della camicia come una bambina, mentre fuori il panorama idilliaco che vedevamo cambia, si trasforma. Il cielo viene solcato da pesanti nubi nere comparse all’improvviso che iniziano a rovesciare acqua mista a grandine sui vetri delle finestre, sul tetto, sul prato. Contemporaneamente si solleva un vento furioso, malsano, inumano, che sembra voler scardinare la casa dalle fondamenta. Sbatte contro gli scuri come una bestia in trappola, ambendo a noi e alla nostra distruzione. La sala cala nel buio, la musica che ci ha accompagnato fino ad ora si interrompe bruscamente sull’acuto della soprano. Mi aggrappo a Draco che mi stringe con il braccio la vita, mentre nell’avvicendarsi dei lampi e dei tuoni, vedo solo gli occhi sinistri di Adamar, adesso stranamente più allungati e dalla pupilla sottile come quella di un gatto. Scintilla l’iride di oro facendoci luce, mentre un’aura di colore nero l’avvolge completamente facendo ondeggiare i suoi abiti. Un paio di soprammobili si infrangono, scaraventando di cristallo su di noi. Draco mi copre, un frammento gli taglia la camicia all’altezza del braccio, urlo preoccupata e spaventata chinandomi su di lui.

La voce di Adamar supera la pioggia, il tuono e il rumore del cristallo che si rompe, mentre urla con voce mostruosa: “Le solite paranoie umane. La solita indefessa alterigia di ergersi al di sopra dei propri stessi simili nella convinzione di essere diversi, migliori, speciali, unici. Non lo siete! Non lo siete mai stati! Siete tutti identica feccia di universo che, per pura clemenza divina, continuate ad insudiciare il globo! Rigurgiti di misericordia e di cattiveria, impegnati a sbattere gli uni contro gli altri come cani rabbiosi! Come potrei minimamente nutrire interesse in uno di voi? Che non sia un interesse allo zittirvi per sempre, al rendervi creature mute ed incapaci di creare nocumento a voi stessi?! Formiche, scarafaggi, ratti… che vomitano odio come amore, e che in virtù di ciò da cui si lasciano manovrare, ammazzano, violentano, uccidono, distruggono. Interesse… io proverei interesse?! Dovreste solo che ringraziare che sia vincolato ad un codice di onore che neanche nelle vostre più rosee aspettative di comprensione potreste minimamente apprezzare, altrimenti vi avrei già estirpato tutti da questa terra!”.

Nel suo ultimo singulto di rabbia, la finestra si rompe ed il vento si abbatte nella stanza, agitando fogli di carta e rovesciando oggetti a caso in un turbine selvaggio. Quando ormai penso che è vicinissimo ad ucciderci, Draco si china su di me chiudendomi tra le mie ginocchia e il suo corpo. Mi stringe forte al suo torace proteggendomi la testa, ed a mia volta, mi stringo alle sue braccia, il rumore del vento che mi impedisce di avere altri pensieri se non quello che, per una sciocca arroganza, me ne sto andando prima ancora di aver davvero provato la Solutio Damnationis.

Poi, soffice come una piuma, la voce di Eva esplode di campanelle come se non stesse succedendo assolutamente niente. Piatta, pacata, con il tono paziente di una madre, dice soave: “Eccellenza, si calmi. È solo un’umana, non può comprendere… non si agiti nel cercare di spiegare…”.

Tutto cessa all’improvviso repentinamente.

Il rumore della pioggia, il vento, il fragore degli oggetti distrutti. Quando Draco ha il coraggio di lasciarmi andare ed io ho quello di aprire gli occhi, tutto è tornato al suo posto. Il sole splende di nuovo fuori dalla villa, la finestra è intatta, Adamar è di nuovo un attraente padrone di casa dallo sguardo giocondo ed educato. Niente più occhi da diavolo: il respiro però non accenna a decelerare nel mio petto. Continua furioso e forsennato e la mia mano si artiglia a quella di Draco, incapace di lasciarlo andare. Discretamente, senza attirare l’attenzione del demone, Draco mi accarezza il dorso della mano con il pollice come a cercare di rassicurarmi. Gli getto un’occhiata che vorrebbe essere ugualmente tranquillizzante, ma mi esce fuori solo un sorriso tremulo ed un pigolio strozzato. Persino la sua camicia è perfettamente integra.

È il demone che abbiamo visto adesso, non la sua incantevole copertura.

Ed è stata la cosa peggiore che abbia mai visto in vita mia.

“Hai ragione, Eva, mia cara. Un’imperdonabile défaillance…” mormora Adamar, voltandosi per guardare la sua compagna che gli rimanda un sorriso accondiscendente, inclinando la testa di lato  “Un’ammissione di collera è implicitamente un riconoscimento di uguaglianza con queste infime creature…”. Senza cambiare espressione, si volta su sé stesso e torna a guardare me con le sopracciglia sollevate per il dispiacere. Il terrore che mi mostri di nuovo quegli occhi orribili mi fa serrare nella mia la mano di Draco, fino probabilmente a bloccargli la circolazione.

“Mi scusi anche lei, Miss Granger. Ho perso la nozione di me stesso…” sussurra accattivante, esibendo un tono così mortificato da spingermi quasi ad implorarlo di perdonare me invece per averlo così sconsideratamente innervosito. Per fortuna, quella considerazione fugace riesce a riportarmi alla ragione ed alla calma. Riprendo a respirare normalmente, mostrandomi superiore e largamente non impensierita dal suo scoppio infantile di nervosismo. Lascio la mano di Draco solo per esibirmi in un gesto noncurante e distratto, quasi dicendo che non è nulla.

“Lei d’altronde è solo l’affascinante pappagallino della gente empatica…” chiosa convincente, scoccandomi uno sguardo di compassione che contribuisce ad eliminare la paura e a far risorgere la voglia di spaccargli la faccia “Lei mi ripete diligentemente solo ciò che ha sentito dire. Non posso darle eccessive responsabilità o volizioni nelle sue inopportune e scorrette supposizioni…”. Evito di rispondergli altro, ma gli scocco uno sguardo spavaldo e per nulla intimorito, a dimostrazione che la sua sceneggiata precedente è stata un abile trucchetto, ma niente più di questo.

Riprende quindi il filo del discorso, spiegando con convinzione: “Non ho mai avuto interesse in Draco Malfoy. Se poi dobbiamo parlare di interesse alla vostra volgare e semplicistica maniera… è sempre stato solo quello di… metterlo a tacere…”, sussulto lievemente ma cerco di non darlo a vedere. Draco, invece, resta assolutamente inerme, le braccia incrociate, come se questo discorso non lo riguardasse affatto.

Adamar riflette per qualche secondo, poi argomenta i suoi pensieri come se si sforzasse di farceli intendere alla perfezione: “Si immagini una notte in cui è particolarmente spossata da una lunga giornata di lavoro, finalmente è a letto e il silenzio l’avvolge dolce e totale. Si immagini che, d’un tratto, nella stanza irrompa il fastidioso gocciolare di un rubinetto che perde. Lo ignora, chiude gli occhi, nasconde la testa sotto il cuscino e cerca di addormentarsi. Ma il tediante suono si ostina a ripetersi costante nelle sue orecchie, destandola ed impedendole di dormire. Ecco cosa è Draco Malfoy per me…”.

“Io sarei presente nella stanza al momento…” sbuffa Draco infastidito “Potremmo anche evitare di definirmi un rumore fastidioso…”.

“Mi scusi, signor Malfoy…” sogghigna Adamar, guardandolo con autentico divertimento “Era il solo modo di rendere il concetto semplice e digeribile anche per voi. Lei non è un’eccezione così rara, non è un qualcosa di così unico della sua specie. Devo dire di essere stato molto tormentato da personaggi come lei in passato. L’evoluzione della società umana ha notevolmente accelerato e diversificato le modalità di espressione dei sentimenti umani, difficilmente riuscite al momento a tacitare ciò che sentite e provate. Avete decine di strambe diavolerie con cui esprimere ciò che di abietto vi scorre dentro. Io colgo soprattutto l’inespresso, il represso, il nascosto. Ciò che non confessate neanche a voi stessi, nel silenzio e nel buio delle vostre camere. Ebbene, secoli fa, nulla si esprimeva di personale, i cuori scoppiavano di infami segreti e di passioni nefaste, credo fosse a causa di un’educazione fortemente nobiliare e resa bigotta dalla religione. Ora non è più così, incontro altri problemi nella mia quotidiana gestione della vostra razza… ma non ne parlerò adesso con voi. Ebbene i sentimenti repressi, essendo celati, sono ben più forti. E mi causano terribile insofferenza ed incommensurabile assillo. I sentimenti espressi sono invece scocciature tutto sommato tollerabili. Dunque, se incontro un individuo che ha ricevuto un’educazione di vetusto stampo e dunque è abituato alla repressione di sé, alla noncuranza, all’indifferenza, può ben comprendere quanto tarlo mi provochi, specie se è ormai uno dei pochi su questa Terra…”, non capisco minimamente dove voglia andare a parare con il suo discorso. Non sta dicendo nulla di così singolare da qualificare come poteva essere interessato a Draco.

Adamar quasi previene, però, le mie rimostranze, mentre soggiunge: “Però, potreste giustamente obiettare che anche in Oriente vi sono ancora forme di educazioni similari e non ne traggo il medesimo tormento. E a quel punto, vi spiegherei sommariamente che Draco Malfoy è abituato alla noncuranza di sé… ma non è lo stesso per il suo cuore…”.

È a quel punto che taccio improvvisamente chiudendomi nelle spalle, ricordandomi con una nitidezza accecante prima rimasta sepolta, che siamo qui davanti a questo demone a farci sviscerare il cuore e l’amore che dovremmo provare l’uno per l’altra. Quello che sta dicendo… non è per me una novità. Lo è certamente meno per Draco che, in tono violentemente veemente, chiede con foga: “Che diamine significherebbe?!”. Adamar mi lancia uno sguardo d’intesa, che si traduce persino in una scrollata di spalle d’impotenza e di presunto riconoscimento della banalità della domanda del mio compagno.

Ho sempre saputo che Draco finge continuamente un disinteresse puro per ogni cosa, ma che…dentro… non è affatto così. Ribolle, rifiorisce ed annaspa di centinaia di cose diverse, da far impazzire. Paradossalmente, Draco Malfoy è una delle persone più sensibili che conosco: ha una lucida e meravigliosa attenzione per qualsiasi particolare ispirante la più ampia gamma di sentimenti. Abbraccia amore come accoglie odio, non rinnega mai nulla di quello che sente e prova. Ma, siccome è semplicemente… troppo… molto più delle persone normali… fa finta di non accorgersene. È un meccanismo di difesa: il solo modo che gli hanno insegnato.

Ovvio che, se Adamar lo percepisce, per lui sia stato un tormento ed un desiderio continuo tacitarlo. Sporcando la sua anima, spingendolo a chiedere il suo aiuto, lo avrebbe ucciso quel massacrante riflesso di viva umanità.

E, visto come lo guarda… come si guarderebbe un dolce… non penso che si sia ancora arreso a quell’idea.

“Signor Malfoy, la sua continua provocazione nei miei confronti sarebbe persino ilare se comprendesse quanto abbia io e sempre il coltello dalla parte del manico…” sorride bonario Adamar, fissando Draco con compassione dolciastra “Devo forse rivelare quanto e cosa provi per quella donna, che le siede accanto? Quanto confonde costantemente adorazione e desiderio, con rabbia e rimpianto? Prova così tante cose nello stesso momento da ammattirmi…”, mi piego su me stessa quasi a volermi rendere invisibile e cancellarmi da questa conversazione, mentre Draco si muove a disagio sulla sedia come se temesse che dica qualcosa di più del necessario. Adamar sorride ancora serafico, poggiando il mento sulle mani incrociate e snocciolando con voce ferma: “Da quando è qui, è stato preoccupato per lei, infastidito da lei, affascinato da lei, infuriato con lei. E tutto questo, sempre, nell’arco di pochi secondi. Se non crede che ne possa ricevere indubitabile oltraggio, allora dovrò ripetere il mio ragionamento di poco fa con termini ben più semplici… è sempre stato così per tutto ciò che ha riguardato Hermione Granger…”. Non sollevo lo sguardo neanche per caso fingendomi profondamente interessata alla moquette verde smeraldo. Non sta dicendo nulla di nuovo, né per me, né tantomeno per Draco immagino. Eppure il terrore che vada a scavare in qualcosa di così profondo da non voler essere ancora né sentito, né affrontato a viso aperto da me o da lui, mi fa soffocare di vergogna ed imbarazzo. Ed è assurdo che adesso tema più questo, piuttosto che concretamente l’ipotesi che ci ammazzi su due piedi.

“Per questo ho compiuto l’enorme errore di valutazione di considerare lei, signor Malfoy, completamente scevro da sentimenti per l’incantevole donna che le siede accanto…” si giustifica frettolosamente Adamar, riprendendo a parlare con voce tranquilla, Draco continua a dimenarsi sulla sedia come se fosse punto dall’ansia di interromperlo “Ha celato l’amore a sé stesso fino a quando ha potuto. Lo cela ancora adesso, sebbene per motivi differenti. Tornando a noi, crede che un sentimento simile, sporco per lei al punto da rinnegarlo sempre e da accettarlo solo quando ne ho può fare più a meno, possa davvero nuocermi in qualche modo? Parliamoci chiaro, signor Malfoy. La osservo da così tanti anni che posso ardire di parlarle in modo franco…”. Fa una terribile e lunghissima pausa, studiata al punto tale da indurmi ansia anche solo con il senso dell’attesa.

Persino il tempo sembra sospeso. Non sento neanche più il suono degli uccelli, fuori dalla finestra.

Quando riprende a parlare, ha una voce completamente diversa, che faccio fatica a riconoscere e che mi fa drizzare la schiena. E’ lenta, lamentosa, scandita, sporcata da un accenno quasi di pianto malinconico somigliante ad una nenia o ad una ninna nanna. Ma è storpia, storta, orrendamente grottesca e cantilenante, al punto da spingere a chiudere gli occhi per un contraccolpo sonnolento.

Quando sollevo lo sguardo, seguendo le sue parole, vedo che Draco non si muove più. E’ immobile, fermo, grigiastro nel volto e con le labbra bluastre. Lo guarda con gli occhi spalancati, le labbra semi-socchiuse e l’espressione stravolta. Preoccupata, sconvolta, mi volto verso Adamar sgomenta e noto finalmente che ha di nuovo quegli orribili occhi di poco fa.

Dorati, con la pupilla stretta.

Continua a parlare con voce monotona e monocorde, come se stesse soffiando fuori una filastrocca vecchia: “Lei, signor Malfoy, non è semplicemente nato per questo. Per le relazioni, per l’impegno costante di prendersi cura di qualcuno, per essere genitore. Mi creda, incontra tutta la mia compassione in questo, l’umanità è da sempre terribilmente incline a dare rilevanza a tali dimessi palliativi per la solitudine a cui intimamente siete obbligati. Ed anche lei, nel suo profondo, ha un’aspirazione perenne a vincere il suo endemico stato di eremo, ma…  semplicemente non le riesce. Crede di essere maturato dai tempi di Helena Greengrass? Certo che sì, si prende cura della sua adorabile e vezzosa figlioletta, ha una magione rispettabile e curata, adorna le pareti di foto del suo passato…”.

Sta cercando di suggestionarlo, sta cercando di convincerlo… che ha ragione…

Draco diventa sempre più bianco in viso, temo quasi che spirerà senza che io possa impedirlo e senza che cambi espressione. Mi guardo attorno, spaventata, cercando qualcosa che io possa fare per fermare la litania del demone. Ma un movimento impercettibile di Eva alle spalle di Adamar mi fa supporre che mi ammazzerebbe lei stessa se osassi fare qualcosa. La sfido con lo sguardo, non mi spaventa affatto ed anzi estraggo la bacchetta mostrandole che non ho assolutamente paura di misurarmi con lei.

Eva, però, volutamente mi ignora, muove solo le labbra un paio di volte, sillabando qualcosa. E semplicemente così, in pochi soffi di fiato, annulla ogni mia energia. Ogni mia volontà.

Improvvisamente… è come se dovessi solo ascoltare, solo stare ferma, solo sapere che non è questo che ucciderà Draco Malfoy, solo rassicurarmi che non accadrà nulla di irreparabile.

Mi lascio andare passivamente a quella forza sconosciuta, mentre Adamar continua a parlare convincente, raccontando quella che, a suo modo, ritiene la verità.

Quella che anche Draco, ormai livido, ha sempre ritenuto essere la verità.

Quella che persino io, a mio modo contrastato ed indocile, ho spesso sperato che non fosse la verità.

“Io e lei sappiamo che non è così, signor Malfoy…” continua Adamar, lanciandomi uno sguardo obliquo di soddisfazione di fronte al mio gelo calmo “Avanti… non divertiamoci in un triviale giochetto nel quale ci fingiamo migliori di quello che siamo. Lei rovina tutto ciò che ama, lo fa a pezzi perché è convinto di non poter essere sul serio oggetto di affetto e di sentimenti sinceri. Dissemina di trabocchetti il sentiero per arrivare a lei, gloriandosi della facilità con cui gli altri individui sovente vengano sopraffatti dalla raffinatezza signorile delle sue tagliole. Prospera e fruttifica in infeconde storie da letto, come quella con la procace signorina Karkaroff. Avrei davvero benedetto una vostra unione. Un tale carico di rancoroso insulto alla vita e all’amore meritava una possibilità. A lei, signor Malfoy, non interessa essere amato: interessa dimostrare che non è degno di esserlo. Ci pensi. Ci rifletta su. La donna che le siede accanto… è un’amazzone. Una guerriera. Ha lottato per lei dal giorno in cui sciaguratamente ha capito di amarla. Ha messo persino al mondo il vostro erede ed era sola, senza alcuna evidenza di rincontrarla. Invece, signor Malfoy, lei è sempre fuggito. Le ha persino offerto in dono un anello maledetto per indurla alla ritirata. Il suo inconscio è straordinariamente autorevole nella premeditazione dei suoi fallimenti. Nondimeno, se vogliamo essere del tutto schietti, non è neanche propriamente una sua esclusiva mancanza. È lapalissiano che non sappia che significa lasciarsi amare, dato che i suoi stessi genitori, scegliendo la sicurezza ed il potere al suo posto, le hanno dimostrato precipuamente che non era degno di essere amato. Un’efficiente profezia, la loro. Preconizzatori di quello che lei, prima o poi, avrebbe fatto loro. Credo che si dica occhio per occhio, dente per dente: curiosa espressione che denota rozzezza, ma indubbiamente è un sintagma lessicale potente. Le metafore sono l’unica cosa salvabile della vostra comunicazione sciatta, ve l’ho già detto, vero?”, ha un sogghigno che gli lascia scoperti i denti bianchi, come se si affannasse a calarglieli nella pelle del collo. Quell’ombra maledetta nello sguardo, quell’improvvisa certezza che potrà anche non ucciderlo fuori ma lo sta ammazzando dentro, rompe con il fragore del vetro rotto l’incanto indottomi da Eva. L’ansia, l’angoscia e la preoccupazione tornano prepotenti nel mio petto, mentre Adamar aggiunge venefico verso un Draco ormai ad occhi chiusi, abbandonato contro lo schienale della poltrona: “L’hanno tradita. E lei ha fatto lo stesso con loro. L’amore filiale è sempre così dannatamente commovente, vero, Eva? Come potrebbe lei, dunque, amare a sua volta?”.

La sola cosa che riesco istintivamente a pensare di fare per metterlo a tacere, è mettermi ad urlare a mia volta: “Smettila! Lascialo stare! Immediatamente!”.

Le corde vocali mi vibrano per il contraccolpo, ma per fortuna la nenia del demone si interrompe: di nuovo i suoi occhi tornano normali, mentre mi tributa uno sguardo sorpreso e meravigliato, prima di un sorriso derisorio e cautamente ammirato. Mi avvicino a Draco sfiorandogli la guancia, ma lo vedo immediatamente riprendere colore, tornare calmo nel respiro e scuotere la testa come a cancellare quelle parole dalla sua testa. Non so se ci riesca effettivamente, ma si limita a rispondermi con uno sguardo sofferto ma tutto sommato sereno.

“Mi scusi Miss Granger, non volevo ignorarla così a lungo…” mormora serio Adamar, guardandomi. Noto immediatamente che stavolta tocca a me. Me ne accorgo da come iniziano a mutare i suoi occhi, da come mi chiamino alla loro vista come se non ne potessi fare a meno, da come tutto inizia ad apparire lontano e sfocato ad eccezione della sua voce cavernosa e piagnucolosa.

“Non sia mai che qualcuno la ignori troppo a lungo, vero?” mi chiede ironicamente, mentre mi volto verso di lui. Stringo le palpebre in un ultimo singulto di volontà, cercando di tenere fuori l’eco malvagio delle sue iridi dorate ma lo sento ugualmente entrarmi nelle ossa, nei pensieri, nel cuore, mentre ripete carezzevole: “Le riconosco grazia e forza, intelligenza ed ostinazione, ma non mi dica sul serio che ha mai davvero investito in questa quantomeno inusuale relazione? Lei non è semplicemente nata per questo. È un’eroina di guerra, la strega più brillante della sua generazione, la prima della sua classe. Ho memorie tangibili di lei, sin da quando era solo una bambina. La seguo fin da allora, sa? Sentivo così tanto parlare di lei, che era diventato un vezzo irrinunciabile in secoli di monotona osservazione della mediocrità umana. L’ho vista eccellere nel pianoforte a cinque anni. Avere la meglio su un troll di montagna ad undici. Risolvere l’enigma del basilisco a dodici. Ho spesso potuto assistere alle sue mirabolanti imprese, fino alla caduta del Signore Oscuro e alla sua ascesa come Comandante degli Auror. Aveva una sfolgorante carriera davanti a sé, bastava allungare la mano per appropriarsene in modo meritato. Ma lei, mia cara, si è fatta vincere dal tradimento del suo innamorato. E lì è cominciata la sua discesa negli inferi: e solo così, solo in questo tortuoso e discutibile modo scelto dal destino, ha potuto incontrare il signor Malfoy…”. Le sue parole mi convincono come se mi stesse raccontando una verità da sempre negata a me stessa, come se avesse sempre avuto ragione e io fossi stata solo troppo cieca per accorgermene. La luce sinistra dei suoi occhi è d’un tratto così forte che chiudo gli occhi vinta ed arresa, reclinando il collo sulla sedia. Sento lontana la voce di Draco, ma non riesco ad afferrarla, schiacciata da quella di Adamar: “Di base, miss Granger, ha semplicemente abdicato a sé stessa e alla sua natura, per amare un uomo così corrotto e marcio come il signor Malfoy. Ci rifletta su. Ha sempre candidamente ammesso con sé stessa di odiare sé stessa, amando lui. La posso però ampiamente rassicurare rivelandole che, molto probabilmente, il suo sentimento è fiorito in condizioni estreme in cui non era in pieno possesso delle sue facoltà e doti intellettive, e dove progressivamente ha cercato giustificazione per le pulsioni fisiche che aborriva provare per quest’uomo, mascherandole nell’egida di un profondo ed incontrastabile sentimento. D’altronde è una fanciulla testarda e caparbia e si deve essere anche impuntata nella missione impraticabile di salvare un uomo impossibile da redimere. È una caratteristica comune degli individui di sesso femminile ungersi il capo d’olio sacro ed armarsi di divina pazienza, convinte di poter cambiare i loro compagni. Le do abbondante merito di aver sostanzialmente trainato l’esito di questa relazione, nella totale inerzia del signor Malfoy. Ma non può realisticamente credere che sia sempre stato questo il suo destino, frustrerebbe enormemente il suo intelletto pensarlo. È qui per un mero incidente del caso, nonché per la progressiva deteriorazione della sua sicurezza a causa delle disastrose relazioni con il signor Weasley e il signor Thomas. Soltanto questa sua versione, mi permetta di dirlo, difettosa, può concepire di amare Draco Malfoy. Ci sguazza nel guano di questa vita al di sotto delle sue reali possibilità perché ha un’indole irritante incline al perfezionismo, e non perdonerebbe a sé stessa ulteriori errori di valutazione. Dunque, una scelta clamorosamente errata l’ha trasformata nella sola possibile, l’ha persino elevata ad un qualcosa di desiderabile che l’ha resa migliore. Ma in fondo a sé stessa sa che non è così. In fondo a sé stessa, sa che giustifica il suo sentimento solo per dare un padre a suo figlio ed ancora trovarsi oltremodo criticabili alibi per perdonarsi di essersi eternamente legata a lui persino con un bambino, sebbene così grazioso…”. Ha ragione, sì, ha ragione, ha sempre avuto ragione…

La mia volontà, ormai, è quasi completamente annullata, mi sento annegare in una sorta di gelatina stopposa che mi avviluppa i pensieri.

Chiudo gli occhi enormemente stanca, ma felice e soddisfatta, come se avessi trovato finalmente la quadra del cerchio e fossi libera infine.

“Mi permetta di darle un consiglio personale assolutamente disinteressato…” aggiunge ancora Adamar con il tono dimesso di un vincitore schivo “Ricostruisca sé stessa mediante il prezioso aiuto del signor Radcenko… ha un bel patrimonio genetico, il signor Radcenko… Aleksandra Fëdorovna Romanovasbalorditivo…”, chi diamine è Radcenko? Il nome… questo nome… mi sembra… familiare… “La ama in modo del tutto sincero…”, ma certo, che idiota… Ilai Radcenko… il marito di Tatia Krasova… ora ricordo. Lui è innamorato di me, è vero… sta rischiando la vita per me e per mio figlio… i miei occhi si aprono appena, come in un’assolata mattina di domenica dove la riluttanza a svegliarsi confonde veglia e sogno.

Solo che io non ho davanti a me il sole… ma quegli occhi malati da diavolo.

“A quanto pare, si è accorta dei suoi sentimenti anche di recente…” insinua Adamar con un filo di voce appagato, ed è lì che avverto di nuovo la sensazione di un fragore di vetri nella testa, assieme alla sensazione di uscire dall’apnea.

Ilai. Ilai che mi ama. I suoi pensieri. Il matrimonio. Nostra figlia. Io che sono innamorata di lui.

“Assonanti alchemici, un classico. Mi lasci indovinare? Telepatia empatica… deve essere stato straziante…” prosegue Adamar convincente, ma io ormai non lo ascolto più.

Io che sono innamorata di Ilai. Draco che è qui, Draco che non lo deve sapere, nessuno lo deve sapere. Neanche io, neanche Adamar, neanche Ilai. Nessuno lo deve sapere.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Spalanco gli occhi, torno dritta con la schiena, mentre Adamar termina con voce atona: “Non deve per forza finire così, mia cara signorina Granger. Torni da lui. Si dimentichi di una parte di sé che non le appartiene affatto. Sarà straordinariamente più semplice così… non è stanca di combattere sempre da sola, per un uomo che non l’amerà mai come merita?”.

Le sue ultime parole, però, gli muoiono in gola.

Infrangendosi come il vaso di cristallo che faccio rompere in mille pezzi, il fiato corto, puntandogli contro la bacchetta.

Adamar, tornando alla sua forma normale, mi guarda di nuovo con quel senso sdegnoso di orgoglio frammisto ad ammirazione, nonché ad una punta di quieta irritazione e fastidio. Mentre riprendo fiato mi accorgo che Draco è in piedi, un braccio teso contro Eva a puntarle la bacchetta in direzione del torace. Anche lei, nonostante la sua solita maschera impassibile di fierezza fredda, appare lievemente impallidita. Deduco quindi che Draco non si è fatto incantare dalla sua magia tranquillizzante ed anzi ha cercato di fermare il demone minacciando lei. Non so se avrebbe avuto effetto in ogni caso, ma almeno mi rassicura sul fatto che sia riuscito a contrapporsi alla loro malia. Non appena vede che ho ripreso lucidità, si avvicina a me chiedendomi sommesso e preoccupato: “Stai bene?”.

Annuisco senza forze, la voce ancora in gola ed arenata dal fiatone. Mi specchio nei suoi occhi grigi, cercandovi tracce della possibilità che abbia udito le parole di Adamar in riferimento a me ed Ilai. Ma non trovo qualsiasi violento riflesso che mi farebbe capire che ha intuito qualcosa o che si sta chiedendo che cosa sia accaduto in riferimento alla telepatia empatica. Quindi, il mio respiro finalmente si rilassa e calma sotto lo sguardo ancora sommessamente divertito di Adamar che, invece, dal canto suo ovviamente freme entusiasta.

Lo guardo ad occhi socchiusi, mentre Draco si erge di nuovo eretto.

Gli ho offerto, mio malgrado, il mio peggiore nervo scoperto: la consapevolezza di amare un’altra persona oltre Draco, nonché l’angoscia che lui lo scopra. Difficile che non usi tutto questo a suo favore, anzi… sarà il suo grimaldello privilegiato per farmi a pezzi. Probabilmente lo supponeva già, visto com’è andato a colpo sicuro nominandomi Ilai. Del resto condivide la conoscenza dei Karkaroff, ovvio che abbia notato che io sia legata ad Ilai.

La Telepatia Empatica… come faceva però a saperlo?

In un modo però imperscrutabile, comprendo improvvisamente che non è una cosa negativa che lui sappia questo. Anzi, sorrido interiormente, non lo è affatto. Come supponeva Helder, più ci crede lontani, più abbassa la guardia. Più è convinto che il sentimento tra me e Draco sia estinto e più supporrà che sarà facile distruggerci.

Sbagliando, naturalmente.

Helder ci ha spiegato che la sua grande pecca, adesso, è che non riesce appunto ad immedesimarsi nei sentimenti delle persone. Per lui, quindi, comprendere che io ami Ilai esclude automaticamente che io ami anche Draco. Invece, questa netta semplicità non è tipica del cuore di nessuno. Si ama, purtroppo, in decine di modi diversi e in decine di modalità contemporanee. Ma ovviamente a me conviene che pensi tutto questo. Certo, sarebbe stato meglio non reagire in modo così affrettato… ma devo proteggere Draco da questo.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Io posso, a malapena, convivere con me stessa e con questo segreto.

Lui, semplicemente, non ce la farebbe.

Del resto, però… c’è qualcosa che mi sfugge. Dubito che questa sia la Solutio damnationis: questo giochetto di ipnosi mentale, dove ci dice velatamente quello che noi stessi già sappiamo. Ne dubito perché in fondo non è poi così impossibile infrangerlo e la Solutio damnationis… non dovrebbe essere così, altrimenti avremmo già vinto e tanti saluti. Inoltre, ha un’arma così potente come i miei sentimenti per Ilai da rivolgere contro Draco… eppure non lo fa. È come se stesse semplicemente… giocando. È un demone, certo, magari si diverte così. Ma ha già ampiamente dimostrato di essere pragmatico. Fa le cose per scopi ben precisi, mettendoci efferatezza solo se ben finalizzata ai suoi scopi.

Quindi… sta perdendo tempo.

Perché? Mi chiedo, soppesandolo con lo sguardo. Poi, sebbene stia guardando l’ennesimo sorriso soddisfatto del suo volto, comprendo con velocità che cosa sta accadendo.

Vuole convincerci a non provare la Solutio Damnationis. Vuole che torniamo indietro, capendo di essere spacciati. Non ha messo in mezzo Ilai per distruggere Draco. No. L’ha messo in mezzo perché vuole darmi un elemento per tornare indietro.

Mi scappa un sorriso quasi di trionfo mentre lo squadro senza soggezione, avvolta da un nuovo ed insperato calore. È così maledettamente potente e dannato e per questo è difficile accorgersene… ma ha paura della Solutio Damnationis. Ne è terrorizzato. Ed è l’unica cosa che non pensavo davvero che potesse accadere: che avessi persino una remota chance di farcela, visto che ci teme.

… e ci teme perché, in fondo, per lui siamo come due mine vaganti. Non sa davvero che cosa proviamo l’uno per l’altra. Non lo riesce a capire.

Del resto non lo capiamo neanche noi… figuriamoci se può capirlo lui…

Non sa soprattutto che deve temerci per un altro importante motivo. Il più importante.

Nostro figlio.

Io e Draco possiamo essere ai lati opposti della vita, del mondo e dell’amore, adesso.

Ma c’è una cosa che non ci separerà mai: Alex.

Mentre continuo ad inseguire il filo logico dei miei pensieri, Draco si rivolge ad Adamar con voce stufa sillabando un: “Hai finito?”.

Il demone trasale per la prima volta da quando l’abbiamo incontrato, autenticamente meravigliato, chiedendo stupefatto: “Che cosa?”. Persino Eva a suo modo sembra sbalordita.

La sola che invece sorride e sembra assolutamente consapevole di che cosa sta accadendo, sono io.

Anche Draco l’ha capito. Ha capito che sta facendo.

A suo modo sicuramente…  ma ha capito anche lui.

Lo guardo quasi orgogliosa, mentre mormora con tono di voce volutamente pedante, incrociando stancamente le braccia al petto: “Stavo semplicemente chiedendo se hai finito, perché in caso contrario mi faccio un altro solitario mentale di carte. O magari la tua sguattera qui mi porta un’altra tazza di tè… almeno ho un’occupazione mentre continui a ciarlare in maniera inutile…”.

“Ciarlare in maniera inutile?!” erompe Adamar con una risata nervosa e scandalizzata, mentre getta uno sguardo sconcertato ad Eva “Negherebbe pertanto che io stia dicendo la verità, signor Malfoy?”.

“Oh no, mio caro. Le tue argomentazioni veritiere vanno assolutamente al segno…” commenta Draco, scimmiottando la sua voce e poggiandosi con un fianco alla scrivania in posa negletta “Fanno persino male. Te lo riconosco. Ma credi forse che io e la Granger non ci siamo abituati? Credi forse che la nostra relazione sia stata un’allegra passeggiata tra le rose, per usare una metafora a te gradita? Credi forse che non abbiamo già provato tutto il male possibile in questi anni? E credi forse che, dopo quello che io ho fatto a lei e dopo quello che lei ha fatto a me, esista ancora qualcuno che possa farmi lo stesso male che può farmi lei solo con una parola? Demone, sei un moccioso che mi punzecchia per avere il gelato in confronto a lei…”, trattengo il respiro chiudendo gli occhi, il sorriso di fiducia che si smorza un po’, mentre lui prosegue amaro, ma indiscutibilmente sincero: “Il bello e il brutto di questa… relazione… è che ho concesso solo a lei in tutto l’Universo di avere ancora il potere di farmi davvero male. Credimi abbiamo esaurito il male che ci possiamo fare… consolati che abbiamo esaurito anche il bene che ci possiamo fare, facendo nascere nostro figlio, quindi l’avrai vinta con questa dannata Solutio qualche-cosa. Tutto il resto è solo pappa insipida che mi rende al massimo annoiato”.

Sento l’eco delle sue parole in un punto soffuso del mio cervello e del mio cuore, ma le lascio andare concentrandomi solo su quello che ha capito anche lui.

Adamar sta perdendo tempo. Ci sta solo tormentando inutilmente.

“Lo sconcerto è qualcosa che non provavo da diversi lustri. Le riconosco il merito di avermi indotto il ricordo di questa sensazione…” commenta asciutto Adamar, scoccando a Draco un’occhiata penetrante subito prima di guardare me con un sorriso storto: “Se lei prova solo noia al momento, crede che la signorina Granger qui provi la stessa cosa che prova lei? Magari sta davvero riflettendo sul senso delle mie parole…”. Torno a guardarlo, come se mi avesse punta un ago, drizzandomi sulla sedia.

“Figuriamoci se la Granger è d’accordo con me, demone…” dice Draco noncurante, prima di guardarmi con espressione riflessiva e sorridermi piano, dolcemente. Gli sorrido a mia volta, arrossendo e dimenticando le parole che ha detto poco fa, mentre continua delicato non smettendo di guardarmi: “Ma la conosco quell’espressione. Non è annoiata… anzi. Probabilmente ha capito qualcosa che a me non è passato neanche per l’anticamera del cervello. Chiediglielo. Quando si puntella così sui piedi come se non riuscisse a stare ferma, è perché smania dalla voglia di dirlo…”.

“Il Signor Malfoy ha ragione, miss Granger?” biascica irritato Adamar “Ha davvero intuito qualcosa di così nascosto che persino a me è passato inosservato?”.

Guardo Draco ancora per un secondo, specchiandomi nei suoi occhi, mentre lui annuisce piano, dandomi coraggio. Poi mi volto verso Adamar, sporgendomi come ha fatto spesso con me, come se stessi per rivelare un segreto. Mi umetto le labbra prima di soffiare fuori con la migliore delle mie voci impostate e calme: “Mi creda, mi duole ammetterlo, ma lei può anche sfoderare una lista ben nutrita dei miei successi accademici, nonché snocciolarmi tutto ciò che ho provato e sentito in questi anni, persino nei meandri di me stessa…”, faccio una voluta pausa ad effetto mentre respiro forte guardandolo negli occhi in modo serio, sapendo che sta sicuramente pensando di nuovo ad Ilai e sfidandolo di nuovo ad azzardarsi a farne menzione. Adamar, però, mi scocca un’occhiata distratta, evidentemente più preso dalle mie parole che da questo, incoraggiandomi a continuare: “Ma qui quello che mi conosce meglio… è Draco Malfoy…”. Ancora mi fermo, lasciando quasi che il mio compagno si prenda tutto il merito della sua osservazione, mentre io tamburello volutamente disattenta sulla scrivania e mi massaggio lentamente il collo. Poi riprendo casuale: “Notavo semplicemente, e non nego con una certa dose di curiosità, le sue argomentazioni per convincerci di essere spacciati. Quasi come a convincerci a non tentare la Solutio damnationis… perché, se ci considera inferiori rispetto a lei, ci vorrebbe dissuadere? È così carente in fatto di divertimento che dovrebbe trarre solo piacere dalla nostra distruzione… o è diventato un angelo custode dal demone che era? Ce lo dica, perché noi dobbiamo combattere un demone, non un preoccupato fratello maggiore che elenca i motivi psicanalitici per cui non siamo fatti l’uno per l’altra. Mi creda, li conosciamo. E non ha mai fatto alcuna differenza… ci siamo arrivati molto prima di lei, se è per questo…”.

“Ti avevo detto che aveva capito qualcosa…”mormora Draco alle mie spalle con voce tra l’orgoglioso ed il tronfio “Avrò un problema irrisolto con la figura di mio padre. Ma fare due più due ci arrivo ancora…”.

Adamar soppesa le nostre parole per qualche secondo, guardandoci in modo autenticamente confuso e disorientato, cosa che rende il suo bel viso solcato da una ruga profonda in mezzo agli occhi: “Siete coscienti di non avere un sentimento in grado di battermi… eppure volete sfidarmi ugualmente? Ammetto di essere confuso. Ed anche questa è una sensazione nuova… che giornata interessante…”.

“Non è l’amore che proviamo l’uno per l’altra ad essere assoluto…” biascico con un filo di voce, ritrovandola poi negli accenti finali per suonare quanto più chiara possibile: “Quello può essere battuto, annientato, sconvolto. Lo sai tu e lo sappiamo anche noi. Ma c’è una cosa che non puoi neanche pensare di toccare, Adamar…”, sospiro a lungo, quasi per nascondere le lacrime e la nostalgia nel sottofondo di me stessa: “Ed è l’amore per nostro figlio. Se la Solutio damnationis è il solo modo di saperlo al sicuro, è il solo modo che avremo di vivere. Fattene una ragione…”.

“Lo vedi che siamo ancora d’accordo su qualcosa? Dovremmo usarti come terapeuta…” commenta Draco ironicamente, guardando con finta innocenza Adamar “Che dici, riesci anche a risolvere il mio perenne conflitto con gli ortaggi arancioni? Mi sconvolgono perennemente!”. Mi scappa una risata spontanea e non premeditata che ha l’effetto mio malgrado di smorzare molto dell’aura solenne che avevo assunto. Però in fondo non me ne pento nemmeno. Qualsiasi risata mi sia rimasta, meglio che spenda subito.

Adamar resta ancora in silenzio per qualche attimo, profondamente confuso e turbato. Mi accorgo del suo stato d’animo, se così si può ancora definire vista la sua natura non umana, da come cambia lo scenario all’esterno. Il sole scompare dietro una nebbiolina rada ma coprente, tutto crolla in un’oscurità ghiacciata ed oscura, come se facesse improvvisamente notte. La brina ricopre i vetri delle finestre ed un brivido mi fa annaspare di freddo. Eva, dal canto suo, non fa altro che andare a chiudere le finestre, accendere candele qua e là e rintuzzare il fuoco di un camino che non avevo notato prima. Lo studio viene quindi avvolto da una luce liquida e decadente, che scava il viso di Adamar di profonda riflessione, mentre Draco batte impaziente il piede per terra in attesa.

Alla fine, il demone rilassa le spalle ed abbandona le braccia sulla scrivania, apparendo quasi stanco e demotivato. Poi dice asciutto: “Mi compiaccio del vostro sangue freddo. E persino della sua ironia inopportuna, signor Malfoy. D’altronde credo che non sia prerogativa del mio ruolo dissuadere la gente dal suicidio. Se è la Solutio damnationis quello che volete… ebbene l’avrete… non avrete più alcun genere di sconto o premura da parte mia… versare sangue magico dei più valenti mi avrebbe rattristato, lo avrei considerato un tremendo spreco… ma se è quello che desiderate, così sia…”.

Draco immediatamente riprende posto accanto a me, sfiorandomi non meno che casualmente la schiena con una mano, come se mi dicesse intimamente che sta per cominciare e che dobbiamo essere pronti. Annuisco gravemente con il capo, non so se a lui o se al demone, e asserisco composta: “Bene… ci dica solo che cosa dobbiamo fare…”.

Adamar sbuffa, di nuovo molto meno che elegantemente rispetto a quanto ci abbia abituati fino ad ora, e poggia il mento sulle mani incrociate, sospirando a lungo. Poi laconico elenca: “Nulla, in realtà. La Solutio damnationis non è una prova di abilità, o una corsa campestre, o un duello all’arma bianca. Metterò alla prova il vostro sentimento. Vincerò dove dimostrerò senza oppugnabile dubbio che ciò che vi lega è assolutamente sacrificabile in virtù di altro… di ciò che ritengo essere il vostro autentico desiderio. E che non contempla primariamente l’altro nella mia opinione. Portando corruzione sul sentimento che vi anima, fiaccherò progressivamente le vostre menti. Dalla graduale deteriorazione delle vostre componenti psichiche deriverà inevitabilmente un decadimento fisico, realisticamente culminato con la vostra dipartita precoce. Ovviamente dove riuscirete ad opporvi a tale corruzione di voi stessi, vincerete la prova ed io cesserò di esistere…”, fa di nuovo una smorfia ben poco raffinata, come se stesse mangiando qualcosa di disgustoso e come se ancora la questione gli portasse più tedio che preoccupazione effettiva sulla possibilità di perdere.

Tamburella lievemente con le dita sulla scrivania, come un impiegato annoiato che spiega l’ennesima procedura al cliente pedante, sebbene stia realisticamente parlando di come perderemo la vita e non di come accendere un mutuo con la filiale di una banca. Fa un cenno distratto ad Eva ancora occupata con le sue faccende, e la donna ritorna silenziosa al suo posto.

Poi continua smorto: “Lo stato fisico e mentale in cui terminerete la prova è legato indissolubilmente al tempo che impiegherete. Più tempo restate bloccati nella mia opera corruttiva, peggiori saranno le vostre condizioni al vostro improbabile rientro. Per voi potranno essere trascorsi anni, ma nel tempo reale potrebbero essere passati solo pochi secondi. Qualora perdiate, le vostre menti saranno bloccate nell’incanto che vi indurrò. E le vostre spoglie, come vi ho promesso, saranno ridate alle vostre famiglie…”, la sua voce diventa noiosa e nasale mentre specifica grave: “Come da accordi con i Custodi dell’Ordine, per ovviare alla patologica disparità di poteri che ci caratterizza, vi è concessa una sorta di scappatoia all’incanto che vi somministrerò, la quale ovviamente è resa segreta per garantire la genuinità della prova…”, ci riflette su qualche secondo, sfiorandosi la mano con il mento. Un guizzo d’oro gli si accende nello sguardo, liberando una scarica di potere che mi fa annaspare a disagio come se mi avesse tolto il respiro per un attimo. Tossisco, la sensazione di un corpo estraneo in gola, mentre mi accorgo che anche Draco fa lo stesso.

Un incantesimo. Ci ha fatto qualcosa.

Adamar guarda Eva, poi conclude soddisfatto recitando compito: “…il giunger palma a palma è il bacio dei pii palmieri…”. Eva annuisce conquistata, mentre io, che ci sto capendo sempre meno, intuisco solo che ha mormorato dei versi di Shakespeare.

“Romeo e Giulietta”, se non ricordo male.

Mi riprometto di mantenere a mente questa informazione per la prova, sebbene adesso mi sembri poco importante.

Adamar allora continua indifferente: “Mi impegno inoltre a consentirvi il ritorno, ove vinciate… scusate la trafila burocratica… ma come intuite ho superiori a cui fare riferimento…”.

“Vai tranquillo, tanto non ci ho capito niente… puoi continuare serenamente per altre due ore e mezzo…” borbotta Draco, scocciato.

“Che cosa ci succederà insomma?” chiedo io ugualmente frustrata.

Adamar ancora non risponde roteando gli occhi esasperato, poi stende la mano sulla scrivania. Sulla superficie del legno, appare un bagliore dorato che mi fa strizzare gli occhi infastidita. Quando scompare, noto il più curioso e strano oggetto che abbia mai visto. Mi sporgo lievemente studiandolo con attenzione, mentre Draco sbuffa di fronte al mio interesse accademico. Per molti versi somiglia ad una scacchiera: è difatti un piano dalla forma vagamente quadrangolare, su cui ci sono diversi tipi di pedine. Ma le somiglianze finiscono decisamente qui. La prima differenza è il piano d’appoggio: non è a scacchi bicolori, ma assomiglia ad una strana superficie acquosa, costituita da quelli che sembrano minuscoli filamenti iridescenti e variamente intrecciati tra loro. Le pedine, poi, sono tutte dello stesso colore e tipo: trasparenti come cristallo. Si muovono da sole sulla superficie liquida, come se pattinassero sul ghiaccio. Le conto mentalmente, raffrontandole ai pezzi che conosco. Due hanno le stesse fattezze del Re e della Regina e sono le sole assolutamente immobili sulla scacchiera. Ci sono poi una serie indefinita di Cavalli, divisi stavolta in pezzi bianchi e pezzi neri. Questi sfrecciano come dannati urtando spesso gli Alfieri, anch’essi in buon numero. Infine al limitare del perimetro, ci sono le Torri. Sono tre, tutte dello stesso colore chiarissimo. Una di esse è illuminata in modo irregolare e pulsante, Adamar la sfiora con un dito con un nuovo sbuffo infastidito, annuendo e guardando di nuovo Eva che fa un ulteriore e serio cenno di assenso. Non conto alcun Pedone.

Adamar, però, a parte l’interesse subito accantonato per la Torre illuminata, sembra non prestare alcuna attenzione alle pedine in movimento febbrile. Con un nuovo movimento della mano, sotto lo sguardo esterrefatto mio e di Draco che non abbiamo mai assistito ad una scena simile, copre di un bagliore nero ed oro la scacchiera. Dalla superficie lanuginosa, come se ci fosse un doppio fondo segreto, compare un nuovo pezzo somigliante in tutto e per tutto ad un Alfiere ma stavolta di colore scuro, opaco, come se fosse bruciato. Adamar lo osserva pensoso: alcune maglie di quella strana sostanza stopposa restano avviluppate sul pezzo estratto. Adamar le afferra scientemente e con attenzione con le dita, dipanandole davanti a sé: adesso quelle strane maglie mi appaiono quasi simili come consistenza al contenuto di un Pensatoio. Hanno la stessa stopposità lanosa e fumosa, quasi impalpabile, salvo che splendono d’oro e sono intrecciate profondamente, proprio come dei fili di seta.

Adamar annuisce ancora, guardando i fili nella sua mano, e li tocca in tre punti diversi, sciogliendo altrettanti tre nodi.

Mormora quindi tra sé e sé, quasi dimenticandosi di noi: “Unum solum in tribus”.

Alla buona, sforzandomi ancora di capire che cosa diamine stia facendo, traduco mentalmente il sintagma latino. Uno solo… tra tre.

A quel punto, Adamar si ricorda di noi come se li fossimo improvvisamente capitati di fronte, mentre giocherella con i fili adesso perfettamente dritti tra le sue mani.

Sussurra quindi enfatico: “Conoscete la storia del battito di ali di una farfalla che genera un uragano dall’altra parte del mondo? Voi umani vivete vite caratterizzate da codesti paradossi. Una sola decisione, una sola singola e minuscola risoluzione differente genera effetti a catena inimmaginabili…”, guarda con affetto i fili dorati nella sua mano sfiorandoli con due dita, mentre si rivolge a noi: “Che cosa singolare… se i suoi genitori non l’avessero tradita, signor Malfoy, Helena Jasmine Greengrass non sarebbe venuta al mondo…”.

“Che cosa?!” chiede Draco con un piccolo sobbalzo, domandandosi probabilmente come me che cosa c’entri questa supposizione adesso.

“Intuitivo a ripensarci…” riflette tra sé e sé Adamar, chiaro ormai solo a sé stesso e molto meno a noi due “Se Narcissa e Lucius fossero stati due genitori ben più legati al loro figlioletto di quanto lo sono stati sul serio, non avrebbero partecipato attivamente alle missioni del Signore Oscuro, neanche quando un erede non era ancora nato. Magari per amore della loro futura famiglia o per semplice quieto vivere, faccia lei. Quindi si sarebbe reso necessario che qualcuno subentrasse al loro posto. Qualcuno come… i Greengrass. E sarebbe stato oltremodo comune che Lara Greengrass, incinta del suo primogenito, lo perdesse deprecabilmente in una delle suddette missioni… spogliando il mondo della possibilità di conoscere una terza sorella, prima di Daphne ed Astoria…”.

“Non capisco perché ci sta dicendo tutto questo…” chiedo ancora spaesata, gli occhi che continuano a corrermi sulla scacchiera.

Ancora i pezzi si muovono a casaccio, descrivendo trame di luce torbida nel reticolo di fili su cui scivolano.  

Adamar posa i fili che aveva tra le mani sulla scrivania, prima di guardarci ferino e sussurrare con voce bassa: “Siete figli del tradimento. Quello che lei, Miss Granger, ha subito dal signor Weasley. E quello che lei, Signor Malfoy, ha patito a causa dei suoi genitori. Le vostre decisioni sono corollari di questo. Vi siete incontrati ed innamorati per questo. Siete persino diventati differenti a causa di questo…”, ci lancia una lunga occhiata penetrante, la luce delle candele mangiano il suo viso rischiarando i suoi occhi di bagliori aurei. Spaventata mi accorgo che, di nuovo, la pupilla si sta restringendo.

Afferro la mano di Draco stringerla forte nella mia, cosciente che non la lascerò in qualunque inferno ci dovesse scagliare.  

“Mi limito solo a raddrizzare il corso degli eventi…” prosegue Adamar conciliante con un sorriso perfido sul viso, gli occhi ormai di nuovo demoniaci “Senza queste sciagurate circostanze, non avreste nemmeno lontanamente concepito di nutrire qualcosa di rasente la stima l’uno per l’altra. Non ne avreste mai sentito il bisogno… se non fosse stato per l’incantevole Alfiere russa…”.

Continuando a non capire di che cosa sta parlando e neanche a chi si riferisca con l’appellativo di Alfiere russa, mi accorgo invece di come la luce dei suoi occhi diventi sempre più sinistra, malata, accecante, costringendomi a chiudere gli occhi mentre mi nascondo nel petto di Draco. Lui mi stringe forte a sé, sussurrandomi qualcosa nell’orecchio che però non riesco a sentire.

Adamar infatti urla, spaventoso e terribile come il diavolo in persona: “Vi darò tutto quello che avete sempre sognato nel fondo di voi stessi, senza osare esprimerlo, data la sua ormai oggettiva impossibilità… e semplicemente sarete voi a non voler più tornare indietro…”.

La luce diventa fortissima, peggio del sole a mezzogiorno.

Sembra accecarmi anche i pensieri.

Il bianco avvolge la mia testa, il mio cuore, tutto.

È come se la mia memoria fosse sfogliata come un libro, mentre lui si affanna dolorosamente a strappare pagine su pagine. Il dolore è così forte che mi metto ad urlare, dilaniata.

Prima che tutto diventi inesistente dentro di me, avverto la sensazione orribile di uno strappo all’altezza del fianco destro come se mi trascinassero da qualche parte, strattonandomi lontano.

Draco urla il mio nome, a mia volta lo chiamo, perdendo la presa su di lui come se sparisse. Piango annaspando, cercando di allungare le mani nella sua direzione.

… ma semplicemente lo perdo.

Mi perdo.

Non lo rivedrò mai più.

La voce di Adamar suona canzonatoria e terribile.

“Siete solo due pedine in un gioco molto più grande di voi”.

Poi, probabilmente, smetto di esistere.

 

 

 

 

“Se non finisci in Grifondoro ti diserediamo” intervenne Ron, “ma non voglio metterti pressione”.

“Ron!”.

Lily e Hugo risero, ma Albus e Rose erano serissimi.

“Non dice davvero” li rassicurarono Hermione e Ginny, ma Ron si era distratto. Intercettò lo sguardo di Harry e accennò di nascosto a un punto a una cinquantina di metri da lì. Il vapore per un attimo si diradò e tre persone si stagliarono nitide contro la nebbiolina fluttuante.

“Guarda chi c'è”.

Era Draco Malfoy con moglie e figlio, un cappotto scuro abbottonato fino alla gola. Stava cominciando a stempiarsi, il che enfatizzava il mento appuntito. Il ragazzino gli assomigliava quanto Albus assomigliava a Harry. Draco si accorse che Harry, Ron, Hermione e Ginny lo guardavano, fece un brusco cenno di saluto e si voltò.

Hermione fece un passo indietro, si toccò la tempia a disagio, aveva avuto l’impressione che qualcuno la stesse chiamando. Si guardò attorno smarrita per un secondo, chiudendo gli occhi e frenando una improvvisa ed inopportuna vertigine. A Londra faceva decisamente troppo caldo, per essere settembre.

“E così quello è il piccolo Scorpius” commentò Ron sottovoce. “Cerca di batterlo in tutti gli esami, Rosie. Per fortuna hai il cervello di tua madre”.

“Ron, per l'amor del cielo” ribatté Hermione, un po' seria un po' divertita. “Non cercare di metterli contro ancora prima che la scuola sia cominciata!”.

“Hai ragione, scusa” concesse Ron, ma non riuscì a trattenersi e aggiunse: “Non dargli troppa confidenza, Rosie. Nonno Arthur non ti perdonerebbe mai se sposassi un Purosangue”.

Hermione scoppiò a ridere, una chiara risata cristallina e tersa. La vertigine era passata, così come la sensazione di strappo all’altezza del fianco destro.

Mentre James tornò con la notizia che Victorie e Teddy si stavano baciando, Hermione portò la mano al collo toccandosi il ciondolo che portava sulla camicia.

Lo faceva sempre quando aveva l’impressione che tutto fosse a posto.

Era un ciondolo antico, dalla luce rossastra.

Una goccia di sangue di Unicorno solidificata, persa durante il parto.

 

 

Considerazioni finali e spoilerose sull’intero capitolo

Mi ha terrorizzato pubblicare questo capitolo. Davvero. Chi mi segue via Facebook, questo lo sa. Però per la prima volta più che scrivere appunto lì chiarendo le cose, ho preferito e preferisco farlo qui così che tutti possano leggere. Ovviamente, siccome sarà una pappa psicanalitica su me stessa e su come intendo questa storia, siete liberissimi di skippare a piè pari questa parte, semplicemente con il mio sommo ringraziamento per esserci ancora e per sopportare i miei ritardi. Però se invece, volete sapere perché questo è stato il capitolo più difficile da scrivere fino ad ora, perché le cose sono andate così e tutto il resto, se magari siete delusi o arrabbiati e vi chiedete se siete ancora in una Dramione e che ne è delle mie promesse di happy ending… magari riesco a spiegarmi continuando a scrivere.

Ecco… il terrore di questo capitolo.

Non c’entra Adamar, ovvio: io, Adamar, lo adoro, credo che sia uno dei migliori personaggi che mi sono trovata a creare fino ad ora, senza presunzione o altro. Sapete che non mi appartiene. Ma mi è piaciuto scrivere tantissimo di lui, della sua apparenza elegante e vittoriana, del suo accento, nondimeno della sua malvagità. Ma, per chi mi segue appunto, ha letto qualche spoiler su di lui già a giugno. La sua scena in forma di dialogo esisteva già da allora… quindi ovvio che il mio terrore non era Adamar. È stato complicato scrivere di lui perché il suo incontro è disseminato di indizi su quello che accadrà nel seguito di HALFT. È stato anche complicato perché ci sono tanti indizi su ciò che accadrà nella prova. Perché sì, è evidente dove Hermione e Draco sono finiti.

La mia storia, di fondo, si distingue per due particolari da quella della Rowling.

I tradimenti: Narcissa e Lucius che tradiscono Draco. Ron che tradisce Hermione.

Da lì è nato tutto.

Adamar ha eliminato i tradimenti e le loro conseguenze.

Quindi…

… siamo di nuovo nel mondo della Rowling. Tutto è andato esattamente come nel libro.

Non è cambiato niente.

Siamo in quel futuro.

Ma sebbene questo vi faccia supporre quanto Adamar sia infernale e quanto io sia contorta… ancora non è stato Adamar il problema.

Il problema è stato Ilai Radcenko.

Ora, come spesso spiego in altre sedi, questa storia ormai per me significa essere trascinata avanti ed indietro dalla volontà di questi personaggi: sembra strano, inconcepibile, magari persino pretestuoso visto che è solo una fanfiction. Ma io ormai questi personaggi li conosco come e meglio di me stessa, spesso mi portano dove vogliono loro. Spesso è come se non dovessi inventare ciò che accade, ma solo raccontarlo e testimoniarlo come se me lo narrassero loro. Certo, ho i miei piani e i miei progetti: ma come reagiscono a questi piani e questi progetti, spesso è esclusiva volontà loro.

Ilai Radcenko era un pretesto per introdurre Tatia Krasova, che era a sua volta un pretesto per legare Raissa e riagganciarla. Mi sono scelta un bel prestavolto per Ilai appunto (per chi non mi segue per altra via, è questo il prestavolto di Ilai http://media.tumblr.com/tumblr_lt1dmwKanJ1qzmb4oo1_500.gif) ma tanto per vezzo. Non è che me lo dovevo portare dietro. Poi le cose sono andate diversamente, senza premeditazione. Come mi sono portata dietro senza premeditazione Pansy e Dean che ormai idolatro alla follia, così mi sono portata dietro Ilai. In sette capitoli (che nella media di questa storia praticamente non sono niente) Ilai è diventato qualcosa di centrale, mio malgrado, al punto che ho “dovuto” pensare ad un modo per lasciarlo andare. Perché, e qui c’è anche uno spoiler, è l’ultima volta che abbiamo visto Ilai. Non lo vedremo più se non nel seguito. Quindi questo era un addio. Per come l’ho concepito, mi immaginavo che non avrebbe detto nulla ad Hermione prima della prova: né rivelazioni sui suoi sentimenti, né considerazioni su quelli per Draco, tantomeno rimostranze per quello che stava passando a causa degli Empatici. L’avrebbe lasciata andare e basta. Per questo mi è venuto in mente il trucco della Telepatia empatica: è solo la sua mente, quindi, che Hermione vede. Quello che lui vorrebbe fare senza remissione di colpa, orgoglio ed onore. Confessarle che l’ama, dirle cosa pensa del suo rapporto con Draco, persino arrabbiarsi con lei per averlo trascinato in mezzo a questo marasma, prendersela con Tatia che ha intrecciato i loro destini. E poi la fantasia dell’averla finalmente, vagheggiando su un futuro che non hanno appunto avuto. Ilai però non sa che tutto questo, Hermione l’ha vissuto con lui. Non lo immagina nemmeno: e nella mia idea iniziale, questo era solo un pretesto e modo per far sapere a lei che Ilai ne era innamorato, senza che lui effettivamente glielo dicesse. Ho scritto tutta la loro storia fittizia con il magone, con “Over the love” dei Florence and the Machine in loop e la lacrima facile, arrivando a non dormire pur di finire. E poi ho finito. E tutto doveva finire e basta. Un po’ di senso di colpa di Hermione, e via tutto dritto. Ed invece no. Hermione, letteralmente, se n’è andata per conto suo, come vi ho già spiegato che mi accade spesso. Si è arrabbiata con Helder in un modo che mai le ho visto fare. Si è chiusa in questo silenzio e questa negazione assoluta di ciò che le era successo. Ha fatto ogni sforzo possibile per dimenticare cosa aveva visto. È stato… naturale scriverla così. E io, come forse persino voi leggendo, pensavo: “Ma scusa? Perché questa cosa ti sta sconvolgendo tanto? È lui che ti ha immaginato così, tu che c’entri? Pensa a Draco, piuttosto! Pensa ad Adamar, piuttosto!”. Lei mi dava retta cinque secondi… e poi di nuovo ci ripensava. La lingua che batte dove il dente duole, direbbe qualcuno. Mi sono fermata, ho preso tempo, comprendendo che c’era qualcosa che mi stava sfuggendo di mano: ed è stata, giuro, la prima volta in tutta la storia, in cinque anni, che mi è accaduto. E mi ha terrorizzato: perché stavo uscendo dal seminato, perché questa è una Dramione, perché forse non mi avreste capita come volevo farmi capire, perché potevo impelagarmi in un vicolo cieco da cui non uscire più, se non a patto di incoerenza e di volubilità. Ed Hermione non è mai stata né incoerente, né volubile. E lì… è arrivato il consiglio di Demetra. Glielo ho chiesto, ed ancora la ringrazio, perché lei non legge questa storia, non ne sarebbe stata condizionata. E perché stimo quello che scrive e come scrive in modo viscerale. “Devi ricordarti sempre che hai un debito verso questi personaggi”. Lei mi ha detto questo. Era così giusto e vero, che mi ha schiarito la mente. Ho un debito verso questi personaggi, verso quello che sentono e che provano, e che non posso schermare o censurare solo perché io non sono d’accordo, o perché ho paura che non siano capiti, o perché i piani erano altri. No. Se mi hanno portato qui, un motivo c’è. Ed allora, piano, approfittando di una maledetta cervicale che mi ha allontanato dal computer per settimane, ho riletto tutti gli ultimi capitoli. E la risposta stava lì ad un passo. Ci stavo solo girando attorno, come una trottola impazzita. Hermione che si fida subito di questa persona, che gli racconta tutto, che si lascia baciare due volte, che ammette di averne bisogno. Ma soprattutto è stato il capitolo 40 ad aprirmi gli occhi. Prima lei che pensa: “…sono talmente assorbita dal pensiero di mio figlio da non potermi dibattere nel dissidio, solo accennato dal corpo e dalla mente, di chiedermi se desidero di più un altro bacio da Ilai o un singolo abbraccio da Draco. E’ facile rispondere, adesso: rinuncerei ad ognuno di loro con il sorriso più chiaro ed aperto del mondo, se in cambio riavessi Alex.(…) Io posso essere solo l’assassina dei Karkaroff, adesso, non di altri. Tantomeno di loro due… specie considerando quanto, in un modo così diversamente scomodo, ami tutti e due. Li amo alla maniera stupida di una bimba di cinque anni: basta che esistano in qualche parte del mondo per farmi stare tranquilla. Ormai, però, sono ben oltre i concetti banali di essere innamorata o altro”. Glielo avevo già fatto dire inconsciamente, ma il pensiero di Alex era ovviamente più forte di tutto il resto. Poi lei incontra Draco, parla con lui, esce fuori la questione di Ilai. Ed Hermione non ha incertezze. Lo definisce così: “ Bisogno: ecco che cosa è, oggi, Ilai per me. E’ un bisogno, al pari di dormire, mangiare e bere. Un bisogno creato dalle circostanze attuali, sicuramente, ma che non cambia natura. È fame di aria nei polmoni, perché lui riesce a farmi respirare; è sete di calore allo stomaco, perché lui riesce a farmi calmare; è insonnia di riposo della mente, perché lui mi mantiene salda in me stessa. Non so questo che significhi, non so questo che cosa sia, non so se possa chiamarsi amore, affetto, ossessione, attrazione o semplice pazzia. Ma è un bisogno, adesso, insormontabilmente realizzabile solo da Ilai. Nel bene e nel male, lui è tutto quello che Draco non mi ha mai dato. E che non ho mai cercato, intendiamoci… nonostante cinque anni fa le cose non fossero facili, non sentivo la necessità di qualcuno che mi mettesse a posto. Ero già a posto: disoccupata, con un brillante destino da cameriera, sconquassata dal presente da babbana, separata dai miei amici e dalla mia vita, e poi innamorata di quello che sarebbe sempre stato l’uomo sbagliato… ero comunque a posto.

Non necessitavo di qualcuno che mi sorreggesse, o mettesse assieme i miei pezzi, se non nel modo quotidiano in cui comunque si ha sempre necessità di dividere la propria vita con qualcuno. E Draco, questo l’ha fatto… per dieci giorni in cui mi sembrava comunque di non avere bisogno di nulla, tranne che di lui, ma l’ha fatto. Però, Pansy aveva ragione: quello era l’inizio, era un passo, ma era solo il primo. L’amore… quello sarebbe venuto dopo. E’ stato sbagliato costruirmi la vita su quei dieci giorni… specie quando ho capito che, adesso, da madre e da donna, io avevo un bisogno diverso. Più viscerale, più intimo, maggiormente legato al fatto che non ero più forte come un tempo… specie adesso. Ron non riusciva a vedermi diversa da quella che sono sempre stata: la ragazzina saccente e sicura, che fingevo di essere. Per questo, lui non placava quel mio bisogno che, per molto, non ho saputo nemmeno esistente, concentrata com’ero su Alex. Draco, forse, potrebbe anche farlo, ma parliamo ormai di ipotesi: avrei dovuto fare un atto di fiducia se Raissa non fosse mai esistita, figuriamoci adesso. Ilai ci riesce, senza che nemmeno pensi di chiederlo. Per questo, è la sola persona di cui sento davvero di avere necessità estrema adesso”. Stava tutta qui la risposta. Hermione si era innamorata di Ilai e io nemmeno me ne ero accorta. Si era lei stessa abilmente nascosta ai miei occhi, esibendo la preoccupazione e l’ansia, l’incertezza e la rabbia. Ed io non me ne ero accorta. Ecco perché reagiva in quel modo. I pensieri di Ilai le avevano mostrato che quella vita lei, in fondo, la voleva, la desiderava. Perché Ilai è tutto quello che Draco non è e non sarà mai. E viceversa Draco è tutto quello che Ilai non è e non sarà mai. A quel punto, confessato quello, per me è andato tutto a posto. Ha ripreso a scorrere tutto. Non stavo più tradendo nessuno, nascondendomi dietro un dito, nemmeno l’intenzione di questa storia. E l’intenzione, in aperta antitesi con il titolo, è che l’amore non è una bella fiaba romanzata. Il primo passo per farlo finire, distruggere, annientare, è credere che sia più perfetto di quanto siamo noi. Così, noi non sopravvivremo ad esso. Prima si capisce questo, e prima si ama davvero. Prima Hermione capiva che è innamorata anche di Ilai, e prima può ricominciare. Prima si rendeva conto di cosa manca a lei e Draco, e prima poteva andare avanti, anche nella sfida con Adamar. Adesso facciamo che io debba rispondere ipoteticamente ad una persona che legge questa storia solo perché è una Dramione: puoi continuare a leggerla sperando nel lieto fine? Sì. Perché con i problemi di Draco ed Hermione, Ilai c’entra poco: è solo una conseguenza. Inevitabile, ma una conseguenza. Ed è una scelta: l’amore ha tantissimi modi di vita. Hermione deve solo capire quale vuole. Draco non sarà mai Ilai, non sarà mai quello che lei ha visto nella sua mente, fa parte persino del suo fascino e della malia che ha su di lei. Può accettarlo? Può abbracciare tutto di lui? Ne è pronta? Solo se conosceva fino in fondo cosa si stava lasciando indietro, poteva avere la consapevolezza di questa scelta. Per fare un paragone spiccio: se mi chiedono di scegliere tra la luce e la notte, ma io ho vissuto solo di giorno, non saprò mai fare una vera scelta. Ecco, per chi è Dramione inside ed ha odiato questo capitolo e pensa di Hermione che sia ipocrita e chissà che altro (“Te la prendi per Raissa, tu hai fatto di peggio, che grande amore eh!”)… ecco pensatela così. Se non approfondivo quello che provava per Ilai, sarebbe rimasto per sempre un punto di domanda anche in un futuro Dramione. Se siete poi Hermione addicted inside, … probabilmente la potete anche capire. Difficilmente una soffre così per cinque anni, e resta immutabilmente innamorata della stessa persona come il primo giorno. Non sarebbe realistico. Si aprono sempre delle crepe, e qualcuno spesso si insinua in quelle crepe. Ed onestamente, immedesimandosi in Hermione, ancora e difficilmente si potrebbe reagire con piena indifferenza ad Ilai se Draco non è (in questo preciso istante, non parlo del futuro) un contraltare sufficiente. Amiamo Hermione proprio perché è contradditoria e vera, o spero almeno che sia così. Soffre perché non può scegliere ed è terrorizzata che qualcuno la veda così: è questo, per me almeno, il bello di lei. È sempre tesa a fare la cosa giusta e corretta, sebbene spesso non sia semplicemente possibile essere sempre corretti. Se siete poi tra quelle quattro o cinque persone che amano Ilai, credo che questo capitolo vi sia piaciuto, lui ha avuto una sorta di rivalsa di cui, d’accordo, non sa nulla, ma che esisterà per sempre. Gli abbiamo dato un bel addio, sebbene ammetto che mi mancherà molto. Ma è sopravvissuto ben oltre le premesse, quindi sono davvero contenta di quello che ha dato a me e ad Hermione. Gli devo molto.

Che dire… se state ancora leggendo anche questa postilla ultra-logorroica, ne sono felice e contenta. Ci tenevo a chiarire. Se avete domande, sapete dove trovarmi. Sto iniziando a rispondere alle recensioni dello scorso capitolo e a quelle per “Sanguine”, non ne ho avuto modo fino ad ora. Ma come sempre… grazie.

Altra inutile postilla: questo capitolo prende il suo nome da una canzone di Lykke Li, di nome appunto “No rest for the wicked”. Potete trovarla qui con il testo: https://www.youtube.com/watch?v=2eeGQuyEYTw . E’ praticamente Hermione che parla. Non potevo chiamare questo capitolo in altro modo.

Cassie.

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Capitolo 46
*** Disturbia, step one : about happenstance. ***


Dopo cinque anni di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex, di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatia non voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente e psicologicamente, minando forse per sempre la fiducia nei confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Dopo essersi chiarita con Ron, Hermione parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello” Alex. Ma proprio durante la conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco le fotografie del loro figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con Draco, scattata e conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che Draco mostra ad Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity. Ogni principessa del libro ha il volto di Hermione. È la molla per la peggiore delle rivelazioni possibili. Sebbene entrambi sono consci di essere ancora profondamente legati l’uno all’altra, Draco ed Hermione affrontandosi si rendono conto di essere innamorati del loro passato, più che di loro stessi al momento. Troppo dolore e rancore è intercorso tra loro, e purtroppo ormai non sanno se potranno recuperare loro stessi vista l’imminente prova con il demone. Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte. Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e, secondo Adamar, avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di tornare indietro.

 

 

Capitolo 46 – Disturbia, step one : about happenstance.  

 

28 novembre

 

E’ tutto bianco, come se avesse nevicato. Ma la neve è bella, pulita, fresca, pura… ed invece quel bianco è malato, ansiogeno. Si mangia i colori, si mangia le voci, è vorace di luci e suoni. Dà l’impressione di essere diventati ciechi o di essere diventati sordi, anzi peggio… di essere morti e di non essersene accorti.

Già… morti.

Trapassati nell’inesistenza in un soffio di fiato più forte degli altri.

Morti come le foglie secche schiacciate dai piedi frettolosi di un passante. Un fruscio sinistro e poi più niente.

Lei però qualcosa sente. Qualcosa sente. Una sola singola e tonante frase che le rimbomba nel petto come una campana a morto. Una voce maschile che preme contro le sue orecchie. È strascicata, eppure roca, profonda. Le dà i brividi. Sussurra contro le sue guance, come se fosse ad un alito da lei.

Però è come se il bianco avesse una voce che sa di vento, furore, tempesta. Di occhi dorati e malati di demone.

E si porta via quelle parole. Non le distingue. O le sente ma le dimentica assieme nello stesso istante. Ricorda solo la fine di una frase che sembra non avere senso.

“… il motivo che cerchi…”. 

Fa male.

Il bianco la strattona dal fianco destro, come se si divertisse a tenderla come un elastico per vedere quanto resiste. E lei puntualmente si spezza.

La chiamano, la chiama: e lei non può rispondere. La voce se l’inghiotte il bianco.

Poi si inghiotte anche lei, intera, in un solo morso.

 

Al mattino Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, ha sempre una lacrima sotto l’occhio sinistro che non capisce. La sfiora con un dito, l’assaggia, fa una buffa smorfia cercando di dare spessore ad una serie indefinita di lampi dorati nel bianco. Da tre mesi non ricorda più i suoi sogni al risveglio. Ma devono essere incubi visto che alla mattina sembra che abbia pianto.

“Grazie memoria selettiva, allora…” sussurra allora a sé stessa con un sorriso stanco.

Indugia nel letto qualche secondo, pigra. L’aria del primo mattino è fredda, le coperte sono calde invece. Poi si alza con un sospiro ed indossa la vestaglia da camera sul pigiama rosa di flanella.

La lacrima dalle sue dita cade sulla fronte di suo marito, mentre lo accarezza con distratto affetto, sussurrandogli di svegliarsi.

La goccia di sale evapora ancora prima che Ronald Weasley si sia svegliato.

 

 

Le rughe mi hanno sempre affascinato.

Quando in un impeto di sincerità l’ho raccontato a Ginny, lei mi ha guardato storto e ha borbottato roteando inquieta gli occhi: “Cioè, già sei immune alla maggior parte delle preoccupazioni femminili… ma anche le rughe adesso ti piacciono? Non avrai qualche seria turba psichica di cui non sei ancora completamente a conoscenza?”.

Dopo allora, credo di non averlo più propriamente esternato a qualcuno di diverso da me stessa, mentre mi guardavo allo specchio.

Intendiamoci: ovvio che sono perfettamente consapevole che ogni singola ruga sul viso di una donna, somiglia ad un passo verso la strada della decadenza della bellezza.

E già questo dovrebbe indurre a comprendere quanto potrebbe fregarmene di meno.

Diamo però per scontato che io non sia Hermione Granger, 36 anni, la regina della razionalità incarnata e la principessa dal motto “La sostanza vale tutto, la forma non vale niente”.

Supponiamo per un momento, invece, che sia una modestamente più interessata all’estetica: probabilmente avrei ugualmente fascino delle rughe, di quelle linee scolpite nella pelle di una donna o di un uomo, a contarne gli anni come i cerchi degli alberi.

Le rughe mi ricordano il viso di Silente: quella pace scolpita, quella dolcezza addormentata, quel reticolo di pensieri che, da bambina, mi davano l’impressione di essere così potenti e forti da non restare confinati nel tracciato dei neuroni, ma che avevano necessità di uscire fuori, scoppiare all’esterno, chiazzare l’epidermide.

E io mi auguravo una folla di pensieri così.

Le rughe mi ricordano anche il viso di mia madre quando sorride: e mi spingono a cercare in una di esse, in quella più profonda, in quella più scavata vicino alle labbra, la presenza di mio padre che, da cinque anni, non può più baciare quell’angolo della bocca.

Le rughe mi sembrano, insomma, una specie di mappa del cuore di una persona.

Come se tu potessi ricostruirne la trama dei ricordi, soltanto guardando un viso: sono pochi ragionevolmente sul volto glabro di un bambino. Diventano tracce del sangue, quando si diventa adulti e vecchi.

Per questo, il mio esercizio al mattino è studiarmi il volto alla ricerca di quei segni: saranno più o meno di ieri? Un sogno della notte avrà lasciato un marchio tangibile nella pelle accaldata?

Osservo il mio riflesso allo specchio, una ruga piccola ed irregolare taglia a metà lo spazio tra gli occhi: è il carico di ghiaccio che mi congelò il cervello quando vidi il corpo di Harry apparentemente morto penzolare tra le braccia di Hagrid il giorno della battaglia di Hogwarts. Un’altra, dritta e profonda, solca lo zigomo destro e scende lungo le fossette del sorriso: è l’ultima spinta quando misi al mondo Hugo, gemendo sudata dopo un travaglio di dodici ore. Un’altra ancora appena accennata segue la linea del collo, ricordandomi del giorno in cui persi di vista Rose e lei si ruppe un braccio cascando dal trampolino della piscina.

Poi ce n’è una che non mi crea tutta quella serenità che provo alla vista delle altre.

Una recente, ma profonda. E soprattutto particolarmente fastidiosa da guardare stavolta, come se fosse… diversa.

Non mi ricorda nulla, assolutamente nulla.

È un segno evidentemente scolpito, come se fossi fatta di marmo e fossi stata scavata nella pelle con una mano dotata di scalpello. Corre come la goccia che fende la roccia, partendo dall’angolo interno dell’occhio destro e segue gli itinerari delle lacrime, scivolando sullo zigomo e sulla guancia.

L’ho notata per la prima volta quando sono tornata a casa il 1° settembre, dopo aver lasciato Rose alla stazione di King’s Cross. Certo, avevo pianto un pochino sulla spalla di Ron mentre riprendevamo l’auto, ma non così tanto da addirittura ritenere che ciò lasciasse un segno. Ero contenta che mia figlia fosse ad Hogwarts, lo sono ancora, le scrivo ogni giorno cercando notizie e elemosinando aneddoti dalla sua penna da ragazzina, dolendomi se mi scrive troppo, avrà amici con cui occupare il tempo in cui dovrebbe scrivere a sua madre? e lamentandomi se mi scrive poco, nemmeno tre mesi sono passati e già si è dimenticata della sua mamma!

Un iter largamente normale che mi vede compagna di centinaia di mamme con cui condivido discorsi stereotipati, conditi da troppi sospiri e singulti di rassegnazione.

Ma quella ruga, quel segno come se avessi pianto fino a scorticarmi il cuore, come se mi avessero strappato qualcuno da dentro facendomi sanguinare e scoppiare le vene…

… io non me lo sono mai riuscito a spiegare dal 1° settembre di qualche mese fa.

 

 

"Finisci la tua colazione! Devi andare a scuola... e non credo che abbiamo ancora animali domestici da sacrificare per giustificare i tuoi ritardi! Questo mese sono morti tre canarini, un pesce rosso ed sette criceti. La casa della morte la chiameranno!".

Nessuno dei miei due figli ha preso da me: hanno qualcosa come un calco confuso, ma nessuna reale somiglianza. Ron spesso sostiene che Rose abbia ereditato la mia intelligenza, ma mi sono schermita spesso di fronte al complimento. Questo perché mio marito non ha mai riconosciuto di avere una sua forma specifica di intelligenza, ben diversa dalla mia.

Accorgendosene invece, si sarebbe reso conto di quanto in questo Rose sia diversa da me.

La mia è un’intelligenza nervosa, sudata, isterica, forgiata dalla carta e dell’inchiostro.

L’intelligenza di Rose è più istintiva, naturale, rapida come il fuoco che incendia le frasche. Le piace leggere, ma non divora libri come facevo io alla sua età. Conosce parecchie nozioni sparse, apprese per forza di cose dai dialoghi infiniti che ha sempre avuto con me, ma non ne fa sfoggio od uso eccessivo, se non nei momenti in cui sia vitalmente necessario. Intuitivamente è il mio opposto, dato che invece ho sempre brandito la conoscenza come la spada affilata a scudo delle mie insicurezze ed incertezze. Se prende un voto basso a scuola, sbuffa un pochino, poi scoppia a ridere dicendo che non le interessa.

Io, al suo posto, mi sarei fatta venire una caterva di precoci rughe.

Difficilmente riesce a stare ferma per più di dieci secondi cronometrati: le piace correre, sporcarsi d’erba, giocare a Quidditch.

È una Weasley, inutile girarci attorno.

Ricorda così tanto il fantasma di Fred e George come entità indivisibile e mai separata nei ricordi, da fare male al fiato e allo stomaco.

Il suo aspetto ne è un ulteriore conferma. Lunghi capelli lucidi e lisci, solo un po’ arricciati sulle punte come residuo del mio patrimonio genetico. Occhi grandi e puliti che di mio hanno solo il colore: io non ho mai avuto occhi così tersi neanche alla nascita, avevo sempre troppe domande a cui rispondere e che mi affannavano lo sguardo. A completare il tutto, Rose sfoggia un corpo acerbo e dinoccolato da ragazzina: magra come un chiodo, con le ginocchia spigolose e il viso tondo dell’infanzia. In tutto, ricorda maggiormente la zia Ginevra che la madre Hermione.

Il discorso non è neanche molto differente con Hugo: anzi probabilmente, visto il suo sesso diverso dal mio, mio figlio sembra aver preso solo il sangue di suo padre.

È coraggioso ma insicuro, sempre timoroso e convinto di non essere capace di fare determinate cose, finché non apprende che non solo le sa fare, ma sa anche migliorarsi continuamente. Anche a lui piace stare all’aperto, vivere nell’erba e nel vento e, contrariamente a Rose, non ha alcuna pazienza né di ascoltare storie, né tantomeno di leggere.

Non mi lamento: adoro i miei figli, amo mio marito. Vederlo riflesso in loro è sempre stato come mettere in parentesi l’amore per lui e moltiplicarlo all’ennesima potenza.

Spesso ho pensato a come sarebbe stato avere un figlio, o una figlia, che avesse invece ereditato il mio amore sviscerale per i libri, le mie labbra, il mio taglio degli occhi, persino la mia espressione da pesce palla. Ci ho pensato spesso ed è un pensiero che mi ha sempre causato un senso strano di mancanza.

Come di amputazione di metà del mio corpo, quella più vitale e necessaria. Quindi l’ho ricacciato indietro, perché è un sentimento ingiusto.

Così brucia l’amore del genitore. Un moccioso urlante tra le braccia, ancora sporco di placenta e sangue. Una fotografia stupida tra le dita, saporosa di passato e rimpianto. E non sei più uguale a prima: tessi tele e ricami che siano i vessilli del sangue che vi lega. Se ci somiglia, è la migliore versione di noi stessi. Ma se non ci somiglia, in fondo, è il migliore rimpiazzo a noi stessi.

E io non potevo desiderare rimpiazzi migliori a me stessa di Rose ed Hugo.

Sorrido non vista, mentre dando le spalle al tavolo della colazione continuo a lavare i piatti. Passo la spugna insaponata sulle tazze sporche e, con uno strano senso di nausea, osservo il contenuto avanzato della mia. Un fondo di caffè nero ed amaro, una volta bollente, mi informa che stamattina non ho bevuto come al solito il mio succo di ananas. Io ingurgito sempre caffè solo quando sono terribilmente nervosa. Sospiro a lungo, anche quella è una novità degli ultimi tre mesi. Da quando è partita Rose, non c’è stato verso di riprendere con le mie solite abitudini alimentari della colazione. Eppure, non potrei dirmi nervosa o agitata, o in pensiero per mia figlia. Diamine, è a scuola, non è stata rapita da un pazzo omicida. Il mio corpo, però, non è dello stesso avviso. Chiudo gli occhi per un paio di secondi, fermando il conato di vomito che mi raggiunge le labbra, e meccanicamente ingiungo ad Hugo di muoversi con la sua colazione.

In risposta mi giunge un gorgheggio lamentoso ed acuto di mio figlio, assieme al tintinnio secco del cucchiaio che gira ancora nella tazza di cereali. Quando sto già per voltarmi e rincarare la dose, Ron pensa bene di intervenire, redarguendomi con voce flemmatica: “Mione dai... devi essere un po' più elastica!". 

La tazza che stavo risciacquando annoiata mi scivola dalle dita bagnate di sapone di marsiglia, cascando con un tonfo sordo nel lavandino. Trattengo un respiro più forte che rilascio all’improvviso come se fossi un palloncino che viene sgonfiato di schianto. Freno con un impeto di coraggio e calma il rigurgito acido di parole che sta già solcando le mie labbra; esso però si accompagna con un ulteriore e ben più reale attacco di nausea che mi fa barcollare. È quello che non trattiene in gola, alla fine, il mio commento piccato: "Ti regalerò il dizionario dei sinonimi e contrari per evitare che pronunci otto volte al giorno quel simpatico aggettivo...". 

Ron Weasley ha sempre il modo giusto e pronto in tasca per farmi arrabbiare: in momenti di lucidità o di estrema pace, penso semplicemente che non lo faccia apposta, che sia soltanto un uomo distratto e superficiale come ce ne sono tanti. Non è peggiore di tanti altri, le donne devono da sempre imparare ad avere pazienza con l’atteggiamento da elefanti in una cristalleria dei loro compagni. Altre volte penso in modo automatico che Ron Weasley non sia venuto al mondo provvisto del manuale d’istruzioni di Hermione Granger. E non a caso, in un modo che spero sempre che sia inconsapevole perché a metterci impegno si sfiorerebbe la crudeltà, Ron mi punzecchia ancora con l’aggettivo poco elastica che sa perfettamente che detesto. Credo persino di averglielo detto in una decina di occasioni, sforzandomi di essere seria, chiara e concisa. Ed invece, per l’ennesima volta, ci risiamo.

Odio essere definita così perché mi sembra quasi un retaggio delle chiacchiere adolescenziali che berciavano alle mie spalle: sì, ero tanto intelligente e capace, ma ero anche una bacchettona snob ed antipatica che sveniva sul colpo a non rispettare le regole, ad accorciare una gonna, a bere un bicchiere di Acquaviola, a concedersi ad un ragazzo. Certo, magari mi può importare poco di quelle che sono solo paranoie da ragazzina ormai dimenticate, ma l’adolescenza si attacca alle ossa anche quando si cresce. Ci si crede sempre in debito di dimostrazione con essa: e io credo davvero di essermi ammorbidita negli anni.

La guerra, quella dannata guerra che abbiamo vinto, avrei potuto superarla solo se flessibile come giunco, e non rigida come quercia.

D’altronde, Ron è quello che ha vissuto tutte quelle esperienze con me. Dovrebbe avermi vista maturare ed aprirmi come un bocciolo di loto e per primo dovrebbe riconoscere che non sono più la stessa ragazzina tutta acqua e sapone ed inchiostro e libri: quindi che si ostini a chiamarmi ancora in nome di una vecchia pecca del mio carattere, è quantomeno irritante.

Non lo fa apposta, mi dico daccapo nella mente, accompagnando la frase con uno sospiro profondo, specie quando intuisco che Ron se l’è presa per il mio commento piccato, avendo ulteriore conferma della mia scarsa propensione al gioco, all’ironia ed allo scherzo. Mi sforzo quindi di voltarmi con espressione più neutra, mentre Hugo sbraita di nuovo con vocetta acuta: "E poi, mamma, a me non piacciono le ciambelline di avena! Volevo le stelle di cioccolato con lo zucchero!".

Una nuova vertigine mi colpisce infida alle tempie, accompagnandosi all’ennesimo conato. Rispondo quindi acidamente, senza ascoltare nemmeno che cosa stia dicendo: "Bè certo effettivamente non erano abbastanza colme di glucosio! La prossima volta a colazione, direttamente il saccarosio! Te ne preparerò una ciotola piena, va bene, Alex?". 

Alle mie parole, sento seguire uno silenzio strano da parte di mio marito e di mio figlio, cosa che mi costringe a voltarmi su me stessa, chiedendomi se non siano improvvisamente evaporati liberandomi dal fracasso mattutino.

Ron mi guarda inarcando un sopracciglio, le labbra che descrivono una piccola “o” di sorpresa, mentre Hugo sporge il labbro inferiore, ancora vagamente infastidito: "Mamma io sono Hugo".

L’ovvietà dell’affermazione di mio figlio, pronunciata con voce tra il saccente e lo scontato, mi spinge a ricapitolare mentalmente le mie parole precedenti che non trovo assolutamente sbagliate. Dopo qualche secondo, arresami, poggiando la tazza pulita nella credenza, chiedo con uno schiocco di lingua nervoso: "Perché, che ho detto?".
"Alex" risponde Hugo, quasi offeso, guardandomi storto come se lo avessi tradito personalmente.

"Hai detto proprio Alex, Mione" rincara Ron la dose con espressione scettica, piegando il collo per dedicarmi uno sguardo indagatore, come se fossi un foglio di carta da guardare in controluce. Gli restituisco uno sguardo fosco, nebuloso, mentre chiedo ancora: "Alex?". 
"Alex, sì, non sono sordo" ribadisce Ron sfiancato, riprendendo a sorseggiare il suo caffè con sufficienza. Resto per un attimo assorta nei miei pensieri, la testa bassa e gli occhi fissi sulle piastrelle di ceramica del pavimento della cucina. Alex. I miei occhi si impuntano su una crepa di una mattonella, sembra una lunga ferita nel marmo, ne seguo il profilo con la punta del piede.

Sebbene abbia studiato qualche anno fa psicologia, non capisco che collegamento incomprensibile può aver fatto la mia mente per suggerirmi un nome che non mi dice assolutamente niente. Certo, Alexander è il nome di mio padre, ma non è entrato in alcuna associazione mentale, adesso, mentre rimproveravo Hugo. E certo non mi sono mai riferita mentalmente a mio padre con il nome “Alex”: ovvio che lo chiami ancora “papà”, sebbene sia morto da cinque anni. Del resto, non conosco quell’abbreviazione nemmeno per intercalare altrui: mia mamma ha sempre chiamato papà con il suo nome di battesimo completo, cosa che mi dava sempre un tono solenne e mi spingeva sempre a concludere, quando ero bambina, che Alexander fosse un nome da imperatore, da zar, da sovrano, ed andasse quindi pronunciato per intero.

Quando rimasi incinta di Rose, il nome Alexander era tra i papabili se avessi avuto un maschietto. Mi sarebbe piaciuto davvero come nome, anche seguito dall’Arthur del padre di Ron.

Sarebbe stato davvero un nome da re se coniugato in quella maniera.

Ma arrivò una bambina, la mia meravigliosa piccola Rose, e scelsi io il nome per lei. Mi era sempre piaciuto come nome assieme a Charlotte.

Come d’accordi, poi, lasciai che qualora avessimo avuto un altro figlio, fosse Ron a scegliere il nome del neonato. Ma allora non arrivò alcuna Charlotte, nome che lui stranamente aveva persino approvato.

Arrivò un maschietto a cui appioppò il nome Hugo che io detesto. E tanti saluti ad Alexander Arthur Weasley. Mio figlio, invece di portare il nome di un re, porta il nome del portiere dei Cannoni di Chudley di una decina di anni fa. Me lo faccio piacere solo perché, nel mio intimo, continuo a dirmi che si chiama Hugo in onore dello scrittore francese Victor Hugo. E tecnicamente è anche la versione che do in giro, quando mio marito non è a portata d’orecchio. È una cosa però superata da anni, mi ci sono anche rassegnata su, perciò commento in modo scherzoso verso Ron: "Sarà una vendetta del mio inconscio per averti concesso di scegliere il nome di nostro figlio. Alex... da dove diamine mi è uscito?". Le mie labbra, mentre do le spalle all’ulteriore siparietto tra Ron ed Hugo, continuano a masticare il nome Alex per qualche secondo, fino a quando ho l’impressione che questo faccia, se possibile, aumentare ancora di più la mia nausea e vorticare il mio cervello come se fossi in una morsa.

Quando mi sembra di averne abbastanza di questi giramenti di testa, mi siedo con attenzione e premo a lungo la mano sulle labbra, attirando l’attenzione preoccupata di Ron.

“Mione, che c’è?” mi chiede con apprensione, sfiorandomi la guancia con due dita, mentre si inginocchia di fronte a me. Rassicura Hugo con un’occhiata, ingiungendogli severo di andarsi a preparare, cosicché nostro figlio esca dalla cucina sbuffando e battendo i piedi, senza accorgersi però del mio malessere. Cerco di rassicurarlo con un sorriso stanco, mentre lui mi porge con solerzia un bicchiere di acqua fredda. Lo ingurgito in due sorsi e, finalmente, la nausea sembra passare, lasciandomi solo una sopportabile sensazione di stretta allo stomaco.

Sollevo lo sguardo finalmente verso Ron, carezzandogli lo zigomo con dolcezza, prima di soffiare fuori: “Nulla di che. Solo un po’ di nausea… e vertigini. Credo che sia un po’ di pressione bassa…”.

Ron non dismette l’espressione agitata e, porgendomi la mano affinché mi alzi in piedi con cautela, mormora severo: “Non dovresti andare al lavoro se non ti senti bene, Mione. E dovresti chiamare un Medimago… non è la prima volta che ti succede…”.

Aggrottando le sopracciglia, mentre mi sollevo malferma sulle ginocchia e mi appoggio al suo braccio teso, chiedo confusa: “Quando altro mi sarebbe successo?”.

Ron chiude con la sua la mano che io tengo poggiata sul suo avambraccio, mentre mi guida al piano di sopra. Il sole filtra dalle finestre del salone, soffiandogli riflessi di vetro oltremare nello sguardo azzurro. Poi, dopo una pausa di qualche secondo, sussurra quieto: “Probabilmente ti è accaduto anche successivamente… ma me ne ricordo distintamente il giorno in cui accompagnammo Rose al binario 9 e ¾ … ti lamentasti del caldo e mi dicesti che avevi avuto una vertigine…”. È vero, constato sommariamente mentre mi siedo sul letto in camera nostra. Me ne ero completamente dimenticata. Avevo lamentato anche allora un malessere simile e ne diedi la colpa alla temperatura alta di quella giornata di settembre. In realtà, sapevo perfettamente a che cosa quel capogiro era stato dovuto: all’improvviso vuoto della partenza di mia figlia. Ma non volevo confessarlo a Ron che mi avrebbe preso in giro fino alla morte per quell’eccesso di nostalgia da mamma chioccia, quindi imbastii quella scusa sul caldo.

È bello però che se ne ricordi e preoccupi ancora.

Quindi sorrido in modo più caloroso, mentre lui si veste e mi dà le spalle e lo rassicuro dicendo che cercherò di non stancarmi troppo e di vedere quanto prima un medico. Intanto, Ron si offre di portare lui a scuola Hugo, dato che per lui le ferie natalizie sono iniziate molto prima di me, e non deve recarsi all’Ufficio degli Auror se non in tarda mattinata. Lo ringrazio sommariamente e socchiudo leggermente gli occhi, quando mi bacia con dolcezza sulle labbra, prima di uscire ingiungendomi di tornare a casa dall’ufficio ad un orario decente.

Resto qualche secondo seduta sul letto della stanza, accarezzando il copriletto cremisi con distrazione, mentre sento le voci di Hugo e Ron rincorrersi al piano di sotto. Quando odo distintamente la porta d’ingresso, mi concedo il lusso di rilasciare un sospiro nervoso e stanco. Poi, mi alzo con decisione, mi fermo davanti allo specchio e lego i capelli in una coda alta da cui sfuggono ciocche distratte.

Non mi affanno a cercare orecchini, collane o anelli da abbinare: stamattina ho l’incontro con il capo della Divisione Elfi Domestici del Sussex meridionale, e non sarà decisamente una passeggiata di salute da risolvere con qualche moina femminile. Sto già per uscire afferrando la cartella piena di documenti, quando torno indietro come se fossi stata punta da uno spillo. Apro l’armadio, scavo tra pile di vestiti ed indumenti, fino a trovare quello che sto cercando. Una sciarpa di lana che ho comprato il 1° settembre, quando il vuoto per Rose mi era sembrato per un attimo insopportabile da accettare.

Era in una vetrina, appoggiata mollemente al collo di plastica di un manichino denutrito. Non era vistosa, non era elegante: era semplice, ordinaria, persino un pochino fuori moda. Ginny mi avrebbe presa in giro per quell’acquisto sciocco, quando poteva portarmi da Madama Seraphine a Diagon Alley e farmi realizzare una stola che cambiava colore e pesantezza, a seconda della giornata.

Persino la commessa, una donna alta dai capelli biondo ramati che portava al collo il cameo di una rosa bianca, lucido come un pezzo di ghiaccio, mi aveva guardata un po’ meravigliata per la scelta estetica dubbia, indicandomi piuttosto un meraviglioso foulard rosso fiammante con la stampa di delicate margherite.

Ma inaspettatamente, ero stata irremovibile. Non so spiegarmi il motivo, specie perché effettivamente il foulard rosso era più adatto alla stagione, nonché declinato nel mio colore preferito. Mi ero ritrovata invece ad insistere caparbia e testarda, io che di solito assecondo le commesse in tutto e per tutto per pigrizia e noia.

“No, voglio quella che c’è in vetrina. La sciarpa di lana… quella grigia…” avevo ripetuto cocciuta.

Addosso, stretta attorno al mio collo, sapeva di casa. Non è che facesse tutto questo caldo, ma mi faceva sentire serena, riposata, incardinata in un punto preciso del mondo senza che sbandassi altrove.

Quel grigio negli occhi sapeva di tempesta, lampo, mare di dicembre, nube acquosa, strada maestra, spuma di onda, carta e libro, pietra carsica, caverna di roccia, capelli di vecchio, argento vivo, luna e stella, pioggia dalla finestra, cenere e fondo di fiume, lacrima sporca.

Ed il vuoto della mancanza di Rose mi aveva fatto meno paura.

Me la drappeggio attorno con un collo con un sorriso statico, affidandomi di nuovo a quel ritaglio di stoffa.

Sebbene mi aspetti solo una normale giornata da Hermione Granger in Weasley.

Come tante altre prima di questa.

 

Suo marito aveva ragione. La nausea durava da molto più di quanto lei stessa ricordasse: era una sensazione tipica, spavalda, infida come un calcio nello stomaco. E la colpiva senza preavviso alcuno. Ma Hermione Granger, 36 anni compiuti, era una donna che non faceva la cronaca dei propri malesseri quando erano assolutamente trascurabili. Passava così come era venuta, e tanto bastava per dedicarsi nuovamente al lavoro, alle lettere alla figlia, alla cura per il figlio, ai rimproveri scherzosi al marito, agli impegni con amici e famiglia. Ci poteva mettere più attenzione, sicuramente, ma lei non era così.

Era la pressione bassa. Era il caldo. Era lo stress. Era quel intruglio di carne e rape che aveva preparato sua suocera per cena.

Aveva un carnet di spiegazioni ineccepibili.

La nausea, poi, non aveva alcuno schema preciso: veniva e passava, somigliando alla sosta di una barca in mezzo al mare, in preda ai flutti.

Pochi secondi, occhi chiusi, respiro più forte… e passava.

Era solo un patema distratto del corpo che reagiva a cose assolutamente scollegate tra loro.

Il binario 9 e ¾ e i commenti su un vecchio compagno di scuola.

Una passeggiata in centro, e Hugo che propone di comprare del gelato fritto.

L’ondata di pigrizia quando Ginny le aveva proposto di portare i bimbi in un parco di divertimenti di nome Wonderland.

Il maglione turchese che aveva ricevuto in regalo per il suo compleanno.

L’odore di rose di una passante.

Il succo d’ananas praticamente ogni mattina… e la sua sostituzione con caffè amaro, nero, bollente, come se fosse sempre nervosa e nemmeno se ne rendesse conto.

Anche a voler unire tutti gli indizi, nessun disegno sarebbe venuto fuori. Ed Hermione Granger non era una che cadeva nelle trappole dell’intuizione spicce.

Era ovvio pensare che fosse solo un po’ stanca a causa del lavoro.

Glielo disse anche un’adorabile vecchietta dallo sguardo vispo che era venuta a chiederle udienza e consiglio per il caso di un Elfo domestico che non voleva smettere di picchiarsi.

“Signora Weasley! Si riposi ogni tanto! Sembra così deperita…” le ingiunse severamente, accarezzandosi il suo cameo di una rosa bianca.

Hermione Granger, 36 anni, annuì sorridendo, respingendo al mittente la nausea che le aveva colpito di nuovo lo stomaco, mentre riordinava le novecento tredici schede dell’archivio.

La nausea non aveva alcuno schema preciso.

Era solo un patema distratto del corpo, che reagiva a cose assolutamente scollegate tra loro.

 

 

Diventare i vicini di casa di Harry e Ginny quando mi ero sposata, mi era sembrato un segno meraviglioso del destino: nessuna volizione, nessun desiderio specifico. Solo una serie di fortunate coincidenze, che io avevo liquidato con solerzia sotto l’etichetta di indizi superiori di una volontà più forte di farci vivere la nostra vita quanto più vicini possibili.

Harry e Ginny si erano sposati da qualche mese, aspettavano James, ed io e Ron eravamo ancora alla ricerca della casa perfetta per un matrimonio che avrebbe seguito il loro di meno di un anno. Ciondolavamo di appartamento in appartamento, di cottage in cottage, di villa in villa, liquidando tutte le costruzioni come ben poco confacenti al concetto di casa. A questo, si aggiungevano tutte le variabili del caso: serviva una casa che fosse sufficientemente vicina alla Tana per quando fossimo diventati genitori, e Molly ed Arthur avessero voluto fare avanti ed indietro per vedere i loro nipotini. Ne volevamo anche una che fosse vicina alla Passaporta internazionale situata alla Torre di Londra, così da raggiungere velocemente i miei genitori per lo stesso motivo, dato che avevano deciso di stabilirsi a Favignana, in Sicilia, nella vecchia casa di mia nonna. Eravamo entrambi d’accordo di non vivere in campagna aperta ma di essere almeno nella periferia di Londra, così da facilitare gli spostamenti lavorativi. C’erano poi alcuni quartieri che non ci andavano eccessivamente a genio, come Notting Hill che ci era sempre parso troppo caotico, cosa che ogni volta contribuiva a procurarmi un’emicrania perforante ed una nausea pazzesca. O come Belgravia, che a Ron era sempre sembrato come “il recinto di quelli con la puzza sotto il naso”. Ci eravamo ormai rassegnati ad andare a vivere con i suoi per un po’ appena dopo il matrimonio, dato che il contratto di affitto dell’appartamento di 40 metri quadrati dove convivevamo scadeva un mese prima delle nozze e non aveva senso rinnovarlo, visto che non ci avremmo potuto vivere se la nostra famiglia si allargava. Senza contare che era un buco dall’affitto decisamente sproporzionato… insomma fu in quel momento che Ginny venne praticamente di corsa ad avvisarmi che era stata messa in vendita la casa accanto alla loro, a Earls Court, un quartiere che io avevo sempre adorato.

Tranquillo, ben collegato, con esterni ben curati.

L’appartamento di Ginny ed Harry mi era sempre piaciuto perché piccolo, luminoso, su due piani e con una sfiziosa porta laccata in azzurro. Aveva un minuscolo giardino, dove Ginny aveva fatto piantare delle piante aromatiche che usava per le zuppe invernali. Quella che sarebbe diventata casa mia, aveva una struttura parallela e gemella a quella: salone, cucina ed un piccolo corridoio al piano terra; due camere da letto ed un bagno al piano superiore. Era quasi incassata in casa di Harry, al punto che affacciandomi alla finestra, potevo spesso passare a Ginny il sale o lo zucchero o le uova, se le aveva dimenticate al supermercato. I primi tempi in quella casa furono un autentico sogno: Earls Court era vicinissima a Holland Park, un posto che avevo sempre adorato di Londra. Holland Park è considerato uno dei più tranquilli e romantici parchi di Londra, e io amavo passarci il tempo quando ero a casa da Hogwarts per le vacanze estive. Ci tornavo spesso quando ero incinta di Rose: mi sedevo vicino alla famosa Orangery, circondata da enormi siepi di rose, e respiravo felice. Forse, persino da quei pomeriggi pigri, ricavai l’intuizione per il nome di mia figlia. Mi destava anche enorme curiosità il fatto che ci fosse un set di scacchi giganti con cui si può effettivamente giocare: da bambina, specie nell’estate del mio primo anno ad Hogwarts dopo la vittoria su Voldemort/Raptor proprio per una partita a scacchi, costringevo i miei a portarmi lì e a cominciare lunghissime partite che sapevo di vincere sempre. È forse uno dei posti più cari della mia infanzia e della prima adolescenza, per questo casa mia mi parve subito così speciale essendoci così a quel parco. Ci sono tornata sempre meno poi negli anni e forse di riflesso, anche casa mia ha perso le sue meravigliose attrattive per questo.

L’ultima volta che sono stata ad Holland Park, tra l’altro, ne ho un pessimo ricordo: sarà stato circa un mese fa, avevo una mezza giornata libera e un libro meraviglioso da finire. Avevo cercato la mia panchina preferita di quando ero piccola, proprio vicino ad un roseto di boccioli bianchi. Non ero riuscita a leggere nemmeno una riga, lo stomaco mi pungeva, la schiena mi si era inzuppata di sudore freddo come se fossi rimasta per ore sotto la pioggia, e le gambe mi formicolavano come se volessi solo scappare via a e chiudermi in casa. Quando avevo provato a cambiare posto, avvicinandomi alla scacchiera, era stato peggio: guardavo i pezzi ed avevo sempre la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Qualcosa che dovevo tenere a mente a tutti i costi: ma più ci pensavo e più mi veniva in mente solo la parola “palma”.

E di interesse botanico per una pianta tropicale, non credo di averne mai nutrito in vita mia.

Una serie di comportamenti mentali fastidiosi, al limite dell’idiozia e della paranoia, insomma. Però alla fine avevano confermato quello che già pensavo e credevo: odiavo, ormai, vivere lì. E ciò si era ripercosso anche nell’adorato parco dei miei ricordi, ormai ridotto ad un posto che mi comunicava solo nervosismo. Dopo la partenza di Rose, con meno impegni a gravarmi il cervello, la cosa appariva molto più chiara. Ormai tutto di casa mia contribuiva ad innervosirmi: la poca luce la mattina nelle stanze, e quella decisamente eccessiva nel pomeriggio. La camera da letto troppo piccola. Il disimpegno davanti alla porta d’ingresso inutilizzato. Le dimensioni esagerate della camera di Hugo. Insomma: qualsiasi cosa mi dava fastidio, persino il colore laccato verde della porta che, all’inizio, mi aveva tanto colpito.

Queste cose, in fondo però, erano aspetti risolvibili o comunque trascurabili. Non è che uno cambia casa perché non gli piace il colore della porta. C’era, invece, qualcosa che da essere la cosa più bella di quell’abitazione, improvvisamente era diventato l’aspetto peggiore. E a ciò non c’era rimedio.

La vicinanza con Harry e Ginny.

È ovvio che essere così vicini con i miei cognati sia una comodità ed un sostegno notevole, specie nelle faccende che riguardano i bambini. Ed è anche indiscusso che avere la mia migliore amica a così stretta portata di mano, significa anche poter contare su di lei in qualsiasi momento, fosse anche per farci del semplice popcorn e vederci un film strappalacrime assieme. Stessa cosa, ovviamente, è per Ron con Harry: e questo, nei primi anni del matrimonio, aveva fatto sì che mi sentissi sempre in vacanza, con i miei migliori amici sempre vicini in una sorta di grande famiglia allargata.

Ma di anni intanto ne erano passati dodici dalle mie nozze ed ora lentamente, avevo capito che una coppia sposata, nonché i propri figli, ha un estremo bisogno di una vita che sia quanto più separata possibile: relazioni forti ed intense con famiglia ed amici, ma anche un perimetro di vita solo propria. E io questo perimetro non l’avevo mai avuto.

Bastava un semplice litigio mio e di Ron, normalissimo nella vita da sposati, e Ginny ne poteva avere tutta una telecronaca visto che le pareti erano di compensato e cartone. E ciò naturalmente finiva spesso per sedare i miei malumori in modo artificioso, dato che ero a conoscenza del fatto di voler lasciare la cosa personale, quindi ad un certo punto della discussione, sebbene insoddisfatta, mi imponevo di tacere per paura di essere ascoltata. O lanciavo Incantesimi Insonorizzanti che, nei culmini di nervosismo, potevano anche spaccare i vasi dell’ingresso e non raggiungere il loro bersaglio reale.

Un mio semplice malessere e voglia di stare da sola a casa mia, poteva mettere su un caso nazionale, non da ultimo riferito anche a mia suocera, specie se si traduceva nel mio rifiuto di vedere Harry e Ginny piombati nel mio salotto per un’improvvisata. I miei figli risentivano molto della vicinanza continua con i cugini, assimilandone comportamenti da me non approvati o non graditi: e a questo si aggiunge il fatto che Hugo e Lily non vadano affatto d’accordo, cosa che aumenta enormemente le mie emicranie.

In questo, si spiega perché proprio stamattina che sono vittima di questo malessere cretino ed avrei solamente voglia di passeggiare per arrivare al Ministero, usando magari i mezzi babbani che mi danno meno nausea della Smaterializzazione, sentire le voci di mio marito e dei miei cognati in giardino, cosa che mi costringerà a passare loro davanti, dovendomi intrattenere in una qualche forma di conversazione civile, mi fa ribollire il sangue nelle vene.

Con fastidio, resto qualche minuto nell’anticamera del salone, l’orecchio contro la porta, sperando che ci mettano poco a terminare le chiacchiere così che io possa sgusciare fuori, non vista. Ma naturalmente i discorsi si protraggono oltre il tempo concessomi dal fatto di essere l’unica, ancora, che deve andare al lavoro e che già beneficerà di qualche minuto di permesso a causa del mio malore.

Aggiungiamoci pure che l’Ufficio Auror è parco di attività prima di Natale e, se Ron deve recarsi alla sede centrale per delle scartoffie dopo le undici, Harry non ha nemmeno quell’occupazione, avendo sistemato tutto prima delle tanto agognate ferie per dedicarsi completamente alla motocicletta di Sirius, che necessita dell’ennesimo check up. Ginny, ovviamente, scrive per la Gazzetta del Profeta: può decidere autonomamente i suoi tempi di lavoro, anche se questo implica iniziare a scrivere la telecronaca dell’incontro delle Holyhead Harpies dopo una corroborante chiacchierata con marito e fratello. Nondimeno posso sperare che ad Hugo, improvvisamente, sia venuta voglia di andare a scuola: lo sento urlare acidulo qualcosa all’indirizzo di Lily, che strilla ugualmente irritata qualche serie di improperi al suo indirizzo.

Per un attimo penso di Smaterializzarmi, fregandomene della nausea e di tutto: ma la pila di depliant delle agenzie immobiliari che accatasto da tre mesi in cucina affinché Ron dia loro un’occhiata, magari approvando il cambiamento di casa, mi fa desistere. L’acido nervoso che sento in gola, constatando come ogni giorno che non sono stati minimamente toccati probabilmente al grido di “Stiamo così bene qui!”, si traduce nell’ennesima torsione olimpionica del mio stomaco. Alla fine, quando comprendo che la cosa andrà per le lunghe, respiro profondamente nella mia sciarpa grigia e mi preparo ad uscire, malgrado il fuoco incrociato che mi aspetta. Chiudo gli occhi per qualche secondo, la mano sulla maniglia, mentre mi riprometto di imbottirmi di un digestivo per farmi passare l’acidità che inevitabilmente sta per peggiorare.

Quando però esco in giardino, il sole dolcemente tiepido che filtra tra le nuvole e mi soffia in viso uno stralcio di buonumore destinato a soccombere presto, comprendo che avrò bisogno di un’autobotte di digestivo, non di una semplice bustina. La quantità di decibel prodotti dalla conversazione pacata che si sta tenendo all’esterno, infatti, mi fa convenientemente supporre che ben presto sarà infranto il muro del suono, cosa che produrrà un’onda d’urto terrificante, in grado di schiantare al suolo tutte le persone nel raggio di quattordici miglia. La strada è ancora tranquilla, poche persone camminano pigramente per raggiungere il posto di lavoro, sferzate da un venticello gelido che preannuncia la prima neve dell’anno. Darei di tutto per respirare questa pace prima di arrivare in ufficio, ma la mia caotica famiglia non è del medesimo avviso. Ron ha completamente perso di interesse in Hugo per dedicare tutta la sua attenzione ad Harry, che a sua volta è intento a controllare una perdita d’olio della motocicletta di Sirius, cosa che fa gocciare un liquido nerastro di pessimo odore nel nostro vialetto d’ingresso, dato che al mio intelligente marito è venuta la straordinaria idea di concedere al suo cognato preferito di eseguire le piccole riparazioni del veicolo da noi, visto che Ginny sostiene che i fumi di scarico facciano male alle sue piante aromatiche. Non al mio equilibrio psicofisico fanno male, ma alle sue piante.

Già questo basterebbe per farmi urlare come un’isterica pazza, ma la ciliegina sulla torta è mio figlio che continua a gridare come un ossesso contro Lily, che risponde con una serie di pacati e calibrati calci negli stinchi di Hugo. Ad ogni calcio ben assestato, il volume delle urla di Hugo aumenta sensibilmente ed, in tutto questo, naturalmente Ginny è assolutamente calma ed indifferente. Si limita ad una serie di stanchi rimproveri all’indirizzo della figlia che non sovrastano nemmeno gli strilli dei due bambini. La comprendo in fondo, Lily è decisamente una bambina impossibile, ci sta che la mia amica sia già stravolta alle otto di mattina. Lily non ha mai legato granché con nessuno né all’asilo, né tantomeno alla scuola elementare. Nemmeno con i suoi fratelli ha un rapporto così idilliaco. È prepotente, violenta, testarda, decisamente difficile da gestire. In questo assomiglia abbastanza a Ginny, credo che abbia risentito anche lei, come sua madre, di essere cresciuta con due maschietti più grandi ed intraprendenti. Ma se questo in Ginny provocò dapprima una fortissima timidezza, e successivamente in pubertà una grande carica e forza emotiva, Lily invece ha appreso in modo inconscio che l’unico modo che aveva per farsi rispettare era urlare, gridare, calciare, picchiare, anche se fosse solo per ottenere un gelato. Spesso, abbiamo cercato di farla legare con i suoi coetanei, ma è sempre stato un completo disastro. Non ha mai trovato nessuno che le tenesse testa, in modo deciso ma comunque non violento: o finiva per trovare altre attaccabrighe con cui ingaggiava lotte senza quartiere, o bimbe delicate come fiori che strillavano come matte al primo accenno di prepotenza. Questo ha finito per irrigidire Lily sempre di più, rendendola sempre peggiore nei modi e nel comportamento, facendo arrendere anche Harry e Ginny che ormai tendono ad ignorare il problema, sperando che, una volta ad Hogwarts, la situazione si risolvi da sola. Io, onestamente, non ci giurerei. Ricordo ancora il destino della sua ultima amichetta, Kara Scamander, la figlia di Luna Lovegood, una dolcissima piccola bimba dalla pelle bianca e le trecce biondo platino. Al termine di un solo pomeriggio con Lily, Kara non aveva più soffici capelli da sfoggiare: in un impeto di furia ed in un attimo di distrazione di Ginny, Lily glieli tagliò tutti con le forbici. Per fortuna era la figlia di una donna abbastanza svagata come Luna che non aveva dato peso eccessivo all’episodio.

Ma in ogni caso, Kara non si era fatta più vedere.

Esteriormente Lily è un amore di bambina: capelli rossi e lisci come quelli della mamma, occhi verdi lucenti come quelli del papà, viso tondo e roseo. Ma basta che apra bocca, e ti fa pentire di questa tua considerazione ingenua.

Saluto con un cenno del capo Harry e Ron, i quali, ancora presi nella loro conversazione sullo spinterogeno, si limitano ad un gutturale cenno di gola che vorrebbe significare per Harry un “Buongiorno Hermione, mia cara cognata!” e per Ron un “Stai tranquilla amore, tra poco porto Hugo a scuola, sai che te l’ho promesso!”. Sospiro a lungo prima di avvicinarmi a Ginny, sperando di non ritrovarmi ben presto a massaggiarmi le tempie come sta facendo lei, in preda all’emicrania. Abbozzo un saluto, prima di fiondarmi a dividere le piccole bestioline, rimproverando Hugo con finta solerzia, tanto per non dare l’impressione di credere che sia sempre colpa di sua cugina, come invece in realtà ritengo. Hugo, ovviamente, mi mette il broncio, incrocia le braccia per l’accusa ingiusta e si va a sedere sui gradini dell’ingresso sotto il portico, guardandomi in cagnesco. In tutto questo, Lily per un po’ continua a provocarlo da lontano, poi, quando Harry si decide finalmente a erompere in un rimprovero vagamente più autoritario, scoppia in un pianto isterico e rientra correndo in casa, convinta di essere immediatamente seguita da sua madre, pronta a consolarla.

Ginny, invece, decide saggiamente di lasciarla a macerare un po’ nella sua rabbia stizzita, restando fuori in giardino. Si appoggia stancamente alla ringhiera che divide le nostre due abitazioni con un forte sospiro, ha i bei occhi azzurri cerchiati dal sonno e sembra abbastanza stanca. Anche il suo corpo si è appesantito nel corso degli anni, rendendola più simile a sua madre di quanto era da ragazzina. Ma resta una donna forte, energica, attiva. Troppo, forse. Credo che la vita domestica le stia stretta, sebbene scriva per la Gazzetta del Profeta, lo fa da casa e questo ha contribuito che si lasciasse molto andare con il tempo. Della scattante giocatrice di Quidditch di qualche anno fa, è rimasto poco. Non è una, però, che si lascia andare, che si dichiara sconfitta, che subisce la vita. Forse, per questo le voglio così bene ed è ormai una sorella per me. Ha sempre quello scatto di coraggio che a me manca, sopito nel conformismo. Ha deciso di frequentare un corso per diventare volontaria al San Mungo, non lo avrei mai detto, ma le piace la medicina. Le ho chiesto una volta, perché non ha mai provato a diventare Medimago. Lei si è chiusa nelle spalle, ha fatto un sorriso storto e ha borbottato dicendo che le Holyhead Harpies, ai tempi, le avevano garantito un buono stipendio e, con Ron che frequentava il Corso per diventare Auror, non voleva gravare troppo sui suoi genitori che già pagavano le spese di suo fratello.

Non so perché, ma sono convinta che sarebbe stata un buon Medimago. Glielo dico spesso, ma lei si schermisce innervosita. Solo alcune volte, accetta di buon grado il complimento e questo tendenzialmente avviene quando parliamo della mia ferita magica sulla schiena: quella che mi sono procurata un anno dopo la fine della guerra, in un covo di Voldemort dove aveva lasciato delle vecchie carte muffite riportanti i nomi dei suoi Mangiamorte. Gli Auror avevano chiesto l’intervento del Dipartimento della Cura delle Creature Magiche dove allora lavoravo, perché a guardia della grotta vi era una statua che si trasformava in una sorta di Basilisco. Avevo sottovalutato il pericolo di quella creatura, finendo per essere colpita dal suo veleno e procurandomi una ferita maledetta che riprende a sanguinare nelle notti di novilunio e per cui sono sempre costretta ad assumere una pozione una volta al mese. Ebbene, è su quella che Ginny ciancia spesso. Sostiene che, secondo lei, potrebbe sparire del tutto con una sorta di pozione potenziata del veleno del Basilisco stesso, che mi immunizzerebbe dalle tossine in modo permanente. La lascio parlare e sorrido calorosa solo per incoraggiarla.

Dovrebbero mandarmi in coma per provare una Pozione del genere.

“Lo sai che la colpa era di Lily, vero?” esordisce Ginny a mo’ di saluto, guardandomi in tralice. Punta sul vivo, replico affannata ed imbarazzata: “Certo perché Hugo invece era calmo e serafico? Ho sentito le sue urla dal primo piano…!”, getto un’occhiata colpevole al mio bambino, ancora seduto scornato sui gradini, promettendomi di ricompensarlo per questo rimprovero ingiustificatamente subito.

Mia cognata sorride dolcemente, limitandosi a staccare una foglia secca dalle parete di ibisco rosso che divide i nostri giardini, prima di soffiare fuori: “A volte penso che se fossi stata meno a casa e l’avessi asfissiata di meno con le mie cure da “sei la sola femminuccia!”, sarebbe venuta su molto meglio…”.

“Non dire sciocchezze, Gin… ogni bambino è diverso dall’altro…” commento fiocamente, sollevando il capo per respirare a pieni polmoni l’aria mattutina “Non sarebbe cambiato nulla… e poi…”, cerco di aggiungere con tono di voce allegro, rassicurandola: “Credo che stiano migliorando le cose, no? Ultimamente la vedo più… tranquilla, ecco…”. Alludo effettivamente al fatto che Lily non abbia preso a morsi il polpaccio di Hugo, non mollando la presa nemmeno al rimprovero di Harry e ad un tentativo di esorcismo: per i suoi standard, è un comportamento decisamente tranquillo.

“A dire cazzate, fai pena…” commenta con una risata Ginny, scuotendo il capo “Quasi quanto quei due come meccanici…” e con un’alzata di spalle, indica i nostri adorabili mariti, intendi a riempirsi di grasso ed olio del motore. Sospiro lungamente, anche Hugo ha lasciato perdere il suo contegno offeso per osservare con occhio clinico la vettura. Cerco di comunicare telepaticamente a Ron di stare perlomeno attento a nostro figlio e al fatto che non si imbratti come un operaio su una piattaforma petrolifera, ma ottengo solo che Ron risponda a qualche affermazione di Harry con un sentito: “Miseriaccia!”.

“Siamo circondati da mocciosi…” sorride Ginny con rassegnazione, a cui rispondo con un sentito verso gutturale di assenso. Una folata ghiacciata di vento mi soffia sul viso, costringendomi a chiudermi meglio nella mia sciarpa che, a quel refolo, rilascia un buon odore di pulito. Ginny si informa sui miei programmi mattutini, dolendosi del fatto che il Dipartimento della Regolazione della Legge Magica non abbia ancora dichiarato la sosta natalizia, e io rispondo accorata sebbene meno sentitamente di lei. In realtà, andare al lavoro non mi disturba affatto, ho ancora una decina di cause da sistemare prima delle festività e spero di riportarmi in pari entro oggi.

“E tu, invece?” chiedo cortese a Ginny che, con un’efficace movimento rotatorio degli occhi a testimoniare la sua irritazione, mi racconta di avere l’ennesimo incontro con le insegnanti di Lily dato che la bambina ha versato un barattolo di vernice gialla addosso ad un altro bambino, per giunta autistico, che adesso si rifiuta di recarsi a scuola.

“Forse ti ricordi di chi si tratta…” commenta Ginny con calma, enumerando sulle dita “Ricordi Natalie McDonald? Grifondoro, occhi verdi, carina?”.

“Vagamente…”.

“Insomma, è suo figlio il bambino, Elias si chiama… già ha mille problemi relazionali, ci mancava anche incrociare la strada con quel Anticristo che mi trovo per figlia…”.

Rido sommessamente nonostante tutto, prima di rendermi conto che è già abbastanza tardi e che devo correre in ufficio, specie se ho intenzione di camminare un po’ ed usare i mezzi pubblici. Ginny, per fortuna, viene richiamata in casa da uno squillo del telefono, utensile che si è rivelato necessario visto che viviamo in una strada babbana e il passaggio di gufi, alla lunga, sarebbe stato notato. Il fatto, poi, che il telefono squilli per due volte e poi si interrompa per poi ricominciare con questa sequenza una decina di volte, ci fa intuire agevolmente che si tratta di una chiamata di Molly: nonostante tutte le spiegazioni del caso, non ha mai imparato bene l’uso di questo “infernale aggeggio!”.

Lieta di poter sgusciare via prima che, per qualche minuto, la chiamata di mia suocera coinvolga inaspettatamente anche me, saluto velocemente Ginny ed Harry ed ingiungo a Ron di muoversi a portare Hugo a scuola, prima di incamminarmi verso la stazione della metro.

Che viva da un po’ troppo tempo come strega, mi si rende evidente subito: sono sempre stata convinta di essere una di quelle donne che, sebbene abbiano dei poteri magici, non dimentichino mai la propria origine mezzosangue e preservino quindi il senso dei piccoli riti delle persone assolutamente normali. Per questo casa mia è piena di elettrodomestici, ho obbligato Ron a prendere la patente di guida e ho erudito i miei figli sugli aspetti essenziali della vita babbana. Nonostante questo, la maggior parte della mia esistenza quotidiana prevede l’uso di una bacchetta e il fatto che, invece, stamattina mi sia obbligata a prendere la metro come una normale donna londinese che va al lavoro, mi avvisa di quanto in realtà sia rimasta indietro senza accorgermene.

Per prima cosa, superato il complesso di case residenziali dove vivo con la mia famiglia, mi accorgo della presenza di molta più gente per strada di quanto sia abituata o di quanto mi ricordi: negli anni ho dimenticato la regola basilare di stare sempre sul lato più interno del marciapiede, se non vuoi rischiare di essere travolto da chi cammina a velocità molto più sostenuta di te. E quindi subisco una serie di spintoni, pestoni e collisioni tra i miei talloni e le ruote di diversi passeggini. Se quindi pensavo di poter fare una tranquilla passeggiata che mi facesse passare nausea ed emicrania, mi sbaglio notevolmente.

Arrivo alla stazione della metro di Earls Court ben più nervosa di quanto fossi all’uscita di casa, anche perché nel frattempo ha iniziato a scendere una pioggerella irritante come solo a Londra può esistere, e io naturalmente ho dimenticato di portarmi l’ombrello, regola basilare della vita in questa parte d’Inghilterra.

Tra le altre cose che ho rimosso, abituata a Polvere Volante e Smaterializzazione, c’è la precauzione necessaria di vestirsi a cipolla quando si ha intenzione di prendere la metro, visto che, se all’esterno la temperatura può essere di -10 gradi, dentro invariabilmente si toccheranno i massimi della regione di Calcutta quando l’asfalto si scioglie. Questo significa inevitabilmente che, all’acqua che mi sono presa fuori, si aggiunge il sudore dentro, oltre ad una sequela di bestemmie quando capisco che il costo del biglietto giornaliero è aumentato di una sterlina.

Tutto farcito da un’altra serie di interessanti iterazioni umane, consistenti in spallate e calci accidentali vari, mentre controllo che linea devo prendere, visto che ce ne sono un paio che non conosco.

Ovviamente sarebbe semplice adesso rinunciare al mio esperimento pseudo-sociologico ed afferrare la bacchetta che mi preme nella tasca e raggiungere l’ufficio in tre secondi, visto che l’emicrania che volevo scacciare si è triplicata ed adesso assomiglia ad un martello pneumatico che perfora un muro.

Ma ovviamente faccio di nome Hermione Granger, con sottotitoli onorari a testimoniare la caparbietà, l’ostinazione, la tenacia, assieme ad una buona dose di puntiglio. Quindi, insisto mentalmente per arrivare al lavoro in metro come mi ero prefissa. Presa dal mio delirio di onnipotenza, dimentico un’altra regola fondamentale.

Non ascoltare musica in metro se sei seduta, ma circondata da persone in piedi che ti impediscono di capire a quante fermate sei dalla tua.

Mentre infatti sono ancora intenta a skippare a piè pari tutte le canzoni d’amore che sono residuate sul mio i-pod e che mi causano un’orticaria fulminante a braccia e gambe, non mi rendo conto di aver abbondantemente superato la mia fermata. Quando capisco che dovrei essere già arrivata e mi alzo alla successiva apertura delle porte, leggo con fatica sul cartellone la beffarda scritta Notting Hill”, intuendo che, non solo sono scesa in ritardo e mi sono distratta, ma ho preso anche la metro che va in direzione esattamente opposta alla mia. 

Borbotto a denti stretti catapultandomi fuori dal vagone già in ripartenza, prima di allontanarmi ancora di più dalla mia meta. Il caldo nella stazione è asfissiante e la gente mi urta senza ritegno, mentre cerco di arrivare al pannello delle linee, così da capire quale mi conviene prendere per tornare indietro. Davanti agli occhi, le semirette colorate danzano pericolosamente e si attorcigliano in modo confuso, mentre il nome “Notting Hill” continua a riecheggiarmi in testa come se fosse il suono di una campana rintoccante, risvegliando alla rievocazione della mia stupidità la celeberrima nausea.

Solo che questa volta, al lampeggiare sinistro del nome di quella stazione della metro, il mio malessere sembra persino più forte del solito: arrivo persino a piegarmi in due su me stessa, come se stessi per rimettere anche l’anima, una mano premuta sulla bocca a far sì che non filtri alle mie narici alcun odore molesto. E lì che mi preoccupo davvero ed impensierisco: che diamine è questa nausea?

Sperando che l’aria fresca mi arrechi sollievo, ignorando che siano ormai quasi le nove, salgo velocemente le scale, la mano sempre a premere sulle labbra, ed esco velocemente all’esterno, ritrovandomi nel traffico del colorato quartiere di Londra che, solitamente, frequento meno. L’aria fredda mi sferza il viso accompagnandosi all’odore dell’erba bagnata: finalmente ricomincio a respirare e la nausea si acquatta in un angolo del mio stomaco.

Non è una cosa però su cui stare sereni e tranquilli: mi appunto mentalmente di vedere quanto prima un medico. Da un po’, accade molto più di frequente. Posso anche darmi adesso la giustificazione del caldo della metro, ma stamattina a colazione, quando mi è saltato in testa di chiamare mio figlio Alex, stavo benissimo. Solo a ripensarci, la testa riprende a girare come una trottola impazzita.

La cosa migliore da fare è fermarmi da qualche parte per prendermi qualcosa da bere, magari una limonata. Mia mamma diceva sempre che è un rimedio ideale contro il mal di stomaco. Magari sedendomi per qualche secondo potrò anche recuperare le energie e non rischiare di collassare prima di arrivare al lavoro. Per fortuna, ha anche smesso di piovere quindi posso fare quattro passi come era nelle mie intenzioni iniziali. Apro la borsa e ne estraggo il mio cellulare, lo uso di rado e solo per comunicare con Leda, la mia segretaria. Essendo abbastanza più rapida a comprendere come funziona un sms rispetto alle sue coetanee purosangue, le mando velocemente un messaggio per avvisarla che arriverò più tardi del previsto. Il quartiere, nonostante le mie premesse e i rifiuti, non è affatto male: è pittoresco, vivace, attivo. Cammino un po’ guardandomi avidamente attorno, la folla colorata e multietnica che scorre vicina a me. I negozi sono pieni di merce particolare, soppesata con occhio critico dalla clientela, e per un po’ gironzolo beatamente senza pensieri, pentendomi di non esserci mai venuta prima con più calma.

Del resto, constato con una punta di acidità mentale, non sarebbe nemmeno stata la stessa cosa se ci fossi venuta con Ron, che avrebbe sbuffato ogni due per tre se mi fossi fermata davanti a qualche vetrina, oppure peggio con i miei figli, che mi avrebbero reso materialmente impossibile prestare attenzione a qualsiasi cosa diversa da loro. Mi riprometto mentalmente di prendermi più tempo per me stessa, come tecnicamente faccio sempre, riuscendoci molto poco: infatti, se non fosse stata per questa nausea maledetta, non penso che mi starei nemmeno parzialmente godendo questo momento.

Con un sorriso quasi colpevole sul volto, un raggio di sole che mi colpisce di oro gli occhi, percorro un vialetto alla mia sinistra, quasi spinta dall’istinto di scoprire al meglio questo quartiere dimenticato. Nella mia testa, per dimenticare che sono sempre in ritardo per il lavoro, mi dico che sto sempre cercando un pub o qualcosa del genere, così da prendermi qualcosa che combatta il mio malessere.

Il viale che percorro è dominato da una serie di imponenti alberi di magnolia e da una sfilza di bancarelle all’aperto che vendono cibi di ogni sorta. Incuriosita da una bancarella ricolma di trecce d’aglio e spezie odorose, gestita da un francese dal naso rosso, intravedo all’angolo del palazzo un negozio di fiori.

Ammiro il contrasto cromatico tra una serie di vasi di latta azzurra e delle meravigliose peonie bianche.

Al ritorno di una nuova vertigine, temendo di schiantarmi al suolo, decido di accelerare la ricerca almeno di una caffetteria, imboccando una stradina alla mia sinistra. Dopo un negozio di musica celtica ed una cartoleria piena di mocciosetti che comprano le penne colorate al sapore di frutta, vengo attirata da un’insegna luminosa che assomiglia vagamente a quella di un pub o qualcosa del genere. Mi avvicino cautamente e mi rendo conto che la mia supposizione sembra essere corretta, i caratteri recano la scritta “Sharon’s place”.

A meno che non mi sono imbattuta in una casa chiusa gestita da questa Sharon, questo dovrebbe significare che sono di fronte ad una specie di pub.

Non che sia del tutto convinta di non essere caduta in un errore grossolano, visto che la prima cosa che noto del posto è che sciaguratamente monocolore nella peggiore delle maniere.

Le pareti interne, la saracinesca, il bancone che a malapena intravedo, sono tutti di uno squillante e lezioso lilla che contribuisce a farmi venire il mal di testa.

Chi ha avuto quest’idea geniale deve essere davvero passabile della pena di morte.

Spio all’interno, notando comunque che è un locale abbastanza frequentato da gente tutto sommato normale.

Ripetendomi mentalmente che comunque non è che io debba recensirlo su Tripadvisor, ma solo prendere una stramaledetta limonata, mi decido ad entrare. 

L’interno mi restituisce una sensazione tutto sommato positiva: si tratta di un ambiente abbastanza grande e luminoso, frequentato da parecchia gente. Mi dà l’impressione di essere molto più grande di quello che sembra, e mi chiedo se non sia sprecato come semplice pub. Intravedo nell’angolo una scala a chiocciola che porta al piano superiore, cosa che mi fa suppore che probabilmente ci vivano anche qui. Tutto è avvolto in un odore vezzoso di vaniglia e cannella che, se possibile, contribuisce a farmi pulsare il cervello di nervosismo. In fondo, intravedo un bancone sempre dello stesso maledetto colore lilla, verso cui mi dirigo cercando di non inspirare eccessivamente la mistura caramellosa. Mi siedo con lentezza, quasi timorosa di innescare una nuova vertigine, attirando con la mia manovra l’attenzione di una giovane mamma con bambino. Le sorrido rassicurante, lei mi risponde con educazione, provvedendo a nascondere dall’impeto del figlio il cameo di una rosa bianca che porta al collo.

Ci sono due cameriere: una dall’aria truce, mora con lunghissimi capelli neri legati in una sola ed unica treccia, che mi squadra con i sottili e allungati occhi neri mentre pulisce il bancone con aria annoiata. All’aspetto poco rassicurante che fa abbastanza a cazzotti con il color caramella della divisa che indossa, si aggiunge un orribile, a mio dire, anello al naso ed un tatuaggio d’aquila con le ali spiegate che copre entrambe le clavicole e che è perfettamente evidente a causa della maglia scollata. La seconda invece, è una ragazza dai corti capelli biondo cenere con delle ciocche rosso acceso. Mi sorride e mi sta immediatamente più simpatica, nonostante anche lei sembri strana forte. Oltre ai capelli bicolori, la cui frangetta copre quasi integralmente i suoi occhi celesti, porta anche lei un brillantino al naso, ma la cosa strana è che da esso pende una catenina d’argento che conduce all’orecchio e alla piccola gemma rossa che splende sul lobo. E comunque, alla catenina, è appeso un ciondolino a forma di croce anch’essa rossa. Lei, almeno, sembra lievemente più compatibile cromaticamente con la divisa.

Chiedo a quest’ultima una limonata, fidandomi maggiormente della sua aria svagata che di quella da omicida seriale della sua collega, poi, in un impeto di espansività, mormoro: “Non ero mai venuta qui… sembra un posto…”, così maledettamente fru-fru che persino Lavanda Brown sarebbe potuta sembrare una donna di concetto al confronto “… carino…”, commento diplomatica, prima di chiedere con un sorriso educato: “Siete aperti da molto?”.

“Da troppo siamo aperti…” schiocca la lingua scocciata la tizia truce guardandomi storto, come se fossi una di quelle vecchiette che vogliono per forza intavolare una discussione annoiando il prossimo. Roteo gli occhi rinunciando al mio eccesso di confidenza, non prima però che la bionda decida invece di rispondermi al suo posto: “Siamo aperti da circa cinque anni, signora”. Una vena del collo, all’appellativo, mi si gonfia paurosamente mentre la mia bacchetta freme nella mia tasca, sprizzando qualche immaginaria scintilla al pensiero di quante maledizioni potrei lanciarle, visto che non ritengo di meritare l’epiteto essendo lei quasi mia coetanea. Mi guardo nel riflesso dello specchio alle spalle del bancone ed analizzo distaccata il mio trench beige, il mio maglione a collo alto, le mie occhiaie scure, il mio pallore e i miei capelli legati in una crocchia distratta. Per la prima volta comprendo che effettivamente dimostro più anni di quelli che ho, specie quando sono stanca. Ricaccio indietro l’accesso di ira alle parole della svampita cameriera e sorseggio pensosamente la mia bibita.

“Va tutto bene?” si informa a quel punto una voce comparsa alle mie spalle, con un accento dolce eppure petulante. Mi volto su me stessa e, nella stessa irritante divisa lilla, c’è una donna dai capelli rosso-ramati, il viso paffuto e gli occhi verde sporco. Una targhetta appuntata sulla camicia recita compita “Sharon Tingle”, quindi suppongo che sia la proprietaria, probabilmente incuriosita dalla presenza di una cliente nuova da dover a tutti i costi ammaliare così da renderla una presenza abituale. Sorrido annuendo, prima di chiedere ragione della mia congettura. D’altronde, il pub ha praticamente il suo stesso nome.

Mi pento del mio slancio di gentilezza circa cinque secondi dopo la suddetta domanda. Sharon è infatti una donna prolissa e dalla chiacchiera facile e, come se non bastasse, il nome del pub racchiude praticamente tutta la sua storia d’amore con suo marito. Assolutamente non richiesto, mi giunge quindi tutto il racconto del momento in cui ha rincontrato suo marito a Londra dopo anni in cui non si vedevano, dato che avevano frequentato la scuola assieme, e di come allora fosse scoppiata tra di loro la scintilla, sebbene ai tempi del liceo non si fossero mai granché filati di striscio. Conosco quindi tutti i particolari del loro sogno di aprire un pub a Notting Hill, di come questo era stato più complesso del previsto e di come, quando alla fine ci erano riusciti, lui fosse stato così sollevato dalla cosa da decidere istintivamente di chiamare il posto come la sua adorabile mogliettina. Così che tu possa sentirti sempre a casa, aggiunge con tono di voce sognante, congiungendo le mani e poggiandole drammaticamente sulle guance, mentre mi sono slogata la mascella a furia di finti sorrisi e di cenni del capo entusiasti. In compenso, essendo alla mia quinta limonata, posso dire la mia nausea completamente dissolta.

Avendo quindi la bevanda svolto il ruolo che ancestralmente mia madre le attribuiva, mi chino per recuperare la borsa ed andare via, ma ovviamente la verbosa Sharon ormai mi tratta da amica del cuore ed insiste per presentarmi il formidabile marito campione di romanticismo. Erompe quindi in una specie di richiamo, probabilmente utilizzato anche dalle femmine di pipistrello per attirare l’attenzione dei compagni, e da una porta laterale compare l’uomo intento a pulirsi le mani bagnate su un canovaccio. Dall’espressione vacua, comprendo che probabilmente era dedito a qualche attività che il gracchiare della moglie ha bruscamente interrotto. Lo studio per qualche secondo, uno strano allarme nel cervello: non mi sembra di averlo mai visto, ma ha qualcosa di vagamente familiare. Non dimostra più di trent’anni, in tutto e per tutto è un normale ragazzo dai ricci capelli scuri e dagli occhi verde acqua. Mi squadra torvo per un po’, mi studia attentamente guardandomi in tutta la mia figura per un paio di volte. Indugia sui miei capelli raccolti alla bell’e meglio, mentre io mi serro nelle spalle. Sbuffa con il naso un paio di volte esibendo una specie di broncio infantile, prima di borbottare qualcosa all’indirizzo di Sharon.

Non so perché continuo a squadrarlo senza ritegno, come se ci fosse qualcosa che stona in lui. Sembra il più normale dei ragazzi, solo un po’ trasandato e stanco. Probabilmente la giovane moglie lo sta rintronando, appesa com’è al suo braccio ed intenta all’ennesima rievocazione della loro saga romantica, ma è un’espressione che non mi ricorda la superficialità maschile che ha spesso anche Ron quando straparlo. Piuttosto… sembra davvero e sinceramente spazientito. Nulla di lui richiama l’eroe romantico che stava descrivendo sua moglie… e forse è questo che mi sembra così sbagliato nel suo aspetto.

Del resto non ha nulla che sembri strano alla vista: indossa dei jeans un po’ strappati sulle ginocchia, una maglia rossa da calcio lievemente stinta sui bordi, delle scarpe di tela sporche di polvere bianca e gialla.

Sembra solo lievemente più scuro di pelle del consueto, cosa che mi fa intuire che non sia inglese al 100%.

Eppure la sensazione che ci sia qualcosa che non va, non mi fa dismettere lo sguardo indagatore.

Non sorride nemmeno per sbaglio. Neanche per educazione: sembra che faccia fatica persino a restare fermo qui.

Come faccia sua moglie a non rendersene conto, è un autentico mistero.

“Devo tornare al lavoro, Sharon…” ingiunge dopo un po’ con voce atona “Devo riparare il rubinetto del bagno di servizio prima che ci allaghiamo…”.

“Certo, tesoro! Vai pure… credo di aver tediato fin troppo la nostra gentile cliente…” ridacchia scioccamente Sharon, ancora bellamente ignara dell’evidente espressione insoddisfatta del marito, persa com’è nella sua nuvola rosa. Ed è da lì che si rende conto di non sapere nemmeno come mi chiamo.

“Hermione Jane Granger” sorrido educatamente, porgendo la mano ad entrambi. Il ragazzo la afferra in modo distratto in una presa umida e un po’ lenta, sussurrando in un sospiro lieve: “Il mio nome è Seth Green…”. Nelle sue dita che, immediatamente, senza alcuna partecipazione emotiva, lasciano le mie, avverto di nuovo quello strano senso di estraneità che non riesco a spiegarmi.

È qualcosa che mi spinge a voler trattenere la malinconia di questo ragazzo come se temessi che, lasciato da solo in questo pub che sa di frivolo e sciocco, possa commettere qualche pazzia. Della sua tristezza, si ammanta ogni cosa circostante, eppure nessuno sembra rendersene conto.

Presa da questa strana angoscia vedendolo darmi già le spalle, dico frettolosamente: “E’ molto bello amare così tanto una persona dopo tanti anni…”, riferendomi ovviamente alla moglie che continua a vomitare melensaggini. Seth si volta verso di me, per un attimo con un singulto negli occhi verdi da farmi temere che si metta a piangere così, di schianto. Mi agghiaccia il cuore e d’istinto, mi guardo attorno come a cercare un appoggio, un sostegno, sotto quell’insopportabile sguardo. Non ne trovo nessuno e mi sento soffocare.

“Certo, è bellissimo, Hermione… glielo posso assicurare…” ribatte caustico, come se stesse pensando tutto il contrario di quello che sta dicendo e si divertisse a farlo fluire nelle parole che la moglie non comprenderà, sciocca com’è “L’amore dovrebbe farti cambiare e renderti migliore. Spingerti ad essere te stesso. Fortunatamente io ho una persona che mi ama esattamente così come se fossimo ancora al liceo…”.

Ogni sua parola oscilla tra la stanchezza ed il veleno, come se fosse semplicemente troppo annoiato per ribellarsi davvero, ma al contempo non abbia ancora rinunciato ad un tono dismesso e crudele. È evidente e palese che non ami questa donna dalla voce trillante e dal comportamento appiccicoso: perché sia evidente a me che lo conosco da cinque secondi ma non a lei, resta un mistero. Non so come mi sia trovata io, qui, una perfetta estranea, a comprendere tutto questo, ma penso che sia semplicemente perché questo ragazzo è circondato da idioti. Cammina con un enorme segnale in testa di infelicità, ma nessuno pare accorgersene, e ciò stranamente mi fa sentire responsabile della sua serenità come se lo dovessi abbandonare in mezzo al mare.

Mi riprometto di tornare qui come se dovessi tipo tenerlo sotto controllo, e non posso fare a meno di provare un senso inconsueto di abbandono quando sparisce nel retrobottega, mentre io pago le mie consumazioni. Afferro la mia borsa lasciata su una sedia ed esco fuori respirando di nuovo, come se un po’ di quell’aria interna mi avesse viziato il fiato.

“Mi scusi, signora?”.

E con questa fanno due appellativi da sessantenne in una giornata, borbotto tra me e me, voltandomi in direzione della voce che mi ha richiamato indietro appena fuori dal “Sharon’s place”.

Mi ricompongo un po’ quando mi rendo conto che si tratta di un agente di polizia: assumo subito un contegno rispettoso, mentre l’uomo, non molto più grande di me, mi chiede numi su un auto parcheggiata nella strada nonostante un ben evidente divieto di sosta e fermata. Faccio spallucce assicurando che non sia mia, l’agente sospira rumorosamente come se fosse profondamente stanco, cosa che marchia la sua espressione apparentemente arcigna di una ruga di sconforto che me lo rende immediatamente più simpatico.

Mi affretto quindi a dire partecipe, indicando con il capo il pub da cui sono uscita: “Molto probabilmente è di qualcuno che prende un caffè…”, aguzzo la vista per leggere la targhetta del nome che porta appuntato sulla divisa linda e pulita, Kevin Stevenson, prima di concludere con un riverente: “… agente Stevenson…”.

L’agente mi restituisce un sorriso slavato che non gli arriva agli occhi oltremare, prima di concludere annoiato che molto probabilmente ho ragione.

Lo seguo per un po’ con lo sguardo mentre entra nel locale, mi pare persino di sentire la voce di Sharon che squittisce qualcosa e chiama di nuovo a gran voce suo marito Seth per risolvere la grana.

Accarezzo la mia sciarpa grigia, affondandoci il naso dentro per ripararmi da un improvvido vento ghiacciato.

Mi restituisce un accenno dell’odore di pioggia che soffia il vento sul mio viso, cosa che mi ricorda per associazione di idee l’erba bagnata nel mese di settembre, quando pochi giorni prima del mio compleanno l’estate dismette i suoi panni e il mondo sembra più dolce, più tiepido. Non hai paura della tempesta, sebbene si addensi all’orizzonte. La terra ha aspettato tanto la pioggia, arsa dal sole. E, quando finalmente sta per erompere dal cielo, pensa a mettere a riparo i suoi figli, temendo che si facciano del male. È forte abbastanza da sopportare il suo impeto? Non lo sa.

Rabbrividisce per i tuoni, geme per i fulmini, impallidisce per i lampi.

Ma sa che accetterà la pioggia, perché la pioggia è il suo destino.

Sorrido un po’ adesso, senza motivo, solo con quel profumo nelle narici.

Improvvisamente certa, sicura, che per ognuno ci sia un destino in attesa.

Persino per il ragazzo dall’aria sconfitta di nome Seth.

 

 

Andare al lavoro per me è diventato da anni uno slalom continuo nella stupidità umana. Uno pensa che magari io esageri perché, oggettivamente, non ho molta tolleranza nei confronti della comune mancanza di buon senso. Non sarei appellata ogni due per tre da mio marito come poco elastica, se non fosse così. In realtà, a sfidare anche la logica e la statistica, nel Dipartimento della Regolazione della Legge Magica si sono concentrati le menti meno eccelse della Storia del Mondo della Magia a partire da Mago Merlino e dagli incantatori di serpenti saraceni. Non so per quale ancestrale motivo ciò sia accaduto.

D’altronde siamo una delle branche più importanti del Ministero: quella che, a rigor di logica, garantisce integrità e tranquillità nel nostro mondo e nel rapporto con quello babbano. E sicuramente non mancano elementi validi, senza falsa modestia, come la sottoscritta.

Ma, tralasciando qualche altro infaticabile dipendente, c’è stata in questo dipartimento una concentrazione tale di idiozia da vanificare ogni mente vagamente illuminata che potesse averci messo piede.

Io non dovevo lavorare qui, ovvio: la vita spesso, però, si attorciglia e annoda attorno ad eventi che uno non potrebbe mai preconizzare. E quindi ti ritrovi in un ufficio a quasi quarant’anni, senza che niente, prima, ti abbia avvisato che saresti finita qui. Ero tornata ad Hogwarts alla fine della guerra, avevo completato la mia istruzione magica come a quei due asini di Harry e Ron non era assolutamente saltato in mente. Avevo ovviamente messo il muso, il broncio, ma non era servito a nulla: a loro due era sembrato assolutamente normale non terminare gli studi.

Avevamo diciotto anni, un’età in cui pochi soldi in tasca fanno già una differenza abissale tra sentirsi bambini e sentirsi adulti.

Harry, il ricco orfano di guerra ora anche eroe, aveva saggiamente deciso di investire le sue risorse economiche, lievitate dopo la guerra con i suoi encomi ed onori, per frequentare il Corso per Auror. Sembrava una strada quasi obbligata per lui, e non aveva deluso nessuno. Si trattava di studi impegnativi, gravosi, pesanti anche dal punto di vista strettamente monetario, ma Harry non si era fatto dissuadere.

In pochi anni, era riuscito a raggiungere l’agognato titolo, aveva cominciato ad uscire in missione, si era inserito perfettamente nella vita criminale del mondo magico come uno spauracchio letale.

C’era stato un periodo in cui era stato tentato dalla carriera politica, aveva pensato persino di concorrere come Ministro della Magia, ma poi aveva deciso di restare nel Corpo degli Auror.

Il motivo era semplice: ci era entrato anche Ron.

Questo, in effetti, era molto meno scontato: finita la guerra, dopo la morte di Fred, era stato per lui naturale restare nel negozio a Diagon Alley per aiutare suo fratello George. Faceva qualche soldo, poteva permettersi persino di offrirmi delle cene eleganti in occasioni di anniversari e compleanni e questo, per il ragazzo che aveva avuto sempre poco o niente se non di seconda mano, faceva tutta la differenza e l’entusiasmo del mondo. Poi, terminato il primo periodo di euforia, Ron comprese che quella non era la sua strada, ma era una modellata su quella del defunto fratello. Non era giusto per nessuno giocare a sostituirlo se lui aveva altri sogni e desideri: del resto, poi, George aveva sposato da poco Angelina e, naturalmente, il negozio di scherzi era diventato la fonte di sostentamento della neonata famiglia. Ron era velatamente, ma naturalmente, diventato di troppo.

Fu un periodo complicato e nebuloso. Ron sembrava avere tante ambizioni, tanti sogni, tanti progetti, ma erano sempre stelle di fumo, miraggi di nebbia. Era sempre troppo insicuro per provare davvero a fare qualcosa, aveva sempre troppo timore di fallire e si rifugiava sempre nella sua famiglia, ora meditando di tornare a lavorare con George chiedendo magari una paga ridotta, ora pensando di andare in Romania con Charlie, ora paventando la possibilità di assistere Percy nel suo lavoro. Io, da parte mia, avevo da poco finito Hogwarts, ero sempre la strega più brillante della mia generazione, ero presa dall’ansia di dimostrare al mondo quanto valessi. Fu difficile starci accanto. Era come se Ron temesse sempre che volessi eclissarlo, oscurarlo, sotto la mia luce. Io mi muovevo sempre in punta di piedi, spaventata di fare troppo rumore, o di essere troppo brava, o troppo valente per lui e per quello che stava passando. Finsi quindi un’insopportabile incertezza su che cosa volevo fare della mia vita, esibendo una specie di dubbiosità insita nel fatto che mi ero sempre interessata a troppe cose in modo da mostrarmi a mia volta fallace, umana, corruttibile.

Ron si sollevava d’animo alle mie difficoltà, comprendeva che magari non era così assurdo che anche lui fosse incerto se addirittura lo ero anche io: sorridevo, lo rassicuravo, ed intanto facevo colloqui segreti e spedivo curriculum di notte. Non mi sono mai pentita di questo, mai: ebbi qualche scricchiolio solo quando Ron si fece coraggio e fece un provino per una squadra di Quidditch, finendo per essere rifiutato.

Lì, toccammo il fondo. Sul serio. Ron divenne ombroso, scontroso, chiuso in sé stesso. Passava il tempo seduto sul divano con un bicchiere di Acquaviola, lo sguardo annacquato nel vuoto.

Iniziammo a litigare sempre più spesso. Per cose sceme, per cose importanti, per cose sceme per lui ed importanti per me, e viceversa.

Io dicevo che era troppo immaturo, che doveva reagire, che era solo un fallimento venale e che ci stava nella scala di cose che accadono in una vita.

Lui ribadiva che ero troppo rigida, troppo poco elastica, che non potevo sapere com’era la vita per lui, abituata ad essere sempre perfetta.

Proprio come accadeva ad Hogwarts. Ma peggio.

Stavolta non c’era Harry a fare da paciere. Stavolta eravamo anche fidanzati.

Le cose, se possibile, peggiorarono quando andammo a vivere assieme, convinti che così le cose si sarebbero sistemati, potendoci prendere cura l’uno dell’altra. Ma prendemmo ad evitarci nelle stesse mura di quella casa. Lui usciva e tornava a casa tardissimo, ubriacandosi con gli amici. Io mi addormentavo a braccia incrociate sul tavolo, aspettandolo. Eravamo sempre stanchi e nervosi, pronti a rimbeccarci in qualsivoglia occasione. Guardavamo un po’ di tv in silenzio e poi a letto. Ovviamente a dormire.

Ma, nemmeno per un attimo, ho mai smesso di credere a me e a lui assieme.

Era il mio destino stare con lui. Eravamo sopravvissuti a Voldemort, non potevano spaventarci le liste della spesa, le fatture da pagare e l’affitto.

Lui era il mio principe azzurro da tutta la vita, stare con lui era ogni giorno una fiaba.

Questa caparbietà fece così che le cose, piano, iniziassero ad andare meglio. Sostanzialmente per molto dovetti trainare da sola la mia relazione, sperando sempre che ne valesse la pena. Misi alle strette Ron, cercai di capire che cosa voleva fare della sua vita, dissi che non potevamo andare avanti così, nessuno dei due. Mentii e feci ragionevolmente finta di riferirmi anche a me stessa, che dovevo decidere a mia volta la mia strada, sebbene dopo mesi l’avevo capito anche io che cosa volessi fare. Peccato che quella risposta si schiantò come vetro quando scoprii che era la stessa di Ron.

L’Auror. Entrambi volevamo fare l’Auror.

Confessarlo a Ron lo avrebbe distrutto. Ora che aveva faticosamente capito che cosa voleva fare della sua vita, se avesse saputo che c’ero io di nuovo a fargli da contraltare e da luminoso paragone, sarebbe crollato. Non avrebbe retto. Lo avrei perso sul serio. E io, davvero, pensavo onestamente che potessi fare qualsiasi cosa.

Quindi lo lodai, lo aiutai a studiare, convinsi i suoi ad aiutarlo economicamente per la scuola, lo abbracciai e baciai quando mi disse, con gli occhi lucidi, che ce l’aveva fatta.

Stirai la sua camicia il primo giorno di lavoro e gli dissi di stare attento, mentre usciva di casa per andare in missione la prima volta.

Chiusi la porta, mi accasciai contro di essa e piansi, a lungo. La luce che cambiava nel corridoio per ore, con il mio sacrificio che premeva nel petto, le mani che mi soffocavano le lacrime in gola per il mio piccolo sogno infranto. Era odioso capire di volere una cosa nello stesso momento in cui la si perde. Avevo voluto essere un’Auror per tante cose: per la scarica di adrenalina che mi avevano dato le mie infinite battaglie, per il mio desiderio mai arso di giustizia, per la volontà di rendere il mondo un posto migliore, per la convinzione profonda che sarei potuta essere grande, per la consapevolezza che volevo dimostrare a tutti quanto elastica fossi.

Tutto, al confronto, sembrava avere il sapore farinoso e insipido della segatura.

Fu così che finii al Ministero prima al Dipartimento per la Cura delle Creature Magiche, cercando di riannodare i fili della mia me stessa che voleva giustizia per chi fosse più debole di lei. Ma avevo un incarico sottopagato che non mi portava da nessuna parte. Scartoffie, burocrazia, controlli di routine di bestie poco mansuete. Poi, la ferita magica, una convalescenza di otto mesi e mezzo, Ron che tornava a casa e mi raccontava del suo lavoro… e io desideravo solo che sparisse.

Fummo vicini ad implodere anche allora, forse ci fummo più vicini che in qualsiasi altro momento. Forse però, le coppie che restano assieme nonostante tutto, malgrado persino sé stessi, sono quelle che alla fine l’hanno vinta. Ron mi vedeva deperire, mi sentiva depressa. Lottò perché fossi trasferita al Dipartimento per la Regolazione della Legge Magica, e le cose migliorarono abbastanza. Sempre lavoro di ufficio era, sempre poco a che fare con l’Auror aveva, ma avevo almeno l’impercettibile sensazione che fossi una parte di quella linea sottile tra ordine e caos.

Le ultime resistenze verso Ron, mi sparirono dal cuore quando mi chiese di sposarlo.

Accettai, ovviamente.

Il resto, poi, è storia ormai delle mie ossa e della mia carne.

Non per questo amo il mio lavoro. Sono ben pagata, negli anni ho fatto carriera giungendo ad essere una dei dirigenti e, ben presto, dovrei poter entrare nel Wizengamot come uditore giudiziario prima, e come giudice poi. Ci dovrebbe essere molto lavoro in futuro, dicono che stanno aprendo molte indagini su alcuni crimini commessi proprio dagli Auror nel periodo della guerra.

E io potrei davvero fare qualcosa.

Solo questo ha sepolto, dopo decenni, la voce dell’Auror dentro di me, soppiantandola con la consapevolezza che non fossero così puri ed innocenti come sempre ho pensato. Io non sarei sicuramente diventata un’Auror anche se avessi potuto, qualora avessi saputo una cosa del genere. In questo sono decisamente meno elastica di Ron ed Harry, che hanno sempre pensato che io sola potessi creare problemi. Mi hanno sempre apostrofato in modo sarcastico, quando ne parliamo, dicendomi che sono troppo pronta a credere che il mondo sia bianco e nero e che un minimo dubbio mi avrebbe fatto uscire dai giochi.

Ho dato loro persino ragione, hanno decisamente più pelo sullo stomaco di me.

Ma ci sono voluti più di quindici anni a darmi la pace. E, spesso, il prezzo del sacrificio che ho fatto per Ron mi è sempre sembrato troppo caro.

Lo è di più specie quando comprendo che lavoro in un ufficio di idioti.

E, stamattina, nervosa come sono, non ho granché picchi di positività per ricacciare indietro i pensieri negativi, né tantomeno riflessioni eziologiche su me stessa che mi facciano sentire contenta di essere dove sono. Stamattina, stancamente mi limito a respirare piano nella mia sciarpa grigia, illudendomi di calmarmi.

La stoffa spessa mi restituisce, ancora, quel quieto odore di pioggia. È quello che mi rende fredda anche quando vedo stazionare nel corridoio che porta al mio ufficio i due peggiori esponenti della razza di incapaci che sono costretta a frequentare in questo Dipartimento: mi si imperla già la fronte di sudore freddo, considerando che non ho vie di fuga e che sarò costretta a passargli davanti, intrattenendo persino qualche amabile chiacchiera che mi costerà una mutilazione di intelligenza ed autocontrollo. Uno dei due avventori è una ragazza piuttosto giovane, alta, decisamente carina: pelle bianca, un sorriso accattivante e seducente, occhi azzurri dal particolare taglio allungato, una cascata di fluenti capelli ondulati biondo platino, abbigliamento da turista in vacanza estiva, visto che indossa una camicia azzurra senza maniche abbondantemente aperta sul seno, e un paio di shorts molto corti. Sospiro, ha una spalla mollemente poggiata sullo stipite di una porta e sussurra suadente nei confronti dell’uomo che ha di fronte, mentre porta alle labbra un bicchiere di carta.

Uno direbbe che, come minimo, per tale atteggiamento rilassato, si debba trattare quantomeno di una dirigente o di un impiegata capace e di lungo corso.

Sbaglierebbe in entrambi i casi: la procace ragazzetta altri non è che la mia pessima segretaria, Leda Pole, alle mie strette dipendenze da un infernale anno.

Non l’ho assunta, né cercata personalmente: non potrei riunire tanta sconsideratezza in una sola discutibile scelta nemmeno mettendomi d’impegno, dato che Leda incarna praticamente tutto ciò che detesto nelle donne. Partiamo dal suo abbigliamento e dal fatto che sia tremendamente frivola, oscena, oca, sempre impegnata a fare colpo su qualche componente della razza maschile, specie se costui possa esibire un portafoglio gonfio, poco importa se sia celibe o sposato, single o vedovo, padre o nonno. Leda puntualmente strizzerà il seno in un bustier minuscolo, esibirà un sorriso vorace da mangiatrice di uomini, sbatterà le ciglia gravate dal mascara e si darà al flirt selvaggio. Sembra sempre vivere sotto il dogma de “il mare è pieno di pesci”, nel dubbio cala quanti più ami possibili, indifferente a chi abbocchi.

Questo, però, in fondo è un fatto solamente suo. Del resto non è mai sembrata interessata a mio marito, anzi quando lo incrocia ne sembra persino infastidita, cosa che non può far altro che allietarmi.

E certo, caratterialmente, è abbastanza permalosa, vanesia, viziata ed umorale, ma, ancora, ci devo lavorare assieme, non diventare amica del cuore.

Il problema è, appunto, lavorare assieme a Leda. Perché è un’incapace, superficiale, smemorata, e non dico eresie se ammetto candidamente che il mio lavoro è triplicato da quando c’è lei. Devo sempre correre ai ripari per le sue dimenticanze, perché può darsi che non mi riferisca di importanti incontri ed appuntamenti. In compenso, tiene a mente benissimo fatti intimi e personali come se fosse Pico della Mirandola: è capace persino di tenere nota mentale di ogni mio litigio con Ron, di ogni mia sfuriata con Ginny, di ogni incomprensione con i miei figli e finanche del mio ciclo mestruale. Quindi, insomma, se ci mettesse impegno, potrebbe anche tenere in testa due nomi in croce, seguiti da qualche orario. E, se a ciò ci aggiungiamo che è abbastanza inaffidabile, quindi può sparire senza nessun margine di preavviso per giorni e senza che nessuno sappia dove sia e quando tornerà, abbiamo raggiunto l’apoteosi.

Ora è naturale che uno si chieda perché lavori con me. Semplicemente, è un altro di quegli enormi compromessi che devo fare con me stessa ogni giorno lavorando qui.

A furia di gettare ami, circa due anni fa, Leda ottenne davvero un buon partito: non so chi sia, ma chiacchiere di corridoio parlano di un uomo molto ricco, con una posizione ammirevole, di buona famiglia, naturalmente sposato con figli. Leda si innamorò istantaneamente del suddetto personaggio, perché sembra anche che, caso più unico che raro, il facoltoso tipo fosse anche giovane e decisamente affascinante. Questa combinazione fece sì che la mia futura segretaria cadesse ai piedi dell’uomo come una pera cotta, sperando persino di essere impalmata un giorno. Ma il fedifrago non la pensava affatto così e, dopo qualche intenso mese di frequentazione, la scaricò. La delusione cocente della ragazza fu tale che minacciò di mettere a soqquadro l’intero mondo magico e la reputazione della famiglia dell’uomo spiattellando tutta la storia, a meno che non avesse ricevuto una contropartita soddisfacente per la sua delusione amorosa.

Le fu dato credito perché i Pole fanno parte comunque di un ramo cadetto della famiglia Nott, quindi poteva essere ragionevolmente creduta ed alzare anche il tiro delle sue pretese, paventando persino la possibilità fasulla che fosse incinta.

Il suo devastante mal d’amore fu risarcito con una somma di denaro che onestamente non rammento e nemmeno mi interessa, e nel diritto di poter trattenere una serie di ninnoli e regali dei tempi del corteggiamento, tra cui un vistoso anello di opale da cui lei non si separa mai. In aggiunta, ottenne di poter essere sistemata professionalmente al Ministero, dopo il fallimento delle sue velleità da cantante.

Il caso vuole che, in quel momento, io stessi appunto cercando un collaboratore. Sfortuna vuole che tutti sapessero quanto io sia discreta e disponibile, pronta anche a crocifiggermi per adempiere il mio lavoro. Se poi lei, furbescamente, mi fu di primo acchito dipinta come una povera vittima delle circostanze, sedotta ed abbandonata da un becero maschilista che si era approfittato della sua ingenuità da ragazzina innamorata… potete capire come l’accolsi a braccia aperte. Accettai di buon grado la sua lunaticità il primo mese, perdonai le sue sfuriate e le sue distrazioni, fui accondiscendente con le sue assenze e moine. Avevo persino in programma di salvarla e riabilitarla dalla lettera scarlatta che il Mondo magico le aveva dipinto in fronte, convinta che non fosse colpa sua.

Ci misi due mesi, però, a comprendere che quel ruolo le piaceva parecchio, che se l’era scelto, che non c’era alcun errore di considerazione e nessuna malevola chiacchiera infondata alle sue spalle. E che, soprattutto, sarebbe stata un peso nel mio lavoro. Ormai, però, me la dovevo piangere nel mio ufficio, dato che era virtualmente insostituibile e ragionevolmente irremovibile, senza che rischiassi io stessa il posto. All’inizio non me ne interessava, tornavo a casa così nervosa ed arrabbiata da sfogarmi ripetutamente con Ron mentre cucinavo la cena. Arrivai al punto di scrivere una lunga lettera di dimissioni, minacciando di andarmene se non me la toglievano dalle scatole. Ma poi Ron mi fece ragionare, parlò di quanto ci era utile il mio stipendio, di come Rose fosse vicina ad andare ad Hogwarts con tutte le sue spese e di quanto necessitassimo di stabilità. E quindi quel “porta pazienza per un mese o due”, alla fine è diventato “sopportala e basta. Fai il suo lavoro. E mastica amaro mattina e sera, allevandoti un tumore che ti ucciderà a cinquant’anni scarsi…”.

Leda, presa singolarmente, è relativamente innocua: fastidiosa come una puntura di zanzara, ma alla fine basta che non ci pensi. Diventa una specie di ulcera perforante, unita ad un ustione di quinto grado e ad una collisione del mignolo del piede contro uno spigolo, quando è in compagnia di un uomo. E non di un uomo qualunque… ma del mio odioso dirimpettaio lavorativo, Dean Thomas.

È infatti lui che, adesso, sta “parlando” con Leda, sebbene non credo che il verbo parlare sia adatto al loro palese flirtare e lanciarsi occhiatine provocanti. Non a caso, al momento, Leda continua a passarsi languida la lingua sulle labbra, ignara della mia presenza, come se fosse maniacalmente attenta alla pulizia della sua bocca dopo aver bevuto il caffè, e Dean praticamente pende da esse come se fosse la Sibilla Cumana. Sospiro con nervosismo, è come aspettare di essere travolti da un disastro ferroviario, misto ad un incidente aereo e ad un terremoto di 9 gradi sulla scala Richter.

Sono il quadretto più classico che esista al mondo di pateticità e perversione: ho già abbondantemente chiarito di che razza sia fatta Leda Pole, una che si innamora dei codici IBAN degli uomini. Se però il conto corrente della persona in questione rasenta lo zero assoluto, dobbiamo per forza parlare di un altro personaggio sui generis.

Dean Thomas è infatti un idiota. Senza mezze misure.

Ne avevo pallidi sospetti ad Hogwarts, ma sono sempre stata fiduciosa sulla ripresa neurale delle sue sinapsi. Era un ragazzo immaturo e superficiale, con una pericolosa attitudine alla menzogna gratuita, ma in fondo buono, onesto, innocente. Se avesse trovato compagnie giuste, nonché una donna che gli insegnasse che poteva anche non essere spaccone per essere scelto, sarebbe diventato sicuramente il migliore degli uomini. Aveva bisogno di una sorta di sfida vinta alla lotteria del destino, di ingranare il colpo di coda del gioco di carte della vita, perché poi tutto filasse da sé.

Invece se il teorema insegna che, nella vita degli uomini, saranno fondamentali le donne che andrà incontrando ed amando, si comprende che, essendo capitata a Dean Thomas invece Lavanda Brown, la conquista più facile ed oca della storia del mondo, inevitabilmente tutto sarebbe andato a scatafascio. Iniziarono una relazione per caso all’indomani della mia con Ron che spezzò il cuore di quella vanesia gallina. Dean era libero, carino, disponibile: non sono cieca, persino adesso è un bel vedere. Non era nemmeno esageratamente impegnativo, e Lavanda dovette pensare che fosse un bel ripiego.

Fecero tira e molla per parecchi anni ripagandosi i tradimenti con gli interessi, finché si arresero alla fine di quel gioco quando Lavanda scoprì di essere incinta e dovettero sposarsi in fretta e furia.

Ebbero un figlio, Gabriel, e per alcuni anni furono il ritratto dell’insipida vita coniugale, tutti concentrati sul loro piccolo tesoro che intanto cresceva in arroganza e presunzione.

Poi, appena Gabriel fu sbolognato al nido, ripresero le loro antiche abitudini, peggiorate dalla convivenza forzata e dall’esistenza del unigenito che comunque li costringeva a restare assieme. Hanno preso stranamente ad assomigliarsi anche nell’aspetto: sono sempre abbronzantissimi anche a dicembre, con la manicure fatta, i capelli ossigenati e le rughe che spiccano sulla pelle scura attorno agli occhi. Credo che Dean abbia anche adottato lo stesso tono di voce della moglie, acuto e stridulo.

Sono una specie di barzelletta triste del nostro mondo: ci sono giri di scommesse su quanto dureranno, su quando il loro figlio li ammazzerà nel sonno, su chi sarà la prossima preda del loro continuo tradirsi a vicenda. Quest’ultimo giro scommesse, però, è fermo da mesi riguardo a Dean. Perché lui è ormai il giocattolo sessuale ufficiale di Leda Pole.

È stata lei a confessarmelo candidamente un pomeriggio d’estate. Ovviamente non lo ama, ed ovviamente non pensa che ci possa essere un futuro qualunque tra loro, visto che Dean ha una semplice paga da impiegato, un figlio a carico ed un destino bloccato in questo Dipartimento, dopo che anni fa rifiutò una promozione del suo vecchio Dipartimento alla Cooperazione internazionale che lo avrebbe però portato a Parigi, lontano dalla moglie gravida. Chiaro che questo scenario non possa far fremere nulla di Leda. Ma è un bell’uomo, “scopa da Dio! Ha questo vizio di non smettere di guardarmi negli occhi quando viene dentro di me! E a me viene da ridere! Lui sorride un po’, pare pure triste, volta il capo e se ne va…”, mi ha riferito zelante e non richiesta Leda.

È stata quella confidenza non voluta, a cui ho risposto con un commento acido che mi ha tolto Leda di torno per una settimana, a farmi stringere il cuore.

Non ho mai provato pena o compassione per Dean Thomas, figuriamoci. Non ne proverei mai per uno che volontariamente non solo si sposa con Lavanda, ma se la fa con Leda.

Però quel particolare, quel suo modo di guardare negli occhi questa sciocca ragazzina qualunque, come se cercasse qualcosa ma lei fosse troppo sorda e cieca per capirlo… mi ha illuminato su quanto debba sentirsi perso e perduto dietro quell’aspetto solare da playboy impenitente. Suo figlio non è una consolazione: è un quindicenne maleducato e distante, che lo appella nelle maniere peggiori possibili tra cui vince decisamente la parola “coglione”. Dean, però, più sta male e più sorride. Magari in modo più stanco, ma questo fa.

E dice solo: “Sarebbe stato meglio avere anche tre figlie femmine, io con le femmine ci so fare decisamente meglio!”. Leda a quelle parole scoppia a ridere civetta, sporgendosi in avanti con il busto a sottolineare che con lei, effettivamente, ci sa fare. Dean ancora sorride, ma ha uno spasmo all’angolo della bocca che somiglia ad un rantolo trattenuto.

E io penso davvero che qualsiasi vita sarebbe stata migliore di questa.

Una volta qualche mese fa, il 21 giugno, lo beccai che piangeva. Mi disse che era il compleanno di Gabriel, che era commosso dal tempo che passava, che suo figlio era diventato un uomo e che per questo non voleva passare la festività con lui, andando a pescare. Finsi di credergli, feci una battuta su Rose che ormai non voleva più la babysitter.

Dentro di me, pensai al dramma di un uomo per cui il compleanno del figlio è il giorno peggiore della sua vita.

Quello dove ha legato il suo destino a questo pagliaccio da gossip che interpreta, e non è stato in grado di liberarsene più.

Giunta in prossimità del triangolo delle Bermuda (ed anche di qualche altro pezzo di intimo) tra la squinzia e il toy boy, accenno ad un cenno del capo che funga da saluto ma non mi risucchi nelle loro chiacchiere porno soft. Sono convinta di essere sgusciata indenne, quando Leda con voce zuccherosa mi richiama indietro: “Capo! Ho un messaggio da consegnarle!”.

Mi volto sorpresa dalla sua efficienza, dato che sarà tipo il secondo messaggio che riesce a riferirmi in un anno. Ed il primo è giunto a destinazione solo perché era di Blaise Zabini, un altro dei suoi target annunciati. Con un sorriso svenevole che causa un altro rantolo in Dean, mi porge un biglietto dalla tasca del top che porta, quindi praticamente in corrispondenza del seno sinistro.

Disgustata e comprendendo che se n’è ricordata solo in virtù del suo utilizzo come rituale di accoppiamento, afferro il biglietto con due dita ringraziandola a denti stretti, mentre dico caustica: “Leda, sei sempre la mia salvezza in ogni circostanza. Un toccasana per il mio sistema nervoso…”. L’imbecille ovviamente non capisce l’antifona e sorride ancora zuccherosa, mentre Dean annuisce entusiasta, lo sguardo ancora sul punto da cui la mia solerte segretaria ha estratto il messaggio.

“Dean sei cianotico…” commento piccata, guardandolo storto mentre rientro nel mio ufficio “Forse è meglio che chiami Lavanda e ti faccia venire a prendere…”. Punto sul vivo, si affretta anche lui a rientrare nel suo ufficio, lasciando Leda da sola che mette su un broncio da bambina scontenta.

Cara…” rimarco al suo indirizzo, sapendo quanto detesti l’appellativo perché ritiene che la invecchi “Potresti portarmi la pratica del caso Latimore? Dovrebbe essere all’Archivio N4…”, quindi dall’altra parte del Ministero e dove tendenzialmente c’è una coda di un’ora e mezzo, così possa dimenticarmi che esisti.

Contrariata, Leda è costretta ad accettare e si incammina a grandi passi sui tacchi traballanti.

Finalmente posso entrare in ufficio e chiudermi la porta alle spalle con un enorme sospiro. Guardo con un sorriso l’albero di Natale spelacchiato che Hugo ha insistito perché facessi in ufficio, agitando la bacchetta perché si accenda di oro e rosso. Mi siedo alla scrivania spostando una serie di scartoffie che Leda avrebbe dovuto sistemare nello schedario, cosa che mi costringe ad un nuovo sbuffo di fastidio, e finalmente apro il messaggio. È di Ginny e recita solo poche parole: “Riunione Weasley stasera alla Tana. Dramma in arrivo. Non mancare. G.”.

Rassicurante al punto giusto, devo dire.

Così che io abbia davvero voglia di tornare a casa, bramando di trovarmi di nuovo nel mezzo di una crisi dai capelli rossi.

Guardo le pratiche sulla mia scrivania, decidendo che proprio oggi avrò misteriosamente un carico di lavoro tale da trattenermi qui fino alle 21 passate.

 

 

Ginny ha usato l’espressione “riunione Weasley”, perché in fondo è questo quello che siamo. Tutti.

Weasley.

Persino Harry, che ha il cognome più importante del mondo magico. Persino lui che è un uomo e, in una logica prettamente maschilista ed antiquata, dovrebbe trasmettere il proprio cognome a sua moglie.

È un Weasley anche lui e stiamo sempre parlando dell’unico genero che Molly ed Arthur Weasley avranno mai. Una specie di razza in via d’estinzione.

Figuriamoci se non lo siamo, a maggior ragione, io, Fleur, Angelina, Audrey e persino Cora, l’eterna fidanzata mai del tutto ufficiale di Charlie.

Abbiamo dismesso cognomi ed identità, nel momento in cui abbiamo messo le fedi al dito.

Esagero, lo so.

In parte influenza il fatto che sono le otto di sera e, dopo un gufo particolarmente minaccioso di Ron, ho dovuto mollare l’ufficio perché lo raggiungessi immediatamente a casa dei suoi genitori. Un po’ influisce che io abbia al momento le caviglie gonfie e i piedi doloranti dopo che sono stata in piedi per un’ora, intrattenuta nei convenevoli con l’ambasciatore neozelandese, e che quindi il mio solo desiderio sarebbe tornare a casa, farmi un bagno ed andare a letto. Sicuramente, il disagio è aumentato dalla nausea, risorta improvvida dopo il mio pranzo, quando mi è saltato in mente di prendere un pezzo di torta alle carote e mandorle. Quindi ammetto che, al momento, potrei non essere molto razionale.

Questo in condizioni normali dovrebbe spingermi automaticamente ad allontanarmi da qualsiasi forma di iterazione umana per paura di far danni, ma naturalmente non sono stata messa nelle condizioni di rintanarmi nel mio buco di solitudine e misantropia.

Sollevo lo sguardo annebbiato dalla stanchezza verso le finestre della casa, che si staglia come una grande ombra scura nel centro esatto della valle silente: giunge dall’interno il tramestio comune di più di venti paia di passi, accompagnato da un’accozzaglia di voci tra le più diverse, condito dall’odore di arrosto alle cipolle selvatiche di Molly che costringe il mio stomaco ad un ulteriore capriola di fastidio. Sospiro lungamente cercando di ricacciare indietro la nausea, preoccupata di dover anche subire un terzo grado da chioccia da parte di qualcuno all’interno, poi, illuminata, decido di sedermi qualche secondo sui gradini dell’ingresso, nascosta dalla siepe di buganvillea, godendo del freddo pungente della sera. La mia innocua giustificazione mentale è che, spero, l’aria fresca possa restituirmi il benessere e un po’ di energia. La mia vera reale preoccupazione è di ritardare quanto più possibile l’incontro con il dramma in corso, che realisticamente si rivelerà essere solo una divergenze di vedute sul menù di Natale tra le solite ventinove portate e il tentativo di Molly di aggiungere anche il pasticcio di rognone, ostracizzato come da tradizione.

Appoggio la testa contro la siepe ritrovandomi ad occhi chiusi, le labbra strette.

Ho sempre adorato i Weasley, tutti, dal primo all’ultimo. Ho sempre adorato il caos che si respira a casa loro, ho sempre adorato di non sentirsi mai davvero soli. Mi sono innamorata, prima che di Ron, di quel rumore di fondo delle stanze che erano voci e sedie accostate, bicchieri che si toccano e mani che si sfiorano, e che non somigliava affatto al silenzio bianco della mia casa da bambina.

Sono figlia unica, sono unigenita figlia di due unigeniti genitori: esclusi loro, escluse qualche sporadica amichetta del corso di pianoforte, sono sempre stata una bimba solitaria e strana, con il naso sempre affossato nei libri, gli occhi sempre incuriositi dai movimenti infantili degli altri e dai loro giochi, ma con la posa ritta e severa di un’adulta che già si escludeva e faceva ombra a sé stessa.

Fino ad Hogwarts.

Fino ai Weasley, appunto.

Sono diventata una figlia ed una sorella con una velocità che mi ha sempre sorpreso e che non poteva essere imputata a me, sempre chiusa e bacchettona. Ma a loro, alla loro franchezza, al loro calore, alla loro gioia di accogliere qualcuno nel loro tiepido guscio. Io ed Harry ci siamo trovati seduti ad un tavolo, circondati da teste rosse, dall’oggi al domani: mangiavamo porridge caldo su una tovaglia a scacchi e ci sentivamo a casa, l’orfano e l’unigenita. Avevamo regali da scartare che, pure se di fattura scadente, erano di enorme cuore e sostanza di amore. E tutto sembrava solo una meraviglia dolce di affetto, piombataci addosso come risarcimento di due infanzie solitarie. Certo, la mia non è minimamente paragonabile a quella di Harry con quegli zii infernali che aveva, ma insomma… ci siamo capiti.

È un segreto ostile come un serpente, ma fino a non molto tempo fa, a mio modo, li consideravo quasi come la mia vera famiglia. Lo ammetto. Influiva decisamente che il mio albero genealogico contava pochi e sparuti membri che conoscevo poco e che erano tutti babbani fino al midollo: mi avevano sempre fatto sentire diversa, strana, anormale. Ne avevano ragione, ma ovvio che ora che ne avessi una giustificazione mentale e fisica, avessi ancora meno interesse a frequentarli se all’antica umiliazione ed inadeguatezza si aggiungeva anche un corposo senso di rivalsa.

Il mio posto era un altro, la mia vita era un’altra: loro manco sapevano che c’era stata una guerra e quanta gente era morta, per salvare anche loro. Avevo persino avuto una sorta di blocco emotivo per un paio di settimane al termine del conflitto quando avevo recuperato i miei genitori dall’Australia, per lo stesso motivo. Mi seccava dover spiegare che cosa era accaduto, in fondo ritenevo che non avrebbero capito, specie nella mora ancora fresca della perdita di Fred e in quel miasma di dolore che sembrava unire tutti i Weasley, me ed Harry, ed escludere automaticamente tutto il resto del mondo.

Quando tutto tornò alla normalità, per molto le cose non cambiarono: anzi, il mio nuovo status di fidanzata di Ron mi rese ancora più parte integrante del clan, ora senza più alcun genere di scusa. I miei stessi genitori furono trascinati nel vortice della vita alla Tana, perché era ovvio che la legge dei numeri prevedesse automaticamente che due individui potessero spostarsi tranquillamente, meno venti e passa.

Ogni Natale, ogni festa qualunque, l’ho sempre festeggiata qui dai tempi del fidanzamento fino a quelli del matrimonio. A maggior ragione, quando sono nati Rose ed Hugo.

Ed andava bene, sul serio. Sono sempre stata felice. Contenta. In pace.

A godermi confusione e chiasso, a bearmi delle chiacchiere e dei piccoli motteggi di mia suocera, a preoccuparmi bonariamente di mio suocero, a controllare che i miei figli non si mettessero nei guai con i loro cugini. Mi sono sempre sentita benedetta e rassicurata che non vivessi in una fittizia vita di plastilina dalla pecca, tutto sommato normale e trascurabile che, escludendo Ginny, non ho mai avuto grandi rapporti con le mie cognate. Fleur di fondo non mi è mai piaciuta, troppo vanitosa e bella per non mettermi a disagio con i miei capelli sempre in disordine e le unghie mangiucchiate. Angelina, la moglie di George, è un’autoritaria allenatrice di Quidditch a suo modo anche simpatica, ma con cui ho ben pochi argomenti di conversazione in comune. Audrey, la moglie di Percy, è abbastanza nevrastenica e perfezionista, non penso di averla mia beccata da sola in un momento che non fosse la preoccupazione per lo stato dei vestiti delle sue figlie, o per la presenza o meno di grassi insaturi nelle salsicce di fegato.

Cora, invece, è un caso a parte.

Ha tipo quarant’anni, ma ne dimostra la metà: bellissima, con un corpo da favola e lunghi capelli corvini. Una modella, praticamente, ma che ha anche il pregio di essere colta e simpatica. Ma è una meteora. Lei e Charlie girano il mondo curando i draghi, non si fermano mai troppo a lungo nello stesso posto, non pensano minimamente né di sposarsi e nemmeno di avere figli.

Mi piace molto forse proprio perché è il mio opposto… ma la vedo troppo poco per legare con lei.

Però, tutto questo non è mai stato un problema: vado d’accordo con Molly, con Ginny. Ho mia madre. Insomma, non ambisco alla perfezione.

Poi qualcosa è cambiato. Dalla morte di mio padre.

Arrivò Natale, mia madre ormai viveva da sola a Favignana in Sicilia. Volevo passare le feste da lei, non volevo costringerla a spostarsi, non volevo nemmeno che affrontasse l’Inghilterra e tutti i suoi ricordi. Volevo anche che i miei figli conoscessero quel lato di me, quella casa che sapeva di arancia e limone, quella lontana origine che avevo solo finto di dimenticare e che ora mi richiamava a sé come il mare di una conchiglia. Solo un anno, dissi convinta a Ron quasi supplicando, dammi solo un anno. Sapevo di chiedere molto, lui adora il Natale a casa, sua madre non ci avrebbe perdonati facilmente. Ma pensavo davvero che capissero.

Ebbene, non capirono. Per nulla.

Ron mise un broncio da bambino di cinque anni che gli durò settimane: preparava i bagagli con malagrazia, accatastando cose con malavoglia e guardando con desiderio Harry mentre rientrava a casa carico di pacchetti. Formalmente diceva: “Andiamo, tranquilla, non ti preoccupare… che saranno due settimane da babbano?” ed intanto nell’appunto finale, ci metteva abbastanza sarcasmo da darmi il voltastomaco. Non parliamo nemmeno poi del vero ed autentico ostruzionismo che mi fecero Rose ed Hugo: naturalmente alla prospettiva del più normale dei Natali, senza i tiri vispi Weasley ad inventarsi corolle di luce porpora, senza alcun cuginetto con cui giocare e senza nemmeno il caos tipico delle nostre feste, montarono beghe e noie assurde. Favignana, del resto, non aveva grandi attrattive d’inverno con cui poterli allettare. Riuscii a resistere abbastanza bene al fuoco incrociato di mio marito e dei miei figli, ignorando il primo e mollando ceffoni ai secondi quando si permisero insolenti di dire anche che “ci rifiutiamo di andare da nonna Eleanor perché è pizzosa!”.

Capitolai, però, durante il pranzo domenicale del quindici dicembre, due giorni prima di partire. Tra i miei cognati che organizzavano le festività, spingendo all’invidia Ron e i bambini che continuavano a guardarmi storto, e i miei suoceri che oscillavano tra “non sarà la stessa cosa senza di voi” e “d’altronde avrebbe avuto più senso che si fosse spostata solo Eleanor! Sarebbe stata anche in compagnia! Si divertirebbe di più”, conditi da sguardi lacrimevoli e stucchevoli complimenti alla “la famiglia è sempre la famiglia!”… semplicemente non ce la feci più e dichiarai bandiera bianca su tutta la linea, stremata.

Restammo a Londra, i miei figli si divertirono come pazzi, Ron poté vedere la finale di Quidditch con i suoi fratelli, mia madre prenotò un volo economico all’ultimo minuto, ed io…

… spaccai una decina di piatti in preda all’isteria da sola nella cucina di casa mia, prima di raggiungere gli altri alla Tana.

È una delle cose più irrazionali che abbia mai fatto: scientemente ho passato un’ora d’orologio a spaccare piatti, rimetterli assieme con la bacchetta e poi a frantumarli daccapo in modo sempre più fantasioso.

Non è una bacchetta, però, che ripara le crepe che ti si aprono dentro. Mai. Al massimo ci metti gesso e stucco, ma il difetto è nell’intelaiatura, sta sempre lì. Mettici una pietanza più calda e si venerà daccapo.

In Italia ci siamo andati poi a Pasqua, i miei figli si sono divertiti un mondo giocando a mare sulla spiaggia, mia madre ha mostrato le ristrutturazioni fatte alla casa di mia nonna, Ron ha mangiato chili di pasticcini con la marmellata d’arance… tutto bellissimo. Certo.

In realtà, non è andato più niente a posto da allora per me nella famiglia di mio marito. Improvvisamente piccole cose che mi erano sempre passate innocue sotto il naso, sono diventati elefanti da salotto che nascondevano la luce del sole. Esattamente come la prossimità di Harry e Ginny come vicini di casa.

Il senso profondo della condivisione, ora, mi infastidiva: c’erano cose che avevano il dovere di restare mie e di mio marito, e non essere lavate nel caldaio Weasley magari anche con sufficienza. La continua mancanza di privacy adesso mi irritava perché scoprivo di nuovo la mia dimensione più introversa che necessitava e bramava come ossigeno domeniche a casa, festività solitarie o semplici pomeriggi dove assentarmi senza alcuna spiegazione. L’appartenenza che, improvvisamente, faceva scomparire famiglie d’origine o conoscenze esterne, delineandoti a pieno un membro del clan, dava sì supporto e sostegno, ma schiacciava anche senza respiro. E, se per me non era eccessivamente fastidioso, non potevo tollerare che i miei figli considerassero amici solo quelli che, a conti fatti, erano sempre i loro cugini.

C’era altro là fuori.

Dopo quello, ovviamente, tutti i piccoli e grandi difetti sono sorti come funghi, infastidendomi come non mai. L’eccessiva premura da mamma apprensiva di Molly, l’inconsistenza vaga dei pensieri di Arthur, l’iper-precisione pedante di Percy e Audrey, la sfrontata spacconaggine di George e Angelina, la superficialità vanesia di Fleur.

Intendiamoci: li adoro. Li amo sempre. Sono la mia famiglia.

Ma necessito di pace, calma, tregua. Più spesso di quanto riesca ad ottenerla.

Ciò mi fa sentire ingiusta e sbagliata al punto che, solo perché pianifico di andare da sola in Italia per l’Epifania a trovare mia madre, mi risale la nausea. Solo pensare alla veranda della sua villetta, con la luce afosa dell’estate e l’odore di limoni mentre sono intenta a scrivere qualcosa, mi fa sentire male. E non dovrei sentirmi così. Dovrebbe essere un pensiero bello prendermi del tempo solo per me, come donna, da sola. Ed invece, ormai, sono un punto indistinto in una trama color rosso ed oro.

Probabilmente la stanchezza esacerba tutto un po’, penso con calma respirando il vento che sa di muschio e fresia, e probabilmente il dramma annunciato sarà solo una sciocchezza da un paio di ore massimo.

Un paio di ore lontana dal mio copriletto caldo, dal mio libro rimasto alle ultime trenta pagine, dalla mia camomilla con miele e limone.

Sospiro languidamente, prima mi do una mossa e meglio è. Mi alzo sferzata da un’ondata di coraggio, ergendomi dritta in tutta la mia modesta altezza, inarcando in avanti la schiena e spingendo in fuori il busto. Salgo a due a due i gradini del portico, per poi fermarmi davanti alla porta a vetri da cui giunge un bagliore aranciato e voci soffuse ma concitate. Incasso di riflesso il collo nelle spalle, nascondendo la bocca nella mia sciarpa grigia che ormai si è impregnata dell’odore di pioggia, sembra che ci sia nata apposta con questo odore addosso, poi, rapida, sfruttando l’ultimo anelito di masochismo rimasto, abbasso la maniglia con decisione entrando.

Le voci, che all’esterno sembravano tutto sommato sopportabili, mi rintronano una volta all’interno per il contraccolpo rispetto al silenzio, assieme all’ondata di calore data dalla differenza di temperatura. Con nervosismo, quindi, mi levo velocemente il cappotto mollandolo su una poltrona assieme al cappello.

La sciarpa, no. Quella non riesco a togliermela di dosso. Mi dà la rassicurante sensazione di potermici nascondere dentro.

Seguo la direzione delle voci, giungendo infine in salotto. Le voci cessano all’improvviso, anche se sarebbe più corretto dire che sono le urla a smettere di colpo non appena tutti avvertono la mia presenza. Guardo tutti interrogativamente, la posa già alla Granger scolpita nella mia espressione e nelle movenze del mio corpo: ho già inarcato inavvertitamente un sopracciglio, ho già messo le mani sui fianchi e ho già gonfiato le guance in un moto da pesce palla in posizione da combattimento. Tutti, d’altro canto, mi guardano con un frammisto senso di terrore, di calma e di immediata remissione di ogni problema sulle mie fiacche spalle. Ed è questo che aggiunge alla mia postura un tic nervoso al piede sinistro che prende a tamburellare sul pavimento, in attesa.

Dato che nessuno si ostina a parlare, getto uno sguardo nervoso alla stanza intera mettendo a fuoco nella vista tremolante di stanchezza tutti i presenti. In piedi, poggiato al davanzale della finestra, c’è Harry che si pulisce gli occhiali con un lembo del maglione rosso che indossa: lui mi sembra quello più calmo, più pacifico. E ciò mi rassicura sul fatto che, in fondo, non sia successo niente di così grave. Mi restituisce uno sguardo appannato a cui rispondo con un fremito dell’angolo destro della bocca a dimostrazione di quanto mi consideri ben più esausta di lui, almeno tu sei già in ferie.

Poco più in là Ginny è seduta scompostamente su una poltrona, le gambe piegate su un bracciolo, mentre mangiucchia dei cubetti di formaggio con estrema nonchalance, come se fosse perfettamente a suo agio e non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. Si limita semplicemente ad un cenno frettoloso del capo in mia direzione per poi riprendere a mangiare con tutta calma, un piede che dondola.

Comprendendo agevolmente che il problema non siano i coniugi Potter, cerco naturalmente Ron nella stanza, sperando che allora il problema non sia nostro: lo trovo in piedi a poca distanza da me, visibilmente più agitato di Harry e Ginny, ma ben più calmo di quanto sarebbe se ci fosse un qualcosa di grave su me, lui o i bambini. Ha solo le orecchie un po’ più rosse del solito, i capelli più scompigliati e credo che non si sia accorto di aver messo il pullover al contrario, dato che intravedo l’etichetta. In cinque passi copre la distanza tra me e lui, mi guarda lievemente imbronciato forse per il mio ritardo e si limita a toccarmi l’interno del polso nel vago tentativo di rassicurarmi.

Il solo effetto che riesce ad ottenere è che le mie spalle si affloscino come se fossi un mollusco privo di sostegno: continuo ostinatamente a non capire che cosa stia succedendo e soprattutto l’urgenza della convocazione. Guardo quindi Ron in attesa sperando che si spieghi, ma lui si limita ad un sospiro e ad un cenno meccanico del caso come se mi indicasse  in silenzio la fonte dell’enorme dramma in corso. Seguo la direzione del suo cenno fino al divano, dove probabilmente ci sono i primi attori della tragedia in atto. Sul sofà rosa stinto al centro del salotto, sono seduti i miei suoceri in atteggiamento ben poco rassicurante: se Molly è infatti cianotica, con i capelli grigio polvere scomposti e spettinati, abbandonata mollemente all’indietro con la nuca poggiata sullo schienale, Arthur non mi pare in stato migliore. Pallido, emaciato, con una tragicomica “o” a spalancargli la bocca mentre guarda nel vuoto, completamente ignorato dalla seppur amorevole moglie che è intenta a sventagliarsi con un fazzoletto scozzese, mentre borbotta frasi sconnesse. È guardando in giro per la stanza alla ricerca di spiegazioni che, finalmente, intravedo un capannello di persone che non ho notato per stanchezza, o perché più realisticamente erano quasi seppelliti e nascosti nell’intercapedine tra il tavolo e la credenza. Non sono naturalmente sconosciuti, ma era difficile riconoscerli in questi panni dimessi e… spaventati.

Insomma non credo che esista nemmeno una parola corretta per definire questi esserini informi, accartocciati su sé stessi come vermetti contorcenti e che solitamente hanno risposto al nome dei miei cognati Bill, Fleur, George e Angelina. Sono tutti abbastanza verdi in viso e, dalle loro facce e dal modo che hanno di saettare lo sguardo in direzione del divano, riconosco abilmente che la loro espressione è quella tipica da scontro con Molly Weasley: una battaglia già persa in partenza. Dietro di loro, finalmente, mi accorgo di due presenze familiari ma assolutamente inconsuete, tanto che devo strizzare gli occhi un paio di volte per distinguerli bene. I miei nipoti, Victorie e Teddy.

Li guardo senza ben capire, Victorie dovrebbe essere a scuola e Teddy non lo vedo da qualche mese, dato che ha iniziato a frequentare una scuola nel nord della Francia. E, a meno che non abbia capito male, i corsi finivano il venti dicembre, non adesso.

Oltre però alla loro tangibile presenza, è anche il loro aspetto che mi meraviglia un po’, facendomi infine capire che devono essere loro nell’occhio del ciclone Weasley.

Si tengono per mano, ma ciò naturalmente non mi sorprende: sappiamo tutti che stanno assieme. Teddy del resto, sin da bambino, è sempre stato una sorta di Weasley acquisito. Ha praticamente vissuto a casa di Harry da quando era in fasce, diventando praticamente un fratello per James, Albus e Lily. E naturalmente un grande amico per i miei figli e i loro cugini. Con Victorie c’era sempre stato un rapporto “speciale” ed alla fine sono diventati una coppia. Gioia e giubilo in casa: era come avere una sorta di timbro ancora più reale dell’appartenenza del piccolo Lupin alla famiglia.

Alle loro spalle c’erano state tutte le più ampie congetture su come e quando si sarebbero sposati, cosa spesso interrotta da Fleur che diceva che Vic doveva finire la scuola e poi pensare al resto. Fu la sola volta che, stizzita dal comportamento vergognoso degli altri, le diedi ragione su tutta la linea. Del resto, Teddy ha deciso di andare appunto a vivere per quattro anni a Brest, in Bretagna, dove si trova una scuola molto prestigiosa specializzata nel disegno di scope da corsa. È una scuola molto costosa che Teddy si è potuto permettere solo perché, sciaguratamente un anno fa, è venuta a mancare sua nonna Andromeda, la stessa che lo ha cresciuto e che gli ha lasciato una discreta rendita. Probabilmente al termine del percorso accademico, rimarrà anche lì in Francia a lavorare. A Brest c’è infatti la fabbrica delle Firebolt.

I fiori d’arancio e i confetti bianchi quindi sono stati abbondantemente accantonati in attesa di tempi più maturi.

D’altronde parliamo di due ragazzini, cavolo: tra un anno Teddy potrebbe stare con una dolce e piccola francesina, mentre Victorie decide di trasferirsi in Nuova Papuasia per studiare le vongole. È il bello della giovinezza non essere mai davvero legati. Ovviamente tengo per me questi pensieri, Ron mi darebbe delle sfasciafamiglie e della libertina: del resto è abbastanza strano che io non mi faccia intenerire facilmente da niente specie da due ragazzini innamorati che si tengono per mano con dolcezza, suggerendoti in modo erroneo che non facciano altro.

Lui mi definisce cinica, io credo solo di essere realista: non è il destino di tutti gli amori sopravvivere alla vita stessa.

Ora, però, paradossalmente, penso in modo più convinto che potrebbero farcela a restare assieme persino per sempre. Hanno un modo di aggrapparsi l’uno all’altra, sebbene appaiano sbattuti e nervosi, prossimi forse anche alle lacrime, che mi sorprende. Non mi dà di due ragazzini, insomma.

Victorie è livida in viso, ha i capelli biondissimi spettinati e legati malamente in una treccia scomposta che pende inerme su una spalla. Tiene stretta la maglia con una manoe con l’altra quella di Teddy alle sue spalle. Ha gli occhi lucidi, il labbro che trema, e sta a testa bassa. Teddy, invece, è saldo, forte, sembra un uomo. Le sta dietro come un cavaliere ad un passo da una principessa. Mi saluta con un quieto sorriso, mentre indossa il più comune degli aspetti: capelli castani ed occhi azzurro polvere. Quando voglio sentirmi solo me stesso, zia. Sembra ricordarmi solo con lo sguardo quella confidenza.

Decido d’improvviso slancio che, qualsiasi cosa sia accaduta, sarò sempre dalla sua parte.

Gli voglio bene come un figlio, qualsiasi cosa abbia fatto o sia successa. Non cambierà mai, questo.

Improvvisamente una vertigine sembra colpire sleale Victorie e farle fare un passo indietro. Fleur si muove in modo automatico verso la figlia, preoccupata, ma il suo piccolo mancamento viene subito assorbito ovviamente da Teddy alle sue spalle. La ragazza si volta leggermente con il viso, fino ad incontrare gli occhi chiari del fidanzato. Si guardano nella distanza quasi nulla che esiste tra loro al momento. Ed è quasi naturale per lei, come l’onda del mare al richiamo della marea, abbandonarsi piano con la schiena contro di lui, stanca, esausta come dopo una lunga camminata che le ha succhiato via ogni energia. E credo che sia naturale anche per lui, semplicemente lasciarla lì, a sentire contro le sue spalle il suo respiro che accelera sempre di più ad ogni secondo.

Ovvio. Naturale.

È solo un secondo in cui entrambi distolgono lo sguardo da tutti noi, e trovano gli occhi dell’altro. È solo un attimo, ma vale come mille anni.

Non so perché non sono riuscita a smettere di guardarli. So che penso che non permetterò che gli facciano del male e che rovescino la loro vita, piccola ed ingenua come ancora è. So che sono sempre più arsa dalla curiosità di sapere che cosa dannazione sia successo.

Ma so che, per un attimo, non riesco a pensare a nulla di qualsiasi cosa perché ogni parte del mio essere è impegnata a frenare il conato di nausea che mi ha preso lo stomaco in un modo così forte da farmi temere di morire. Come se la mia testa si spaccasse in due, come se d’un tratto vedessi solo bianco e sentissi solo voci che mi chiamano nella testa.

Passa in un secondo scarso, respiro nella sciarpa grigia e mi sembra di sentirmi meglio.

E, sollevata, mi rendo conto che nessuno si è accorto del mio mancamento, nemmeno Ron a cui per fortuna davo le spalle. Vedo le sue dita ancora chiuse sul mio polso e mi stacco come se fossero di troppo in questo momento. Lui mi lascia fare, ovviamente preso dai suoi pensieri. E io torno a guardare i ragazzi, sollevata dalla fine di quel contatto che pure prima, mi aveva tanto tranquillizzato.

Non capisco perché ora mi turba tanto vederli assieme: forse è solo l’invidia rancida di una quasi quarantenne che, dopo aver visto Teddy e Victorie, rammenta che di quello sguardo così schietto ed ingenuo, di amore vero, non ha più memoria. Non è il destino di tutti gli amori sopravvivere alla vita: ma non è il destino dell’amore restare intonso di sguardi e puro di cuore, così da non sporcarsi giorno per giorno con la vita stessa. Un amore lucido e perfetto di cristallo, non si salva mai. Si rompe e frantuma il cuore. Se vuole salvarsi, si fa roccia: sporca, venata, comune.

Si fa duro come cemento armato.

Non più così bello a vedersi, pieno di schegge di compromessi, di crepe di rammarichi, di imperfezioni di rimpianti.

Ma si salva, resiste, vive. Ancora. Di giorno in giorno, fino al “per sempre”.

Credere che l’amore possa restare sempre una bellissima fiaba, è una puttanata grossa come una casa.

Quei pensieri, acidi come limone, mi spingono a reagire nervosamente chiedendo stizzita e rompendo il silenzio della stanza: “Si può sapere che cosa è successo?!”.

È come fare scoppiare un petardo nella stanza e tutti mi guardano nel modo scioccato con cui guarderebbero un bambino recalcitrante che si diverte a fare scherzi rumorosi.

Con imbarazzo e fastidio.

Si sta davvero bene in una stasi addormentata in fondo, e magari vogliono anche smettere di pensare a che cosa è accaduto. Andrebbe bene anche a me, se mi facessero tornare alla mia casa e alle mie quattro mura.

Restano tutti immobili, chi a mangiarsi le unghie, chi ad aprire la bocca e a chiuderla subito dopo, chi a guardare interessato le tende o il soffitto… ed io inizio ad innervosirmi.

Sempre di più, come se fossi posseduta. Perché nei loro sguardi, in quelli della mia famiglia, leggo quel sentimento di quieto e riottoso incomodo che hanno per la mia persona. Per quella che razionalizzerà tutto, minimizzerà tutto, si prodigherà in rimproveri e critiche e darà a tutti l’impressione di essere stupidi per aver chiamato dramma un’autentica sciocchezza.

Però, intanto, aspettano sempre quel mio movimento di ramazza mentale che metterà tutto a posto. Imprecano, borbottano, giudicano: ma lo aspettano come una salvezza piombata dal cielo. Perché in fondo a me non costa niente, in fondo mi rende felice. Perché per loro io adoro passare la vita a risolvere le grane altrui. Anche se non lo do a vedere.

Stasera, però, sono troppo stanca per questo. Stasera, forse, mille lampadine di egoismo mi baluginano negli occhi a farmi sentire esausta.

Stasera, lo ammetto, vedo solo Victorie che guarda Teddy e si affida ciecamente, e mi chiedo se io mi sono mai sentita così nella vita.

Pronta a mettere tutto di me nelle mani di un altro.

E so già la risposta: no.

Io non me lo sono mai potuta permettere, nemmeno con Ron, di affidare me stessa a qualcuno nella speranza di riposarmi un po’.

Va bene, sono forte abbastanza per tutti: ma non stasera. Stasera voglio solo le mura della mia stanza a contenermi i pensieri, a lasciarli galleggiare fuori e a tenerli circoscritti perché facciano male solo a me.

Stasera, non so perché, ho la sensazione che potrei persino far male a qualcuno, pur di salvarmi io.

Mi sembra che ci sia il destino in agguato, mi sembra che sto mettendo punti a frasi di anni e che non potrò mai più tornare indietro.

Nervosa per il silenzio che continua, decido quindi di andarmene e tornare a casa.

Sono già di spalle nello sguardo di Ron che mi guarda sconvolta, quando mi raggiunge la voce di Teddy.

Un bambino cresciuto in fretta, un uomo che non è mai stato un neonato. Solo nel mondo, sebbene pensiamo sempre che sia un membro del clan.

Per questo, per lui, è facile fare il lupo solitario.

Perché lo è. Il branco è solo la pallida giustificazione che diamo ad un’infanzia sfortunata che vogliamo destinata ad essere invece perfetta.

È solo. E da oggi lo sarà anche di più.

“Victorie è incinta, zia. E non sono io il padre”.

 

 

Il mio primo immediato istinto, stranamente, è avvicinarmi ai ragazzi in modo automatico e meccanico come se mi richiamasse un anelito selvatico di consapevolezza e dolcezza profonda. Nel silenzio fondo di quella che, ora, mi sembra un puritano vessillo di borghesia, tendo le braccia e le stringo attorno alle spalle di Victorie e Teddy. La loro reazione, il loro non indugiare nemmeno per un secondo per stringermi a mia volta cingendomi per la vita, mi fanno rapidamente capire che nessuno ha pensato prima di me a fargli sentire semplicemente vicinanza e calore, affetto e comprensione, prima di giudizi scomodi e facili e di sensi di colpa stantii e fumosi. Persino Victorie, la mia prima nipote bellissima ed algida come un fiore di ghiaccio, si aggrappa a me con una disperazione così forte da farmela sentire più bambina di quanto sia mai stata. Ha solo diciassette anni, e già la sua vita da oggi cambierà per sempre. Non so se lo meritasse, nemmeno me lo chiedo, picchietto la sua schiena con piccole carezze regolari, mentre lei rilascia un respiro un po’ più forte che sa di mora, spezia. Come se fosse ormai così adulta e lontana da essere persino oltre me, la zia anaffettiva e razionale che, sola, adesso ha avuto la decenza di abbracciarla. Teddy, dal canto suo, ha il solito odore buono di muschio e sandalo che mi ricorda sempre il bosco, i lupi, l’origine remota del sangue di suo padre. Respira un po’ nel mio collo come se si nascondesse, come se per un secondo dismettesse vergognoso i panni del capobranco ed indossasse quelli più miti del cucciolo spaventato e timoroso. Tra i miei capelli, tra la chioma di una che non ha mai avuto la presunzione di considerarsi sua madre ma ha sempre agito intimamente come tale, si concede una tregua, una pausa, un riposo.

Quando mi stacco di loro, sono tornati ad essere due fortezze di tendini ed ossa dagli occhi scavati. Hanno la schiena dritta come se fossero al patibolo da innocenti. Tornando a guardare gli altri, distinguo uno sguardo ceruleo su di me che mi spinge a cercarne l’origine. È naturalmente Fleur, mi guarda con una meraviglia stemperata dalla gratitudine. Sussurra qualcosa che non capisco, gli occhi come due specchi in fondo al mare, annuisco come se non ci fosse bisogno di alcuna altra parola.

La tregua dura poco ovviamente: al mio gesto, che forse in fondo ha svergognato la freddezza da calcolo degli altri, è come se prendesse fuoco una steppa di sterpaglia secca.

Tutti cominciano a parlare nello stesso momento, raccontandomi la loro versione con tono di voce tra la malcelata isteria e la voglia di essere ragionevoli. Naturalmente è la voce di Molly quella che sovrasta tutte le altre, specie perché accompagna le grida da soprano con una presa ferrea sul mio gomito che mi costringe a mettermi seduta per ascoltarla. A restare in silenzio, ovviamente, sono solo gli stremati ragazzi e Fleur che passa il tempo a lisciare assente i capelli della figlia, mentre Bill si agita come un avvocato difensore.

In breve apprendo che cosa è successo. Due mesi fa Teddy e Victorie si erano lasciati per un periodo. Cose da ragazzi naturalmente che non intendo e non mi interessano, sebbene Molly sia prodiga di dettagli. In questo breve periodo Victorie ha frequentato un altro ragazzo, di cui si ostina a non dire il nome neanche sotto minaccia e sotto costrizione. Replica solo che è stato un ripiego, una sua stupida vendetta dolorosa e rancorosa per la separazione dalla persona di cui era veramente innamorata. Non importa chi diamine sia. Naturalmente, come ogni ragazzina confusa, Victorie finisce a letto con il tipo, si vedono qualche sera per un’uscita a Hogsmeade, si ingozzano di brownies e poi comprendono di essere solo amici e nulla più. Victorie torna da sola, è sempre più distrutta dalla separazione da Teddy, poi comincia a stare male anche fisicamente e pensa solo allo stress. Nausea, vomito, vertigini: in una piccola farmacia babbana fuori Londra dove è scappata un weekend con la scusa di andare a trovare una parente malata, scopre che sta per diventare mamma.

I conti, purtroppo, sono inequivocabili: il bambino può essere solo del “chiodo scaccia chiodo che ha clamorosamente fallito nell’intento di farle scordare Teddy”. 

È disperata naturalmente, distrutta, devastata. Nasconde la cosa per settimane, ne parla con il padre del bambino che, a quanto pare, è un ragazzo almeno responsabile e in gamba. Dice che non è pronto per impegnarsi, dice naturalmente che non è innamorato di lei, dice che è stato un errore, dice che lei sarà libera di scegliere che cosa vuole farne e che, in ogni caso, lui la aiuterà, fosse anche solo come padre del piccolo o piccola. Victorie si lascia solo sfuggire che è un ottimo amico ed una bellissima persona, e sottolinea quasi a mo’ di giustificazione che la sua famiglia sta molto bene economicamente, quindi suo figlio avrebbe comunque un futuro sereno.

La complicazione, naturalmente, giunge quando Teddy si pente di averla lasciata e torna alla carica, professando scuse e implorando perdono. È in fondo solo un diciannovenne confuso da una vita lontana dalla terra natia e dalle cose e persone a cui è abituato. Ecco cosa fa il branco, il clan: ti fa crescere con le radici incardinate al suolo e non ti fa schiodare più. Nemmeno i pensieri sfiorano il cielo, ma restano sepolti nella terra. Se ne esci, se voli e scappi, diventi polvere nel turbinio della tempesta. In poco tempo Teddy torna alla ragione, si pente di averla lasciata, scrive lettere, manda fiori, contatta amici comuni.

Ma Victorie, adolescente sfiorita troppo presto, esibisce maturità e grazia: ed è questo che mi colpisce di tutta la storia, più che i risvolti pratici di ciò che accadrà adesso.

Questa biondina dal volto ancora paffuto e dagli occhi teneri di azzurro, che porta sempre orecchini coordinati alle scarpe e di mercoledì si veste sempre di rosa, reagisce come una donna di ferro: taglia i ponti, brucia lettere e fiori, stoica dice a Teddy che non c’è storia, simula una relazione con un altro, chiama anche l’amico/padre a testimoniare. Protegge il ragazzo che ama dalla vergogna del tradimento forse, ma in fondo lo vuole salvare da una responsabilità che non è sua, che non lo sarà mai, che plasmerà destino e carne, che non potrà mai più a rimangiare. Lo vuole salvare, ecco, da qualsiasi peso possa portare.

Rinnega amore e cuore da ragazzina, per il sangue e la placenta della madre.

Dovrebbero essere fieri di lei, altro che additarla come un’irresponsabile che si è fatta mettere incinta.

Sarà più mamma lei con questo alito da aquila che protegge i suoi cari, che qualsiasi nevrastenica quarantenne imbevuta di manuali di puericultura con le braccia piene di tutine firmate.

Teddy, però, non se la beve. Per niente. Torna all’improvviso, va a trovarla ad Hogsmeade, la ferma in un pub, pretende la verità. Lei tace, piange cocciuta, implora che la lasci in pace. Si sente male, rimette, sviene. La portano da un Medimago che parla con Teddy, mentre lei è incosciente. Gli dice la verità, presupponendo che lui sia il padre del piccolo.

Teddy capisce tutto. Subito, come un fulmine. Ed è stoico, implacabile: “Se la sola cosa che ci tiene lontani è la gravidanza, io sarò chiunque tu vuoi che io sia. Per te e per il bambino. Chiedimi quello che vuoi… e io lo farò… sparirò, se sarà necessario. Sarà quello che tu vuoi, non avere paura. Farò tutto ciò che desideri. Ma se per un solo istante, tu chiedi a me che cosa io voglia, se per un solo attimo sia la mia volontà in gioco… se deve essere quello che io voglio… sia che, da oggi in poi, io sia tuo marito e il padre di tuo figlio”.

Eccolo qui, il dramma.

Perché Victorie piange e lo bacia, lo abbraccia, si mette al dito un anello trovato nelle patatine ed accetta. E ci mancherebbe con una dedica così, persino a Molly è rimasta impressa e mi cita parola per parola. E non finisce qui. Teddy sa tutto ciò da dieci giorni, se ne va in giro con un fardello di risposte e discorsi da preparare ma tace con tutti. Arriva qui solo quando ha trovato una specie di lavoro, quando ha delle fotografie di una casa in affitto vicino Salisbury, minuscola come una stanza singola. Ne parla solo quando ha già deciso che lascerà la scuola per qualche anno, per poi riprendere dopo. Ne parla solo quando anche Victorie dice tranquilla che prenderà il diploma e poi resterà a casa con il piccolo, fino a quando sarà svezzato.

Il dramma nasce perché sembrano due bambini, e si comportano da adulti. Perché in un mondo di bambocci, noi abbiamo due miracoli di maturità ed intelligenza e restiamo basiti.

Ognuno, naturalmente, nella stanza ha un’opinione diversa sulla questione e su come si dovrebbero comportare i diretti interessati.

Molly non ha una vera e propria idea, in realtà è semplicemente fossilizzata sulla vergogna e su ciò che dirà la gente quando saprà la cosa. Erompe rossa ogni due per tre che non è possibile che sia accaduta una cosa del genere nella loro famiglia, che Bill è sempre stato troppo permissivo con la figlia, che adesso ci manchi che gli diamo la mano e ci congratuliamo con loro per il pasticcio che hanno combinato.

Forse solo adesso mi rendo conto di quanto sia invecchiata: i suoi processi mentali sono meno permissivi e più sclerotici, e forse è anche giusto che sia così. Quest’anno compirà settant’anni, ormai ha rinunciato a tingersi i capelli, lunghe striature di argento solcano il rame dei riccioli scomposti. È sempre più stanca, si siede spesso, ha le mani deformate dall’artrite. Non si può pretendere da lei molto di più.

Nemmeno ovviamente si può pretendere molto da Arthur. E’ un anno più piccolo di Molly, ma non ha nulla dell’energia della consorte. E’ vistosamente dimagrito. Lotta da anni con il diabete, è sempre più perso nel suo mondo di invenzioni. Tendenzialmente ora passa molto tempo in silenzio, a rimuginare o a bofonchiare da solo. Cosa che sta facendo anche adesso, non esprimendosi anche lui appieno. La sola cosa che fa, è accarezzare ad occhi spalancati ed ancora lievemente scioccati il dorso del suo cane, Birillo, un botolo di ormai quindici anni che passa il tempo seduto sotto i suoi piedi a sputare palle di pelo rognoso.

Se la senilità consente di ignorare le reazioni dei miei suoceri o quantomeno di giustificarle, non posso dire lo stesso per quelle dei miei coetanei o quasi.

Bill, naturalmente, è impegnato a difendere tardivamente l’onore della figlia, cosa che lo rende dello stesso colore dei suoi capelli lunghi e lisci, legati in un codino. Le cicatrici spiccano bianche come tagli nel sangue, dando persino l’impressione di contorcersi mentre lui continua a perorare la causa di Victorie e di una sua non meglio identificata purezza ed ingenuità. Non è naturalmente un argomento convincente e nemmeno molto veritiero se, con un candore ben diverso, Victorie ha confessato che non era vergine al rapporto con il padre di suo figlio. E che, per pura casualità dell’imprevedibile, il bambino era di costui, e non di Teddy. Non che ciò importi… ma da padre, Bill ovviamente si aggrappa all’idea ben più accettabile di una figlia stupidamente manovrabile, piuttosto che di una giovane donna che ha fatto delle scelte consapevoli che è disposta persino ad affrontare. Per Bill, è naturalmente più semplice quindi scagliarsi contro Teddy, reo nell’ordine di averla lasciata, di aver consentito che subisse questo, di essere troppo freddo e calmo in questa situazione, di aver suggerito soluzioni francamente inaccettabili per la sua perfettissima figlia.

A trattenere l’impeto di Bill, non può intervenire nemmeno la solita carismatica pacatezza bionda di Fleur, la sola rimasta immutata negli anni come il quadro fulvo e fosco di una dea greca. Il solo segnale del tempo trascorso è un taglio di capelli più corto, sbarazzino, maschile, ma che ha l’effetto di farla sembrare per contrasto ancora più femminile. Fleur di solito è il ritratto della flemma e della calma, posata ed educata come pochi: ora, non smettendo un secondo di accarezzare i capelli di Victorie, parla fitta in francese all’indirizzo dei ragazzi che rispondono in modo meccanico ed apatico. Non ho idea naturalmente di che cosa stiano dicendo, di primo acchito mi sorprende stupidamente solo che Teddy parli perfettamente francese. Ma il viso di Fleur, quelle incomprensibili macchie violacee sul suo viso marmoreo, quel luccichio malato degli occhi acquamarina, quella presa di acciaio sul gomito della figlia e quella voce cantilenante e ripetitiva, mi fanno capire agevolmente che sta premendo per qualcosa. La secchezza delle risposte dei ragazzi, la loro stanchezza, il loro sguardo a tratti slavato e a tratti infuriato, mi fa dedurre che non siano d’accordo.

In una pausa dei discorsi degli altri, mi arriva quella parola: avortement, come una frustata secca e fragorosa. Non devo essere certamente una madrelingua d’oltre Manica per intuire che cosa significhi e per sbiancare un po’, reggendomi all’angolo del divano come se stessi per cadere. Victorie guarda ad occhi sbarrati la madre, come se fosse una specie di strega con lunghe unghie affilate piazzate sul suo ventre a strapparle quel germe di vita bionda, poi si lascia trascinare via da Teddy fino ad una nicchia tra credenza e poltrona in fondo alla stanza. Restano lì, immobili, ad occhi chiusi come due cuccioli spauriti.

Non parleranno più, nel caos che li circonda.

Attorno, ovviamente, nessuno se ne rende propriamente conto. Sono tutti impegnati nelle loro diatribe dialettiche, tutti profondamente sicuri della loro verità e della loro assoluta residenza dalla parte della ragione. George, con piglio spavaldo, sostenuto dalla moglie Angelina, ribadisce netto che ci può anche stare che il bambino nasca e che se ne prendano cura, ma che il matrimonio è una cosa da escludere per due ragazzini. Non sapranno nemmeno che cosa vorranno l’inverno successivo e, comunque, il piccolo è una responsabilità del padre, non di Teddy. Può amare e curare sua madre, ma anche in una forma più leggera e meno impegnativa, così da non avere più pesanti ricadute in futuro se dovessero lasciarsi. E con tutti loro ad aiutarli, non ci saranno eccessivi problemi.

Dall’altro lato della barricata, invece, si piazzano Harry e Ron: se il primo ha una fiducia smisurata in Teddy e nelle sue decisioni, al punto da lodare continuamente la sua maturità ed assennatezza, il secondo invece fa del mantra dell’inviolabilità degli impegni presi la sua bandiera e vessillo. La gradazione degli impegni, secondo mio marito, va da quello con Victorie, che era comunque la sua ragazza sebbene non nel frangente storico della relazione che ha generato la gravidanza, a quello verso il bambino, ad uno più generale verso l’idea di una famiglia che probabilmente ci sarebbe stata lo stesso.

La giovinezza dei ragazzi è uno specchio a doppio fondo: se per Angelina e George è il discrimine di un’immaturità a prescindere, per Harry e Ron è invece qualcosa che non corrisponde ad un’acerba imprevedibilità. Se per i primi tutto è volatile come aria, per i secondi tutto è scolpito come roccia.

Solo dopo qualche minuto, mi rendo conto che Ginny è comparsa al mio fianco come una nebbia rossa di silenzio. Non ha mai parlato da quando sono entrata.

Mi fa un sorriso stanco e flessuoso di pensieri tutti suoi, sussurrando nel chiasso: “Sono alquanto sorpresa, Hermione Granger. Non hai ancora detto una sola parola. Possibile che tu non abbia un’opinione a riguardo? Ce l’hanno tutti, persino Birillo il cane, e tu no?”. Sorrido a mia volta, stendendomi meglio con la schiena sul divano e chiudendo gli occhi per un attimo: “Nemmeno tu hai detto nulla”.

“Le mie opinioni sarebbero state mere bestemmie di fronte all’impossibilità di questa famiglia di non interloquire con un tono di voce da Concorde in fase di decollo…” commenta piccata Ginny, strappandomi un altro sorriso mentre la guardo di lato “Ma fa parte del mio personaggio: sono la stronza sarcastica. Tu sei la pedante risolutrice…”.

Mi sposto di tre quarti per guardarla in viso e, contemporaneamente, togliere dalla traiettoria del mio orecchio le onde sonore prodotte da Molly che sta ancora urlando con Bill.

Con il sapore del fiele in bocca, qualcosa persino di più pesante della solita nausea mai del tutto scomparsa, ammetto con calma: “Non credo di avere una vera opinione, Gin…”, scuoto il capo ignorando lo sguardo di Ron che cerca da me sostegno in un alterco con George che non sto nemmeno ascoltando, poi proseguo con voce flebile: “Sarà anche strano, ma è così. Davvero non so che cosa sia la cosa giusta da fare…”.

“E ti fa impazzire come cosa, vero?” completa per me Ginny, dedicandomi un nuovo sorriso tra il sarcastico e il comprensivo. Un acuto di Angelina copre la sua voce nel finale, distorcendola.

Faccio una tenue smorfia annuendo lievemente con il capo come a non darle troppa soddisfazione, cosa che la fa scoppiare in una genuina risata. Ron guarda male entrambe, ma poi torna alla sua discussione, le orecchie come due tizzoni ardenti, evidentemente offeso da non essere sostenuto né dalla moglie, né dalla sorella.

Mi lascio quindi andare ad una veloce riflessione mordendomi l’unghia del pollice.

Effettivamente, constato con una punta di frustrazione analizzando mentalmente la pianura dei miei pensieri, non riesco ad avere una chiara opinione. Tutto mi sembra sfuggente e viscido come anguille di fiume sporco. Chiamo ancora in causa la stanchezza, ma in verità non penso che sia questo. Sono perfettamente in grado di ragionare anche con il cervello congestionato, è sempre stata una mia precipua e meravigliosa caratteristica. Ora, ogni pensiero ha la consistenza stopposa della segatura.

Riesco a capire ogni punto di vista… ma nessuno mi appartiene davvero.

Ammiro la maturità di Teddy e Victorie, ma mi chiedo se non stiano agendo secondo uno schema prestabilito dai loro stessi doveri confusi. Spio il loro amore come una rinsecchita zitella, ma temo sempre che sia una cotta da adolescenti sopravvalutata. Aborrisco all’idea di un’interruzione di gravidanza, ma mi chiedo se non sia il caso comunque di tenerla in considerazione. Vedo il matrimonio come una cosa da adulti, eppure al pensiero di una mamma che cresce un figlio da sola, ho la nausea.

È così tangibile quel pensiero che, con risoluzione, sento solo di escludere a priori che Victorie resti da sola ad affrontare questa cosa, a costo persino di stare assieme al padre del bambino per semplice dovere. Aggrappandosi a lui. Se non si è madri non lo si può capire… quanto a volte diventa necessario anche aggrapparsi con le unghie e con i denti a chi c’è in quel momento, pur di far stare bene il proprio figlio.

A me non è successo, ho cresciuto i miei figli con il loro padre accanto, ma c’è qualcosa di sorprendentemente morbido e sanguigno dentro a farmi intuire cosa debba essere una cosa così, anche se non lo so per esperienza.

Una sola persona che si improvvisa per sempre madre e padre, innamorata e sconfitta, salvatrice e salvezza, vittima e carnefice, tradita e traditrice.

La testa mi vortica come se fossi nel pieno di una tempesta di vento, la tengo a freno chiudendo gli occhi e toccandomi una tempia.

Resta che, escluso questo particolare aspetto, non ho nessuna opinione a riguardo. O meglio, sono contro qualsiasi punto di vista sto sentendo.

Le voci scemano, si smorzano, si avvitano tutte attorno a me come le spire di un serpente, perché ora tutti, persi nel loro cortocircuito dialettico, si rendono conto che io non ho ancora espresso un’opinione. E naturalmente si chiedono perché. E naturalmente sanno che sarà quella l’opinione da battere, o da smontare, o viceversa da appoggiare con tutte le forze.

E io resto come un pesce all’amo, incapace di parlare, ma solo di aprire e chiudere la bocca come un stupido luccio. Le iridi di Ron saettano ferite nella mia direzione.

A salvarmi, per fortuna, è il lungo suono un po’ tirato del campanello.

“Finalmente è arrivato Percy…!” commenta rapida Molly, fiondandosi nel corridoio per aprire la porta, certa di avere uno smisurato appoggio dal figlio più intransigente della nidiata.

Sospiro per l’inaspettata tregua, ma evidentemente troppo presto, dato che Ron pensa bene di guardarmi direttamente e chiedermi: “Mione… che cosa ne pensi tu?”. Lo fulmino con lo sguardo per avermi di nuovo posta al centro dell’attenzione e medito con un improvvisa risoluzione di spellarlo vivo non appena torniamo a casa. Penso naturalmente se optare su una soluzione diplomatica, oppure su un ben più sentito urlo generalizzato alla ripresa della calma, mentre Teddy mi sorpassa affannato e si ferma a poca distanza da me davanti alla porta del salone, berciando un veloce e caloroso: “Ciao zio”.

“Ci mancava anche Percy”, borbotto tra me e me mentre mi tormento le mani in grembo sotto lo sguardo indagatore di Ron, che indubbiamente vuole avere ragione su tutta la linea. Cosa che potrei anche concedergli: però davvero una delle mie poche certezze è che non penso, come lui, che Teddy e Victorie abbiano un impegno tale da spingerli automaticamente al matrimonio. Una considerazione simile mi spinge solo ad arricciare il naso e a trattenere il vomito di piccate contraddizioni. Ma potrei insomma concedergli di avere ragione per una volta e sostenerlo, tanto per spirito di pace e conciliazione.

Tutti gli sguardi sono ancora puntati su di me e sulla mia assoluta incapacità di parlare, mentre Teddy continua bellamente ad intrattenere l’ignorato Percy: “Come sta zia? Tutto a posto? Riesce ad alzarsi dal letto?”. Arriccio il naso aggrottando le sopracciglia sotto la sequela di sguardi perforanti. Perché non pensano ad Audrey che ha la febbre, o che so o, e non riesce ad alzarsi dal letto… invece di pensare a me?

“Sta bene, Edward… ma non così tanto da liberarmi dal tedio abbastanza paralizzante di essere stato costretto ad entrare in questa elegante magione. Ti ringrazio davvero ragazzo dell’invito, la tua solerte premura ha alleviato quella quarantina di contrazioni intestinali che ho avvertito nel tragitto fin qui… e dire che alla precipitosa chiamata della mia cara genitrice preconizzavo un blocco renale. Quindi possiamo concludere che sia una meravigliosa giornata di insperate fortune… ”.

Avverto immediatamente qualcosa di strano nella voce di Percy, che mi fa chiudere le labbra quando stavo già tentando di rispondere a Ron. Lui mi guarda in attesa con espressione nervosa, aspettando delle rade parole che io invece ho già dimenticato. Non intendo subito che cosa ha detto Percy, ma solo il tono di voce profondamente diverso con cui le ha dette. La voce di Percy la so a memoria: è strillante, acuta, pedante e profondamente troncata sugli accenti. Questa, invece, è diversa. Lenta, roca, strascicata sulle finali come se fosse sempre convinto che non stai mai capendo che cosa sta dicendo e ciò lo irritasse enormemente. È una voce dal timbro chiaro, preciso, come una campana ridondante che impone attenzione e riverenza. Dall’accento inesistente, plasmato da una imposta dizione aristocratica e nobile.

Un accenno di nausea mi risale senza motivo dallo stomaco, corrodendo l’esofago come se fosse acido: mi chiudo le labbra con una mano come a frenare il conato che, invece, si intensifica e mi dà l’impressione che mi stiano rivoltando come un calzino. E forse a quel punto che noto istantaneamente che la stanza è calata nel più profondo silenzio, una bella differenza abissale rispetto al caos di poco fa.

Mi sporgo oltre la sagoma di Teddy che mi bloccava la visuale della porta, e la prima cosa che riesco a fare è chiedermi se non ho appena avuto un ictus celebrale asintomatico.

Penso che sia una cosa abbastanza normale temere della mia salute, visto chi ho davanti agli occhi.

La mia voce si blocca in gola, mentre riconosco la figura davanti a me.

Ecco perché riconoscevo la voce, ma al contempo mi sembrava diversa da quella di Percy Weasley.

Accanto ad un’atterrita Molly, intenta a ridurre ad una palla informe il grembiule sporco di sugo che ancora indossa, è comparso misteriosamente ed inaspettatamente Draco Malfoy.

Continuo a guardarlo senza ritegno come se pensassi che fosse una specie di visione, d’altronde si inserisce nel panorama del salotto dei miei suoceri come si inserirebbe un eschimese nel cuore della foresta pluviale. È ovviamente fuori posto, come se fosse sbagliato tutto accanto a lui. Persino io. Ogni cosa di me stona accanto a lui. Donna, babbana, mezzosangue, povera, castana... Lui è il contrario di tutto questo. Trattengo ancora il conato di nausea, rendendomi conto che non può essere un mio cortocircuito mentale da stanchezza o un improvviso aneurisma, visto che anche gli altri sono ammutoliti e lo stanno guardando nella mia stessa identica maniera.

Del resto mi sembra ovvio: che diamine c’entra lui qui, adesso?

Spiandolo sotto le ciglia, seminascosta da Teddy ancora in piedi davanti a me, mi do pena di osservarlo meglio mentre lui è ancora intento con lo sguardo a soppesare Teddy stesso, non degnando il resto della stanza della benché minima attenzione. Forse è la prima volta da anni che lo rivedo da così vicino, credo di averlo incrociato spesso, ma sempre a distanza per fortuna.

Al binario 9 e 3/4 quando avevo accompagnato Rose per la partenza per Hogwarts, non ci avevo prestato molta attenzione. Era avvolto dalla nebbia del fumo del treno, era distante… solo Ron con il solito astio lo aveva guardato bene dandomene un ritratto completo appena tornati a casa, accentuando che stava cominciando a stempiarsi anche lui.

Tutti i soldi che ha non possono comprare dei nuovi capelli! Esiste una giustizia divina!

Noto, invece, che non credo esattamente che stesse perdendo capelli, ma che forse abbia deciso volontariamente di tagliarli molto corti, quasi rasati, magari in un impeto di giovinezza tardiva. Cosa che decisamente ha funzionato, sembra esattamente lo stesso dei tempi della scuola. La fronte spaziosa che è sempre corrugata, le labbra sottili arricciate in una smorfia di fastidio, e poi quell’indiscusso talento di riempire le stanze. Non so come definirlo, è una sensazione particolare, mi ricordo che l’aveva anche Viktor… come se ti schiacciasse contro le pareti per fare posto alla sua persona. Porta con eleganza un cappotto nero di panno pesante, che probabilmente, vista la fattura, costa quanto il mio intero appartamento. Il collo alto enfatizza i tratti appuntiti del suo viso facendomi notare che sembra dimagrito.

Risalgo la linea degli zigomi fino agli occhi. Con uno scoppio dentro lo stomaco che mi spinge di nuovo a chiudere le palpebre, mi accorgo per la prima volta forse in decenni che non ha gli occhi di uno slavato azzurro sbiadito come ho sempre pensato. Sono occhi… grigi. Come il colore della mia sciarpa. Sembrano perennemente in tempesta.

Un paio di occhi tempesta.

Questa piccola constatazione innocente mi mette a soqquadro le viscere come non mai. Resto ad occhi chiusi come se cercassi di ancorare me stessa ad un qualsiasi punto che mi renda ferma, salda, immobile. Ma tutto sembra vorticare senza sosta. Draco Malfoy ha gli occhi grigi. Occhi grigi. Non ho mai conosciuto qualcuno con gli occhi grigi. Come se piovesse ad aprile. Come una notte di pioggia in aprile.

Quell’associazione banale di idee è peggio di tutto il resto, ho l’impressione che rimetterò a breve. Confusa, cerco a tentoni la bacchetta in tasca, pronta a pronunciare un Incantesimo che ho appreso da una mia collega a pranzo, quando di nuovo la nausea mi faceva impazzire. Non trovo subito la bacchetta e ricordo di averla lasciata in borsa, nell’ingresso. Imprecando mentalmente, riapro gli occhi perché con le palpebre chiuse la nausea mi fa davvero sentire come se fossi in una barchetta in mezzo al mare, e cerco di nuovo di acclimatarmi al clima circostante, respirando con la bocca per fermare i conati. Non passano, ma almeno migliorano, attorno a me per fortuna nessuno si è accorto di niente. Sono ancora tutti intenti nell’esame di Malfoy, ed anche io fingo di non aver mai smesso di guardarlo.

Anche se adesso, per una buffa precauzione sciocca, evito di guardarlo negli occhi per una seconda volta, come se fosse un maledetto serpente che potrebbe ipnotizzarmi.

Malfoy esamina tutta la stanza a grandi occhiate nervose come se stesse esaminando e comparando i mobili per un acquisto scadente, per poi tornare inquieto ed innervosito a Teddy, sbuffando con sussiego. Poi, come se qualcosa lo avesse punto alla schiena, si sporge lievemente a sinistra del ragazzino, come se solamente adesso mi avesse notato seduta sul divano. Mi guarda per qualche secondo con espressione indecifrabile, sento il grigio di quelle lame contro il mio viso e, per qualche strano motivo, adesso non distolgo prima il viso. Penso per sfida.

So solo che, quando si stacca con lo sguardo da me, mi accorgo di tornare a respirare. La nausea per un attimo mi acceca, medito persino una fuga in bagno.

Poi, restituendo uno sguardo rassicurante a Ron che si è reso conto della mia manovra, finalmente passa.

Quando torno a guardare Malfoy come tutti gli altri, lui ha di nuovo la sua espressione consueta, quell’aristocratica che pare infastidita per l’esistenza stessa del mondo circostante. Lascia cadere lungo il fianco un braccio, dopo che la mano destra aveva stretto in modo febbrile la stoffa del cappotto all’altezza dell’addome, forse per uno spasmo di nervosismo. Suppongo, del resto, che non deve essere facile per lui stare qui. Figuriamoci, ci considera ancora la feccia della razza umana. Ciò mi rende ancora più curiosa sul motivo per cui è piombato qui.

Ripercorro mentalmente ciò che ha detto appena entrato, in cerca di una risposta, cercando di distrarre il mio corpo dal malessere sempre in sottofondo.

E constato una cosa ovvia che mi lascia abbastanza sconcertata: sembra che sia stato Teddy a chiamarlo. Malfoy infatti si è rivolto solo a lui, ha parlato di un invito, ha risposto a convenevoli sullo stato di una zia. Chi sia, naturalmente, mi sfugge… specie perché Teddy ha appellato Malfoy in modo abbastanza affettuoso.

Lo ha chiamato zio.

Come chiama Harry, Ron, Percy, George, Bill e Charlie. La sua famiglia.

Con una punta di rammarico, mi rendo conto che tecnicamente è più Malfoy la sua famiglia che noi. Sono mezzi imparentati, sua nonna Andromeda era la sorella di Narcissa Black. Con noi, non ha nessun legame di sangue. Quel sangue stesso, però, è un sangue sporco, impuro, lercio. O perlomeno Malfoy dovrebbe pensarla così, stiamo sempre parlando di un ragazzino con sangue di lupo mannaro nelle vene, mutaforma, figlio di mezzosangue ed amico di nati babbani e Weasley. Malfoy, invece, inaspettatamente si è rivolto nella più classica delle maniere al ragazzo: è stato sarcastico, pungolante, ma non in modo perfido. Lo ha anche confidenzialmente chiamato… Edward.

Ma certo… concludo con ovvietà, appannata dalla stanchezza Il suo nome completo. Figuriamoci se Malfoy può chiamare qualcuno con un nomignolo o un’abbreviazione.

Secondo me appella anche suo figlio in quel modo ridicolo, ma completo. Scorpius.

Sicuro che chiama tutta la gente senza alcuna abbreviazione. Specie… quelli a cui tiene, come se gli desse maggiore peso così.

A rompere il silenzio che è calato a grandi maglie su di noi è naturalmente Ron, punto sul vivo dalla presenza del vecchio nemico proprio nella sua casa. Vedo distintamente come segue lo sguardo grigio dell’uomo che saetta su tutti i particolari più infidi dell’abitazione: dal copridivano rammendato alle tende color bianco stinto, fino ai capelli privi di messa in piega di Molly.

“Che diamine ci fai qui, Malfoy?” borbotta Ron al suo indirizzo, le orecchie già in direzione del violetto “Ci contavo a rivederti a giugno…”. Teddy contrae le spalle, probabilmente messo in allarme dal tono di voce di mio marito, che preannuncia fulmini e tempesta. Fa per aprire la bocca, ma la richiude subito come sotto uno spasmo involontario. Si limita a guardare Victorie, come a comunicarle un solitario pensiero interiore, comprensibile solo da loro due. Quando mi volto a guardarla, però, la ragazzina bionda mi pare impassibile. Resta a testa bassa, persa nei suoi pensieri.

Malfoy ha fatto un solo singolo passo come se volesse palesare maggiormente la sua presenza: ha la stessa andatura lunga ed autoritaria che ricordavo ai tempi di scuola. Si massaggia distrattamente la porzione di fronte sopra il sopracciglio sinistro, appare stanchissimo e nervoso, freme lievemente la pelle del suo collo come se ansimasse in preda all’irritazione. Poi respira a lungo cercando di calmarsi ed ingiunge in modo meccanico, ignorando palesemente Ron: “Edward, mi faresti la cortesia di spiegare la questione ai nostri gentili padroni di casa? Non serve conoscere la mia biografia per sapere quanto sia alquanto improbabile che ci intratteniamo piacevolmente chiacchierando della temperatura eccessivamente rigida di questi giorni o dei nostri programmi natalizi…”, fa una pausa studiata come ad aspettarsi una reazione che naturalmente non arriva. Continua con voce più bassa, quasi vellutata: “Mi faciliteresti davvero le cose, ragazzo…”.

Teddy d’improvviso si accende come una candela, emana una luce tenue di speranza che non so davvero che motivazione abbia: persino i capelli, come vittima di un’eccitazione improvvisa, trovano riflessi di oro giallo trasformandosi. Malfoy li guarda senza battere ciglio, confermandomi che non è la prima volta che vede Teddy cambiare il suo aspetto. Ha ereditato questo aspetto da Dora, da sua madre, ma non la propensione alla trasformazione ad ogni piè sospinto che aveva lei. Sin da ragazzino Teddy lo fa di rado, quasi sempre involontariamente, tipo quando si emoziona per qualcosa.

Per il resto lascia le trasformazioni solo ai momenti di gioco con amici e cuginetti. È una cosa che non gli è mai piaciuto fare, sembro un pagliaccio zia!

Teddy è sempre stato un ragazzo pensoso, un po’ malinconico in alcuni frangenti. Somiglia molto di più a suo padre che a sua madre.

Malfoy chiude gli occhi come se sapesse anche questo, e notasse quindi la trasformazione come un evidente segnale di nervosismo o agitazione in Teddy. Scatta quindi un nervo sottopelle vicino alle labbra che contrae, mentre sembra prepararsi a rispondere ad una domanda che nessuno ha sentito, ma che sembra che Teddy gli abbia fatto capire distintamente.

Infatti Malfoy dopo pochi secondi riprende a parlare con voce scandita e decisa, come se fosse rimasto da solo con Teddy e noi non esistessimo più: “Mia madre ha una sua opinione. Che non ha mancato di farmi conoscere, sviscerandone ogni particolare e riflesso…”, prende fiato prima di proseguire, fissando Teddy direttamente negli occhi mentre il ragazzino trattiene il fiato. Malfoy fa un sorriso sbilenco, storto, inseguendo un pensiero tutto suo prima di aggiungere lapidario: “Non te la farò conoscere la sua opinione. Non te ne devi sentire rincuorato o scoraggiato. Penso che tu sappia o immagini che, visto come stanno le cose, dovrai decidere le cose da solo d’ora in poi. E se non l’hai ancora capito, credo che siamo di fronte ad un enorme problema ben più grave di tutto il resto…”, Malfoy studia per un attimo il volto di Teddy come a sincerarsi della sua attenzione devota. Il ragazzino trattiene il fiato, poi annuisce in modo grave con il capo. Malfoy ancora si lascia andare ad una piega delle labbra che somiglia ad un sorriso statico, continuando monocorde: “Puoi quindi ragionevolmente dedurre che non saprai nemmeno che cosa ne penso io, ragazzo. Sarò qui solo ad accettarmi che, qualsiasi cosa tu decida, l’onore della famiglia ne venga tutelato… è quello che in fondo vuole mia madre. Ed è quello che in fondo ci avrebbe chiesto di fare Andromeda…”, nel silenzio che regna sovrano nella stanza, come se le parole di Malfoy avessero lo stesso potere della sua persona e cioè di schiacciare tutte le altre contro le pareti non lasciandole respirare, riconosco agevolmente il nome della nonna di Teddy. Una spia ulteriore di curiosità si accende nel fondo del mio cervello ricordando che Cissy e sua sorella non erano in buoni rapporti. Assolutamente.

Ora, Malfoy la nomina con nonchalance e calma, persino con il suo nome di battesimo.

I miei occhi confusi incontrano casualmente quelli di Harry che, a sua volta, fa spallucce e mi testimonia che anche lui, come me, non ne sa assolutamente niente. Ha una piega strana degli occhi, Harry, somiglia a cenere rappresa. Forse somiglia ai miei di occhi. Perché entrambi, che pure così tanto amiamo questo ragazzino, comprendiamo che ha tutto un mondo dietro che non conosciamo affatto. Un mondo cucito pezzo per pezzo su di lui attraverso un’appartenenza di sangue che mai avrei giurato.

Mi sento in fondo tradita per non aver mai conosciuto tutto questo.

Mi chiedo perché Teddy abbia sempre taciuto questo legame, da quanto duri, come si svolga. Mi chiedo spaventata se Malfoy non lo abbia trattato male e, un secondo dopo, mi rendo conto che è quello il motivo per cui non ne sappiamo nulla.

Il sapore di segatura in bocca che è il pensiero che Malfoy possa fare del male a Teddy.

Gli sguardi di questa stanza che non lo lasciano in pace. Il silenzio alle sue parole. La ricerca malata di qualcosa che non vada.

Non avremmo mai accettato che Teddy riagganciasse con la sua famiglia d’origine. Lo avremmo protetto e la sola protezione davvero efficace sarebbe stata impedire ogni contatto.

Teddy, invece, ne aveva bisogno. E ha tradito noi tenendo fede a sé stesso. Con una punta di fierezza per la sua forza e coraggio, per la sua contrapposizione al clan che nemmeno a me riesce così bene, osservo superficialmente che d’altronde Malfoy lo tratta con enorme rispetto e cura. È evidente.

Non lo guarda come guarda noi: ha gli occhi più calmi, l’atteggiamento pacato, un’ironia spuntata di leggerezza e confidenza.

Si fa chiamare zio con la massima naturalezza possibile.

Forse, e mi sembra una contraddizione pensarlo, Malfoy vuole persino bene a Teddy. Mi sembra così strano da darmi le vertigini. Ed è allora che un’altra domanda fastidiosa mi tiene la mente ancora occupata, impedendole di staccarsi dalle sue riflessioni.

Ma a me, in fondo, chi me l’ha mai detto che Malfoy non ha voluto bene a nessuno?

Sbatto le palpebre un paio di volte a quel pensiero come a scrollarlo e a cacciarlo fuori dalla mia testa: è un pensiero fondo, viscoso come petrolio. Mi ingolfa la mente come se volesse bloccarne gli ingranaggi, rendendo tutto straordinariamente bianco. È assurda come sensazione e, di nuovo, la nausea risorge come un pericoloso vento malato nel mio basso ventre. Mi massaggio la tempia con calma cercando di escludere quella sensazione e, con flemma, faccio passare quel gesto per stanchezza in modo che non se ne accorga nessuno. Ron per fortuna mi dà le spalle ed è troppo impegnato a guardare in cagnesco Malfoy per accorgersene. Sollevo lo sguardo quando credo che sia tornato limpido, concentrandomi di nuovo sulla scena di fronte a me.

Sussulto con un lieve balzo dello stomaco, gli occhi di Malfoy sono puntati nei miei con una ferocia spavalda che non comprendo, ma che mi incenerisce la pelle. È questione di pochi secondi, ma ho l’impressione chiara di essere in apnea. Segue la linea delle mie dita che lasciano la tempia, chiude gli occhi e sbuffa un po’ con il naso, prima di soffiare fuori con voce bassa: “… così saremo definitivamente pari, Edward…”. La voce di Malfoy, di solito così strascicata e lenta da darmi i nervi, è stavolta frettolosa e distratta come se volesse far sfuggire quelle parole lontano, veloci, quasi senza accorgersene. Mi chiedo ancora perché, prima di dirmi che in fondo non è che me ne interessa granché e che forse vedo in Malfoy più di quanto pensi. Il motivo, penso con un’improvvisa illuminazione, è la deformazione professionale delle indagini di Hogwarts quando lo credevamo capace di qualsiasi azione malvagia, a cui si aggiunge un innato istinto di protezione verso Teddy.

Evidentemente, però, nonostante la mia attenzione, qualcosa ha comunque ferito Teddy nel sottotesto della loro conversazione. Mio nipote affloscia le spalle, prima di soffiare fuori con una vena di delusione infantile che diventa quasi un broncio: “E’ solo questo, allora, zio? Parliamo ancora di quella vecchia storia?”.

Naturalmente non ci capisco nulla e me ne rammarico molto: non intendo del resto restare ancora molto in questa ignoranza. Appena Malfoy schioda, Teddy mi sente. Così impara a fidarsi di personaggi del genere. Gli racconterò un bel paio di episodi da far accapponare la pelle, così capisce con chi ha a che fare. I piedi mi formicolano nella loro immobilità, mentre mi innervosisco al silenzio di Malfoy e allo sguardo corrucciato di Teddy, cieca del resto della stanza ma solo vogliosa di mollare un ceffone in viso a quella serpe.

Non è una sensazione nuova. L’ho provata per anni, è solo andarmene di dejà vu. Mi mancava, oserei persino dire.

Dovevo mantenere i rapporti solo per trattarlo come palletta antistress.

Mentre lo fisso come se lo volessi impalare all’istante, mi accorgo che le labbra di Malfoy si sono piegate in una specie di sorriso che forse, anche a chiamarlo così, si sbaglierebbe. È solo una piega sfuggita della bocca mentre lui chiude gli occhi grigi. Si sistema meglio il colletto del cappotto, rivelando un pesante anello di oro bianco con una gemma nera all’anulare. Si avvicina a Teddy, gli poggia una mano sulla spalla chiudendo forte le dita, vedo persino i polpastrelli affondare nel suo maglione azzurro mentre lui lo fissa negli occhi con una punta di timore. Malfoy, non lasciando un attimo gli occhi di Teddy, dice piano con voce autoritaria rivolgendosi a Bill che è immediatamente alla sua destra: “Weasley-quasi-accettabile-socialmente-se non fosse per quelle-orrende-cicatrici-da-competizione-con-Potter, passami una sigaretta… o mi faccio di nicotina, o non resisto fino alla fine di questa deliziosa serata…”.

Bill, troppo intontito per rispondere in modo diverso da un semplice assenso, estrae dalla tasca una sigaretta che porge a Malfoy che l’accetta ancora senza guardarlo, prima di lasciare la spalla di Teddy che finalmente sorride scuotendo il capo quasi incredulo. Malfoy con la massima flemma di questa terra come se fosse a casa sua, si riabbottona il cappotto fino al mento ed esce sulla terrazza, chiudendola poi alle sue spalle. Prima di sparire alla mia vista, lo sento mormorare un saluto cortese all’indirizzo di Fleur, sempre ferma davanti alla portafinestra: “Buonasera Delacour”.

Sciao Dracò” risponde lei distrattamente ma assolutamente normale nel tono, cosa che causa anche in Bill una torsione innaturale del busto per guardare in viso la moglie, che indifferente fa spallucce.

Il rumore della finestra accostata che chiude fuori Malfoy assieme ad una folata gelida di vento di dicembre, ci risveglia da quella specie di torpore che ha portato la sua presenza. Sono successe circa duemila cose che non abbiamo capito appieno e che sembrano uscite da un film di fantascienza.

Credo di aver anche rimosso la questione della gravidanza di Victorie. Malfoy me l’ha tolta completamente dalla testa.

Penso che sia successo un po’ a tutti nella stanza considerando che appena lui esce, esplodono domande e scoppiettano imprecazioni.

Capitano del tumulto è naturalmente mio marito che interroga Teddy per sapere che diamine ci faccia Draco Malfoy, 36 anni, Purosangue ed uno dei più grandi stronzi della nostra generazione, a fumare tranquillamente sulla terrazza della Tana come se fosse un gentile ospite invitato a prendere il tè del pomeriggio.

Anche Bill sottopone sua moglie ad una veloce interrogatorio sul saluto riservatole da Malfoy e sulla sua risposta assolutamente non scandalizzata ma anzi quasi calorosa. Fleur non si scompone nemmeno per un secondo, replicando stanca ed annoiata dall’accesso di gelosia del marito: “Dracò frequentava mia cugina Denise prima di sposare Astoria. Mi pare normale che lo conoscessi anche io… non essere ridicule avec cette jalousie … ”. Mi scappa un sorriso nonostante tutto alla nonchalance di Fleur e all’espressione di Bill, punto decisamente sul vivo.

Posso persino arrivare a comprendere l’irritazione di Bill: contrariamente a quanto può pensare Ron e continuare a ripetere tra le sue invettive, Malfoy è ancora decisamente un bell’uomo. Non sono cieca, anzi mi vanto di essere decisamente obiettiva. Quindi sì, Malfoy è il diavolo incarnato… o quasi. Ma è decisamente un bell’uomo. Pochi fili grigi sono spuntati tra i corti capelli biondi e stranamente sembrano averne trovato dimora in modo armonioso. Ha ancora lo sguardo tagliente dei tempi della scuola, cosa che conferisce vivacità alla sua espressione facendolo sembrare più giovane. Non ha sicuramente l’aspetto appannato ed offuscato che ho invece io, ecco. Ha mantenuto un fisico asciutto forse perché probabilmente è ancora dedito a qualche specie di sport, d’altronde era un buon Cercatore per quanto ne possa aver capito io ai tempi. La maturità, giunta in ritardo, ha sopperito alla scarsa altezza che aveva fino ai diciassette anni, adesso torreggia molto di più sulle persone di quanto comicamente potesse fare prima. Veste sempre in modo impeccabile, non credo di averlo mai incrociato vestito in modo meno che inappuntabile. È ancora ricchissimo, dato che ha sommato al suo discreto patrimonio i proventi legati al fatto che, negli anni, è diventato uno Pozionista di chiara fama.

Per la serie: piove sempre sul bagnato. Leda ci si fionderebbe sopra come una mosca sul miele. Dubito che non ci abbia già provato. 

Difficile non accorgersene però di quanto la guerra abbia lasciato delle impercettibili tracce anche su di lui. Penso che sia una cosa ampiamente assodata che la mia generazione abbia ricevuto un’eredità di tic nervosi, cicatrici nascoste, incubi ricorrenti o lievi zoppie. Sono imperfezioni persino accolte con grazia e gratitudine, se sono tangibili segni di sopravvivenza a merito ed onore di chi invece non ce l’ha fatta.

Malfoy, sicuramente più di molti, deve avere un intero armadio pieno di scheletri bellici, sebbene la postura autoritaria, l’aria strafottente e i modi aristocratici facciano supporre il contrario. Esteriormente, forse ora che mi sono data più pena di osservarlo vista la stranezza della sua presenza qui, ho notato subito una caterva di piccoli segni bianchi sulla mano destra, come delle piccole escoriazioni rimarginatesi male e un’impercettibile indecisione dello stesso braccio quando si muove. Sembra stranamente essersi più acclimatato all’uso del braccio sinistro.

Mi stupisco della quantità di dettagli che ho notato in pochi istanti, ma concludo con una punta di isterico infantilismo che, sebbene i tempi siano cambiati, sono una sorta di sua nemica naturale. Alla fine credo che i nemici siano quelli che ti conoscono meglio. Un nemico ti studia a fondo per scorgere ogni tua debolezza; invece un amico è intimamente terrorizzato dall’idea di trovarne una in te, tale da farlo desistere dallo starti vicino. Quindi, credo di conoscerlo bene Malfoy, le sue espressioni, i suoi gesti e i suoi sguardi.

Non che lo vedi spesso, mi capita sempre di sfuggita nel campo visivo della mia vita, però in quel modo solenne che ti si imprime negli occhi. Vuoi per la sua persona svettante, vuoi perché mi annoto con riflessi tardoadolescenziali se si stia comportando bene, vuoi perché dalla fine della guerra ha assunto l’abitudine a riservarmi almeno un cenno di saluto a cui, mio malgrado, per educazione rispondo… vuoi per tante cose, ma sicuramente è una persona che, osservandola, conduce a molteplici riflessioni, fosse pure sul tempo che passa o sulle persone che cambiano.

Draco Malfoy tutto sommato è cambiato appunto, assumendo una nuova rispettabilità borghese che non ha nulla da invidiare a nessuno: si è impegnato e sforzato, ha ingoiato rospi amari come case, ma alla fine ha scollato la sua immagine da quella del Mangiamorte che quasi assassinò Silente. È ancora oggetto di pregiudizi e dubbi intendiamoci, e giurerei che sia rimasto una persona odiosa.  Ma al momento credo che sia solo uno stronzo snob, non un razzista bigotto: sono soddisfazioni, dato che frequenta Teddy a quanto pare.

Credo che, a pensarla come me, siamo sia io che Harry. Forse Harry ha qualche riflesso persino di una maggiore positività quando si tratta di Malfoy, forse per il contraccolpo della bugia di sua madre quando mentì a Voldemort sulla sua morte, cosa che a conti fatti ha davvero deciso le sorti della guerra e della sua stessa vita. Naturalmente questo si ripercuote anche su Ginny, grata della salvezza del marito.

Caso diverso è invece Ron che, per motivi tutto sommato comprensibili, non ha mai smesso di detestare Malfoy. In fondo parliamo del bulletto idiota che per tutti gli anni della scuola lo ha sempre trattato come uno straccione, assieme alla sua famiglia. Ron era un Purosangue, ma forse ha avuto il peggiore trattamento tra noi tre perché Malfoy premeva su aspetti che per Ron sono sempre stati delicati, riguardando la sua famiglia nella logica da clan su cui riflettevo poco fa. E naturalmente in poche disgustate espressioni facciali, Malfoy ha mostrato chiaramente di non aver assolutamente rinnegato quel lato. Può anche aver formalmente abiurato alla superiorità dei maghi Purosangue, anche se ci scommetto che continua a fare enormi distinguo tra i maghi stessi, ma non per questo non considera i Weasley una massa di abominevoli teste rosse che disonorano il buon nome della comunità magica con la loro ridicola insulsaggine, la loro chiassosa povertà e la loro scanzonata modestia.

Comprendo quindi perché Ron, da quando Malfoy è uscito, ha misurato la stanza a grandi passi borbottando a denti stretti e calciando sedie e tavoli. Molly cerca in modo tattico di offrirgli una tazza di tè al gelsomino, bevanda assunta sempre da mio marito per calmarsi, ma Ron la ignora continuando a camminare e a gesticolare spazientito, le orecchie in fiamme. Harry motteggia al suo indirizzo poche parole di rassicurazione che però non hanno presa e gli altri sono bellamente presi dai loro affari e dal ritorno pressante della conversazione su Victorie e Teddy. Dal canto mio, credo di lasciarlo sfogare per istinto di conservazione del nostro matrimonio. Quando si tratta di Malfoy, Ron diventa abbastanza odioso e cocciuto, ben più del biondo che almeno solitamente non sento parlare.

Alla fine, sgonfiato come un soufflé andato a male, Ron decide di dirigere la sua invettiva contro il colpevole dell’intrusione di Malfoy nella sua casa. Si siede pigramente su una poltrona, punta un dito contro Teddy con espressione stralunata e chiede con una punta di feroce isterismo: “Perché Malfoy al momento è in casa mia a fumarsi una sigaretta in terrazza?! Potrei avere una decente spiegazione?”.

Il fatto che tutti tacciano all’improvviso mi ingiunge naturalmente a pensare che il punto era oggetto di curiosità di tutta la stanza, persino più di cosa dovrebbero fare i ragazzi. Noto però con una punta di rammarico il colorito grigiastro di Teddy, che evidentemente si aspettava questa domanda ma quanto più tardi possibile. Se consideriamo l’argomento delle conversazioni fino ad ora, comprendo quanto la cosa lo metta in difficoltà se fino a poco fa è rimasto calmo e flemmatico. Persino Victorie, che fino ad ora è stata un fantasma di assente raccoglimento interiore, chiude la mano piccola sul polso del fidanzato, rendendo visibile alla luce del lampadario l’anello di plastica rossa che porta come simbolo del loro fidanzamento.

Mi fanno una tenerezza tale che, in notevole ritardo, mi alzo in piedi e chioso severa verso mio marito: “Ron datti una calmata. Siamo tutti stanchi e provati dagli eventi della serata… mi pare che la presenza di Malfoy sia proprio l’ultimo dei problemi… se Teddy lo ha voluto qui, avrà le sue buone ragioni…”. Completo la mia tiritera sollevando il mento fiera e sorridendo con dolcezza a Teddy che mi guarda con gratitudine. Tutto ciò, però, si ripercuote sullo stato emotivo di Ron che mi dedica un’occhiataccia raggelante tra le migliori del suo repertorio, quella insomma da umiliazione di fronte alla sua famiglia e da conseguente scorno per un’intera settimana. Sospiro lungamente ancora più stremata, preparandomi al fiume di parole sconnesse che adesso mi dedicherà in preda alla rabbia, nonché all’inevitabile tentativo di Molly di fare da paciere e a quello di Ginny di sdrammatizzare, entrambe cose che rintuzzeranno di più sia me che lui.

L’ultima cosa che mi impongo di fare in un ultimo singulto di buonsenso è insonorizzare con un incantesimo pigro la portafinestra così che almeno Malfoy non abbia pure la soddisfazione di sentirsi questo litigio in diretta. È un incantesimo che mi tocca fare almeno una volta al mese, quando a Ron salta in mente di urlare come uno straccivendolo per qualcosa e io temo che Ginny ed Harry sentano tutto.

Ron ha già spalancato la bocca per prendere fiato che miracolosamente viene interrotto da Teddy che, in modo deciso, si dà pena di intervenire e spiegare. La sua voce è calma, pacata, monocorde, eppure ho l’impressione che sia contemporaneamente molto coinvolto da ciò che sta dicendo. Le poche pause mi fanno dedurre che è un discorso preparato da tempo, forse da prima della gravidanza di Victorie. I balbettii sommessi mi informano di quanto abbia temuto fino ad ora di parlare di questa storia, forse con la paura di essere giudicato e non capito, come del resto sta in parte accadendo.

Eppure, il tono stentoreo che usa per iniziare impone un silenzio di tomba attorno a lui, ben più di quello che è accaduto quando ha confessato della gravidanza.

Specie perché con una semplicità disarmante ha proferito solenne: “Draco Malfoy aveva tutti i diritti di essere qui. È mio zio. Esattamente come tutti voi”.

A quelle parole persino un po’ crudeli, che impongono una somiglianza di cuore ed affetto a cui nessuno mai aveva lontanamente pensato, ricado seduta sul divano in modo fiacco, aspettando come tutti che Teddy continui a parlare. La sagoma di Malfoy, nel velluto nero della notte, è appena percettibile. Sembra un’ombra che si mangia la luce. La guardo per tutto il tempo dello scarno discorso di Teddy, come a cercare di far collimare le parole del ragazzo con quella schiena dritta, altezzosa.

“Mi dispiace non avervene parlato prima. Era una cosa che mi… terrorizzava. Se aveste pensato che io non vi fossi grato o peggio che non vi volessi bene… voi… tutti… siete la mia famiglia. Nella sfortuna di non avere genitori, siete stati tutto per me. La mia casa, quando pensavo di non averla. Non mi sono mai sentito mai solo una volta in tutta la vita… grazie a voi. Però… come spiegare… c’era sempre un buco dentro, ogni giorno. Tutti avevano delle radici ben piantate, io nessuna: ero un seme felice nel vento, ma se quello si fosse fatto più intenso e pericoloso, sarei stato spazzato via. Voi… avete sempre avuto delle risposte per ogni mia domanda. Ma c’erano alcune a cui non potevate rispondere. E paradossalmente quelle sono diventate pressanti e pesanti nel mio cervello. Mia nonna… lei… capiva. Ha sempre capito. Mi ha detto una volta: “farò di tutto per farti capire, per piantarti un’ancora nel cuore così che tu non ti senta perso nel mondo, bambino mio”. Avevo tredici anni quando cominciò con quella ricerca. Lei era già… debole, stanca. Malata. Ma recuperava coraggio, forza, sempre. Per me. Se sarà una bambina… se mia figlia lo sarà… sarà Andromeda Lupin. Non potrebbe avere nessun altro nome.

“I Tonks superstiti erano pochi. Omuncoli e donnicciole sparse in poche case rade nel nord della Scozia, non sapevano nemmeno che esistevo. Ci offrirono un tè freddo in una casa umida, parlarono brevemente di mio nonno come di un parente lontano e distante. Erano tutti babbani, raccontai loro della morte eroica di mio nonno Ted, piansero molto assieme a mia nonna. Mi ringraziarono di quel pezzettino di storia che non sapevano. Andò peggio con i Lupin. Non vollero vedermi, sembravano ancora terrorizzati dalla fama da licantropo di mio padre. Non me ne curai. Andammo via, me ne dimenticai. Chi ricordava ancora mio padre come un semplice licantropo, non meritava la mia attenzione. Incontrai anche qualche parente di mia nonna paterna Hope, dalle parti di Cardiff. Terminammo quel mese di viaggio con un senso di vuoto che ancora non se ne andava. Per me pensavo che fosse normale, da orfano stavo sempre così o quasi. Ci sapevo convivere bene. Per mia nonna, era una novità. Era tutto collegato ad un nome che, come nell’idea del suo significato, era nero di risposte. I Black.

“Sapevo da voi la storia di Sirius. Avevo saputo da mia nonna delle sue sorelle Narcissa e Bellatrix, di ciò che le aveva divise, del disonore che lei aveva causato con le sue nozze alla sua famiglia, delle simpatie per Voldemort, del matrimonio di Cissy con Malfoy e di quello di Bella con Lestrange, della morte di Bella in guerra e della bugia al Signore Oscuro di Narcissa. Ma erano solo racconti, parole rade di vergogna e di ribrezzo che non mi davano soddisfazione, anzi mi incuriosivano di più come in una sorta di attrazione fatale per una specie di oscurità latente anche in me. Mia nonna… lei mi confessò di aver spesso ripensato a sua sorella minore.  Di aver sperato che le ultime fasi della guerra e quella bugia fossero segnali di un ravvedimento anche nei suoi confronti. Si sbagliò di grosso. Narcissa non fece mai nulla per riavvicinarsi a lei, e mia nonna si macerava nella nostalgia e nell’assenza, incapace tuttavia di fare una cosa qualunque per rompere il ghiaccio, certa che sua sorella non avrebbe mai voluto vederla. Io, nel mio piccolo presi a masticare libri su libri sui Black, ad impararne tradizioni ed usanze, a conoscerne membri ed abitudini, aiutato per come poteva da mia nonna. Non ero mai sazio, mai soddisfatto, come se in quella mancanza avessi riversato tutto il resto. So adesso che fu solo un ripiego, mi mancavano in realtà mia madre e mio padre come sempre era stato. Solo che quella mancanza così aveva assunto una forma più accettabile. Persino rimediabile. Persi parecchio tempo così, studiai di nascosto, terrorizzato che lo sapeste. E poi arrivò il mio quattordicesimo compleanno, il 9 aprile di cinque anni fa. Facemmo una festa qui. Ricordo dei palloncini blu cobalto. E poi quel gufo… andammo via prima io e la nonna con mille richieste di scuse e profusi ringraziamenti. “Una lontana parente reclama Teddy per un regalo!”. Era la prima volta che sentivo una bugia uscire fuori dalle labbra di mia nonna. Negli anni, poi, ho sempre pensato che in realtà non mentì. Ebbi davvero un regalo quel giorno.

“Nella nostra completa ed ovvia ignoranza, nonché nella storica riservatezza di quella famiglia, non avevamo saputo naturalmente che, nel mese di febbraio, Narcissa Black era stata colpita improvvisamente da un ictus celebrale. Restò in coma un paio di settimane, le diedero l’estrema unzione perché convinti che non sarebbe sopravvissuta. Ed invece lei, ostica come sempre era stata, si riprese. Da allora, è rimasta paralizzata dalla vita in giù: ma è viva, combattiva, fiera. Come sempre è stata. Quando si svegliò, raccontò a suo figlio e a suo marito che non aveva fatto altro che sognare una persona, per tutto il tempo. Mia madre. Sua nipote Ninfadora. Non ha mai detto granché di che cosa sognava, di come lei fosse, di che cosa avesse detto… ma da allora, continuò ad insistere in modo pressante per incontrare me e mia nonna. Non devo morire un secondo prima di questo momento. Passò del tempo naturalmente, doveva tornare a casa prima e quella lettera arrivò solo il giorno del mio compleanno, come un regalo. Mi sono sempre chiesto se l’abbia fatto apposta. Lei… non mi ha mai risposto, per questo penso sempre che sia così.

“Mia nonna e sua sorella parlarono per cinque ore, prima che fossi ammesso nella stanza di Lady Malfoy. Era adagiata in un letto rosso, spiccava come un fiore dorato. Accanto a lei, come due guardie silenziose pronte a realizzare ogni suo minimo ordine e comando, c’erano Lucius e Draco. Mi intimorivano, sembravano solo accondiscendere a quella pazzia di Narcissa sebbene non l’approvassero. Lei mi fece segno di avvicinarmi, studiò il mio volto con un attenzione maniacale, chiese sgarbatamente se fossi anche io un mannaro. Mi incespicai con le parole e per tutta risposta i miei capelli cambiarono colore, diventando celeste acquamarina. Scorpius, il nipote di Narcissa, che era seminascosto dietro le gambe del padre, mi venne incontro ridendo, smaniando per toccarmi i capelli. Cissy sorrise e fu come se un respiro fu rilasciato tutt’assieme nello stesso momento. Mia nonna non fece altro che piangere tutto il tempo, parlava e piangeva, rideva e piangeva, giocava con Scorpius e piangeva. Io feci quello che potevo, intontito come mi sentivo. E poi mi portarono il mio regalo: l’arazzo dei Black. C’era il mio nome adesso. Non c’erano più bruciature adesso. C’era mia mamma, mio papà, mia nonna, io. Sentii finalmente quelle radici attraccarmi alla terra, come mai nella vita.

“All’inizio, con Draco e Lucius, fu difficile. Narcissa era algida, caparbia, fiera. Ma ebbe subito una dolcezza tenace nei miei confronti, figlia del perdono che aveva destinato alla sorella. Suo marito e suo figlio, invece, sembravano considerarmi solo un intralcio nella loro casa. Ci misi un anno intero a farmi accettare da loro, mentre andavo in segreto a casa loro per visitare Narcissa e farle compagnia assieme a mia nonna. Accadde per caso per me in un primo momento… ma oggi penso che lo fecero apposta per vedere la mia reazione. Mi fecero assistere alla scrittura del testamento di Cissy, cosa che mi fece diventare triste in un modo fin troppo evidente, anche se fingevo di no. Non potevo immaginare di perdere già adesso mia zia. Fu quello il segnale per loro, per Draco e Lucius. Capirono che ero davvero affezionato a lei, che non mi importava del denaro: non mi ero mostrato minimamente incuriosito da quanto sicuramente avrei potuto ereditare, per me era peggiore la prospettiva di veder morire Cissy. Solo allora, davvero mi accolsero in casa loro come un pari, evitandomi e proteggendomi anche dalla vista della moglie di Draco, Astoria, che invece aveva sottolineato spesso di considerarmi inferiore. A Draco, però, non importava. Per nulla. Prima per scherzo e poi seriamente si è fatto chiamare zio, insistendo però per usare il mio nome sempre al completo. Non sei un orsacchiotto, Edward. Ha preteso in modo imperioso che gli presentassi Victorie. Ha insistito alla sua maniera che firmassi per diventare il tutore di Scorpius. Mi ha imposto di accettare la somma che mi aveva lasciato Lucius quando morì due anni fa. Tecnicamente… è lui che paga la scuola. Non mia nonna, non i suoi risparmi… non ce l’avrei mai fatta, altrimenti. Draco è stata la prima persona che ho chiamato quando è morta la nonna. So che magari per voi suona incomprensibile, ed orribile, ed ingrato… specie perché ve l’ho nascosto. Specie perché mai ne ho parlato. Draco avrebbe sempre voluto che lo facessi, Weasley ci rimane sul colpo, diceva sarcastico, ma per me è sempre stato impossibile. Impossibile, perché… temevo che non capiste, temevo che mi giudicaste. So chi è. So chi sono. So chi è stata mia zia Narcissa, so tutto del passato di Draco Malfoy. Ma sono la mia famiglia, esattamente come voi. E se non potessi credere alla capacità di cambiare cuore e vita, vuol dire che mia madre e mio padre non mi hanno trasmesso nulla. Non sarebbero morti se avessero pensato che, dopo di loro, io continuassi a credere nei pregiudizi e non cercassi di cucire una nuova vita con tutto il mio impegno e sforzo, seguendo il loro esempio.

“Poco prima che mia nonna morisse fece promettere agli zii non tanto di prendersi cura di me, perché per quello sapevano che c’eravate voi… anche se comunque si affidava anche a loro perché io fossi felice e al sicuro… ma voleva soprattutto che mi facessero sentire davvero l’ultimo dei Black assieme a Scorpius. Che mi considerassero parte integrante della storia di una famiglia che dura da secoli, e che mia madre non aveva invece potuto vivere appieno anche nei suoi aspetti positivi. Loro… hanno accettato, insomma. Alludevo a questo, a questa storia, prima, quando ho parlato con lo zio… quando lui mi ha detto che così saremmo stati pari. Narcissa considera la sua redenzione per il comportamento che ha avuto con mia mamma, vincolata a stretto filo a quanto invece farà per me. Come se io fossi una specie di risarcimento danni: certe volte mi scoccia, lo dico sempre che sono storie passate e che ormai non hanno più importanza. Ma la zia è molto seria in questo… e per il resto… so, insomma, che non è solo una riparazione dei torti. A loro modo, in questo modo sarcastico e velenoso, loro… zia Cissy e zio Draco… mi vogliono bene. Ed ecco che arriviamo a perché lo zio è qui… ieri gli ho parlato e gli ho raccontato di me e Victorie. Se l’ho fatto prima di parlarne con voi, è perché un Black deve ottenere una specie di approvazione dal membro più anziano della sua famiglia per contrarre matrimonio. Ed appunto, come vi ho detto, mi considerano tale adesso. Per fortuna conoscevo tutte le tradizioni dei Black prima ancora di conoscerli… insomma il membro più anziano della famiglia è il solo che può concedere un permesso per sposarsi. Altrimenti, certo uno si può comunque sposare… ma non sarebbe un matrimonio considerato onorevole. È quello che accadde alla nonna, o a mamma. Ed il primo segnale per me che le cose sono cambiate era avere questo permesso… la zia era come sempre a letto, non mi ha potuto rispondere bene perché adesso ha anche difficoltà respiratorie, e non riesce a parlare. Quindi sostanzialmente ha abdicato al suo ruolo in favore dello zio. E lui… a modo suo mi ha detto poco fa di fare come credo che sia giusto. A patto che l’onore della famiglia sia rispettato… su questo vigilerà lui. Penso quindi che vorrà partecipare ai preparativi o a tutte le altre faccende, se non altro per rassicurare zia Cissy che ci tiene molto a queste cose. Hanno conosciuto Victorie, a loro piace… credo davvero che sia solo una cosa formale che lo zio verrà qui. Sento che… è giusto così, in fondo. Così come, adesso che sapete tutto questo ed adesso che sapete che anche loro ci potranno aiutare, dovreste essere certi che io e Vic non finiremo in mezzo ad una strada. Siamo in grado di crescere un bambino, siamo in grado di sposarci… ho già parlato con lo zio, so che lui si sforzerà di non trasformare questa occasione in un tiro alla fattura. Me lo ha promesso. Voi… potete fare lo stesso? Per me? Qualsiasi sia il modo in cui la pensiate… non voglio essere costretto a scegliere da che parte stare. Non costringetemi a doverlo farlo. Loro… non lo hanno fatto. Voi lo farete? Io… io non sono in grado di poter scegliere. Non posso farlo. Per favore”.

Teddy finisce di parlare in un suono di gola che somiglia ad un singhiozzo trattenuto, mentre Victorie lo accarezza ritmicamente sulla spalla destra guardandoci con espressione torva ed arcigna. Per un attimo non studio colpevolmente la testa bassa del ragazzino e le spalle tremanti che vistosamente celano un pianto che non vuole lasciar sfuggire, ma mi fisso sugli occhi di Victorie, su quel ceruleo trasparente che diventa oltremare torbido. Penso di nuovo istantaneamente che sarà una moglie e madre con un istinto alla protezione così spiccato da trasfigurare la dolcezza dello sguardo e l’immaturità dell’età in modo prodigioso. Guarda tutti, compresi i suoi genitori e nonni, con una punta di feroce orgoglio solo perché abbiamo toccato di striscio Teddy facendolo soffrire. Figuriamoci quando ci sarà di mezzo un figlio.

Una madre si cava il sangue delle vene per un figlio. Lei forse farà persino di più.

Dovrebbe davvero avere l’occasione di essere madre di questo bambino, anche se nato sotto un tempo acerbo. Lo penso davvero ed improvvisamente.

Ed è la prima opinione che riesco finalmente a formarmi.

La seconda invece prende sostanza nel momento in cui mi rendo conto del silenzio che, dopo le parole di Teddy, non ha smesso di gravare nella stanza. Nessuno vuole aprire bocca per primo, e ciò d’improvviso mi pare così ingiusto verso questo ragazzino che ha appena aperto il suo cuore davanti a noi, che sono presa per converso dall’impulso di dire una cosa qualunque pur di rassicurarlo sul fatto che gli vogliamo bene comunque, che lo capiamo, che in fondo non è successo nulla, che non sarà certo la sua vicinanza con Malfoy a farcelo alienare come figlio, nipote, amico, qualsiasi cosa sia stato in questi anni. Per amore di Teddy, però, cerco prima di analizzare a fondo tutte le parole che Malfoy ha detto appena entrato, la sua espressione ed il sottotesto, specie ora che conosco la verità, come a volermi purificare i pensieri, come a voler cercare di eliminare ogni onta di sospetto verso il vecchio nemico. Non lo faccio per il biondo, sia chiaro, ma per Teddy.

È come se mi chiedessi se, in fondo, posso fidarmi di Teddy al punto da affidarlo a Malfoy.

Una sola cosa mi è rimasta impressa e mi sovviene subito appena richiamo alla mente tutto il breve incontro: l’occhiata che Malfoy ha riservato a Teddy quando gli ha chiesto se faceva tutto questo solo “per quella vecchia storia” e che ora so essere la promessa fatta ad Andromeda. Malfoy ha scosso il capo, sembrava incredulo, sembrava sbigottito… era sorpreso che Teddy ancora si chiedesse una cosa del genere.

Come se fosse ovvio, scontato, naturale che lui lo facesse anche per altro… perché si è affezionato sinceramente a lui.

Gli ha poggiato la mano sulla spalla… e non ha risposto direttamente. Teddy però ha capito subito. Come se… sapesse…

La mia mente si lambicca attorno ad un concetto apparentemente semplice, ma che mi sfugge come se fosse fatto di polvere. Sguscia, sfrigola e sguizza, e mi sembra di perderlo sempre. Lo stomaco che mi punge, la nausea che resuscita nella mia gola donandole un sapore acre di vomito, mi fa quasi perdere la presa come se facesse troppo male inseguire quel pensiero, come se mi portasse nel labirinto del Minotauro. Non ho un filo in tasca, però, che mi riporti indietro: la camicia sotto il maglione aderisce alla pelle della schiena sudata, eppure continuo a cercare quel pensiero cascatomi fuori dal cervello. Respiro piano, male, come se fossi sott’acqua e non so perché ho paura di questo paragone… e poi in un rantolo compare l’illuminazione che cercavo.

Una frase sciocca che non capisco perché mi mettesse in un tale soggezione mentale. Tutto ciò che è minuscolo e stupido con altri, con lui invece, diventa grandissimo e sterminato.

E’ questo che Teddy sapeva e capiva, ci ha visto molto più di me in una pacca sulla schiena e in uno sguardo casuale.

Malfoy gli ha dato il motivo che cercava.

Accade allora: non ne prendo subito coscienza e non riesco quindi nemmeno a fingere che vada tutto bene, come ho fatto dall’inizio di questa lunghissima giornata. So solo che, in una frazione di secondo, tutti i colori della stanza sembrano sparire assieme alle voci, come se venissero risucchiati via in un vortice di luce intensa e malata. La nausea, ormai, non è più solo dentro il mio corpo… ma ovunque, in ogni cosa. Fuori, dentro, di me: all’esterno diventa solo una melassa condensata ed ondosa che mi sbatte e ribatte avanti ed indietro.

Tutto diventa bianco, le ombre della gente attorno si allungano e contorcono e qualcuno mi chiama preoccupato, ma io non so più parlare.

Perdo i sensi nella voce di Ron che grida il mio nome.

“… il motivo che cerchi…”.

 

 

Quando Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, riprese i sensi, era nel letto di casa sua sotto il suo copriletto caldo, accanto al comodino con il libro da finire in trenta pagine, vicino ad una camomilla con miele e limone. Suo marito sorrideva incoraggiante, dicendo che doveva smettere di lavorare così tanto, che era svenuta a casa di sua suocera come una pera cotta, che erano nel pieno di un dramma famigliare in piena regola ed aveva bisogno che lei stesse in forze. Sorrise suo marito, ironico e sarcastico, ed Hermione lo capì sorridendo a sua volta, scusandosi del malessere che ancora non comprendeva.

Disse che adesso stava bene e che era tutto a posto, non si doveva preoccupare. Ma lui aveva già chiamato un Medimago, non si poteva prendere infarti ogni volta.

Lei protestò, mise il broncio, incrociò le braccia, ma alla fine cedette.

Lasciò entrare la dottoressa, una donna di colore alta e bruna con un sorriso sottile che non le arrivava agli occhi. La visitò meticolosamente, disse che non era nulla di grave, le prescrisse un paio di giorni a letto. E le diede una Pozione Guaritrice, rossa come sangue fluido e mai coagulato.

“Credo che abbia uno stato di debolezza generale, signora Weasley…” aggiunse in tono flautato, sistemandosi i capelli “Niente di preoccupante, ma meglio assumere cautelarmente del ferro per innalzare l’emoglobina del sangue. Beva la fiala… e starà meglio”.  Restò in attesa, cauta, come se si aspettasse che non lo facesse.

Hermione Granger era testarda, detestava gli ordini. Era convinta di essere solo stanca, quella dottoressa imbelle non poteva sapere che razza di vita faceva e che quindi, nell’economia delle cose, uno svenimento ci poteva stare. Rassicurò la dottoressa che avrebbe bevuto la Pozione, che sarebbe stata a riposo, che non si sarebbe agitata e non sarebbe uscita per un paio di giorni.

Il medico sorrise di nuovo con quella piega senza espressione, e lasciò la stanza.

Hermione roteò gli occhi al cielo, sbuffò e poggiò la Pozione sul comodino, prendendo invece la camomilla. Aveva bisogno solo di riposo, non dei rimedi di una che doveva essere una ricca snob con la puzza sotto il naso e che faceva il suo lavoro solo come rimedio alla noia. Le consigliasse una migliore segretaria invece di Leda che triplicava il lavoro oppure una famiglia meno nevrastenica, invece di imbottirla di Pozioni!

Non bevve l’intruglio, al mattino se ne scordò quando Leda chiamò per dirle che non trovava la pratica sul caso Latimore. E, dopo, Hugo pensò bene di versarla sul tappeto.

“Poco male…” si disse Hermione, scrollando le spalle “Una che indossa sul camice gioielli vistosi come il cameo di una rosa bianca, non può essere un buon medico!”.

 

 

Post scriptum a suo modo necessario: questo capitolo, peraltro breve e dove forse nemmeno succede granché, arriva ad un anno quasi di distanza dal precedente. È una cosa che mi provoca un enorme imbarazzo e disagio, perché davvero a questa storia ci tengo molto e credo che ormai, se ci siete ancora, lo sapete bene. Quest’ anno purtroppo è stato davvero sfiancante per molti motivi e la testa spensierata che mi serve per scrivere l’ho avuta per poche settimane, quelle in cui ho scritto. Non vi starò a raccontare che cosa mi è successo, non è nemmeno giusto cercare giustificazioni e parlare quindi della mia vita personale. Posso solo ripetere come sempre faccio che questa storia non sarà mai abbandonata, che la porterò a termine comunque vada ed anche con questi tempi, e posso solo ringraziare chi mi è stato vicino e chi ancora mi legge. Grazie davvero per tutto. Cercherò di rispondere alle recensioni rimastemi e per il resto, se volete, sono sempre su Facebook per qualsiasi domanda. Cassie.

 

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Capitolo 47
*** Disturbia, step two: about serendipity (part I) ***


Capitolo 47: Disturbia, step two: about serendipity (part I)

 

7 dicembre

 

 

 

Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, era sempre stata una donna gelosa della sua apparente perfezione ed invulnerabilità. Mai un’assenza dal lavoro per malattia, mai un raffreddore complicatosi in febbre, mai un’influenza non stroncata sul nascere, mai un’intossicazione alimentare immediatamente prevista e sanata alle prime avvisaglie. 
Odiava stare male, ma soprattutto odiava stare a letto. 
Suo marito la derideva, dicendo che in realtà quello che lei non sopportava, era non andare al lavoro. Era una canzonatura gratuita che perdurava dai tempi della scuola quando nelle rare occasioni in cui si ammalava, si perdeva i compiti in classe, le lezioni supplementari, le spiegazioni vitali. Harry e Ron non erano mai in grado di supplire alla sua meticolosità ed impegno nel prendere appunti o registrare nozioni. Lei fingeva di prendersela, sbuffava accoccolata nelle coperte calde, incrociava le braccia e dopo rideva, scuotendo il capo.
Da valente dipendente del Ministero, la scenetta era proseguita ed Hermione non aveva fatto nulla per cambiare registro. 
Solo lei poteva sapere che, adesso, non le pesava tanto prendersi un’assenza da un lavoro che non amava fare. Poteva infastidirla, certo. Poteva preoccuparsi per ciò che sarebbe accaduto in sua assenza, probabilmente. Poteva supporre che al suo ritorno il lavoro sarebbe triplicato, certamente. Ma non era quello che la mandava in panico. 
La terrorizzava restare a letto per troppo tempo, arrendersi al fatto che avrebbe dormito di più, piegata dalla febbre, dalla spossatezza e persino dalla noia. 
Dormire troppo la inquietava come niente al mondo. 
Non ricordava mai i suoi sogni. Erano solo lampi dorati nel bianco, nulla di cui terrorizzarsi. 
Ma solo una volta, sette giorni dopo la partenza di Rose, quando si era presa un brutto raffreddore, lei aveva fatto un sogno che non aveva mai dimenticato. 
E che adesso, ogni notte prima di dormire, temeva di rifare… e che ogni volta che ora pensava di ammalarsi, rivedeva affacciato sulle soglie della coscienza come una bestia in agguato. 
Non c’erano assassini comparsi nella notte con delle maschere bianche. Non c’era nemmeno un mostro risorto dall’infanzia per occhieggiare da sotto il letto. Non c’era nemmeno Voldemort e un’immortalità mai raggiunta. E non c’era tantomeno la sofferenza dei suoi amici o della sua famiglia. 
C’era solo lei. Immobile, in una piazza di paese sferzata dal vento. Il cielo grigio vomitava fulmini, ma non pioveva. Attorno, sedie spezzate, banchetti distrutti, scaglie di vetro come se ci fosse stato un terremoto. E, lontano, un palco abbandonato. 
Lo guardava e basta, e non respirava. Lo guardava, e moriva soffocata. Lo guardava, e sapeva che le stavano strappando il cuore. Lo guardava, e voleva essere ovunque tranne che lì. Ed al contempo non era possibile andare via, perché era lì che doveva stare. E poco importa che il cuore non c’era in petto, poco importa che si graffiava le mani, poco importa tutto… lei lì doveva stare, non in nessun altro posto. 
Piangeva, persino da sveglia pianse. Nelle braccia di suo marito, singhiozzando senza ritegno. 
“E’ stato solo un sogno, Mione… un incubo. Calmati, adesso…”.
“I-io… dovevo stare lì… non in un altro posto…”. 
Lo ripeté per ore nel delirio della febbre, prima che Ron le dette un blando sedativo per farla calmare. E dormire senza sogni. 
Le raccontò tutto al risveglio, quando era più calma. Lei ricordò il sogno e la sensazione di squarcio al petto, ma non seppe collegarlo a niente della sua vita. 
Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, diceva di non voler stare a letto perché perdeva solo tempo ed aveva mille cose da fare. 
Ma dentro sapeva di mentire.
Lo sapeva perché, quando stava male, prendeva sempre una sola pozione. 
Un sedativo che non la facesse sognare.

 

 

“Sì, allora: ora mi ascolti molto attentamente, ok? Ti scandisco bene le parole, così sono sicura che mi segui, va bene? D’accordo? No, Leda, certo… sì, hai ragione, non sei tu, è lo schedario che è proprio un trip mentale da sturbo, e quindi tu giustamente, povera cara, non ti raccapezzi. Quando torno a lavoro, ci mettiamo mano assieme… sì, sì, certo, ci metto mano io, non sia mai che ti si scheggiano le unghie. No, no, che sarcasmo… sono sinceramente preoccupata delle tue falangi, che scherzi… torniamo a noi. Scaffale C. C… insomma come Cardiff, Cleveland, Corinto… ecco, C come Chanel. Hai trovato?! Ok, perfetto. Andiamo avanti… fila 14. Sì, quattordici. Sì, quando hai perso la verginità, potevo anche non saperlo, andiamo avanti… c’è una cartellina azzurra. Che significa azzurra come? Cielo, mare, puffo?! Comprendi? Non ce ne sono otto di azzurre, ce ne solo una… descrivile, Leda! Sì, sì, ecco, brava… quella color Tiffany. Brava. La pratica Latimore è lì. Torno dopodomani al lavoro, fanne tre fotocopie e mettile sulla scrivania… sai, quel mobile rettangolare con i cassetti? Perfetto, meriti una promozione, ciao cara, a lunedì”.

Riaggancio il telefono con un colpo di falangi perfettamente calibrato, in modo da esprimere la mia indignazione senza però scardinare il tasto rosso del cellulare. Mi abbandono drammaticamente contro i cuscini del mio letto, ammonticchiati contro la testiera, lasciandomi andare ad un sospiro esausto come se avessi percorso quattordici miglia a piedi nel deserto: l’esasperazione e la stanchezza di una conversazione con la mia segretaria, del resto, battono qualsiasi Parigi – Dakar pedestre, aggiunta ad una serie di maratone di New York e a tredici scalate del K2. Considerando poi che sono ancora convalescente, mi sento sfibrata da questi otto minuti scarsi di conversazione.

Accanto a me, dopo una serie di versi trattenuti, scoppia finalmente una risata lunga e liberatoria, di gola, profonda, proveniente dalle voci congiunte dei miei cognati, venutimi a trovare per poi ritrovarsi spettatori dell’intera conversazione. Harry si stringe le costole con le mani, come a trattenersi nel corpo le viscere sul punto di fuggire per la grande ilarità, mentre Ginny scoppia nei suoi soliti gorgheggi acuti e ritmici, che la rendono simile ad un mantice in iper-lavoro.

Roteo gli occhi al cielo, incrociando le braccia nel mio pigiama di cotone azzurro, bofonchiando caustica: “Sono contenta che la cosa vi diverta… ma con il suddetto personaggio, da lunedì io ci avrò a che fare di nuovo ogni santissimo giorno, posso subaffittarvela se vi piace così tanto… non sia mai che sia una mia sola esclusiva…”.

Harry torna serio di schianto, mentre Ginny si asciuga le lacrime con il dorso della mano, prima che il marito proferisca solenne: “Non se ne parla nemmeno. L’oca è tua e te la tieni tu. Sei sempre stata più crocerossina di me...”.

“… d’altronde hai sposato Ronald! Più di questo!” commenta gaia Ginny, facendo scoppiare di nuovo a ridere Harry e trascinando stavolta nella risata anche me. Esauritasi il momento di divertimento, cala un silenzio piacevole, quieto e rilassato. Con lo sguardo socchiuso, guardo fuori dalla finestra della mia camera da letto: sembra una giornata stranamente trasparente persino per Londra. Il vento di tramontana ha pulito l’aria e, tra comignoli ed antenne tv, il mio angolo di cielo è azzurro intenso. Lo fisso per qualche secondo, lasciando che mi riempia di pace.

“Come va allora, Herm?” mi chiede Ginny con un filo di apprensione, non ci vediamo dal giorno del mio svenimento alla Tana e comprendo solo in quel momento che l’ha impensierita parecchio. Mi ha chiamato spesso, si è fatta sentire ogni giorno come mia suocera e le mie altre cognate, ma non è mai potuta passare da me, sebbene fosse così vicina. Lily, infatti, ha avuto l’influenza ed è stata persino più intrattabile del consueto, monopolizzando tutte le sue attenzioni. Del resto, il mio malessere è stato liquidato come semplice stress e come necessità di un periodo di riposo, quindi non ero propriamente una malata terminale. Anzi, il fatto che mi abbiano lasciata in pace deve essere sembrato loro il migliore dei contributi per la mia guarigione.

Cosa che ho decisamente apprezzato.

Nonostante tutto, non so come rispondere alla sua domanda. Sul come stia. Sono stata dieci giorni in malattia, a casa, cosa che a suo modo è stata anche piacevole. La diagnosi di forte stress ha fatto sì che fosse creata attorno a me una sorta di campana di vetro immunizzante dal mondo esterno, e quella è stata decisamente la parte migliore. Ron ed Hugo hanno funto da guardie armate del mio benessere, imponendomi di restare a letto, di non stancarmi, di non contattare l’ufficio, di non seguire le beghe famigliari per la faccenda di Teddy e Victorie. Hanno quindi filtrato lettere e telefonate, messaggi e visite, con il risultato che mi sono dedicata solo a televisione e libri, ad uncinetto e minestrine di pollo, fingendo di lamentarmi ma in realtà rinfrancandomi della pace. Ron e mio figlio sono stati due ottimi infermieri, specie perché hanno spinto ogni litigio fuori dalla porta della mia camera da letto, mostrandomi sempre la loro immagine più ordinata e compita e portandomi sempre notizie rassicuranti e piacevoli, come se fossi in una sorta di bambagia mentale. Avrebbe dovuto darmi fastidio, in certi momenti ho persino finto che fosse così per rassicurarli sul fatto che fossi sempre la solita. Ma in verità ero oggettivamente così esausta che accoglievo le loro premure con tutta la provvidenzialità del caso, mostrando un viso sempre più sorridente ed un appetito sempre maggiore.

Ma la nausea non è mai passata. Ha solo cambiato forma, diventando più lieve ed accompagnandosi ad una serie di vertigini di pochi attimi.

Loro, ovviamente, non lo sanno: mi spingerebbero a maggiori controlli, mi rimprovererebbero perché non ho preso la medicina della dottoressa chiamata da Ron, mi pungolerebbero continuamente. Ho certamente intenzione di approfondire la cosa, ma per conto mio, senza che nessuno me lo faccia notare costantemente. La vedo come una cosa innocua, come viene, passa. E magari è solo un po’ di gastrite: nulla di cui preoccuparsi. 

Non ho avuto più episodi allarmanti, del resto.

I picchi più forti sono stati durante una replica di “Orgoglio e Pregiudizio”, dove per fortuna ero sola e nessuno se ne era accorto. Lì, alla scena dove si scopre che Wickham aveva sedotto in passato la sorella di Darcy, mi sono piegata in due sul copriletto pronta a rimettere anche l’anima. Ma, alla fine, era passato tutto. Quindi avevo sorvolato.

Solo che, naturalmente, alla domanda di Ginny per un attimo guardo il copriletto rosso e le mie mani conserte, chiedendomi se non dovrei dirle la verità. Lei, in fondo, frequenta molto il San Mungo e gli ambienti medici, mentre cerca di diventare volontaria, molto probabilmente potrebbe aiutarmi meglio di chiunque altro. Poi ricordo che Ginny è in primo luogo la mia apprensiva ed ansiosa cognata, quindi decido di tacere.

"Tranquilla, Gin…” sussurro con un filo di voce, affidando la secchezza delle parole ad un sorriso rassicurante “Sto bene adesso". Sia lei che Harry sembrano studiare tutte le linee del mio viso alla ricerca di un qualsivoglia segnale che possa sbugiardarmi. Apparentemente quello che vedono sembra consolarli, e quindi lasciano perdere.

Ginny, però, improvvisamente si batte le mani come se si fosse ricordata di schianto di qualcosa e, sotto il mio sguardo indagatore, raccoglie la borsa che aveva lasciato in un angolo della stanza, ci fruga dentro mentre impreca tra sé e sé, scansando cianfrusaglie. Infine, vittoriosa e soddisfatta, ne estrae un piccolo sacchettino consunto di velluto rosa sporco.

Me lo lancia in grembo, aggiungendo sfottente: “In ogni caso, questo te lo manda la geniale promessa della medicina moderna". Afferro il sacchettino con due dita, un po’ intimorita, quasi memore dell’avvertimento adolescenziale di star attenta a qualsiasi dono di un fratello Weasley perché potrebbe rivelarsi un Tiro Vispo che stanno ancora mettendo a punto usando te come ignaro esperimento. Tocco il contenuto, sembra una sorta di polvere molto granulosa, ed allentando il cordoncino del sacchetto, mi si rivela come una manciata di fiori secchi di colore misto tra il carminio e lo scarlatto. Mi raggiunge le narici un odore che ricorda la fragola e il sandalo.
Guardo Ginny, inarcando un sopracciglio: "Dovrei capire qualcosa, adesso? No, perché io vedo solo un sacchetto di fiori secchi…”, poi ricordo il suo accenno ad una fantomatica promessa della medicina e chiedo perplessa: “Di chi diamine stai parlando?". 

Harry trattiene una risata mentre Ginny bofonchia qualcosa a mezza bocca, assumendo l’espressione scocciata che aveva a scuola quando le chiedevamo di Lavanda. Si mette nervosamente una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio, prima di borbottare stizzita: “Herm, stai perdendo colpi. E tanti. Insomma la geniale promessa... la mia compagna di corso al San Mungo... la mocciosa, Isolde Crane". 

Al nome Isolde Crane, decisamente poco comune, finalmente mi si accende una flebile lampadina nel cervello e collego tutti i punti.

Ginny mi ha parlato spesso di questa sua compagna di corso del San Mungo, inserendola in tutta una serie di discorsi e lamentele che ho sempre ascoltato fingendo partecipazione emotiva, ma in realtà divertendomi tantissimo per come definiva la suddetta ragazzina.

Il corso che sta frequentando Ginny, infatti, è propedeutico a diventare volontarie in ospedale appunto, cosa che vorrebbe fare lei: quindi studia nozioni di pronto soccorso, di psicologia per l’aiuto dei pazienti, di erbologia spiccia e così via. Ginny, alla sua età, ormai può ambire solo ad essere una volontaria nei casi in cui l’ospedale abbia delle carenze di personale, o in casi sciagurati di particolari emergenze, o comunque quando Ginny vorrà fare volontariato. Ma per le ragazze più giovani, che stanno frequentando la scuola per diventare Medimaghe, questo corso è una sorta di primo vero e proprio test di vita all’interno delle dinamiche ospedaliere, nonché un’occasione per accumulare crediti formativi. Perciò è abbastanza normale che, a parte due o tre coetanee di Ginny, ci sia tutta una schiera di ragazzine di massimo una ventina d’anni che stanno frequentando la scuola e contemporaneamente seguono anche questo corso.

La maggior parte di loro ha preso in simpatia Ginny e le sue amiche, che considerano molto giovanili ma che comunque danno loro la dolcezza confortante di mamme, e quindi non insistono a sottolineare il fatto abbastanza scontato che loro stanno studiando per diventare dottoresse ed invece nel loro caso, è solo un hobby da casalinghe annoiate.

Questo commento invece, variamente infarcito, è una delle costanti di Isolde Crane.

Per sfortuna di Ginny, Isolde è anche una ragazza molto intelligente e dotata. È già entrata nell’Accademia medica a soli diciassette anni ed ora, a diciannove, è la più talentuosa e promettente del suo corso di studi, al punto che alcune sue ricerche sono state già pubblicate sulle riviste mediche di mezzo mondo.

Lei e Ginny, quindi, si scornano amichevolmente dal primo giorno: Isolde sminuendone l’impegno, Ginny sminuendole l’intelligenza. E puntualmente quando Ginny torna a casa, rimarca per due ore e mezzo con accenti piuttosto comici e grotteschi sulla sua arroganza e presunzione, sulla sua maleducazione e mancanza di rispetto per gli adulti, fino a giungere alla “piega stupida del suo padiglione auricolare” ed alla “penna idiota color rosa shocking che usa per scrivere”.

Quindi mi sembra oltremodo strano che Ginny, preoccupata della mia salute, si sia rivolta alla sua arci-nemica e che quest’ultima, grondando miele, le abbia dato persino un rimedio per me.

Che possa restare vittima di una vendetta trasversale?

Lo penso con un filo di panico fin troppo veritiero, e quindi tengo il sacchettino tra le dita come se contenesse nitroglicerina, esplodendo torva: "E che c'entra lei adesso con il fatto che non sto bene? Glielo hai detto tu? Non mi sembra di essere chissà che caso medico. Stress, vertigini e nausea... ci faranno una ricerca scientifica sopra, faranno pure una raccolta fondi con il numero verde in sovrimpressione". 

Ginny si inalbera subito, punta sul vivo dalla velata accusa per cui lei ed Isolde possano essere amiche del cuore, incrocia le braccia al petto con un atteggiamento che aveva anche da ragazzina quando si innervosiva, e sbuffa giustificandosi con voce accorata: "Senti, stavo parlando con Harry al telefono per chiedere come stessi. Lei si è materializzata accanto a me. E mi ha dato questo sacchetto, dicendo che, se ne avessi fatto un decotto, ti avrebbe fatto bene. Tutti i tuoi disturbi sarebbero passati. < Non servono medicine, o altre pozioni date dai medici, serve solo questa... Dì a tua cognata di non prendere altro>…”. Getto un’occhiata in tralice alla macchia sul tappeto che reca ancora le tracce della medicina che mi aveva prescritto la dottoressa chiamata da Ron: si è stranamente rappresa, senza venir via. Un brivido mi sale sulla schiena, come se quella di Isolde sia una sorta di premonizione su una sensazione di fastidio che già avevo avuto. Ginny, ignara dei miei pensieri, prosegue con voce incolore, ammettendo a fatica: “Isolde è un'insopportabile saccente mocciosa, ma... ne capisce. Male che vada ti sei fatta una tisana". 
"Ma poi si può sapere che diamine sarebbe?" chiedo, annusando con un po’ più di fiducia il contenuto del sacchettino. Ha un odore buono e penetrante, sembra allargarmi le narici.
"Grani di loto rosso…” enumera Ginny come se stesse cercando di ricordare esattamente che cosa le ha detto Isolde “E' una pianta antica, ha detto, che ormai si trova raramente in natura. E' molto indicata per vincere nausee e vertigini. Mi ha spiegato che veniva usata dai Maya, ma che poi se ne sono perse le tracce: loro credevano che tali sintomi indicassero la nostalgia di un'altra vita. Il loto rosso incardinava l'anima nel corpo, impedendo che sfuggisse". 

Inarco un sopracciglio con scetticismo, prima di replicare sarcastica: “Poetica come cosa... ma non sono propriamente depressa, io". 

Un’anima che vuole fuggire dal corpo.

È un concetto particolarmente suggestivo, e mi dà esattamente di questo: della depressione di vivere una vita che non ci appartiene. Chiunque l’ha provata come sensazione nell’arco della vita, ma non mi descrive affatto al momento. Magari il mio problema è esattamente il contrario, cioè che sono troppo incardinata nella mia vita al punto di non vedere nulla di diverso dalle mille beghe quotidiane.

La nostalgia di un’altra vita.

Questa è la sola vita che avrei potuto vivere, non ne ho dubbi.

La bocca dello stomaco brucia a quel pensiero, la chiudo con la mano mettendola a tacere.
"Pensa che l'ha detto pure lei... che non sei affatto depressa…” prosegue Ginny, ignara dei miei pensieri, per poi borbottare incrociando di nuovo le braccia: “Quella secondo me è una maledetta telepata... comunque ha aggiunto che adesso serve solo ad attenuare la nausea. E che ti farà bene. Ha aggiunto poi delle ciance strane ed inquietanti, ma non l'ho ascoltata più, mi stava facendo venire i sudori freddi". 
"Che avrebbe detto?" chiedo con un filo di incertezza.

Ginny si prende tutto il tempo per rispondere, come se le parole le costassero fatica: "Ha detto:  - Il loto rosso cancella le tracce. Così il male smette di trovarti sempre - ".

La frase rimbalza nel mio cervello lasciando quasi dei pomfi, dei lividi, delle escoriazioni sulla parete dei miei pensieri. È così… inquietante, che il sacchettino nella mia mano sembra per un attimo puzzare di marcio e pesare tonnellate. Echeggia nel tessuto della mia mente l’immagine di una sorta di ombra nera simile al petrolio che, costantemente, continuamente, instancabilmente, macera chilometri per raggiungermi, scivolando piano viscida ed appiccicosa. La sento per un attimo vorticare e respirare attorno a me, come se fosse qualcosa di estremamente reale.

Per liberarmi del potere della mia suggestione, con un gesto meccanico della bacchetta accendo una candela bianca che tengo sul comodino e ho comprato qualche settimana fa, spinta da un acquisto impulsivo. L’odore dell’erba bagnata a settembre, come recitava l’etichetta sgargiante sulla scatola, mi soffia nelle narici un senso inquieto di maggiore calma.

“Merlino, la tua amica deve essere rassicurante come Bellatrix Lestrange…” biascica Harry, fingendo di trattenere un’ondata di brividi freddi lungo le braccia, strofinando le mani con energia contro le maniche del maglione “Mione, fatti un esorcismo, piuttosto!”.

La sua battuta alleggerisce molto l’atmosfera pesante che le parole di Isolde Crane hanno portato, ed io e Ginny scoppiamo a ridere simultaneamente in un modo anche troppo meccanico per non comprendere che, comunque, quel discorso è penetrato in qualche parte non troppo nascosta del nostro inconscio. Nonostante tutto, quando Ginny cerca di prendermi il sacchettino dalle mani, la fermo con il palmo della mano aperta.

Per un qualche eccesso di fiducia che io stessa non comprendo appieno, richiamo con la bacchetta dalla cucina la teiera che avevo messo sul fuoco all’arrivo dei miei cognati: mentre a loro servo un Earl Grey, preparo un infuso con le erbe di Isolde. Ne viene fuori una bevanda piacevole, calda, al sapore di miele di lavanda e lampone. Scivola nella gola come se fosse lava liquida, riscaldando anche l’esofago e lo stomaco. La sorseggio con flemma, deliziata.

Se tiene anche alla larga il malocchio, siamo a cavallo.

"Quella è una macchia di sangue. Dimmi quello che vuoi, ma è così" Ginny erompe all’improvviso, portandosi la tazza di tè alle labbra e chiudendo gli occhi con espressione saputella. Sospiro per l’ennesima volta, provando l’ulteriore Gratta e Netta sul tappeto sporco a causa della medicina di quella dottoressa farlocca. Si è effettivamente rappresa come se fosse sangue, dando l’alibi a Ginny di sostenere che io e Ron ci siamo picchiati selvaggiamente durante uno dei nostri memorabili litigi, oppure ci siamo dati dentro con le pratiche alla “Cinquanta sfumature di grigio”.

Roteo di nuovo gli occhi innervosita, prendendo un altro sorso dell’intruglio di Isolde, mentre medito velocemente di cambiare discorso. Il primo pensiero che mi viene in mente, è quello del matrimonio tra Teddy e Victorie. Ron non me ne ha più parlato granché, nonostante la mia curiosità a riguardo, ma implicitamente ho anche apprezzato che mi evitasse nervosismo ed ansia, facilitando la mia ripresa.

Non credo che sarei riuscita a non esprimere in modo pacato la mia opinione se fossi stata interpellata: e al 99% la mia opinione e quella di mio marito convergono come le orbite di Mercurio e Plutone. Quindi in una sorta di evento cosmico millenario che magari i Sumeri identificavano come la fine del mondo. Meglio non rischiare, dunque.

Quando interrogo Harry e Ginny a riguardo, sono molto laconici e svogliati: di primo acchito penso che mi stiano tributando lo stesso eccesso di cura ed affetto di Ron, e non vogliano farmi preoccupare. Sotto però il fuoco incrociato delle mie domande, capisco che in realtà non c’è moltissimo da dire. Non ci sono stati passi avanti, né tantomeno indietro; forse non ci sono stati proprio dei passi in alcuna direzione.

Teddy e Victorie sono sempre convinti della loro decisione, non c’è verso di smuoverli da lì in alcun ragionevole modo: si sposeranno probabilmente ad aprile. Ascoltano tutti, parlano con tutti, ma nel momento in cui qualcuno prova a dissuaderli dal loro proposito, diventano dei muri di gomma e fanno quadrato attorno a sé stessi per non ascoltare.

Attorno a loro, continua a chiocciare il clan Weasley al gran completo: ogni sera, da quando ci hanno comunicato quella decisione, si sono tutti ritrovati alla Tana per discuterne e parlarne fino alla noia, al punto che Harry e Ginny hanno cominciato a disertare le riunioni per la pace del loro sistema nervoso nonché per la ripetitività degli argomenti.

Cosa che invece so che non ha fatto minimamente mio marito, presente in ogni discussione fino al tedio e allo strazio.

La sola novità che loro mi raccontano riguarda i genitori di Victorie, Bill e Fleur, ormai completamente concordi con la decisione della figlia di sposarsi ed avere un figlio a diciassette anni: cosa del resto ragionevole, visto la sua assoluta irremovibilità. Pragmaticamente avranno concluso che è meglio acquistare un genero ed un nipote che perdere una figlia, negandole sostegno affettivo e forse anche economico nella sua scelta di vita. Forse, in modo cinico, prevedono anche il momento in cui la scelta apparirà eccessivamente gravosa o anche sbagliata, e dovranno essere lì a recuperare i cocci della loro bambina cresciuta in fretta.

Effettivamente se penso a Rose, io avrei fatto lo stesso. I figli, d’altronde, non ci appartengono sul serio. Appartengono al loro tempo, alle loro scelte e al loro carattere. Per quanto cerchiamo di renderli calchi di noi stessi e per quanto vogliamo preservarli dalla sofferenza indirizzandoli verso ciò che sappiamo essere giusto, può darsi che il loro destino sia altrove, in tutto quello che percepiamo persino come sbagliato.

In questa storia, del resto, neanche io che sono così avvezza alle partiture morali, ho ben compreso che cosa sia giusto e che cosa sia sbagliato. Mi sembra davvero tutto avvolto nel grigio dell’irrisolutezza, dove ogni cosa ha un suo rovescio che la qualifica come contemporaneamente giusta e corretta, e sbagliata e inopportuna.

So solo che il pensiero di un matrimonio tra diciassettenni mi provoca un senso di stretta allo stomaco ben più concreto di quello di una gravidanza alla medesima età. Non saprei come definirlo. Questa storia mette alla prova il mio inconscio in un modo mai sperimentato prima.

Se mi proietto diciassettenne, pronta ad inforcare una navata per bardarmi del ruolo di moglie, mi sale l’angoscia. Se invece mi proietto alla stessa età o poco più grande, sorpresa dalla vita con una gravidanza improvvisa, con un padre probabilmente assente e non nelle migliori condizioni economiche ed esistenziali, non provo alcun disagio.

Penso persino di provare ad immaginare che cosa si prova. E non mi sconvolge, come se ci fossi passata. Delineo chiaramente la preoccupazione, l’ansia e l’incertezza. Ma non è nulla in confronto ad un matrimonio da adolescente. Quello invece mi fa sentire al cappio, come una bestia braccata.

Do voce ai miei pensieri in modo quasi automatico, non collegando per un momento cervello e voce: “Certo che sposarsi a diciassette anni… per quanto mi sforzi, non riesco a capacitarmene. Come si fa ad essere sicuri di voler passare tutta la vita con il tuo primo amore? E se qualcun altro spuntasse per caso nella tua vita e ti facesse mettere in discussione tutto? Hai ancora un’intera vita di incontri davanti… e di scoperte, pure su te stessa. Questa cosa non la capirò mai…”.

Comprendo di aver detto qualcosa di strano quando Harry e Ginny si fissano la punta delle scarpe, con un’espressione tra l’imbarazzato e il fremente dalla voglia di controbattere. In un lampo capisco che forse hanno frainteso le mie parole, cogliendo un’implicita frecciata anche a loro. A parte qualche relazione davvero infantile, loro si sono sposati felicemente con il primo amore della loro vita. Nel caso di Ginny, addirittura, si può parlare della sua fantasia da bambina.

Cerco di correggere il tiro in modo maldestro, sussurrando ovvia: “Chiaramente a voi è andata bene, ma non è detto che vada così bene per tutti! Del resto, uno a diciassette anni che ne sa che…”.

“Veramente io stavo pensando a te e Ron, non a me ed Harry” controbatte secca Ginny, interrompendomi e ricevendo un cenno di assenso da parte del consorte “Anche tu hai sposato la persona che amavi a diciassette anni. E non penso che ti sia andata male… o sbaglio?”.

“Certo, certo…” ribatto punta sul vivo, ma troppo velocemente perché effettivamente possa dare l’impressione corretta di aver pensato alla mia risposta. Piccoli crampi ghiacciati si arrampicano sulla pelle della nuca e delle spalle, mentre simulando tranquillità svuoto in un sorso bollente il resto della tisana di Isolde. Il liquido scende veloce lungo l’esofago e scoppia in pancia, causandomi una fitta di dolore che reprimo a fatica. 

Non mi è andata male.

Certo, certo.

Mentre devio l’attenzione dei miei cognati con una domanda calibrata sulla loro figlia pestifera, cosa che comporterà un monologo di quindici minuti da cui posso assentarmi giustificata, la mia mente si incarta in un soliloquio angoscioso che ha l’effetto di aprirmi in due come una mela.

Non ho mai fatto davvero dei bilanci del mio matrimonio.

Non ne ho mai sentito l’esigenza.

Ora però immagino un ragazzo di diciassette anni o poco più che, in cerca di consiglio, mi chieda precauzioni e controindicazioni del matrimonio con la prima ed unica persona che tu abbia mai amato. La mia versione mentale è prolissa di pappa psicanalitica da due soldi, figlia di certe letture distratte su riviste femminili e certi discorsi a tardo pomeriggio con qualche amica pensosa.

Certo che puoi sposare la prima persona che tu abbia mai amato, bisogna solo crescere assieme, allo stesso ritmo, aspettarsi nei momenti in cui uno resta indietro, l’amore deve crescere e mutare con te, cambiare alla stessa velocità, e sai che bello è guardare le foto assieme di quando si era ragazzini, scoprire che ci si pensa persino due persone diverse ed invece si è sempre gli stessi, avevi i capelli più corti e ti eri fatto male i colpi di sole così schiarirono e sembrarono arancioni, e lui invece era magro come un chiodo, si contavano le costole come un Gesù in croce e d’altronde anche quei capelli erano imbarazzanti, senza contare la barba lunga da clochard. Vorresti davvero perderti tutto questo, il miracolo di una vita che cambia davanti ai tuoi occhi?

Acquisto coraggio e vigore dal mio discorso, persino le guance mi si infiammano esteriormente mentre Harry e Ginny, ignari spettatori, continuano a parlarmi della distruzione di chissà quale artefatto antico da parte della diabolica figlia.

Il bilancio del mio matrimonio è decisamente positivo: in attivo, come una piccola ma solida azienda che macina lavoro e sudore, producendo una discreta e considerevole ricchezza.

Ed è un attimo, prima che il Teddy mentale della mia testa mi si pari innanzi con un sorriso ingenuo che per un attimo credo persino di vedere trasfigurato in un ghigno.

Dice serafico: “Quindi tutto questo è successo a te e a zio Ron? Siete cresciuti assieme?”.

Avrei voluto a quel punto aver sentito una sorta di fragore di acqua, qualche scossa di terremoto, fulmini e saette, inondazioni ed urla di disastri naturali che rovesciano la testa e mi suggeriscono le risposte che, fino a quel momento, non avevo mai contemplato.

Avrei voluto, in sintesi, che la mia risposta fosse una sorpresa così che mi andasse di traverso il cuore e mi scoprissi d’improvviso in una verità che avevo solo ignorato.

Invece, con nitore incolpevole, rispondo fiacca a Teddy: “No. Non siamo cresciuti affatto assieme. Lui è rimasto uguale. Ed io ho finto di essere rimasta uguale così non se ne accorgesse”.

La vera sorpresa viene dopo, non a quel pensiero.

Lì, viene il fracasso infernale dei neuroni che si ribellano, della moglie che tradisce nel pensiero e della madre che non usa i figli come merce di scambio della felicità che non ha trovato.

Il tuono, il fulmine, il terremoto viene dopo.

Quando mi spoglio di metafore e di similitudini con Teddy e Victorie, e con l’adolescente che sono stata. Quando sono di nuovo io, di fronte ad un anello con la pietra rossa e alla richiesta di una promessa di matrimonio. Quando sapevo tutto nella mia testa di ciò che non andava, eppure dissi il contrario di quello che pensavo.

Quando invece di dire di no, dissi di sì.

… e sposai Ron Weasley.

.

.

.

Non ci saremmo dovuti sposare.

Certo non allora.

Forse mai.  

 

8 dicembre

 

Quando torno in ufficio, è facile liquidare quel pensiero sotto un mare di scartoffie e di impegni. Semplicemente lo metto a tacere sotto mille spiegazioni tornite di logica e raziocinio, parlando di stanchezza e del tempo che passa. Abbiamo la scomoda ma illuminante perfezione di non poter mai sapere come sarebbe andata, se avessimo fatto qualcosa in modo differente: perciò mi cullo nella rassicurante considerazione che, se anche io e Ron non ci fossimo sposati allora, probabilmente il futuro ci avrebbe riportato comunque assieme allo stesso punto.

Anzi, sicuramente sarebbe andata così.

E poi diamine abbiamo avuto due bambini bellissimi, abbiamo due carriere quasi soddisfacenti, cresciamo in una bella famiglia unita ed ampia… queste recriminazioni sono da massaie annoiate sulla soglia della mezza età, e Dio me ne scampi e liberi se sono così.

La mia vita è questa. Basta.

Mi torna in mente la frase di Isolde sulla nostalgia di un’altra vita, mi si accappona la pelle di nuovo per l’improvvisa adeguatezza di quell’espressione che, all’inizio, sembrava un pezzo stonato.

La esco fuori dal mio cervello, sbattendo senza alcuna esigenza un faldone di pratiche ammuffite sul legno della scrivania, nell’apparente intento di spostarlo e basta.

Attratta dal tonfo secco e dalla probabile materializzazione di un gossip, Leda compare nel vano della porta spalancando gli occhi e chiedendo stucchevole: “Tutto bene, capo?”.

Roteo gli occhi e per un attimo faccio stridere le mie unghie sulla superficie della scrivania come una sorta di pantera incattivita. Stamattina mi infastidisce come il colore cremisi negli occhi di un toro: prima di tutto, è vestita in quella poco appariscente tonalità. Una camicetta striminzita da cui si indovina il pizzo del reggiseno crema di La perla, ed un paio di shorts a pois bianchi su fondo sempre rosso. Quando si palesa alla mia vista, è intenta a succhiare un Chupa Chups color fragola matura, in un’accordanza cromatica tipica di un porno soft liceale.

Ovviamente Leda, dall’alto della sua esperienza, sa che il prototipo “Lolita bionda, apparentemente ignara del suo fascino” vende parecchio e quindi spinge molto su di esso; del resto sembra anche funzionare discretamente, Dean è entrato nel mio ufficio circa dodici volte nelle ultime tre ore chiedendo in prestito pezzi sempre diversi di cartoleria.

Cosa estintasi sul nascere quando gli ho detto che, a meno di tre porte dalla sua, vi è il deposito cancelleria dell’intero Ministero e che, se è in tale penuria di penne e pergamena, può rifornirsi tranquillamente lì. Credo anche di avergli suggerito di infilarsi i suddetti articoli in un punto nevralgico, ma penso di averlo solo sussurrato a voce non troppo alta a me stessa, quindi forse tra otto minuti sarà di nuovo qui. E tutto per colpa di questa squinzia in piena attività.

Che mi ha chiamato capo. Di nuovo. Quando sa che lo detesto.

Se la becco con questo faldone in testa e la metto KO per un anno e mezzo, potrei accordare un bellissimo Incantesimo della memoria per convincerla di aver sbattuto contro uno stand Chanel ad una svendita da panico! Dubito che qualcuno troverebbe mai la falla nel mio favoloso piano.

Tamburello con le dita sulla copertina rigida del fascio di documenti rilegati, prima di rassicurarla con un sorriso melenso sul mio stato attuale.

Gesticolando in modo decisamente esagerato con quel leccalecca appiccicoso, Leda mi informa che ci sono due persone in attesa di vedermi da circa una ventina di minuti. Le spalle mi si afflosciano come se fossi un pesce spinato mentre mi chiedo mentalmente perché non le abbia fatte entrare prima, visto che non c’era nessuno. Ma naturalmente non paleso ad alta voce la mia domanda, visto che comunque al 99% sono certa che la sua mancanza di solerzia sia dovuta al fatto che le persone che aspettano sono delle donne, cosa che a lei non interessa.

“Di chi si tratta?” chiedo nervosamente, mordicchiandomi l’unghia del pollice e consultando l’agenda in modo febbrile. Sono così fuori fase che temo di aver dimenticato qualche appuntamento importante, ma come ricordavo la pagina odierna dei miei impegni lavorativi riporta solo un incontro con un membro del Wizengamot per le 15 e 30.

“Mah non lo so, mi hanno detto il nome, ma l’ho scordato…” chiosa Leda ovvia, e non sia mai che ricordi qualche dato anagrafico di tre sillabe scarse “Ma sono due tipe straniere. Pure piuttosto… fuori, se capisce che cosa intendo, capo”.

Annuisco come se avessi capito tutto, quando invece penso che essere fuori dai dettami di questa oca significa probabilmente essere individui utili ed ammirevoli della società civile.

“Ti hanno almeno detto che cosa vogliono?”, ultimo disperato tentativo di aggrapparmi a qualche sua sinapsi funzionante.

“Mmm, mi faccia pensare…” arriccia le labbra in modo pensoso, come se stesse ricordando tutte le cifre del PI greco e non una qualche sorta di informazione ascoltata massimo trenta minuti fa, poi si illumina come un albero di Natale e chioccia geniale: “Una causa di divorzio! Una causa di divorzio per maltrattamenti del coniuge! Doveva occuparsene l’avvocato Nott, ma è in ferie. Sono necessari alcuni adempimenti burocratici perché la moglie è straniera, ma ora vive qui a Londra con la figlia”.

Sgrano gli occhi con un moto di autentica sorpresa, mentre Leda si massaggia la tempia in modo meccanico come se fosse affetta da una tremenda emicrania. Piacere, non so da dove le sia uscita tanta memoria e tanto linguaggio appropriato. Forse nel leccalecca c’è qualche pozione Arricchisci-Intelligenza. Se è così, gliene compro uno stock industriale.

Ovviamente lo sforzo è stato tale che mi chiede il permesso di fare una pausa caffè, e gliela accordo volentieri così non sarà nelle vicinanze per fare domande inopportune a questa donna. Se sente parole come divorzio o tradimento, resta ad origliare o a dare pessimi consigli che nessuno le ha mai chiesto.

Con un gesto sgraziato della testa ed un’ultima occhiata pettegola, Leda fa entrare le due donne che sostavano fuori. Mi preparo già a renderle destinatarie della mia migliore occhiata di comprensione e pietà umana per aver avuto a che fare con la mia segretaria.

A palesarsi per prima, mentre entra nella mia austera stanzetta con un passo militare ed autoritario, è una ragazzina di non più di diciotto anni, forse coetanea di Teddy. Desumo la sua età dai tratti ancora evidentemente infantili, in particolare dalle guance paffute, da un corpo allampanato e da un seno acerbo, senza dimenticare che porta in modo negletto una specie di zaino di scuola, poggiato mollemente sulla spalla sinistra. Per il resto, la sua posa e il suo contegno suggerisce qualcosa di stridente con la sua apparente giovane età. Ha uno sguardo penetrante ed azzurro come ce ne sono pochi, apparentemente glaciale, circondato da una cascata di capelli arricciati in punta di colore castano chiaro. La mascella è serrata, ogni tanto si mordicchia nervosamente il labbro inferiore: resta in piedi davanti alla mia scrivania e,  soverchiandomi con la sua altezza, mi destina uno sguardo particolare. Dapprima incerto, inquieto, forse persino spaventato. Dopo, con un lampo cobalto che colgo distintamente, studia senza ritegno le linee del mio viso come alla ricerca di qualcosa. Mi mette profondamente a disagio con questo esame interiore, quindi mi affretto con la schiena sudata a guardare in direzione della porta, aspettando sua madre.

La segue dopo qualche istante una donna con un vestito azzurro di lana, lungo sulle maniche come a coprirle le mani affusolate. Stavolta sono io a renderla oggetto di una lunga occhiata incuriosita, mentre mi torna in mente il giudizio di Leda che le ha definite “fuori”. La donna che mi si palesa davanti, un quieto sorriso gentile sulle labbra, ha dei tratti di vaga traccia slava: appare decisamente più piccola nella statura della figlia, che la supera di una spanna abbondante. Ha lunghi e liscissimi capelli scuri a contornare un viso pulito dalla pelle olivastra. Gli occhi cervoni sono limpidi, chiari, circondati da lunghe ciglia nere, cosa che le dà l’impressione di somigliare ad un cerbiatto perso nella foresta. È lo sguardo che Leda si sogna nelle sue interpretazioni da ragazzina verginella; questo appare autentico, vero, incomparabilmente ammaliante.

La guardo per qualche secondo senza capire perché mi comunichi una sensazione di… sicurezza. Calma. Serenità. Come una stretta gentile sulla nuca. La assaporo a pieni polmoni, come se ne avessi un bisogno ancestrale finalmente soddisfatto. La cosa mi sembra piuttosto strana, non sono una da sensazioni improvvise ed impreviste davanti agli sconosciuti. O meglio, non sono una da sensazioni positive, quando si tratta di sconosciuti. Però l’aspetto quieto e gentile della donna di fronte a me, è abbastanza pervasivo nel trasmettermi immediatamente quel calore.

“Prego, accomodatevi…” sussurro calorosa alle due, indicando le due poltrone davanti alla mia scrivania, mentre rintuzzo con la bacchetta il fuoco del camino nella fredda giornata di dicembre. Proseguo poi atona: “Potete gentilmente ripetermi i vostri nomi? La mia assistente… ha mancato di riferirmeli…”.

La ragazza, subito, interviene con decisione, ha una voce pastosa, abbastanza dura e marcata sulle gutturali: “Charlotte D. Karkaroff… e lei è mia madre, Tatia Krasova. Lei è la signora Granger, giusto?”. Ascolto i loro nomi con un lieve fremito delle ciglia, un dejà vu mi frastorna tagliandomi fuori dal presente e piombandomi in una ripetizione di parole e sillabe senza senso.

Scuoto la testa cancellando la sensazione, sono nomi particolari ma ovviamente perché riecheggiano la loro origine straniera. Forse solo il cognome della ragazzina mi accende una piccola spia luminosa.

Igor Karkaroff: il preside di Durmstrang al torneo Tremaghi.

Che siano imparentati?

Proseguo con gentilezza: “Chiamatemi pure Hermione… mando subito un gufo a recuperare la vostra documentazione, così possiamo analizzare assieme il caso e quello di cui avete bisogno. Ci vorrà qualche minuto”.

La donna di nome Tatia sorride gentile ringraziandomi a bassa voce, mentre Charlotte fa uno sbuffo nervoso con il naso mentre il mio gufo prende il volo. Cala naturalmente un silenzio pesante come piombo che mi innervosisce come non mai. Fingo di essere completamente assorbita da un documento che leggo con sussiego, seguendo le righe stampate con l’indice. Naturalmente non possono sapere che si tratta semplicemente della lista degli ingredienti del tacchino con il curry che mi ha infilato Ginny nell’agenda in vista del Natale. Lo sguardo della ragazzina mi buca la fronte china sul foglio, facendomi sudare freddo. 

“Lei… non è di qui, vero?” erompe alla fine con voce nervosa, un po’ acuta e stridula.

“Cosa?” chiedo con una punta d’ansia, sollevando il capo.

Charlotte mi studia senza ritegno e contegno, poi le rughe della fronte arricciata si spianano con risolutezza e ripete stavolta senza inflessione di domanda, stentorea: “Lei… non è di qui…”.

Sorrido piuttosto nervosamente, e garantisco con voce che suona isterica persino alle mie orecchie: “Sono nata e cresciuta a Londra. Quindi sì, sono decisamente di qui…”, con un improvviso fulmine di consapevolezza, aggiungo ispirata: “Posso garantirti che ho piena conoscenza della legislazione inglese sia babbana che magica, ed anche…”.

Charlotte finge di non sentirmi neppure come se avesse parlato il vento, e si rivolge alla madre con tono lezioso e pedante: “Mamma, lei non è di qui vero?”.

Tatia, apparentemente, nemmeno si sconvolge. Sorride ancora, poggiando una mano sul braccio della figlia in un gesto affettuoso che seguo senza accorgermene: “Ovvio che no, tesoro. Sei stata molto brava ad accorgertene”. Ha una voce soffice ed orgogliosa, gli occhi le si illuminano guardando la figlia.

Charlotte, inorgoglita dal complimento, sfodera un sorriso luminoso ed arrossisce, prima di dire meticolosa con una nuova occhiata severa nella mia direzione: “Vibra quasi in modo diverso, sembra piuttosto evidente. Chissà per quale motivo”.

Il mio straniamento, ovviamente, finisce in quel momento. Il ritorno del gufo con il faldone di documenti, mi riporta alla realtà contingente ed alla assurdità della situazione, così che possa ribattere acidamente, schioccando la lingua ed aprendo le cartelline con un gesto repentino: “E questo è il momento in cui mi schiarisco la voce, richiamando l’attenzione su un piano del discorso più normale, mentre mi perdo nei meandri di una conversazione nient’affatto inquietante”.

Le due mi guardano allora tra il colpevole (Tatia) e l’infastidito (Charlotte), sobbalzando però entrambe come se si fossero ricordate solo in quel momento della mia presenza, sebbene stessero tranquillamente parlando della mia natura aliena al mondo civilizzato. Mi ritrovo per la prima sciagurata volta nella vita a dare ragione a Leda. Sono fuori.

Prima, lei mette due parole in croce di senso competente e compiuto. Poi, io le do ragione.

Due volte in una giornata: si sarà aperto il secondo sigillo dell’Apocalisse.

Tatia, con maggiore tatto rispetto alla figlia, si scusa mortificata e bisbiglia cortese: “Ci scusi Hermione, io e Charlotte non volevamo essere indelicate o farla spaventare…”. Assume un tono solenne ma confidenziale, prima di proseguire: “Io e mia figlia abbiamo una… percezione diversa del reale, rispetto alla gente comune. Le nostre conversazioni perciò possono risultare pienamente comprensibili da noi due, ma naturalmente possono risultare persino preoccupanti se ascoltate da altri… le domando scusa…”.

Annuisco con partecipazione, il calore di Tatia induce chiunque a darle ragione a prescindere con un sorriso dolce. Una percezione diversa del reale: due sensitive, quindi? Ammetto il mio scetticismo, ma lo nascondo dietro un’espressione cautamente neutra.

Tatia però sembra quasi indovinare la mia reticenza a crederle, quindi si sente in dovere di spiegare sommessamente: “Ho goduto del dono della chiaroveggenza fin dalla più tenera età. Mi troverà in tutti i testi più accreditati sulla Divinazione del nostro secolo. Non che abbia bisogno di referenze, ci mancherebbe. Ma comprendo che possa pensare di avere a che fare con una ciarlatana…”.

“Non lo avevo assolutamente pensato, Tatia…” aggiungo con una punta di senso di colpa per i miei pensieri, mentre preciso incolore: “E d’altronde non credo nemmeno che mi interesserebbe… non potrei negarle assistenza legale nemmeno se fosse una visionaria…”. Sposto senza alcuna necessità il calamaio della mia penna, mentre cerco di mantenermi sulla china neutra tra la dipendente del Ministero che deve suonare professionale e la donna da sempre abituata alla gentilezza e all’educazione. Con tatto chiedo a quel punto, indicando la minore delle due: “Sua figlia condivide il suo dono?”.

La ragazzina, in un moto di difesa, si serra le spalle come se avessi osato troppo nella mia domanda innocente. Persino gli occhi sembrano bruscamente cambiare colore, diventando più scuri. Tatia stringe un polso della figlia, accarezzandole il palmo con il pollice in modo gentile, mentre sussurra fieramente: “Charlotte non è come me. E’ del tutto… diversa. Dovrei spiegarle troppe cose noiose per farle capire la sua natura…”, la ragazzina sospira partecipe, assolutamente estranea alla presunzione di essere definita così particolare. Sembra piuttosto quasi vergognosa a riguardo, come se sua madre stesse dicendo qualcosa di cui non andare così orgogliosi e fieri come lei vuole far credere. Con una punta di angosciosa curiosità, mi chiedo allora che cosa sia Charlotte Karkaroff. L’aspetto è assolutamente comune, sembra solo un po’ più grande della sua età. Non ha nessun segno esteriore che faccia pensare a vampirismo, licantropia o sangue Veela. E suppongo che in quel caso, sua madre non sarebbe così misteriosa.

Però stiamo parlando di una Karkaroff: se fosse davvero imparentata con Igor, comprenderei se dietro ci fosse più di quanto appare. Spero solo che non si tratti di nulla di oscuro.

Non so perché, in modo abbastanza istintivo, gli occhi di Charlotte mi suggeriscono che non c’è nulla di malvagio in lei. Forse solo di… incomparabilmente speciale.

Tatia, dopo una piccola pausa, continua con voce tranquilla: “Io e Charlotte condividiamo un livello di percezione maggiore rispetto al normale, anche se il suo è infinitamente superiore al mio… ci ha incuriosito solo che lei fosse… diversa, ecco… a livello di energia vitale e mistica… è una cosa rara, ha mille motivazioni. Ma non c’è nulla di preoccupante…”.

Guardo con la coda dell’occhio ancora per qualche secondo il viso della ragazzina, come a cercare in quelle linee paffute e puerili velate di imbarazzo le tracce di questo enorme potere, poi con un po’ di vergogna per la mia attenzione maleducata, distolgo forzatamente lo sguardo da lei, tornando agli accenni che stanno facendo alla mia presunta energia mistica diversa dal normale.

“Mi scusi la domanda, ma sono una persona molto curiosa. Ed è la prima volta che onestamente parlo con un’esperta di divinazione che non mi sembri un’indovina e basta…”, il complimento inorgoglisce Tatia che si sporge sulla sedia, ascoltandomi: “Ma che cosa significa che la mia… energia… è diversa?”.

“Mi perdonerà se il mio discorso sarà forzatamente semplicistico…” prosegue Tatia con un profondo respiro “Ma comprenderà che si parla di percezioni. Ogni persona ha un’aura diversa a livello divinatorio, legata ad uno dei cinque destini di ogni uomo che sta evidentemente perseguendo…”, la ascolto rapita come una bambina alla prima lettura di una fiaba “Cervello, cuore, ossa, fegato e sangue: sono questi. Ogni uomo li possiede tutti e cinque, ma non si sa se li incontrerà tutti. Le persone tranquille ne vivono e scelgono uno. Quelle felici ne trovano uno che ne comprende cinque. E, per una profetessa, ciò è visibile tramite una sorta di aura… colorata, luminosa. Comprenderà quanto sia iridescente come un arcobaleno per chi vive così felice da racchiudere cinque destini…”. Tatia a quel punto si interrompe a disagio, gettandomi un’occhiata in trasparenza che mi fa sentire nuda ed infreddolita. Anche Charlotte mi destina un’occhiata simile, tinta ancora da una vena interrogativa che le fa aggrottare le sopracciglia scure.

Come se cercasse di capire come funzionassi.

Vedo distintamente le parole rincorrersi nella mente di Tatia Krasova, mentre cerca di spiegare a grandi linee quello che sente su di me. Le pupille si aprono e restringono, come se seguisse delle linee attorno alla mia figura. Poi, in un respiro più intenso, sussurra quasi sfibrata: “La sua aura… è particolare perché… è fioca, produce il bagliore che avrebbe una lucciola agonizzante”.

Quell’ultimo aggettivo, agonizzante, mi fa rabbrividire e gelare come se fossi in mezzo alla neve. Nascondo le mani ghiacciate sotto la scrivania, stringendole forte sulle mie ginocchia nel tentativo di riscaldarle. Tatia, quasi mortificata, prosegue fiacca: “Ed ha una luce intermittente e… grigia. Come il mare di gennaio. Nessun destino è così. Può sembrarle una cosa strana da spiegare, ma non credo di potermi esprimere meglio”.

Un’aura grigia.

Picchietto pensosamente un indice sulle mie labbra, come se mi stessi concentrando sommamente nel silenzio delle mie interlocutrici. Ma, in realtà, la mia mente è piuttosto sgombra e deserta: strano a dirsi, conoscendomi.

Non è francamente rassicurante che una chiaroveggente ti veda in modo incerto. Non ho grandissima esperienza in materia, ma suppongo che non sia un segnale incoraggiante alla “vai avanti così, Hermione, sei una grande!”. E del resto lo sguardo di Tatia, così profondamente mortificato dall’impossibilità di spiegarsi e di argomentare meglio, nonché le occhiate in tralice di curiosità della figlia, mi comunicano l’assoluta buona fede e verità dei loro giudizi. Non riesco nemmeno a rigettare tutto malamente indietro, parlando di panzane e ciarlatanerie inutili, come solevo fare alle profezie della Cooman. So che stanno dicendo il vero, in un modo che è solo intuizione e ben poco di logica.

Perciò ammetto il brivido di spavento che mi coglie imprevisto e che scanso malamente, fingendo di massaggiarmi la nuca in modo distratto.

Stranamente, però, quando Tatia aggiunge che la mia aura tra tutti i colori dello spettro dell’arcobaleno è grigia, ho un moto di torsione dello stomaco che somiglia ad un curioso sollievo.

Penso, in modo lucido, che magari un nero pece mi sarebbe sembrato più luttuoso o terrorizzante. O la prospettiva di avere un’aura viola, mi avrebbe fatto chiedere stupidamente sulle preferenze cromatiche assurde della mia energia mistica.

Invece, il grigio mi calma. Persino più del rosso, il mio colore preferito.

Che cosa assurda.

Torno con un sobbalzo al presente, Tatia continua a studiarmi come se avessi scritta sulla fronte una pagina prolissa di un libro da imparare a memoria.

Sussurro con un filo di voce arrocchita: “E… a… cosa potrebbe essere dovuto?”.

Tatia guarda in obliquo Charlotte come a cercare da lei ispirazione, ma la ragazzina scuote le spalle in modo negletto e distratto ad assicurarle che non ha nemmeno lei le parole giuste per potermi spiegare la cosa.

“Non lo so, Hermione, sono onesta…” riprende allora la madre con tono sconfitto “Mi dà l’impressione di una luce che… filtri da un’altra stanza. E che quindi arrivi soffusa ed in ombra. Come se non appartenesse davvero a questo tempo. È come se il suo vero destino fosse… bloccato altrove…”.

Le sue parole mi riportano naturalmente alla memoria quelle di Isolde, la nostalgia di un’altra vita. Sembrano così stranamente gemelle, da darmi l’impressione di un complotto metafisico ordito alle mie spalle. Le accosto mentalmente, e fanno paio ed eco le une con le altre.

Eppure, con una scarica di brividi diffusi di riflessione, non riesco assolutamente a focalizzare che cosa dovrei rimpiangere e che non ho fatto. Penso in modo automatico ai miei recenti pensieri su Ron e sul matrimonio, ma non li considero così drammatici in fondo.

Se pure dovesse essere vero che la mia strada non è questa, è anche vero che nessuna mi si è mai aperta parallela al crocevia. È tutto indistinto ed irrisolto, come ogni “se fosse” umano.

Perciò, oggettivamente, continuo a non capire come mai questo ritornello mi si ripropone costante da qualche giorno.

Tatia, quasi in dovere di aggiungere qualcosa, continua a mormorare piatta alla maniera di una indovina di quinta categoria. Non ha più nulla della carica emotiva precedente, della indecisione tutto sommato sincera che mostrava prima. Ora sembra solo intenzionata a chiudere con una risposta da cioccolatino incartato: “Forse è solo in una fase emblematica della sua vita che prelude ad una svolta decisiva. Ammetto che ho notato in quei casi variazioni diverse dalla sua, ma non è così inconsueta come spiegazione”.

“Non è che…” chiedo con una risata nervosa, tanto per dire qualcosa che comunque, stranamente, non mi impensierisce: “… sto per morire?”.

“No, cara”, Tatia riassume un tono flautato e deciso, appoggiato da un secco cenno di diniego con il capo imitato da Charlotte, come se effettivamente fossi un’idiota a chiedere una cosa così stupida “Il destino non si interrompe per la morte imminente. Si magnifica quando arriva a conclusione. Splenderebbe di più. Se sta brillando di meno, è un altro il motivo. Probabilmente è ad un crocevia della sua vita”.

Risentendo ancora la frase banale sul crocevia, scivolata fuori come se me ne desse spiegazione tanto per cambiare argomento, aggiungo di nuovo fredda e lucida: “Mi scusi, le devo sembrare una donna sull’orlo di una crisi nervosa”.

Tatia sorride, scuote il capo e dice compita chiudendo gli occhi: “Si è sempre curiosi su ciò che non si conosce. Invidio chi ha ancora meraviglia del futuro. Ma comprendo anche la paura di non saperci avere a che fare. Ma hai già tutto quello che serve… hai sempre avuto tutto, Hermione Granger. Solo che non lo sai, non l’hai mai saputo. Anche stavolta sarà così…”.

L’ultimo monito viene pronunciato da Tatia come se le scivolasse dalla gola inconsapevolmente. Le parole sfrigolano fuori dalle sue labbra rapide e veloci, come se le sfuggissero. Si incespica persino sul finale, come se davvero fosse stato più forte di lei e della sua volontà. Gli occhi le si annebbiano lievemente, e lei accenna persino ad un capogiro. Ma, quando Charlotte si china per soccorrerla, biascica che non è nulla. Non evita però di destinarmi un’altra occhiata profonda, come se cercasse di trovare l’origine del suo malessere in me.

Mi stringo nelle spalle, decisa ad interrompere la stranezza di quest’incontro quanto prima, riportando tutto su un piano più normale.

“Siete venute qui… per parlarmi di una causa di divorzio, giusto?” esordisco quindi decisa, rompendo ulteriori indugi. Tutte le varie teorie sulla mia aura bizzarra e sulla sua motivazione, ristagnano in un punto nascosto della mia testa, mentre con una punta di soddisfazione noto di poter esercitare adesso io il controllo della situazione, come sarebbe stato normale sin dall’inizio.

Ora sono io quella che sa di che cosa stiamo parlando.

Per converso, Tatia si rimpicciolisce come se diventasse minuscola solo per effetto di un misto tra la vergogna e la ritrosia, mentre Charlotte si erge insormontabile, petto in fuori e spalle aperte come un generale sul campo di battaglia. È lei, infatti, a cominciare arrogante, schioccando la lingua infastidita e guardandomi severamente: “Mia madre non voleva venire qui. Mia madre non voleva divorziare affatto da quello stronzo di mio padre… forse sarà meglio che faccia seguire a me la cosa”.

“Charlotte!”. Tatia la rimprovera sommessamente, tirandosi a sedere più dritta, ma non sortisce alcun effetto di pentimento nella figlia che continua a guardarmi in attesa, riservando alla genitrice solo uno sbuffo di impazienza.

“Cosa è successo?” chiedo allora con una punta di nervosismo, comprendendo che deve trattarsi di una questione piuttosto delicata.

Nell’ora successiva, vengo a conoscenza di tutta la storia di Tatia Krasova e di sua figlia Charlotte Karkaroff. Non è quella che definirei una bella fiaba, e mi provoca spesso picchi di contemporanea empatia e disagio. E’ la storia di una ragazzina, Tatia, cresciuta con un dono ingombrante come quello della profezia che le ha reso lontana la madre, la quale non accettò mai che proprio sua figlia fosse stata la Cassandra, rea di annunciarle la morte del marito nella Prima Guerra Magica. Tatia, estraniata dal suo stesso sangue e portatrice di questa dote funesta, stringe amicizia con i due figli di Igor Karkaroff, Raissa e Dimitri, allontanati dal padre con la moglie Dasha proprio per la guerra.

I tre diventano inseparabili, Raissa e Dimitri si ergono a difensori della piccola profetessa nonché suoi custodi.

E carcerieri.

Tatia, però, è una bambina, non comprende, non capisce.

Li vede come due divinità, come i soli artefici della sua felicità, mentre i due ammirano ed aborriscono il potere di Tatia nella stessa letale e dipendente mistura. Studiano la sua mente e la sua magia, la imbrigliano in un gioco perverso di tracotante superiorità, fanno sì che Tatia creda per tutta la vita di valere solo la misura che loro sono disposti a riconoscerle.

Tatia, con gli occhi lucidi, mi confessa persino di aver avuto un giorno di fine estate, prima di cominciare la scuola a Durmstrang, una profezia per cui sarebbe stata uccisa da Raissa nel giorno del suo diciannovesimo compleanno per un accesso di rabbia e gelosia, al suo tentativo di ribellarsi al loro controllo. Ma Tatia, pensando intimamente che la sua stessa vita è una loro proprietà, si è persino sottomessa a quel destino ed implicitamente al loro controllo così che, alla fine, in modo autonomo, quel destino è cambiato, scongiurando l’omicidio.

La sua vita prosegue incolore ed insapore per anni, presto la felicità di avere una sorta di famiglia che sostituisca il legame infranto con la madre e la vanità di sentirsi considerata una creatura a cui tutto è concesso e niente può essere negato, sparisce, lasciando il posto ad un’apatia costante e ad un senso di estraneità continua a sé stessa, come se vivesse sempre le spoglie di un’altra persona.

A diciannove anni, l’età di Teddy, accetta di sposare il suo carceriere, Dimitri, convinta di non poter aspirare a nulla di meglio nella vita, se non all’amore malato di possesso e di brama che lui l’ha convinta di meritare.

Vanno a vivere in un grande castello in Bielorussia, assieme alla sorella Raissa, per scampare alla guerra divampata nuovamente, ma essa con il suo fiato violento li raggiunge comunque in un attacco mortifero da parte di un gruppo di Mangiamorte, che cercano i figli del traditore Karkaroff. Raissa viene barbaramente uccisa, mentre Dimitri viene gravemente ferito, riportando delle gravi lesioni così che resti immobilizzato su una sedia a rotelle, paralizzato dalla vita in giù.

Il lutto per la sorella a cui era così strenuamente legato, un senso cieco di frustrazione per una vita che non è andata come lui voleva, l’insofferenza per la giovane moglie persino più devota e amabile dopo l’incidente, lo rendono una creatura incattivita, inselvatichita, violenta, che ha come suo bersaglio di boria ed angherie solo Tatia. Inizia a destinarle scarti sempre più feroci di violenza verbale, dandole la colpa di ogni cosa, e non lo addolcisce nemmeno la nascita della figlioletta Charlotte. Le chiude entrambe in una reclusione morbosa, le soffoca di appiccicosa dipendenza, le annienta in un miasma di negatività e di male di vivere, alternando il tutto con momenti di apparentemente sincero affetto ed attaccamento che le lega entrambe.

Tatia, con gli ultimi sprazzi di lucidità, riesce però fin dalla più tenera età della figlia, a tenere nascosti i suoi enormi poteri, in modo che il padre non se ne ingolosisca come accadde per lei. Charlotte, quindi, ha la fortuna immensa di essere sempre piuttosto ignorata da Dimitri.

L’inganno, però, si è rotto qualche settimana prima: in un momento di particolare violenza stavolta anche fisica del padre a danno della madre, la ragazzina scoppia di potere represso per difendere Tatia. Dimitri comprende subito la portata dell’enorme potenziale magico della figlia, si convince automaticamente che, se le strappasse i poteri, potrebbe essere in grado di fare qualsiasi cosa, sordo pure alla possibilità che così Charlotte perda la vita.

È solo allora, di fronte alla possibilità che la figlia muoia, che Tatia riesce a trovare la forza di fuggire, scappando in Inghilterra e nascondendosi, decidendo finalmente per una causa di divorzio che potrebbe togliere la patria potestà di Dimitri su Charlotte: a quel punto, nel mondo magico, i minori vengono protetti da speciali incanti per cui, anche se il padre la incontrasse per strada, non sarebbe nemmeno lontanamente in grado di capire che si tratta di lei.

Al racconto, Tatia si affloscia progressivamente come un giunco secco, come se le fosse stata succhiata fuori ogni energia: ripete in modo maniacale di quanto fosse stata ingenua a sposare un uomo in un’età in cui, forse, nemmeno aveva idea di che cosa fosse l’amore.

Dovrei fare un collegamento immediato con Teddy e con tutte le reticenze che ho al fatto che si sposi così giovane: eppure, nonostante io fossi molto più grande al momento delle mie nozze, continuo di nuovo e furiosamente a pensare a me stessa.

Mentre annoto i riferimenti anagrafici di Tatia e della figlia e le rassicuro sommariamente che saranno immediatamente poste sotto la protezione del Ministero Inglese della Magia, continuo ossessivamente a pensare alla metafora del disastro aereo: alle persone che, per un soffio, per un insperato colpo di fortuna, prendono il velivolo che li condurrà alla morte, e poi a quelli che, invece, non sentono la sveglia, o perdono una coincidenza, e mancano l’appuntamento con il destino.

Con un odore fastidioso di polvere nel naso, mi sento bloccata nella sala di attesa di un aeroporto, sballottolata come se la gente mi urtasse correndo verso i suoi impegni, ed io invece me ne stessi ferma, rigida, con le gambe incollate al terreno, senza capire se sono nel primo gruppo di persone, quelli che l’aereo lo hanno preso, o nel secondo, quelli che l’aereo lo mancheranno di un minuto.

Quale destino è stato il mio? Quello del matrimonio che, nonostante le circostanze, è stato inaspettatamente fortunato? O quello dell’unione che, inevitabilmente, mi schianterà al suolo come decine di persone come me? Siamo quelli speciali… o siamo quelli come tutti?

Paragonare, però, il mio matrimonio ad un disastro aereo, mancato o avvenuto che sia, ha l’effetto di sconquassarmi i nervi come un uragano di vento; penso di voler mettere solo più distanza possibile tra me e Tatia Krasova e quelli scomodi pensieri. Trovare un vertice di somiglianza con una donna maltrattata per anni dal coniuge, è qualcosa di assurdamente ingiusto: sopravvaluta me, sottovaluta lei e svilisce Ron ad un livello bestiale che non gli è mai appartenuto.

Non so da dove mi venga questa empatia spiccia con lei.

Affretto, quindi, le pratiche così da farle congedare quanto prima, accompagnando il tutto con vane parole di circostanza che le tranquillizzino sulla possibilità che tutto vada a concludersi per il meglio. Mi accorgo con profondo disagio di spintonarle quasi sulla porta del mio ufficio, Charlotte reagisce con stizza ed allunga la falcata per allontanarsi severa.

Tatia, invece, fa quasi resistenza sulla porta, mi destina ancora un’occhiata in controluce, come ad imprimersi il mio volto nel cervello; poi, in un guizzo feroce dello sguardo, punta le iridi castane sul mio collo. Il volto olivastro le diventa immediatamente diafano, come se il sangue fosse fluito via, e balbettando con voce smunta, indica il mio petto e soggiunge abbandonando ogni cortesia: “Dove hai preso quella collana?”.

La guardo senza comprendere, per un attimo completamente avvolta dall’amnesia su che cosa abbia attirato la sua attenzione. Mi tocco il collo a disagio, riconoscendo infine la catenina d’oro bianco che porta il ciondolo a forma di goccia di sangue che indosso sempre.

“Questa?” chiedo, non senza una buona dose di autentica meraviglia alla banalità della domanda. Lei annuisce ancora, il volto di cera, allungando persino una mano per toccarmi il braccio, arrendendosi prima di artigliarsi al mio polso: “Dove l’hai presa?”, chiede ancora con un filo di calma in più.

Dove l’ho presa?

Per un attimo idiota, davvero non me lo ricordo. Mi porto persino una mano alla testa sotto l’impeto che si spacchi esattamente a metà, chiudo gli occhi a disagio in un lampo d’oro malato che mi acceca la vista. Poi, vittima della stanchezza di quel momento, ricordo improvvisamente tutto, sgonfiandomi come un palloncino bucato.

“Una fiera di paese. E’ un regalo di mio marito, sa che adoro il colore rosso…” aggiungo incolore, il tumulto dentro sedato come una rivolta popolare soffocata “La strega che me la vendette, assicurava che fosse una goccia di sangue di Unicorno solidificata, persa durante il parto. Una cosa rarissima che dovrebbe contenere persino una sorta di desiderio per una madre…”, borbotto assolutamente convinta di essere stata così ingannata sul prezzo “… ma in realtà, non penso che sia nulla di che. Solo un oggetto carino. Al massimo, potrebbe essere una sorta di bussola”.

“Di bussola?” chiede Tatia con un rantolo esausto di voce, come se avesse corso chilometri.

“Già…” commento senza più un briciolo di entusiasmo “Indica sempre il mare… almeno mi piacesse andarci…”.

 

 

Verso le 17 del pomeriggio, decido di andare via dal lavoro, consapevole che la mia mente sia altrove e che sia praticamente impossibile continuare a concentrarmi. Per la mia assoluta non volontà di focalizzare l’oggetto dei miei pensieri, sento i neuroni invasi da una melassa condensata e stopposa come zucchero filato.

Evito di riconoscere qualsiasi ragionamento per terrore che mi faccia del male; piuttosto tento di decolorarlo e farlo diventare inoffensivo sotto la prospettiva di una normalissima fase di crisi e confusione. Può essere, no? Credo che a trentasei anni, con due figli, a chiunque, persino a me, possa venire in mente di mettersi in discussione: nulla di particolarmente originale o drammatico.

Quando arrivo nella hall del Ministero, abbastanza deserta dato che molti hanno deciso di staccare prima a causa di un’imminente tempesta di neve, mi accoglie un gufo color bianco latte, che deposita sulle mie palme aperte un semplice biglietto. Esso si rivela essere una nota di Ginny che mi invita alla Tana per quella sera stessa per parlare dell’ormai imminente pranzo di Natale. Naturalmente, sebbene mia cognata non vi faccia riferimento, so che è l’occasione perché io riprenda a pieno titolo il mio ruolo nella discussione del decennio, ossia il matrimonio tra Teddy e Victorie.

Proprio quello di cui ho bisogno.

Penso ad una scusa che mi impedisca di recarmi alla Tana, un malessere o il riacutizzarsi della nausea che mi ha tormentato improvvida per settimane, ma che oggi ha deciso di non farsi sentire per nulla. Alla fine, con un gesto stizzito della bacchetta, mi smaterializzo e decido di togliermi il dente fino a quando non è diventato un ascesso, ma è una semplice carie da poter ancora curare.

Ma, sebbene mi imponga in modo serio e freddo di essere quanto più calma e serena possibile, in pochi secondi mando in frantumi il mio proposito.

La cocciutaggine di Ron che, tra un appunto e l’altro sulla spesa da fare per Natale, continua a sostenere l’assoluta impossibilità di una strada diversa dal matrimonio per Teddy e Victorie, mi fa saltare la mosca al naso in quattro e quattr’otto. Il fatto che, poi, i due ragazzi non siano oggi presenti, rintuzza la mia libertà di parola che si incendia come un rogo boschivo, mentre comprendo di non essere in grado di guardare negli occhi mio marito, per paura che vi legga i miei ultimi pensieri. I miei cognati cercano di riportarci alla ragione a suon di parole rassicuranti o di elusioni, ma senza che nemmeno me ne renda conto, Ron pronuncia qualche parola di troppo, io rispondo a tono e finiamo per superare il limite.

Saturata dall’aria asfittica della stanza, non volendo tornare a casa per paura di restare ancora più in silenzio con i miei pensieri, apro la portafinestra ed esco sulla terrazzina dei Weasley, gettandomi distrattamente il mantello sulle spalle. Fuori, la neve è un manto di silenzio che cade leggero a grandi fiocchi, insonorizzando ogni cosa. Sollevo il cappuccio sulla testa, appoggiandomi alla balaustra e asciugandomi rabbiosamente con la mano la guancia bagnata.

D’improvviso, alle mie spalle, avverto un rumore: un fruscio di vesti ed un tramestio sommesso di passi, come di qualcuno che stesse cercando di sgattaiolare via nel modo più rapido e silenzioso possibile. Mi volto su me stessa con la bacchetta sguainata, pensando immediatamente ad un ladro, poi con la coda dell’occhio, riconosco l’ignaro avventore e urlo, stizzita, battendo un piede per terra per lo spavento: “Dannazione, Malfoy!”.

Draco Malfoy lascia cadere la mano, probabilmente andata alla ricerca della bacchetta nascosta nelle falde del mantello che indossa, e mi guarda torvo, mentre cerco di far tornare il mio respiro normale, la mano poggiata sul torace. Lo guardo in tralice con il sopracciglio inarcato, pronta a riversagli addosso ogni genere di insulti, solo per sfogarmi un po’. A sua volta, lui abbassa le spalle che aveva serrato in modo automatico e mi destina uno sguardo livoroso, le labbra già quasi aperte per rispondermi a tono.

Eppure, per un po’, non riesco ad aprire bocca: la rabbia si smonta come un dolce venuto su male. Lo guardo e basta, in un modo che non mi riesco a spiegare. Apparentemente, mi sembra di farlo solo perché, dopo anni, ho l’occasione di farlo per bene, imprimendomi tutti i particolari che l’odio mi ha impedito di mettere a fuoco sul tempo che è passato anche per lui.

Una cicatrice sul sopracciglio sinistro. Una fossetta quasi buffa sul mento. L’attaccatura dei capelli alta. I capelli corti tra il biondo e il platino, rasati.

E poi quegli occhi grigi così cangianti, come una pietra di fiume immersa nell’acqua.

Per qualche momento, fissi nei miei, si scuriscono, assumono dei lampi azzurri nel torbido, sembrano cercare qualcosa che non riesco nemmeno lontanamente ad immaginare.

E so starmene solo qui a lasciarlo fare.

I secondi passano indifferenti, il mondo resta ovattato di neve come sotto una campana di vetro, e non so quanto tempo davvero stia passando: so solo che, curiosamente, mi sembra di cercare qualcosa in lui e mi sembra che lui faccia altrettanto. Come se, sotto questi cappotti e mantelli pesanti, sotto il trucco sciolto del mio viso e la piccola ruga attorno alle labbra del suo, sotto i fili grigi che scorrono nei nostri capelli, cercassimo altro.

Probabilmente, solo chi siamo stati prima, a scuola, ad Hogwarts, con tutta la vita davanti.

In modo realistico, lui per me ed io per lui siamo due collegamenti con il passato, visto quanto poco abbiamo condiviso delle nostre vite presenti. Siamo una scatola di rimpianti, confezionata con pessimo gusto dal caso di riunirci a tanti anni di distanza.

Quei pensieri pungono i miei occhi di nuove lacrime, che nascondo sistemandomi il cappuccio del mantello, qualche fiocco di neve che mi cade sul naso, spingendomi ad arricciarlo automaticamente. Un conato di nausea in sottofondo mi avvisa della fine della tregua anche con il mio malessere misterioso: porto la mano sulle labbra, dando le spalle a Malfoy.

“Ecco cosa si ottiene a fare i discreti…” borbotta lui al mio indirizzo, dopo qualche secondo quasi di spaesamento per entrambi. Lo vedo con la coda dell’occhio rilasciare la mano che, automaticamente, aveva serrato il cappotto all’altezza dello stomaco, come in preda ad una qualche forma di spasmo involontario. Malfoy, intercettando il mio sguardo, si affretta ad incrociare le braccia con sussiego, come se fosse una qualche vergogna segreta.

Solleva il collo del cappotto pesante di panno azzurro che indossa, mormorando truce: “Sei ormai abituata a chi annuncia pesantemente la sua presenza, Granger, che di conseguenza, ti spaventi a chi non hai passi da taglialegna in una foresta, ma incede con innaturale grazia”.

“La tua sarebbe innaturale grazia?” chiedo, inarcando un sopracciglio e guardandolo storto, mentre lui, apparentemente senza alcuna fretta, si appoggia con la schiena al muro alle mie spalle, accanto alla portafinestra chiusa, e solleva il viso verso il cielo. Un paio di fiocchi di neve cadono sulla pelle diafana del suo viso, quasi non facendomi indovinare il contrasto tra toni e temperature solo di poco differenti. Sembra nato per quel clima artico.

Scuote il viso come disturbato dalla cascata gelida, prima di continuare ironico: “Innaturale per te, ovvio: le cose naturali della tua vita fanno rima con Weasley. Mi pare scontato che siamo su due pianeti differenti, e le mie doti siano per te innaturali…”.

Mi rendo conto in quel momento che questa si può largamente definire come la conversazione più lunga che abbiamo mai avuto in tutta la nostra vita. Forse, nonostante gli accenni ironici che mi fanno venire voglia di cavargli gli occhi dalle orbite, è persino la più civile.

Registro tutto questo con una parte remota della mia mente, comprendendo che, da quando è finita la scuola, io e Malfoy non ci siamo praticamente mai parlati, se escludiamo qualche saluto sparso nella hall del Ministero. Forse, in fondo, è la prima conversazione da adulti che abbiamo: e quando si è adulti, ci si può nascondere dietro l’ironia per dissimulare quanto in realtà ci si trovi bellamente antipatici, dando la colpa alla scarsa confidenza se ci si rapporta sempre così.

Non è più tempo per le fatture che trasformino in furetti, o allunghino a dismisura gli incisivi.

Quella constatazione innocente, che probabilmente in un altro contesto e momento mi avrebbe causato solo un moto di nostalgia da quasi quarantenne, ora si trasforma in un’ondata di feroce e corrosiva tristezza che si mangia tutta la mia energia e forza.

Ogni richiamo al tempo andato, oggi, mi sembra solo una sirena che canta errori su sbagli.

Fiaccata, rispondo quindi in tono assente, come a darli ragione: “Come vuoi, Malfoy. Ti appartiene anche un innaturale intuito, così che tu possa capire che voglio essere lasciata in pace?”.

Dall’altra parte, mi raggiunge qualche secondo di silenzio a ricordarmi che, effettivamente, Malfoy stava sgattaiolando via, dopo avermi vista arrivare. Non era sua intenzione trattenersi.

Ma riconoscere una sorta di provvidenziale tatto in Draco Malfoy, mi sembra la ciliegina sulla torta di questa giornata assurda, quindi lascio correre apparentemente in modo giusto, visto che lui non si arrende e prosegue: “Non mi piace vantarmi…”, al mio sollevare gli occhi al cielo, corregge il tiro: “…d’accordo, mi piace alquanto vantarmi… quindi sì, mi appartiene…”.

“Ci mancherebbe…” commento noncurante, cercando così di assorbire la sua ammissione di presunzione. Adesso, si rende anche conto dei suoi difetti… dove arriveremo di questo passo?

Malfoy finge di ignorare il mio commento, spazzolando immaginari pelacchi sulla spalla del suo cappotto, prima di sospirare scontatamente: “Ma stavolta userò il mio innaturale udito. Specie considerando che questo posto dimenticato da Dio, non ha nemmeno delle finestre insonorizzate. Del resto, l’alterco tra te e il tuo rozzo marito sarà stato sentito anche nel Borneo…”, un barlume di istintiva comprensione gli illumina lo sguardo sarcastico, mentre soggiunge ispirato: “Suppongo che anche il mio udito si sia rivelato inutile, avrebbe perfettamente udito tutto anche Beethoven”.

Il mio volto si fa così rosso ed incandescente, che temo istintivamente per il calore si possa sciogliere la neve che, a copiosi fiocchi, cade ancora dal cielo. Avevo completamente dimenticato l’incantesimo Insonorizzante consueto, testimoniando quanto poco ci sia cerebralmente in questo momento. Con una punta di ulteriore vergogna, rammento a me stessa che non avevo minimamente pensato che Malfoy potesse essere qui fuori, pronto ad ascoltare tutto; del resto, nessuno della mia famiglia me lo ha fatto presente quando sono entrata in casa, come se ormai fosse una sorta di pianta ornamentale alla cui vista e presenza si sono abituati.

Ripercorro mentalmente le tappe della mia discussione con Ron. Ad ogni insulto e frecciata che gli ho destinato, le mie guance si tingono sempre di più di rosso, facendomi ringraziare il cappuccio che ancora mi copre il viso e dietro il quale mi appiattisco ancora di più.

Alla fine ringhio gelida, scandendo bene le sillabe con tono di minaccia: “Se ti salta in mente di farmi anche terapia di coppia, puoi andare a fare compagnia ai coniugi Paciock”.

Malfoy non si scompone minimamente, sfrega le mani l’una contro l’altra, come se provasse un freddo che, in realtà, non penso provi sul serio. Poi sibila sardonico: “Dio me ne scampi e liberi, Granger, non mi sporco le mani con un disastro ferroviario”.

Stamattina ho paragonato mentalmente il mio matrimonio ad un disastro aereo.

Ora, Draco Malfoy, una specie di conoscente, lo definisce un disastro ferroviario.

Quando finirà questa giornata eterna?

Completo quelle riflessioni con una scarica di brividi gelati sulla schiena, che poco hanno a che vedere con la temperatura sicuramente sotto lo zero. Non è un buon segno che il mio matrimonio offra come metafore solo il caso di incidenti da non lasciare superstiti.

Non è nemmeno un buon segno che, a somigliarmi così tanto in una riflessione, sia proprio Draco Malfoy.

Lasciando cadere fiacca le braccia lungo il corpo, commento stanca: “Che diamine ci fai qui?”.

Malfoy mi destina un’occhiata di puro disgusto, roteando gli occhi in modo scontato: “Granger, ti è venuto l’Alzheimer precoce in questi anni?”, poi con la voce che destinerebbe ad una minorata mentale, scandisce netto: “Edward Lupin, mio nipote. Pagnotta nel forno. Matrimonio riparatore.  Signora Black in Malfoy che vuole difendere onore della famiglia: rammenti?”, scrollo le spalle, se pensa di instillarmi un qualche moto di compassione alla sua situazione, sta proprio fresco.

Si sente, però, in dovere di aggiungere con il peggiore tono da vittima che gli sia mai riuscito: “Sono costretto a stare qui, abbondantemente contro la mia volontà… mia madre necessita aggiornamenti sulla situazione, e non mi sento in vena di contraddirla. Sarebbe qualcosa di vagamente gratificante, se non facesse passare ogni mia ritrosia come una negazione di un suo ultimo desiderio mortale…”.

Il tono delle sue parole si tinge di una vena amara che, pure a non volerla ascoltare, è netta e chiara come il rumore di un tuono nel bel mezzo del silenzio. Sono certa, in un modo alquanto bizzarro, che vuole che finga di non essermene resa conto. Ma, nascosta nel cappuccio del mio mantello, non posso fare a meno di chiedermi come stia fisicamente Narcissa Malfoy. 

Malfoy sorvola sul punto abilmente, incoraggiato dal mio omertoso silenzio, proseguendo caustico: “Ma stare qui non implica che io debba necessariamente essere presente dentro la stanza. Su questo punto, mia madre è stata piuttosto vaga…”, sospira con sollievo concludendo lieve: “La lingua inglese è così piena di adorabili scappatoie”.

Per un attimo, la punta di un clamoroso e sconcertante divertimento mi tocca alle sue parole ironiche. In mezzo alla mia apatia, la sensazione di volerlo punzecchiare ed irridere somiglia ad un piacevole punto incandescente, rosseggiante nel centro del ventre. Riscalda tutto il torpore che mi ha paralizzato durante il giorno, quando mi sono impedita di pensare ad una cosa qualunque.

Ora, pensare con leggerezza ed al contempo con concentrazione sardonica ad una risposta da dargli, mi rende per un attimo folle, soddisfatta ed appagata a riguardo.

In modo scandaloso persino per me stessa, è la prima sensazione positiva della giornata.

E buffamente, è legata a Draco Malfoy. 

Bofonchio quindi con tono casuale, come se stessi discutendo del tempo atmosferico, in mancanza di alternative: “Quando cominceranno ad organizzare seriamente il matrimonio, sarai costretto a rientrare. Potrebbero optare per delle decorazioni color carota matura, non sia mai che l’orgoglio degli ultimi Black sia corrotto da una tale mancanza di buon gusto”.

Completo la mia ultima frase con una pausa ad effetto, che vuole suonare ironicamente accorata. Dentro il cappuccio sogghigno tra me e me, fiera persino della mia scelta cromatica lessicale: ho la vaga certezza che Malfoy detesti le carote, chissà perché.

Nel silenzio che avvolge la valle, con la neve che scende insonorizzando ogni cosa compresi i discorsi della Tana, mi sento vittoriosa ed implacabile, come il ragno che cattura la mosca. E, quando Malfoy resta zitto per una manciata lunga di secondi, ho la certezza che questo sia vero.

Quando, però, riprende a parlare, la sua voce ha uno strano tono basso e fintamente carezzevole, suona come velluto. Ha in sé un germe viscido e spavaldo, come se pronunciasse discorsi scontati e supponenti. Schiocca la lingua, mi guarda di sbieco e soggiunge grave: “La lingua inglese ha anche il pregevole dono di poter consentire che si legga tra le righe, Granger”.

Sebbene non abbia minimamente capito a che cosa sia alludendo, mi sento punta sul vivo come se mi avesse scoperto ad uccidere qualcuno. Un’ondata di calore mi travolge da testa a piedi, mentre benedico il mio cappuccio, che perlomeno protegge il mio viso rosso. Chiedo con voce ferma, ma che nasconde un tremito interiore: “Che diamine significa, Malfoy?”.

Lui non esita nemmeno per un secondo a rispondermi, ha un tono così marcato ed insolente che sembra esserselo preparato per secoli: “Cominceranno ad organizzare. Potrebbero optare. Un rimarchevole uso del pronome loro.” .  Ascolto le sue parole remotamente, come se provenissero da un altro pianeta. Mi rendo conto di quello che ha fatto il mio inconscio, prima che Malfoy aggiunga scontato: “Deduco con il mio innaturale intuito di cui sopra che tu non sia propriamente saltata sul carro nuziale dei due diciassettenni, uniti dal destino”.

In verità, Malfoy vede soltanto la superficie della mia scelta lessicale indiscutibilmente esatta. Scorge solo la mia probabile contrarietà al matrimonio di Teddy e Victorie.

Dentro, invece, io vedo altro, forse tutto. Ed è ancora una spina al cuore che reprimo con un sospiro forte, sperando che il mio interlocutore lo scambi per inedia o fastidio.

Vedo quanto mi sono tagliata fuori dalla mia famiglia, scegliendo pronomi neutri che accomunassero loro in una decisione, in un orientamento, in un’organizzazione, mentre io mi ergo solitaria ed altera, nella mia fortezza di convinzioni, apparentemente intoccabile ad ogni singulto di loro volizione. Non ho difficoltà a proiettare quell’immagine sul reale, non ho alcuno sforzo di fantasia a pensare che andrà davvero così. Mi sento esclusa senza motivo da quella che dovrebbe essere l’idea della famiglia, specie della famiglia Weasley: uno per tutti, tutti per uno, come vada e vada.

Invece, mi trovo a pensare da monade, quando sono una moglie, una madre, una nuora, una cognata ed una zia, senza sapere se posso permettermelo giunta a questo punto.

Senza presagire quanto questo, ora, mi costerà.

La mia mente è fuori dalla famiglia, ragiona da sola. E se ne uscisse anche il mio cuore?

Provo un autentico moto di disgusto per me stessa, e per non implodere lo riverso contro la persona con cui sto parlando, Draco Malfoy, colpevole di mille cose, tranne che di questa.

Chiedo perciò più acida di quanto sarebbe normale: “Ti interessa la mia opinione, adesso?”.

Malfoy, che nel mio blackout mentale è rimasto in silenzio, il capo reclinato all’indietro a guardare la neve, scuote il capo con una smorfia di fastidio che non riesco a decifrare. Passa entrambe le mani nei corti capelli biondi, come in un residuo di memoria della chioma adolescente, poi sbuffa sarcastico: “Sciaguratamente, la tua e quella di Potter potrebbero essere persino quelle più sensate. Vedi un po’ come siamo messi male”.

Gli rispondo con un finto sorriso forzato, digrignando i denti, cosa che mi fa sentire ancora più idiota se mai fosse possibile, come se stessi recitando in una sorta di pessima commedia degli errori. Cerco perciò di respirare con calma, assumendo un contegno maturo e serio, prima di aggiungere all’indirizzo del mio sgradito e sgradevole interlocutore: “Hai un innaturale intuito e si suppone che io sia tra quelle ragionevoli”, marco i due aggettivi con sarcasmo, guardando storto Malfoy. Lui mi ignora con una scrollata noncurante di spalle, che interpreto come assenso a continuare compita: “Secondo te, si può concretamente appoggiare il matrimonio tra due ragazzini in circostanze simili? Potrebbe ragionevolmente farlo una persona sensata? Quante ne abbiamo viste nella nostra vita per sapere che le cose non vanno mai come si crede a diciassette anni? E che potrebbero essere destinati ad un matrimonio infelice, solo perché adesso, in preda al primo amore, sono convinti che potrebbe durare per sempre?”, faccio una pausa dalla mia filippica prima di concludere persuasiva, confidando di troncare sul nascere qualsiasi opposizione: “Quanti primi amori abbiamo visto durare per sempre, Malfoy? Quanti?”.

Mi ritrovo a guardarlo negli occhi, come forse non ho mai fatto nella mia vita, in un anelito spavaldo che mi indora come una sacerdotessa pagana. Sono sempre stata abituata a guardarlo dall’alto in basso con presunzione, o di sottecchi con sospetto, o di sbieco con fastidio.

Non so da dove mi venga, adesso, quest’alterigia confidenziale di guardarlo dritto negli occhi, come se me lo potessi permettere e ci fossi persino abituata.

Malfoy sgrana gli occhi in un moto di sorpresa, imbarazzo, stupore: tutt’assieme, nello stesso momento, ed io al contatto con i suoi occhi distinguo ogni pagliuzza di diamante in quel mare di perla. Ogni emozione passa in quel cielo plumbeo, come una cascata di meteore velocissime e lucenti, e non riesco a capire come io le sappia distinguere una per una, scorgendone le differenze. Ad interrompere il corso dei miei pensieri, giunge un moto di nausea che metto a tacere, la mano chiusa sulla bocca, ignorandola.

Diventa paradossalmente più fastidiosa la percezione scomoda di qualcosa che mi ticchetta asincrono in testa, come quando si dimentica qualcosa e si perde la testa per cercare di ricordarsene. Nulla, però, la riporta alla coscienza.

Nel mio susseguirsi di pensieri muti, Malfoy ha stretto una mano attorno alla stoffa del cappotto, poi l’ha rilasciata con un respiro che si è condensato veloce in vapore freddo. Ha scosso il capo come disturbato da un insetto, ha rifuggito i miei occhi come se scottassero ed ha cercato febbrile nelle tasche qualcosa.

Ne estrae una sigaretta dalla forma solo vagamente più allungata, l’accende con un nervoso gesto della bacchetta, aspirandone una forte e cospicua boccata. Dalle labbra chiare, sottili e strette, diventate tra il livido ed il perlaceo a causa del freddo, soffia fuori una nube tremula di fumo biancastro: mi raggiunge in viso con un odore che trovo stranamente piacevole.

Erba bagnata nel mese di settembre.

La respiro senza apparente interesse per la possibilità che mi provochi una morte poco indolore, come il cancro al polmone: al contrario, senza senso, sembra spalancarmi i bronchi, come sembra accadere anche a Malfoy che, in modo illogico, dichiara la sua preferenza per le sigarette al tè nero e vaniglia, che sono in grado di calmarlo “tutte le volte che ho a che fare con le idiozie quotidiane”.

Incrocio le braccia punta sul vivo, dimentica del fatto che, a quanto pare, io e Malfoy non condividiamo nemmeno le stesse percezioni olfattive; eppure, mentre lui finisce la sua sigaretta, le mani tremanti che si fanno sempre più calme, non mi sposto da lì.

Resto ad aspettare che risponda.

Cosa che puntualmente fa, non appena noto gli occhi più limpidi e meno foschi, le mani più salde e l’espressione più indifferente.

“Ecco, Granger, torniamo alla lingua inglese…” ribatte scontato, prima di calpestare la cicca della sigaretta con la punta della scarpa “Usi in modo abbondantemente poco casuale la prima persona plurale…”, al mio sguardo di domanda, aggiunge stentoreo ripetendo le mie parole meccanicamente annoiato: “Ne avremmo viste troppe per non pensarla in modo negativo”.

Non comprendendo ancora che diamine voglia dire, biascico scocciata: “E…?!”.

Io ne ho viste troppe per non pensarla così, non tu…” rimarca scontato, guardandomi in tralice con superiorità “Ed è un curioso controsenso, sai. Non ti enumererò la lista delle mie precedenti compagne, prima di giungere a quella attuale, ma penso che tu possa supporre che sia un numero potenzialmente elevato”.

Alla sua espressione tronfia, commento sarcastica: “Certo, le oche hanno tassi di riproduzione elevati”.

Lui, per nulla scalfito dalla mia osservazione, continua spavaldo: “Ammetterai, però, che io a diciassette anni ero ben lontano dalla monogamia ideale ed eterna con la mia fidanzatina di allora. Sarebbe normale, pertanto, che istruissi Edward sulla bellezza della vita da scapolo incallito e lo esortassi a non farsi mettere una ganascia al piede da una ragazzina Weasley e da un moccioso caccoloso…”, storce il naso alla prospettiva, guardandomi con un disgusto tale che sembra che io abbia fatto la proposta di un tale destino a lui.

Rispondo incrociando le braccia con sussiego e lui, in uno specchio capovolto di qualche momento prima, mi restituisce uno sguardo liquido, fiero, intenso, incatenando i miei occhi. Un tonfo sordo mi ferisce le orecchie, le mie braccia cadono lungo i fianchi infiacchite e ho l’impressione di galleggiare in un mare dalle onde grandi, rotonde, piene, solo apparentemente minacciose.

Ed è naturale chiedermi, instupidita, se davvero in tanti anni io e Draco Malfoy non ci siamo mai davvero guardati prima. Avrei ricordato tutto questo. Avrei ricordato che ti guarda e ti fa sentire…

Il mio subconscio trova subito la risposta, come se fosse stata sempre là.

MI fa sentire… persa.  

Persa, come la strada di casa in una foresta… persa, come la rotta in una tempesta in mezzo al mare… persa, come la direzione del nord, cercando la stella polare… ecco come… mi sento… persa… ed è una cosa odiosa. Non mi sono sentita mai in questo modo. E non so nemmeno il perché, come tantomeno non lo so perché non la smetta di guardarmi con quella strana espressione. Mi ritrovo solamente a fluttuare nel oceano plumbeo dei suoi occhi, l’anima delle dimensioni di una noce e il cuore che si allarga e mi frastorna con il suo battito.

“Invece, ho osato assumere un contegno neutro e calmo persino nella convinzione che mio nipote potrebbe essere migliore di me…” la sua voce spezza la malia letale dei suoi occhi, come uno specchio che va in frantumi. Ne sento il rimbombo nella mia testa, come un tuono nel cielo silenzioso di una notte d’estate. Il tremore che aveva preso le mie membra cessa anch’esso, lasciandomi vuota dentro, vuota di questo strano terrore, ma vuota anche di tutto il resto.

Faccio di tutto per cercare di concentrarmi su che cosa stia dicendo, ma la nausea mi annebbia il cervello come se si nutrisse del ricordo di quegli occhi, dentro il mio cervello.

Malfoy, ignaro di tutto questo, prosegue serafico, la voce calma come se stesse parlando di ovvietà su ovvietà: “E poi, invece, ci sei tu. La golden girl delle scelte perfette. La strega più brillante della sua generazione. Una che, come nei compiti in classe, ha imbroccato la risposta corretta al primo tentativo, persino nelle relazioni. Una che ha visto pure il suo amichetto Potter riuscire nella medesima cosa. Dovresti tipo distribuire opuscoli su quanto si possa sposare la prima stupida cotta dell’adolescenza, ed essere gioiosamente soddisfatti, avere due figli tutto sommato decenti e vivere una fiaba moderna. Dovresti aprire un consultorio, e fabbricare spillette…”.

Se prima mi sentivo persa, ora invece sono clamorosamente nuda.

Sudo freddo, dentro il cappuccio di velluto, la neve che continua a cadere senza tregua. Torno a guardarlo, e non so perché adesso non ho alcuna sfida in mente, alcun puntiglio da far valere, alcuno stress da sfogare. Ho solo preghiere, suppliche, implorazioni, da mescolare nel salato degli occhi.

Malfoy, ti prego, per favore.

“Invece, sei clamorosamente ostile. È un punto molto interessante, Granger. Credi Edward un bamboccio di diciassette anni che non sa prendere decisioni, mentre la Granger diciassettenne scelse già il suo compagno di vita con una lungimiranza da prodigio della razza umana”.

Per favore, basta.

O è un controsenso bello e buono, oppure realisticamente ti credi sempre superiore ad ogni cosa. Persino a tuo nipote”. 

Quando termina di parlare, Draco Malfoy incrocia le braccia con aria saputa, infantile quasi, come se fosse il ragazzino dai capelli ingellati ed attaccati al cranio che mi sfidava nei corridoi di scuola.

Una parte di me, una molto remota e nascosta, mi suggerisce timida che Malfoy non ha idea di quanto male mi abbia fatto adesso. Probabilmente, nella sua mente, non ha davvero detto nulla di che. Ha davvero solo segnato un punto rosso in una lavagnetta.

Il resto, invece, ulula, grida e si contorce, poiché, quando un segreto viene svelato, non può più tornare indietro. Nessuna voce potrà essere richiamata indietro dal ticchettare delle lancette.

Quando comprendo che, ormai, quella che sono è stata letta persino da Draco Malfoy, un nemico, un conoscente, uno stronzo, una conversazione casuale, comprendo quanto ormai sia oltre tutto.

Quanto tutto sia già lì, pronto a farmi a pezzi.

Ovviamente devo difendermi, ovviamente penso a farlo, ma già il modo che scelgo è sottilmente diverso. Non più le pallottole a salve di scherzi mordaci, ma gli strali avvelenati che colpiscano il punto cieco, la feritoia, la via d’uscita.

Le narici si appiattiscono come quelle di un serpente, sibilo ghiacciata dentro il cappuccio, pensando solo a salvarmi, sapendo che lo farò a pezzi: “Dovresti ringraziare i miei benefici del dubbio. Scagionare un adolescente dalle sue azioni avventate, è qualcosa di misericordioso a mio parere. Consente di conversare normalmente, e non schiantare all’istante, un ex diciassettenne quasi omicida del proprio Preside sulla Torre di Hogwarts. Consente persino di pensare contro ogni logica che non volesse sul serio farlo, e non fu interrotto sul più bello”.

Quando le parole mi lasciano come armi deposte, sbatto le palpebre e le lacrime cadono giù, corrose dal senso di colpa. Penso che si stiano ghiacciando sulle guance, ma forse è solo che il male che provo, mi raggiunge dappertutto.

Il tentato omicidio di Silente. E’ un segreto da non tirare fuori mai.

Cerco Malfoy, lo cerco per guardarlo ancora: per cercare in un miracoloso modo di spiegarmi, di fargli capire nelle lacrime quanto lui è solo un danno collaterale.

Quando mi dispiaccia, quanto il mio male non è che un terzo del male che so di aver dato a lui.

Ridammelo, Malfoy, dammelo indietro.

Riscopro la bontà e la giustizia di quella che sono sempre stata, di quella che non ferisce mai così a fondo per salvarsi solo troppo tardi.

Senza alcuna parola, Malfoy si è smaterializzato, portandosi dietro le mille risposte rancorose che avrei preferito a questo silenzio superiore.

Nella neve fresca, la cenere della sua sigaretta ha scavato una crepa dall’odore inconfondibile.

Erba bagnata nel mese di settembre.

 

 

Hermione Granger tornò tardi a casa quella sera.

Non si saprebbe potuta dire quanto tempo fosse passato, o che cosa avesse fatto.

Solo che era rientrata a casa, quando la neve con un incanto di improvviso vento di scirocco, si era trasformata in pioggia. Ticchettante, fremente.

Si mosse confusa nelle stanze buie, non accendendo le luci. Sfiorava gli stipiti delle porte come una cieca, come se persino le percezioni visive sarebbero state di troppo nel suo cervello.

In quello, non c’era nulla.

Nulla, se non il silenzio profumato di erba bagnata di Draco Malfoy, quando era sparito.

Lui, così arrogante e borioso, sembrava nato per prendere possesso completamente della sua testa. Era una sensazione fastidiosa, ma stranamente conosciuta.

Forse, andava così quando erano a scuola. Forse, se ne era solo scordata.

Ronald era già a letto, coperto fino alla testa. Nel buio, lei vide comunque le orecchie rosse.

Si spogliò in silenzio nel bagno, come un automa. Dopo una discussione, dopo una lite, Ron era facile da placare. Facile, come tutti gli uomini.

Si infilò nuda a letto, si strusciò contro la schiena che lui le dava nervoso, aspettò un paio di secondi e poi si aprì al ruggito violento di rabbia che suo marito le avrebbe scaricato addosso.

La prendeva sempre con cupidigia, non dandole nulla in cambio, specie quando era arrabbiato: l’amava di vendetta solerte, spingeva fino in fondo.

Più si insinuava dentro, più era convinto che si riappropriasse anche del suo pensiero ribelle.

Mentre suo marito le sussurrava nelle orecchie gemiti di amore egoista, Hermione Granger guardava fuori dalla finestra, aspettando che il sesso riannodasse i fili della sua vecchia vita, da cui si sentiva slegata come una marionetta lacerata.

La pioggia, i tuoni, i lampi.

Chiuse gli occhi, nelle palpebre chiuse fiorivano rose di luce. Fioriva il ricordo di un tempo in cui, non sapeva quando, si era sentita amata.

Suo marito scivolò via da lei, disse qualche parola di circostanza, le baciò la fronte con dolcezza, riprese a dormire.

Solo allora, Hermione Granger si alzò dal letto, corse in bagno, la nausea che non la faceva nemmeno respirare. La porta chiusa, i gemiti diversi nascosti pudici, vomitò come non le era mai successo, come la nausea non le aveva mai permesso.

Immobile, poi, a letto, fingendo di dimenticare. Fingendo di minimizzare.

Sognò le rose. Centinaia di rose. Senza colore. Grigie.

I fiori messaggeri dei segreti.

 

 

NOTA A SUO MODO NECESSARIA: come tantissime altre volte, probabilmente non per l’ultima, questo capitolo giunge con un ritardo spaventoso. Come sempre, mi sento sempre portata a giustificarmi e a parlare di quanto, comunque, la mia vita stia cambiando in fretta e quanto spesso sia difficile per me scrivere. O di quanto io ora scriva anche altro, e quanto questo spesso mi trascini altrove da questa storia. Ma a suo modo ci sono cose che non cambiano mai. Per fortuna. Tra queste, il fatto che io torni sempre qui, a casa. Indipendentemente da chi mi legga. Con un debito verso questa storia che è la coscienza di sapere che qui, è casa mia. È quasi conclusa, ma prima di allora, a costo di tremendi ritardi, voi saprete come andrà a finire. Lo ribadisco sempre, non abbandonerò mai questa storia. Un’altra cosa che non cambia mai, è che io abbia un gruppo di meravigliose ragazze che oramai sono mie amiche e che non hanno mai smesso di sostenermi. Ed è per loro, sempre, che tutto resta in piedi, persino io. Ringrazio anche chi mi ha recensito, purtroppo per me è sempre più semplice rispondere via gruppo Facebook, ammetto una sorta di imbarazzo a rispondere con cose che non siano “grazie” o “scusa”. Ammetto che mi vergogno profondamente del tempo che passa, senza aggiornamenti. Quindi scusatemi davvero. Grazie ancora a tutti. Cassie.

 

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Capitolo 48
*** Disturbia, step two: about serendipity (part II) ***


RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo cinque anni di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei, anche se Hermione, in quel momento, non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i suoi amici giungono all’ultima dimora di Tatia Krasova, in Finlandia, dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff, compreso il presunto morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino. I due spariscono con il bambino, con l’oscuro ultimatum di tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche Alex. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte. Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e, secondo Adamar, avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di tornare indietro. La vita di Hermione e Draco è quella più classica che si possa immaginare: lei è sposata con Ron e ha avuto Rose ed Hugo; lui invece con Astoria da cui è nato Scorpius. I due, a parte lo sporadico contatto al binario nove e tre quarti alla partenza dei figli per Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive un matrimonio fatto di crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di qualcosa di normale. Una sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley confessano alla famiglia di essere non solo innamorati, ma anche in attesa di un bambino, motivo per il quale hanno deciso di sposarsi presto. Ed è a quel punto che ricompare Draco, la cui famiglia ha riallacciato i rapporti con Teddy e che è pertanto interessata all’organizzazione del matrimonio. Hermione e Draco si rivedono quindi, e sebbene alle associazioni di idee con la loro vecchia vita, lei provi nausea e lui un dolore al petto, entrambi sono assolutamente ignari del loro passato. Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del suo matrimonio, sfugge alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua volontà anni prima di uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per mancanza di tempo. Hermione, in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto, attorno a loro, forze misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme, l’onnipresente Eva Dubois nascosta in mille fogge accomunate dal cameo della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane, apparentemente solo compagna di studi di Ginny, la quale sembra conoscere qualcosa dell’intricata faccenda in cui si trova Hermione. Emblematico, anche l’incontro con la rediviva Tatia, in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto una figlia di nome Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in Hermione. Specie nel fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che nel mondo da cui provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella lettera prima di morire e che Hermione aveva incantato per non perdere). La collana, in questo mondo, indica sempre il mare.

Capitolo 48: Disturbia, step two: about serendipity (part II)

 

20 dicembre

 

Quando scese dal treno di Hogwarts, per le vacanze di Natale del suo dodicesimo anno di vita, Rose Weasley non era più una bambina.

Aveva dismesso incolume le piume infantili per una creatura imberbe ed ancora informe che non sapeva dirsi donna, ma nemmeno più fanciulla. Conosceva già la precisione inconsapevole di piccoli gesti involontari che la facessero sentire “grande”: le spalle più aperte, la schiena più dritta, l’attitudine di acconciare i capelli meno nelle trecce e più in boccoli sciolti, la voce meno stridula e più compassata come se sapesse chissà che profonda verità.

C’era poi anche qualcos’altro: un muscolo nel petto che aveva preso a vivere in modo autonomo, sconveniente, fastidioso, bruciando i polmoni quando avvistava qualcuno nei corridoi di scuola.

Quel segreto stazionava in lei come una goccia di rugiada dentro una rosa: lo custodiva gelosa, lasciandolo decantare dentro come se il tempo lo potesse solo rendere ancora più profumato di gioia candida. Con pazienza, aspettava la persona degna perché lei si confidasse.

E credeva, con uno slancio di fiducia, di averla trovata.

Non suo padre, che pure era sempre stato il suo confidente preferito: divertente, scanzonato, ironico, pronto a sollevarle i pesi dalle spalle a suon di rassicurazioni scherzose e motteggi lievi.

Ma sua madre: l’algida, perfetta, forse pure noiosa, Hermione.

Quella era una cosa seria. E la mamma spandeva serietà come un’istitutrice tedesca. La mamma aveva sempre le risposte, le piovevano nelle mani come pesci e pani in una parabola.

Rose Weasley, 12 anni appena compiuti, si presentava all’appuntamento con la sua mamma d’alabastro, convinta che la vita lontana da casa da quasi quattro mesi l’avesse resa pari alla donna che l’aveva generata e che aveva sempre invidiato, temuto ed adorato, sin da quando era nata. Hermione, finalmente, avrebbe riconosciuto in lei una controparte affidabile e matura.

Accadde: ma non nel modo che pensava lei.

Non accadde perché Hermione vide in lei, ora, un’adulta. Ma perché Rose spiò in lei la donna, non più la mamma rassicurante e scontata, tinteggiata sul fondo dei suoi anni di bambina come un colore scuro e deciso, dai tratti sicuri.

Il treno entrò in stazione con un rombo netto, Rose si alzò dal sedile con spavalderia, sollevando il mento come faceva sempre Hermione. Guardò fuori dal finestrino, in un lampo di colori sua madre emerse dal fondo di persone come un grigio indistinto.

Non pensava che la guardasse, non aveva ancora percepito il treno arrivare.

Fu solo un secondo.

Lontana dalla sua famiglia che chiacchierava in un capannello cremisi, suo padre in testa come un leone orgoglioso. Lei, invece, sua madre, era seduta poco più in là, su una panchina. Piegata su sé stessa, i gomiti sulle ginocchia e le mani a raccogliere il viso a coppa, come a tenersi assieme.

Respirava avida nel collo della sua sciarpa grigia, il torace le si sollevava sotto il cappotto in modo febbrile persino a vederla da lontano. Gli occhi, screziati di agata, ora erano spenti, fissi, asciutti.

Quando sentì il treno, fu come se fosse stata punta da un’ape a tradimento sulla schiena.

Si alzò rapida, raggiunse gli altri in un balzello scomposto.

Quando Rose scese dal treno, l’abbraccio di sua madre non aveva nulla di diverso. Sempre un po’ rigido, sempre profumato di vaniglia, sempre accompagnato da raccomandazioni sollecite.

Rose, però, l’aveva vista: non si scampava, ormai.

Aveva visto la Hermione Granger dietro sua madre, non se la sarebbe più tolta dagli occhi. E paradossalmente questo, la fece indorare di imperfezione lieta agli occhi della figlia, così che, davvero, adesso lei desiderasse parlarle.

“Mamma capirà”, si disse Rose. “Non è così perfetta, anche mamma è confusa e triste. Come adesso, anche se mi abbraccia forte”.

Rose restò nell’abbraccio di sua madre, amandola più di quanto avesse mai fatto.

Sfuggendo un’altra somiglianza tra lei ed Hermione.

Anche lei guardava i Malfoy da lontano e ne cercava gli occhi.

Non trovandoli mai.

 

 

Il senso di colpa è un animale che si mangia famelico la coda tornando sempre negli stessi posti, anche quando fai di tutto per evitarlo. Penso che, per questo stesso motivo, l’assassino torna sempre sul luogo del delitto: è un richiamo ancestrale che non può minimamente impedirsi. O forse, come suggeriva il mito delle Erinni, furie vendicatrici delle colpe contro gli innocenti, è il destino stesso e la vita che ti si ritorcono contro, portandoti a sbattere sempre contro i medesimi nodi irrisolti, come se fossi un pesce che si dimena dentro la rete di una barca.

Il pomeriggio è cominciato innocente, permeato della gioia di riavere mia figlia a casa: le stanze sono state inondate dalla luce spavalda che è Rose, qualcosa che lei sprigiona da dentro come un manto inconsapevole di grazia, di cui si rivestono tutte le cose. Mi sembra che persino gli oggetti più banali del mio salotto, l’orologio azzurro, la tenda a righe tortora, il vaso di vetro soffiato, ora cantino e brillino di lei. Allo stesso modo, reagiamo io, Ron e persino Hugo, che prima della scuola con lei litigava sempre e comunque, qualsiasi cosa facesse.

Rose mi è subito sembrata diversa: i miei occhi di madre non hanno fatto fatica a notare che sembra dimagrita, ma in quella maniera consapevole che può essere solo dovuta ad un’attenzione femminile al peso. Gli occhi, azzurri come poche cose al mondo, sono quasi sempre allungati da una linea sottile di matita nera, ancora messa in modo goffo e distratto, dato che sbava sempre sull’angolo esterno dell’occhio, causandole una macchia scura attorno alle ciglia che la fa somigliare ad un panda.

Ma la cosa più evidente di lei ad essere mutata, è la voce. Sapevo di ragazzini che, d’improvviso, dismettono la voce stridula da bambini, per montarne una grave, baritonale, fonda come se traesse origine dal fondo del torace. Era successo a Teddy anni fa, ricordo ancora il sobbalzo che feci quando lo sentii parlare di nuovo, dopo mesi di lontananza a scuola.

Ma, a quanto pare, quella metamorfosi fonica ha interessato anche mia figlia, dal sesso indiscutibilmente femminile: Rose, che aveva alla partenza un tono di voce urlato, chiassoso, sempre acuto, ha invece assunto una voce cristallina, lieve, soffusa, quasi come se nemmeno articoli le corde vocali a parlare, ma lasci fare tutto a piccoli emissioni di fiato sfuggite per caso, quasi per errore.

Avevo anche notato, non senza un’ombra di piacere, che la mia bambina era molto più interessata alla mia compagnia rispetto al solito; aveva sì abbracciato il padre, pianto un po’ di nostalgia sulla sua spalla e commentato gli ultimi risultati delle partite delle Holyhead Harpies, ma poi con risolutezza aveva preso a seguirmi in ogni singola faccenda domestica, fedele guardiaspalle. Spiandola con la coda dell’occhio, la vedevo aprire e chiudere le labbra come un pesce rosso, a cercare evidentemente coraggio per dirmi qualcosa di importante, qualcosa che, per intenderci, le arrossava le guance di carminio e le faceva luccicare gli occhi come se avesse la febbre. Poi, con frustrazione, si arrendeva, le spalle le si afflosciavano, montava un broncio ancora infantile e proseguiva a rispondermi a tentoni alle domande sulla scuola, sulle materie preferite, sugli insegnanti, la testa a mille miglia da qui.

Comprendendo l’antifona, sapendo che se le avessi chiesto direttamente qualcosa, mi avrebbe risposto stizzita, dicendo che non aveva assolutamente nulla da dirmi e che le mie erano solo fantasie, avevo optato per la tecnica migliore tra tutte: l’uscita mamma – figlia per comprare gli ultimi regali di Natale, con la promessa di tè finale con biscotti allo zenzero che lei adorava.

Si era ovviamente rianimata, probabilmente rincuorata dal fatto che, in assenza di suo padre e di Hugo che trotterellavano per la casa, le parole le sarebbero venute fuori meglio e prima.

Ed è a questo punto che mi trovo adesso, alle sue parole. Le avevo già immaginate, intuite. Avevo già focalizzato il loro contenuto ed il modo in cui le avrebbe pronunciate. Già me la vedevo seduta di fronte a me nella sala da tè con le mani che si torcevano frenetiche in grembo, il volto rosso, la testa bassa. Tutto avrebbe ruotato attorno al nome di un ragazzo appena conosciuto, per il quale avrebbe professato un eterno ed incrollabile sentimento che era nato come un fiore a marzo, senza preavviso, solo con un grande senso di confusione, profumata come la corolla di una primula.

Sapevo che voleva risposte, punti fermi, consigli, e mi ero preparata come per una lezione universitaria, scegliendo accuratamente le parole mentre mi vestivo e mi truccavo, esercitandomi anche davanti allo specchio con le espressioni da assumere al suo discorso, così da riportare diligenti all’ordine sopraccigli indagatori e labbra accondiscendenti.

Quello a cui non ero preparata, era il nome. Quello che adesso ancora aleggia tra me e Rose, scolpito nell’aria dorata del pomeriggio come se fosse fatto di roccia dura. Il nome che, senza che nemmeno lo conoscessi, mi si è incuneato nello spazio tra i polmoni, come la spada di certe Madonne della mia infanzia, in Sicilia.

“Scorpius Malfoy, mamma. Credo… di essermi innamorata di lui”.

Quel cognome, oggi, adesso, a bruciapelo, sembra una punizione celeste.

Mia figlia, colpita dal mio silenzio e preoccupata che io disapprovi, si esibisce in un appello accorato in favore del giovane Malfoy, elencandomi tutti i motivi per cui si è innamorata di lui. Il mio sguardo vagante nella sala da tè si sofferma sulla macchia di rossetto che ha sul polso, cosa che mi fa curiosamente sorridere: si sente un’adulta fatta e finita al punto di potersi truccare, ma come una bambina si dimentica di esserlo e si macchia gli abiti, imbranata ed assente.

Rose continua a raccontarmi di Scorpius, del loro incontro, dell’amicizia con Albus, ed io mi limito a cenni distratti con il capo per non farle intendere che critichi il suo innamorato; in realtà, ciò che con estrema diligenza tesse mia figlia sul ragazzino, non fa altro che riportarmi indietro all’immagine di suo padre. E alle parole che, qualche settimana prima, gli ho rivolto in terrazza dai miei suoceri, ricordandogli il tentato omicidio di Silente ed asserendo convinta che era davvero sua intenzione assassinare il vecchio preside.

Deglutisco a disagio un paio di volte, sorseggiando il tè al gelsomino che si è fatto freddo, scivola nella mia gola come se avesse la consistenza della confettura.

Draco Malfoy mi ha inseguito nei pensieri dall’ultimo giorno in cui ci siamo visti, ammantato da questo senso greve ed acre di colpa che non mi lascia in pace, nauseandomi senza riposo. Ormai anche la nausea che provo spesso, è diventata una sorta di compagna quotidiana che mi avvisa di quanto io sia stata meschina nei suoi confronti. Sono abituata all’autoanalisi, sono abituata a cercare ogni falla in me stessa che sia il punto in meno nell’autentica perfezione da me bramata, ma non sono abituata a sentirmi così fuori posto come in questo momento.

Sento di aver toccato una sorta di limite, ed al contempo di fondo, che non ero nella posizione di toccare. Come se ci fosse una sorta di patto tacito tra noi, che io ho infranto con predeterminazione, solo per difendere me e il mio traballante matrimonio.

Non mi riconosco in ciò che ho fatto a Malfoy, non è da me, non è assolutamente da me perdere così tanto il controllo di me stessa da dire cose che non dovrei dire, senza pensarci su.

E il karma sembra essersi messo d’impegno ad inseguirmi senza posa, scegliendo persino come sicario mia figlia che, accalorata, prende fiato e continua a pontificare su Scorpius Malfoy. Ogni sillaba di quel nome sa di sigarette e neve fresca.

Nel silenzio di quella notte sentii persino il respiro trattenuto di Draco Malfoy, quell’autentico tonfo nel petto, come se ci sprofondasse qualcosa nel buio, affogando.

Ho pensato, certo, di scusarmi con lui, è stato il primo pensiero dopo che quelle parole terribili avevano lasciato le mie labbra. Ma si era rivelato molto più difficile del previsto. L’orgoglio mi frena come se fosse la catena di una bestia feroce che tiene legata al laccio.

Penso sempre alla reazione tronfia che avrebbe, alle domande che mi rivolgerebbe, alla giustificazione che dovrei dare di una reazione eccessiva, che nemmeno io ho compreso così bene. Dovrei forse dirgli che stava girando troppo attorno al cuore del discorso, ai dubbi che avevo sul mio matrimonio? Impossibile, sarebbe come consegnare la testa al boia.

Senza però quella spiegazione, la mia richiesta di scuse perdeva consistenza, peso, valore, ed il mio gesto assumeva davvero la dimensione di un puntiglio odioso da ragazzina saccente, vogliosa solo di infliggere crudelmente una punizione.

Mi sono lambiccata per ore sul punto, cercando parole, gesti, frasi, ed intanto ho disertato casa dei miei suoceri, temendo di incontrarlo. Il soffitto, nelle notti bianche in cui non riuscivo a prendere sonno, disegnava solo ulteriori momenti di umiliazione che mi avrebbe inflitto per vendicarsi. Arrabbiata con me stessa per pensarci ancora, mi voltavo febbrile nelle lenzuola, chiudendo gli occhi e dicendomi spavalda che avevo solo detto la verità e che non c’era nulla di cui scusarsi.

Nessuno di noi sa davvero che cosa avrebbe fatto Malfoy se non fosse stato interrotto.

E lui non ne ha mai parlato con nessuno.

Perciò ci sta ogni supposizione, anche delle peggiori. Era un suo dovere, al massimo, smentirmi.

Peccato che questa mia giustificazione regga per otto secondi netti. Gli occhi si spalancano nel buio, le labbra si mangiano freneticamente tra loro, lascio Ron nel letto a russare e cerco di trovare allo specchio le parole giuste da rivolgergli.

Questo, in un giro eterno che dura da giorni ormai.

Rose, intanto, di fronte al mio perdurante silenzio, pensa bene di mettere il muso, incrociando le braccia innervosita, interpretando la mia mancanza di reazioni come la più classica delle rimostranze da mamma per il ragazzo di cui è così tanto innamorata. Distinguendo il tremore del labbro inferiore che preannuncia l’inizio della più grossa crisi isterica dai tempi della scomparsa dell’orso Kebab dalla sua stanza, mi affretto a recuperare il tono della conversazione, deglutendo con forza un paio di volte per far scivolare il nome di Malfoy in fondo allo stomaco, assieme al tè gelido che ingurgito con foga.

“E’ molto bello che tu provi queste cose, tesoro…” sussurro con partecipazione, chiudendo la mia mano sulla sua, contratta freneticamente sul tavolo accanto al vaso di peonie bianche. Le guardo per qualche istante, con l’impressione che mi ricordino qualcosa, ne studio distrattamente un petalo come alla ricerca di… una sorta di… macchia nera… ma non vedo nulla ed intanto la nausea mi riannebbia i sensi, quindi desisto. Rose, intanto, convinta dalla mia affermazione, si rianima con calore, accendendosi come un fuoco d’autunno, il viso come il compagno perfetto della sua capigliatura scarlatta: “Lo pensi davvero, mamma? Non sei… delusa che sia proprio un Malfoy?”.  

Sorrido incoraggiante, accarezzandole con il pollice il dorso della mano: “Ma no, Rose, non pensarlo nemmeno. Io, papà e zio Harry abbiamo lottato per anni perché il mondo cambiasse, e perché tu potessi sentirti libera di provare affetto anche per Scorpius”. Ometto volutamente con un accenno di confidenza il cognome del ragazzo, così da non avere nuove reazioni inconsapevoli che mia figlia possa fraintendere.

Ci pensa, però, Rose a finire il lavoro che aveva già iniziato con la sua confidenza, andando direttamente al punto con decisione: “Lui non è come suo padre, mamma. E’ gentile, dolce, educato. Non è come mi avete parlato del signor Malfoy”.

Scorpius non ha quegli occhi grigi che sembrano assieme di un angelo, e poi di un demone? Non ha quelle parole che, dentro, scavano trincee come trivelle alla ricerca dell’acqua? Quando non la trovano, si mettono a scartavetrare la pelle nuda, così da mangiarti viva.

Non è così, Rose, il tuo innamorato? È ancora innocente e puro come carta di riso, come il sapore latteo dei neonati, come il fiore fresco di pioggia della prima alba?

Come ti abbiamo parlato di Malfoy, tesoro, quando eri bambina?

Di un bulletto egoista che prendeva di mira la tua mamma e il tuo papà, tormentandoli?

Magari tu hai pensato al giorno in cui ci saremmo potuti vendicare ed avere giustizia. Nelle nostre storie hai fatto il tifo per noi, come se fossimo degli eroi di carta e inchiostro dentro i tuoi fumetti o i tuoi libri, quelli che sceglievo diligente, attenta al messaggio giusto.

La vendetta è arrivata, Rose, glielo ho servita su un piatto di neve sporca e sigarette alla vaniglia.

Peccato che, nel suo fuoco amico, ha fatto a pezzi anche me.

Prima di intraprendere la strada della vendetta, scavate due tombe: questo diceva qualcuno.

Sembra che lui stesso con quegli occhi mostruosi spali terra sulla mia testa, seppellendomi.

Ricaccio indietro quei pensieri assurdi, mettendomi i capelli dietro le orecchie con un gesto nervoso delle dita, prima di chiedere un altro tè al cameriere. Poi, con un profondo sospiro, biascico velocemente: “Rose, la nostra storia con il papà di Scorpius… è qualcosa di diverso. C’era la guerra… il mondo… non è quello che conosci tu, quello a cui tu per fortuna sei abituata. Non possiamo giudicare correttamente una persona per quello che era in quel momento. C’erano troppe cose che potevano pregiudicare l’onestà e la bontà di una persona, specie se si trattava della sopravvivenza della propria famiglia. Credo… che per questo… non sia facile parlare di chi era in quel momento… il signor Malfoy…”. Pronuncio il suo cognome con un’emissione di fiato più forte, come a farmelo uscire velocemente dal petto prima che prenda troppo spazio.

Rose mi guarda apparentemente convinta seppure confusa, i suoi occhi azzurri mi guardano come se fossi una sorta di enigma in cardigan rosso e sciarpa grigia.

Mi affretto ad aggiungere allora a mo’ di spiegazione, consapevole che non può seguirmi in tutto il mio tentativo di redenzione mentale: “Quello che intendo dire, Rose, è che non devi farti condizionare da quello che eravamo noi a scuola. Te l’ho già detto alla stazione, quando papà ti ha suggerito scherzosamente di batterlo in tutti gli esami. Voi… siete un’altra cosa, tesoro. Non c’entrate con noi. Sii amica di chi vuoi. Innamorati di chi vuoi. Non pensare a chi è figlio di chi”. 

Finalmente Rose comprende che ha avuto una sorta di benedizione da parte mia, con slancio si alza in piedi, facendo cadere la sedia alle sue spalle. Mentre già mi inalbero per la sua poca delicatezza, lei si getta tra le mie braccia, stringendomi forte ed avvolgendomi nel suo profumo di pesca. “Grazie mamma…” sussurra dolce con un accenno di pianto.

Commossa come solo la madre di un’adolescente può essere di fronte alle dimostrazioni di affetto, quando esse diventano sempre più sporadiche e rare, le accarezzo piano i capelli stringendola a mia volta e baciandole la tempia.

“Mamma, posso invitare Scorpius a Natale dai nonni?” mi chiede Rose infervorata, staccandosi da me. Le parole le escono velocemente dalle labbra come saette di fiato, scampate dalla costrizione della laringe. Si accavallano le sillabe per l’emozione e la cosa mi intenerisce al punto che, in un rapido cenno del capo, le dico di sì senza alcuna remora o esitazione.

Lei mi abbraccia ancora, saltella sul posto e poi scappa via dal locale, dicendomi che deve assolutamente andare da Dominique che le deve prestare un suo vestito da paura per incontrare Scorpius a Natale.

Resto con la mano aperta sospesa in un saluto, anche quando la sagoma di mia figlia sparisce dietro l’angolo. Dopo, quando me ne rendo conto, abbasso il braccio e lo lascio piegato sul tavolo, il pugno contratto.

Ho mentito a mia figlia ed è la prima volta nella vita.

Le ho detto di credere in un mondo immacolato e vergine, che le donerà solo amore e gioia.

Non sa quanto sono stata bugiarda.

 

 

24 dicembre

 

Da sempre il piatto tipico della Vigilia di Natale a casa Weasley è il rognone di vitello con le cipolle caramellate: è il cavallo di battaglia di Molly, una sorta di bomba H gastronomica di calorie e trigliceridi, il cui odore impregna persino le ossa, anche se trascorri pochi minuti alla Tana.

Oggi, per l’occasione, nel salotto sono stati fatti Evanescere tutti i mobili ad eccezione di un lungo tavolo rettangolare, apparecchiato con tozze candele rosse e stoviglie spaiate. Rami di vischio un po’ rinsecchiti pendono sbilenchi da ogni parte, l’ultimo dei Tiri Vispi Weasley: al passaggio di una persona qualunque, esplodono stelle rosse ed oro al suono dello schiocco rumoroso di un bacio.  Sempre da tradizione, non appena si arriva alla Tana, si opera la scissione vecchia di decenni tra appartenenti al cromosoma XX ed appartenenti al cromosoma XY: le donne si rintanano tutte in cucina, nei loro abiti scarlatti e nelle loro chiacchiere rumorose ed acute, mentre si mescola, impasta, sminuzza, cuoce, soffrigge, insaporisce, più cibo di quanto si mangerebbe mai in otto settimane. La regina incontrastata è Molly che con rapidi colpi di bacchetta, mette in riga e in mostra il suo arsenale alimentare.

È il suo momento, quello per cui spasima ogni anno, arrivando quasi al collasso per la ricerca della perfezione, simulando teatrali svenimenti per ogni persona che viene meno o non gradisca qualcosa.

Ci sono rituali consueti, che vanno ripetendosi di anno in anno: le caramelle alla fragola che finiscono prima del pranzo, divorate da Ginny; il calcolo mentale dei giorni di digiuno che attendono Fleur, dopo questa “catastrophe”; la mia rimostranza di fronte al rognone e il candore stupito di Molly che sostiene che io l’abbia sempre mangiato, cosa che naturalmente non ho mai fatto.

Gli uomini, assieme ai ragazzi e ai bambini, restano fuori nel giardino, intenti ad accendere qualsiasi cosa contenga polvere da sparo: nel cielo notturno, lucido di neve inespressa, brillano girandole fucsia, viola, argento, celeste. C’è sempre l’attrazione dell’anno, la novità: un anno c’era stato un enorme drago argento ed oro che aveva solcato le montagne e le nuvole, esplodendo dopo ore in una pioggia di coriandoli al gusto di pizza. Un altro anno, era stato il turno di piccoli quadrifogli verde smeraldo, fioriti nel giardino davanti a casa dei miei suoceri e che, rilucenti nel buio, esplodevano di mille odori diversi se sfiorati o colti.

La costante sono sempre i visi scarlatti per il freddo, le urla di mamme e mogli, l’immancabile influenza che si prenderà qualcuno nel periodo immediatamente successivo tra Natale e Capodanno.

Poi finalmente tutti a tavola: ogni anno, ci sono sempre troppe poche sedie, troppe pietanze, troppi avanzi. E la stanza straborda di mille conversazioni diverse vagamente intrecciate, confuse in un modo quasi tattile, come una nebbia che condensa sulle cose rendendo tutto indistinto.

Mi è sempre piaciuto il Natale, il mio da bambina era una festività tripersonale che diventava solo vagamente più frequentata se decidevamo di andare in Sicilia da mia nonna.

Quello dei Weasley era invece caotico, rumoroso, colorato. Ed io lo avevo adorato fin dal primo momento. Senza eccezione. Anche nel dubbio, anche nella tristezza, anche nella guerra, anche nella frustrazione rabbiosa dei litigi con Ron: le discussioni finivano sempre per risolversi nel calore famigliare, evaporando e sciogliendosi come volute di fumo acre, mentre ci scambiavamo di malavoglia un bacio alla mezzanotte, scoppiando a ridere poi come due adolescenti.

Quest’anno, però, senza che esista un motivo apparente, mentre tutti i riti restano ancora in piedi, mi sembra di essere in una specie di bolla d’aria dove tutto mi giunge attutito, offuscato, sbilenco, ovattato, come se provenisse da un’altra dimensione. Persino i miei movimenti mi paiono rallentati, alla moviola, e tutti devono ripetermi le cose circa dodici volte prima che mi giungano davvero nel cervello, la sensazione stopposa di camminare sulla gelatina.

In fondo allo stomaco, come il presagio sventurato di Cassandra, sento il diffuso furore cieco dell’ultimo Natale… così. Come se sapessi con certezza che l’anno prossimo le cose saranno tutte diverse, completamente. La ragione mi risponde che, certo, chissà cosa potrà succedere in un anno esatto e che, in certo qual modo, tutto cambia alla velocità della luce.

È una costante, se uno ci pensa, non è che ci vuole Natale per dirselo.

Ma, mentre vedo le labbra di Ginny muoversi mentre mi dice qualcosa ridendo, qualcosa che non arriva alle mie orecchie, comprendo che non è questo: non è quel avvertimento sulla fugacità del tempo presente che, di tanto in tanto, ci coglie come una spada di Damocle e ci spinge a rivalutare ogni singolo istante. Ed allora, con uno slancio furente, ci si abbraccia di più, si dicono più ti amo o si perdona qualcosa che si considerava indimenticabile.

La sensazione che mi pulsa persino nelle orecchie come un ronzio regolare, infido, sinistro, è di una sorta di chiusura di un ciclo, di un mondo che finisce, di una vita che volta l’angolo e che non sarà più la stessa. E che invece di portarmi ad essere più sollecita ed attenta nei confronti dei miei cari, paradossalmente mi chiude in un isolamento dorato, dove ogni parola è disturbo e molestia.

Credo di ravvisare ogni segno di quel mondo che finisce nelle piccole cose che mi circondano, dandomene così una spiegazione: dai capelli sempre più grigi di Molly e dal fatto che non riesca a portare in tavola il grosso e pesante tegame di rognone, all’andatura sempre più curva di Arthur che non lascia mai la sua poltrona preferita, fino a Rose che non partecipa ai fuochi d’artificio di famiglia, restando invece a sospirare contro il cielo in veranda.

Evito di ripensare a che cos’altro è successo in quella veranda qualche giorno fa, stasera non si pensa a Malfoy, quello si starà rimpinzando di caviale e champagne alla faccia mia, maledetto stronzo di un riccone, e cerco di dare un peso a quello che mi circonda, riprendendo a gravitare diligente come un membro della famiglia compito e coinvolto.

Mi decido evidentemente troppo tardi, perché in quel momento Molly annuncia con voce squillante, ma in qualche modo meno tonante del solito, di sedersi a tavola. Sospiro a lungo, imitata e seguita da mia figlia che è appena rientrata in casa, le metto un braccio sulle spalle, incoraggiandola. Le ho consigliato di chiedere a Ron di invitare qui Scorpius una volta finito il cenone, contando sulla solita pinta di Acquaviola fatta in casa che si sarà scolato con i suoi fratelli. Contavo, in realtà, anche sulla presenza salvifica di Teddy e Victorie per impedire che perdesse le staffe, ma a quanto pare la ragazza non si è sentita bene ed è rimasta a casa. Naturalmente, quindi, anche Bill, Fleur, Dominique e Louis hanno colto la palla al balzo per saltare il luculliano pasto offerto da Molly, considerando che ogni anno erano loro quelli a fare più storie per non ingurgitare quel calorico e troppo condito cibo.

Per una volta, la nausea gravidica è diventata contagiosa.

Mangio a piccoli bocconi, annuendo di tanto in tanto ai discorsi dei miei cognati, sempre con quel senso di estraniamento addosso che mi circonda come una sorta di pelle infetta. Le varie portate mi passano davanti come sotto il tasto di avanzamento veloce, le tocco appena, mi sembra che abbiano tutte lo stesso sapore insipido e scialbo.

Quando sto dando la colpa in modo automatico del mio stato mentale al fatto che quest’anno mia mamma abbia deciso di restare in Italia per Natale e di non venire qui, cosa che mi spinge a decidere di chiamarla per sapere se stia bene, mi rendo conto che siamo arrivati ad un altro dei tanti riti natalizi, inaugurato dopo la fine della guerra.

All’inizio, il promotore era stato Arthur, lo ricordo ancora seduto a capotavola, la posa severa, la schiena dritta, il bicchiere di sherry stretto nella mano e brandito come se fosse il Santo Graal.

Era il primo Natale dopo la sconfitta di Voldemort, ed anche il primo che io e Ron passavamo da fidanzati, ricordo le mani intrecciate sotto il tavolo, la fuga in dispensa per pomiciare, la mia ricerca frenetica di un regalo e l’ansia che non gli piacesse.

E poi, tutti i miei pensieri sparirono nel discorso toccante di Arthur che, partendo dal proprio figlio Fred, propose un brindisi per tutti coloro che erano morti durante la guerra e che non erano lì in quel momento a festeggiare con noi. Scorsero calde lacrime, un accenno di applauso, un brindisi rumoroso e selvaggio come quell’impeto alla vita che sentivamo forte, come un dovere verso chi non c’era più. Alla fine, con la conta delle vittime sempre aggiornata, divenne un’abitudine natalizia.

I nomi dei caduti divennero alle orecchie dei nostri figli una filastrocca di malinconia e dolore al sapore di christmas pudding.

Quando Arthur non fu più in grado di restare a lungo in piedi e di tenere così alta la voce, il testimonio passò inevitabilmente a Ron: c’erano i suoi fratelli maggiori ovviamente prima di lui, ma era lui l’eroe di guerra. Ha sempre visto quel momento come qualcosa di molto importante, al pari di un’investitura ufficiale che si era guadagnato negli anni.

Anche quest’anno, quindi, sapendo quanto ci tenga, cerco di focalizzare l’attenzione su di lui che richiama l’ordine, facendo tintinnare con un cucchiaio il bicchiere di vetro smerigliato.

Cade il silenzio, come di abitudine. E le parole di Ron sono quelle di sempre: calde, commoventi, emotive. Sento un singulto di orgoglio e fierezza per mio marito che, nella mia inconsistenza di pensiero, sembra farmi ritornare a questo momento come se ci appartenessi per diritto.

Non lascia fuori nessuno, nemmeno chi è perito successivamente anche al di fuori della guerra, come Andromeda. Tutti esplodiamo in un triste applauso, mentre come sempre George abbraccia Molly in lacrime e singhiozzi al pensiero mai sopito di Fred.

Ron conclude con un sorriso mesto, sollevando il calice: “Che il vostro Natale sia felice quanto e più del nostro. E che continuiate a vegliare su di noi…”, poi, gettando un’occhiata sardonica di soppiatto a tutti i presenti, come se stesse per rivelare un segreto, sussurra afflitto: “E che possiate perdonarci… se diamo accoglienza ed ospitalità ogni giorno ad uno dei vostri quasi assassini. Non preoccupatevi. Non saranno mai come noi”.

Non comprendo subito a che cosa alluda e nemmeno il resto della mia famiglia. Cade solo un silenzio fangoso, viscido, ruvido, che sembra in contraddizione con tutto quello che c’è stato fino a poco fa.

La consapevolezza mi giunge nello stesso momento in cui, con un gran fracasso, sento il rovinare di una sedia che cade per terra, risuonando sorda nell’aria circostante.

Rose si allontana, correndo sconvolta, in lacrime. Le mani che stringeva in grembo nell’attesa di chiedere il permesso di invitare Scorpius per Natale, sono sbiancate come bucaneve congelati. Sibila solo, tagliente come la lama di un coltello: “Sei una bugiarda, mamma”.

Le parole di Rose hanno l’effetto di spaccare a metà il guscio ottuso che, amniotico, sembrava racchiudermi intatta e lontana da qui. L’accusa fende il mio petto come una freccia alla ricerca del bersaglio, che trova nel mio ventricolo sinistro. Mentre tutto si sgretola, riappare l’aspetto ordinario delle cose e delle persone, con colori ed odori persino più violenti del solito, che mi travolgono come se fossi al mio primo giorno di vita.

Mi manca il respiro, come se annegassi.

Cercando di recuperare ossigeno, guardo affannata Ron, i suoi capelli rossi, le gote arrossate dalla foga del suo discorso e dall’alcol ingerito, le orecchie paonazze. Tutto mi pare una sorta di affronto personale, il fastidio mi incendia lo stomaco come una petroliera in fiamme.

“Non potevi resistere, vero?” inveisco a fatica, il respiro spezzato dall’ira, guardandolo in tralice, prima di sbattere violentemente i pugni sul tavolo, i bicchieri tintinnano come feriti “Te la stavi preparando da… quanto? Da quando Malfoy ha messo piede qui? O da prima?”.

Attorno a me, solo Harry scuote il capo con rimprovero, limitandosi solo a pronunciare il nome di Ron severamente. Gli altri restano in silenzio, guardandosi le mani poggiate sulle ginocchia o nello spazio sul tavolo tra un commensale e l’altro, nella solita omertà che protegge il cucciolo, sebbene sia ormai già diventato un padre di famiglia che dovrebbe pensare prima alla propria figlia e poi a tutto il resto.

Scossa dalla rabbia, come se fossi un fuscello secco in un tornado, biascico senza prendere fiato, come se le parole si accavallassero una sull’altra alla stregua di naufraghi che cercano salvezza: “Tua figlia si è innamorata di Scorpius Malfoy. Già, dello stesso Scorpius con cui le hai consigliato di mettersi in competizione, quando non era nemmeno salita sul treno per Hogwarts…”, il viso di Ron sbianca come se il sangue affluisse improvvisamente tutto altrove, da qualche parte lontana dal suo corpo. Il silenzio attorno diventa ancora più denso, profondo, come un liquido che non fa filtrare la luce.

“Ed io l’ho rassicurata che il suo mondo fosse diverso dal nostro. Che lei potesse persino… provare affetto o innamorarsi per di chi credeva…” mormoro ad un passo dalle lacrime che bussano già moleste dietro le palpebre pesanti “E tu, oggi, mi hai reso una bugiarda con nostra figlia. Tu con i tuoi maledetti rancori da ragazzino troppo cresciuto”.

L’insulto, ben congegnato dalla mia testa abituata a colpirlo puntualmente dove fa più male, naturalmente ha l’effetto di renderlo ben più prolisso ed aggressivo di quanto fosse stato fino ad ora, mentre incassava e basta. Scaraventa il bicchiere di sherry per terra infrangendolo in una cascata di gocce dorate ed argentate, e comincia ad urlare in modo scomposto, infiammato dall’alcol: “I miei rancori?! I miei rancori? Qui non si parla di rancore, Mione! Qui si parla di proteggersi a vicenda, come abbiamo sempre fatto in guerra, come abbiamo sempre fatto tra noi, prima che tu te ne dimenticassi completamente, con tutte le tue teorie egualitarie e liberali da fottuta maestrina ingenua…”, Harry cerca di farlo calmare riportandolo seduto, ma naturalmente non funziona.

Non funziona mai.

Mi guardo attorno solo per vedere se Hugo è ancora fuori in giardino con Fred Jr a sparare altri fuochi d’artificio, le esplosioni ritmiche mi informano che è così, rilassando le mie spalle. Ron continua, ormai senza controllo: “Sono fetidi assassini tutti loro, tutta la loro marcia specie. E nessuno di noi ci dovrebbe avere nulla a che fare! Nessuno, tantomeno Rose! Tantomeno tu, razza di stupida! Ti sei scordata cosa ti diceva Malfoy nei corridoi? Ti sei dimenticata di quante volte ci piangevi come una mocciosa sui suoi insulti? O quando ti hanno torturato a casa sua? Te ne sei scordata, eh?”. Naturalmente, il gioco al massacro funziona sempre perché è biunivoco.

L’accenno alla mia tortura durante la guerra, è il colpo basso. Perché il corpo ricorda sempre di più di quello che la mente vorrebbe dimenticare. Alle sue parole quindi, come una specie di segnale di attivazione, riprendono a pulsare cicatrici e ferite, segni e graffi, escoriazioni e lividi, come se fossero ancora tutti sparsi sulla mia pelle.

E mi risale in gola il vomito della bile e dell’odio, quello per cui l’impotenza di quel momento mi rimase dentro le costole come un miasma tossico, spingendomi a pensare di diventare un Auror per non sentirmi mai più così. Torna l’aspirazione segata in vita per l’amore dell’uomo che ho davanti. Confondo l’odio e l’amore come sempre, come ogni volta, come ogni maledetto momento in cui passiamo il limite e in cui passo al setaccio ogni cosa per essere quanto più letale possibile.

Pensavo che con Malfoy fosse stata la prima volta.

Colpire nel modo peggiore, per non essere ferita.

Invece ho fatto allenamento per anni ed anni. Con il mandante migliore.

Ron, ringalluzzito dal mio silenzio, prosegue con tono appassionato, indicandomi dall’altra parte del tavolo con l’indice tremante: “Non me ne frega un emerito cazzo di Teddy e della sua riconciliazione famigliare. E non mi interessa nulla nemmeno di quello che ne dirai tu, mia cara paladina delle cause perse. Andate ad adottarvi una schiera di elfi domestici e fate una fottuta manifestazione di difesa, tu e tua figlia. Ma non esiste che abbiamo a che fare con i Malfoy, più di quanto sia necessario. Sono stato chiaro?!”.

L’urlo finale finisce con un pugno forte sul tavolo che gli fa sanguinare le nocche. Solo allora, non prima, Molly interviene con un canovaccio umido per fermare la blanda emorragia del figlio, redarguendolo. Come un segnale nascosto, tutti si precipitano allora a minimizzare, a consolare, a dirmi di stare tranquilla, a dire a Ron di non esagerare, a rassicurare che siano solo cotte infantili che passano presto, così che le parole di Ron prendano a fruttificare nei miei polmoni come spore tossiche e la mia risposta resti invece lì, seppellita in una tomba vergine, marcendo inutilizzata. Nei miei canoni, naturalmente, mi rendo conto di averlo lasciato finire e vincere, nell’indolenza che, ad un certo punto dei suoi insulti, mi ha raggiunto di nuovo dentro le ossa, sgonfiandomi come un palloncino bucato. Ora so, per certo, che sebbene ostenti il trofeo della superiorità maschile, Ron si è già pentito di quello che ha detto, spia la mia reazione, aspetta solo che io dica qualcosa di troppo per farlo passare automaticamente, di nuovo, dalla parte debole nella discussione: quella della vittima sacrificale che tanto gli si addice e che si affibbia nelle chiacchierate confidenziali con cognati e fratelli.

Questa volta, stanca come se avessi percorso duemila chilometri a piedi, scelgo volutamente di deluderlo. Pronunciando a tavola davanti a tutti, con una perfetta torsione della bacchetta, a quarantadue minuti dalla mezzanotte, la formula della Smaterializzazione.

Scompaio davanti ai loro occhi sbigottiti come le girandole rosse ed oro che ancora esplodono nel cielo.

 

 

Nonostante la mia drammatica uscita di scena, non appena arrivo a casa, mi rendo conto di aver lasciato entrambi i ragazzi alla Tana e di non sapere come stia Rose. L’istinto mi dice di prendere e tornare immediatamente indietro per andare a consolare mia figlia, ma poi penso che sia maggiormente il caso che sbollisca da sola.

Se ha ereditato questo lato sia da me che da Ron, so che è la scelta migliore. Al momento penso che vorrebbe impalare entrambi i suoi genitori, diventando felicemente orfana.

Per maggiore mia tranquillità, comunque, mando un gufo a Ginny dicendole di controllarli entrambi, specie adesso che Ron sarà sbronzo e furioso, nonché intento a demolirmi completamente davanti alla sua famiglia. Lei mi risponde subito scrivendomi di tornare.

Non puoi passare la mezzanotte per conto tuo, cavolo!

Nel buio della mia casa, con diligenza brucio il suo messaggio con la punta della mia bacchetta.

Non se ne parla proprio. Nella mia testa, implacabili come quadratini di celluloide, rivedo ogni singola scena della litigata, passandola al setaccio come sabbia di fiume per il cercatore d’oro.

Cerco bisbigli, sussurri, parole. E trovo solo silenzio. Impenetrabile. Ed è la cosa peggiore del mondo.

Mi fa ribrezzo quello della mia famiglia che non ha pensato nemmeno per un istante di intervenire alle parole di Ron, sicuramente con la scusa per cui era alticcio e non voleva dire quello che stava dicendo. Mi risponderebbero con un’alzata di spalle, imponendomi con l’atteggiamento verecondo della moglie ritrosa, di avere pazienza e sopportare. Forse le mie cognate, dall’alto delle loro più moderne esperienze matrimoniali, se ne uscirebbero con i loro aneddoti di sopportazione coniugale al limite della santità, dicendomi che quello che Ron ha detto, è assolutamente nulla in confronto. “Una volta, Percy…” di qui, “Quella volta, Fred” di là o “Non ne parliamo poi di Harry, Mione”, e tutto diventerebbe una sorta di incidente da dimenticare facilmente.

Non so perché, ma ho l’impressione che le sole che non contribuirebbero al quadretto, sarebbero le mie cognate assenti: Fleur e Cora. Loro penso che paradossalmente avrebbero persino scornato Ron come un ragazzetto discolo.

A ripensarci, però, la cosa che maggiormente stride nelle mie orecchie come una sorta di melodia stonata, è il mio di silenzio. Quell’accettazione pigra e sbiadita di tutto quello che mi stava dicendo Ron in modo passivo ed incolore, anche se mi feriva: sono sempre abituata ai siparietti dialettici di ore, ai sillogismi convincenti, alle orazioni spavalde che dovevano inevitabilmente portare al risultato finale. Il fatto che me ne stia stata in silenzio, come una bimbetta scornata, mi fa ribollire di rabbia come prima reazione, spingendomi quasi a tornare alla Tana per urlare come una straccivendola. Ma la seconda reazione è un’ulteriore fiera apatia, davvero come se non mi importasse nulla di quello che Ron stesse dicendo. Ed è una spina dolente sotto pelle che mi fa sanguinare più della furia, della rabbia e della tristezza che non riesco a provare.

Davvero non mi interessa più nulla di quello che dice o pensa di me?

Siamo arrivati anche a questo?

Per darmi tregua, mi dico spavalda e convincente che la mia assenza di risposte era motivata solo dal fatto che, tecnicamente, stavo difendendo Malfoy e non è che io sia del tutto convinta della sua innocenza. D’altronde, come faccio a non sentirmi ipocrita rimproverando Ron, se io stessa pochi giorni fa gli ho sputato in faccia la sua fama di quasi assassino?

Respiro profondamente, la casa buia mi rimanda l’eco di quel sospiro trattenuto: se non ho intenzione di tornare indietro, rimanere a casa è la peggiore delle soluzioni possibili. È ovviamente il primo posto dove verranno a cercarmi e a riprendermi, non appena comprenderanno che non tornerò indietro.

Peccato che, nella notte di Natale, chi non si trova collocato nella casella miracolosa della propria amorevole famiglia, è come un pezzo spaiato di un gioco da tavolo. Minimo, sarà inopportuno, molesto, finanche sgradito, in qualsiasi posto sceglierà di andare. Le strade, illuminate dalla luce rara di una luna ghiacciata, sono deserte, i negozi chiusi, gli amici impegnati altrove.

Medito persino di andarmene in ufficio, approfittando dei turni notturni al Ministero, imbastendo una convincente scusa, cosa che risulta patetica anche mentre la sto pensando.

Nel salotto buio, sempre più nervosa ogni minuto che passa, vado avanti ed indietro come una bestia braccata, cercando di trovare la quadra del cerchio. Ed è a quel punto, mentre infilo la sciarpa grigia con l’idea di andare davvero in ufficio, che qualcosa si affaccia nella mia mente.

La quadra del cerchio. Il posto dove andare.

Le associazioni si moltiplicano come funghi, innaffiati da semi invisibili.

Quando poi arrivo all’ultima definizione, è come se mi esplodesse lo stomaco. Sento la nausea consueta, ma è nulla in confronto a tutto il resto che ribolle e fermenta dentro di me.

Mi fermo al centro esatto del salotto, il torpore passa come una nube sotto il sole.

So perfettamente dove andare, dove sarò assolutamente inopportuna, molesta, finanche sgradita.

Ma dove quel silenzio ostile, quello della mia stessa bocca, si scioglierà, come miele nel latte caldo. Si affaccia nella mia mente la quadra del cerchio, il posto dove andare.

Ed infine il motivo che cerco.

 

 

Hermione Granger sapeva perfettamente dove il suo amico e cognato, Harry Potter, eroe del mondo magico, tenesse nascosto il Mantello dell’Invisibilità. Era stato lui stesso a dirglielo quando si erano trasferiti nella nuova casa. Era come una specie di anatema contro il destino avverso rivelare la sua collocazione, perché dopo la guerra loro non ne avevano avuto più bisogno.

Il Mantello serviva solo per le emergenze, mai per altro.

E le emergenze erano solo Maghi oscuri desiderosi di vendetta omicida.

Quindi, finché restava lì, nascosto dalle marachelle dei figli, sapevano di essere al sicuro.

Hermione Granger, nella notte di Natale del suo trentaseiesimo anno di età, ruppe quella santa e tacita promessa fatta all’amico di infanzia: mentre cercava la chiave di scorta dell’abitazione dei Potter e faceva irruzione dentro l’appartamento, sentiva come se avesse sciupato con feroce ingordigia qualcosa che, fino a quel momento, sapeva di fiducia, abbandono, sicurezza.

Poteva dire di avvertirne il peso, come una coltre salmastra dentro la gola, non la faceva quasi respirare. I suoi passi nelle stanze vuote, fino al nascondiglio del cimelio donato dalla Morte, le parvero pesanti e goffi come quelli di un ladro maldestro, poco avvezzo al crimine, molto abituato al pentimento. Eppure non si fermò mai, neanche quando con le dita che tremavano, spostò l’asse sconnessa del parquet sotto il letto dei Potter, estraendone il Mantello.

Lo soppesò tra le dita, era leggero e lieve come il respiro di una nuvola, era come lo ricordava. L’odore, stantio di naftalina, si era associato nella mente all’infrazione delle regole, alla trasgressione, al pericolo di essere scoperti: tutto ciò che, di fondo, anche adesso, faceva rima con quel cuore in gola e con quel viso accaldato, mentre formiche rosse di eccitazione si arrampicavano lungo gli arti inferiori.

Eppure, Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, sapeva bene in una parte recondita di sé stessa che non si trattava solo di quello. Non era solo un ricordo giovanile, che si presentava nel bel mezzo del momento meno indicato dell’anno.

La nausea la annebbiava al punto che quel pensiero restava sconfitto, sepolto, sotterrato, implorando di non venire fuori, scongiurando di restarsene lì, incolore e grigio come le cose che non si comprendono o non si vogliono conoscere.

Lei, naturalmente, non era masochista. E non fece eccezione. Non si avventurò sotto le coltri seppellite di sé stessa alla ricerca del motivo per cui, tra tanti posti, nella sera dove ogni persona desidera la propria casa, lei avesse scelto di andare lì.

Nel posto che meno sapeva di casa al mondo: il posto dove meno avrebbe dovuto avere desiderio di andare, specie nella notte di Natale.

Malfoy Manor. 

 

 

Nel buio, Malfoy Manor riluce come una perla nera, solitaria ed austera come il suo proprietario. Quando il contraccolpo della Smaterializzazione passa, assieme allo sfarfallio negli occhi, controllo con attenzione che il Mantello mi copra completamente, d’improvviso vergognosamente conscia dell’idea assurda che mi è venuta in mente. Una parte di me, nemmeno tanto piccola e nemmeno tanto poco savia, continua a guardare le mie azioni dall’esterno e a giudicarle senza ritegno.

Notte di Natale. Famiglia mollata su due piedi. Corsa nel cuore della notte nella casa del peggior nemico dei tempi della scuola. Rischio concreto di beccarsi una Maledizione senza perdono da Mangiamorte pseudo-redento, ubriaco di cherry e scotch, in pieno stile Natale alcolico.

Scrollo il capo senza ritegno come se fosse pieno di acqua, con l’obiettivo poco serio di far uscire fuori ogni spinta alla razionalità che la mia mente brama. Quando si tratta di Malfoy, è come se il mio cervello mollasse gli ormeggi e partisse per una vacanza attorno al globo.

La cosa bizzarra è che dovrei definirla dimenticata come sensazione, probabilmente è qualcosa risalente ai tempi della scuola, ma invece sembra qualcosa di stranamente familiare, alla stregua di una abitudine.

Cosa naturalmente impossibile, dato che non frequento Malfoy da anni.

Riassumo mentalmente che, evidentemente, era qualcosa di così traumatizzante da ragazzina che il segno mi è rimasto anche da adulta. In realtà, non mi sembra questa la spiegazione corretta, ma nel moto consueto di nausea che mi prende alle cose senza motivazione, la accetto in mancanza di alternativa.

E’ comunque questa sorta di abitudine monca che mi fa restare ben piantata qui, davanti al cancello della villa, come se avessi ogni diritto e dovere di essere qui.

Lo faccio per mia figlia. Devo sapere con chi ha a che fare, mi dico quando quel coraggio insolente manca, causandomi un moto nervoso dei piedi.

Manca ormai poco a mezzanotte e le finestre del castello sono tutte illuminate di una luce calda e festosa che non pensavo sarebbe mai appartenuta a questo luogo: nei miei ricordi, quelli che premono per entrare come mendicanti lerci, questo castello è oscuro, immerso nelle tenebre, soffocato dall’oscurità e mangiato dai tarli di una dittatura malvagia.

Ora, invece, è la casa di una famiglia con un ragazzino dodicenne, dove spesso mio nipote Teddy viene a far visita, dove forse si mangiano dolcetti alla zucca la sera di Halloween e si beve cioccolata alla cannella nelle serate fredde, dove ci sono calze con nomi cuciti sopra e cassetti di pergamene dei tempi della scuola. I riverberi delle luci del primo piano, argento, verde, blu e viola, suggeriscono la presenza di un tronfio albero di Natale, probabilmente colmo di pacchetti.

Noto subito quanto le cose siano cambiate e quanto questo, probabilmente, sia merito della moglie di Draco, Astoria Greengrass: nel giardino, intravedo alberi di magnolia, cespugli di fresie, rampicanti di edera. Tutto è costantemente in fiore, portato allo stremo da un eterno ciclo di fioritura. I ciottoli bianchi nei vialetti sono cosparsi di petali profumati, fluttuanti nel vento freddo della sera. Le siepi quadrangolari che delimitano l’esterno della proprietà sono disseminate di piccole luci tremule oro, ne tocco una con curiosità: sembrano candele ma sono come fiamme sospese nel buio che non bruciano la pelle.

Sicuramente, l’ultimo grido delle decorazioni natalizie di Diagon Alley.

Ripenso con un po’ di vergogna frammista a nostalgia al vischio rinsecchito della Tana, quello che ha visto i bambini crescere, sposarsi e metterne al mondo degli altri, restando sempre lì. 

Dall’interno della villa, giungono nenie natalizie al pianoforte e voci concitate ed allegre, tutte in attesa della mezzanotte. Devono esserci almeno un centinaio di persone.

Nella mia lucida follia, credo di non aver considerato la probabile difficoltà ad entrare nell’abitazione di un Purosangue tra i più ricchi ed aristocratici del mondo magico, sicuramente preoccupato della sua sicurezza e della sua riservatezza. Il cancello, infatti, è ovviamente chiuso e non vedo nessun pertugio da cui potermi intrufolare all’interno senza correre il rischio di attirare l’attenzione di qualcuno.

Mi sgonfio come un pesce spinato, naturalmente potrei benissimo farmi annunciare e chiedere di vedere Malfoy immediatamente, ma penso che, come minimo, sarei presa per pazza. Dubito che lui abbia rivelato alla sua cerchia fidata di amici le sue ultime frequentazioni, senza contare che anche se ciò fosse accaduto, sarebbe comunque vista come un’intromissione bella e buona che mi sia presentata qui, di notte, la sera della vigilia di Natale, con un motivo così volatile tra le mani da farmi sentire un’imbecille.

Mentre medito su questo, pensando contemporaneamente a come poter entrare ugualmente e a come poter sparire senza perdere del tutto la dignità, alla maniera di un segno del destino il cancello si apre con un cigolio metallico, che risuona tutto attorno come una campana a morto.

Naturalmente, ispirata, prima ancora che si apra del tutto, mi intrufolo dentro velocemente, respirando di qualcosa di frammisto tra il sollievo e l’eccitazione.

Solo allora, notando la presenza di qualcuno accanto a me, mi do pena di guardarmi attorno per capire di chi si tratti. Mi paiono due figure, sebbene siano scarsamente illuminate dalla luce della luna: una delle due, più bassa e magra dell’altra, è ancora ferma nel gesto di puntare la bacchetta contro il cancello nell’atto di aprirlo. Indossa un mantello color glicine di pesante lana d’angora, un tessuto prezioso che costa svariate centinaia di sterline.

Figuriamoci, in questa casa ci sarà riunito stasera almeno la metà del PIL magico dell’Inghilterra.

Il cappuccio violaceo cela il viso di quella che, dall’abbigliamento, suppongo essere una donna. Depone anche in quella direzione l’acutezza di singhiozzi appena trattenuti, provenienti da essa. L’altra figura, invece, anch’essa coperta da un mantello con cappuccio di colore scuro, sta trattenendo la prima per il polso, biascicando delle parole che di primo acchito non comprendo, dato che sono frammiste da un respiro corto e quasi sibilante, come se stesse per avere un attacco di asma.

Ovviamente, deve trattarsi di un litigio tra innamorati, giunto a fagiolo della mia decisione di intrufolarmi al Malfoy Manor non invitata.

Scrollo le spalle noncurante, non ho l’indole della pettegola incallita alla Leda, quindi decido di lasciare i due amanti alla loro discussione natalizia, senza curarmi di indagarne i motivi. Sto già per incamminarmi lungo il viale d’ingresso, attenta che i miei piedi non facciano rumore sui ciottoli, che un nome attira la mia attenzione sopita: “Non puoi farmi questo, Blaise. Non puoi pretendere di continuare a farmi questo… anche oggi… sempre…”.

Mio malgrado, sebbene voglia restare indifferente, comprendo che uno dei due avventori sia Blaise Zabini, intento dunque a litigare con sua moglie Daphne Greengrass, la cognata di Draco Malfoy. Li conosco sommariamente, lui lavora al Ministero e spesso è capitato di incrociarci a ricevimenti, cerimonie o premiazioni. Sono sempre seri, sono sempre l’immagine patinata della rivista di moda, lei non sorride nemmeno per sbaglio e lui ha sempre l’aria disgustata, come se avesse sotto il naso una torta d’anguilla. Se non ricordo male, hanno due figli, un maschio ed una femmina, esattamente identici a loro.

Voltandomi indietro, sebbene non lo riconosca nel buio dato che mi dà ancora le spalle, la sagoma alta ed imponente mi suggerisce che devo averci visto giusto, sembra Zabini.

Quello che, però, mi lascia sconvolta, con la gola secca e la bocca impastata, è riconoscere l’altra figura sotto il cappuccio violetto. La donna, infatti, guarda negli occhi Blaise, porgendomi il viso che, nella luce adamantina della luna e delle luci del giardino, mi appare evidente come una meteora nel deserto.

E’ indiscutibilmente Pansy Parkinson, non credo di averla più vista da anni, eppure sembra non essere cambiata di un giorno: stesso sguardo arcigno, stessi occhi scuri pieni di ombre nere, stesso incarnato pallido su cui spiccano rosse le labbra, come un taglio nel sangue. Provo persino un moto di invidia del tutto gratuita ed inconsueta per la giovinezza dei suoi tratti, ancora longilinei e sottili come quelli di una ragazzina, cosa enfatizzata dai capelli castani a caschetto, corti sotto le orecchie.

Dopo, però, ogni ammirazione cessa bruscamente. Pansy ha gli occhi rossi, cerchiati. A lunghi e scuri rivoli, il mascara crolla sulle guance macchiandole di nero. La magrezza delle guance pare qualcosa di imposto, scomodo, malato. Le labbra, poi, ad un secondo sguardo, sono bianche come quelle di una morta, mangiate tra loro come frutti aspri. Ed il fulgore degli occhi che aveva a scuola, come una piega d’orgoglio da sfoggiare come un talismano, pare evaporata come neve al sole.

La guardo quasi non capacitandomene, sembra tutto stridente su quel viso di porcellana, come se non c’entrasse nulla. A prima vista, pare bellissima come la statua di una dea, dopo capisci che la dea è morta ed è rimasto solo il marmo levigato di un cadavere imputridito. Ha qualcosa nell’espressione che mi ricorda qualcuno di preciso, ma non capisco come possa venirmi una tale associazione di persone, visto che non hanno nulla a che vedere tra loro.

Mi ricorda il viso di Dean Thomas, giovane come un ragazzino, ma vecchio nel cuore di mille anni.

Cerco di fare mente locale per rammentare il destino della Parkinson e trovo poche notizie sparute, figlie delle chiacchiere con Ginny: ridevamo spesso del fatto che non fosse ancora sposata, né tantomeno fidanzata. Avevamo concluso ciniche che la rovina della sua famiglia doveva averle inimicato metà dei rampolli del mondo magico, condannandola al nubilato, senza peraltro che lei decidesse di abbassare i suoi standard elevati della ei-fu-ereditiera.

Ora, sentendomi crudele come solo le parole a Malfoy mi avevano fatto sentire, comprendo che forse il motivo era un altro. Un motivo che a che fare con la mano che Blaise Zabini continua a tenerle artigliato sul polso, mentre lei cerca di divincolarsi.

Nella mia distrazione, Blaise deve aver fornito qualche giustificazione, qualche spiegazione. Lei urla, grida, piange, però mantiene la voce bassa e vellutata come per non sconfessarlo ancora, come a proteggerlo, nonostante tutto. Stringo i pugni colta dal nervoso, pregandola quasi nel buio di mandarlo a quel paese, di graffiarsi le corde vocali per sbattergli contro tutto il suo disprezzo, di attirare così l’attenzione di qualcuno che riveli così la sordida relazione clandestina.

Ma Pansy resta sempre soffusa e soffice nel tono, alla fine si arrende ad una promessa che suona vecchia e stanca persino mentre la sento io per la prima volta. Blaise le mormora nei capelli che aspetterà che passino le feste di Natale, che trascorra almeno il compleanno di Daphne, che Jacob ed Arielle, i suoi figli, siano cresciuti un po’. Lei, vinta come un’aquila dagli artigli mozzati, annuisce senza forze, forse neanche per assenso, solo per stanchezza e rassegnazione, accettando il diamante tagliato a cuore che lui le regala, infilandoglielo al dito come una fede nuziale.

Pansy lo guarda come si guarda un pezzo di vetro, pronto a tagliarti la mano.

“Dovresti sposarti anche tu, invece…” aggiunge Blaise spronato, finalmente più calmo “Il matrimonio… quella è un’altra cosa. Io e te lo sai che siamo ogni cosa”.

La dichiarazione mi trasmette un tale senso di disagio e claustrofobia che, frettolosa e rapida, mi allontano, non preoccupandomi nemmeno di essere silenziosa: al mio passaggio, i ciottoli battono ritmici come un cuore in corsa, ma Pansy e Blaise non se ne rendono conto, di nuovo persi nel loro mondo grande come una scatola di scarpe.

Penso che nemmeno ad una come lei, avrei augurato un destino del genere.

Scaccio da me la sensazione che la coppia mi ha trasmesso, arrivando nel porticato della dimora. Anche la porta d’ingresso è cambiata diventando di acero bianco, con una ghirlanda di arance secche e bacche di cannella, in occasione delle festività natalizie. La spingo con delicatezza e, come mi aspettavo, non è chiusa: la apro d’impeto alla maniera di una corrente di vento molesta e, proprio per non correre rischi, la lascio aperta dopo essere entrata. Un elfo domestico, sollecito, corre subito a chiuderla, incespicando nelle sue stesse scarpe.

Ad accogliermi, è un calore fondo ed intenso come se in ogni stanza ci fosse un camino acceso al massimo: le donne che mi sfilano davanti, infatti, sono tutte in abito da sera, scollate e con la schiena scoperta come se fossimo in giugno. E’ tutto un brillare di oro, seta, diamanti, smeraldi, rubini e zaffiri, che fanno paio ed eco alle decorazioni delle pareti, fatte di puro ghiaccio luccicante e che non si scioglie ovviamente, nonostante la temperatura mite. Gli uomini, eleganti come se fossimo nella prima classe del Titanic, sono tutti vistosamente alticci e ridono e scherzano a voce altissima, coprendo persino la voce da usignolo della soprano che, nel salone sulla mia sinistra, proprio accanto al pianoforte, sta intonando le note di “Holy Night”.

Tutto è così opulento da fare male alle orecchie e agli occhi: le decorazioni di ghiaccio, la mobilia di ebano e cristallo, gli alberi di Natale in ogni stanza, il vischio annodato attorno alle colonne e al corrimano della scala, senza contare nemmeno la lunga tavolata ricolma di ogni genere di cibo esistente e possibile.

Non credevo di poterlo dire, ma mi manca il Manor di prima, quello lugubre, silenzioso e non disgraziatamente irritante per le cornee.

Del resto, la casa urla Greengrass da ogni angolo: non ci sono più arazzi recanti la progenie dei Malfoy, né tantomeno trofei di caccia o artefatti antichi, tipici della lunga tradizione famigliare. Tutto appare pacchiano e moderno, senza storia, senza passato, solo sospeso in un godereccio presente. Tutto non è meno che luccicante, lucido, brillante. L’aria è appestata di una mistura tra profumo di abete, sudore ed arrosto di maiale.

Come le linee immaginarie che nei quadri portano al centro della scena, tutto fa convergere l’attenzione verso la regina della casa, Astoria. Mi avvicino a lei, cautamente, guardandola con attenzione, dato che la conosco solo di nome e di vista.

Istintivamente, la prima reazione che ho al suo cospetto è un’inspiegata sensazione di gelo, come se fossi caduta nell’acqua ghiacciata di un lago. Mi riavvolgo stretta nel mantello, quasi a ricavarne una sorta di calore. Proseguendo nell’esame, però, concludo subito di non essermi persa granché: la moglie di Draco è una bella donna sicuramente, bionda, alta, magra, da un affilato sguardo azzurro. Ma non ha niente di più di questo, aggiungendoci anche il costoso vestito in broccato viola con ametiste coordinate in parure.

Pare semplicemente… ornamentale.

Seduta nel salotto come una regina in trono, ride stupidamente con le sue amiche, portandosi vezzosamente una mano curatissima sulla bocca, mentre addenta pasticcini alla fragola e panna, che nemmeno Maria Antonietta nel film della Coppola. Trattiene spesso per un braccio un ragazzino che, dopo essermi avvicinata, si presenta con la sua somiglianza con il padre: deve trattarsi naturalmente di Scorpius Malfoy, versione imbronciata. È lui ovviamente che studio meglio, considerando la cotta di mia figlia. È un ragazzino grazioso, dal volto ancora efebico e fanciullesco: ha i capelli biondissimi come quelli del padre, lisci e lucidi esattamente come i suoi. Gli occhi, invece, non hanno i toni grigi di Malfoy senior, ma quelli azzurri della madre, qualcosa che ne addolcisce molto lo sguardo, rendendolo meno affilato di quello del padre. Sembra piuttosto alto per la sua età, cosa non molto percettibile adesso, visto che è seduto scompostamente, mentre sbuffa all’indirizzo della madre, sgualcendosi continuamente il completo di velluto verde bottiglia, cosa che Astoria non manca di fargli notare nelle pause tra le sue risate stridule.

Quel piccolo moto di fastidio, più che giustificabile di fronte all’idiozia di quella donna, me lo rende simpatico oltre misura, facendo onore alle scelte sentimentali di mia figlia Rose.

Come diamine ha fatto Malfoy a sposarsela, Dio santo…

E’ quel pensiero che, prepotente, mi riporta alla mente il motivo della mia visita, dopo che le luci e i colori sembrano avermi annebbiata e offuscata, come una falena ipnotizzata. Esplode in quel momento la mezzanotte, annunciata da una cascata di petali rossi ed argento che invadono la casa di odore di rosa ed anice, cosa che riacuisce la mia nausea. Mi guardo attorno per qualche secondo, ma, mentre scoppiettano attorno a me abbracci ed auguri, mi rendo conto che Malfoy non è qui, nel salone, con famiglia ed amici.

Mi allontano bruscamente dalla stanza, timorosa che qualcuno mi urti, facendomi scivolare via il mantello o rivelando semplicemente il mio essere corporea ma invisibile, e resto poggiata allo stipite della porta, osservando tutte quelle manifestazioni di affetto eccessive e sguaiate. Per un attimo, penso a quelle che mi sto perdendo io, a casa mia, e mi chiedo ancora che cosa ci faccia qui a spiare la vita e la presunta felicità altrui. Seguo tutte le linee paonazze di quei volti per un po’, giocando a riconoscere qualcuno che conosco ed aspettando che Malfoy compaia a salutare la sua famiglia augurando loro “Buon Natale”, ma i minuti passano e lui non ricompare, apparentemente senza che nessuno se ne preoccupi.

Il posto designato è vuoto e noi siamo altrove.

La somiglianza tra me e lui mi colpisce infida alla bocca dello stomaco, la metto a tacere mentre intercetto il dialogo tra Scorpius e la madre.

“Mamma, non dovrei andare a chiamare papà?” chiede il ragazzino speranzoso, ballando sui piedi dalla voglia di allontanarsi.

Astoria, con un tono severo ma al contempo stridulo come quello di un’aquila in posizione di combattimento, parte con un’invettiva contro il marito che, nel caos generale, non sento appieno. Distinguo solo l’ammonimento a Scorpius di non muoversi da lì e l’imprecazione contro Malfoy a starsene di sopra a fare l’asociale snob.

E’ di sopra, quindi.

Di corsa, vogliosa anche io di fuggire dalla confusione generale e dal timore che qualcuno mi sfiori per sbaglio, salgo velocemente la scala di marmo, coperta da un lunghissimo tappeto verde di velluto che attutisce i miei passi. Quando la scala termina e metto il piede sull’ultimo gradino, i suoni provenienti dal piano inferiore cessano all’improvviso, facendo cadere la casa nel silenzio più fondo, come se non ci fosse nessuno a parte me.

Mi volto bruscamente su me stessa, distinguendo sempre la folla di persone che ballano e festeggiano appena ai piedi della lunga scalinata, le cui labbra si aprono e chiudono senza produrre alcun suono. Anche la musica non si sente più.

Un incantesimo Insonorizzante. Ed anche di quelli potenti.

Il primo piano del Manor sembra somigliare maggiormente a quello dei miei ricordi. Tappezzeria rosso sangue, legno scuro di porte, quadri nei corridoi dall’aspetto antico e prezioso con raffigurazioni di scene di lotta o caccia, senza contare i numerosi ritratti di progenitori ed antenati defunti. Al posto d’onore, con un mazzo di rose bianche dall’odore pungente, torreggia il ritratto di Lucius Malfoy nel pieno della grazia e della gloria: non è un ritratto magico, resta fermo nella stasi del tempo, come le fiamme del camino alle sue spalle che si riflettono negli occhi grigi.

Cerco di indovinare dove si possa nascondere Malfoy e quale possa essere la sua stanza, facendo anche affidamento sui miei antichi ricordi della mia prigionia qui: in realtà, non trovo nulla di utile, considerando che nella mia spiacevole permanenza, ero stata gentilmente parcheggiata nelle segrete per quasi tutto il tempo.

Cammino cauta nel lungo corridoio, attenta agli scricchiolii sul parquet, accostandomi ad ogni porta per cercare di captarne qualche rumore all’interno, fino a quando l’ultima porta fa filtrare ai miei occhi una piccola lama di luce ondeggiante assieme a delle voci sussurrate ed attutite.

Resto con la mano tesa, quasi con l’intento di bussare e di annunciare la mia presenza, ma invece rimango immobile, congelata, ascoltando anche contro la mia volontà. Distinguo infatti nettamente due voci, la prima è indiscutibilmente quella di Malfoy, profonda, roca, strascicata, come se si annoiasse anche ad aprire bocca. Mio malgrado, riconoscere la sua voce mi fa sudare freddo e caldo assieme, aprendo di istinto la dimensione enorme di quello che vuol dire la mia presenza qui, in casa sua. La seconda voce, invece, è sottile, lieve, impercettibile, marchiata di dolcezza femminile frammista ad un tono amaro e sarcastico: è davvero difficile sentirla compiutamente, attraverso la porta chiusa. Pare solo un sospiro leggero, poco più forte di quello che serva per respirare, e ne intuisco le parole solo da quello che dice Malfoy in risposta.

“Avevo pensato che, di comune accordo, avessimo lasciato le paternali all’infanzia…” sta dicendo adesso Malfoy, il tono scocciato e slavato, come se non gli appartenesse davvero. Credo che ci stia mettendo dentro tutte le tracce della noia al rimprovero subito, ma qualcosa filtra comunque, qualificandosi indubbiamente come una nota fonda di malinconia e tristezza, così insopprimibili da scappare fuori.

La donna sussurra di nuovo qualcosa, ma ancora fatico ad intendere che cosa stia dicendo. Le parole stavolta vengono smorzate da un colpo roco di tosse, così forte da sembrare che la pieghino in due. Avverto dei rumori nella stanza, come se Malfoy si fosse alzato e fosse andato a prendere qualcosa, probabilmente un bicchiere d’acqua.

Quando la crisi sembra passata, lo sento riprendere incolore: “Lo vedi che succede ad eccedere nelle tue cure materne non richieste? Lasciami campare sereno, madre”.

Madre… certo, naturalmente… Narcissa Malfoy. Vive ancora con loro, dalle parole di Teddy lo dovevo intuire. E da quello che ci ha detto lui… non sta bene di salute. Ecco perché Malfoy è qui… è rimasto con sua madre.

Un groppone di inaudita tenerezza mi si arena non richiesto in gola, alla maniera di un peso troppo grande che non riesco a deglutire. D’istinto, mi torna in mente la malattia di mio padre e la sua morte cinque anni fa, cosa che mi spinge a trattenere le lacrime, già germogliate sotto le palpebre chiuse. Mentre ricaccio indietro quel ricordo, mi colpisce lo slancio di empatia che avverto per Malfoy e, sebbene vorrei provare disagio ad immaginarlo figlio sconvolto dalla malattia della madre ma così devoto da trascorrere quanto più tempo possibile con lei, stranamente non sento nulla di inconsueto ad immaginarlo così. So del legame con sua madre, l’ho sempre saputo. In fondo, Cissy rinnegò Voldemort solo per il bene di suo figlio. E Malfoy trascorre il tempo alla Tana, anche se aborrisce solo l’idea, perché sua madre ha chiesto che lui seguisse il matrimonio di Teddy.

L’amore puro e sincero che si dimostrano, non potrebbe quindi stupirmi.

Mi stupisce solo che, al pensiero che lui trascorra qui la sua notte di Natale, lontano dal lusso e dallo sfarzo che sua moglie ha garantito per loro, mi paia tutto inevitabile, come se fossi certa che Malfoy di fronte all’agonia della madre, non l’avrebbe lasciata sola un istante. E non so questa certezza da dove arrivi se ho sempre pensato il peggio possibile di Draco Malfoy.

Sposto il peso del corpo da un piede all’altro, quasi vergognandomi di me stessa e dei miei pensieri, sebbene siano i migliori che abbia avuto da anni a questa parte su Malfoy. Un rossore incomprensibile mi raggiunge le guance al pensiero.

Dentro, intanto, sento un tramestio di passi e qualche raccomandazione solerte, prima che la porta si apra, accompagnandosi ad un “Buonanotte” soffocato di Narcissa. Faccio appena in tempo a scartare di lato appiattendomi contro il muro, che Malfoy esce dalla stanza con un ultimo sorriso acido all’indirizzo della madre ed un altro motteggio ironico. Entrambi scompaiono come fumo, non appena si richiude la porta alle spalle.

E’ vicino, molto vicino, così tanto che sento distintamente l’odore del costoso dopobarba che deve avere indosso. Sotto il mantello, non visibile, mi chiudo la bocca con le mani per impedire che qualche respiro di troppo caschi fuori, facendomi scoprire.

Perché ogni sacro fuoco che mi ha spinto a venire qui, improvvisamente, si è spento come una candela smorzata dal vento, solo guardando Malfoy.

Non è mai meno che inappuntabile: il completo grigio che indossa, fa risaltare i suoi occhi in modo quasi fastidioso, e la cravatta non allacciata che pende sulla camicia bianca, gli danno un’aria ancora più strafottente del solito. Tutto sicuramente calcolato, per sembrare al meglio possibile e suscitare le reazioni femminili. Non ne dubito.

E… insomma, ci riesce. Inutile negarlo. Può essere uno stronzo di prima categoria, ma resta uno degli uomini più affascinanti che conosca. Vorrei davvero trovargli un difetto, ma non è possibile, ho già chiarito mentalmente che è decisamente un bell’uomo.

Stasera, però, non è questa la prima cosa che noto di lui. 

Chiunque, con un pizzico di cuore, noterebbe di più.

Sebbene esteriormente paia assolutamente perfetto, ad un’ulteriore occhiata vedo molto di più di quanto vorrei, qualcosa che mi stringe le viscere come se fossero in una centrifuga.

I suoi occhi, prima di tutto. Non so perché, ma da quando l’ho rivisto, sono sempre la prima cosa che guardo di lui. Non saprei dire per quale motivo. Sono occhi di solito affilati, profondi, di quel colore così particolare che ancora non mi capacito che, a scuola, non guardassi continuamente. Possibile che a scuola non avessi mai notato che avesse gli occhi… così?

Oggi, però, sono occhi stanchi, morti, di vecchio consumato. Sono incolori, circondati da un alone rosso che fa spiccare il grigio, ma in modo fastidioso quasi, come se non gli appartenesse davvero.

E più guardo i suoi occhi, sotto il mantello che mi protegge, e più lo stomaco mi stringe una morsa d’acciaio. Non riesco a smettere di guardarli con il fiato sospeso, immobile, ipnotizzata come le vittime del serpente. Le guance paiono più scavate, più magre: l’osso dello zigomo spicca come un’escrescenza sbagliata. Le labbra sottili sono biancastre, come quelle di un ammalato.

La giacca ha delle pieghe evidenti, come se ci avesse dormito dentro, e curiosamente, quando lascia la stanza tutto sommato flemmatico e pacato, sembra avere persino il fiato corto, come se avesse corso per ore.

La prima cosa che fa, quando si chiude la porta alle spalle, è poggiarsi con la schiena contro di essa, massaggiandosi con l’indice e il pollice lo spazio tra gli occhi. Sembra stanchissimo, il torace compatto sotto la camicia bianca va su e giù più volte di quante possa contare. Non piange però, come mi aspetterei, come ricordavo che Malfoy era solito fare quando eravamo a scuola per ogni più piccola sciocchezza: metteva su quel broncio ridicolo da moccioso, piagnucolando molesto.

Stavolta, Malfoy non piange per nulla, sebbene sembri che il dolore lo stia saturando come in un’overdose. Resta solo lì, immobile, a sfregare le dita contro la fronte, aprendo e chiudendo ellissi, come a far scivolare l’ansia e la preoccupazione lontane in un punto dove facciano meno rumore.

Poi, come se non ci riuscisse, si lascia cadere per terra a peso morto, scomposto, senza minima cura ed attenzione. Resta a capo chino, la testa tra le mani, sempre con quel respiro corto, quasi rantolante, le gambe piegate e lievemente divaricate.

Qualcosa, dentro me stessa, non so dove, si spezza, producendo un rumore che le mie orecchie sembrano persino udire distintamente. Pare un fragore assordante di vetri, o alternativamente il soffio lieve di un petalo di fiore che casca al suolo. Ed un secondo dopo, solo un secondo dopo, sento che non sono più in grado di chiamarlo mentalmente Malfoy.

Come se questa immagine, questo dolore, fosse incompatibile con tutto quello che di lui ho sempre pensato e creduto. E che corrispondeva a quel nome, a quel cognome, a quella liquida seguita da una spirante che tanto mi irritavano le orecchie, mentre lo ripetevamo nelle aule gremite, nei corridoi vuoti, nelle sale calorose, dandoci sempre quel tono asprigno come se fosse l’origine di ogni male. Dentro quel “Malfoy” stava ogni germe di marcio, sordido, sporco, malevolo.

Nemmeno di malvagio, che per il male vero e proprio ci vuole uno scatto maggiore di purezza sorda, cieca. Solo di ipocrita, utilitarista, privo di qualsiasi slancio di volizione e sentimento che non fosse puro e semplice calcolo e vantaggio.

Qualcosa che ho sempre scelto di ignorare, perché non ne valeva la pena.

Ora… non riesco a smettere di guardarlo, come una bestia esotica in uno zoo.

Non posso ignorarlo. Mai. E non posso chiamarlo più Malfoy.

Lo ripeto nella mia testa il suo nome, come se lo conoscessi solo ora, come se quel dolore dipinto sul suo viso me lo presentasse adesso come una persona nuova.

Draco. Scivolano come biglie lucide e rapide le lettere del suo nome. Il loro sapore nelle mie labbra pare qualcosa a cui sono assuefatta, sebbene il suo nome non l’ho mai pronunciato compiutamente neanche a me stessa. Vibra la sillaba iniziale, facendo sussultare anche me sottopelle, come se qualcuno mi sussurrasse segreti e sospiri sulla pelle tenera dietro le orecchie. Draco. Draco. Draco. Lo ripeto ancora, senza controllo, senza intenzione, la bocca che lo mima persino, senza emettere un solo suono. La memoria si dimena sconfitta alla ricerca di un’intimità che non comprendo, che il mio cervello non capisce.  

“Hai deciso di farti vedere o devo iniziare a parlare con la credenza, fingendo che tu non mi ascolti?”.

La voce di Draco mi sorprende come un petardo nella notte, facendomi sobbalzare. D’istinto faccio un passo indietro e lo guardo da sotto il mantello, cercando di intuire se stia davvero parlando con me, o se invece qualcuno non sia spuntato nel corridoio senza che me ne sia accorta.

Ma Draco guarda proprio nella mia direzione: gli occhi grigi, ancora un po’ rossi sul fondo, saettano a destra e a sinistra nel punto dove sono io, cercandomi nella magia invisibile del mantello. Medito di fingere silenzio, di restare al sicuro dentro l’indumento incantato. Poi con un sospiro lungo e fermo, me lo faccio scivolare di dosso. Fruscia via come una pelle vecchia.

Mi incasso nelle spalle distogliendo lo sguardo da lui, piena di imbarazzo: “C-come… ti sei accorto… che… e-ero q-qui?”. Pigolo come una bambina, rossa in viso come se stessi andando a fuoco. Mi concentro completamente sul quadro appeso al muro accanto a me, personificandomi completamente nella donna bionda che, per sempre, sarà sospesa nel momento di distendere la gamba verso il cielo in un complicato passo di danza.

“Granger, respiri così rumorosamente da poterti esibire nell’imitazione di un mantice in piena attività…” borbotta Draco, la sua voce appare più stanca del solito e vibrata come se la tenesse con tutte le sue forze ferma, non riuscendoci appieno. Quando mi azzardo a tornare a guardarlo, sbuffa come disgustato e soggiunge caustico: “E quel tuo dannato profumo… lo riconoscerei pure ad occhi chiusi, odori come uno stramaledetto cupcake”.

In tutte quelle parole, Draco non ha accennato minimamente a sollevarsi in piedi. Resta seduto per terra, scomposto, i capelli spettinati e gli occhi sbiaditi. Mi sento come se lo stessi spiando dal buco della serratura, cosa che a conti fatti non è nemmeno così lontana dal reale. Il rossore del viso aumenta ancora di temperatura, diventando una specie di fiammata incandescente che si propaga dal mio viso, raggiungendo collo, spalle e schiena.

Ballando sui piedi che non so tenere fermi, mormoro rapida presagendo il resto: “Giusto per curiosità preventiva… hai intenzione di Schiantarmi per aver messo piede qui, stasera, nel bel mezzo dei festeggiamenti di Natale?”.

Draco in modo imprevisto ridacchia tra sé e sé in modo tenue e pallido, cosa che mi spinge in modo automatico a sentire le ginocchia scricchiolare, come se stessi per perdere l’equilibrio. E’ una sorta di riflesso condizionato, quasi incontrollabile. Lo guardo in viso, mentre distoglie gli occhi, puntandoli su una crepa del parquet ebano.

La segue con le pupille, apparentemente catturato da essa, come se fosse la cosa più interessante del mondo. Poi, quando oramai mi sono rassegnata a non avere risposta, biascica acido: “Granger, se avessi voluto Schiantarti, lo avrei fatto dieci minuti fa, quando ho riconosciuto l’odore di quella mistura alla vaniglia nel corridoio. Non ti avrei fatto cominciare anche a parlare. Non è che brami l’emicrania che mi procurano anche solo quattro sillabe pronunciate con la tua voce celestiale…”, sospira esausto, la voce cascata fuori solo per abitudine “Si chiama masochismo un comportamento simile… e necessita cure psichiatriche serie”.

“Penso che trarresti comunque giovamento da delle cure psichiatriche serie” brontolo in risposta, il mio tono gemello del suo. L’insulto è fiacco, sfibrato, confezionato solo per reggergli un gioco che, senza accorgermene, ho cominciato a tenergli. Fingere di non vedere i tuoi occhi, grigi e rossi. Fingere di non sentire la voce, che soffi fuori come se non ti appartenesse. Fingere di non indovinare il sapore amaro che ti lega i denti, come una medicina cattiva. Nonostante tutto, cercando conferme nei suoi occhi, lentamente mi chino e mi siedo nel corridoio accanto a lui. Il suo sguardo non dice né sì, né no. Sospira e basta quando prendo posto a poca distanza da lui, osserva le mie scarpe nere di vernice, di nuovo senza vederle davvero. La mano che tiene poggiata per terra, sulla mattonella scura, pare bianchissima, sotto la pelle le vene sembrano strade nere nella foresta.

Di un altro, di un amico, avrei preso quella mano tra le mie.

Di te invece che si fa, Draco?

Di questo dolore impossibile che noi figli sappiamo che arriverà, prima o poi?

Perché sei qui da solo? Al punto da lasciarci me vicino a te? Non ci dovrebbe essere una moglie, un figlio, un fratello, un amico?

Possibile… che tu sia così solo?

Da permettere persino a me di sederti accanto nella notte di Natale?

Quando parla di nuovo, ha la voce un po’ meno torbida e un po’ più chiara, cosa che lo fa somigliare di più a sé stesso. Mi guarda in tralice raddrizzando la schiena contro la porta della camera di sua madre, prima di bofonchiare: “Ed ora che hai sparato la tua battuta comica dell’anno, gradirei sapere che cosa ci fai qui. A casa mia. Con il Mantello dello Sfregiato addosso. Se sei venuta a rubare qualcosa per il cenone della tua famiglia, la mia deliziosa consorte sarà lieta di elargirti le cibarie avanzate… conoscendo la mia carissima Astoria, dovrebbe essere rimasto il necessario per la sopravvivenza dell’intero continente subsahariano per otto mesi”.

Terrorizzata, sgrano gli occhi e allontano di nuovo lo sguardo da lui, fissandolo sui miei polpacci semipiegati sotto le cosce. Meccanicamente, come mi è stato insegnato sin da bambina, controllo l’orlo della gonna e lo tiro in basso. La vista del vestito rosso di velluto, con l’orlo nero e lucido, mi riporta alla memoria il cenone di Natale che ho lasciato alla Tana: i miei figli, mio marito, i miei suoceri, i miei cognati.

Quella che, sempre, è stata casa mia.

Invece ora sono qui, seduta per terra in un corridoio silenzioso, in una casa dove sono stata torturata da ragazzina, con un uomo che non è mio amico, che non è nulla per me. Mi salgono agli occhi piccole lacrime di impotenza, che cancellano dalla mente persino il motivo che, fino a poco fa, mi animava e che mi aveva fatto correre qui nel cuore della notte.

Come se non avessi davvero posto dove andare. E mi adattassi a stare in un posto che, con me, non c’entra niente solo per convincermi di poter stare da qualche parte.

Quella consapevolezza mi graffia dentro come le unghie di un animale selvatico. Brucia di sale e fuoco come una ferita che sanguina, saturando di liquido i polmoni che faticano a respirare. Mi stringo nelle spalle, la bocca asciutta, incapace di parlare, di dire qualsiasi cosa. Il silenzio si espande come un veleno atmosferico, tossico e letale, grattando nella mia faringe.

Fissando il pavimento, riconosco lo stesso parquet della mia tortura.

Ed, ancora, il respiro mi si blocca, soffocandomi, costringendomi ad un colpo di tosse più forte per riprendere a raccattare ossigeno.

“Parla, Granger. Muoviti” Draco mi incalza, la sua voce ad ogni sillaba recupera il nitore consueto che io invece vado perdendo. Lo vedo con la coda dell’occhio persino muoversi un po’, volgersi al mio viso, serrare la mascella e sputare fuori velenoso: “Non sono nell’umore adatto perché mi affibbi un’altra gentile etichetta. Dopo assassino, vogliamo salire di livello a mostro, serial killer, traditore? Ecco qua, ho già fatto tutto il tuo nobile lavoro. Vattene a casa prima che mi torni lo spirito per commentare che sei qui, quando dovresti essere tra i tuoi straccioni a farvi i santissimi auguri di Natale”.

Gli auguri di Natale. Le tavole imbandite. Candele rosse e vischio un po’ secco.

Ron che mi urla di tutto, perché oso difendere la famiglia Malfoy e l’amore virginale di mia figlia Rose per uno di loro.

Il coraggio torna come una vampata prima calda e poi fredda, accendendomi il viso e gli occhi. Mi volto verso di lui che mi guarda sorpreso, gli occhi artigliati su una domanda che non osa pormi. Ne leggo ogni parola nelle sue iridi, seppure non sappia che cosa vogliano dire. Stringe d’improvviso le palpebre come vittima di una fitta di dolore, chiude la mano sulla camicia bianca all’altezza del cuore.

“Ho bisogno di farti una domanda. Una sola. E poi andrò via, te lo prometto” sussurro rapida, sporgendomi verso di lui, approfittando del suo silenzio. Le mani, con cui ho fatto leva sul parquet per issarmi in avanti, sono bollenti contro il pavimento ghiacciato, il cuore mi assorda con il suo battito.

“Una domanda? Sei qui per una domanda…” constata Draco asciutto guardandomi di sbieco, nelle sue parole vibra tutta l’idiozia che percepisce nella mia motivazione. Per un attimo, mi studia persino meglio, gli occhi socchiusi e sospettosi, come se cercasse altro oltre quella sterile giustificazione. Probabilmente, ciò che legge nei miei occhi lo convince che si tratta della verità.

Di nuovo, spasima stanchissimo, portandosi annoiato una mano tra i capelli: “E cosa ti fa pensare che, ammesso che voglia risponderti, sarò sincero? Mentirei. E’ il minimo…”, incassa di nuovo un lungo sospiro tremulo, prima di fissare il quadro di fronte a lui e ripetere ironico: “Ho una reputazione da difendere. Credo che sia rilevante per me sapere se sono ancora il più grande bugiardo della storia del mondo magico… ho appena liberato uno spazio per la targa sul camino… Potter me la deve da tempo…”.

Un deja .

La sensazione assolutamente incomprensibile di aver già vissuto questo momento.

Sebbene sia impossibile.

“Non credi di sopravvalutarti troppo?” In fondo, c’è sempre Peter Minus in lizza… Zabini, la Parkinson e mezza casata Serpeverde… un sacco di Mangiamorte… la concorrenza è notevole, non sono affatto certa che tu sia il migliore…” mi sento dire con una parte remota della mia mente.

Gli studiosi lo chiamano “inganno emotivo”: la situazione che si sta vivendo, con tutti i suoi correlati emotivi, richiamerebbe un’altra situazione simile vissuta precedentemente. In realtà, quindi, sarebbero le emozioni di quella determinata esperienza che sarebbero state già vissute, non propriamente l’esperienza in sé.

“Invece io ne sono sicurissimo… sarebbe un duro colpo per la mia immagine… e comunque non c’è nessuno abbastanza abile come me… la targa la vincerei più e più volte… il sangue conterà qualcosa, no? Sono sempre il figlio di Lucius Malfoy… nel multiforme mondo della menzogna è indubbiamente una garanzia…”.

Nonostante gli studi abbiano condotto ad una spiegazione più prettamente scientifica, qualcuno ritiene ancora che il Dejà sia una sensazione che viene provata quando ci si trova esattamente dove si dovrebbe essere. Come se fosse un punto di congiunzione fra il percorso tracciato dal destino, e quello che realmente si sta percorrendo.

 “Questo si chiama nepotismo, Malfoy…”.

“Questo veramente si chiama DNA, Granger…”.

Mi riprendo da quelle stupidaggini mentali con decisione, tornando alla ragione. Se è vero che io stasera debba essere qui per un supposto disegno divino, è perché Draco Malfoy sembra sul serio non avere nessuno. Ed io, in fondo, non sono così stronza da lasciarlo da solo. La familiarità che provo è un mero riflesso della giustificazione che mi sto dando per non essere così concreta e pratica da mollarlo al suo destino. 

Una parte del nervosismo che mi hanno messo quei pensieri soffia dentro le mie parole. Le pronuncio inacidita, stizzita, convinta sommamente di essere nel giusto. Schiocco la lingua arrogante prima di dire: “Sarai sincero, Malfoy. Lo so. Non ti avrei ferito tanto l’altra sera con le mie parole, se non fosse stato così”.

Lui mi guarda con un sorriso sarcastico, come se avessi appena detto che la terra è quadrata ed interamente composta da formaggio francese. Soggiunge profondamente scocciato: “Tu non mi ferisci, Granger. Al massimo mi annoi. Come stai facendo in questo momento. Avanti, datti una mossa. Che vuoi sapere?”.

I suoi occhi mi osservano profondi, non so come facessi a guardarlo a scuola senza la sensazione di una sciabola puntata alla gola, pronta a squartarti la giugulare. Con quello sguardo, sembra arrivare fin dentro la mia testa, dentro un punto morbido e delicato che non conosco nemmeno io.

Una parte di me ne è terrorizzata, un’altra… pure.

Perché non riesco a smettere di guardarlo, anche se mi fa sentire così.

Sono arrivata al punto che mi piace persino essere guardata da un altro uomo che non sia mio marito? Lo penso immediatamente con sgomento, negandolo cinque secondi dopo.

Draco Malfoy non mi guarda con alcun tono di desiderio, attrazione o possesso fisico.

Ci mancherebbe.

Ha piuttosto degli occhi… curiosi. Persino nel rossore di un pianto che ancora reprime, mi osserva come se inseguisse qualcosa. Sento distintamente anche adesso lo sguardo che scorre indagatore sulle mie palpebre, sulle ciglia, sul naso, sulle guance, sulle labbra.

Contrae lo spazio tra le sopracciglia come se quello che vede non gli dia ancora una risposta.

Vorrei vedermi attraverso i suoi occhi per capire che cosa sta cercando e cosa non trova.

Presagendo che il silenzio stia durando fin troppo lasciandomi immobile a fissarlo, torno a guardarmi le mani che torturo in grembo, l’intimità di quella situazione che mi abbaglia d’un tratto. Vogliosa di finirla quanto prima, mormoro senza preamboli: “Lo avresti ucciso sul serio, se avessi potuto?”. Non specifico di chi sto parlando. Lo sa. Lo deve sapere. Se non capisce che sto parlando di Silente, è già un’ammissione di colpa.

Vuol dire che stava per uccidere qualcun altro, forse stavolta riuscendoci.

“Neanche se avessi avuto tutto il tempo del mondo” la sua voce non tarda nemmeno mezzo secondo di riflessione, convincendomi più di tutto il resto. Suona stentorea, potente, come se quelle parole se ne fossero state nel suo petto in attesa di qualcuno che, davvero, gliela facesse questa domanda. E, chissà perché, sono certa di essere arrivata per prima.

Una specie di assurda felicità, come un formicolio sotto la pianta dei piedi, mi colpisce imprevista, portandomi automaticamente a sorridere. E’ un sorriso strano, antico, quasi dimenticato. Non ricordavo di averlo nella mia scorta di gesti ed espressioni.

Gli credo subito, senza sforzo. Senza nemmeno pensarci. Senza nemmeno chiedermi perché.

“Volevi… sapere solo questo, Granger?” mi chiede autenticamente meravigliato, sorpreso. Non lo guardo ancora in faccia, timorosa che veda ancora quel sorriso sul mio volto e lo usi a suo favore. Mi rendo conto che, però, lui lo vede lo stesso, non ha mai smesso di guardarmi un attimo. Quindi sollevo gli occhi, atteggiandomi ad un viso più quieto: “Sì…”.

Ancora, Draco mi guarda in attesa di qualcosa. Ha una sorta di delicatezza negli occhi che, addosso a lui, pare sbagliata. Dopo un po’ di estraniamento, però, mi sembra invece necessaria. Di nuovo, passa qualche secondo prima che riprenda a parlare, mi si socchiudono gli occhi nel guardarlo in viso, come se fossi sotto una luce troppo forte. Mi vedo dall’esterno, seduta per terra con lui accanto, e per la prima volta spero che non arrivi nessuno a pensare cose strane.

A me sembra tutto naturale e normale, ma so che non è così che potrebbe sembrare. Continuo a dimenticare che è la notte di Natale, che entrambi dovremmo essere altrove. Per la prima volta da ore, mi chiedo se la mia famiglia non mi stia cercando. E prima della preoccupazione per la loro ansia, giunge il sollievo di sapere che non mi cercheranno mai qui.

Basta questo cauto sollievo a farmi distogliere lo sguardo, mentre Draco, con un colpo di tosse, mormora con voce aspra, come se avesse indovinato i miei pensieri: “Volevi sapere solo… questo… la notte di Natale? Dire che hai un tempismo ottimo è un eufemismo, Granger… suppongo che le ricorrenze dalle tue parti siano così patetiche che ad ogni piè sospinto mediti la fuga”.

L’incantesimo soffuso che ci avvolgeva si rompe improvviso, come se uscissimo dal guscio imberbe di una pelle nuova. Sento distintamente il moto di bile che mi sale lo stomaco e la sua voce mi appare più stridula di quanto ricordassi.

Roteo gli occhi ovvia, incrociando le braccia nervosamente: “Non essere idiota. L’ho fatto… per Rose. Lei… sembra che si sia affezionata a tuo figlio, a Scorpius…”, esito un attimo prima di continuare, ma poi per difendermi proseguo senza esitazione: “Oggi, a tavola, Ron ha cominciato a…”.

“Ad insultare tutta mia progenie, con gli epiteti più variabili?” completa lui canzonatorio “Mi sento meno in colpa per aver cambiato tutte le parole di Weasley è il nostro Re!, per renderla una nenia che combattesse la stitichezza nel nostro gufo di casa”.

“Malfoy!” erompo scandalizzata, anche qui sono pienamente consapevole che non ha mentito. Sicuro che esiste sul serio questa canzone.

“Giusto… ho promesso di essere sincero. Non mi sentivo in colpa” pronuncia assertivo, prima di proseguire con tono dolciastro, simulando un sorriso falso mentre finge di chiudersi un bottone del polsino: “E quindi cosa, Granger? Volevi… difendermi?”.

Mi viene di nuovo da battere il piede a terra per il nervosismo che mi procura, ma mi impongo di rispondere calma e matura: “Voglio difendere i sentimenti di mia figlia. Non i tuoi. E potevo farlo solo… difendendo te e la tua famiglia. Ma non sono riuscita a farlo perché… in fondo, io stessa ti ho accusato delle stesse cose qualche giorno fa. E mi dispiace di averlo fatto. Sarebbe stato giusto parlarne anni fa di questo, invece abbiamo tutti lasciato che queste cose restassero a marcire sotto la cenere, finendo per far del male solo ai nostri figli, di riflesso…”, respiro a fondo prima di soggiungere: “Loro… devono essere liberi da tutto questo…”.

Lui, però, ignora volutamente tutto il senso del mio discorso, persino le scuse che mi sono costate parecchio in termini di orgoglio. Si allunga placido come un gatto sazio, incrociando le braccia con aria rilassata, canzonandomi con voce gongolante: “Ed ora quindi… ti ergerai come mia paladina verso il tuo marito straccione? Merlino e Morgana, ho avuto il mio regalo di Natale in anticipo… vorrei avere delle Orecchie Oblunghe per ascoltare il vostro prossimo delizioso scambio di opinioni”.

Prima dell’inevitabile fastidio di avergli servito un tale vantaggio su un piatto d’argento, una spina bollente di sollievo mi accende il basso ventre. Sta scherzando. La voce è la sua solita voce, strascicata e molesta. Gli occhi sembrano più chiari.

Per ora, almeno, non stai ripensando a tua madre.

Forse è questo il mio regalo di Natale.

“I Grifondoro sono degli idioti…” bofonchio, poggiando la testa sulle braccia piegate sulle ginocchia “Troppo altruismo senza corrispettivo”.

“Lo avrai il tuo maledetto corrispettivo, Granger…” mormora lui, offeso come se lo avessi accusato di non poter pagare un debito. Si spettina i capelli biondi ad arte, simulando nonchalance: “Chiedi e ti sarà dato”.

Ci penso su qualche istante, come se davvero stessi vagliando tra vari premi che mi sono stati offerti. Mi mordo l’unghia del pollice, non ho granché su cui riflettere in fondo. Mi viene scontato dire la sola cosa che ho in mente. Quella che, in fondo, è il vero motivo per cui sono venuta qui stasera.

Torno a guardarlo a conferma della serietà del mio proposito e delle mie parole. Draco, da qualche parte, lo capisce perché chiude le labbra già aperte per sibilare un altro colpo di ironia.

Non spezzate il loro cuore…” asserisco convinta, colorando le mie parole di un tono tra la preghiera e l’ammonimento. Lui sembra capirlo, arriccia le labbra con ferocia, mentre proseguo: “A Rose… e a Teddy. Ti sto affidando due delle persone più care che ho al mondo. Fa che io possa fidarmi di te. Ed io ti difenderò sempre”.

Di nuovo, non si lascia andare a nessuna rassicurazione. Anzi, questa volta pare persino offeso, volta il viso altrove e stringe un pugno sul parquet: “Solita Grifondoro con un tatto nullo per gli affari. Questo… lo avrei fatto comunque, checché ne pensi tu…”. Mi lancia un’occhiata traversa che mi fa sentire un’idiota, prima di riprendere casuale: “Però confesso di essere molto interessato a questa apertura di trattative, Granger. Potrebbe rivelarsi utile. Quindi, fingiamo che fossi intenzionato ad infliggere la peggiore sofferenza possibile ad Edward e alla tua mocciosetta…”, si porta le mani alla base del collo, emettendo dei versi strozzati di sofferenza: “Umpf, argh, che pena sarà non poter far loro del male. Impazzirò! Necessito di qualcosa di maggiore sul piatto per essere convinto”.

“Che diamine vuoi ancora?” scoppio frustrata, sbuffando.

Draco pare enormemente sicuro: “Aggiornamenti, Granger. Sul matrimonio del secolo, quello che tu tanto approvi ed appoggi…”, il tono melenso fa ovviamente riferimento alla nostra ultima conversazione, dove ha compreso che disapprovo tutto di queste nozze. Figuriamoci se non se lo ricordava. Lo incenerisco con lo sguardo, mentre prosegue con un’alzata di spalle: “Suppongo che la tua discussione matrimoniale nella notte più santa dell’anno, ti abbia mostrato abbondantemente quanto sono poco gradito. E quanto io poco brami ripetere l’esperienza di assideramento sulla terrazza fatiscente dei tuoi suoceri poveracci. Quindi, magari se mi aggiornassi sulle decisioni intraprese, potrei evitare di presentarmi ad ogni squallida riunione e chiedermi costantemente se non sto per essere avvelenato con la Burrobirra o con la semplice inalazione dell’aria fetida che respirano in quella stamberga, così piccola da far circolare anche l’aria”.

Quando sto già per aprire bocca ed urlargli di tutto, qualcosa mi colpisce con il lampo immediato dell’intuizione: quel qualcosa fa rima con un colpo di tosse che proviene dalla stanza di Cissy Malfoy.

Sta peggiorando. Non vuoi lasciarla sola. Neanche per una promessa fatta a lei.

L’intensità perdurante del suo sguardo mi fa capire che ci ho visto giusto.

Non lascio però filtrare nulla della mia consapevolezza, rispondendogli rassegnata e sfibrata, come una che decide di fare beneficienza ad un caso umano: “Sei di una simpatia contagiosa, Malfoy, santo cielo. Comunque… d’accordo, va bene. Ne beneficerà anche il mio sistema nervoso”.

“Quindi siamo pari”.

“Pari? E che vantaggi avrei da questa contrattazione, scusa?”.

“Mi vedi di meno, non spezzo i giovani cuori di Edward e Weasley-figlia, e mettiamoci , che ti devo anche un favore…” sciorina ovvio, contando sulle dita, prima di ripetere: “Chiedi e ti sarà dato”.

“Me lo terrò da parte, Malfoy. La sensazione di poterti chiedere qualcosa, in qualsiasi momento, è insolitamente piacevole”.

Mi guarda con un sorriso che non gli arriva agli occhi, sussurrando malevolo: “Mai fidarsi…”.

“…dei serpenti…” completo, stupendolo non poco “Lo so, lo so. Me lo hanno detto una volta”.

“Dunque… affare fatto?” conclude, alzandosi in piedi e porgendomi la mano destra.

Guardo incredula la sua mano, come se scottasse: “Vuoi anche la stretta di mano? Non ti appesto così?”.

“Mi sento particolarmente temerario…” mormora annoiato, guardandomi dall’alto in basso “Insolita combinazione di festività stucchevole, emicrania da moglie vanesia e madre moribonda: cogli l’occasione”.

Scuotendo il capo per l’assurdità del quadretto che è capace di dipingere con freddezza, mi sollevo da sola da terra, puntellandomi sulle mani. Poi, visto che resta ancora di fronte a me con la mano tesa, la prendo con la mia, la tentazione di fargli una linguaccia da bambina in risposta alla sua aria strafottente e fastidiosa.

Le sue dita, contro le mie, sono calde, bollenti, come mai avrei potuto immaginare.

O come ho sempre saputo?

Faccio in tempo a pensare solo questo, prima che, risorta come una peste medievale, la nausea scoppi di nuovo dal punto più profondo del mio petto, salendomi in bocca con un sapore marcio di segatura. Artiglio la mano di Draco, come se fosse la sola cosa che mi impedisse di cadere al suolo, distesa. Quando lo guardo, però, lo vedo come me: piegato in due, una mano contratta sul torace, boccheggiante come se stesse morendo sul colpo.

Vorrei aiutarlo, vorrei che aiutasse me, ma non riesco a muovere un passo. Ricadiamo entrambi al suolo in ginocchio, il tonfo mi raggiunge a malapena le orecchie, mentre mi pare che tutto si rovesci come se fossimo dentro una casa di bambole.

Ed è lì che, senza preavviso, mentre mi chiedo se non sto sul serio per morire, che accade.

 

Lampi. Lampi oro come occhi malati. Bianco. Bianco tutto attorno, non esiste quel colore, non può esistere. Non è mai esistito. “Il motivo che cerchi”. Un’altra mano nella mia, tutto tira dalla parte opposta. La mano no, la mano tiene, trattiene, sostiene. Svanisce, piango, non te ne andare, non mi lasciare. Sparisce. Scompare. Non è un’altra mano.

Si spezza tutto, mi spezzo io, si spezza il mondo. Alex. Alexander.

Salta nelle pozzanghere anche quando gli dico di non farlo.

Ancora oro, occhi con la pupilla stretta come quella dei gatti.

“…il giunger palma a palma è il bacio dei pii palmieri…”.

Non lo devo dimenticare.

Dimentico.

Occhi color dell’oro, lui ha superiori a cui far riferimento.

Tutto esce fuori dalla testa come se fosse, di nuovo, un sogno.

Resta qualcosa. Solo una cosa.

Lo chiamo ricordo.

 

Continua a tenermi per il polso, finché con un strattone mi solleva violentemente dalla posizione accovacciata in cui ero. Mi ritrovo in piedi davanti a lui, che mi trattiene ancora con il braccio sollevato, guardandomi negli occhi. Cerco di divincolarmi, adesso, mi sta facendo veramente male.

“Lasciami Malfoy! Ho capito, me ne sto andando!” urlo, graffiandogli con le unghie la mano che mi stringe ancora. Ancora, è come se non mi avesse sentito, mi guarda cieco e sordo di qualsiasi cosa, persino della repulsione che dovrebbe avere per il prolungato contatto fisico con me. I suoi occhi sembrano due pezzi di granito freddo, sembrano non guardarmi davvero, sono talmente pieni di odio che mi fanno rabbrividire. Mentirei, se dicessi che ci sono abituata. Non è vero, Malfoy mi guarda così per la prima volta. Sento qualsiasi cosa stia pensando sulla mia pelle, mescolarsi ghiacciata al mio respiro, opprimendo il mio petto. Liquidi e chiari come sono sempre stati, i suoi occhi sono gli specchi di qualsiasi cosa adesso affolli la sua mente. E non è una bella cosa, sicuramente. Mi sta facendo male, davvero, adesso, in tutti i sensi. Il polso pulsa, bianco, credo che me lo romperà alla fine. Sento persino una ventata di nausea colpirmi la bocca dello stomaco. Cerco di divincolarmi, di distogliere lo sguardo da lui, ma non ci riesco. È inutile, è come se mi tenesse incollata ai suoi occhi. Freud diceva che ci sono due istinti nell’uomo, quello alla vita, Eros, e quello alla morte, Thanatos. Come se fossi convinta che adesso mi ammazzerà e non facessi nulla per impedirlo, anzi ne fossi quasi attratta. Mi ucciderà così, come niente, senza nemmeno un urlo, e io me ne andrò, senza fare assolutamente niente.

 

Torno in me, il corridoio esiste ancora. Tutto esiste ancora. Anche io. Io esisto ancora.

Ma… anche l’altra… esisteva.

Anche l’altra... che ero io. Giovane, poco più di vent’anni. Occhi rossi, spalle curve, una maglia da calcio addosso, una camera in bianco e nero che non ho mai visto in vita mia.

Esisteva lei. Che ero io. Con quel dolore dentro, con quel fardello dentro, con quella paura dentro.

Di lui, Draco Malfoy. Più giovane anche lui, bello sempre, arcigno sempre, duro, scolpito nel ghiaccio come un dio crudele, enorme e gigante nella mia testa.

Esisteva anche lui.

Non lo guardo, lo sento solo. Anche lui, piegato in due come me. Lo ignoro, non mi importa.

La pelle del mio viso è bianca, terrea, sudata di freddo.

Piango, singhiozzo, non ho controllo.

Dico solo, tremando come una foglia: “Che diamine mi hai fatto, Draco Malfoy?”.

 

Ovviamente, come tantissime altre volte, questo capitolo giunge tardissimo. Naturalmente ci sono sempre scuse, spiegazioni e giustificazioni, ma questa volta ve le risparmio. Piuttosto, a scanso di tragedie, d’ora in poi cercherò di impormi sempre una scadenza per il prossimo capitolo, così da rassicurare voi e da gestirmi meglio io. Perciò, posso già dirvi che il capitolo 49 arriverà il 23 aprile. Detto questo, se ancora ci siete, io vi devo come sempre solo che ringraziare. Non smetterò di farlo. Le prime sono sempre le mie meravigliose, oramai, amiche del gruppo PUT A SPELL ON HER EYES. Ci sarebbe tanto e troppo da dire, ma in fondo lo sapete. Avete tutte un posto nel mio cuore. Dalla prima all’ultima. E non sarò mai meno che grata di avervi conosciuto. Poi, naturalmente ringrazio chi ancora recensisce questa storia, cosa che mi inorgoglisce parecchio e che meriterebbe delle risposte più articolate da parte mia. Mi riprometto sempre di farlo, ma puntualmente, forse anche per vergogna, non lo faccio mai. Ci tengo quindi qui a ringraziare velocemente fantasy666classics (grazie mille per il bellissimo augurio che mi hai fatto, spero sul serio di diventare una scrittrice un giorno, anche se ci vuole ancora moltissima strada da fare), shady_xx (Ilaria, tesoro! Grazie mille per la tua bellissima recensione, il lieto fine esisterà, tranquilla, è una cosa che ho sempre promesso. Essere paragonata alla saga di Kysa, mamma mia! E’ una cosa che non mi merito!), _Emme (cara, mi hai fatto una tenerezza immensa, pensando soprattutto a cosa ancora ti aspetta dopo il capitolo 37 che allora stavi leggendo! Grazie sul serio dei tuoi complimenti, sono felice che tu ti sia sentita così coinvolta anche se in maniera un po’ dolorosa. Andrà tutto bene, alla fine, promesso), sono le ultime recensioni che ho visto e a cui non avevo risposto, ma vi ringrazio sul serio. Che altro dire? Naturalmente, come mia abitudine, rinvio il POST SCRIPTUM con ogni domanda e spiegazione al gruppo facebook, così da non ammorbare questa pagina. Grazie di tutto, grazie come sempre, e grazie sempre.

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Capitolo 49
*** Disturbia, step three: about touch ***


RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo cinque anni di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei, anche se Hermione, in quel momento, non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i suoi amici giungono all’ultima dimora di Tatia Krasova, in Finlandia, dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff, compreso il presunto morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino. I due spariscono con il bambino, con l’oscuro ultimatum di tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche Alex. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio diIlai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte. Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e, secondo Adamar, avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di tornare indietro. La vita di Hermione e Draco è quella più classica che si possa immaginare: lei è sposata con Ron e ha avuto Rose ed Hugo; lui invece con Astoria da cui è nato Scorpius. I due, a parte lo sporadico contatto al binario nove e tre quarti alla partenza dei figli per Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive un matrimonio fatto di crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di qualcosa di normale. Una sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley confessano alla famiglia di essere non solo innamorati, ma anche in attesa di un bambino, motivo per il quale hanno deciso di sposarsi presto. Ed è a quel punto che ricompare Draco, la cui famiglia ha riallacciato i rapporti con Teddy e che è pertanto interessata all’organizzazione del matrimonio. Hermione e Draco si rivedono quindi, e sebbene alle associazioni di idee con la loro vecchia vita, lei provi nausea e lui un dolore al petto, entrambi sono assolutamente ignari del loro passato. Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del suo matrimonio, sfugge alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua volontà anni prima di uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per mancanza di tempo. Hermione, in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto, attorno a loro, forze misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme, l’onnipresente EvaDubois nascosta in mille fogge accomunate dal cameo della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane, apparentemente solo compagna di studi di Ginny, la quale sembra conoscere qualcosa dell’intricata faccenda in cui si trova Hermione. Emblematico, anche l’incontro con la rediviva Tatia, in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto una figlia di nome Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in Hermione. Specie nel fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che nel mondo da cui provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella lettera prima di morire e che Hermione aveva incantato per non perdere). La collana, in questo mondo, indica sempre il mare. Distrutta dal senso di colpa per la sofferenza che ha indotto a Draco con le sue accuse, Hermione accoglie il ritorno a casa per le vacanze natalizie della figlia Rose che le confessa di essersi innamorata proprio del figlio di Draco, Scorpius. La ragazzina, preoccupata della disapprovazione che il padre Ron potrebbe avere per Scorpius, chiede l’aiuto della madre che glielo promette calorosamente: la sera di Natale, però, durante un brindisi, Ron rimarca l’ostilità aperta verso la famiglia Malfoy, finendo per discutere pesantemente anche con Hermione, in aperta difesa di Rose che ne rimane molto ferita. Hermione va via dalla Tana e, in preda all’istinto più puro, finisce a casa di Draco, protetta dal Mantello dell’Invisibilità, per conoscere infine la verità sul tentativo di omicidio di Silente e rendersi conto se l’affetto della figlia, nonché di Teddy, siano ben riposti. Draco è completamente estraneo al clima di festeggiamenti della vezzosa e frivola moglie Astoria: è infatti chiuso nella stanza della madre Narcissa, gravemente ammalata. Nonostante Hermione indossi il mantello che la rende invisibile, Draco si accorge della sua presenza e i due hanno una lunga conversazione quasi amichevole, dove Draco ammette che non avrebbe mai ucciso Silente e Hermione, con sua somma sorpresa, non ha alcuna difficoltà a credergli, sentendo una continua fiducia nei suoi confronti che non riesce a spiegarsi. A suggello del momento, Draco ed Hermione si stringono la mano, giungendo senza accorgersene a trovare la scappatoia di Adamar, il fantomatico “giungere palma a palma” era un contatto delle loro mani, voluto da entrambi. Immediatamente nelle loro menti, ritorna un ricordo della loro vera vita: il momento in cui Draco usò la Legilimanzia su Hermione al Petite Peste, per cercare di scoprire se fosse a conoscenza di Serenity e di Helena. Il ricordo li sconvolge entrambi, ma soprattutto Hermione arriva automaticamente a pensare che Draco le abbia fatto qualcosa di male in un momento che non ricorda.

 

 

Capitolo 49: Disturbia, step three: about touch

 

25 dicembre ore 00,48

 

Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, lo aveva chiamato subito ricordo, non sogno.

La certezza si era instaurata nelle ossa, vibrante come la corda di una chitarra al termine di un assolo. Vibrava tutto, ogni cosa tra pelle ed organi, come se facesse risonanza con qualcosa di lontano, perso, apparentemente irraggiungibile.

I sogni sono concentrati tutti in un solo attimo fosco come nebbia: esiste un occhio del ciclone immobile nel quale esistono in modo tangibile. Tutto il resto, attorno, viene dimenticato.

Nei ricordi, invece, a guardarli bene si vede altro: la mente registra implacabile, ripropone scongelate prospettive di eventi che non si erano guardati bene.

E lei aveva visto tutto: tutto quello che c’era attorno a lei.

Una serie di cose accatastate assieme che, proprio assieme, non significavano niente ed in questo magari poteva sembrare la lucida follia di un sogno.

I mobili della stanza erano bianchi, gli accessori neri. La televisione era accesa, con il volume al minimo, creava ombre azzurre sui muri come se volesse mangiarseli. Su un letto c’era il peluche di un coniglio rosa. Dalla finestra, proveniva il suono ritmico e regolare della pioggia. Sul comodino, un calendario segnava la data di una festa a tema azzurro, lontana tredici anni prima.

Tredici anni prima: nessun sogno era così preciso.

Ma nessun ricordo portava l’etichetta di quel momento. Nessuno.

Mai lei, Hermione Granger, era stata così a ventitré anni.

Capelli lunghi, annodati in una coda, leggermente bagnati sulle punte. Una maglia da calcio babbana rossa. Corporatura più esile, molto più magra di quanto ricordasse di essere stata a quell’età. Era sicuro che avesse pianto, gli occhi splendevano di pagliuzze verdi sconosciute, al contrasto con il rosso che macchiava il bianco.

Dentro, non era stata mai così fragile Hermione: farinosa, sabbiosa, friabile come un biscotto secco che, solo a guardarlo di sbieco, si sbriciola selvaggio.

E Malfoy, quello che in un lampo aveva ripreso a chiamare così, l’aveva sicuramente sbriciolata.

Con quella mano stretta sul polso, con quell’irruenza sorda, con quella violenza scoperchiante e spavalda: certo, ovvio, tutto vero.

Falso, invece. Era tutto falso.

Hermione Granger, 36 anni compiuti, fu certa d’improvviso di una sola cosa.

Era stata sbriciolata, fatta a pezzi, dagli occhi pieni di odio di Draco Malfoy.

 

 

Le mani. Le sue mani.

Di primo acchito, come un richiamo ancestrale e necessario, guardo solo quelle.

Sono mani sottili, dalle unghie corte eppure curate, attraversate pallide da un tessuto di vene e capillari: sono mani di neve, ghiaccio, furia e tempesta, capaci di seminare dolore e morte se solo lo volessero. Mi ha detto di non averlo mai fatto, di non aver mai ucciso.

Gli credevo. Gli credo. O non più?

Sono mani di uomo che spezzano, percuotono, annientano.

Sono le stesse mani che, poco fa, se ne stavano poggiate fiaccamente vicino a me.

Sono le stesse mani che io, preda dell’istinto più semplice, avrei stretto tra le mie, in modo da consolarlo dal dolore imminente del lutto per la madre: e sono le stesse mani di cui alla fine avevo conosciuto il calore denso, all’interno di quell’accordo non verbale che avevamo siglato complici.

Ora io guardo quelle mani e cerco di indovinarne le loro impronte sulla mia pelle.

Su quella tenera e sottile del polso, su quella più ruvida e tracciata della fronte, su quella pulsante e bollente del collo: ogni pezzo della mia epidermide, d’improvviso, suda inquieta e mi suggerisce nuove dimensioni del dolore che potrebbe avermi procurato, per poi cancellarmelo dalla mente. Il quadro è così vivido, e rosso, e nero, che mi fa male solo ad immaginarlo, mentre si sveste come un cappotto pesante quella primitiva ed istantanea fiducia che avevo avuto poco fa per lui. Come una molla, scatto subito alla bacchetta nascosta sotto il vestito, la impugno forte, sebbene le mie dita tremano raggelate. Torno a guardarlo quando sono certa che i miei occhi non siano più lucidi, ma fieri, socchiusi, minacciosi, mentre ripeto in un sibilo: “Che diamine mi hai fatto, Draco Malfoy?”.

La sua vista, d’un tratto, sgonfia un po’ del mio intento bellicoso, facendo tremolare la pelle dietro le ginocchia. Mi ero aspettata un sorriso tronfio, uno sguardo soddisfatto, un ghigno perfido, mentre mi sputava addosso l’inganno crudele a cui mi aveva sottoposta. In fondo, una parte di me si aspettava anche che, nel suo diabolico piano, rientrasse pure lo scarto pacifico di coesistenza che abbiamo appena vissuto. Mi renderebbe persino più tranquilla sapere che è stata tutta una farsa, piuttosto che credere sul serio che sia così naturale stargli vicino.

Invece, a restituirmi lo sguardo è un uomo confuso, disorientato, autenticamente sconvolto. Lo guardo senza capire per qualche secondo, la bacchetta che si abbassa piano dalla mia mano tesa prima ancora che io l’abbia premeditato. Non aveva già la migliore delle espressioni precedentemente, ma adesso se possibile, pare ancora più a pezzi di prima.

Continua a stringere in modo frenetico e convulso con le dita la camicia all’altezza del petto, come l’ho già visto fare spesso come in una sorta di tic nervoso, mentre i suoi occhi sono catturati dal pavimento come un magnete irresistibile. Sotto le palpebre, subitanee come fulmini sul mare, paiono passare centinaia di schegge di un dolore diverso che lo annienta, annichilisce, sconquassa, come a volerlo rivoltare dall’interno verso l’esterno, alla maniera di una pelle consunta da gettare via.

Ho intuito che ciò che è successo a me, è accaduto anche a lui.

Il ricordo.

Ma la sua reazione mi induce a pensare che abbia visto o sentito qualcosa di diverso da me, qualcosa di feroce, terribile, cruento. Quando torna a guardarmi, pare cercare qualcosa nel mio viso in modo disperato, è come se soppesasse la mia figura alla ricerca di qualcosa che non vada. Scivola sul viso, attraversa le braccia, giunge alle gambe coperte dalle calze leggere. Non c’è lascivia, desiderio, interesse.

Solo… terrore smisurato. Cosa diamine sta cercando?

Sta… cercando di capire se… sto bene?!

La domanda retorica a me stessa giunge così di sorpresa alla mia mente, da scoppiettare come un petardo acceso. Deflagra insolente tra i tessuti, svuotandomi della rabbia e dell’ansia. Mi attanaglia un senso crescente di vuoto freddo, implacabile, insormontabile, che inizia a congelarmi le piante dei piedi per poi risalire nel resto del corpo. Lo guardo allora instupidita, sciocca, nemmeno cosciente di cosa pensare o fare.

Mi trincero dietro la certezza che il ricordo sia di qualcosa che Malfoy mi ha fatto, solo perché mi è rimasto solo questo.

Non so dove altro porre i miei pensieri, dove nasconderli. D’un tratto, confesso a me stessa, per la prima volta in questa serata assurda vorrei essere a casa mia.

Non qui, non con lui.

Ovunque, ma non con lui.

Malfoy continua a guardarmi con una domanda negli occhi imploranti, a cui però io non so rispondere. Quando sembra capire che quel soccorso silente non arriverà, nel vedere la mia bacchetta sguainata si ricompone immediatamente con una velocità che mi sorprende, lasciandomi attonita. In pochi secondi torna sé stesso, apre le spalle, raddrizza la schiena. Mi sovrasta con la sua altezza, pare un principe delle fiabe intento a guardare una servetta. Le labbra si atteggiano al solito ghigno sarcastico, mentre gli occhi, che erano prima pozze azzurrissime di gennaio, si restringono malevoli, diventando più chiari, trasparenti.

Si spazzola distrattamente la giacca grigia come se fosse piena di pelacchi, mentre soggiunge sarcastico, rivolgendosi ad un inventato interlocutore: “E la Grifondoro dimenticò in quindici secondi netti l’impeto di convivenza civile natalizia… abbandonando persino quel raziocinio di cui è sempre andata tanto fiera…”, fa una studiata pausa ad effetto, poi prosegue dolciastro: “Non dimentichiamo che è la moglie di Weasley, ogni tanto pure le menti migliori vengono portate sulla cattiva strada…”. Completa la sua tirata con una finta occhiata di comprensione al mio indirizzo, cosa che mi fa saltare ancora di più i nervi, facendomi dimenticare completamente l’attimo di debolezza di poco prima. Riafferro la bacchetta puntandogliela contro decisa, cosa che non lo impensierisce affatto. Non cambia espressione nemmeno quando sputo fuori, urlando: “La vuoi piantare con le tue contorsioni semantiche, Malfoy?! Che cosa diamine vuoi dire? Tu… tu mi hai fatto qualcosa… l’ho appena ricordato...”.

Mi concentro per qualche secondo, riportando alla mente quello che ho visto. L’episodio, invece di perdere definizione, diventa ancora più nitido e preciso come se fosse qualcosa accaduto solo poco fa. Ha dei colori carichi, scintillanti, al punto che ogni altra memoria nella mia testa pare smunta e impalpabile. Lo rivedo nella mia testa continuamente, cercando di fissarmi tutti i particolari. Nulla, però, mi riporta alla memoria quel momento che pare assolutamente slegato da tutto il resto, come una specie di pezzo stonato nel puzzle della mia testa. Respiro a fondo, cercando di trarre quante più conclusioni possibili, le orecchie che mi ronzano e la nausea solita che non mi lascia in pace. Un vago senso di ansia comincia a salire tossico lungo l’esofago, specie quando cerco di interrogarmi oltre che sulla memoria in sé, sul motivo per cui sia tornata in mente a me e a Malfoy nello stesso identico istante.

E peraltro non in una maniera indolore, tipo scatto di consapevolezza improvvisa: no. Mi sono sentita squarciata a metà, come se mi stessero tirando da otto direzioni differenti. Vado avanti ed indietro mordendomi l’unghia del pollice, cercando di capirci qualcosa, mentre Malfoy mi risponde spavaldo, poggiandosi con la spalla al muro: “Se è per questo, l’ho appena ricordato anche io. Cosa quantomeno inusuale se sei la vittima di qualche angheria terribile da parte del sottoscritto: non sono così idiota da voler volontariamente dimenticare la soddisfazione che ne avrei provato. Senza contare che non me ne ricorderei mai contemporaneamente a te per darti questa bella occasione di urlarmi nelle orecchie come una straccivendola”.

Le parole di Malfoy non fanno una piega. Manco mezza.

Certo, potrebbe aver finto la sua rimembranza attuale, in modo da confondermi ancora di più.

Non certa di quello che provo per le parole di Malfoy, combattuta tra la proverbiale diffidenza e l’istinto sempre continuo a fidarmi di lui, cerco di ripensare alle immagini che ho visto.

Non era un sogno: troppo preciso, troppo netto, troppo carico di dettagli. Non c’era nulla di nebuloso, incerto, illogico. Le cose in sé sembravano perfettamente normali, tranne che non lo erano per me e Malfoy.

Ero in un appartamento sicuramente babbano, cosa che già mi fa ammattire, considerando che ero con Malfoy che non si avvicina alle cose babbane nemmeno se minacciato. Ero in una mise comoda, sembravo una che si sente a suo agio e questo è doppiamente strano visto che, ribadisco, ero con Malfoy. Che lui si sia intrufolato in un posto in cui mi trovavo io?

Ma che posto era? Non era casa mia, non era casa dei miei, nemmeno quella di Ginny ed Harry, enumerando le abitazioni più babbane che conosco.

Il mio stesso aspetto, poi, mi rende ancora più incerta sul fatto che si trattasse davvero di me: certo, ero più giovane e da un calendario appeso al muro ho capito che si trattava di un momento avvenuto tredici anni fa. Quindi, avevo 23 anni e a quell’età io stavo organizzando il matrimonio con Ron. Che nel ricordo, non è presente. Dove diamine era? Perché ero sola con Malfoy?

Ma anche il mio aspetto era diverso da come me lo ricordavo. Avevo i capelli più lunghi e più chiari, ero più magra, persino più atletica.

Passi che Malfoy possa avermi fatto qualcosa per poi indurmi a dimenticarlo, ma come potevo avere anche un aspetto così differente da quello che mi ricordo?

E poi… quella tristezza, quel dolore, quella voglia di abbandonarmi volutamente alla morte.

Quando mai sono stata così? Quando?

Ricaccio indietro con una sorta di vergogna quella domanda, tornando al presente e dando voce ai miei pensieri, dopo essermi ricordata della presenza di Malfoy che è rimasto lì in silenzio, a farmi ragionare tutto il tempo: “Era un ricordo, Malfoy… io… ho sentito tutto quello che provavo… avevo…ventitré anni… io non ricordo nemmeno di averti mai incontrato a quell’età”.

I miei pensieri e ricordi si attorcigliano come fili di un gomitolo, rendendomi sempre più confusa, mentre cerco inutilmente di trovarne un bandolo. Mi prendo la testa tra le mani tenendola assieme, sembra vittima di un forza centrifuga così potente che i miei pensieri schizzeranno presto in tutte le direzioni.

Malfoy, per nulla sconvolto, mi pare solo immensamente annoiato dalla vicenda ed anche dalla mia richiesta di spiegazioni, come se la cosa non gli importasse minimamente. Si limita ad un appunto scocciato: “Se è per questo nemmeno io… grazie a Merlino, Morgana e ad un’altra cinquantina di maghi e streghe di quarantotto generazioni”. 

La frustrazione mi attanaglia il fiato come una specie di fiera affamata, chiudendomi lo stomaco ed annebbiandomi la vista. Vederlo così calmo, rilassato, serafico, mi innervosisce ancora di più se mai fosse possibile. Così, senza controllo, erompo in un urlo sgraziato, ripetendo irrazionale: “Smettila! Stai mentendo!”.

Il grido mi lascia senza forze e senza fiato, come se avessi gettato fuori tutti l’ossigeno che mi serviva per respirare. Resto così con la mano premuta sul torace, nel centro esatto del corridoio che, in curioso gioco beffardo di onde sonore, pare rimandarmi indietro infinite volte la mia voce acuta e gracchiante, odiosa persino alle mie stesse orecchie come il verso di un pipistrello.

Mi preoccupo seriamente che qualcuno mi abbia sentito, passi per l’Incantesimo Insonorizzante per il piano inferiore, ma Narcissa Malfoy è ancora nella sua stanza a dormire dell’agonia, ma forse ben più vigile nell’udito di quanto io possa sperare.

Cerco di tingere i miei occhi di un’accorata richiesta di perdono per la mia scortesia e che giunga all’indirizzo di Malfoy, sebbene sappia che la mia sia la reazione più normale se ti cascano nella mente dei ricordi che non pensi di aver mai vissuto.

Lui, però, sembra non essersene nemmeno reso conto, la piega febbrile dello sguardo divenuto d’acciaio mi informa che è irritato, innervosito, sebbene esteriormente non ha mutato nulla nella mollezza della posa e nella rilassatezza dei tratti. Solo la mascella si indurisce mentre parla, facendo scivolare fuori le parole come se scottassero e volesse sbrigarsi a pronunciarle: “Certo… avevo dimenticato che sei tornata in possesso della tua adorabile moralità rosso-oro. Tregua finita…”. Un’ondata di calore vergognoso mi sale fulmineo ed inspiegabile alle guance, irradiando gli zigomi di porpora, mentre lui continua spavaldo, di nuovo inaccessibile come un castello di rovi: “Poco fa hai creduto in un attimo che non volessi assassinare Silente. Ora, siamo di nuovo diciotto passi indietro…”, non riesco a reggere il suo sguardo, pare una spada puntata alla mia gola. Gli occhi scivolano malamente in basso, mentre mi sento assurdamente in colpa per aver sospettato di lui, anche se razionalmente so di averne ogni diritto.

La mia testa, però, quando si tratta di lui, pare diventare una sorta di vocina di sottofondo.

Faccio pure fatica a capire che diamine dica.  

In realtà credo che sia sempre andata così. Lo incrociavo nei corridoi a scuola, ci insultavamo a vicenda, trattenevo dalla rissa inevitabile Harry e Ron, fingevo che fossi superiore e me ne andavo a testa alta, convinta di averlo sempre battuto. Lui poteva anche essere purosangue, ricco e facoltoso, ma dalla mia io invece avevo la media stratosferica e l’amicizia con l’eroe del mondo magico. Nonostante questo, però, quando me ne tornavo in classe e mi sedevo al mio posto, le sue irritanti parole mi tornavano nel cervello con scadenza regolare, sovrapponendosi a quelle delle varie spiegazioni. E così mi distraevo, mentre fantasticavo di scioglierlo nell’acido solforico oppure di trasformarlo perennemente in un furetto. Chiaramente, mentre discutevo di questi dubbi amletici, Harry mi diceva qualcosa o il professore mi chiamava, beccandomi disattenta. Riuscivo sempre a rimediare ovviamente, ma intanto il fastidio mi faceva torcere le mani dal nervosismo. Volevo fare la superiore e ci riuscivo perfettamente davanti a lui, ma invece dentro macinavo e macinavo fino allo spasmo.

E la mia testa, oggi come allora, diceva sempre il contrario di ciò che mi ritrovavo a fare.

Si aggiunge oggi, però, un’altra novità, qualcosa di sorto come un fungo e che guardo come se fosse velenoso.

Avevo la tendenza a sospettare di lui. Sempre, qualsiasi cosa facesse o dicesse.

Ora, ho la tendenza esattamente contraria.

Mi fido di qualsiasi cosa dica.

Mi fido di quegli occhi che ho idea che non mi mentirebbero mai.

Mi fido come se sapessi di poterlo fare, sebbene sappia che non è così.

Ed ora mi lambicco solo per trovare il modo per continuare a fidarmi di lui.

Lo trovo in un lampo, ma lo tengo nascosto, socchiuso nel cuore per non vederlo troppo davanti.

E’ una cosa inopportuna, ma non posso impedirmelo, mentre ripenso che ha ricordato anche lui, non poteva mentire su questo.

Trovo il motivo che cerco, mentre soggiunge caustico come a leggermi nella testa: “Buono a sapersi. Mi sento più a posto con la mia coscienza sporca senza la responsabilità della tua… fiducia…”. Accentua la parola con arroganza, calciando un invisibile piega del tappeto nel corridoio, mettendo nel gesto casuale una frustrazione che vorrebbe fingere di non avere. Quella constatazione, piccola e sciocca, mi accende lo stomaco di lucciole.

E ripeto quello che ho detto poco fa.

Lo dico già con voce diversa, soffusa, sussurrata, come un segreto da dimenticare. Arrossisco ancora, mi mordo il labbro inferiore, mi pare un’intimità assurda come essersi visti nudi.

Ed invece sono solo poche parole che il legno del corridoio mangia e sputa fuori come un respiro inudibile: “Fa che io possa fidarmi di te. Ed io ti difenderò sempre”.

La sua voce è gemella della mia, la sento sulla pelle come se mi avesse parlato sulla nuca, sulle clavicole, nella pelle interna dei gomiti, nella curva delle ginocchia.

Mi sussurra lieve, la delicatezza che non pensavo avesse: “Dimmi cosa vuoi, allora”.

Lo dico rapida, a voce più alta, così da rompere quella foresta di bisbigli.

“Voglio il favore che mi avevi promesso”.

 

 

Non aveva avuto bisogno di convincerlo, incantarlo, minacciarlo: nel silenzio del suo letto, il respiro regolare e grave del marito accanto, Hermione Granger, 36 anni appena compiuti, ripensava solo a quello. La mano sotto il cuscino, la testa sotto il lenzuolo come a nascondersi sotto una fortezza di stoffa, stava con gli occhi spalancati sul nulla, attonita come davanti ad una luce troppo forte.

Le labbra, pure, stavano dischiuse in attesa di un verbo o di un aggettivo che non fiorivano nella gola, seccandola e lasciandola riarsa come un deserto di stracci.

Draco Malfoy, dopo averle ingiunto di non metterci troppo e di non andarsene in giro a farsi i fatti che non erano propri, borbottando tra sé e sé, le aveva lasciato libero ingresso nella sua mente.

Così, dal nulla: e lei pensava solo che, se fosse successo al contrario, anche lei avrebbe fatto lo stesso. Senza nemmeno questionarci su.

Così, dal nulla.

Nel ricordo, nel sogno, in quello che dannazione era, pareva che lui avesse usato la Legilimanzia su di lei: senza bacchetta, con un Incantesimo non verbale.

Non si era concentrata sulla stranezza della cosa, ma aveva rifatto l’incantesimo che avevano appena ricordato, come una sorta di accordo segreto stretto senza che lo sapessero.

Perché Draco Malfoy, prima ancora che lei ne palesasse l’intenzione, aveva fatto un passo verso di lei, aveva sollevato il braccio e porto la mano destra con il palmo sollevato, il ghigno vaporizzato, tutto grigio attorno come se gli occhi fossero dappertutto, persino nelle pieghe del tappeto e nei tarli delle tende.

Ubriaca, ebbra di quello che avrebbe chiamato potere ed onnipotenza a vedere il nemico di sempre sconfitto ed obbediente, lo raggiunse in tre balzelli, come nei giochi da bambina che ora occhieggiavano sgraditi ad un momento che non aveva nulla della innocenza.

Lo seppero le sue dita quando si chiusero sulla pelle tenera del polso, lo seppe la mente che non riusciva a ricordare la formula per leggere i pensieri, lo seppe il ricordo che tornò vivido, grandioso, terribile, più reale di ogni cosa che avesse mai conosciuto.

Hermione Granger, 36 anni, si rigirò nel letto, pareva una distesa di spine bollenti. Nel buio la sua mano sembrava un buco nero pronto ad inghiottirla, bruciava come carne in suppurazione, pungeva di mille spilli acuminati. La guardava come se fosse un arto con volontà propria e che doveva assolutamente amputare per avere salva la vita.

La mano recava la colpa, conservava il calore delle vene del polso di Draco Malfoy.

La mente di Draco Malfoy era un inferno di porte chiuse.

Corridoi immacolati e deserti, pieni di voce attutite da porte chiuse. Alcune erano enormi, imponenti portoni dall’aria antica, di legno massiccio e scuro, chiusi da ferri e lucchetti sigillati. Altre erano piccole, minuscole, non ci passerebbe nemmeno un suo piede. Altre ancora, erano spalancate, ma al loro interno, c’era poco o nulla.

Scale a chiocciola, si arrampicavano in altezza dove nemmeno la sua immaginazione riusciva ad arrivare, tutto era un’eco di voci, rumori, odori sconosciuti che si mescolavano in vario modo.

A primeggiare, però, era un odore acre, intenso, da pizzicare le narici. Odore di legno bruciato.

La mente di Draco Malfoy, aveva scoperto Hermione Granger, puzzava di cenere.

Come se portasse i residui di un enorme incendio, un rogo mortale.

Ad essere bruciati, riarsi, sembravano i chiavistelli di un enorme portone. Si riconoscevano ancora pezzi consumati di motivi di rose incise ed intagliate nel legno chiarissimo che splendevano di luce propria. Ed una lettera mangiata dalle fiamme. J.

Conosceva Hermione Granger ogni incanto per rivelare inganni e manipolazioni della mente.

Ignorò il portone incendiato, come promessa tacita a Draco Malfoy, e li provò tutti.

La mente di Draco Malfoy rispondeva di buio, pece, vuoto, nero.

Non conosceva quel ricordo. Non le aveva mai fatto nulla. Non si erano mai visti negli anni passati.

Anzi, quel ricordo lo aveva turbato come nulla al mondo: aveva ricordato cosa aveva provato in quel supposto momento che non sapeva di aver vissuto.

Si era sentito sporcato, come se l’avesse violentata.

Come uno che tocca qualcosa di intoccabile e puro, di illibato e vergine, senza averne alcun diritto.

La Terra era tonda da piatta che era sempre stata.

Malfoy non le aveva fatto del male. E se fosse arrivato a farlo, se ne sentiva toccato e ferito in qualunque tempo, universo e ricordo, vero o falso che fosse.

Le lenzuola si annodavano attorno al suo corpo come serpenti armati di veleno, Hermione Granger le scrollò con il piede, il marito Ronald reagì con uno sbuffo del naso.

La consapevolezza fu amara, dolorosa. Era meglio che le avesse volutamente fatto del male.

Ruppe la promessa allora. Interrogò ancora la sua mente entrando, spalancando, aprendo, cercando. Fece di tutto, fallendo, per scoprire se il ricordo era di un mostro avaro della sua anima, e non dell’uomo terrorizzato e colmo di perdita che lui stesso si era visto con angoscia essere stato, chissà dove, chissà quando, chissà perché, chissà se.

Ruppe la promessa, e vide mattine di Natale, punizioni al sapore di ruggine, luci verdi assassine, mani all’odore di violetta, facce colte a mentire, aule di tribunale, libri di scuola scarabocchiati, cupcakes alla menta e cioccolato, sangue sui mobili.

E, d’un tratto, comparve il segreto.

Smisurato, terrificante: trattato però con il pudore lascivo delle cose banali, poco importanti, come una sorta di suppellettile di scarso stile che viene nascosta nella credenza.

Draco Malfoy aveva avuto paura del ricordo piombato nella sua testa all’improvviso.

Aveva avuto paura perché lui, nonostante tutto, in quel dolore pareva amare qualcuno.

Profondamente, intensamente, enormemente, in un modo così puro ed unico da arrivare a violare la mente pulita di Hermione Granger pur di difendere quel qualcuno.

Quel qualcuno che non era una madre, un padre, un figlio.

Quell’amore, puro ed unico, dentro quel ricordo, era stato amore per una donna.

E Draco sapeva di non amare nessuna donna così. Peggio: di non averne amata nessuna così.

Peggio ancora, inferno, segatura, sapore di rancido in bocca: Draco Malfoy non si era mai innamorato in vita sua.

Venne fuori il segreto, esplose prima ancora che lei, già esterrefatta, potesse fermarlo.

Come se avesse vita propria, come se cercasse sollievo ancorandosi ad un’altra mente.

Il fidanzamento tra Draco Lucius Malfoy ed Astoria Greengrass era nato come contropartita ad enormi debiti di gioco che Greengrass senior aveva verso i Malfoy.

Draco aveva sempre odiato Astoria, la detestava ancora, aveva cercato di tutto per sciogliersi da quel vincolo che i suoi genitori volevano onorare, unendo due delle famiglie più pure di sangue dell’Inghilterra. Le pensò tutte, non riusciva a sfilarsi dall’impegno.

Narcissa disse che lo avrebbe diseredato se avesse sposato un’altra donna.

Lucius disse che poteva tradirla come voleva, basta che l’avesse sposata.

Un mese prima del matrimonio, trovò l’espediente che pensava ideale. La fece sottoporre a visite mediche, paventando che non fosse più vergine.

Invece lo era. Ma era anche altro: sterile.

Poteva sciogliere il fidanzamento.

Prima che i suoi genitori intervenissero, voglioso di chiudere quanto prima la storia, andò dai Greengrass per rompere la promessa di matrimonio.

Compresero subito il suo intento. Lo imprigionarono. Misero sotto Imperius.

Lo costrinsero ad andare a letto con Daphne Greengrass, la sorella di Astoria. La resero più fertile con delle pozioni al sapore di rosa, rimase subito incinta.

Fu facile allora: o sposava Astoria, o il bambino spariva. Lo avrebbero ucciso seduta stante.

La sposò, non disse nulla a nessuno, l’onta del disonore troppo grande perché lo avevano ingannato, ricattato. E con la nascita del figlio, lo avrebbe potuto fare per sempre.

Disse ai suoi genitori che si era convinto, disse che amava Astoria, lo disse ovunque, tranne alla sua mente che sapeva di bruciato.

Protesse il figlio. Amò la madre. Divenne marito e padre.

Chiuse il segreto.

Per farlo riaprire poi, dopo anni, ad Hermione Granger.

A lei soltanto, in tutta la vita.

A lei soltanto che, tornando in sé, guardandolo, non seppe che cosa dire: finse di non aver visto nulla, disse che credeva che non gli avesse fatto del male, fuggì lontana nei fuochi di Natale.

A lei soltanto che, tornando a casa, perdonò il marito, consolò la figlia, baciò il figlio.

A lei soltanto che, nel letto, amò il marito come il primo giorno perché loro si erano amati, forse si amavano ancora, dentro si amavano sempre.

A lei soltanto che, dopo, non dormì mai.

Perché era stata lei soltanto. E perché Malfoy era il miglior Occlumante della sua generazione.

Aveva voluto che fosse lei soltanto.

 

 

7 gennaio

 

“La questione si è complicata abbastanza quando abbiamo scoperto che, sull’abitazione principale, era stato posto un usufrutto a beneficio della mia vecchia balia Magda… mi pare scontato, visto quanto le accennavo prima, che abbia posto degli Incantesimi Confondenti su mio zio Oliver per farsi firmare le carte… si maledicevano fino al giorno prima del suo ictus e poi le lascia l’usufrutto della casa?”.

“Certo, certo”.

L’uomo di fronte a me, capelli serici e ricci color del grano e due penetranti occhi azzurro polvere, continua a descrivere con ardore la situazione ereditaria della sua famiglia, sebbene io continui a vederlo come una specie di marionetta slegata: i suoi gesti dovrebbero significare qualcosa, ma non giungono ai miei occhi come dovrebbero, sono annebbiati e sfumati. Si perdono diluiti nello spazio circostante, come tempera annacquata.

Descrivo annoiata cerchi sulla pergamena davanti a me limitandomi a sporadici cenni di assenso, cosa che impensierisce persino Leda che, in un angolo, finge accuratamente di prendere appunti, mentre si concentra sull’autopsia dell’uomo di fronte a me alla scrivania, che le pare naturalmente piacente e ben vestito, caratteristiche che la porterebbero a copulare nell’arco di quindici minuti se dovesse aggiungere anche i convenevoli ed un’analisi politica della Brexit. Vedendomi però così sulle nuvole, si sente in dovere di prorompere in qualche commento fuori luogo e senza senso per dare un’idea professionale del nostro ufficio, cosa che le lascio fare in modo apatico ed inerte fregandomene altamente, mentre l’uomo sorride imbarazzato, grattandosi la nuca in modo nervoso. Mi getta un’occhiata implorante alla quale rispondo scrollando le spalle simulando rassegnazione, anche se ancora non ho la minima idea di che cosa abbia detto Leda.

Anche lei, nella mia testa, muove le labbra e basta, come un film muto.

Da quando sono tornata al lavoro, dopo la fine delle festività natalizie, ogni cosa ha perso la densità ed il peso consueto come se galleggiasse per aria, piena di elio: gli ultimi giorni di vacanza in famiglia, sono stati una specie di susseguirsi di giorni tutti intimamente identici, ricopiati l’uno sull’altra come se fossero stati tratteggiati dalla carta carbone. Persino il fatto che Rose fosse a casa da scuola, mi era diventata una sorta di consuetudine addirittura un po’ noiosa, nonostante lei mi fosse mancata così tanto nei mesi precedenti; con lei, che vedevo così poco e che si stava facendo grande di un’intuizione adulta, dovevo concentrarmi molto di più per non farmi beccare impreparata alle sue domande e richieste. Quando usciva di casa, non provavo con una vergogna fonda di inferno quel senso malcelato di delusione per la figlia che non aveva piacere a restare con sua mamma, ma il sollievo nascosto di potermi chiudere impenetrabile nella mia corazza.

Alla sua partenza, dopo averla stretta in un abbraccio di rassicurazioni e raccomandazioni all’odore di fresia, ho guardato il treno allontanarsi con il comando dello stomaco ad avvertire già bollente la spina della nostalgia, ma invece quello che si era fatto imperante in me era di nuovo la tenue rassicurazione di poter smettere di fingere.

Hugo, del resto, è troppo piccolo per avvertire un cambiamento dei miei stati d’animo se ciò non corrisponde a qualche deviazione della sua consueta routine che, invece, era rimasta inalterata nel susseguirsi di colazione, scuola, merenda, pranzo, compiti, tv, parco, film, cena, nanna.

Io e Ron non abbiamo parlato di ciò che è successo la notte di Natale, abbiamo relegato tutto nella solita dimensione fangosa del sottotesto di ciò che non capiamo davvero, ma che in realtà abbiamo ben compreso come qualcosa che potenzialmente ci potrebbe far schizzare in direzioni opposte e differenti come due pezzi di roccia dopo il Big Bang. Camminiamo per le stanze con attenzione, non sollevando nemmeno la polvere, in punta di piedi, come se sotto le assi del parquet fosse nascosto un esercito di mine antiuomo. Conosciamo parole soffuse, continui “grazie” e “scusa”, edulcoriamo l’amarezza in una melassa stucchevole di cortesia e gentilezza stereotipata.

È già accaduto naturalmente, è una fase che conosco bene e che segue naturalmente un litigio particolarmente violento di cui Ron si sente responsabile: il senso di colpa lo spinge ad una delicatezza fuori misura, comprensiva anche di una sorta di cautela manieristica verso tutto quello che mi riguarda. Mi chiede spesso come sto, si alza a prendere il sale, mi aiuta a mettere la giacca: di solito tutto questo dura fino a quando smetto di stare al gioco, e riprendo a punzecchiarlo o a scherzare con lui. Capisce che è tutto superato, ed allora si torna alla normalità.

Questa volta, però, ammetto di godere enormemente della situazione, anche perché si traduce nell’assenza di domande e nella mia permanenza autorizzata nella bolla isolante che mi contraddistingue al momento e che lui probabilmente scambia per mio sdegnoso rancore nei suoi confronti, cosa poi del resto nemmeno tanto scorretta o almeno più semplice da riconoscere e comprendere, anche per me.

Sarebbe impossibile spiegare il resto, la selva di quesiti senza risposta mi attanaglia così tanto la mente da tradursi in questa specie di nebbiolina lieve, impalpabile, sottile, attorno ai pensieri. Quando cerco di afferrarne uno, quello sguscia come le mosche volanti della visione periferica.

Ed allora mi celo nell’ottundimento, aggravato anche dalla mancanza di sonno: oltre al resto, difatti, ho cominciato da Natale ad avere anche difficoltà a dormire, cosa che non si risolve né con incantesimi, né con pozioni, né con valeriana e melatonina. In realtà, non è che io non riesca a dormire, anzi lo stato di torpore che mi avvolge finisce per diventare una sonnolenza continua che non mi lascia mai, costringendomi ad appisolarmi dappertutto, persino sui mezzi pubblici o sulla brandina dell’ufficio.

Il problema è ciò che accade quando sogno, cosa che succede ormai sempre senza tregua e senza sosta.

Ho deciso di farmi poche domande sul ricordo o presunto tale della sera di Natale, quello che sembra che io abbia recuperato così all’improvviso, ma che al contempo non ha alcuna aderenza logica con la mia vita: i quesiti restano senza risposta e hanno anche la sgradevole abitudine di riportarmi per associazione di idee a qualcosa che non voglio assolutamente rammentare.

Aveva le labbra bianche mentre mi chiedeva che favore volessi e mi ero chiesta per ore se fosse spaventato, terrorizzato. O se fosse nato così, eburneo come ghiaccio e diamante, senza sangue nelle vene, solo qualche goccia, purissima, di fronte alla quale io ero fumo, polvere, caligine.

Tendo perciò a chiudere quella specie di memoria in una parte molto lontana della mia testa, bollandolo con una serie di etichette innocue e scontate, sebbene nessuna di esse, quando mi fermo davvero a pensarci su, può rendere ragione di quello che mi è accaduto.

La mente, però, così testarda di giorno ad escludere quel pensiero senza risposta dalla mia sequela ordinata e ordinaria di pensieri, lo scarta come uno scomodo regalo durante la notte quando, vinta ormai dalla stanchezza, mi appisolo poco prima dell’alba e del suono gracchiante della sveglia.

Come una specie di film in proiezione esclusiva, mi viene riproposto il ricordo in tutte le sue fattezze assolutamente incomprensibili: ed ogni volta, puntualmente, acquista un colore più vivido, vivace, impossibile da ignorare. Pulsano le immagini sotto la trama delle palpebre chiuse, non dandomi riposo e costringendomi al risveglio.

Paradossalmente, se fosse solo questo, potrei anche sopportarlo.

La sensazione che sia la cosa più vera che abbia mai vissuto.

La cosa peggiore accade in quelle rarissime occasioni in cui, invece che svegliarmi di soprassalto madida di sudore, rimango in uno stato stopposo di sonno leggero. Le immagini vengono rapidamente sostituite da un’altra, ugualmente carica degli stessi medesimi colori accesi.

Impossibile da ignorare.

Un parco alla vigilia dell’estate, poche persone che camminano lente e noncuranti, non badando a me. Vento di scirocco che stormisce ai rami di magnolia, portando un odore fresco di promesse, struggente come qualcosa di appena nato, ma di così fragile da temere che non sopravvivrà nemmeno per diventare adulto. Cielo color carta da zucchero, sgombro di nuvole, fissato contro l’orizzonte come una cartolina, così bella da sembrare finta, studiata apposta per innescare la nostalgia dell’addio, come quando si viene cacciati dal Paradiso.

Un colore che non è mai esistito.

Dondolarsi, avanti ed indietro: dopo un po’ capisco che sono su un’altalena di corda, cigola fastidiosa, gli anelli di metallo probabilmente arrugginiti che grattano sul telaio.

Le sensazioni vengono piano, lente, come se mi svegliassi da un lungo sonno, sebbene tecnicamente io stia dormendo proprio in quel momento.

E riconosco il tessuto dei pantaloni di fustagno, rigido, fresco. Poi quello della camicia di lino, gonfiata sul retro dal vento, fluttua come una medusa. Ed infine il petto gonfio di un calore innaturale, incomparabile, meraviglioso, come una specie di falò che somiglia alle mattine di dicembre quando sei bambina ed aspetti Babbo Natale.

Qualcosa di così puro, ingenuo che, ancora, non so nemmeno se l’ho provato da piccola, figuriamoci adesso.

Lo si potrebbe chiamare un bel sogno allora: ne ha ogni nettezza e chiarezza.

Le sensazioni, però, vanno avanti, non si fermano qui, ad un attimo di perfetta serenità, lontano nella memoria così tanto da non essere ricordato.

D’improvviso, come una specie di miraggio iridescente, giunge nelle mie braccia un sorta di peso caldo, soffice, dall’odore di talco, margherita, arancia. I miei occhi sono terribilmente offuscati, come se fossi davvero addormentata anche nel sogno, e non riesco a distinguere bene niente.

Diventa tutto angosciante allora, come se avessi le palpebre incollate e facessi ogni sforzo per aprirle, ma quelle restassero serrate, appiccicate. Distinguo persino i miei movimenti nel letto, inizio a dimenarmi come se fossi stesa nella cenere e nel fuoco, i pensieri sbattono come mosche contro il vetro, spezzettandosi come se fossero sale e polvere.

Ma non mi sveglio ancora, mi artiglio al sogno con perseveranza come se ne andasse della mia vita, come se uscirne fuori decreterebbe immediatamente una specie di arresto cardiaco di tutto quello di cui sono fatta, come se così potessi squagliarmi, diventando cera rappresa.

Mi si mozza il respiro, nel sogno, nel vero: vado in apnea, non lo so. Mi pare sempre di morire, ma non accade mai.

Sotto gli occhi, passa oro liquido, penso agli occhi di un gatto e non capisco perché.

Vado oltre quella cortina brillante, il cuore mi si straccia come se fosse di carta bruciacchiata.

E lo vedo.

Tengo tra le braccia un bambino, probabilmente di cinque anni più o meno. È di spalle, dunque non lo vedo in viso, sento che sta dicendo qualcosa che non capisco, intendo solo “… e lui torna sempre a casa con noi!”, mentre si anima tra le mie braccia, gesticolando.

Vedo di lui solo la nuca, una polo azzurra, un paio di scarpe da ginnastica rosse di tela un po’ sporche di terreno… ed i capelli, lievemente arricciati sulle punte.

Biondi, mescolati a qualche sparso tono castano.

Lo stringo più forte, aggrappandomi a lui, piangendo, urlando: perché nello stesso momento in cui lo vedo meglio, accade che sento chi sia e, contemporaneamente, mi sveglio.

È mio figlio.

Ma non è Hugo.

Credo persino di sapere che si chiama Alex.

“La prossima volta a colazione, direttamente il saccarosio! Te ne preparerò una ciotola piena, va bene, Alex?". 

"Mamma io sono Hugo".

"Perché, che ho detto?".
"Alex".

Mi sveglio singhiozzando, non riesco a stare ferma a letto, mi alzo febbricitante, corro in bagno piangendo e tappandomi la bocca con la mano per non farmi sentire da mio marito. E dover dare delle spiegazioni che non ho.

Non dormo più, ovviamente: dopo quel sogno, per essere corretti, non dormo per giorni.

Mi porto dentro quella sensazione, si accuccia nello stomaco mentre sono al lavoro, mentre sorrido slavata a mio marito, mentre accarezzo i capelli rossicci di Hugo, mentre osservo la trama traslucida della luce del sole dietro le tende tirate.

Quella sensazione non se la liquida il pensiero dell’assurdità del mondo onirico. Non se la porta via ammansita la razionalità, non la mitiga il senso comune, nemmeno la scienza e la logica intervengono pietose a portare requie.

Resta la sensazione: e diventa quasi una certezza, paradossalmente idiota, priva di senso.

La consapevolezza amniotica di avere un figlio che si chiama Alex.

… che, invece, non ho. 

 

 

8 gennaio

 

La prima cosa che faccio, non appena metto piede in ufficio il giorno successivo, è chiamare Leda, ingiungendole di fissare un nuovo appuntamento con l’uomo del giorno prima, quello che, nel mio delirio psicofisico ed emozionale, ho bellamente ignorato per ore.

Il clima mattutino particolarmente gelido, infatti, mi sferza e punge nell’orgoglio spingendomi a reagire e ad essere efficiente almeno nel campo lavorativo: posso permettermi di essere svogliata ed assente a casa mia, ma non in ufficio. Ne va della mia reputazione.

Una nottata poi miracolosamente libera da sogni di qualsiasi natura, mi rimette al mondo al punto tale di ritenere tutto come una suggestione della mia mente che, di fronte alla prospettiva di comprendere che il mio matrimonio non se la passa bene, sceglie tutta una serie di strade secondarie per farmi pensare ad altro. La spiegazione non regge in molti punti, ma oggi per fortuna riesce a suonare quasi convincente: resta il nodo del ricordo o pseudo tale con Malfoy, ma il fatto che lui non se ne preoccupi, visto che è praticamente scomparso anche da casa dei Weasley, spinge anche me ad ignorarlo.

Resta addosso un sapore bianco e grigio, quello della sua mente e dei suoi pensieri.

Sa di neve quando apri le labbra al cielo per assaggiarla.

Non si è mai innamorato in vita sua: ci penso nei momenti più imprevisti, è come un ritornello dispotico. Alita sulle mie spalle come il rantolo asincrono di un moribondo.

Assomiglia, poi, ad un martellare quando penso che, al mondo, solo io so questo di lui.

Ed è una specie di percussione in fondo allo stomaco che non se ne va mai.

Scrollo il capo come fossi disturbata da un insetto fastidioso, cercando di cacciare via ogni distrazione, mentre Leda, entrando nel mio ufficio con il solito ancheggiare, mi annuncia che Mr. Latimore arriverà di lì a poco. Schiocca poi la lingua infastidita, strascicando le parole seccata: “Era già al Ministero… era venuto a prendere la moglie dal lavoro…”.

Alzo gli occhi al cielo, ci mancherebbe che non aveva puntato anche questo povero disgraziato, ci avevo visto giusto ovviamente.

Trascorro i minuti successivi leggendo finalmente e con attenzione le pratiche dell’eredità Latimore che, il giorno prima, mi erano danzate davanti agli occhi come segni incomprensibili. Sono così persa ed assorta che, quando Leda bussa la porta lasciando entrare con un sorriso suadente Latimore e con un’occhiata torva sua moglie, ho la vista offuscata e il collo che mi fa male. Mi affretto però ad alzarmi e a salutare l’uomo con il sorriso più franco che mi venga fuori, al punto di farmi dolere la mascella mentre gli stringo la mano con calore a mo’ di risarcimento emotivo per la mia inefficienza del giorno precedente.

“Accomodatevi, signori Latimore…” dico gentile, indicando le due poltrone del mio ufficio.

L’uomo sorride con gentilezza sedendosi, poi soggiunge educato: “Non c’è bisogno di tanto formalismo, le avevo già detto ieri che potevamo benissimo darci del tu”, non serve ricordare che ho rimosso ogni particolare della conversazione del giorno precedente, quindi mi stringo nelle spalle a disagio, bofonchiando torva e cercando al contempo di ricordare i nomi dei due: “Potete chiamarmi anche voi allora per nome… siamo quasi coetanei…”.

Mentre ancora mi lambicco il cervello alla ricerca dei nomi completamente eclissati dalla mia mente, la moglie ispirata mi guarda intensamente e completa soffiando con voce morbida: “Siamo Christopher… ed Helder”.

Grata, mi do pena di guardare meglio la donna che, nella mia ansia riparatrice da torti del giorno precedente, non ho nemmeno degnato di uno sguardo. Sebbene la mia supposizione sul nostro essere coetanee è indubbiamente corretta, viste le carte che ho letto e che riportavano la sua data di nascita, per un momento temo di essermi sbagliata. La signora Latimore, infatti, ha il viso fresco ed innocente di una ragazzina imberbe: pelle liscia e bianchissima, levigata, assenti persino le rughe d’espressione. Porta i capelli castani corti sotto le orecchie, cosa che, assieme ai jeans e alla felpa rossa, le danno un’aria sbarazzina da liceale in vacanza. Giocherella con espressione spensierata con una piccola fede d’oro giallo all’anulare sinistro e, ogni volta che incontra il mio sguardo, qualcosa la spinge a sorridere in modo automatico come se fosse una sorta di riflesso condizionato.

La cosa che, però, subito desta la mia curiosità sono i suoi occhi: quando era entrata e le avevo gettato un’occhiata distratta, ero certa che avesse gli occhi chiari, azzurri, come quelli del marito.

Ora invece essi mi appaiono distintamente castano chiaro, dorati sul fondo.

Li osservo a lungo, non capacitandomi del fatto di aver visto male; lei, in risposta, sorride ancora, costringendomi imbarazzata a voltare il capo dall’altra parte.

Trascorriamo l’ora successiva a dirimere la loro questione legale, naturalmente ieri si erano molto preoccupati sull’esito della cosa, avendo il marito scambiato la mia disattenzione per consapevolezza di non poter fare molto di che: il fatto invece che oggi sia l’emblema della perfezione e sfoderi leggi e decreti con la perizia tuttologica che mi contraddistingue, conforta molto Chris sull’esito positivo della vicenda. Mi dice in tono casuale che hanno già avuto delle generiche “grane” con la legge e che, di conseguenza, preferirebbe non essere coinvolto più di tanto in meccanismi di tale tipo. Ovviamente, sorvolo sul punto glissando con discrezione, anche perché con un’improvvisa ondata di ricordo, rammento che la moglie era la sola figlia di Broderick Bode, ucciso ai tempi della Seconda Guerra da Malfoy senior per la profezia su Harry.

Suo padre.

Lo costrinse a sposare Astoria, dicendo che poteva tradirla come voleva dopo le nozze.

Lui non ha mai amato nessuna donna in vita sua.

Mi libero di nuovo di quell’associazione molesta di idee sorta dal nulla. Probabilmente Chris Latimore allude a questo e a tutte le magagne legali accadute dopo l’omicidio.

Guardo di sottecchi Helder Bode che, però, ha assorbito l’eventuale allusione al tragico evento con un nuovo estenuante sorriso nella mia direzione: stavolta, con una nettezza che mi fa capire di non aver sognato, noto distintamente che, per un attimo, i suoi occhi scoloriscono come se fossero slavati dall’acqua. Da castani, diventano… grigi.

Sul suo volto, paiono attaccati come in un collage di ritagli di giornale.

Quel colore è così dannatamente unico che, con sgomento, mi chiedo se oramai io non lo veda dappertutto, persino negli occhi degli estranei.

Mi artiglio al bordo della scrivania come se fossi sospesa sul precipizio e cercassi di reggermi per non precipitare.

Ancora una volta, però, le iridi di Helder Bode cambiano colore: l’argento fonde nell’oro, diventano uno strano miscuglio lucente, uniti come un metallo dalla foggia inespugnabile e inconsueta, inesistente, come uno strano esperimento di alchimia. Il suo volto, per un attimo, perde l’aurea compostezza e va a fuoco, arrossisce, sembra quasi accaldata.

Ma in un battito di ciglia che sono costretta a concedermi, torna alla stessa serafica espressione di prima, gli occhi stavolta scuri, marrone profondo, quasi nero.

Christopher Latimore, in tutto questo, come se fosse stato punto da una vespa, intercetta il mio sguardo e lo rincorre all’indirizzo della moglie che gli restituisce un’occhiata innocente e tersa. Le spalle dell’uomo si afflosciano, fa un mezzo sorriso sghembo e scuote la testa al limite della rassegnazione, contribuendo ad aumentare la mia curiosità.

Poi riprende a parlare del loro caso, cosa che consente anche a me di tornare a concentrarmi sul lavoro, confortata anche dal fatto che le mie rare occhiate in direzione di Helder Bode confermano che le sue iridi restano castano scuro, non più celesti, grigie o dorate.

Una Metamorfomagus? La risposta non mi convince del tutto. Non ha nulla del modo di mutare che aveva Tonks e nemmeno di quello che ha Teddy quando decide di fare ricorso al suo potere. La trasformazione in loro era (ed è) più graduale, persino quando è involontaria, ed interessa tutto il corpo. In Helder Bode, è troppo rapida e veloce, senza contare che interessa solo gli occhi.

Il resto del suo aspetto è rimasto assolutamente inalterato.

Resto con quella domanda in testa per tutto il residuo della nostra conversazione, nonostante esteriormente sembri il ritratto della professionalità. Continuo a snocciolare strategie difensive, facendo domande e prendendo appunti, mentre il mio sguardo scivola involontariamente di tanto in tanto sul sorriso snervante di Helder Bode. Leggo sommariamente nelle carte che Chris mi consegna che lui lavora in un negozio di Grimmuald Place e che lei, invece, è un’Indicibile.

Questo in parte mi risarcisce dell’aura particolare che circonda la donna: tutti coloro che ho conosciuto e che svolgono quella professione, hanno sempre avuto qualcosa di bizzarro, inconsueto, singolare. E decisamente Helder Bode non fa eccezione, sebbene in modo semplicistico ha forse semplicemente ereditato la posizione del padre, quindi non dovrebbe essere così automatico che mi sembri una persona singolare.

Eppure, se con gli altri Indicibili che ho conosciuto, compreso Bode senior, la loro particolarità si poteva coniugare in un carattere tetro ed inquietante, con lei assume decisamente il tono opposto: sembra quasi fastidiosamente gioviale, allegra, perennemente in pace con sé stessa.

Finalmente, con una punta di sollievo che non riesco a negarmi mettiamo a punto gli ultimi dettagli e i coniugi Latimore si alzano dalle loro poltrone per congedarsi. Mentre però Chris Latimore si incammina verso la porta, Helder gli destina una sorta di sguardo obliquo a cui fa seguire una scrollata di spalle noncurante.

Chris risponde allora con un lungo e malcelato sospiro, annuendo brevemente con il capo, prima di salutarmi nuovamente ed inforcare l’uscita, mentre la moglie non accenna a seguirlo.

Mentre la guardo interrogativa, lei si limita ad accostare la porta che il marito ha lasciato aperta, tornando poi sui suoi passi e fermandosi davanti alla mia scrivania, cosa che contribuisce ad aumentare il mio già precedente disagio. Resta per qualche attimo immobile, in silenzio, spostando il peso da una gamba all’altra, come se stesse cercando le parole per cominciare un discorso che, fino a quando era nella sua mente, filava perfettamente, ma che ora probabilmente si è perso nei meandri dei suoi pensieri.

La osservo mentre si torce le mani con nervosismo poi, vogliosa di darci un taglio, mormoro secca: “Volevi… parlarmi da sola?”.

Helder, scossa da un suo ragionamento interiore, quasi sobbalza, fa una sorta di piccolo saltello come se fosse stata attraversata da una scarica elettrica. Si allunga la felpa rossa sulle mani prendendo ancora tempo, prima di sospirare con aria contrita: “Già… e qui viene la parte difficile. Chris dice che dovrei smetterla di impicciarmi in faccende che non mi riguardano. Ma… forse inconsciamente…”, fa una piccola pausa, guardandomi poi con intensità: “…quelli con me si convincono che tutto sia una nostra questione personale”.

Quelli come me.

Dunque in lei c’è effettivamente qualcosa di diverso: qualcosa che la candida come appartenente ad una determinata categoria, umana o magica che sia.

La osservo ancora con sospetto, cercando di trovare mentalmente la quadra del cerchio, ma mi arrendo immediatamente. Abbandonando le braccia lungo i fianchi, asserisco sconfitta: “Non credo di riuscire a seguirti”.

Helder mi guarda allora con evidente senso di comprensione, annuendo tra sé e sé: “Hai ragione… partiamo dall’inizio…”, si siede nuovamente sulla poltrona davanti alla mia scrivania, costringendomi controvoglia a fare altrettanto.

“Pensi che in me ci sia qualcosa di strano…” pronuncia stentorea, potente, senza alcuna inflessione di domanda, gli occhi che lentamente si riempiono di nuovo di scintille più chiare, risplendendo nella luce del primo pomeriggio come pezzi di agata. Rincara, sporgendosi lievemente: “Te ne sei accorta”.

Ancora, nessun accenno di domanda.

Solo una lapidaria affermazione.

La cosa mi fa raddrizzare sulla sedia, gelandomi la nuca: una tale precisione prelude ad una sorta di incantesimo che, so per certo, non mi ha assolutamente somministrato. Torno a guardarla con diffidenza ed una vena di timore che, in modo automatico, porta la mia mano a cercare la bacchetta nella mia tasca. La sua legnosa presenza mi rassicura al punto di riprendere a parlare, sebbene senta la bocca impastata: “Come… fai a saperlo?”, osservando poi i suoi occhi ancora chiari, molto più di prima, mi azzardo ad aggiungere: “Cosa… sei?”.

Un’Indicibile” replica lei velocemente, spavalda, sistemandosi meglio sulla poltrona in modo ozioso.

La risposta naturalmente mi irrita ed innervosisce, irrigidisco la mascella con un singulto autentico di fastidio: “Non è solo questo… non girarci attorno per favore…”.

Gli occhi di Helder hanno a quel punto una sorta di contrazione involontaria, come uno spasmo delle palpebre. Si fa piccola sulla sedia e sussurra melodiosa, a mo’ di scusa: “Toccata. Ammetto che mi piace parecchio pungolarti… la tua testa va in tilt se non capisci qualcosa. E’ divertente da osservare, credimi. I tuoi pensieri somigliano a delle girandole colorate che scoppiettano”.

Conclude il tutto stringendosi nelle spalle e guardandomi timida come se fosse una bambinetta scornata. Gli occhi si scuriscono di botto, come se accogliessero delle nubi dense.

Taccio e di nuovo mi coglie quel senso scomodo di imbarazzo, mentre sento i pensieri e le teorie rincorrersi nella mia testa come se fossero cavalloni impazziti dal vento, schiumano ragionamenti che, per paura che siano ascoltati dalla mia interlocutrice, metto a riposo in una stasi narcotica di silenzio che mi impongo con ferocia, causandomi un formicolio diffuso sulle tempie.

Ha alluso ai miei pensieri, come se li vedesse.

“Sei una Legilimante?” chiedo in punta di piedi, mordendomi l’unghia del pollice con nervosismo.

In realtà comprendo subito che la mia teoria è inesatta. Non esiste nessuno che permanentemente riesca a leggere i pensieri altrui, se non altro perché è qualcosa che, da ogni testo magico, viene riportata come una manovra che prosciuga le energie.

Fosse anche che avesse letto i miei pensieri con un incantesimo silente, oltre ad avvertire la sensazione di intrusione nella testa, avrei anche colto in lei qualche segnale di progressiva stanchezza. Invece, è fresca come una rosellina di campo.

E poi… che utilità doveva ricavare dai miei pensieri? Che diamine voleva sapere? Ripercorro velocemente le tappe della nostra conversazione alla ricerca di qualcosa che poteva destare il suo interesse, ma non trovo nulla di che, se non la trattazione legale del loro caso.

Penso che anche i miei pensieri fossero pieni di nozioni giuridiche, non insomma un romanzo illustrato di sommo interesse.

Ho pensato a Draco Malfoy una sola volta.

Decisamente il mio record al ribasso.

La constatazione mi fa sudare i palmi ed arrossisce il mio viso, Helder sembra ancora intuire qualcosa dal mio aspetto che, instancabile, la fa sorridere nella mia direzione.

Sono un’Empatica…” sussurra lieve in un solo respiro, inclinando la testa di lato “Può darsi che persino tu non ne abbia mai sentito parlare”.

Sobbalzo autenticamente sorpresa e la guardo con una nuova fiammata di curiosità sorda, puntellandomi sulla sedia come se fossi di fronte ad una specie di drago a tre teste o una celebrità. Ogni cosa del suo aspetto comunica una normalità quasi fastidiosa, banale. Ed invece è una creatura rarissima, qualcosa che, fino a questo momento, non credevo nemmeno che davvero esistesse.

Non ne so moltissimo, rammento solo delle nozioni sparse su un libro di testo del corso per la specializzazione per le professioni ministeriali. Si inserivano gli Empatici in un nutrito gruppo di esseri leggendari, destinandoli a particolari regimi legali. In quell’occasione, lessi solo che sentivano i sentimenti altrui come se fossero propri, bastava che guardassero anche una fotografia, si concentrassero per avvertirne l’energia mistica e potevano sentirne il cuore anche a chilometri di distanza. Erano un circolo ristretto dalle regole tramandate in modo esclusivamente orale, fuori dalla loro cerchia si sa poco quanto niente dei loro poteri ed anche di come siano organizzati.

Il silenzio si prolunga per molto, come se Helder Bode volesse darmi tutto il tempo di metabolizzare l’informazione e ricostruire ogni tassello delle mie conoscenze per avere un quadro preciso di lei. Ma, con frustrazione, termino la mia ricerca mentale in pochissimo tempo e commento con una punta di impotenza mortificata: “Ne avevo letto una volta… ma credevo che fosse una specie di leggenda”. 

Helder, contrariamente al mio senso contrito di malessere per la mia scarsità di conoscenze, pare invece colpita, quasi entusiasta: “La tua fama è decisamente meritata, Hermione Granger…”, sposta con una mano un fermacarte senza alcun apparente bisogno, prima di dire piatta: “Il mondo continua ad essere più carico di sorprese di quanto pensiamo, a quanto pare. Noi Empatici non siamo tantissimi, il nostro ordine conta poche migliaia di persone nel globo. Però… esistiamo. Decisamente. Ne sono la prova evidente”.

Collego velocemente il particolare che non mi tornava di lei, rendendomi conto quindi che non avevo immaginato nulla.

“Gli occhi che cambiavano colore… mi stavi… percependo?” completo non del tutto sicura di aver utilizzato il termine esatto. Non conosco ovviamente i poteri degli Empatici, ma il fatto che, per qualche sparuto secondo, i suoi occhi sono diventati molto simili ai miei, sembra dare ragione della mia tesi.

Lei sorride ancora incoraggiante e timida, aggiungendo: “Sì, scusami la violazione della privacy. Non avverto nulla di particolarmente preciso, non ho questo potere, quindi non credo di profanare nulla di eccessivo di chi viene a contatto con me. Riesco a sentire solo le sensazioni, i sentimenti. Li percepisco come se fossero miei. È una cosa che fa parte di me. Potrei controllarla, intendiamoci…”, sospira lungamente come se stesse affrontando un discorso già sostenuto, qualcosa che la tedia profondamente “…però dopo tanti anni è come… dover controllare il respiro, o il battito delle ciglia. Non ci pensi, no?”. Cerca assenso nel mio sguardo e, in un afflato di comprensione, annuisco piano senza sapere cos’altro potrei aggiungere di diverso.

Lei allora sembra cogliere la mia indecisione, forse la fraintende con una sorta di reticenza per il suo andarsene in giro a scandagliare gli animi umani quindi si affretta a replicare, incespicando sulle parole: “Potresti obiettare dicendo che la mia capacità riguarda però le altre persone… quindi, come dice Chris, sarebbe corretto porsi un freno e non sondare continuamente gli altri senza che nemmeno se ne rendano conto. Se però lui sentisse quello che sento io, capirebbe…”, si massaggia il collo con stanchezza, come se fosse improvvisamente affaticata, sebbene nessuna parte di lei rechi tracce di una qualche forma di fatica.

Torna quindi a guardarmi colpita, piegando un po’ la testa di lato, come se stesse cercando di imprimersi qualcosa nel cervello analizzando la mia immagine. Le restituisco uno sguardo torbido, fosco, mentre mi stringo nelle spalle.

“Chris capirebbe…” rincara quindi con un filo di voce “… se avesse sentito… te”.

La confidenza del pronome personale mi colpisce traditrice tra le costole, come una sorta di dardo fiammeggiante. Sussulto, trasalgo, ancora una volta spasmodicamente presa dall’esame delle mie sensazioni durante il nostro colloquio. Ma non ci trovo, di nuovo, niente di trascendentale.

Non legge i pensieri, quindi cos’altro può aver sentito di particolare in me?

Forse ero annoiata? Per uno sciocco momento, penso che possa aver sentito meno che abnegazione alla mia professione e che, per questo, voglia tipo fare rapporto al Ministro. Ma mi parrebbe una elucubrazione mentale davvero pessima. Senza contare che comunque sono stata professionale e precisa nel mio lavoro.

Con una subitanea illuminazione ricordo che, solo qualche settimana fa, anche la profetessa Tatia con la figlia Charlotte mi avevano fatto sentire “strana”, come se fossi una specie di fenomeno da baraccone, alla pari di un dinosauro che cammina per Londra.

E pensare che, alla scoperta della sua natura, credevo io di aver guardato così Helder.

Remissiva, mi abbandono allo schienale della sedia e do voce ai miei pensieri con aria stufa: “Qualche settimana fa, una Profetessa ha candidamente ammesso che ho un’aura strana. Grigia, ha detto. Ora un’Empatica… dovrei fare una sorta di screening preparatorio all’ingresso”.

Helder assorbe il mio commento sarcastico con una risata genuina che ha il significativo dono di alleggerire un po’ l’atmosfera, mentre commenta divertita: “Se per i casi umani con cui lavori, lo sei diventata tu… un caso umano, intendo… forse dovresti porti due domande”.

“Se sapessi quali domande pormi, lo avrei già fatto” bercio scocciata, massaggiandomi la tempia con il pollice, descrivendo linee circolari. Non penso di andarmene in giro con una sorta di insegna luminosa che mi candida a “individuo potenzialmente da studiare”.

Eppure, è la seconda volta che mi accade.

D’un tratto, con una colata gelida sulla nuca, metto nello schema tutte le bizzarrie che mi hanno colpito ultimamente: e se ci fosse davvero qualcosa di strano in me?

Mangiandomi l’interno della guancia con frenesia, allungo il calderone di pensieri, apparentemente dimentica di Helder. Il ricordo mai vissuto, il figlio mai esistito.

Non mi fermo a quello però: mulinano i pensieri e conto la strana distanza da mio marito, dai miei figli, dalla mia famiglia. E poi, con un tonfo sordo nel petto, arrivo alla parte peggiore.

Malfoy. Draco.

Sono corsa a casa sua nel cuore della notte di Natale.

Mi fido di lui più che di me stessa.

Conosco il suo segreto più profondo.

Non riesco a smettere di chiamarlo Draco nella mia testa.

Scrollo il capo, è ovvio che ogni strano personaggio che capiti a tiro mi vede avvolta da un alone di anormalità. Ci manca solo che mi spunti una coda da barboncino ed inizi a parlare in babilonese stretto, e siamo a posto. Magari adesso ci capirò qualcosa. Tatia Krasova mi ha incasinato la testa, magari Helder Bode me la snebbia un po’.

Chiedo perciò incerta ed esitante, ma con una sferzata di coraggio: “Cosa hai visto in me?”.

Lei mi studia ancora con profonda attenzione, pare cercare sempre le parole giuste per spiegarsi nella maniera migliore possibile. Probabile che, se il suo potere deriva dalla percezione delle sensazioni, non sia così semplice articolare tutto in parole intellegibili.

I suoi occhi, tinti di vaghi riflessi bronzei, corrono per un attimo fuori dalla finestra, ci incespicano sulle nuvole ritagliate dal cielo, come a cercarne un suggerimento tacito che non so se riesce a trovare.

Poi, tornando a me che inizio a spazientirmi, sorride brevemente ed asserisce rassicurante: “Non parlerò del tuo cuore. E nemmeno di quel tarlo che ti attraversa la mente”.

“Un… tarlo?” mi ritrovo ad aggrapparmi ancora all’orlo della sedia, le unghie grattano sul tessuto un po’ consumato sugli angoli e pendo dalle sue labbra come se fossi una supplice in attesa di assoluzione.

Non faccio ovvia fatica a capire di che cosa stia parlando. Anzi, di chi sta parlando.

La domanda retorica è solo il tentativo patetico di nasconderlo alle mie stesse volizioni, ai miei stessi pensieri. Quando invece so perfettamente che se ne sta lì, smisurato e spaventoso, a prendersi gioco di ogni singolo gesto, movimento e sguardo, che per somiglianza di contenuto mi riporteranno indietro.

Fino a quando non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Helder mi riserva ancora uno sguardo carico di insopportabile indulgenza, di una specie di dolcezza frammista ad una sincera pena, che corrode acre il mio stomaco. Però, nonostante cerco di farle capire con lo sguardo di non andare oltre, lei prosegue intraprendente, come se d’un tratto avesse perso ogni remora ultima di inibizione: “E’ qualcuno… che macera i tuoi pensieri. Non ho mai visto una definizione così calzante della lingua che batte dove il dente duole. E’ una specie di riflesso condizionato. Ci pensi in continuazione, persino quando non te ne rendi conto. Ci sono poche persone fatte per essere indimenticabili. Credo che lui… chiunque sia… sia una persona indimenticabile. Un tempo, persone così venivano chiamate Zahir”.

La gola mi si secca ancora di più, mi sento esaminata come se fossi imputata di un processo, prossima al rogo. L’incendio lo sento persino stagliarsi contro le mie membra, ne assaggio il calore mortale, ne suda ogni cellula del mio corpo, avvolge di spire terribili di cenere l’aria che respiro.

Helder non legge nel pensiero, me lo ha detto, lo so persino io da quel poco che conosco degli Empatici: altrimenti sarebbero Telepati o Legilimanti.

Sono solo sensazioni, eppure senza alcuna esitazione ha detto lui.

Cosa c’è nei miei pensieri per coniugarli subito al maschile?

Terrorizzata da qualsiasi corollario di quella constatazione, biascico immediatamente, la voce acuta e stridula, alzandomi in piedi nervosa: “Non è una persona indimenticabile. Non è nemmeno uno Zahir-qualcosa-o-come-diamine-si-chiama. E’ qualcosa che… non capisco”. Lo aggiungo con una repentina intuizione che rimette tutto in prospettiva. Rifacendomi alle sue parole precedenti, mi glorio felice di professare: “E’ una maledetta girandola colorata, come hai detto tu”.

“Dalle dimensioni lo definirei piuttosto l’intero spettacolo pirotecnico del 4 luglio” sogghigna Helder saputa, riservandomi l’ennesima occhiata ilare.

“Avevi detto di non voler parlare di questo” replico piccata, tornando a sedermi e distogliendo lo sguardo da lei.

Helder pare colpita dal mio riferimento alle sue parole precedenti, come se si fosse posta un limite che ovviamente non ha rispettato e ciò le dolga non poco. Quindi si affanna a proseguire monocorde: “Certo, sorvoliamo. Non so cosa fosse l’aura grigia che vedeva la Profetessa. Ma so cosa vedo io…”, fa una pausa studiata, ad effetto, a verificare che io sia ancora attenta e presente ad ascoltarla. Annuisco con il capo, sporgendomi per ascoltarla, mentre lei sussurra in un fiato sofferente: “Vedo… magia… nera. La più potente che abbia mai visto. So di che cosa sto parlando. Ho incrociato un Horcrux di Voldemort tanti anni fa, prima che fosse distrutto da voi. E certo, non era una passeggiata di salute sentirlo… ma aveva qualcosa di umano dentro. Di terribile, ma umano. In te, invece, ci sono le tracce di una Magia così oscura che… pare quella di un demonio. Non c’è niente dentro. Solo freddo, tenebre, potere smisurato”.

La rivelazione mi scompagina il respiro, mi pare che un’enorme iceberg ghiacciato mi si sia parato innanzi e io non abbia alcuna forza o potere per poterlo schivare.

Devo solo prepararmi all’impatto.

Penso automaticamente a mio marito, ai miei figli, alla mia famiglia, al tenerli tutti al sicuro. Il fatto che Helder parli di qualcosa peggiore di Voldemort, arresta il battito del mio cuore.

In nessuna mia fantasia necrotica di angoscia, ho mai concepito un male peggiore di quello. E’ una sorta di vertice massimo della malvagità, una vetta di depravazione per cui ogni criminale, ogni ladro, ogni assassino è da considerare strettamente e fortunatamente al ribasso.

Ora, invece, viene alluso a qualcosa di peggio, qualcosa che ha scelto me come vittima, qualcosa che mi si para nella testa in modo evidente per profeti ed empatici, ma che invece per me non ha alcuna tangente cognizione, cosa che mi lascia assolutamente priva di difesa.

Mi concentro sul mio respiro, veloce, ansante, irregolare, quasi a volerne trarre rassicurazione, ma non funziona ovviamente. E non funziona nemmeno quando, con una punta di sollievo nel fondo del ventre, noto persino che mi rassicura essere vittima di un incantesimo.

Perché forse significa che c’è davvero qualcosa che non va in me.

Il cauto senso di inoperosa gioia si stempera subito, considerando quanto resta senza risposta a questa prima rivelazione. Helder continua a guardarmi accorata, tentando inutilmente di tranquillizzarmi con lo sguardo, cosa che per inciso non ha alcun risultato.

“C-cosa potrebbe essere?” chiedo quando sono certa della fermezza della mia voce.

“Bella domanda…” risponde lei autenticamente costernata “Posso solo dirti che sei stata sicuramente incantata da qualcuno. Difficile è sapere come e da chi. C’è stato qualcosa di diverso in te negli ultimi giorni?”.

Il sollievo ritorna prudente, sbrilluccica come un lumicino nella nebbia spessa ed opaca.

Mi affanno a spiegare agitando le mani, un prurito negli occhi che metto a tacere con fastidio: “Non so nemmeno da dove dovrei cominciare. Ho… vissuto un ricordo. Quello che sembrava essere un ricordo. Che io non ho mai vissuto. E… talvolta…”. Mi fermo a disagio, incapace di proseguire, mentre metto a fuoco quella sensazione di strappo che avverto dentro di me, come una specie di taglio nel vivo, suppurante di strazio.

Helder mi incoraggia a proseguire, allunga una mano calda che copre la mia, artigliata sulla scrivania. Accetto la carezza con gratitudine, sospingo il groppone giù per la faringe e proseguo incerta, come se facessi fatica a ricostruire il pensiero e a presentarlo fuori di me stessa: “… sono convinta di avere un figlio che non ho mai avuto. Penso persino di sapere come si chiama. Credo…. credo che si chiami Alexander, come mio padre…”, i miei pensieri si ingarbugliano come se avessero una volontà propria, intricata e terribile di sfuggire al mio controllo. E’ la prima volta che ad alta voce esprimo quel pensiero, che do voce a quell’immagine, che pronuncio quel nome, e mi pare di sentirmene consumata dall’interno come cera di una candela.

Di notte, la nettezza di quell’immagine è sconcertante, posso persino ricostruire il profumo di quel bambino sconosciuto. Mi avventuro nel riconoscere il suono argentino della sua voce, mi azzardo a pensare che gli piaccia il colore azzurro, che mangerebbe solo brownies, che detesta le carote.

Di giorno, faccio fatica ad afferrarne una qualsiasi nozione, come se fosse una sorta di miraggio pigro: lascio ai sogni, come a briciole di Pollicino, di ridarmi il puzzle di questo bambino.

Di cui non conosco nemmeno il viso, ma a cui mi sento così legata da strapparmi le viscere.

Helder mi lascia perdere nei miei pensieri, prima che le chieda esausta, un peso sullo stomaco: “Può avere senso secondo te?”.

Lei ci riflette autenticamente su, non prima di avermi gettato un’occhiata in tralice che è quasi stucchevole, dolciastra, per la tenerezza che ci mette in modo istintivo, come a riconoscermi sempre la vittima di un feroce incanto che mi sta togliendo il senno. Il suo sguardo, paradossalmente, invece che innervosirmi mi rassicura moltissimo: pensare che ci sia un vero ed autentico problema, mi fa sentire a posto con la coscienza, mi permette di sentirmi meno colpevole se vado a comparare lo strappo al ventre per il bambino sconosciuto e i sentimenti che provo di amore infinito, immenso, per Rose ed Hugo.                                                                                                      

“Tutto può avere senso…” termina lei con decisione, guardandomi ancora con amarezza “La gente si è persa anni dietro incantesimi e fatture del genere. Creati apposta per minare la mente, per farti dubitare del reale, per portarti alla follia. Ciò che è più potente nell’animo umano è il rimpianto. L’anatema del se fosse. Maledizioni simili si insinuano come vermi nel pensiero e, lentamente, lo svuotano. Fino a quando non hai più cognizione di te stessa”.

Chi diamine può avermi fatto una cosa del genere? E perché?

Rincorro teorie e nomi per diversi minuti, assentandomi completamente. Devo scavare nella memoria e tornare ai tempi della guerra per trovare qualche sospettato convincente.

Soprattutto per qualcosa che non è difficile riconoscere, dopo un primo esame della questione. E cioè che, se davvero esiste un Incantesimo, non ha solo me come vittima, ma anche Draco Malfoy. Non l’ho più sentito e nemmeno visto, però quella specie di ricordo lo ha vissuto anche lui, c’era anche in esso. Probabile che, dopo gli siano successe altre cose strane come i miei episodi onirici.

Se però il nesso tra me e Draco Malfoy è piuttosto scontato, lo diventa meno quando cerco di andare a ritroso nella mente per individuare un eventuale responsabile.

I miei nemici non possono essere quelli di Malfoy, anzi realisticamente è l’esatto contrario. Se c’è qualcuno che sta maledicendo me, mi pare improbabile che lo stia facendo anche con lui, sostanzialmente perché, sebbene in termini più liquidi e meno netti, siamo dalle parti opposte delle ideali barricate in cui è diviso ancora il mondo.

Chi potrebbe voler fare del male ad entrambi?

“Cosa dovrei fare?” chiedo a corto di idee e risoluzione ad Helder. Per un attimo, riconosco dentro di me una sorta di spinta istantanea a mettermi nelle sue mani, pare un’eco dimenticata di consuetudine, sebbene non la conosca e sebbene sarebbe stato più naturale per me dubitare delle sue parole come prima cosa, invece che accettare la sua versione dei fatti come oro colato.

Invece, non ho il benché minimo dubbio che non stia dicendo menzogne, anche se sono la diffidenza fatta persona in altri contesti.

Mi basta guardarla negli occhi, anche quando diventano di un altro colore.

“Devi farti aiutare da chi ne capisce di più in queste cose…” dice convincente, facendo un enorme sospiro di impotenza malcelata “E purtroppo non sono io. Mettiamo anche che io abbia scoperto il sintomo… ma per la diagnosi ci vuole qualcuno di esperto. In Magia oscura”.

“E a chi potrei rivolgermi? All’Ufficio Auror? Al Ministro?”.

“Per quanto siano lodevoli soluzioni, Hermione, io andrei alla radice del problema. Cercherei prima di tutto di capire di cosa si tratta. E c’è solo una persona che può aiutarti in questo…”, penso a decine di persone a cui si possa star riferendo, ma Helder tronca sul nascere ogni mia riflessione, pronunciando sicura: “L’insegnante di Difesa contro le Arti Oscure di Hogwarts. E’ il più grande studioso vivente di incantesimi di questo tipo. Si chiama… Ilai Radcenko”.

Il nome accende subito una tremula spia di riconoscimento nella mia testa, mentre riavvolgo il nastro dei giorni natalizi che mia figlia ha passato a casa: alle copiose domande che le ho fatto sull’inizio dell’anno scolastico, naturalmente da brava adolescente è sempre rimasta laconica e reticente. E’ stata prolissa solo quando ha parlato dell’insegnante di Difesa contro le Arti oscure.

“E’ un grande, mamma!”, la cui difficoltosa perifrasi è stata solo che è un uomo abbastanza giovane e piacente, ma al contempo molto preparato e che ha dei metodi di insegnamento moderni e coinvolgenti.

L’entusiasmo pare, però, bipartisan: ne hanno parlato benissimo anche Albus, a conferma dei racconti di James dello scorso anno. Stessa cosa ha detto anche Ginny, quindi penso che dovrebbe essere assodato che sia esperto nella sua materia.

Annuisco all’indirizzo di Helder: “Credo che me ne abbia parlato mia figlia Rose”.

“Vedrai che saprà aiutarti…” mi tranquillizza Helder, tornando a stringermi la mano con calore, poi un’ombra le vela lo sguardo, rendendolo plumbeo, quasi nero “So per esperienza che è il migliore in queste cose”.

“Faccende da Indicibili?” concludo automaticamente, guardandola con curiosità.

“Sì, mettiamola così” sorride lei, alzandosi in piedi e facendo cenno di congedarsi. Mi lascia con una nuova serie di rassicurazioni, portandomi anche esempi di sue conoscenze che hanno avuto problemi simili e le cui vicende si sono concluse positivamente. Mi dà anche il suo recapito, dicendomi che per qualsiasi cosa, posso chiamarla per chiederle consiglio.

Mi dà un buffetto sulla guancia prima di uscire, ed è allora che risorge dentro una domanda enorme che mi oscura quasi la vista.

La afferro per un braccio, trattenendola con un singhiozzo che vorrei tenermi dentro, ma viene fuori lo stesso. Sussurro, timorosa di sentire qualcos’altro di terrificante: “Hai parlato del mio cuore… cosa… cosa hai visto?”.

Gli occhi di Helder tornano dello stesso colore dei miei, paiono brillare nella semioscurità come fulmini di ambra. La sua mascella si indurisce e sembra improvvisamente furiosa, sconvolta, attonita.

Poi si sgonfia, torna al suo sguardo normale, mi stringe la mano, cercando di comunicarmi qualcosa oltre le parole che, però, rimane sospeso anche quando esce, portandosi dietro un odore di mughetto e limone che resta impregnato nelle pareti.

Come le sue parole, nella mia testa.

“E’ una cosa che non ho mai sentito. Come soffocare con la terra un rogo enorme. Come se ti avessero svuotata con un cucchiaio, Hermione Granger. E’… atroce. Sei sostanzialmente… cava. Vuota. Pochi orpelli di emozioni, lasciati a penzolare, sospesi… attorno ad un vuoto. Hai una voragine dentro… dove prima c’era un amore grande”. 

 

 

20 gennaio

 

Il rumore della carta, mentre la straccio e frantumo in mille pezzi, suona come una specie di ulteriore beffa, come se si umanizzasse al punto di ridermi contro, addosso, ovunque.

Per sfogare ancora di più la rabbia e la frustrazione represse, afferro la bacchetta dal comodino ed incendio repentinamente i frammenti rimasti: sfrigolano sul parquet come schegge prima di annerirsi e diventare polvere.

Il gufo di casa, Dante, ancora un po’ affannato per il lungo volo nel cuore della sera ghiacciata di brina e per l’altrettanto istantaneo ritorno a casa, osserva i miei movimenti facendo frullare le ali marroni spazientito, in attesa della sua ricompensa. Meccanicamente, la testa ingolfata, mi alzo in piedi, le molle del materasso stridono come in un orrendo film dell’orrore. Raggiungo la piccola vaschetta di bocconcini sul davanzale, gli consegno il suo pasto e Dante vola via, descrivendo una voluta nel cielo grigiastro a mo’ di freccia nera che resto a guardare inebetita per un po’, il vento freddo sul viso.

Mi sveglia dal torpore il cigolare della porta della camera da letto che si apre, mi raddrizzo eretta e, rapida, mi chino alla specchiera simulando gli ultimi tocchi di un maquillage che non ho nemmeno cominciato.

Ron entra in camera con i capelli ancora lievemente umidi dopo la doccia, si chiude i bottoni della camicia attentamente, timoroso di saltarne qualcuno, guarda la mia schiena e resta immobile, congelato, un accenno di respiro trattenuto. Mi chiudo nelle spalle in silenzio, come se ogni minuto di attesa gli portasse alle narici l’odore della carta bruciata.

Poi, con evidente simulata nonchalance, si siede sul materasso, armeggia con il maglione e le scarpe e mi chiede tranquillo, la voce impostata: “Sei pronta?”.

Annuisco con il capo, sollevando il pennello del blush e sventolandolo come un vessillo militare: “Quasi… se sei già pronto e Hugo sta dando di matto, puoi anche precedermi”. Il cuore mi batte in petto in attesa della risposta, accelera quando lo sento alzarsi e venirmi alle spalle, non incrocio il riflesso del suo sguardo nello specchio, fingendo profonda concentrazione, mentre le dita tremolano un po’.

Il suo sospiro, greve, sordo, pesante, mi solletica la nuca scatenando i brividi sulle braccia, mentre in un afflato rapido e malinconico sussurra: “Certo”.

Sospiro anche io, concedendomi dei gesti più lenti e misurati, aspettando che inforchi l’uscita, mentre raggiunge nostro figlio che sta già saltellando in preda all’entusiasmo, facendo ballare le assi del pavimento della scala.

“Ho visto volare Dante fuori dalla finestra poco fa…” la voce di mio marito mi sorprende come la canna metallica di una pistola alla nuca, quando pensavo di essere già virtualmente al sicuro. Deglutisco la poltiglia acida e nauseabonda che mi chiude la faringe e mi aggrappo alla maniglia di un cassetto, aprendolo senza necessità alcuna e tirandone fuori un foulard azzurro che non potrei mai indossare adesso, essendo troppo leggero. Eppure fingo di guardarlo con interesse come se stessi decidendo se è adatto o meno all’occasione. Nella trama di fili di cotone e seta, cerco delle parole, cerco l’espressione adatta, la cadenza, il respiro disattento sfuggito per caso.

Atteggio la fronte ad una piccola riflessione, poi la spiano automaticamente come se la risposta alla domanda di Ron fosse fiorita adesso, inconsapevole, nel silenzio di una cosa poco importante. Aggiungo quindi scontata, dandogli ancora le spalle ed agitando la mano con indifferenza: “Lavoro, sempre lavoro… basta prendersi due ore libere e Leda va in panico”.

La bugia è talmente convincente che Ron riesce persino a riderci su, sebbene so persino dal suono che la risata fa alle mie orecchie che è un verso gutturale, statico, di mera cortesia. Mi saluta con un respiro di bacio sulla nuca, sebbene ci vedremo tra pochi minuti, pare sempre che mi dica addio, e si Smaterializza con Hugo per mano che, nel suo entusiasmo da bambino, non dismette per un secondo gli urletti alla “Sbrigati papà!”.

Non appena capisco di essere sola in casa, non appena prevalgono nel silenzio di nuovo i rumori sottili del legno che si assesta, la mia mano lascia cadere il pennello e il piumino della cipria, che atterrano sulla specchiera con un tonfo che risuona per mille e mille volte. Nascondo il tremore delle mani tra i capelli, mentre mi chino piegata e nascondo il viso tra le braccia: gli occhi restano spalancati e fissi nel buio che creo con il mio stesso corpo, mi concentro solo sul respiro e sul battito irregolare del cuore, isolando fuori da me stessa le lacrime che, minacciose, mi arrivano agli occhi e si mangiano già il mascara che ho messo distrattamente, irregolarmente, senza alcuna attenzione, solo per avere la scusa di restare qui ancora un altro po’.

Quella consapevolezza mi riporta in piedi, come se in modo confuso persino io sapessi che lasciarmi andare significa dare ogni volta di più l’alibi all’inedia di trascinarmi via, in basso, senza farmi più risalire. Cerco allora un vestito nell’armadio, faccio mente locale su dove sia finita la mia camicia glicine, sistemo il trenino rosso che Hugo ha lasciato in giro per la stanza, apro il portagioie sul comodino e ne tiro fuori due orecchini lucidi, d’oro giallo, a cerchio, che mi ha regalato Ron per il nostro anniversario. La tenerezza mi chiude la gola, mi spinge a fermarmi ancora immobile e a sedermi di nuovo sul letto, sfinita, spossata, come se nemmeno un altro singolo passo mi fosse minimamente possibile.

Ed è allora che il mio piede nudo, libero delle pantofole che ho lasciato sotto la specchiera, tocca con l’alluce un altro piccolo frammento di carta: si spezzetta nelle mie dita che lo raccolgono, ma non prima che io abbia letto di nuovo l’indirizzo del destinatario, il sangue che mi va alla testa lasciandomi esanime nel resto.  

Draco Lucius Malfoy, Malfoy Manor.

Stringo le labbra, sapere di essere stata probabilmente maledetta è stata una consolazione.

Dopo l’incontro con Helder, è stato come se ogni cosa si deformasse in preda ad un insperato respiro di sollievo: pareva tutto più tenue, più sussurrato, più combaciante tra sé e sé come se avesse trovato posto.

Per i primi giorni, non ho fatto altro che enumerare nella mia testa, come se fossero punti di una lunghissima lista, tutti i particolari di me che sembravano stonare da mesi, settimane, giorni, con la consolazione che Helder non aveva potuto fare alcuna stima sulla durata della mia maledizione. I bulbi vitrei nel buio delle stanze, contavo e ricontavo, smontando la mia vita pezzo per pezzo ed unendo come con i puntini della Settimana Enigmistica ogni traccia anormale, strana, difforme: la nausea, il fittizio ricordo, il sogno falso sul bambino.

Arrivavo poi, con febbrile rapidità e immediata consolazione, alla sensazione di estraneità con la mia famiglia, al rancore per Ron, alle trascuratezze per i miei figli, fino a giungere come in un piano inclinato a 90°, a quel subitaneo senso di fiducia per Draco Malfoy e a quella corsa forsennata a casa sua la sera della Vigilia di Natale.

Anche l’accenno orribile al mio cuore è diventato una specie di disco rotto che, con voce metallica, ripeteva la cantilena di una maledizione che era giunta persino a togliermi Ron dal cuore.

Una voragine dentro… dove prima c’era un amore grande: poteva essere solo questo.

Posso persino dire che, di primo acchito, la scoperta di essere stata fatturata mi ha reso allegra e vitale come non ero da mesi. Ho iniziato a prendere una pozione per evitare i sogni notturni, così da non rivedere più il bambino e non provare più quello straziante senso di distacco. Dopo qualche giorno, ho anche iniziato a fare delle ricerche, una volta messo a fuoco che essere stata maledetta non era qualcosa su cui rallegrarsi e che poteva comportare che mettessi a rischio le persone che amo.

Helder mi ha garantito il massimo aiuto possibile, da parte sua si è offerta di cercare qualsiasi informazione utile, ma io da sola nelle pause del lavoro o nell’attesa che la cena finisse di cuocere, ho iniziato in modo affannoso a spulciare libri, interrogare testi, fabbricare congetture, realizzare schemi. Non ho scoperto moltissimo, ci sono decine di maledizioni che potrebbero avere in comune parte dei miei sintomi. Nemmeno scandagliare il mio privato, ha portato ad un qualche sospettato: le piccole antipatie ed avversioni sembrano sempre troppo insignificanti per portare ad un incanto simile, definito peraltro più oscuro dei malefici di Voldemort.

Lì, d’altronde, la mia mente si incaglia: immaginare Voldemort è già sentire la mente invasa da acre fumo nero di tomba, morte. Immaginare qualcosa di peggio, è qualcosa che non oso nemmeno arrivare a concepire lontanamente.

Mi sono allora focalizzata su colui che Helder mi aveva indicato come probabile risolutore del mio problema: l’insegnante di Difesa contro le Arti oscure. Ilariy Nikolaj Radcenko.

Ogni parte del suo curriculum è parsa assolutamente impeccabile: sulla quarantina, di origine russa, diplomato a pieni voti a Durmstrang, estraneo a qualsiasi vicenda oscura, perfeziona i suoi studi con la conoscenza delle antiche scienze alchemiche durante un lungo soggiorno a Kathmandu, senza contare ricerche sulle maledizioni sciamaniche in Patagonia, sui demoni mistici in Giappone e persino sui principi più avanzati della fisica, quando per diversi anni vive a Boston e frequenta il Dipartimento di Fisica di Harvard. Vive in Inghilterra solo da qualche anno, continua le sue ricerche ed intanto si dedica all’attività accademica presso Hogwarts, che si è sempre ritenuta enormemente fortunata ad averlo come insegnante.

Radcenko, peraltro, in ulteriore ossequio ad una sua perfezione quasi palese, è un insegnante capace, coinvolgente, particolarmente a suo agio con bambini e ragazzi: pare che abbia rivoluzionato il modo di affrontare lo studio della Difesa contro le arti oscure, implementando lo stesso modo di fare molto operativo che aveva Lupin. Questo, inevitabilmente, ha portato ad un boom di iscrizioni ad Hogwarts anche di francesi e mitteleuropei.

Ho letto tutto con un feroce senso di invidia per mia figlia: avrei voluto averlo io un insegnante simile ai miei tempi. Tralasciando Remus, le mie esperienze non sono state certo così edificanti.

Con un senso perciò di deferenza, ho scritto, cancellato e riscritto una lettera per Ilariy Radcenko, chiedendogli un colloquio privato: delusa, ho ricevuto risposta da un tale Ivan Gargovich, che si è firmato come una specie di segretario particolare dell’insegnante e che ha asserito con il tono scocciato che permeava persino dalla carta, che il dott. Radcenko aveva l’agenda piena fino a luglio del prossimo anno e che quindi non era possibile fissare alcun incontro.

Mi ero già decisa a contattare il Ministero e smuovere un po’ le acque di miei vecchi agganci per poter aggirare l’ostacolo quando, una sera, mi è arrivata una nuova lettera da Hogwarts: avevo subito pensato a Rose, avevo stracciato la busta della missiva piena di preoccupazione ansiosa.

Ma invece a restituirmi lo sguardo è giunta una grafia lieve, precisa, allungata sulle lettere alte.

Essere un’ex Eroina del Mondo Magico ha sempre i suoi vantaggi: dopo aver letto il mio nome nella missiva ricevuta, Ilariy Radcenko si scusava per l’eccessiva abnegazione del suo assistente, chiedendomi in cosa potesse essere d’aiuto a me e al Ministero.

Naturalmente, ho constatato subito, l’accademico pensava di essere stato contattato perché potesse aiutarmi a risolvere qualche bega di lavoro: a patto di farmi promettere di essere particolarmente riservato, ho confessato che non si tratta di alcuna questione pubblica, ma invece di qualcosa assolutamente personale.

Temevo che a quel punto Radcenko mi rispondesse picche, ma dopo pochi giorni mi aveva scritto esortandomi a spiegargli cosa fosse successo e promettendomi che, se ne fosse stato in grado, mi avrebbe aiutato.

È cominciata così una lunga corrispondenza dove ho spiegato sommariamente il mio problema e la teoria di Helder sul fatto che fossi stata maledetta: sebbene non sia scesa molto nei particolari, Radcenko ha subito riconosciuto qualcosa che gli suonava come familiare, accennandomi a qualcosa che ha chiamato “tentazione del multiverso”, una teoria ancora embrionale su cui pare stia lavorando da qualche anno con un’altra studiosa, tale Eva Lancaster. La definizione “tentazione del multiverso” mi ha ovviamente incuriosito molto, ma il professore è rimasto molto vago a riguardo, rinviando il tutto ad un incontro ad Hogwarts dove avremmo potuto parlarne personalmente: essendo la teoria completamente inedita, anche le mie incuriosite ricerche successive non mi hanno fatto cavare un ragno dal buco.

Dopo un paio di ulteriori missive, Radcenko mi ha dato appuntamento ad Hogwarts il pomeriggio del 30 gennaio, approfittando di un momento di pausa delle lezioni e delle sue ricerche a causa di un convegno a Sofia che era provvidenzialmente saltato.

Ho letto la lettera con un saltello di contentezza, fino ad arrivare all’ultima riga prima dei saluti.

“Dimenticavo, Mrs. Weasley: mi ha accennato stringatamente che ad essere colpita dal maleficio pare vi sia anche un’altra persona. Non vi ha più fatto riferimento, non vorrei aver letto male. Però se mi conferma che è così, sarebbe bene che incontrassi anche costui o costei assieme a lei. Molti incanti di tale natura possono essere variamente legati tra di loro, e per me comprenderne la natura potrebbe essere impossibile se non ci sia anche l’altro elemento. Confido in questo.

Ilariy Radcenko”.

La frustrazione rabbiosa mi ha avvolto come una specie di miasma: in poche parole, volente o nolente, dovevo chiedere a Malfoy di venire ad Hogwarts con me quando, dalla famigerata sera di Natale, non abbiamo avuto più alcun genere di contatto, nemmeno mediato dai Weasley.

Il fatto di non averlo più rivisto, lo ammetto, mi ha all’inizio confortato parecchio, non avevo e non ho alcuna volontà di incontrarlo dopo aver scoperto il segreto del suo matrimonio. Mi è così rimbalzato in testa per giorni da avermi contuso il cervello. E non arrivo nemmeno a menzionare quella specie di abbandono che, senza premeditazione, avevo provato nei suoi confronti: convinta come sono che si tratti di una specie di ulteriore maleficio a mio danno, mi sono data pena di analizzare bene di che cosa si trattava, non presa più dal timore di scartare quella sensazione nella mia testa, la fiducia sterminata, istantanea, subitanea come quella ingenua dei bambini, ed io bambina, bambina così non sono mai stata, sono sempre stata diffidente, sospettosa, circospetta, e lui più di tutti mi ha sempre istillato nient’altro che dubbi, teorie, preconcetti, pregiudizi, perché lui era il cattivo, il male, il quasi assassino, il Mangiamorte, e non è cambiato niente, non è cambiato lui, non sono cambiata io, non è cambiato il mondo: ed invece no, se precipito nel vuoto, se vedo il buio avvicinarsi, se sento il vento nella mente sferzarmi le membra, so che a tuffarsi dietro di me, a salvarmi, a lottare perché io resti in vita, non c’è mio marito, Ron, Ronald Weasley, capelli rossi, lentiggini, orecchie che si arrossano quando è emozionato, occhi azzurri di mia figlia, odore di dentifricio alla menta piperita.

Non c’è mio marito.

Se penso alla fiducia, se penso al salto nel vuoto, a seguirmi per morire con me, c’è Draco Malfoy, Draco Lucius Malfoy, capelli biondi, labbra sottili arricciate, voce strascicata, occhi grigi che mi scavano sotto la pelle, cuore vergine e mai innamorato, odore di erba bagnata a settembre.

C’è solo lui.

Se non è un maleficio questo, e dei più perfidi ed infidi, non so quale potrebbe esserlo.

Con riluttanza quindi, sapendo che comunque la mia consulenza da Ilariy Radcenko poteva rivelarsi infruttuosa senza la presenza di Draco Malfoy, avevo deciso di scrivergli una lettera, impostandomi prima su un approccio soft per poi giungere al nocciolo della questione. Non conosco infatti Malfoy al punto di immaginare come reagirebbe se sapesse che, con lui bellamente inconsapevole, ho preso contatti per risolvere il nostro comune problema: anche se non lo avevo minimamente menzionato con Radcenko, poteva darsi che avrebbe considerato un’ingerenza che facessi indagini senza di lui, sebbene fosse coinvolto nella cosa.

Quindi, dopo aver cancellato e riscritto lo stesso scarno messaggio per diciotto volte, suscitando la reazione pettegola e scomposta di Leda che mi spiava da dietro lo stipite della porta, ho optato per una lettera neutra in cui, Grifondoro fino al midollo, lo informavo delle ultime decisioni riguardo al matrimonio di Teddy e Victorie e di cui voleva essere sempre tenuto al corrente, come pattuito in quella sera strana di Natale.

Il premio che ne avevo avuto, in compenso, era stato conoscere la sua mente fino al suo segreto più profondo. Qualcosa che era stata più una maledizione che un premio.

In calce, a fine lettera, aggiungevo casuale che avevo bisogno di parlargli in riferimento all’episodio della sera di Natale; non entravo troppo nei dettagli, così da tenere al sicuro la vicenda nel caso sua moglie aprisse la sua corrispondenza e, allo stesso tempo, speravo di indurlo a scrivermi in risposta per la curiosità.

Naturalmente, le cose non sono andate così.

Non solo Malfoy non mi ha mai scritto in risposta, ma tutte le mie lettere sono tornate esattamente identiche al mittente. Potevo pensare a qualche goffo disguido dei gufi, ma ogni busta è diligentemente aperta, sebbene dalla posizione della carta da lettera, deduco sempre che non è andato oltre le prime righe a leggere. Probabilmente, si limita alla data e a quei “Malfoy!”, sempre meno cauti, sempre più furiosi, sempre più carichi di rabbia in risposta al suo menefreghismo totale.

I miei istinti di omicidio e minaccia per via scritta, al ridursi dei giorni prima dell’appuntamento con Radcenko, si sono fatti via via sempre più violenti e selvaggi, fino a trattenermi bruscamente dal riempire la missiva di Artiglio del Diavolo o dal farmi nuovamente piombare in casa sua, stavolta munita di lanciafiamme.

Ovviamente, potrei anche andare da sola da Radcenko, ma, oltre a temere che così non riesca a capire quale è il problema, mi sconcerta che Malfoy sia così indifferente a quello che ci sta succedendo. Come diamine ha fatto a liquidare quella specie di ricordo con una scrollata di spalle?

Possibile che… ossessioni solamente me?

La domanda, diventata ampiamente retorica al prolungarsi del silenzio di Malfoy, ha cominciato ad inseguirmi come una fiera affamata: più constato che a lui non interessa niente della cosa, tanto da non avere nemmeno il tempo, la voglia o l’educazione di rispondermi, più temo che la sua reazione sia quella normale e che sia invece la mia quella sproporzionata.

Probabilmente, al contrario di quanto avessi pensato, lui non ha alcun altro sintomo. Perciò ha cancellato dalla sua testa il pensiero di quel momento, dandosi una qualche giustificazione mentale che lo ha calmato e rasserenato.

Lui non sogna nessun bambino biondo da chiamare figlio, non prova lo sgomento di provare maggiore intimità verso un miraggio, che verso il proprio vero bambino quando chiede una cosa e pare solo muovere le labbra a vuoto.

Lui non prova nessuna nausea sferzante, continua, che risale dalla bocca dello stomaco nei momenti più disparati della giornata, minacciando di rivoltarti dall’interno come se fossi un vestito consunto e rovinato.

… ma, soprattutto, evidentemente, per lui la sera di Natale è stata una sorta di strano episodio che va raccontando ridendo, alla moglie, agli amici, al figlio, parlando della solitudine di una povera idiota che non trova niente di meglio da fare che venire a casa sua, di notte.

Ed avrebbe ragione, diamine.

A quelle riflessioni, mi coglie allora un senso patetico di chiusura ermetica dentro me stessa, raggomitolata nella vergogna assurda di essermi messa in ridicolo davanti a lui. In ufficio, per strada, a casa, mi sembra di portare scritto sulla fronte l’onta terribile della mia fuga notturna. Credo che chiunque me lo possa leggere scavato nel viso, e rinfacciarmelo con crudeltà, smontandomi pezzo per pezzo. Evito lo sguardo del passante, della commessa, del dipendente ministeriale. Di Leda, di Dean. E poi di Ginny, di Harry, di Hugo.

Ed, infine, di Ron.

Lui che, ovviamente, dopo un po’ ha compreso che ci fosse qualcos’altro oltre alla mia semplice stizza per il litigio della sera della Vigilia. Ha iniziato a percepire che gli stessi lontana, che uscissi prima la mattina e rientrassi quando era già a letto, che mi chiudessi in bagno a restare immobile, ad occhi chiusi, la nuca sul legno della porta.

Però, come sempre è stato e come sempre sarà, attende in silenzio, una ruga continua ai lati delle labbra, mentre mi guarda sopra i bicchieri della tavola apparecchiata, nello spiraglio della porta rimasta accostata, nel riflesso all’indietro dello specchio.

Attende che io parli, mi spieghi, esploda.

Ed io lo faccio: ma non con lui.

Prendo di nuovo pergamena e piuma, scavo le lettere nella carta, incido e scolpisco, inveisco e minaccio.

Scrivo ancora a Draco Malfoy, aspettando di nuovo la busta aperta e la lettera non toccata, forte della ragione che mi danno le supposizioni di Tatia Krasova, Helder Bode ed Ilariy Radcenko.

Io ho un problema, Ron, non sei tu, sono io.

E già mi sento quelle frasi idiote da film stucchevole, già ti metto in una parentesi senza esponente dove condannarti, chiuso, a non capire, a non sapere, a non immaginare.

Perché non voglio che mi aiuti tu, mio marito.

Voglio che mi aiuti lui, e non so il perché.

In tutto questo, la cosa peggiore che potesse accadermi è, ovviamente, l’ennesima riunione famigliare, cosa che mi sarei evitata con un raffinato giro di scuse, se non fosse che si tratta del compleanno di Fred jr, da sempre la ricorrenza preferita di Hugo di tutto l’anno, persino più del Natale.

Al compleanno di Fred, infatti, suo padre George ha la precipua tendenza a provare tutti i Tiri Vispi Weasley ancora in fase di sperimentazione, coinvolgendo i nipoti in una specie di gara al massacro che si conclude quando qualcuno, tendenzialmente io, inizia ad urlare alla vista di una testa che rotola sulle scale di casa o di un enorme luccio che spara vernice argentata sulle pareti.

Se quindi già di umore normale, la festa di Fred mi ridurrebbe allo stremo mentale e alla voglia di gettarmi sotto un treno in corsa per risparmiarmi l’agonia, figuriamoci quanto possa essere entusiasta se sono in questo stato pseudo catatonico e se, come se non bastasse, imperterrita ho scritto nuovamente a Malfoy pochi minuti fa, ricevendo stavolta una busta nemmeno aperta, intatta come quando l’ho spedita.

Il mio senso di colpa di madre, però, che ha trascurato Hugo e continua a farlo in virtù di una foresta di fantasie sconvolte e polverizzate dalla mia ragione, mi impone alla fine di alzarmi in piedi e, meccanicamente, un passo dopo l’altro, comandarmi una serie di piccoli ordini semplici da portare a termine. Adesso, alzati dal letto Hermione. Finisci di vestirti, scegli qualcosa che ti fa sentire a tuo agio, ecco, camicia glicine e pantaloni grigi. Allunga la linea nera dentro l’occhio come se ci avessi messo cura a fingere uno sguardo più profondo. Indossa il braccialetto con le iniziali dei tuoi figli, accarezzale piano come se fossero la pelle dietro le loro orecchie, la sera, mentre dormono e li baci ignari nel loro letto. Annoda i capelli adesso, Hermione, tira indietro le ciocche ribelli.

Respira, a lungo, nella sciarpa grigia, fino a quando non sarai pronta.

Rimetti il sorriso sul viso, quello tirato che conoscono tutti, ma che nessuno oserà contraddire.

Ma soprattutto, Hermione, seppellisci il segreto: e cioè che, ormai, non sei più tu.

La moglie, la madre, la nuora, la professionista, l’amica.

Mettiti addosso quelle sembianze e gioca a convincere che siano le tue, anche se non è così.

Perché, in pochi attimi, sei cambiata così tanto da essere un’estranea per tutti.

Compresa te stessa.

 

 

Quando arrivo alla Tana, stranamente mi rendo conto che potrebbe persino essere una bella serata: per ovviare infatti ai nostri frequenti scatti nervosi e crisi isteriche per gli scherzi dei ragazzi, quest’anno George ha pensato bene di costruire una sorta di serra gonfiabile, insonorizzata ed a prova di infortunio, dove i nostri figli si possano divertire senza per questo condurci alla follia.

Appena arrivo vengo subito dirottata in casa, dove i miei suoceri e cognati sono seduti in salotto accanto al camino, che proietta ombre lunghe color rubino contro le pareti mentre l’aria si satura di odore di resina e ambra. Gli unici assenti sono Percy e Audrey e naturalmente Cora, sempre poco coinvolta nelle ricorrenze famigliari. Stranamente manca anche Harry, ma Ginny mi rassicura brevemente parlando di non meglio identificate magagne all’ufficio Auror. Intercetto lo sguardo di Ron non appena metto piede nella stanza salutando tutti, e con una nuova sferzata ostile di vergogna per il mio comportamento assurdo di questi giorni, decido di andarmi a sedere accanto a lui, azzardandomi anche ad allungare una mano per toccargli il braccio ed attirare la sua attenzione con un gesto di affetto. Ron mi restituisce uno sguardo acquoso, annegato in un sorriso luminoso: le sue dita si chiudono repentine sulla mia mano, serrando forte. Gli sorrido cauta in risposta, lasciando che mi attiri verso di lui e mi baci la tempia con dolcezza ritrovata.

Sempre più decisa a godermi la pace del focolare, accetto la tazza rossa sbeccata dove Molly mi serve un eggnog che, da esperienza decennale, so essere così alcolico da rendere infiammabile persino l’alito, senza contare che ha l’indice glicemico di un’intera pasticceria nel periodo dell’Avvento. Mi tengo persino in gola le rimostranze sul fatto che sia una bevanda natalizia e che, se Molly ci mettesse più attenzione, si potrebbe evitare di produrne in quantità tali da propinarcelo fino ad agosto. Rivolgo un sorriso riconoscente alla sua mano nodosa e lo sorseggio piano, in silenzio, godendomi le chiacchiere tra i miei parenti, trovando persino divertenti le battute, interessandomi agli aneddoti nuovi e ai pettegolezzi recenti.

Stasera è Fleur in vena di chiacchiere, agita le lunghe braccia magre come un mulino a vento, al ritmo della foga del suo discorso. Ha il viso rosso, chiazzato sulle guance lisce di seta, mentre ripete con la voce strozzata: “Quella commessa era… obscène!”.

“Ancora con questa storia, Flo?” la riprende incolore Bill, osservandola di sbieco e restituendo un’alzata di spalle all’indirizzo di George che, cautamente, deve aver chiesto spiegazioni.

Fleur, per nulla intimorita, agita i pugni in alto, aprendo la bocca e guardando Bill profondamente offesa, come se non credesse che lui non sia furibondo come lei. La osservo dal basso della mia tazza sbeccata, chiedendomi come faccia ad essere sempre così perfetta, persino in un momento di ira pura, persino con gli stivaletti ornati di pelo nero, persino con un maglioncino con la stampa di fiocchi di neve: io sembrerei una specie di pesce palla in posizione di combattimento.

Fleur, invece, agita la chioma bionda e travolge gli astanti di un profumo gentile di rosa, in tutto e per tutto ancora identico a quello della ragazzina mezza Veela che entrò in Sala Comune per il Torneo Tremaghi. Persino Ron la guarda ancora come quel giorno, imbambolato e infatuato, gli occhi che strabuzzano spesso; poi sbatte le palpebre, scuote il capo ed annienta la magia remota del sangue della moglie di suo fratello. Osservo la scena indifferente, preoccupandomi però di aggrottare le sopracciglia a fingere il fastidio che mio marito si aspetta, mentre Fleur con sussiego riprende: “Bien sur, ci mancherebbe che non lascio perdere, stiamo parlando di Diagon Alley, non di un negozietto di periferia qualunque, inconcevable!”.

Comprendendo di essere più o meno la sola a non conoscere l’episodio, viste le facce rassegnate dei miei parenti, mi affretto a chiedere compita, lo zabaione che mi incendia la gola e mi costringe ad un colpo di tosse: “Cosa è successo?”.

Bill precede la moglie che resta a bocca spalancata come un luccio all’amo, prima di scoccargli un’occhiata infastidita: “Victorie ha fatto un giro per Diagon Alley qualche giorno fa assieme a Flo, per farsi un’idea dei vestiti da sposa. Insomma, ne aveva addocchiato uno… ma…”. Bill sospira a lungo cercando l’ispirazione per continuare, probabilmente indeciso tra un tono neutro che farebbe innervosire Fleur ed uno estremamente drammatico che però sarebbe una forzatura.

A togliergli le castagne dal fuoco interviene Ginny che, con il consueto schiocco schietto di lingua, sciorina velocemente: “… ma quando ha chiesto se poteva essere allargato per il matrimonio a maggio, la commessa ha avuto una specie di crisi puritana e mistica, appena ha capito che Victorie è incinta”.

Naturalmente il viso di Ginny ed il fatto che rotei gli occhi come se fossero pale eoliche, mi porta automaticamente a soffocare una risata dentro l’eggnog, cosa che mi porta comunque ad un principio di asfissia, visto il contenuto alcolico dello stesso.

Connaissez-vous?” mi chiede accorata Fleur, convinta di poter ricevere da me una qualche forma di empatia comprensiva che, evidentemente, manca al resto della famiglia. Ron, quasi esortandomi a fingere una risposta qualsiasi, mi stringe la mano con le dita due volte come un segnale telepatico. Gliela stringo a mia volta, comprendendo il messaggio subliminale.

“Flo, il francese…” la riprende bonariamente Bill grattandosi la nuca “Dubito che alla vecchiaia mia madre diventerà bilingue”.

Molly fa un enorme cenno di assenso, borbottando qualcosa sottovoce che però non impensierisce minimamente Fleur che, agitando la mano in un nobile gesto da aristocratica decaduta, aggiunge ovvia, accentuando caricaturalmente le parole: “Capisci, Hermione? Era chiaro cosa volessi dire, Bill”.

Prima ancora che io però possa rispondere, Molly, probabilmente ancora irritata dall’uso reiterato del francese, saetta con voce acida: “Devi ammettere però che non è una cosa… ordinaria… che una ragazzina come Victorie sia incinta e che si sposi”.

Ginny, George e Ron, presagendo la stoccata sempre precisa per una faccenda che non è mai andata giù alla loro madre, si sbattono le mani sulla fronte con una così contemporanea e sincronizzata rassegnazione, da spingermi ancora ad una sincera risata che, di nuovo, annego nello zabaione, fingendo di prenderne un ulteriore sorso.

Dèchets, sciocchezze, pardon…” asserisce Fleur, incrociando le braccia con fastidio “La professionalità dove è finita in questo sciagurato paese? Era così… horrible… era semplicemente gelosa di Vicky… quella racchia…”.

“Per questo però non ti è servita la traduzione” commenta Ron, gettando un’occhiata traversa a Bill e George che, naturalmente, rispondono con uno sguardo di intesa.

“La vostra lingua ha il pregio di avere insulti più… pregnanti” risponde Fleur scontata ed altezzosa, sistemandosi una piega del maglione.

“Oh credimi…” riprende George compito e serio “Si è sentita la pregnanza”.

L’assoluta imperturbabilità di George si traduce in uno scoppio generale di risate, che contagia persino Molly e Fleur.

E’ un attimo così rilassato e spontaneo che, come una specie di filo rosso stracciato, mi sento congiunta di nuovo a tutta la mia famiglia. Mi sento di nuovo al mio posto, come se mi fosse appartenuto da sempre: tutti gli altri pensieri ruggiscono come folate di vento fuori dalla finestra, come la pioggia che cade a grandi gocce sui vetri, senza poter tangere l’interno. La mano che Ron stringe nella mia, è calda, morbida. Sa delle prime uscite dopo la guerra, quando tutto il mondo sembrava di nuovo nostro. Mi sembra un tempo adesso più vicino, profumato di una vita che resta ancora dentro di me, senza andarsene davvero. Senza andarsene via, come ho pensato nelle ultime settimane.

Con un pizzico di dolcezza strabordante nel petto, porto la sua mano alle labbra, ne bacio le nocche chiuse. Ron, sorpreso, mi sorride piano e mi accarezza il palmo con il pollice.

A quel punto, notando che il fuoco necessita di essere rintuzzato ed alimentato con nuova legna, George si alza per andare a prenderne dell’altra, sollecitando anche Ron e Bill ad aiutarlo. Mio marito lo raggiunge borbottando, non prima di avermi baciato ancora. Ginny a sua volta decide di mandare un gufo ad Harry per chiedergli quando ha intenzione di raggiungerci, mentre Molly sale al piano superiore per controllare Arthur che è a letto influenzato. Angelina va invece a controllare i ragazzi.

Resto pertanto da sola con Fleur che, come me, si avvicina al fuoco, cercando di ricavarne calore.

“Victorie, però, l’ha presa bene?” le chiedo con un sorriso, i riflessi delle fiamme rendono i suoi capelli pieni di riflessi di oro rosso “Come sta?”.

Très bien, Hermione…” mi sorride lei, sembra d’improvviso ancora più giovane “Merci, è molto felice. Non… non lo avrei mai detto. E’ forte, fortissima, la mia bambina”.

La sua voce ha un tono così dolce, da spingermi automaticamente a metterle una mano su una spalla con un sorriso: “Ne devi essere molto fiera”.

“Lo sono…” assicura lei sincera “E, per quanto sia davvero il figlio di tutti noi, sono molto fiera anche di Teddy. E’ un uomo, fatto e finito. E’ un tale… soulagement… sollievo… poterla affidare a lui”.

“Non te ne pentirai mai, credimi…” la rassicuro con forza, convinta della maturità di entrambi i ragazzi. Stanno affrontando una prova così grande come una tale resilienza da poterne rimanere solo ammirati. Ed anche io, a mio modo, come semplice zia, sono davvero fiera di loro.

Mi guardo attorno con curiosità, constatando di non averli visti per nulla: “Sono di là con gli altri? Non li ho nemmeno salutati”. Mi pare strano che, nelle sue condizioni, Victorie si sia unita ai giochi spericolati dei suoi cugini.

Fleur nega velocemente con il capo, aggiungendo: “Vicky si è stancata molto in questi giorni, si sono alzati all’alba per la tumulazione… e Teddy era molto triste, davvero… volevano stare per conto loro”.

La parola tumulazione, così stonata nell’atmosfera distesa del momento, mi rimbalza sul costato come una palla di cannone, in completo disaccordo con il tono assolutamente normale di Fleur, quasi scontato, banale, ordinario.

Balbettando, la testa ghiacciata, chiedo stupita: “La t-tumulazione?”. Il fuoco, contro le mie mani ghiacciate, pare d’improvviso rovente, come se me le squagliasse.

Fleur, non mutando di una virgola il tono di voce sbiadito, aggiunge con calma spiegando: “Sì, hanno preferito farla di mattina presto… non tutti lo sanno ancora, così hanno evitato… journalistes… Rita Skeeter vagava attorno come un avvoltoio… Mon Dieu! E’ davvero vero che gli insulti mi vengono meglio in inglese”. Accompagna le ultime parole con una nuova risata vezzosa che, alle mie orecchie, giunge troppo stridula, ferendomi i timpani. Sento una vampata di ghiaccio artigliarsi ulteriormente sulla mia testa, prima che un atroce sospetto raggiunga la parte cosciente dei miei pensieri.

Allucinata, senza ulteriori esitazioni, l’afferro per un braccio richiamando la sua attenzione, prima di domandarle con voce debole: “Fleur… chi è morto?”.

Mia cognata sgrana gli enormi occhi azzurri, destinandomi una lunga occhiata profonda, tersa come il mare d’estate. Soggiunge con indifferenza: “Lady Narcissa Malfoy… pensavo lo sapessi… ho scritto a Dracò questa mattina… era distrutto, ma è stato molto gentil… le sue sofferenze sono terminate, povera donna…”.

Lascio il suo braccio come se fosse appestato, capace di trasmettermi una malattia mortale. Eppure, il contagio già risale dalle mie dita, rincorrendosi nel sangue, marcendo i tessuti, mangiandosi il mio cervello. Un secondo, un respiro, ed ogni parola irosa delle mie lettere torna alle mie mani che le hanno scritte, alle sue che le hanno aperte, spiandole ed intravedendole in una stanza che sapeva di fiori e morte.

Ghiaccio, rivoli di sudore freddo scivolano sulla schiena, senza fiato chiedo assente, quasi incosciente di me stessa: “Lui… Draco… t-ti ha risposto?”.

Fleur mi destina uno sguardo fiacco, eppure spalancato di una meraviglia che le sbarra gli occhi come se fosse sotto una luce intensa: “Poche righe, rien de ça… tu… lo hai chiamato Dracò”.

Il suo appunto mi serra le spalle, mentre contorco le mani in grembo guardando il fuoco quasi completamente consumato: “Un r-riflesso i-incondizionato… m-mi dispiace davvero… i-in fondo…”, non so nemmeno io che cosa dire, cosa non dire, cosa rivelare, cosa nascondere. Le parole di consuetudine, i luoghi comuni, i convenevoli si frantumano nella mia bocca cessando di esistere, lasciandoci un sapore farinoso e nauseante.

Non trovando altro da aggiungere, mentre ancora gli arti paiono immersi dentro un lago a 0 gradi dove non posso nemmeno sperare di nuotare, mi alzo in piedi, sorrido a Fleur ed aggiungo casuale sotto il suo sguardo ancora incerto: “Vado a b-bere qualcosa… questo maledetto zabaione mi ha prosciugato la gola”.

Non riesco nemmeno ad impormi un passo disteso, cauto, trasudante normalità, così da non destare sospetti e domande: corro fuori, incespicando nelle pieghe dei tappeti e negli stipiti delle porte, il cuore in gola, mentre come la volpe che fugge i cacciatori, evito le voci, le risate, i passi della gente amata.

Esco in giardino senza cappotto, senza cappello o sciarpa. Piove, diluvia scrociando dal cielo, grandi pozzanghere simili a tombe si aprono nel terreno come enormi buchi neri.

Mi piego sulla ringhiera, aggrappata come una penitente di Quaresima, le pupille dilatate, il respiro corto come se non avessi fatto solo pochi passi di quiete domestica, ma deserti di tentazioni e rovi.

La mia testa è una savana di parole, una dopo l’altra, una dietro l’altra, una più mostruosa dell’altra: ad ognuna penso che sia la peggiore e che abbia finito di divorarmi, ma con solerzia ricordo la successiva, ricordo che quel giorno ero ancora più arrabbiata, ricordo che pensai che era solamente uno stronzo menefreghista, ricordo che sospettai di nuovo di lui, ricordo che supposi che gli faceva comodo non risolvere la nostra maledizione perché l’aveva lanciata lui.

Ricordo ogni singola lettera, sono spine sotto le unghie, chiodi alle costole, frecce nello stomaco.

… e tua madre moriva in quelle parole, sotto quella mia raffica di insulti.

Cosa avrai pensato? Mi avrai dato la fiducia di credermi ignara?

O, vittima del nostro rancore, avrai pensato che non mi importasse? Che considerassi più importante la nostra stupida maledizione e non il tuo dolore?

Mi avrai odiato, certo… perché quella sera, ti vidi scivolare contro quella porta, e non piangere affatto, ma anzi tenerti gli occhi rossi asciutti, tersi, scintillanti che magari così faceva meno male, straziava meno, diventava una cosa razionale a cui ovviamente dovevi rassegnarti con una specie di lasciva consolazione selvaggia ed insapore.

Mi hai odiato Draco?

Sono stata lo sfogo di tutto il resto, ad ogni lettera hai spaccato qualcosa? Un vaso, una cornice con una fotografia, una statuetta di cristallo?

Eri solo nelle stanze vuote, nelle stanze che arieggiavano e perdevano l’odore di tua madre?

Ti sei arrabbiato furibondo con un elfo domestico, imponendogli di lasciare tutto com’era? O ti sei chiuso a chiave in camera, guardando per ore le crepe del pavimento?

Ed in tutto questo, arrivava una mia lettera.

… all’inizio… le hai aperte tutte, Draco.

Forse… perché speravi che io…

Quel pensiero mi riporta in piedi, ansimante, trafelata. Non pare una supposizione, pare legge, dogma, verità. Non ho dubbi, reticenze, cautele, titubanze. Niente.

La pioggia mi bagna senza sconti, la ignoro e, con foga, corro sul retro della Tana. Afferro Leotordo, gli lego un messaggio alla zampa scarabocchiato in fretta per il mio ufficio: una semplice richiesta che mi ricordino gli orari degli appuntamenti di domani.

Qualcosa a cui rispondono subito, usando degli Incantesimi automatici.

Il respiro soffocato, il volto rosso, rientro in casa, gocciolando sul pavimento.

Non mi interessa, non mi interessa più niente ormai: formicolo come una tarantolata nell’attesa, torno nel salotto dove la mia famiglia è di nuovo riunita.

Ron mi guarda interrogativo, con gli occhi mi indica la sedia accanto a lui.

Ma la sedia rimane vuota, lo sguardo mi resta pietra fusa, sciolta nel fuoco che continuo a fissare, lontana miglia da qui. Aspettando solo un frullo di ali.

Che arriva, pochi minuti dopo.

Lascio che tutti vedano il gufo, lascio che tutti vedano che è diretto a me, lascio che tutti leggano la mia noia mentre ne leggo il contenuto, rimarcando scocciata: “Leda ha combinato un altro pasticcio. Devo andare in ufficio… immediatamente”.

Fingo la rabbia repressa dell’ennesima botta di incompetenza della mia segretaria e, dandovi enfasi, brucio la missiva nel fuoco del camino, incenerendo il semplice ricapitolo della mia agenda.

Devo andarmene subito da qui: subito.

Ho la mente incredibilmente sgombra, nessun pensiero: saluti frettolosi, qualche moto di protesta, un bacio di Ron, una serie di raccomandazioni materne, una battuta scherzosa.

Tutto scivola indifferentemente fuori dal mio campo visivo, annuisco a tutto senza nemmeno rendermi conto di cosa sto facendo o dicendo.

Non conta più nient’altro.

Nessun’altro: torno un attimo in me pensandolo, sull’uscio di casa, mentre Ron mi ha seguito e, con un afflato di cupa disperazione masticata sotto le palpebre, mi tiene per un braccio, guardandomi con un’ombra di lacrime negli occhi azzurri: “Non andare”.

“Non posso” mormoro, distogliendo il viso da lui, tornando alla pioggia, al cielo nero, alle nuvole bagnate di luna morta.

Scivolo dal suo braccio, corro sotto la pioggia, i passi amplificati dal silenzio.

Non conta nessun’altro: ora, adesso. E d’improvviso so che, non so quando, era così.

Ed è impossibile, come tutto.

Ma non mi importa. Nulla importa.

Né la pioggia, né il cielo, né le case illuminate dal fuoco, né le risate dei bambini, né i baci dei mariti: non conta più niente.

Sono tutte paccottiglie di poco valore.

Conta solo… che devo trovarlo. Devo trovare Draco. Ora, adesso.

Devo dirti ogni parola che ha cercato nelle mie lettere.

E che non ha trovato.

Devo essere con te. Ora, adesso.

… perché mi fido più di te che di me stessa.

E perché ogni goccia del mio sangue vuole che sia lo stesso per te.

Perché so che, non so quando, anche per te era così.

 

 

Non avrebbe saputo descrivere quella sensazione.

Per quanto interrogasse la memoria, per quanto vagasse alla ricerca di una similare emozione, Hermione Granger, 36 anni compiuti, non ne trovava nessuna simile nel suo bagaglio sentimentale: certo, rassomigliava a tantissime cose, ma nessuna era adeguatamente precisa, ognuna di esse lasciava fuori qualcosa, delimitandosi come manchevole, ingannevole, difettata.

A volerle proprio dare un nome l’avrebbe chiamata angoscia: non era nemmeno ansia che è qualcosa di meno palpabile e ha a che vedere con il cuore, con battiti furiosi, con respiri mozzicati che davano maggiormente di romanzo e poesia.

No: era piuttosto angoscia e si coniugava alla perfezione con il sudore che impregnava i vestiti, gemendo bollente sulle braccia, sulla pianta dei piedi. Risaliva dalla parte più bassa della schiena e, ad un quarto di pelle alla volta, guadagnava terreno erodendo la calma, la ragione, persino la coscienza, perché le pareva di camminare attraverso un sogno, liquido, sottile, nebuloso, dove ogni cosa era lentissima e le scorreva davanti senza che la potesse afferrare, mentre perdeva consapevolezza di sé ad ogni passo, come sotto l’azione di un narcotico che lentamente faceva effetto.

Ed in tutto questo lei sapeva fare solo una cosa.

Correre.

Credeva di non saper correre: non era mai stata propriamente un’atleta e, quando erano nati i suoi figli e si era trattato di recuperarli, i banalissimi incantesimi di Appello erano stati una manna dal cielo. Di natura aveva un’andatura veloce, un po’ saltellante, baldanzosa come la bambina che era stata: ma non sapeva correre, persino in guerra nella maggior parte dei casi c’erano state scope, draghi o Ippogrifi.

Invece, in quel momento, correva come se fosse inseguita dal diavolo in persona: non sentendo niente, nulla di diverso dall’angoscia gracchiante dentro le ossa di non sapere dove fosse.

Negli sprazzi rari che miracolosamente preservava di ragione, immaginava scenari raccapriccianti, era ferito, era morto, era triste, era altrove: e lei non era con lui. E allora, senza alcun retaggio di affetto che lo spiegasse, le pareva di impazzire, era lenta, lentissima, doveva sbrigarsi, doveva fare presto.

Doveva smaterializzarsi, rivolgersi alla Magia, sparire e riapparire come un coniglio in un cilindro.

Ma persino quei tre secondi di concentrazione erano troppo, non poteva fermarsi a pensare per il tempo sufficiente che non era altro che un tempo sottratto, rubato, scippato al momento in cui poteva dirlo al sicuro. Proseguiva quindi a piedi, trafelata, accaldata, galoppando sulle pozzanghere come un animale che, dopo una vita di lazo, conosceva la via libera.

Eppure diluviava, eppure aveva un aspetto orribile, eppure era zuppa fino al midollo, eppure il viso le si impastava di lacrime, mascara e pioggia: eppure non importava.

Avrebbe voluto pensare che quella era una bella novità, che il suo cervello facesse cortocircuito e, dissennata, conoscesse una dimensione puramente irrazionale di sé stessa, dilatata probabilmente dal senso di colpa per aver infierito su di lui quando era inerme e devastato. Se avesse creduto che fosse questo, non ci sarebbe stato niente di male.

Ma assieme all’angoscia, conosceva anche la scomoda certezza che questa, ad un certo punto della sua vita, fosse stata un’abitudine. Una consuetudine. Una ricorrenza. Un loop continuo nutrito di centinaia di episodi.

Perdere ogni controllo della ragione quando si trattava di lui, di Draco Malfoy.

E se ci pensava, era peggio: lei, più di Harry e Ron, era sempre stata profondamente obiettiva con Malfoy. Quando mai era stato così? Non era mai accaduto.

Ed allora era di nuovo tutto inedito: correre, cercarlo con il cuore in gola, terrorizzata di non trovarlo. Spiare le luci accese, le finestre spente, le porte chiuse, gli scuri accostati, e non trovarlo.

In un punto molle, incerto, dentro, sentire che, se non lo cerca lei, non lo cerca nessuno, evapora dal mondo, si liquefà e nessuno se ne rende conto se non lo salva lei.

E di nuovo i pensieri sono dorati: oro come di occhi di gatto.

In realtà, Hermione Granger, 36 anni, in quel momento pensava molto poco: e meno lo trovava, e meno pensava. Tutto questo lo avrebbe pensato dopo, ere dopo.

In quel momento, pensava solo che lui non c’era, non era lì ed annegava in quel pensiero.

Cercò in ogni posto dove pensava potesse essere, ogni posto che lui potesse chiamare casa.

Non lo trovò.

 

 

Quando mi Smaterializzo nella strada di casa, sono le due del mattino e non ha smesso un secondo di piovere. Le strade sono deserte, mezze allagate, abbandonate persino da tassisti e barboni. Risuonano solo tuoni ed echi di pioggia. Sollevo pigramente il viso verso il cielo chiudendo gli occhi e lasciando che, ancora, la pioggia mi cada addosso senza che provi minimamente a metterci un freno.

Del resto sarebbe abbastanza inutile: il cappotto nero è completamente fradicio d’acqua, senza parlare del cappello, della sciarpa e persino della mia camicia.

Sono talmente stravolta però che non sento nemmeno freddo, mi trascino senza alcuna fretta per i pochi passi che mi separano da casa mia. Non ho alcuna voglia di entrare, non ho nemmeno voglia di cambiarmi i vestiti zuppi, farmi un bagno, prepararmi una tisana.

Non ho voglia di fare assolutamente nulla, se non restare fuori sotto la pioggia persino per tutta la notte: il pensiero mi spaventa non poco, esaurito il sacro fuoco che mi animava fino a pochi minuti fa. Accelero quindi il passo, scuotendomi mentalmente e preparandomi ad una nuova serie di scuse, qualora Ron sia ancora sveglio. Non faccio altro che inventare scuse oramai. Non crederà mai alla storia dell’ufficio se mi vede in questo stato. Certo, posso asciugare i vestiti, posso rassettare i capelli, posso raccontare di Leda e del tormento che mi dà.

Incrocio il mio sguardo nel lunotto posteriore di una macchina parcheggiata, sono gli occhi che non posso nascondere più. Nel riflesso, con una fitta cupa di terrore, non riconosco il mio viso: è terreo, consumato, quasi scavato, magrissimo e trasparente tutt’un tratto. Le palpebre pesanti, gli occhi sono cerchiati, fatico a tenerli aperti. E sono vuoti, distanti, persi.

Solo perché non ho trovato Malfoy.

E perché non sapevo che era morta sua madre e l’ho assillato per giorni.

La cosa sembra minuscola a pensarla, ma è un tonfo continuo a percepirla. Ancora, non so che volessi da lui, se chiedergli scusa, se confortarlo, se controllare come stesse. Non lo so.

E, ancora, non mi interessa, fosse pure un effetto di questa maledizione. Non l’ho trovato da nessuna parte e tanto importa: Malfoy Manor, Ministero, laboratorio pozionistico, cimitero, casa di Zabini, casa della Parkinson, casa di Nott, casa di Goyle, casa dei Greengrass senior, persino casa di Bill e Fleur, qualora fosse andato da Teddy. Ho cercato in ogni posto che mi venisse in mente, ma non è da nessuna parte, sebbene al Manor c’erano sia sua moglie che suo figlio.

Protetta dal Mantello di Harry, trafugato ancora di nascosto, ho visto Astoria entrare nella camera della compianta Narcissa e ciarlare ad alta voce su come utilizzare quella stanza, ingiungendo ad un elfo domestico di “far sparire tutta la robaccia di quel cadavere ammuffito”.

L’ho Schiantata da sotto il Mantello, fuggendo due secondi dopo. Non penso che mi abbiano scoperto, ma anche se fosse, sarei persino capace di vantarmene a voce alta: è una donna orribile. Si merita ogni bernoccolo che le è venuto fuori.

Il panico nel non trovarlo, alla fine, si è accucciato in una specie di inerzia: ho passeggiato pigramente nel parco deserto, osservando la pioggia che tratteggiava i coni di luce tra gli alberi, finché con un enorme sforzo ho deciso di tornare a casa.

Quando arrivo di fronte alla mia palazzina, la osservo a lungo come se celasse una sorta di segreto, una macchina passa a tutta velocità, urtando una pozzanghera e finendo per infangarmi ancora di più i piedi. Ancora, non ci do minimamente peso, nemmeno per insultare lo sconosciuto pirata della strada. Ogni forza vitale pare succhiata via e drenata dal velluto nero della notte.

Le finestre sono tutte spente, nessuna testimonia che qualcuno sia sveglio: spero quindi che Ron sia a letto o, ancora meglio, che sia rimasto dai suoi, pronto a lamentarsi con i suoi parenti della sua sempre assente moglie. Non c’è alcuna acredine nel mio pensiero, spero davvero che sia così e non solo per non incrociarlo, ma anche perché merita uno sfogo qualunque alla malinconia indefessa che sembra essersi così acclimatata al suo sguardo ogni volta che incrocia il mio.

Allo stesso modo, spero con quella sorta di licenziosa condiscendenza che noi genitori riconosciamo all’infanzia, che nemmeno Hugo sia qui o che comunque non sia granché accorto ed impensierito della mia assenza. Imposto già il mio passo come fluido, silenzioso, quatto, sebbene sono certa che, se sono in casa, comunque finirò per svegliare almeno mio marito con tutte le mie manovre, dovendo quindi spiegare qualcosa per cui, come sempre da un po’, ho solamente scuse, bugie e frottole, nessuno straccio di verità.

La verità non la voglio sapere nemmeno io del resto: non c’è niente di sano e di normale in questa “cosa” in cui mi sono trasformata.

Attraverso la strada a passi lenti, aprendo con cautela il cancelletto di casa, cercando di non farlo cigolare nel silenzio completo: ovviamente, indisciplinato, esso stride come le unghie su una lavagna. Lo richiudo con rabbia, attendendo il clic metallico.

Percorro il breve vialetto, constatando che anche a casa di Harry è tutto tranquillo. Mi chiedo se lui è tornato in tempo per la festa di Fred, se Ginny gli ha detto che sono andata via per lavoro, se lui allora ha aggrottato la fronte con una vena di sospetto, o se invece è stato come sempre accomodante, giustificandomi e difendendomi all’indirizzo della platea famigliare.

Sospiro a quel pensiero, ed io gli ho rubato di nuovo il Mantello dell’Invisibilità.

E per cosa, poi?

Faccio appena in tempo a cominciare a pensare a come restituire domani il Mantello senza che i miei cognati se ne accorgano, che improvvisamente nel silenzio scrosciante della notte, noto qualcosa di diverso. Di strano, di stonato. Come una specie di presenza impossibile da ignorare che schiaccia tutto il resto contro le pareti, annichilendolo. I miei sensi si mettono subito a caccia dell’intruso, individuando un’ombra sotto il portico di casa mia che, al mio approssimarsi all’ingresso, si deve essere risollevata in piedi.

Con una punta di nervosismo, afferro la bacchetta dalla tasca del mio cappotto, non penso nemmeno per un secondo che si tratti di Ron, l’ombra è troppo alta perché si tratti di lui. E non è nemmeno nel suo stile attendermi sull’uscio; piuttosto sarà a letto, orecchie scarlatte, a fingere sbuffando di dormire. Potrebbe essere uno dei soliti ubriaconi che, da un pub vicino, poco lucidi e privi di freno si intrufolano nelle proprietà altrui. Non è certo la prima volta che ne Schianto uno.

L’ombra si muove ancora, scende un paio di gradini, rimanendo poi immobile, quasi in attesa, dandomi l’implicita conferma che aspetti proprio me e che quindi la sua permanenza nella mia proprietà non sia casuale.

Un calore condensato al basso ventre come la puntura arroventata di un’ape e fulmineo, istantaneo, come una specie di intuizione che non so da dove venga fuori, il braccio lascia cadere la bacchetta che atterra con un tonfo sordo in una pozzanghera, accanto alla corda che Hugo usa per saltare.

Il cuore mi batte in gola come se effettivamente mi fosse salito quasi alle labbra.

La pelle del mio collo si tende cercando di trattenerlo, pulsano gelide le vene bluastre, mentre gli occhi corrono lungo il viale d’ingresso che porta a casa mia. Non è molto lungo, poco distinguibile nel buio setoso di questa notte strana, resa ancora più avvolgente dalla mancanza di stelle e luna. Le nuvole continuano a borbottare.

Solo la luce di un lampione mi permette di distinguere qualcosa.

Un’ombra, solo un’ombra immobile, sotto il portico di casa mia.

Un’ombra che può essere tutto e può essere niente.

Un’ombra inghiottita dal buio.

Un lampo brusco la rende del tutto evidente ai miei occhi che pure ne avevano già intuito i contorni e i confini. Ma il lampo non ha nulla della delicatezza sobria del lampione, è uno squarcio aperto nella memoria e nel cuore che mi violenta i sensi, le membra e l’anima.

In un secondo mi dà un’immagine netta e precisa, poi l’inghiotte di nuovo nel buio misericordioso del lampione e della notte torbida.  

D’improvviso, sento tutto, torna ogni stralcio di sensazione seppellita nella narcosi della corsa: è una notte fredda, ghiacciata, solo un paio di gradi sopra lo zero. Gli abiti sono completamente bagnati, ho una ciocca di capelli zuppi che si è infilata nella nuca, sotto il cappello, gronda gocce d’acqua lungo la schiena, facendomi rabbrividire ad ogni respiro. Le calze nelle scarpe sono anch’esse bagnate, fanno un rumore strano quando cammino. Mi viene da starnutire. Ho il fiatone, si condensa in volute di vapore davanti al mio viso arrossato. Ho il naso gelido, le labbra ruvide si spaccano per il freddo. Sono esausta, nelle gambe i muscoli sono tesi fino allo spasmo, sembrano corde di un violino ben accordato, ad ogni movimento minuscolo mi trafiggono come lame di metallo. Tuona, lampeggia, il cielo vomita pioggia ininterrotto, crudele, rapace.

Sento daccapo tutto, come se fossi stata addormentata da quando Fleur ha parlato, sonnambula nella sua ricerca spasmodica in ogni angolo della città. L’assurdità della cosa mi si ripropone innanzi, vedo dall’esterno il mio aspetto e so che è terribile, indecente, vergognoso.

Il viso mi avvampa di calore, penso che sicuramente ho il naso arrossato dal freddo, i capelli a nido di vespa, l’aspetto di una derelitta: sento di nuovo la cura propriamente femminile di non sentirmi a posto, al meglio.

Alla fine sento anche la sua voce, rompe nel silenzio come un tuono, sebbene sia acuta, acidula, sgraziata. Non pare la sua. Ci conto ogni lacrima repressa dentro, le sento una ad una. Le distinguo in ogni oscillazione delle lettere delle parole, per come tremano, galleggiano, ondeggiano, si smorzano quasi. Ha la nettezza di un urlo, ma è solo un sussurro al cianuro, velenoso, amarognolo, tenuto a malapena fermo: “Eccomi, Granger, dannazione. Hai finito con le tue lettere?! Hai finito?! Eccomi, maledetta strega idiota. Eccomi, parla, parla maledizione. Che cosa diamine vuoi?”.

Draco finisce di parlare e chiude i pugni lungo i fianchi, mastica le labbra, non mi guarda più. Piange solo della pioggia che cade, la insegue con gli occhi, la sfugge socchiudendoli, la rincorre di nuovo tornando a me e la benedice per mettermi a distanza, muro d’acqua e vento.

Le sue parole arrivano alle mie orecchie soffuse, incerte, vittime addormentate di qualcosa che non capisco: ed anche se ci sento la rabbia, il dolore, la furia a cui vorrebbe destinarmi, di nuovo non importa. Forse sento d’improvviso che non è vero, sento che sta mentendo, sento che voleva solo una scusa: o forse sento che la privazione finisce, sento che è qui, Draco è qui, ce l’ho davanti, è qui, sotto il portico di casa mia, ed è bagnato dalla testa ai piedi, trema nel cappotto grigio, digrigna i denti, è qui, e ha ancora gli occhi asciutti e rossi, ha i pugni chiusi, le labbra bianche che si mangiano tra loro. È qui, ed è piccolo piccolo, come un ricordo lontano di un bambino biondo su un’altalena dentro un sogno, ha le spalle piegate, curve, si spezza, si accascia ad ogni respiro, si piega sul mio portico, è qui, la mia porta di casa è lì dietro, e dietro ci dorme mio marito, mio figlio, dormono tutti e due, e lui è qui, l’ho trovato, mi ha trovato, mi posso mangiare le parole che gli ho detto, me lo posso ingoiare una per volta, veleno e fiele, e prendermi un po’ del dolore suo, farlo mio, addormentarglielo nel petto, cucirmelo nelle ossa così se ne dimentichi un po’, sparisca, svanisca: penso tutto questo, in ordine sparso.

Ma penso solo una cosa, in fondo, solo ad una.

E’ qui, l’ho trovato: Draco è qui. E mi sveglio tutta a me stessa in quel pensiero, nel sollievo che è miele, balsamo, medicina. E svegliarmi significa solo che corro, di nuovo, daccapo, anche se sono pochissimi passi e, quindi, per il contraccolpo, gli faccio forse anche male.

Gli corro contro, addosso, gli corro incontro, distinguo solo per un attimo i suoi occhi grigi che si spalancano sgranati, perle e diamanti che si inseguono nella pioggia che scende: ma è un attimo, un attimo solo, un attimo minuscolo.

Lo abbraccio, lo stringo a me come se temessi che mi sfuggisse, come se temessi che me lo strappassero via, come se temessi che scappasse di nuovo, quindi la mia stretta è forte, soffocante, da mancare il respiro e farlo bloccare nel petto. Incrocio le braccia attorno alle sue spalle che tremano ancora un po’, è più alto di me, lo è sempre stato, e quindi affondo il viso nello spazio tra le clavicole, sotto il suo collo. Ha un odore buono, di pioggia e di erba bagnata, anche se piove dappertutto, niente ha questo profumo, penso che lo riconoscerei dappertutto, dovunque. Ed anche se come me è completamente bagnato, il suo corpo è caldo, incomparabilmente caldo.

Non assomiglia a niente di ciò che ho conosciuto fino a questo momento, eppure ha qualcosa di incredibilmente familiare, ridondante: le mie braccia sanno istintivamente la lunghezza della linea delle sue spalle, sanno stringerle e cingerle senza spigoli. Le mie dita sanno intrecciarsi tra loro sulla sua nuca, lasciando i gomiti tesi a mettere distanza che vorrebbe solo essere riempita, ma che lascia che lo faccia lui. La parte finale della mia schiena sa la forma delle sue mani su di essa, se mi spingesse contro di lui, anche se adesso non lo fa.

Sussulto, tremo, resto a respirare nel suo collo, in quel punto tenero dove sento echi del cuore, fischi del respiro, rimbombi della gola. Mi coglie una fiacchezza indolente che mi chiude gli occhi, come se la stanchezza della notte fosse tutta lì, adesso.

Draco resta rigido, immobile, come una statua di sale. Non accenna a nessun movimento, non fa niente, per un momento pare persino che non respiri. Vedo ancora con una parte della mia mente i suoi occhi aperti, spalancati, come due fari accesi nel buio. Come una sorpresa. Come una certezza. Quale delle due cose sia, non lo so nemmeno io. È lo stesso anche per te?

Temo che mi cacci da un momento all’altro, temo di disgustarlo, temo che mi scuota bruscamente e mi mandi via, e allora piango, singhiozzo nel suo petto quelle lacrime che non gli ho visto piangere. Mi affanno a spiegare, a spiegarmi, a farmi capire. La mia voce contro il suo petto è nuova, è vecchia, è antica, è un mistero sussurrato diluito dalla pioggia: sebbene pianga a grandi lacrime, è ferma, scolpita, altisonante. Bisbiglia direttamente alle costole, allo sterno, al muscolo palpitante che pompa il sangue.

“M-mi dispiace, mi dispiace Draco, mi dispiace. I-io, io non sapevo di tua madre, mi dispiace. Ti tormento da giorni, da settimane… e tu… e tu i-invece… nessuno… nessuno m-mi ha detto nulla. Nessuno. M-mi dispiace… m-mi dispiace. Solo stasera… solo s-stasera Fleur me lo ha detto… per c-caso… è stato un c-caso. E sono venuta… a c-cercarti… è tutta la notte che…”. Inghiottisco le ultime parole, l’improvvisa immagine di me folle, pazza, che corro a cercarlo sotto la pioggia in ogni posto che conosco, mi annebbia la vista cieca, occhi chiusi, palpebre serrate nel suo profumo.

Draco, che è rimasto inerte da quando l’ho stretto a me, ad un tratto si irrigidisce, raddrizza la schiena, diventa più alto, immenso, superiore. Promana qualcosa che, come un’onda rovente, mi fa vedere di nuovo dall’esterno, abbracciata, stretta a lui, in quel modo così saldo da non avere precedenti con nessuno nella mia vita che non conoscessi meno che a menadito.

Arrossisco furiosamente come una stupida adolescente, vittima del mio stesso annebbiamento, e ringrazio per poco di essere invisibile ai suoi occhi perché lui, con una delicatezza dolcissima che mi spinge di nuovo a sentire gli occhi pungere, mi stacca il viso da sé per potermi guardare negli occhi.

Le palpebre mi ballano sotto il peso della pioggia battente, ma lo vedo finalmente bene in viso: colgo ogni segno del dolore che gli taglia a fette l’espressione, deformandola e scavandola. Vedo quelle rughe più profonde, vedo i segni dei giorni in cui non ha mangiato, vedo il peso di quelle lacrime che non piange. Ma gli occhi no, gli occhi sono brillanti, vivaci, sembrano schegge d’argento. Hanno persino un fondo di malizia, mentre la sua mano resta ferma sul mio viso a trattenermi, un pollice sotto il mento a tenerlo alzato.

D’un tratto, mi studia, mi guarda come non ha fatto prima, come non so se abbia mai davvero fatto. Non così, non con quegli occhi che cercano, scavano, cercano ancora. Aggrotta le sopracciglia, si raggrinzisce lo spazio in mezzo agli occhi. Vede il trucco colato sulle guance, i capelli bagnati, le labbra raggrinzite che sanguinano, i vestiti completamente zuppi. La fronte si spiana, ripiana, liscia, e di nuovo gli occhi si spalancano, sgranano, gli sfugge un sospiro che casca sulla mia bocca, sa di menta e limone, inconsciamente socchiudo le labbra, me lo faccio scivolare in gola. Mi guarda ancora, pare non crederci ancora a quello che sta per dire, le dita roventi sul mio viso freddo hanno un fremito, solleticano quasi la pelle, mentre sussurra meravigliato, attonito, perso: “Sei venuta… a cercare me, Granger?”.  

Accentua quel me come se lo staccasse dal resto della frase, lo tratta da pronome ininfluente, indegno, miserrimo. Mentre lo pronuncia, la pressione gentile delle dita sulla mia guancia diventa più salda, gli occhi perdono quasi la presa dei miei, paiono lontanissimi.

Per un attimo, non riesco a rispondere, non riesco a dire nulla.

Resto immobile, occhi nei suoi, solo con la pioggia nelle orecchie.

Dentro, come un cercatore di tesori, mi riprendo il me che lui ha buttato fuori così, come se fosse una cosa poco importante: me lo incastono fisso in un margine nascosto di me stessa.

Poi allungo la mano a coprire la sua, ancora poggiata sul mio viso, ed annuisco piano con il capo.

Non riesco a vedere la sua reazione, sparisce davanti ai miei occhi.

Altre immagini sostituiscono la sua vista: ma non scompare.

E’ di nuovo lui, altrove.

Mi si stringe il cuore in una morsa ghiacciata e faccio quasi di corsa quei pochi passi che mi dividono da lui, afferrandolo per la manica del pigiama. Un volo folle e disperato, dove ogni cosa mi sembra possibile.

Posso curare le tue ferite, medicarle, fare in modo che tu senta meno male e che possa riprendere a sorridere. Sorridere di quel sorriso obliquo e imperscrutabile, eppure più sincero di quello facile di Ron o di quello prevedibile di Dean.

Posso starti vicino anche in silenzio, senza dire nulla, anche se sai quanto vorrei farti tante domande e avere tante risposte. Ma mi imporrò il silenzio se a te piacerà e ammanterò tutto il mondo di silenzio, se me lo dovessi chiedere.

Posso continuare tutta la vita a non pretendere niente di più che avere te accanto, nemmeno averti vicino se per te sia troppo, posso vivere così per sempre, anche avendo solamente te e Serenity e considerarmi comunque la donna più felice del mondo.

Posso prometterti tutto questo, oggi, adesso, domani, per sempre.

Ma ti prego, Draco, non piangere più… ti prego… stavolta ti capirò. Oppure lo stesso non ti capirò, ma ci sarò lo stesso.

Ti prego non piangere più…

“Draco...” lo chiamo piano, lui che resta a testa bassa, i suoi singhiozzi amplificati dal silenzio del ristorante.

Lo scrollo piano, cercando di richiamare la sua attenzione, ed è allora che, in un secondo velocissimo, che mi afferra a sua volta per il pigiama, aggrappandosi saldamente a me, ma con troppa forza. Infatti, scivola in ginocchio e io assieme a lui.

Mi ritrovo seduta per terra, lui che piange su di me, la testa china sulla mia spalla. Lo abbraccio di slancio, allacciandogli le braccia attorno alle spalle, sentendo che sto piangendo anche io, senza un perché, per il solo fatto che stia piangendo anche lui. Le sue lacrime scivolano sul raso del mio pigiama e vorrei che invece le assorbisse, le trattenesse fino a farle sparire, fino a cancellarle, fino a quando lui stesso non le senta più sue e torni ad insultarmi, a prendermi in giro, a fare qualsiasi cosa purché sia più felice, allegro di come è adesso. Non posso sopportarlo. Non riesco nemmeno a respirare se stai così. Ti prego, Draco.

 

 

Quando le immagini scompaiono, il contraccolpo stavolta è così intenso che mi pare di essere risucchiata via da una sorta di vortice, come se mi tirassero le braccia e le gambe in due direzioni differenti: mi aggrappo alla manica del cappotto di Draco, chiudendo gli occhi e cercando di frenare le vertigini e la nausea che, come da veneranda tradizione, mi sta sconquassando lo stomaco. Con la visione periferica che preserva un lieve spiraglio dalle mie palpebre socchiuse, vedo Draco che, a sua volta, si regge alla mia spalla, stringendola piano, affondando le dita nella trama umida dei miei vestiti, cosa che mi dà conferma che per l’ennesima volta ha vissuto anche lui la stessa cosa.

“E’ successo di nuovo…” bisbiglia la sua voce sofferta e incerta, travalicando di poco il suono della pioggia, le sue dita hanno un sussulto sulla mia spalla che si trasmette ai miei nervi, facendo formicolare tutto il mio braccio fino alla punta delle dita.

Quando giudico la mia testa abbastanza incardinata in sé stessa da non farmi perdere l’equilibrio, mi azzardo ad aprire gli occhi con cautela, respirando profondamente. Tutt’attorno non è cambiato niente, è ancora la stessa strada di casa, la stessa porta con la corona di bacche rosse ed il fiocco arancio, il vento culla la pioggia e la soffia sul mio viso di fredde frecce ghiacciate: eppure, stranamente, tutto pare slavato, sbiadito, come quando cala una patina appiccicosa sugli occhi e si deve sbatterli a lungo, più e più volte, per far tornare la visione limpida.

Pare tutto il retaggio rigido e offuscato di un’allucinazione, mi sembra di galleggiare sulla melassa.

Come già precedentemente era avvenuto, i colori e i suoni della visione o del ricordo o del maleficio o di quello che dannazione è, sono invece nitidi, intensi, vividi e, per effetto plastico, anche quello precedente che ho rivissuto la notte di Natale sembra acquisirne calore, splende più netto nella mia testa come una specie di puntino luminoso.

Non mi concentro sul suo contenuto adesso, sbatto di nuovo le palpebre per far sì che la lanugine visiva passi e tutto torni reale, concreto, tangibile come sempre è stato. Pare un’immagine sintonizzata male, come una specie di film dato su una rete televisiva dal pessimo segnale.

La sola cosa che, come prima, come adesso, come in ogni luogo, è chiara e distinguibile, è il viso di Draco Malfoy, lievemente abbassato sul mio, attento a scrutare ogni espressione del mio viso, compresi i tentativi di strabuzzare gli occhi e vedere in modo pulito.

Lo guardo a mia volta e la limpidezza nitida del suo sguardo mi riaggancia in me stessa, facendomi respirare daccapo.

“E’ successo un’altra volta…” ripete con voce sottile, la mano sulla mia spalla stringe un po’, rabbrividisco incerta e mi passo una mano nei capelli bagnati, lasciando la manica del suo cappotto. Nello sguardo che mi mette in disordine la testa, leggo un sottofondo subliminale che non faccio fatica a riconoscere in quelle iridi che quasi profumano, è la sola persona al mondo che ha uno sguardo che profuma di qualcosa.

Non sta pensando solo che è la seconda volta che ci succede questo strano fenomeno.

No.

Sta pensando che, anche in quel ricordo, ero con lui e mi prendevo il suo dolore, facendo di tutto perché non restasse solo a lui, ma venisse un po’ via con me.

Cerco di ignorare tutto il resto, mi sento troppo ingolfata per analizzare il contenuto delle immagini e farne delle supposizioni a riguardo: i miei occhi si incanalano diligenti al presente, al suo viso smagrito, agli occhi gravati dalle palpebre viola, ai vestiti che pendono bagnati e disordinati, come se li portasse da giorni.

Torno con la testa alle mie lettere, dove gli ingiungevo che non c’era nulla di più importante di questa maledizione che ci aveva colpito: adesso voglio che sappia in ogni modo che non è così.

Perciò, estrometto dalla mia testa ogni traccia della visione e dico convinta, sollevando il mento e guardandolo dritto in viso: “Adesso non dobbiamo pensare a questa… cosa… qualsiasi cosa sia… da quanto non mangi? E dormi decentemente?”.

Draco sbatte le palpebre, si stacca da me rapido e fulmineo, per poi fissarmi come se fossi una specie di bestia strana, il capo piegato di lato. La cosa mi intenerisce e mi riporta alla mente quella strega di sua moglie che ho Schiantato solo poche ore fa.

Provo di nuovo un’acuta soddisfazione al pensiero della Greengrass carponi sul pavimento, lui non sa nemmeno che cosa significa che qualcuno si prenda cura di lui. Astoria Greengrass può vincere il titolo di Moglie dell’Anno per sedici anni consecutivi.

Questo stupore ne è la prova evidente.

Il suo sguardo mi mette in imbarazzo, facendomi sentire a disagio e ricordandomi che sono ancora davanti alla porta di casa, con lui di fronte, mentre mio marito probabilmente è dentro con nostro figlio. E pochi minuti fa l’ho abbracciato e stretto forte, piena di sollievo per averlo trovato.

Distolgo lo sguardo da lui, allontanando i capelli bagnati dalla faccia e borbottando: “Se vuoi, se non è troppo per la tua regale Maestà… in ufficio… ho qualcosa da mangiare e… persino una brandina”.

“Dio, Granger…” mormora lui con la voce incolore che però si tinge di un lieve velo divertito “E’ un’offerta davvero allettante… sono così patetico al momento da accettarla… pensa un po’ te quanto questa sia davvero una circostanza eccezionale… di vita o di morte…”.

Mio malgrado, sorrido al buio, non riuscendo ancora a guardarlo in viso.

Prima di Smaterializzarmi seguita da lui, faccio in tempo a distinguere poche parole.

Gli sfuggono rapide, nervose, veloci, così che possa darmi modo di fingere di non averlo sentito.

“Sei disgustosamente buona… Hermione… vorrei esserci abituato…”.

Sorrido di nuovo, nello strappo che mi lacera all’altezza dell’ombelico.

Le consonanti e le vocali del mio nome, nella sua voce, sono un suono inedito.

Ma, di nuovo, sapevo perfettamente come le avrebbe pronunciate, prima ancora che lo facesse davvero.

E quel modo di pronunciare il mio nome, non penso lo dimenticherò mai.

 

 

Hermione Granger, 36 anni, lo aveva guardato tutta la sera come se fosse un alieno, come se fosse una specie di extraterrestre biondo che si muoveva tra le sue cose, apparendo estraneo alle cose più comuni come se non gli fossero mai appartenute, come se vivesse in una dimensione diversa e distante dove quelle cose fossero pratiche indistinte di vetusti costumi dimenticati.

Il tratto distintivo del viso, sotto quel dolore e pena che erano come uno spesso cerone che ricopriva i lineamenti soffocandoli, era un continuo ed ingenuo stupore meravigliato: stranamente silenzioso, prosciugato dal lutto l’eloquio sarcastico e velenoso, la seguiva con gli occhi grigi frastornati per i passi che lei disseminava nell’ufficio, fingendo indifferenza e normalità, quando invece sentiva la nuca, la schiena, il cuoio capelluto, perforati e punteggiati da quello sguardo di acciaio.

Seduto nella piccola brandina che lei utilizzava per riposarsi qualche ora a pranzo, affondava quasi nel materasso che non era null’altro che una sfoglia di lana rancida; impettito, con la schiena diritta a testimoniare un perdurante senso di distacco dalla situazione, Draco Malfoy non mollava mai però quegli occhi di tempesta rappresa, puntati sui gesti di lei.

Spontanei, immediati, naturali, come se le appartenessero da sempre, come se ci fosse nata dentro senza alcuna premeditazione o scatto di volontà.

Se ne accorgeva anche lei, di istinto, mentre gli riscaldava della zuppa che aveva preparato per il giorno dopo e pensava in modo automatico che, grazie al cielo, non ci aveva messo le carote, dato che chissà per che motivo era certa che le odiasse.

Forse lo aveva captato ad Hogwarts, ma era un mistero perché lo ricordasse ancora.  

Quando si voltava a guardarlo, Draco Malfoy tratteneva una sorta di spasmo al centro esatto del torace, chiudeva freneticamente le falangi sottili sul colletto della camicia che portava sotto il maglione, come a liberare la gola da un improvviso calo di ossigeno.

Gli indicò il piccolo bagno se avesse voluto farsi una doccia, e di nuovo la sorprese l’intimità di quella domanda come se non fosse che per anni si erano bellamente ignorati: lui, grato, accettò e lei, con eguale gratitudine, ringraziò mentalmente che non commentasse a riguardo.

Gli asciugò gli abiti umidi con la bacchetta mentre era sotto l’acqua, comprendendo che avrebbe rifiutato qualsiasi indumento avesse tirato fuori e che avesse sospettato essere di Ron. Tirò fuori una coperta di lana che Molly le aveva portato quando aveva scoperto che si addormentava spesso in ufficio. Finì di riscaldare la zuppa e prima di appoggiarla sul tavolo accanto alla brandina, si sincerò che non fosse troppo bollente o troppo fredda o troppo salata, come avrebbe fatto con suo figlio. Si sedette lontana, distante, a gambe incrociate sul pavimento, fingendo di leggere dei documenti, così che lui non traesse eccessivo intralcio dalla sua presenza, qualora ogni tanto si ricordasse di come si era ridotto per essere lì, con lei.

E qualora volesse piangere: sicuramente non voleva essere visto in quello stato.

Difatti, doveva aver pianto sotto la doccia, lontano dalla sua vista: diede la colpa con un moto sbiadito di sarcasmo a quel “bagnoschiuma da mezza sterlina che sembra acido muriatico”, ma Hermione sapeva che non era per quello che aveva gli occhi rossi, gonfi. Accettò l’insulto alzando solo gli occhi al cielo, non doveva aver pianto fino a quel momento, era felice che comunque si fosse riuscito a lasciar andare.

“Era la sola donna che io abbia mai amato… e che mai amerò…”.

Lo disse così, come una specie di fulmine a ciel sereno: quando Hermione Granger, attonita, distolse lo sguardo dal documento che comunque non stava leggendo, Draco Malfoy stava mangiando la sua zuppa, serafico, apparentemente come se non avesse mai parlato.

Avrebbe detto solo questo su sua madre: e lei avrebbe trattenuto ogni parola che voleva rispondergli per rassicurarlo, per dirgli che aveva ogni destino per poter amare ancora.

Sapeva che non era così e, giunti a quella inconsueta confidenza, era eutanasia non mentire. La moglie era una stupida sciocca vanesia, da cui non avrebbe potuto divorziare per non perdere suo figlio. Era anche sterile, quindi non poteva avere da lei alcuna figlia da ergere a donna della sua vita. Non aveva sorelle, cugine, probabilmente nemmeno amiche, se quella sera era lì.

E comunque, travalicando le madri, le mogli, le sorelle e le figlie, difficilmente poteva dare etichette di amore assoluto ad un’altra donna, visto che pareva non essersi mai innamorato prima, sebbene sicuramente non gli fossero mancate amanti di qualsivoglia tipo.

Provò ancora quel sentimento inesauribile di tenerezza, compassione, pena, come una specie di guizzo caldo che si contorceva nello stomaco. Non fece nulla, però, sapeva che non avrebbe accettato nient’altro di tale senso nei suoi confronti.

Non voleva ispirare pietà, non aveva voluto mai farlo.

“Credo che accada quando… ci tocchiamo…”, stavolta fu lei a sorprenderlo, le parole vennero fuori da sole per combattere quel silenzio fondo, intenso, rotto solo dalla pioggia contro i vetri. La supposizione si era annidata nel tessuto del cervello come un tarlo benefico, nato apposta per distrarla da tutto il resto, compreso il nuovo ricordo fasullo.

Draco Malfoy strinse le palpebre in un moto di riflessione, poggiò il piatto vuoto di nuovo sul tavolino e annuì piano, pensosamente, con il capo. Aggiunse poi, casuale, soffice, l’impronta innegabile di quella nuova intimità che smussava le parole delle frasi: “… succede quando ci tocchiamo le mani… ci siamo sfiorati anche in altri momenti… ma non è successo”. Le restituì uno sguardo curvo, storto, obliquo, piegato dalle palpebre che ancora la scrutavano, la sezionavano, la analizzavano come un mistero buffo.

Lei si strinse nelle spalle, annuì, voltò il viso dall’altra parte: certo, ovvio.

Quando lo aveva abbracciato, non era successo nulla.

Lui suggerì di sperimentare subito la nuova teoria, lei ebbe una sorta di moto istintivo di ribellione che la fece arrancare alla ricerca di una scusa, dicendo che era tardi, che erano stanchi, che lui doveva riposare, che ne avrebbero avuto tutto il tempo.

Per tutta la risposta Draco Malfoy, da qualche ora un po’ più simile a sé stesso di quanto non fosse stato da qualche giorno a quella parte, si alzò in piedi, le si sedette di fronte sul pavimento, il volto enigmatico e privo di espressione. Le porse deciso il palmo della mano, ingiungendo severo: “Muoviti Granger… sono in cordoglio… non ho tempo per sopportare la tua ritrosia”.

Hermione Granger, 36 anni, guardò quella mano bianca, dalle dita affusolate, immacolata come se fosse fatta di neve, le pareva di guardare il serpente che, nel giardino dell’Eden, offriva la mela ad Eva: pareva una tentazione marcia, proibita, eppure la vedeva dolcissima, inerme, una specie di sfizio goloso da togliersi velocemente e non pensarci più.

Si ricordava adesso, senza nemmeno volerlo, la grana di quella pelle, il suo calore, lo spazio preciso tra le dita, l’odore pulito che sarebbe rimasto sulla sua: e con un afflato selvaggio che avrebbe definito la risposta alla sua provocazione, tese il braccio, il viso aggrottato in un’espressione di sfida, e poggiò la propria mano sulla sua, non lasciando un secondo i suoi occhi grigi, terribili, inesausti.

Lui fece in tempo solo a sospirare, a socchiudere lievemente gli occhi, a racchiudere nella sua mano, più grande, le dita affusolate di lei. Ed accadde, ancora.

 

“La smetti?!” urlo, rossa in volto per la rabbia e la vergogna “Basta, mi sono stancata… dirò a Seth quello che mi pare e piace!”. Mi giro bruscamente su me stessa per scendere le scale, ma, come era prevedibile, vengo fermata da Malfoy. Mi afferra per il polso, costringendomi a girarmi di nuovo. Sta ancora ridendo, riduco gli occhi a due fessure, volendo fulminarlo sul colpo. Non lo guardo in volto, mi farebbe innervosire troppo, i miei occhi trovano la mano che stringe ancora il mio polso. Non mi sta facendo male, non mi dà fastidio, è solamente… appoggiata… lui sembra accorgersi del mio sguardo e si stacca da me, sbattendo per un paio di volte le palpebre.

 

Si staccarono ancora, come se fossero fuoco e ghiaccio, respirando a fatica. Ed ancora Hermione Granger ebbe la scomoda sensazione che più le visioni fasulle le entravano nella testa, più il mondo circostante perdeva definizione, consistenza, pareva un cartonato di ombre.

“Bene… dunque basta che non ci tocchiamo più le mani…” concluse Draco Malfoy con ferocia, alzandosi in piedi e tornando alla brandina, non guardandola più.

Lei rimase immobile, seduta ancora per terra, la mano ancora tesa verso un vuoto che era la schiena che lui le dava, disteso, il volto contro il muro.

Come poco prima, alla Tana, anche adesso non riusciva più a restare un secondo di più in quella stanza, i cui colori, odori e rumori si diluivano come tempera nell’acqua. Vide il suo riflesso nel marmo del suo ufficio e, finalmente, dopo ore in cui si era concentrata solamente su di lui, tornò a sé stessa, agli occhi stanchi ed infossati, alla mancanza di sonno, allo stomaco vuoto, ai vestiti che le si erano alla fine asciugati addosso facendola tremare di freddo, ai capelli spettinati e crespi, a Ron che non sapeva dove fosse, ad Hugo che tra qualche ora avrebbe fatto colazione senza di lei.

Rimise addosso il cappotto, il cappello, la sciarpa grigia, non lo guardò nemmeno, uscì dal Ministero nella notte che iniziava a cedere il passo all’alba.

Una caffetteria era già aperta, lasciò un messaggio in segreteria a Ron scusandosi, bevve un lungo caffè nero bollente, mangiò una girella alla cannella, ignorò ogni affacciarsi dei ricordi falsi nella sua testa e non fece più alcuna supposizione a riguardo.

D’altronde aveva ragione, bastava non toccarsi più le mani: nel chiarore grigiastro, osservò le sue dita contrarsi e riaprirsi come un fiore carnivoro.

Rientrò in ufficio quando era certa che Leda fosse già arrivata e che, di conseguenza, Draco Malfoy aveva lasciato il suo nascondiglio di comodo per tornarsene a casa sua.

Chiese alla segretaria di non passarle alcuna telefonata per qualche ora, si chiuse a chiave, si distese esausta sulla brandina, un braccio a pesarle sugli occhi, mentre respirava con la bocca, come in apnea, per non sentire il profumo lasciato di lui che era un continuo schiaffo, molesto, alla sua stupida ingenuità di averlo voluto aiutare.

Quando si voltò su un fianco, la mano urtò la superficie liscia e candida di un foglio di carta.

Non voleva farlo, non voleva: eppure, cieco il mondo, quando nessuno poteva vederla, sorrise, si tirò diritta in piedi, sperò. E si fidò, di nuovo, di lui.

Non sapeva fare altro.

 

Non mi importa nulla di queste visioni, Granger, e non mi importa nulla di cosa dicono la profetessa, l’empatica e pure il professore di Hogwarts. Sono un fottuto scherzo idiota di qualche imbecille: e di conseguenza, visto anche il mio stato mentale precario al momento, mi piacerebbe davvero sorvolarci su.

Posso vivere senza sapere che cosa diamine siano: non è importante.

Ma, stranamente, quello che penso io è sempre il contrario di quello che pensi tu, Granger: guarda, non lo avrei mai detto, conoscendoci.

Ed anche quello che fai tu, Granger, è il contrario di quello che farei io.

E tu stanotte hai fatto quello che nessuno hai mai fatto per me proprio perché, grazie a Merlino, non sei come me.

Ti devo almeno questo e poi saremo pari, dannata strega.

Se per te è così importante, verrò con te ad Hogwarts.

E verremo fuori da questa storia.

Prendilo come il favore che ti dovevo: e se obietti dicendo che ti sei già fatta una scarozzata non gradita nella mia testa, ti Schianto all’istante.

DM

 

Anche lui si fidò, di nuovo, di lei.

A quanto pare, anche lui non sapeva fare altro.

 

 

 

NOTA FINALE: Come sempre, grazie a chi è ancora qui e a chi c’è sempre rimasto.

Il capitolo 50, salvo imprevisti, sarà pubblicato il 3 marzo 2019.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                       

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 50
*** Disturbia, step four: about what we’ve never had (I) ***


Capitolo 50: Disturbia, step four: about what we’ve never had (I)

 

RIASSUNTO DEI CAPITOLI PRECEDENTI: Dopo cinque anni di separazione e una residenza forzata in Italia per difendersi da Dimitri Karkaroff e Astoria Greengrass, Hermione torna in Inghilterra in cerca di Draco assieme al figlio Alex di cui Draco stesso non sa nulla. Nel suo viaggio, Hermione viene aiutata da Dean, Pansy e Seth che la informano che Draco potrebbe essere ancora con Raissa Karkaroff. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei, anche se Hermione, in quel momento, non la conoscesse. Sulle tracce di Tatia, che si rivela essere una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, Hermione e i suoi amici giungono all’ultima dimora di Tatia Krasova, in Finlandia, dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, ricompaiono i Karkaroff, compreso il presunto morto Dimitri. Quest’ultimo le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino. I due spariscono con il bambino, con l’oscuro ultimatum di tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche Alex. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio diIlai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte. Al mattino, a causa degli effetti del legame empatico tra lei ed Ilai Radcenko, Hermione scopre non solo i sentimenti dell’uomo verso di lei, ma anche di quanto questi inaspettatamente non siano a senso unico, cosa che la dilania. È in tale sentimento confuso che Draco ed Hermione incontrano il demone Adamar e la sua compagna di vita, Eva Dubois. La prova del demone è semplice: cancellati i tradimenti che hanno condizionato il futuro di Draco ed Hermione, il loro destino sarebbe stato completamente diverso e, secondo Adamar, avrebbero avuto quello che davvero desideravano. Adamar li blocca quindi in un altro mondo ed un’altra vita con una sola minuscola scappatoia per fuggire, un fantomatico “giungere palma a palma”: senza memoria del mondo reale, Hermione e Draco vivono due vite parallele assolutamente ignari che sia un inganno del demone. Più tempo passa, però, e meno avranno possibilità di tornare indietro. La vita di Hermione e Draco è quella più classica che si possa immaginare: lei è sposata con Ron e ha avuto Rose ed Hugo; lui invece con Astoria da cui è nato Scorpius. I due, a parte lo sporadico contatto al binario nove e tre quarti alla partenza dei figli per Hogwarts, non si sono mai incontrati. Hermione vive un matrimonio fatto di crepe profonde, è convinta però quasi che si tratti di qualcosa di normale. Una sera, alla Tana, Teddy Lupin e Victorie Weasley confessano alla famiglia di essere non solo innamorati, ma anche in attesa di un bambino, motivo per il quale hanno deciso di sposarsi presto. Ed è a quel punto che ricompare Draco, la cui famiglia ha riallacciato i rapporti con Teddy e che è pertanto interessata all’organizzazione del matrimonio. Hermione e Draco si rivedono quindi, e sebbene alle associazioni di idee con la loro vecchia vita, lei provi nausea e lui un dolore al petto, entrambi sono assolutamente ignari del loro passato. Hermione, distrutta dalla percezione della crisi del suo matrimonio, sfugge alle insinuazioni di Draco, sostenendo che fosse sua volontà anni prima di uccidere Silente, non essendoci riuscito solo per mancanza di tempo. Hermione, in colpa, vede Draco andare via furioso. Intanto, attorno a loro, forze misteriose si muovono: da una parte, sotto varie forme, l’onnipresente EvaDubois nascosta in mille fogge accomunate dal cameo della rosa bianca. Dall’altra parte, Isolde Crane, apparentemente solo compagna di studi di Ginny, la quale sembra conoscere qualcosa dell’intricata faccenda in cui si trova Hermione. Emblematico, anche l’incontro con la rediviva Tatia, in questo universo sposata con Dimitri da cui ha avuto una figlia di nome Charlotte: la veggente percepisce qualcosa di strano in Hermione. Specie nel fatto che lei indossi la sua stessa collana (quella che nel mondo da cui provengono, Tatia aveva donato ad Hermione nella lettera prima di morire e che Hermione aveva incantato per non perdere). La collana, in questo mondo, indica sempre il mare. Distrutta dal senso di colpa per la sofferenza che ha indotto a Draco con le sue accuse, Hermione accoglie il ritorno a casa per le vacanze natalizie della figlia Rose che le confessa di essersi innamorata proprio del figlio di Draco, Scorpius. La ragazzina, preoccupata della disapprovazione che il padre Ron potrebbe avere per Scorpius, chiede l’aiuto della madre che glielo promette calorosamente: la sera di Natale, però, durante un brindisi, Ron rimarca l’ostilità aperta verso la famiglia Malfoy, finendo per discutere pesantemente anche con Hermione, in aperta difesa di Rose che ne rimane molto ferita. Hermione va via dalla Tana e, in preda all’istinto più puro, finisce a casa di Draco, protetta dal Mantello dell’Invisibilità, per conoscere infine la verità sul tentativo di omicidio di Silente e rendersi conto se l’affetto della figlia, nonché di Teddy, siano ben riposti. Draco è completamente estraneo al clima di festeggiamenti della vezzosa e frivola moglie Astoria: è infatti chiuso nella stanza della madre Narcissa, gravemente ammalata. Nonostante Hermione indossi il mantello che la rende invisibile, Draco si accorge della sua presenza e i due hanno una lunga conversazione quasi amichevole, dove Draco ammette che non avrebbe mai ucciso Silente e Hermione, con sua somma sorpresa, non ha alcuna difficoltà a credergli, sentendo una continua fiducia nei suoi confronti che non riesce a spiegarsi. A suggello del momento, Draco ed Hermione si stringono la mano, giungendo senza accorgersene a trovare la scappatoia di Adamar, il fantomatico “giungere palma a palma” era un contatto delle loro mani, voluto da entrambi. Immediatamente nelle loro menti, ritorna un ricordo della loro vera vita: il momento in cui Draco usò la Legilimanzia su Hermione al Petite Peste, per cercare di scoprire se fosse a conoscenza di Serenity e di Helena. Il ricordo li sconvolge entrambi, ma soprattutto Hermione arriva automaticamente a pensare che Draco le abbia fatto qualcosa di male in un momento che non ricorda. Per convincerla del fatto che sia effettivamente completamente estraneo alla vicenda, Draco le consente di usare la Legilimanzia su sé stesso allo scopo di indagare se ciò sia la verità. Hermione scopre così che Draco, oltre ad essere innocente, non si è mai innamorato una volta nella sua vita. La rivelazione sconvolge Hermione per l’intimità della scoperta, spingendola ad allontanarsi da Draco, liquidando il ricordo come un fervido momento di immaginazione, cosa non facile da continuare a credere quando i suoi sogni iniziano ad essere popolati da un bambino che non conosce, biondo, e che si chiama Alex. E che è certa essere suo figlio. Ad aumentare ulteriormente i suoi sospetti che ci sia qualcosa che non va dentro di lei, l’incontro con l’Empatica Helder, giunta nel suo ufficio per pratiche relative a suo marito Chris: la donna, oltre a percepire il germe del legame con Draco, sente anche che Hermione è vittima di una magia nera molto potente che lei non è in grado di capire da dove provenga. Le consiglia quindi di contattare il più grande esperto di Arti Oscure, l’insegnante di Hogwarts Ilariy Radcenko. Lo scambio di missive con l’insegnante porta al fissare un incontro nell’accademia di magia a cui però, per la natura dell’incantesimo, dovrà essere presente anche Draco. Hermione però non riesce a contattarlo, ogni sua lettera viene scientemente rifiutata dall’uomo, finché Hermione viene a sapere dalla cognata Fleur della morte di Narcissa Malfoy. La ricerca disperata di Hermione per ritrovare Draco e chiedergli scusa della sua insensibilità ed egoismo, si conclude a casa sua dove trova Draco. Il nuovo contatto tra i due, innesca l’ennesimo ricordo della loro vita precedente, cosa che alla fine fa loro capire che è l’incontro delle loro mani che fa scaturire la valanga di incomprensibili memorie. Hermione ospita Draco in ufficio per la notte e, per ricambiare, l’uomo decide alla fine di accompagnarla all’incontro con il professor Radcenko.

 

29 gennaio

 

I giorni avevano preso ad accelerare come sotto il tasto dell’avanzamento veloce: sfrecciavano, schizzavano, sfrigolavano scoppiettanti sull’orlo confuso della sua visione periferica, ammassandosi gli uni sugli altri, traballanti come carte da gioco.

Camminava con il messaggio di Draco Malfoy in tasca, in borsa, in cartella: nelle ore più disparate della giornata, chinata sui piatti da lavare, annegata nelle pratiche sulla scrivania, chiusa nei vagoni della metropolitana, Hermione lo tirava fuori e lo distendeva davanti a sé, lisciando le pieghe, seguendo con i polpastrelli le linee delle lettere tratteggiate e scorticate sulla carta.

“… tu stanotte hai fatto quello che nessuno hai mai fatto per me proprio perché, grazie a Merlino, non sei come me”: rileggeva quella frase spesso, la pergamena e l’inchiostro profumavano, cantavano quasi, le pareva che la incensassero come una regina. 

A sé stessa raccontava compassionevole che teneva con sé il messaggio per impedire che qualcun altro lo trovasse, e la cosa misericordiosamente divenne vera quando i messaggi si moltiplicarono: il 30 gennaio, la data dell’incontro con Ilariy Radcenko, si avvicinava ed urgeva prendere accordi. E sebbene sarebbe stato meno compromettente bruciare ogni singolo messaggio, Hermione preferiva ammonticchiarli in una scatola di latta azzurra, nell’ultimo cassetto della sua scrivania, al lavoro.

Draco Malfoy era dannatamente puntiglioso e preciso, Hermione lo scoprì in quei giorni in modo abbastanza sorprendente. Del resto era scontato a rifletterci su: viveva sotto il ricatto costante dei Greengrass che, come lo avevano obbligato a sposare Astoria, così potevano decidere ad un tratto che fosse più vantaggioso un divorzio, tenendo sempre in pugno come costante merce di scambio il figlio Scorpius, la sola cosa a cui Draco Malfoy era affezionato.

Perciò negli anni l’uomo era diventato certosino nei suoi programmi ed azioni: fece intuire tra le righe ad Hermione che aveva dovuto firmare un rigido accordo prematrimoniale, le cui clausole erano piuttosto stringenti, specie in caso di infedeltà coniugale. In tralice, spaccone, aveva aggiunto che questo non era mai stato un deterrente, ma sicuramente aveva affinato la sua prudenza ed ingegno. Ed effettivamente, Hermione congetturava tra sé e sé, nel Mondo Magico non era mai venuto fuori un solo pettegolezzo a carico dei Malfoy, ma la strenua attenzione ai dettagli del suo compagno di avventura faceva ovviamente indovinare che fosse dedito alla pratica delle relazioni clandestine da diverso tempo.

Perciò, naturalmente, quando Hermione aveva iniziato a programmare in modo neutro ed innocuo la loro trasferta ad Hogwarts, meditando di raccontare a tutti che erano semplicemente andati a trovare i loro figli, la reazione di Malfoy fu di una freddezza estrema: se doveva partecipare a quella missione di ricerca, doveva essere lui a stabilire le condizioni e tra queste non figurava quella confessione idiota. Ci mancava solo che lo vedessero andare in giro per Hogwarts con Hermione Granger in Weasley.

Tutti, persino i più idioti, avrebbero pensato che ci fosse qualcosa sotto, se non una relazione sentimentale, qualcosa di quantomeno sospetto.

E, ovviamente, Draco non voleva far conoscere alla famiglia della moglie nulla che potesse porli in un ulteriore posizione di vantaggio, compresa la conoscenza della possibilità di essere oggetto di un incantesimo.

Perciò bisognava prendere ogni premura del caso.

Nessuna perciò visita ingenua ai loro ragazzi: nessuno doveva vederli assieme, nemmeno i loro figli. Per quello, il problema fu facilmente risolto da Hermione con l’ennesimo furto del Mantello dell’Invisibilità, cosa che oramai era diventata una tale abitudine che non le procurava nemmeno una capriola di senso di colpa.

Ulteriore questione fu l’orario dell’appuntamento con Radcenko.

L’insegnante era molto impegnato, aveva già concesso a fatica un incontro e lo aveva fissato alle sei e mezzo di mattina. Si era scusato profusamente nelle lettere, ma poteva riceverli solo prima dell’inizio delle lezioni così da poter dedicare loro l’attenzione del caso.

Naturalmente, un paio di anni prima, il problema non si sarebbe posto: si sarebbero Smaterializzati ad Hogsmeade una mezz’ora prima, giungendo in perfetto orario al castello. Ma da circa un lustro Hogwarts era protetta da Incantesimi molto più stringenti di quelli degli anni in cui loro erano stati studenti. Un paio di casi di vendette trasversali di ex Mangiamorte a danno dei ragazzini alloggiati nell’accademia, aveva fatto sì che la Preside decidesse di allargare la zona dove la Smaterializzazione non era possibile, inglobando la stessa cittadina di Hogsmeade e costringendo gli avventori del castello ad un passaggio obbligato in una piccola striscia di terra da percorrersi con mezzi ordinari come carrozze o auto babbane, in modo che qualsiasi visitatore fosse debitamente controllato ed avvistato molto prima dell’arrivo ad Hogwarts.

Il passaggio, naturalmente, era chiuso al tramonto e riaperto solo alle prime luci dell’alba. Calcolando il tempo di percorrenza fino ad Hogwarts, passava almeno un’ora. Hermione, perciò, dovette concludere con una fitta di ansia che doveva essere attraversato la sera prima per non mancare l’appuntamento con il professore, costringendo lei e il suo riottoso compagno di viaggio a pernottare per la notte.

Di nuovo, aveva scritto a Malfoy, proponendogli quindi di alloggiare ad Hogsmaede, ma naturalmente lui ancora aveva posto il veto, troppa gente conosciuta in giro, non se ne potevano certo andare in giro per ore con il Mantello sulle spalle.

Ed è lì che, leggendo la lettera, Hermione aveva rischiato uno svenimento misto ad un infarto.

Perché Malfoy, con una naturalezza banale persino, aveva imposto che alloggiassero in una comunità babbana che, per forza di cose, era racchiusa nella zona protetta: si trattava di una piccola cittadina sulle rive del Lago Nero, chiamata Fort Lachlan. Era, secondo lui, il posto più sicuro dove poter sostare, nonché il più comodo visto che era collegato con una corriera all’altra parte del Lago, praticamente in prossimità con il passaggio per Hogwarts.

La spiegazione, naturalmente, non faceva una piega: Hermione, però, faticava ancora a credere che tale sintesi mentale fosse giunta da Draco Malfoy. Passi essere diventato più tollerante verso Mezzosangue e Nati Babbani, ma da qui a restare un giorno in un paesino babbano, ne correva di acqua sotto i ponti. L’eccesso di prudenza evidentemente poteva anche del disgusto più sfrenato, constatò mentalmente Hermione, e d’altro canto, se così stavano le cose, non si voleva perdere lo spettacolo delle sue espressioni facciali al cospetto del mondo babbano.

Si organizzarono quindi per partire al termine delle rispettive giornate lavorative, avrebbero attraversato la barriera per la zona protetta separatamente così da non essere visti assieme, per poi incontrarsi alla fermata della corriera per Fort Lachlan, zona sufficientemente babbana per non avere noie.

Draco, a questo punto, si sentiva al sicuro: aveva imbastito la solita storia della trasferta lavorativa per ritirare dei carichi preziosi di pozioni rare e la moglie, impegnata a rinnovare il maniero alla morte di Narcissa, aveva annuito assente, non degnandolo della benché minima attenzione.

Per Hermione, invece la questione si complicava notevolmente.

Tutto faceva rima con l’ennesima storiella, l’ennesima bugia, l’ennesima scusa, l’ennesima menzogna da propinare al marito, con cui condivideva ormai un’abitazione gelida, fredda, resettata sulla cortesia di plastica che era l’amore per il figlio Hugo che non avrebbe dovuto preoccuparsi della distanza tra i suoi genitori: poteva dirgli la verità, Hermione lo sapeva.

Che era stata maledetta da qualcuno, che condivideva i sintomi con Draco Malfoy, che era necessario parlare con il professore di Difesa contro le arti oscure per avere una diagnosi corretta del caso, prima che potesse diventare pericoloso.

Ron l’avrebbe aiutata, ascoltata, consolata. Certo, era perfettamente da lui non lasciarla sola.

… e poi… avrebbe dovuto spiegare dei ricordi che le rovinavano nella testa, potenti, spavaldi, arroganti, e che facevano sbiadire ogni sua antica memoria della loro vita assieme. Doveva raccontare delle notti passate ad inseguirne le tracce dentro le palpebre chiuse, mentre lui le russava accanto. Doveva dirgli che, in quei ricordi, Draco Malfoy era sempre una certezza, e lui invece era sempre un’assenza mai nemmeno ricordata o rimpianta.

Doveva dirgli necessariamente che i ricordi, avevano scoperto, venivano richiamati dal tocco delle loro mani: e allora Ron non avrebbe sentito più nulla, perché non conosceva dimensione dove lei avrebbe toccato la mano di Draco Malfoy, così, dal nulla, senza costrizione e violenza.

E allora, ancora, aperto il fondo del barile, cosa le impediva di parlare ancora? Di dirgli che lei si fidava di Draco Malfoy, che era corsa da lui non una ma ben due volte, che conosceva a memoria di che cosa sapessero le sue mani, che poteva riconoscere il suo odore persino da cieca, sorda, muta, forse persino da morta?

Cosa le impediva di dirgli che pensare di partire con Draco Malfoy le accendeva il petto di tremule fiammelle, che erano ansia, paura, angoscia, ma che erano la sensazione preconizzatrice di tutte le avventure che aveva vissuto da ragazza e che oramai erano sparite dalla sua vita, come nebbia al mattino? E che avrebbe dato manciate degli anni con lui, con suo marito, solo per avere giorni così, quando l’attesa che era quella valigia sotto il letto, diventava un battito asincrono nello stomaco ad ogni ora del giorno e della notte, che contava i secondi rianimandola?

Non poteva dirgli tutto questo.

Mentii ancora. Parlò anche lei di una trasferta di lavoro.

Corse nella luce del tramonto fioco, il borsone che urtava ritmico contro il suo ginocchio.

Gli occhi dorati, splendenti.

Non sapeva di aver avuto quegli stessi occhi in un altro tempo, un altro luogo, un altro mondo.

Era una cameriera allora, ma anche un ex Auror e la futura madre di un bambino di nome Alex.

Era tutto diverso.

Tranne una cosa.

Draco Malfoy che era, restava, la sua certezza.

 

 

Quando lo vedo arrivare, nel buio fumoso di questa sera fredda, d’improvviso tutto diventa ligneo di consapevolezza: sono davvero qui, alla fermata di una corriera che ancora non arriva, viandante di un viaggio che è un’altra bugia ai miei cari, con una valigia leggera ma pesantissima assieme che ci ho messo giorni a fare, preoccupata di ogni gradazione e foggia di abiti.

Ed il mio compagno di viaggio, il solo, è Draco Malfoy.

Prima di vederlo, davvero, in questa sera deserta, tutto sembrava ovviamente una specie di fantasia rincitrullita come quando immagini come sarebbe vivere con le branchie, o avere i capelli blu oltremare: adesso sta succedendo sul serio e non posso tornare indietro, la menzogna detta a mio marito prende la forma della sua andatura lenta, strascicata, annoiata che si srotola lungo i passi che lo uniranno a me, alla mia strada, al percorso di vita che sto scegliendo stasera.

La mia mano, sudata, scivola sulla presa della valigia, la regge appena, mi pare che mi sfugga dalle dita: ho accumulato vestiti per una settimana, non sapendo cosa portarmi dietro, anche se non era necessario nulla di che visto che devo restare fuori solo una notte.

Bastava un pigiama, uno spazzolino: invece, con una specie di volontà propria, ci era entrata una gonna a pieghe azzurra, una stola leggera ed impalpabile, e poi un rossetto rosso vermiglio che non ho mai portato prima, orecchini lucenti ad imitare lo smeraldo, comprati di istinto, persino un profumo all’odore di rosa inglese che mi dava le lacrime agli occhi.

Non si sa mai, dicevo e la valigia cresceva, pesava, si chiudeva a fatica, perché non dovevo sfigurare, perché lui mi mette sempre in difficoltà e non dovevo dargliene motivo, perché ci mancava solo fare la figura della piccola fiammiferaia al suo cospetto, è bastata quella sera completamente bagnata dalla testa ai piedi… per cercare lui, poi.   

Parole su parole, pensieri su pensieri, accatastati assieme mentre Hugo ripeteva la lezione di storia, mentre la televisione trillava di una canzone rap, mentre Leda elencava gli impegni della giornata, mentre Ron sfuggiva i miei occhi appena entrava nelle stanze dove ero io: ed io annegavo nella confettura di quelle occorrenze cerebrali, e fuori sorridevo, annuivo, correggevo, rispondevo.

Senza sentire nulla davvero, senza che niente lasciasse traccia, come se fossi fatta della stessa sostanza delle orme sulla spiaggia, cancellate dal mare.

Ora, adesso, la valigia pesa tonnellate, mi scava un fosso sotto i piedi con l’intenzione di seppellirmi come se dovessero lapidarmi: io, la spergiura, la traditrice.

Non so giocare a questo gioco, chiaro. Ho il cuore in gola, la lacrima in tasca, le guance arrossate dal vento della sera ghiacciata che il lago mi soffia in faccia, alla maniera di un respiro affannoso da moribondo. Sono sotto ad un lampione, esposta al cono di luce, ho i capelli sciolti e liberi sulla schiena, acconciati in onde morbide di vaniglia perché, ancora, dovevo sentirmi a posto con me stessa, apparentemente perfetta, a mio agio, padrona della situazione. Vesto di bianco e rosso, come quando voglio sentirmi forte, spicco come un faro nel buio.

Lui no, ovviamente lui scivola nella semioscurità come se fosse fatto di aria rarefatta, semiliquida, brumoso come un miraggio di tenebra. Ha una borsa piccola, una specie di ventiquattrore di pelle nera che regge con forza, facendola dondolare lascivamente, come se fosse piena di piume.

Ha un cappotto scuro con il collo alto, lo fa confondere con le ombre della sera, spuntano a fatica gli zigomi e la forma aguzza del naso. A coprire gli occhi ci pensa poi un cappello a falda larga di lana nera, sembra spuntato da un romanzo noir a tinte fosche: penso con una punta di insania se sia qui per recitare la parte della vittima o dell’assassino.

Arriva nello stesso momento in cui, con un grande rombo di motore, inforcata una curva a velocità sostenuta, la corriera compare nella strada fermandosi a pochi metri da me, accecandomi con i fari come se fossi un cervo pronto ad essere investito. Meccanicamente, faccio un passo indietro per evitarla, sebbene sia sul marciapiede e non corra alcun rischio di essere calpestata.

Senza rivolgermi alcuna parola, limitandosi ad un cenno veloce della testa che vuole fungere da saluto, Malfoy attende l’apertura della porta scorrevole dopo avermi superato ed essersi fermato davanti a me, dandomi le spalle.

Lo vedo con una parte remota della mia mente salire i gradini con eleganza, obliterare il biglietto per poi percorrere il corridoio alla ricerca del suo posto, il cappello nero che spicca sopra il mare di sedili consumati di pelle rossa.

Da parte mia, non riesco a muovere nemmeno un muscolo, neanche gli occhi, neanche le mani. Mi aggrappo alla mia valigia come se fosse la sola cosa in grado di darmi un peso, una dimensione, una specie di ancoraggio fisico a qualcosa che, passo dopo passo, si sgretola progressivamente dentro di me, attorno a me.

“Ehi bella, che fai? Sali? Guarda che questa è l’ultima della giornata” mi apostrofa duramente l’autista, sporgendosi di lato con una mano già poggiata sulla leva che regola la chiusura della porta.

Non gli rispondo, non so nemmeno io che cosa dirgli, continuo assurdamente a pensare ad Hugo che tra poco si metterà a tavola, con le gambe che non gli arrivano al pavimento e che continuano a scalciare sotto il tavolo. Continuo a chiedermi se mangerà tutta la fettina di carne, se non lascerà come al solito metà, tentando di nasconderla dentro la montagnola del purè di patate. E, mentre me lo chiedo, le gambe si incollano al marciapiede, mentre rabbrividisco fin dentro le ossa.

“Deve scusarmi, mia moglie è una svampita di prima classe… pensi che qualcuno la chiamava la più svampita della sua generazione…” la sua mano si chiude sul mio fianco destro, mentre l’anca sinistra urta bruscamente contro di lui per il contraccolpo della sua presa salda, decisa, fulminea. Registro come una sorta di riflesso condizionato il suo odore, il solito fresco di settembre umido, ma giunge remoto alla mia testa come il residuo flebile di un’illusione, è come se fosse distantissimo miglia e chilometri e non fosse davvero qui. Non lo sento nemmeno quando, con decisione spavalda, mi trascina per la vita nella corriera, facendomi sedere poi al mio posto vicino al finestrino, poco prima che mi segua sedendosi accanto a me con un lungo sospiro. Noto anche che, con maniacale attenzione, fa di tutto per non sfiorarmi la mano nemmeno per sbaglio, ma me ne accorgo con una lascivia mentale che è solo una consuetudine di ragionamento, di osservazione che è una mia caratteristica precipua. L’informazione, come un ciottolo di fiume, scivola dentro la mia mente, sparendo alla vista e alla coscienza, assieme alla consapevolezza del turbinare nervoso del suo sistemarsi meglio sul sedile, come se non trovasse la posizione più comoda.

“Quale parte, esattamente, del mio discorso sull’essere invisibili non hai compreso, Granger? Devo farti un disegnino?” la sua voce schiocca come un colpo di frusta raggiungendomi dietro il collo, incassandosi nello spazio tra le scapole. Parla nascondendosi nel collo del cappotto, muovendo a malapena le labbra come un ventriloquo. Le dita nervose tamburellano su un ginocchio.

Naturalmente io ho la voce molto più alta di quello che dovrebbe essere per non attirare l’attenzione. Lo afferro per la manica del cappotto, cerco di portare a me i suoi occhi, ci riesco. Assottiglia le palpebre, mi studia con attenzione mentre il mio labbro inferiore trema senza controllo, gli occhi che si inabissano nelle lacrime: “Mio figlio… mio figlio si sta mettendo a tavola adesso”. Visualizzare l’immagine nella testa, darle un contorno ed un confine, una nettezza ben precisa nell’orizzonte fisico degli eventi, finisce per soffocarmi in gola con un nodo di tristezza. Lo mando giù, nell’esofago, sospingendolo al suono di un acuto selvaggio ma soffocato che riecheggia sinistro dentro i sobbalzi della corriera.

Draco sgrana gli occhi, i tendini del braccio scattano sotto la manica del cappotto che ancora stringo, sembra che qualcosa di freddo gli passi lungo la schiena, mentre dice asciutto: “E tu sei qui… con me”.

L’accentuazione sul finale mi fa staccare la mano dal cappotto, mentre mi chiudo nelle spalle e pigolo a testa bassa: “Non è questo”.

“E’ anche questo, non dire stronzate” lo vedo con la coda dell’occhio accavallare nervosamente una gamba, al ritmo di un sospiro lungo, fremente, irato, cosa che mi fa sentire una mocciosetta scornata. Incasso le spalle e le dita torturano senza sosta il panno leggero del cappotto bianco.

Eppure, come mi capita spesso quando sono con lui, sebbene la decenza e il buonsenso mi impongano di tacere, mi pare sempre di non riuscire a starmene zitta, immobile. Nelle viscere di me stessa, arde un fiume di lava di parole incandescenti che, se me lo tengo dentro, mi scottano come fuoco liquido. Le devo dire, le devo tirare fuori.

Perciò, annebbiata, guardandomi le mani in grembo, soggiungo con la voce spezzata: “Non sono con lui. Non sono con mio figlio. E ho mentito a mio marito. Di nuovo. Non ricordo l’ultima volta che sono stata sincera con lui”.

Draco lascia andare un nuovo lungo sospiro trattenuto, non saprei dire se di rassegnazione o altro. La mascella serrata, lo sguardo gelido, guarda fisso davanti a sé, immobile come se avesse appena scorto un Basilisco. Le labbra si muovono appena mentre geme caustico: “Io non ricordo se sono stato mai sincero con la mia di consorte…”, la frase mi fa raggelare sul posto irrigidendomi.

Sembra accorgersene perché, poggiando la nuca sullo schienale del sedile, volta lievemente la testa verso di me e soggiunge con un sorriso amarognolo: “C’è di peggio, Granger”.

“Non credo che sia la stessa cosa” sussurro, guardandomi le ginocchia, una fitta improvvisa di compassione e pena che mi ruzzola dentro il torace, annebbiandomi la vista. Rivedo dentro la mia testa la confessione potente ed enorme che scorsi nella sua, non mi sono mai innamorato in vita mia e, come spesso accade, mi sento fortunatissima. Spesso non riesco a capire che cosa sia rimasto del mio matrimonio e del sentimento per mio marito… ma esso almeno è esistito in un certo momento. Ci ha fatto generare due figli. Ci ha unito in una sola carne ed anima per anni.

Lui, invece, non solo non lo prova per sua moglie, ma non sa nemmeno che significa.

L’intimità della situazione, di questa gita segreta, mi frastorna nuovamente, riportandomi all’immaginazione le centinaia di volte in cui, sicuramente, ha compiuto passi simili con altre donne che, dopo, si è portato a letto. Lo ha ammesso lui stesso tra le righe e sembra troppo abituato a celare, a nascondere, a cercare sotterfugi ed elusioni.

Lo spio con la coda nell’occhio, una sensazione diffusa di calore che si espande sul viso, ne hai portate tante sulle corriere, per poi finire negli alberghi, come sta succedendo stasera con me? Mi scopro a chiedermi se, con queste fantomatiche donne, guardasse dritto davanti a sé, con la mascella serrata, come adesso, o se invece… forse resti perfettamente immobile, ma allunghi le dita per toccare l’interno delle loro mani, per far sentire che ci sei, per dare il brivido che si porteranno dentro fino a quando ti chiuderai le porte alle spalle, spogliandole prima di arrivare ad un letto, senza neanche stendersi supini, in piedi, come una cosa mangiata senza fame, solo per necessità, solo per sopravvivere, solo per la colpa atroce di non amarne nessuna.  

Il pensiero, giunto all’improvviso soffuso come una camera in penombra, mi chiude la gola, la schiarisco con un colpo di tosse. Lui, d’un tratto, sussurra sottile, lo sguardo adesso basso, catturato come una falena dalle mie dita che torturo, tormentata, in grembo: “Hai ragione, Granger. Non è la stessa cosa. Non siamo… la stessa cosa. Tu e Weasley. E io ed Astoria. E nel mio contorto modo posso persino essere felice che non lo sia…”, sollevo lo sguardo, una punta di meraviglia sul mio viso, la vedo riflessa nel piccolo sorriso che mi restituisce, lo sguardo ancora basso: “Posso essere davvero felice… che ci siano ancora donne che si distruggono per il senso di colpa di aver mentito al proprio marito e al proprio figlio”.

La sua constatazione mi fa sentire come una specie di bestia strana, come una sorta di animale in via di estinzione: scelgo però volutamente di vederne il meglio come se mi avesse fatto un complimento, sebbene in modo contorto. Ignoro la fitta allo stomaco all’amarezza della sua voce.

“Dovrebbe essere una cosa normale” ribatto ingenuamente, continuando a torturare l’orlo del cappotto bianco, il minuscolo sorriso che mi ha rivolto che mi addolcisce la voce. 

“Non lo è per me, non lo è mai stato…” prosegue lui secco, sistemandosi meglio sul sedile come se non avesse pace “Per questo non posso capire cosa provi, non posso nemmeno tentare, Granger. Posso dirti però una cosa…”, la sua voce si curva in un accenno più smorto e sottile, come un bisbiglio impalpabile che sembra raggiungermi fin dentro il costato “Non hai mentito per te stessa, per il tuo piacere. Come ho imparato a fare io o come fa mia moglie. Sei cristallina come una mocciosa, tu. Non lo sai fare. Spicchi come se avessi un segnale luminoso in fronte…”, si spezza il fiato in un suono inarticolato a metà tra lo sbuffo e la risata, stemperati entrambi nel tono sarcastico. Mi stringo nelle spalle, incassandomi vergognosamente, pensando alle mie riflessioni precedenti, al mio cappotto bianco, al fatto che pure io avevo pensato che non avevo nulla del suo essere furtivo. Ancora una volta, però, non so se nel suo caso, lui lo veda come una lode o come un rimprovero.

“Hai mentito per proteggerli, lo hai detto tu. Per non preoccuparli…” asserisce serio, convincente, rassicurante, al punto che davvero inizio a crederci anche io “E hai mentito anche per me… perché ti ho chiesto di farlo. Quindi la prossima volta che ti senti così… dai la colpa a me, Hermione. Ci sei abituata, sarà facile, credimi”. Il suo tono, la rassegnazione spavalda della sua affermazione, mi fa sollevare gli occhi che, testardi, avevo tenuto fissi tutto il tempo sulle mie ginocchia serrate. A metà strada, incontro anche i suoi di occhi, arrivati finalmente ai miei.

“Quello era Harry, non io…” sorrido con quella che vorrei interpretasse come gratitudine per il goffo tentativo di tirarmi su di morale. Mi poggio con la testa al sedile, inclinando il viso di lato ed aggiungendo lieve: “Mio malgrado, ti ho sempre dato il beneficio del dubbio”.

“Sono preso da un’ondata di commozione a scoppio ritardato, Granger” soggiunge, roteando gli occhi e tornando a guardare davanti a sé con l’ombra, ancora, di un’increspatura sottile sulle labbra.

Mi sento in dovere di aggiungere, incespicando sulle parole: “E non ti darò la colpa di niente, Malfoy. Penso che abbiamo superato quella parte”.

Ci siamo abbondantemente oltre. Se anche un tempo fossi stata così, quale specie di idiota sarei a darti ogni colpa del mondo come una bambinetta se, dopo, attraverso le città e le strade soltanto per poterti trovare e sapere che stai bene? Scivolandoti tra le braccia come se, inconcepibilmente, ci fossi nata dentro? Come se sapessi sempre che tu, dall’altra parte, starai sempre lì ad aspettare, le gambe piantate per terra, il respiro immobile, la mascella dura, il corpo pronto ad incastrarsi con il mio.

Sarei l’ipocrita del secolo.

Scrollo la testa a quel pensiero, i pensieri sono diventati dei palloncini instabili ed isterici che se ne vanno continuamente per conto loro. E, ancora, temo di esserci abituata, non so nemmeno io come.

“Credo che mio padre si stia rivoltando nella tomba, io e la Granger legati da una specie di amicizia…” commenta lui con un ghigno, guardandomi di sbieco, quasi aspettandosi una mia reazione di disgusto alla prospettiva. In verità, la prima cosa che provo è un enorme ed incommensurabile sollievo. Essere rientrati nella confort zone delle battute mordaci e dei punzecchiamenti, mi rassicura come non mai. Ogni volta invece in cui viriamo verso argomenti più intimi e personali, mi pare sempre di essere su una scialuppa di salvataggio in mezzo al mare, vicina ad annaspare se dovessi dire qualcosa di troppo, o fare qualcosa di troppo. Cosa che, puntualmente, succede con me che gli do sempre ogni possibilità di cambiarmi l’umore, di rendermi allegra, di farmi chiudere il cuore dentro il petto per paura di sentirlo ancora.

Ed anche adesso, devo ammetterlo, ci è riuscito per l’ennesima volta, facendo accucciare il mio senso di colpa dentro il fondo dello stomaco come un cucciolo scornato.

Rimesto nella testa ogni retroscena subdolo della parola amicizia che, così astratta ed impersonale, mi risulta comunque confortante nel suo essere asettica, clinica, generalizzante, come se sterilizzasse ogni cosa strana di questo rapporto. Pare una sorta di scrollata di spalle dialettica, chiamiamola amicizia dai ed andiamo oltre. Così ci dimentichiamo del resto.

Nel concetto, rientra naturalmente una mia risposta a tono, mentre schiocco la lingua infastidita ed alzo gli occhi al cielo: “A quanto pare, siamo sposati, tesoro. Mi hai definita tua moglie, poco fa. Cosa che mi sta ancora procurando dodici coliche renali e quindici spasmi intestinali, ma soprassediamo”. Completo il tutto con un finto conato di vomito, mentre lui mi guarda con un sopracciglio inarcato e gli occhi ridotti a due fessure malevole.

“Allena il tuo apparato digerente allora, Granger…” commenta in tralice, riassettandosi il cappotto con fare elegante e distaccato “… perché resterai mia moglie fino a domani mattina”.

Rischio seriamente di strozzarmi con la saliva, cosa che mi fa produrre una specie di suono inarticolato vagamente somigliante ad un colpo di tosse misto al principio di angina pectoris.

“Che cosa?!” erompo scandalizzata, cercando di limare la voce al suo sguardo di fuoco, vista la presenza degli altri viaggiatori “Capisco la prudenza, ma non sarai solo lievemente paranoico?! Siamo tra i babbani, chi diamine deve scoprirci qui?”.

Mi guardo attorno per la prima volta da quando siamo saliti a bordo, persino sulla corriera c’è pochissima gente. Un paio di vecchietti di ritorno da qualche torneo di bocce. Una signora carica di buste della spesa. Una mamma circondati da cinque mocciosi urlanti. Gente decisamente pericolosa insomma, non sia mai che qualcuno ci tramortisca con un deambulatore, un modellino dei Transformers o con un mazzo di porri. Fuori, la sera fredda appanna i vetri impedendo di vedere all’esterno, i sobbalzi ritmici della corriera mi fanno dedurre che stiamo ancora nelle strade sterrate attorno al Lago nero.

“Siamo in un villaggio babbano a poche miglia da Hogwarts, Granger…” sciorina ovvio Malfoy, dopo avermi destinato una lunga occhiataccia pietosa alla mia constatazione “Un posto nemmeno lontanamente turistico, o romantico, o di una qualche attrattiva economica. Siamo letteralmente in mezzo al nulla. Non ci viene mai un emerito cane, qui…”, allarga le braccia in silenzio, quasi a comprendere la folla di sonnolenti avventori sul pullman che, effettivamente, ad uno sguardo più attento, sembrano comunque saettare spesso gli occhi nella nostra direzione.

Nonostante l’abbigliamento da spia russa di Malfoy e il mio appiattirmi sul sedile, abbiamo comunque un’aria sicuramente diversa da loro, più “cittadina” e meno familiare. Dubito, del resto, che molta gente che non sia del posto, prenda abitualmente questa corriera. E da qualche cenno di saluto intercettato prima, deduco che gli altri viaggiatori siano più o meno degli habitué.  Naturalmente, mi tengo per me i miei pensieri, ci manca pure dargli ragione a questo punto. Incrocio perciò con sussiego le braccia, alzando gli occhi al cielo, mentre continua la sua filippica: “C’è però una categoria ben specifica di persone che qui, nonostante tutto, ci viene spesso…”, saettando uno sguardo dardeggiante nella mia direzione, motteggia insolente: “Prova ad indovinare”.

“Le coppie sposate, forse?” sbatto le ciglia con stupore, fingendo la concentrazione da oca giuliva che non ci capisce nulla delle sue virili e complicate trame mentali, quando ovviamente ci sono arrivata da un pezzo.

“Esattamente…” sputa fuori con accondiscendenza, anche se naturalmente dal sospiro rassegnato che lascia uscire fuori, intuisco subito che ovviamente non si è bevuto la mia manfrina “Ossia i genitori di mezzosangue e che vengono a trovare i loro figli…”, abbassa la voce, guardandosi attorno circospetto per timore di essere sentito “A questo i babbani si sono abituati e non fa notizia… in generale non fa notizia da nessuna parte che due coniugi alloggino da qualche parte. Caso diverso per un uomo ed una donna apparentemente liberi che viaggiano assieme. Scommetto che daremmo a questa topaia di buco infernale l’occasione per ciarlare per mesi. Arrivando anche a qualche magico paio di orecchie”.

Sbuffo ancora ravvivandomi i capelli con un gesto volutamente arrogante, evitando però di sottolineare che, in ogni caso, ci vorrebbe comunque poco per due fedifraghi o per due che hanno una qualche trama losca, dire che sono sposati. Non è che sia così geniale come piano, ma minimo se glielo faccio notare, diventerà ancora più dannatamente paranoico, costringendomi ad ingurgitare otto pinte di Pozione Polisucco, corretta al bulbo pilifero di qualche vecchietta baffuta.  

“Per me sei fin troppo ansiogeno, santo cielo…” dico comunque, tanto per punzecchiarlo, attività che trovo sempre dannatamente divertente, specie quando respira come un mantice, profondamente, solo per resistere all’impulso di rispondermi male “Se è così, mi meraviglio che non ti sia portato dietro un paio di occhiali con annessi baffoni… devo farmi bionda, tanto per stare tranquilli?”.

Naturalmente, Draco non mi lascia troppo tirare la corda e, guardandomi di sbieco, soggiunge truce: “Bè, le regole erano le mie o te ne sei scordata? Possiamo sempre tornare indietro, eliminare il tuo senso di colpa da novella Pinocchio ed abbandonare la manfrina coniugale”.

Non ho motivo di dubitare che, se lo innervosissi troppo, sarebbe davvero capace di mollarmi nel bel mezzo di questo posto dimenticato dal mondo, con buona pace di tutto l’incontro con il prof. Radcenko. Perciò, ingoiando un groppone di orgogliosa stizza, replico con un lungo respiro: “Va bene, dannazione. Mi chiamo ancora Hermione o mi hai pure cambiato l’identità in qualcosa di osceno tipo, che so, Henrietta Umbridge?”.

Il nome lo fa ridacchiare tra sé mentre si passa una mano nei corti capelli biondi, non posso impedirmi il tonfo dentro lo stomaco al suono della risata, colloso del pensiero dolce di avergliela procurata io.

“Ora che me lo dici mi tenta parecchio come opzione… peccato non averci pensato prima… Comunque no, ti chiami Margery Carrington. Il tizio che mi fa i Confundus per i documenti aveva solo questo disponibile adesso. Accontentati, tesoro”. Faccio una smorfia disgustata, arricciando il naso, sembra il nome di una delle amiche sgualdrine di Leda, minimo ha preso ispirazione da qualche tizia dalla morale simile. “E tu invece? Chi diamine saresti?” chiedo, guardandolo storto.

“Julian Carrington” risponde orgoglioso e tronfio di sé stesso, del resto penso che qualsiasi cosa sia un miglioramento rispetto a “Draco”, seppure limitato a poche ore.

“Sembra il nome di un gigolò francese di basso profilo” replico a tono, cercando di smontarlo.

Ovviamente non si scompone minimamente, anzi azzarda pure uno sguardo di approvazione al mio indirizzo: “Brava, inizia a fabbricare un bel background, ci potrebbe servire. A te sta sicuramente bene la novizia fuggita dal convento per amore del qui presente capolavoro di virilità”.

“Certo, inventiamoci il romanzo di fantascienza adesso, ci manca solo che abbiamo avuto un figlio e tu nemmeno lo sai…” commento, incrociando le braccia. Il pensiero è così assurdamente scomodo che mi riempie di pelle d’oca le gambe, fino al fondo della schiena.

Dopo il suo ennesimo borbottio, restiamo immersi in un silenzio non scomodo, forse persino piacevole, intervallato solo dai sobbalzi regolari della corriera e dalle voci degli altri viaggiatori. Mi azzardo persino a chiudere gli occhi e ad appoggiare la testa contro il finestrino, assorbendo per un secondo la sensazione di friabile calma, prima che naturalmente la realtà contingente mi colpisca di nuovo come un treno impazzito lanciato a tutta velocità. A quel punto, però, riaprendo gli occhi con lentezza, respiro piano in modo continuo e ritmico, di modo che l’ansia e l’angoscia escano fuori dal mio corpo come un veleno cattivo. Sento ogni tanto lo sguardo di Draco tornare verso di me come se stesse studiando e valutando le mie mosse, ma quando cerco di incrociare i suoi occhi, lui pare catturato dal riflesso nel finestrino mentre si approssima qualche sparuta casa di legno, dandomi quindi l’impressione di essermelo immaginato.

Dopo l’ennesimo tornante che l’autista prende con sfregio assoluto della sicurezza stradale, portando la corriera quasi a ribaltarsi, dal finestrino appannato vedo finalmente dei grappoli intermittenti di luci, sparsi come una coperta di diamanti sul dorso scosceso delle montagne. Gli occhi mi pizzicano quasi per la commozione, Hogwarts, non la vedevo in versione notturna probabilmente da anni, forse persino dal diploma. Un solletico sulla nuca mi informa che anche Draco, come me, è catturato dalla vista, ovviamente impossibile per i babbani sul pullman che continuano a vedere i brulli rilievi oscuri o pieni di rovine.

Sento Draco sento sporgersi leggermente verso di me, mentre aguzza la vista dentro il finestrino annacquato dal vapore. Il suo respiro mi sfiora la pelle dietro le orecchie, riconosco l’odore del suo fiato, di quel afflato singolare di menta e limone di cui ho impressa nella memoria ogni singola nota olfattiva, ancora, non so nemmeno io come. Resto immobile, congelata, le spalle tese e le dita chiuse sul cappotto calato sulle mie ginocchia. “Sei venuta a cercare… me, Granger?”. La nuova vicinanza richiama in modo inatteso quella di qualche sera fa, costringendomi a serrare gli occhi come se fossi sotto una luce intensa, abbacinante, mentre tutto invece è buio sotteso e soffuso e sono solo io che, così, tento di mettere in un angolo della testa quelle immagini. La sua mano sotto il mio mento, a tiro dei suoi occhi, non sia mai che scappassi altrove. La mia guancia piccola, umida contro le sue dita aperte a coppa. La mano veloce, fulminea, che si chiude sulla sua, la copre, la stringe. Le immagini di quel mondo che non conosco che mi piombano nella testa.

E adesso sono qui, con lui, ancora, di nuovo, sempre, le cornici cambiano, le bugie dilaniano, i colori sbiadiscono, eppure sulle corriere affollate, o nelle strade bagnate, o nei corridoi deserti, o sui pavimenti accanto ad un pianoforte: lui è lì ed io sono con lui.

Ancora, di nuovo, sempre.

Il ricordo di quella notte piena di pioggia e del mio comportamento assolutamente irrazionale, mi frana nel petto come una slavina, traducendosi in un suono inarticolato di gola che anche Draco ode evidentemente perché, di scatto, si allontana fulmineo da me come se fosse stato trapassato da una scarica elettrica. L’imbarazzo tangibile, per fortuna, dura poco perché, con un ultimo sbuffo asincrono che ha l’effetto di farmi sbattere contro il sedile del passeggero di fronte a me, la corriera finalmente si ferma, mentre la voce gracchiante dell’autista bercia che siamo al capolinea.

Fort Lachlan.

Con quello che pare un moto di sollievo, Draco afferra brutalmente la sua piccola valigia con una mano dopo essersi calato di nuovo il cappello sulla testa, attento a farlo aderire perfettamente. Senza nemmeno aspettarmi, inforca il corridoio scansando persone con malagrazia, scendendo dal mezzo prima ancora che io abbia fatto in tempo a recuperare le mie cose.

Andiamo bene.

 

NOTA AUTRICE:

Non aggiorno da, non so nemmeno io quanto tempo. Ed è una cosa che per tutta una serie di motivi mi fa stare davvero male ogni volta che ci penso, non voglio nemmeno andare a cercare appunto da quanto non lo faccio.
A chi ho avuto modo di sentire più direttamente ho spiegato un pochino di cose, di quanto sia un periodo difficile per la mia famiglia, di quanto ciò abbia influito sul mio carattere e sul mio approccio a tante cose della mia vita, non da ultimo la scrittura. Dovrei scrivere un trattato a riguardo, ma non penso che sarebbe molto interessante... Senza contare che, davvero, sembra da un paio di anni che non abbia granché pace. Per chi legge, magari, questo può sembrare anche una scusa o un'esagerazione... Ma davvero ci sono stati momenti in cui era difficile anche fare le cose più semplici, figuriamoci scrivere.
Figuriamoci se ci pensassi persino.
Questa storia però è casa mia. E io ho un dovere verso di essa e verso di voi. Mi ha fatto conoscere persone che, ora, chiamo amiche. Mi ha fatto conoscere una parte di me che non conoscevo. Mi ha fatto capire chi sono e dove voglio andare. Ed un debito così, bisogna saldarlo prima o poi.
Perciò, al netto di ciò che sarà di me e con tutte le cautele del caso, ho deciso di cambiare l'approccio che ho a questa storia, cercando così in tempi più serrati di completarla.
Non faccio promesse scritte su pietra perché come vi ho spiegato, ho imparato una mia assoluta impotenza nelle vicende della mia vita. Ma cercherò invece di non fare più capitoli enormi e far passare anni tra uno e l'altro, ma invece di farne altri molto più piccoli e pubblicarli magari uno ogni mese o ogni due.
Manca poco alla fine e non posso, non voglio arrendermi così. Comincerò già da quel poco che ho, e così continuerò sperando di farcela. Perciò questo capitolo è così piccolino e per questo, accanto al titolo, c’è un numero (I) in parentesi. È solo una piccolissima e prima parte di come lo avevo concepito all’inizio. Ma ci sono di nuovo, spero di esserci presto di nuovo, e questo già adesso è un sollievo. Siamo al capitolo 50 e, dopo più di dieci anni, questo dice già moltissimo su quanto questa storia sia stata e sia ancora una parte enorme della mia vita.

Se ci siete ancora, grazie come sempre.
Se non ci siete più, grazie comunque per quello che mi avete dato.
Cassie 

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Capitolo 51
*** Disturbia, step four: about what we’ve never had (II) ' ***


Capitolo 51: Disturbia, step four: about what we’ve never had (II)

 

Scesa dalla corriera, rabbrividisco immediatamente per l’impatto con l’esterno, la temperatura pare essersi abbassata di diversi gradi nel seppur breve viaggio, cosa che mi fa stringere attorno al mio cappotto bianco chiudendolo alle folate di vento gelido che soffia dalle montagne.

Mi guardo attorno con un afflato di curiosità, la mano sulla valigia, mentre la gente scende dalla corriera e si disperde nella piccola piazzetta, raggiungendo le proprie destinazioni: come ha preannunciato Malfoy, effettivamente la cittadina non è null’altro che un ammasso di casette di legno senza alcuna attrattiva turistica. Poche luci accese alle finestre, qualche insegna marcita dall’umidità del lago; un droghiere, un vecchio pub o un ristorante cinese con un drago rosso sulla porta così grottesco da somigliare piuttosto ad un lungo verme solitario. Cosa che sicuramente non stimola l’appetito. Anche la gente in giro è pochissima, è l’ora di cena, i pochi passanti camminano ingolfati in grossi maglioni con le trecce, allungando la falcata nervosa dopo avermi gettato un’occhiata in tralice di sospetto. Lontano, in una fessura tra le casupole basse, un pontile di legno si allunga sulla superficie del Lago Nero, richiamando indietro qualche sparuto pescatore che, le canne pendenti sulla schiena, torna a casa.

Decisamente, nulla di interessante o indimenticabile.

Mi volto su me stessa cercando Draco con lo sguardo che, in tutta la mia manovra di sopralluogo del circondario, ha alacremente consultato la cartina ed alcuni fogli di carta spiegazzati.

“La nostra locanda dovrebbe essere…. da quella parte…” sciorina incerto, indicando con il braccio in una confusa direzione alle mie spalle.

“Sono colma di fiducia al momento per il tuo senso dell’orientamento, caro…” schiocco la lingua guardandolo obliquamente, non è che siamo in mezzo all’Upper East Side e ad un dedalo di strade, se non è capace di trovare il solo alberghetto del posto siamo davvero alla frutta.

Draco non si dà pena di rispondere, nemmeno al mio appellativo sdolcinato da finta moglie, limitandosi a borbottare qualcosa tra i denti prima di indicarmi con uno rapido gesto del capo la direzione a suo dire corretta. Quindi probabilmente mi ritroverò tra una ventina di minuti nella selva oscura con i lupi che banchettano sulla mia carcassa dilaniata. Che prematura e ingrata fine.

Nonostante tutto, in mancanze di alternative, lo seguo. Lui, come poco prima sulla corriera, non si dà naturalmente pena di attendere che io lo affianchi, ma invece cammina a passo sostenuto davanti a me, continuando a guardare alternativamente la sua stupida mappa e le strade attorno, guardingo come una lepre inseguita dai cacciatori. Incespico nello sterrato per cercare di non perderlo di vista, impacciata dalla valigia e dagli stivaletti con il tacco quadrato che, ancora, non so perché diamine mi sia venuto in testa di indossare proprio stasera, proprio qui… e proprio con lui, aggiungo malevola con il pensiero, stringendo le palpebre nel tentativo di bucargli la schiena con la potenza del mio sguardo inceneritore.

“Smettila, Granger… i tuoi anatemi silenziosi sono molto più rumorosi di quanto pensi… credo di averti già detto che hai il respiro di un maledetto mantice iperattivo, come sei sopravvissuta in guerra, Merlino solo lo sa…”.  Sbuffo, ovviamente rinforzando la mia immagine di utensile soffiante, ma non mi do pena di rispondergli per le rime, cercando di disincastrare di nuovo la valigia da una buca nel terreno.

Lo seguo mentre, superata la piazzetta ed un paio di casette diroccate, inforca il declivio che conduce nelle vicinanze del lago. La già scarsissima illuminazione del paesino si affievolisce ancora di più, smorzata dalla vegetazione incolta ed attraversata da respiri notturni non molto rassicuranti. Rabbrividisco, guardandomi ossessivamente attorno ad ogni tramestio sospetto che fa risorgere la fantasia che Malfoy in verità ha solo finto di assecondarmi, ma che in realtà mediti di assassinarmi e di gettare il mio cadavere nel fondo fangoso del lago, tanto per ravviare il traffico escursionistico della zona con un po’ di turismo macabro.

D’improvviso, però, si ferma immobile sul sentiero, senza nemmeno una parola, come colto da un pensiero fulmineo che lo paralizza anche nell’azione semplice del camminare. Lo affianco, raggiungendolo infine e già pronta alla tiritera sul fatto che non si può perdere in uno sputo di posto come quello, non prima di aver disincagliato da un’altra buca la mia nefasta valigia, la stessa che continuo a maledire per essermi portata per il pernottamento di una sola notte, ma che probabilmente tornerà utile per l’occultamento del mio corpo in decomposizione. 

Mi accosto quindi a Draco guardandolo storto, ma lui semplicemente riprende a camminare senza aggiungere un’altra mezza parola, solo ad un passo più lento, così che io possa finalmente stare accanto a lui.

Ha visto la zona poco illuminata e mi ha aspettato, l’attenzione inaspettata mi fa sciogliere di un sorriso imprevisto, mentre evito di guardarlo in faccia per paura che possa capire quanto la cosa mi abbia fatto piacere. Ridimensiono subito mentalmente tutto perché, naturalmente, deve fingere di essere mio marito quindi probabilmente se capicollo giù per una scarpata, la cosa non offre molti profili di verosimiglianza: non voglio dare a nessuna parte della mia mente ulteriori sponde per annotare ogni singola gentilezza che quest’uomo mi fa. Ho già abbondantemente notato che cose che sembrano minuscole con altri, con lui diventano sterminate, finendo per tributarmi una felicità che non riesco a spiegare. A quest’ora, se fossi con Ron, starei già urlando e sbuffando perché non mi sta aiutando con la valigia. Con Draco Malfoy, mi accontento della briciolina che mi aspetti lungo una strada poco illuminata. Che razza di idiota.

Il pensiero mi mette ulteriormente di cattivo umore nei pochi passi che percorriamo in silenzio, fino ad arrivare alla nostra destinazione. La locanda risulta essere né più e né meno che un cottage come tutti gli altri, di legno scuro, appollaiato a pochi passi dalla riva del lago e da un pontile. Non c’è né un’insegna, né una decorazione particolare, solo un patio un po’ più ampio all’ingresso che si affaccia sullo specchio d’acqua, restituendo la visione mozzafiato delle montagne e di Hogwarts poco distante, immersa nella nebbia umida come uno stormo di lucciole intermittenti.

Mi fermo a guardarla per qualche secondo con la mano sospesa sulla valigia, il legno che scricchiola sotto i piedi miei e di Draco che apre la porta smaltata di rosso della casupola. Il tintinnare giocoso di alcuni campanelli non riesce a coprire del tutto il cigolio esasperato dei cardini vecchi.

Di fronte a noi, non c’è niente più che una piccola stanza circolare che funge da salotto, con una piccola libreria, qualche divano stinto, un caminetto acceso che rimanda un buon odore di resina di pino. Tutto è di legno scuro, consumato. Poco più a sinistra rispetto all’ingresso, intravedo una scala che porta al piano superiore, il cui corrimano ha dei pezzi mancanti. Non sarà niente di più che una casa un po’ più grande che mette in affitto una o due camere a notte.

L’impressione mi viene confermata dall’arrivo della nostra albergatrice, una donna sulla cinquantina piuttosto in carne, dall’aspetto pacioso e rubicondo, i capelli biondo cenere legati in una crocchia, con un vestito a fiori terribilmente leggero per la stagione. Sopra, indossa un cardigan di lana infeltrita grigia. Unica nota di colore e pregio del suo aspetto è una spilla con il cameo di una rosa bianca che le chiude il maglioncino sotto il collo. Lo osservo per qualche secondo, affascinata dai riflessi cangianti che il fuoco disegna sulla pietra lucida.

“Buonasera signori!” esordisce gentile e frizzante, con un forte accento del nord del paese “Immagino che voi siate i signori Carrington…”. Ovviamente ci ha preso subito, non penso che abbiano la fila di clienti che si allunga fino ad Aberdeen.

“Sì, buonasera sig. Hudson, ci siamo sentiti telefonicamente…” risponde Draco con solerzia, porgendole la mano a mo’ di saluto e presentazione “Sono Julian Carrington”.

Guardo Draco di sbieco, non sia mai che presenti anche me e mi tratti in modo diverso da una semplice appendice ornamentale: “E io sono…”, come diamine ha detto che mi chiamo? Era un nome da cartone animato dei Simpson… Lisa? Maggie? Inizio a sudare freddo, non voglio ricalcare sul fatto che, apparentemente, dobbiamo fingere di essere marito e moglie. Vorrei evitare di sputare fuori quell’appellativo a meno che non ci sia costretta con una pistola alla tempia; per fortuna, occhieggiando i documenti che Draco ha poggiato sul bancone della reception, riesco a leggere in tralice il nome del mio personaggio di fantasia.

“E io sono Margery Carrington” completo trafelata dall’ansia di non sembrare una completa imbecille. Draco, alla mia destra, sospira con un’aria rassegnata che ha l’effetto di infastidirmi ancora di più. Sembra che, senza nessuna fatica, abbia indovinato i miei pensieri.  

L’albergatrice, inforcando un paio di occhiali dalla montatura di osso, procede alla registrazione dei nostri documenti su un faldone dall’aspetto consumato ma dalle pagine immacolate, confermandomi ulteriormente che il posto è ben poco abituato ai turisti. Osservo la manovra di registrazione puntellandomi nervosamente sui piedi, come se temessi che da un momento all’altro la verità sulla mia identità venga fuori per un misterioso ed inspiegato incidente.

Inutile aggiungere che, invece, Draco è perfettamente a suo agio, calmo e serafico come starei io dentro una biblioteca. La menzogna e l’omissione sono tipo il suo pane quotidiano, mi chiedo ancora ossessivamente quante volte sia già passato da una manfrina simile.

Il pensiero mi mette di nuovo a disagio riducendomi lo stomaco ad una poltiglia stopposa che mi pesa nel torace come un’ammissione di colpa.

Finalmente la signora termina le sue incombenze e, sfilandosi gli occhiali, ci restituisce i documenti fasulli, accompagnandoli con la chiave della stanza: “Allora signori, benvenuti a Fort Lachlan. Vi tratterrete a lungo?”.

Nel mio silenzio pensoso è Draco che risponde sicuro: “Solo fino a domani mattina… partiremo molto presto”. La signora, dopo un cenno di assenso, armeggia con un cassetto della scrivania che apre cigolando, tirando fuori una chiave pesante di metallo con un cordino consumato come portachiavi. Ci indica la scala, prima di dire sempre all’indirizzo di Draco: “La vostra stanza è quella al piano superiore. È già pronta. Lei e sua sorella potete accomodarvi se siete stanchi per il viaggio”.

Per un attimo, la parola fluisce dentro le mie orecchie come acqua di un ruscello, assolutamente priva di peso e consistenza, scivolando inascoltata. Poi, come lo stridio delle unghie su una lavagna, mi ritorna in mente qualcosa di completamente disarmonico con il resto del discorso, qualcosa che stona terribilmente, cosa che tendenzialmente mi accade con i congiuntivi sbagliati o con la consecutio temporum sballata. Ripercorro quindi la conversazione, trovando quindi il pezzo che non mi tornava. Sua sorella.

Gli occhi rischiano di schizzarmi fuori dalle orbite per qualcosa a metà tra la sorpresa e l’orrore, entrambi proporzionalmente maggiori persino a quelli conseguenti a dover passare per moglie di Draco Malfoy. Perché poi mi faccia più ribrezzo essere creduta sua sorella che sua moglie, lo so solamente io. Fatto sta che, la bocca impastata, mi ritrovo a rantolare: “Sorella?! Ma chi, io?!”.

Draco mi guarda per qualche istante, un’espressione indecifrabile sul volto che non mi dà ragione dei suoi pensieri, solo di una serie di meteore indistinte che si affannano negli occhi chiari.

Poi torna a rivolgersi alla nostra albergatrice con tono di voce piatto: “No, sig.ra Hudson, credo di averglielo detto telefonicamente. La signora è mia moglie…”, con un gesto naturale e fluido come se ci fossimo abituati da tutta la vita, mi poggia la mano alla base della schiena, cingendomi ed avvicinandomi al suo fianco. Assecondo lo spostamento d’aria come se fossi una bambolina di pezza privata di una qualsiasi gravità.

Resto a testa bassa, turbata di nuovo dalla vicinanza di quel contatto, nella perfetta esibizione di una moglie sottomessa e timorata di Dio, cosa che naturalmente sono ben lungi dall’essere anche con il mio vero marito. L’odore del legno di pino bruciato si fonde con quello del profumo di Draco, come se fossero complementari, vicini di essenza, e li sento entrambi amplificati, penetranti, dannatamente impossibili da ignorare. Come sempre, come ogni maledetta volta, il profumo dell’uomo accanto a me ha l’effetto di muovere una parte nascosta dentro il mio basso ventre, come un guizzo di tempesta ed un singulto di ricordo. Mi struggo perfettamente muta ed immobile di nostalgia per una cosa che non ricordo e non so nemmeno se è mai esistita e, per quanto mi sforzi di afferrarla, sfugge come olio scivolato sull’acqua.

Il calore di quell’abbraccio di lato mi avvampa le guance peggio del calore del camino. Per concentrarmi su qualcosa di diverso, sollevo gli occhi tornando con un sorriso fintamente timido a guardare la nostra albergatrice, torcendomi le mani e tenendole ben lontane da quelle di Draco.

Ci manca solamente innescare un’altra serie di immagini strane.

“Ah scusatemi davvero… davvero moltissimo, che errore sciocco… “commenta la signora Hudson con aria mortificata, asciugandosi la fronte imperlata di sudore con un fazzoletto a scacchi e rivolgendosi poi sussiegosa nei miei confronti “Vogliate davvero perdonarmi signora, non so perché ero convinta che foste fratello e sorella… forse sarà stato lo stesso cognome a trarmi in inganno”.

La mano ancora ferma di Draco sulla mia schiena mi innervosisce al punto che, in barba a qualsiasi educazione, mormoro acida: “Sciaguratamente in Inghilterra abbiamo ancora questa malsana usanza di prendere il cognome del marito, signora. Credo che sia in voga da qualche millennio…”, con un piccolo balzello mi stacco da Draco ed incrocio le braccia al petto, in un moto automatico di difesa. Lui segue le mie manovre in silenzio, mentre concludo con una smorfia velenosa: “Credetemi, avrei preferito di gran lunga mantenere il mio di cognome”.

Accanto a me, il sospiro rassegnato di Draco raggiunge lo stesso grado di decibel del mantice respiratorio di cui spesso mi accusa. Naturalmente, ha colto subito la non velata stoccata alla noia che provo per tutta questa faccenda della falsa identità, del cognome mutato e, non da ultimo, del fatto che debba pure fingere di essere la sua amorevole consorte.

Quando invece io un marito ce l’ho: e sta mettendo a letto mio figlio, adesso, dopo che ho mentito ad entrambi per l’ennesima volta. Per chissà cosa, poi… non potevo per una volta abbozzare e lasciar correre questa faccenda della maledizione e non mettere ulteriormente sulla graticola il mio matrimonio traballante?

Mi pungono gli occhi sentendomi di nuovo estranea alla situazione che sto vivendo, spero di poter fingere che sia per il fumo del camino nella stanza non sufficientemente areata.

“Ha ragione, signora, mi perdoni…” prosegue l’albergatrice profondendosi in piccoli e ripetuti genuflessioni del capo, cosa che mi fa ovviamente intenerire e pentire del mio accesso di astio precedente che, ovviamente, non ha lei come destinatario.

Sto già per scusarmi della mia antipatia dicendo di lasciar correre, quando la signora Hudson, in un moto di esemplificazione, biascica una sorta di spiegazione del suo errore: “… non so perché mi è venuta automatica come associazione, invece che pensarvi sposati… sarà stato che…”.

“Sarà stato che… cosa, esattamente?” chiedo con un sorriso statico, comprendendo esattamente dove stiamo arrivando e sfidandola quasi a continuare. Accanto a me, Draco continua a non parlare, profondamente intrattenuto dalla pantomima che sto mettendo in scena per suo esclusivo divertimento.

“Niente, lasci stare… si figuri, sono solo pensieri ad alta voce… se volete che vi sia servita la colazione…” la signora, oramai quantomeno disperata, cerca di deviare il corso della conversazione, evidentemente non ancora consapevole della persona con cui sta parlando: Hermione Granger in Weasley, la persona NON elastica per eccellenza.

“No, no, signora Hudson, si figuri lei, non sia mai che non chiariamo questo affascinante equivoco. Perché le è venuto più naturale pensarmi come sorella di mio marito piuttosto che come sua moglie?”, indico Draco con un cenno del capo “Come può notare, ci somigliamo come si somigliano le manguste e i serpenti”, nessuna analogia zoologica potrebbe essere più azzeccata “Quindi mi pare un accostamento quantomeno azzardato. Non si preoccupi, non rischia di offenderci, sia sincera… sono solo curiosa…”.

“Beh signora… è qualcosa… a p-pelle, credo. Un’impressione superficiale. Non s-sembrate due che si p-potrebbero s-sposare…” balbetta l’albergatrice, guardando a destra e a sinistra come a cercare una fuga dalla situazione, come se qualcuno potesse spuntare all’improvviso per salvarla. Per un curioso controsenso, però, quando torna a guardare me e Draco, i suoi occhi restano gelidi, cristallizzati, profondamente ancorati nel nostro esame visivo alla luce di una verità universalmente accettata. Sebbene tutto di lei spinga alla gentilezza e alla cordialità, compreso l’imbarazzo della situazione, lo sguardo mi fa raggelare come se fossi stata abbandonata in mezzo alla neve.

Mi scordo però della sensazione, fumando di rabbia per il suo commento successivo: “Lei è così… semplice. E il signore, invece…”. Completa il tutto con una nuova occhiata al nostro indirizzo, stavolta un po’ più ferma sulla figura di Draco, come ad imprimersi meglio la sua figura nella memoria.

Ogni accezione dell’aggettivo semplice mi si scarta ostile nella memoria, abituata da quando ero adolescente a nessun carattere di eccezionalità estetica. È chiaro che si sta parlando di un profilo prettamente fisico, a cui sciaguratamente sono abituata da anni. Non sono una di quelle donne che, non appena le incontri, spingono un uomo a voltarsi e a sbavare copiosamente per terra in preda agli scompensi ormonali. Sono una di quelle donne che invece, troppo ingolfate e infagottate, riesce a passare indenne davanti ai capannelli di uomini che si bevono una birra, oppure davanti ai cantieri con i muratori che lavorano ad una ristrutturazione. La cosa, tendenzialmente, non mi ha mai ferito eccessivamente, se non quando ero ragazzina ed andavo in giro con Ginny che, al contrario, otteneva ed ottiene l’effetto esattamente opposto. Ma, con la maturità e con il passare degli anni, si arriva ad una certa consapevolezza di sé per cui tali cose non fanno più soffrire. Non le si nota nemmeno più.

Perciò, non so perché, il commento pure educato giunge nella carne viva di un fantomatico fianco scoperto. Il peso della valigia che porto ancora in mano, piena di vestiti che so già che sono inutili e che probabilmente non indosserò, mi informano con una subitanea intuizione del motivo per cui adesso, dopo tanti anni, un’osservazione del genere mi ferisce come se fossi una stupida adolescente.

Draco.

Lo guardo di sottecchi per un secondo, lo sguardo annoiato dalla diatriba, i lineamenti rischiarati dalle ombre rossastre dal fuoco, il contegno aristocratico, il mento sollevato, gli zigomi scavati. E in un’ellissi ideale delle pupille, guardo lui e dopo guardo me stessa. Il cappotto bianco troppo leggero, le scarpe con il tacco adesso infangato, i capelli freschi di messa in piega e che adesso l’umidità del posto ha gonfiato come un pallone aerostatico.

Ho temuto di farmi vedere accanto a lui, perché so che non è il mio posto. Perché immagino le donne che ci sarebbero dovute essere con lui a prendere una camera d’albergo. Perché conosco sua moglie e, sebbene Draco non la ami, ricordo l’effetto che fanno quando entrano in una stanza. E non è l’effetto che faccio io. Non lo è mai stato. Non sono mai stata bella, bionda, alta, magra, un complemento perfetto a quello che è lui, non mi è mai interessato esserlo: io sono calzini spaiati, matite a tenere assieme i capelli, occhiali calati sul naso, postura un po’ curva. E tutto quello con cui da anni avevo fatto pace, mentre facevo quella valigia, mi era esploso come una mina antiuomo pensandolo accanto a lui.

E non capisco perché sia stato così, non capisco perché ho fatto di tutto per sembrare una che poteva stargli accanto senza sfigurare, quando non mi interessa, quando non mi è mai interessato, quando sono la moglie di un altro e lui è il marito di un’altra.

Perché diamine mi interessa?

Voglio fuggire, scappare, dare riposo a questo prurito agli occhi che non mi lascia in pace. Invece, inselvatichita come un’Erinne, erompo ancora, conficcandomi le unghie nei palmi delle mani: “E il signore, cosa?! Cosa vuole dire?! Che sono troppo ordinaria per stare con uno come lui?!”.

Ordinaria, sembra un insulto, riecheggia di tutta quella inadeguatezza che provavo nel periodo della pubertà, magari rintuzzata da una qualche oca come Lavanda Brown. Mi si chiude la gola, mentre penso a chissà quante volte mi sono sentita così proprio a causa dell’uomo che mi sta ora accanto, grazie ai suoi atteggiamenti da bullo. Un’ondata ulteriore di calore furente mi travolge, facendomi bruciare le piante dei piedi per l’immobilismo della situazione assurda in cui mi trovo.

Ignara della mia tempesta emotiva, la signora Hudson, sudando ancora freddo e balbettando, cerca ancora di scusarsi mettendo toppe che sono peggio del buco da lei stessa provocato: “No no signora, non mi permetterei mai… s-solo che sono a-abituata che uomini così, preferiscono altre c-compagnie… più a-appariscenti…”.

Ancora la carrellata di donne bionde, longilinee e procaci con cui il mio compagno di viaggio solitamente si intrattiene, mi scorre davanti agli occhi in una fantasmagoria di curve e risolini. Ciò ha lo stesso effetto del rosso negli occhi di un toro, specie quando constato di trovarmici anche solo vagamente accostata in un azzardo mentale. Che peraltro mi penalizza e condanna anche come perdente.

Le guance rosse, la testa leggera, sto già per scoppiare in un nuovo coro di obiezioni, quando finalmente Draco, rimasto in silenzio per tutto il tempo, emette un solo lungo sospiro che ha l’effetto di congelarmi sul posto come una statua di sale. Irrigidendomi, improvvisamente consapevole del mio accesso irrazionale di ira per un commento fuori luogo ma decisamente superabile, mi affloscio come un ramoscello secco piegandomi contro il peso della schiena. Lo guardo con la coda dell’occhio mentre, con un movimento ad arte, si passa una mano tra i corti capelli biondi, esibendosi nella sua migliore interpretazione di nobile annoiato dalle beghe della servitù.

Poi, senza alcun preavviso, mi mette un braccio attorno alle spalle attirandomi ancora vicina a lui prima di sussurrare suadente: “Mi creda, signora Hudson, le doti nascoste di mia moglie possono compensare un nugolo di donne cosiddette appariscenti… non vorrei che esse diventassero troppo manifeste stanotte… quindi le chiedo già scusa in anticipo se ha il sonno leggero”.

“Caro!” gli assesto una gomitata, neanche troppo delicata nel fianco incollato al mio, cercando al contempo di guadagnare preziosi centimetri di distanza.

Non essere così timida, amore…” bisbiglia lui, stringendomi la spalla che ancora cinge e destinandomi un lungo sguardo di finto desiderio mentre si umetta il labbro inferiore “Ne andava del tuo orgoglio ferito”.  Calca la parola con decisione, rimarcando probabilmente quanto tutta la faccenda mi abbia notevolmente colpito per la solita alterigia di tutti gli ex Grifondoro. Glielo faccio credere, abbassando il capo come una bambina messa in punizione, rossa in viso nella stessa identica maniera, grata che il resto della girandola dei miei pensieri autodistruttivi sia andato perso di fronte alla sua capacità di leggere il sottinteso.

Adesso, tutta la sceneggiata che ho portato avanti mi fa sentire decisamente ridicola.

Draco Malfoy funge sempre da una sorta di amplificatore costante di quello che provo, qualsiasi cosa essa sia, fosse pure un fastidio innocuo per una frase fuori contesto o vagamente offensiva. In certi momenti mi pare che tutto il resto che provo durante la giornata, senza di lui, sia a volume basso, sussurrato, quasi sul muto. Poi arriva lui, ed improvvisamente mi vibra la cassa toracica da quanto le cose rimbombino ad una potenza infinitamente superiore.

Come questo braccio sulle spalle: è una cosa che fa sempre Harry, o George, o Bill, o anche Charlie. Sono sempre più bassa di loro e, quando vogliono mostrare accondiscendenza per quello che dico, mi parlano così. Cingendomi le spalle con un gesto innocente di affetto.

Un tempo, quando pioveva ed avevamo solo un ombrello, anche Ron faceva così per evitare che mi bagnassi.

Poi invece lo fa Draco Malfoy per una finzione stupida, ed avverto ogni singolo centimetro della pelle delle sue dita sul mio avambraccio, ogni falange così stretta dentro la manica del mio cappotto.

I nervi del braccio trascinano corrente elettrica fino alla punta delle mie unghie, come a richiamare la magia che il contatto delle nostre mani porterebbe. Un mondo in cui siamo stati altri, non questo.

Certamente, non il marito di Astoria Greengrass e la moglie di Ron Weasley.

Mi divincolo di nuovo dalla stretta di Draco, facendo qualche passo di lato e fingendo di recuperare i documenti che la signora Hudson ha finito di registrare. Sento che lui studia la mia manovra diversiva, ma non aggiunge niente.

“Vogliate ancora scusarmi per l’errore…” ripete per l’ennesima volta l’albergatrice, allungandoci la chiave della stanza “Sono stata davvero inopportuna, mio marito me lo rimproverava sempre”.

La consapevolezza dell’esagerazione della mia reazione si stempera in un sentimento di gentilezza ritardata per questa povera donna, cosa che mi fa chiedere comprensiva: “Mi dispiace, è vedova?”.

“Divorziata. Mio marito ha pensato bene di scappare con una sua amica di liceo. Mi ha letteralmente spezzato il cuore” aggiunge con una scrollata di spalle che vorrebbe essere noncurante, ma che invece suona solo stridente con lo sguardo tormentato.

“Mi scusi davvero, non volevo essere io inopportuna adesso” sussurro colpevole, guardandomi la punta delle scarpe a disagio.

Alla mia sinistra, Draco sbuffa rumorosamente mormorando caustico: “Invece io gradirei essere inopportuno e salire in camera nostra, tesoro”. 

La signora Hudson lo ignora bellamente e torna a guardare me, occhi negli occhi, come se mi trapassasse da parte a parte: “Tranquilla, signora, sono passati tanti anni. Si incontrarono per caso, i nostri figli andavano a scuola assieme, guardi un po’ il caso. E pensare che non si erano mai sopportati quando erano ragazzi, esistevano ancora leggende sui loro scontri nei corridoi…”, mi stringo nelle spalle, inconsciamente faccio un passo indietro, lo sguardo di Draco addosso “Ma quando ci si avvicina ai quaranta, si inizia quella complicata età in cui si guarda indietro e si cercano errori ed errori…”, annuisco debolmente, asciugandomi il palmo delle mani sudato contro la stoffa del cappotto. Lei soppesa la mia reazione, quasi sincerandomi che la stia ascoltando attentamente, poi prosegue con la voce cantilenante, quasi ipnotica: “Sebastian… mio marito… ad un certo punto si è convinto che tutta l’insoddisfazione che sentiva, si sarebbe risolta cambiando la sua compagna di vita. E quella donna… apparentemente sembrava capirlo meglio, sembrava che semplicemente per anni non si fossero resi conto di cosa erano l’uno per l’altra…”, il mio tentativo maldestro di raggiungere gli occhi di Draco, sincerarmi che siano ancora su di me, cercarli dentro il mio sguardo come una complicità inconscia di cui pentirsi subito dopo, si infrange non appena la signora Hudson continua stentorea, a voce più alta e secca: “Assurdo, un mare di scuse patetiche che ci sono costati anni di sotterfugi, lettere nascoste nei barattoli vuoti dello zucchero, trasferte di lavoro che erano solo weekend con la sua amante…”, non ci posso credere, deglutisco il mattone di bile che mi si è formato in gola, nella tasca del mio cappotto vergognosamente trovo ancora la carta del messaggio di Draco di settimane fa e che porto ancora dietro alla stregua di un amuleto. Lo accartoccio malamente per dare sfogo alle mie dita inquiete e nervose, mentre la signora conclude con un lungo e sofferto sospiro: “Ma la cosa peggiore è il male che ha fatto ai nostri figli, a quelli di quella donna. Si dovrebbe pensare due, tre, cinque volte prima di incamminarsi in qualcosa che, potenzialmente, può fare del male ai propri figli. Sebastian non ci ha pensato… mai”.

Hugo che cerca di nascondere la carne dentro la montagnola del purè di patate. Che ancora non si allacciare bene le scarpe. Che mi abbraccia le ginocchia quando ha paura. 

Rose che ha l’odore della carta di riso. Che mangia il dolce prima del secondo. Che adesso forse dorme in una stanza rossoro dall’altra parte di questo lago.

E sogna da innamorata il figlio dell’uomo che stanotte dorme sotto lo stesso tetto di sua madre.

“Come… come è andata a finire?” chiedo, la bocca impastata, le parole un pigolio sfuocato.

La signora mi guarda ancora con un sardonico sorriso che pare la rappresentazione grafica di un “te l’avevo detto”, pronunciato chissà quando e chissà a chi. Al marito, sicuramente. Ma non so perché sembra che abbia solo me come destinatario da bruciare sul rogo.

“Sono stati assieme qualche anno, il tempo di togliersi lo sfizio. Si erano trasferiti anche a Glasgow per sfuggire alle chiacchiere di paese. Poi si sono lasciati. Sebastian ha perso tutto, il suo lavoro, la sua famiglia… e pure quella donna…”, la sua voce viene smorzata da un singhiozzo più forte delle sue parole, si cerca un fazzoletto nelle tasche “Non… non lo sento da tre mesi. È completamente sparito”.

“… come potete vedere, però, non si può dire che la cosa interessi me e mia moglie…”, la voce di Draco, tinta di una vena amara di una specie di rabbia repressa, spezza la malia del racconto come uno specchio che va in pezzi. Torno a guardarlo, ha la mascella serrata, i pugni chiusi contro i fianchi: “Mi dispiace per lei, ma come le dicevo prima del suo racconto strappalacrime, gradirei vedere la nostra stanza”. La donna lo guarda sbattendo le palpebre per qualche secondo, con un fondo di irritazione sporca dentro lo sguardo di acquamarina gelida. Serrando la mascella, gli porge di malavoglia la chiave della nostra stanza con la punta delle dita, come se venisse direttamente dalle fauci incandescenti della terra.

Draco la afferra con decisione, prima di prendermi per il gomito con una punta di esitazione, forse spaventato che il contatto inneschi qualche altra visione sgradita. Evidentemente, però, l’incantesimo risparmia qualsiasi contatto diverso da quello delle mani, quindi resto a farmi trascinare su per le scale passivamente, priva di una forma qualunque di controllo sul mio corpo e sulla mia volontà come se fossi un sacco inerme di sabbia. Le spalle mi si piegano sotto il peso enorme di una colpa che sembra una pantera acquattata nel buio dei miei pensieri e di cui, ora, sento il respiro nell’ansa del collo, pronta a squartarmi la pelle tenera della carotide. Il calore delle dita di Draco sulla stoffa del cappotto, il suo respiro ansante mentre mi trascina su per le scale, le bestemmie che mastica a mezza bocca dentro emissioni brevi di fiato irato, giungono filtrati alle mie orecchie come se fossi in apnea e tutto si confondesse, galleggiasse umido attorno a me.

Ogni minuto di questa vicinanza aggiunge gironi infernali alla mia condanna, destinandomi sempre più vicina al fondo dell’inferno, alla fornace incandescente dei traditori; ogni puntello che prima mi preservava almeno tra i penitenti, si sgretola come sale bagnato all’odore di erba bagnata nel mese di settembre. Guardo di sottecchi Draco sollevando di poco gli occhi bassi, fissi sugli scalini consumati di legno tarato. Seguo i suoi tratti rigidi, i denti che digrigna selvaggio come un animale catturato, impastando il movimento con parole che non riesco a decifrare.

La sensazione si acuisce quando, finalmente, arriviamo al pianerottolo della nostra stanza e, con una fulminea fiammata di ragionamento tardivo, mi rendo conto che la chiave che Draco inserisce nella toppa è una soltanto e che il fatto che abbiamo finto di essere marito e moglie non può portare a trovare dall’altra parte due letti singoli da compagni innocui di viaggio.

Se mai lo siamo stati mai. Se mai lo siamo adesso.

Il tenore afoso e rinnovato della colpa mi grava addosso ad ogni centimetro esposto di pelle, pronto a marchiarmi, nelle orecchie e nelle iridi ogni fotogramma di innocente fiducia sprecata di mio marito e dei miei figli. Faccio per liberarmi della stretta di Draco che, però, prima che possa riuscirci, tira fuori dalla tasca del suo cappotto la bacchetta e la punta con un rapido movimento flessuoso al pomello arrugginito della porta.

“Locus praelatus” sussurra soffuso e leggero, come se parlasse dietro le orecchie di un’amante. Una lama di luce rosata compare per un istante sotto la porta, illuminando languida la punta delle mie scarpe, prima di sparire con un suono metallico che ci informa dell’apertura della porta.

Con prudenza fulminea, Draco la apre tirandomi all’interno, per poi chiuderla rapidamente verificando che nessuno abbia scorto nulla.

Resto immobile nel vano della porta poggiandomi allo stipite, il cuore che non mi lascia in pace la testa, battendo ritmico come un martello pneumatico dentro i vasi sanguigni, mentre Draco con scafata nonchalance entra nella stanza e prende possesso dello spazio conosciuto attorno a sé. Il mio cervello anestetizzato riesce comunque a riconoscere l’incanto provandone una sincera ammirazione: è un Incantesimo non semplicissimo, anzi. Consente di richiamare in qualsiasi spazio chiuso un altro, sempre chiuso, che può essere anche lontanissimo nello spazio da dove ci si trova. La difficoltà dell’Incantesimo è che il luogo da richiamare deve essere periodicamente irrorato di una particolare pozione, il cui ingrediente principale è la polvere ricavata da un corallo particolarmente costoso. Quindi, figuriamoci se una come me possa pure permettersi di pensarci.

Cosa che, naturalmente, non è il caso di Draco Lucius Malfoy, milionario, pozionista ed esteta. E del resto, doveva sembrarmi immediatamente strano che non muovesse alcuna obiezione a prendere una stanza in una locanda diroccata e muffita dentro il cuore del nulla inglese.

Può evocare una stanza del Manor anche se fosse perso sulle montagne tibetane, basta trovare un luogo sufficientemente chiuso.

Mentre lui si accovaccia vicino al caminetto per accenderne il fuoco, muovo qualche passo incerto e traballante dentro la stanza, annegata dentro un profumo intenso e struggente di acqua di rose che mi corrode fin nel midollo delle ossa. Un salottino dalla forma vagamente circolare, con la tappezzeria rosso rubino che si screzia delle ombre lunghe e nere delle fiamme del camino. Due divanetti con l’intelaiatura di legno lucido e decorato, cuscini rosso scuri di velluto con disegni a rilievo. Un tavolino basso con un vaso di rose gialle, da cui proviene il profumo innaturalmente intenso e sicuramente amplificato con la magia. Tappeti orientali su cui i passi sono morbidi, soffocati, eterei. Ad entrambi i lati della stanza, si aprono due porte gemelle, adesso vagamente socchiuse su due camere da letto separate dall’arredamento ugualmente sontuoso. Draco ancora armeggia con le mani chiuse a coppa, soffiando sotto i rami la cenere e la scintilla di fiamma, e io continuo in silenzio a guardarmi attorno, una mano sulla valigia che, per tutto il tempo, ho stretto come se ne andasse della mia vita.

La claustrofobia aumenta esponenzialmente quando, come una sonnambula, guardo fuori dalla finestra afferrando l’intelaiatura della tenda pesante di broccato con le dita tremanti. All’esterno, non si vede né il Lago nero e il villaggio di Fort Lachlan, ma nemmeno le montagne e i boschi attorno al Manor. C’è solamente un’oscurità densa, stopposa, lanosa.

Nero, nero a perdita di sguardo.

Chiudo gli occhi, paradossalmente abbagliata facendo qualche passo indietro per metterci distanza, come se il nero potesse spalancare le fauci in un bagliore e mangiarmi tutta intera.

Mi rimpicciolisco nelle spalle, Draco ancora ignaro dei miei gesti, preso com’è dal camino che non si accende. Tengo gli occhi serrati annullandomi dal momento presente, da questo luogo che non esiste da nessuna parte, da cui non so nemmeno se si può uscire e tornare a casa sani e salvi, senza l’odore di rose che si appiccica da ogni parte svelando ogni frammento di desiderio ingerito dentro le giustificazioni e i dinieghi, le preghiere e i ricatti, i compromessi e i sotterfugi.

Questo è un luogo per dare l’illusione che ci si possa restare per sempre. Nutrendosi di aria e vento, come le lenzuola raccontano da ammalianti sirene, frusciando sui corpi nudi e sfrigolando di promesse di carta velina. Lasciando tutto fuori, nell’illusione che il buio si sia mangiato tutto, che la fine del mondo sia arrivata ed abbia lasciato solo te e lui come unici sopravvissuti ad amarsi fino al termine del tempo tutto. O fino al termine di un orgasmo sudato contro una spalla morsa a sangue. Perché dopo ci sono solo due camere da letto separate, così da mettere subito in chiaro che non ci saranno carezze, risatine, appuntamenti, occhi chiusi, dita tra i capelli e guance poggiate sull’incavo di una spalla. Niente. Solo letti vuoti, coperte fredde, movimenti rapidi nel rivestirsi, zigomi sporchi di mascara e colletti macchiati di rossetto. Magari uno sguardo perso attraverso il nero della finestra, la sensazione angosciante che improvvisamente sia entrato anche dentro, si sia rimpicciolito a misura del torace, inghiottendo ogni speranza futura di luce.

Deglutisco il groppone che minaccia di soffocarmi, forte, con ferocia, mentre gli occhi si saturano di tutti i particolari dell’ambiente, tutti troppo studiati perché sia la prima volta che Draco ci porti qualcuno. Ogni cuscino, ogni increspatura delle tende, ogni crepa del pavimento raccontano la storia delle donne che sono passate da qui, impregnando della loro presenza questo posto per il tempo di una scopata veloce, per poi scivolare furtive come farfalle di seta, dimenticate, inesistenti.

Del resto, ho visto la sua mente, penso con un singhiozzo trattenuto guardando i muscoli della schiena di Draco contratti, il fiammifero che si spegne antipatico tra le sue dita, nessuna donna è mai rimasta indimenticabile, erano tutte un calderone di colori brillanti fusi assieme, un punto di piacere minuscolo dove nessuna si distingueva davvero.

Nessuna. Ed un giorno, in mezzo a loro, ci sarò anche io. Una mera ombra sfilacciata, con cui non ricorderà nemmeno se ci è stato a letto. Solo che è stata qui, e quindi probabilmente se l’è fatta ma non è stato granché.

Tutti questi pensieri si rovesciano nel mio cervello, mescolati alla risacca delle parole della signora Hudson, non sono appariscente, sono una che si dimentica, una che si confonde con le altre, una che adesso è uguale a tutte le altre, una che adesso dovrebbe essere a casa con suo marito e suo figlio invece che dormire in una dimensione parallela con un altro uomo.

Studio le linee delle sue scapole, il collo rigido ancora di spalle a me.

Non un altro uomo. Non uno qualsiasi, uno che non è appariscente, uno che si dimentica, uno che si confonde con gli altri, uno che adesso è uguale a tutti gli altri. No: uno che ha le mani calde che odorano di pioggia, uno che bisogna guardare dal basso verso l’alto, uno che stringo a me in questa e in una vita prima, uno che spegne tutte le voci nella mia testa, quella del marito, persino quelle dei figli.

Consapevole del mio sguardo, Draco alla fine si volta su sé stesso, ancora accovacciato per terra, sbuffando e sfregando le mani contro uno straccio polveroso. Ha le labbra rosse, la camicia che, per il sudore dello sforzo, aderisce meglio al torace. I capelli rasati fanno risaltare gli occhi grigi come se fossero retroilluminati da un bagliore nascosto, mentre inarca un sopracciglio e fa una smorfia infastidita aggiungendo melenso: “Se mi dessi una mano, sarebbe una cosa gradita, tesoro…”.

Arrossisco furiosamente da capo a piedi, colta in fallo, tutto che mi scoppia in faccia, addosso, ovunque, in una vampata di calore così intensa che credo che si legga in ogni parte del mio volto.

“Granger?” chiede Draco con tono tra il sorpreso e il preoccupato, inclinando la testa di lato e puntellandosi sulle palme per rimettersi in piedi.

Il cuore mi sobbalza contro le costole, non è uno qualunque. Non è uno dei tanti.

Non lo è per me.  

“S-scusami, sono un’incapace con gli i-incantesimi i-i-incendianti…” balbetto, il labbro inferiore che mi trema senza sosta. Distolgo lo sguardo da lui, lo punto contro la porta della camera dove non gli ho visto lasciare la valigia: “S-sono m-molto s-stanca. Domani d-d-dobbiamo alzarci presto per incontrare Radcenko. S-sarà meglio che v-vada a l-letto. Buonanotte”.

Senza attendere la sua risposta, senza guardare la sua reazione, apro la porta della camera e mi ci chiudo dentro, restando nella penombra dondolante di una candela accesa sul comodino.

Scivolo contro la porta, mille ronzii nelle orecchie, nascondendo il viso nelle palme delle mani.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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