Villa Williams.

di AdelaideMiacara
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***


Una tipica giornata afosa estiva abbracciava la campagna, costringendo i pochi abitanti fuori porta a rifugiarsi al fresco delle loro case. Era il pomeriggio del 13 luglio, e poco dopo l’ora di pranzo usualmente le persone riposavano in quella che sembrava un’oasi in mezzo a due grandi città. La campagna era attraversata a metà da un piccolo fiume, il Prue, che divideva involontariamente due mondi opposti. Da un lato Lakoma, la città del commercio, dall’altro Little Garden, quella del turismo. Ciò che differiva realmente delle due città erano gli abitanti.
Sulla riva del Prue, nella sponda appartenente a Little Garden, Mary era sdraiata all’ombra di un eucalipto rosso mentre con le dita accarezzava l’acqua che scorreva, e desiderava morire. Il silenzio e la tranquillità della campagna nel periodo estivo, nonostante il caldo soffocante, le donavano una pace interiore che avrebbe potuto fare a meno di continuare a vivere, di quanto in quell’istante si sentisse completa. Mary, in verità, aveva tanti altri motivi nella sua vita per cui avesse desiderato morire, ma quelli accompagnavano il desiderio tristemente con le lacrime, mentre quello che stava provando adesso era quasi simile a una forma di gioia. In più di un’occasione Mary si trovò a pensare “se non muoio questa volta, vivrò fino a cent’anni”, ma questa prospettiva svaniva nei rari momenti di equilibrio mentale in cui inceppava la ragazza. Con lo sguardo fisso verso l’alto, Mary scrutava tra i rami dell’albero sotto il quale era distesa per cercare un uccellino che da qualche minuto aveva iniziato a cantare sopra la sua testa. I raggi del sole filtravano attraverso le fitte foglie di eucalipto, infrangendosi qua e là e creando sul pavimento erboso dei giochi di luce.
Da quando era una ragazzina, quello è sempre stato il suo posto preferito: il luogo dove poter dimenticare che fosse viva, ma soprattutto che stesse vivendo in un mondo che non le apparteneva e i cui abitanti fossero la cosa più distante dalla sua persona. Continuava a giocare con le dita nell’acqua del fiume, distesa su un fine lenzuolo di lino color crema che avrebbe dovuto lavare non appena tornata a casa, dato che iniziava già a intravedere delle macchie di terra.  È difficile descrivere Mary senza precisare che, in realtà, era una ragazza solare e carismatica come poche. Di lei si innamorarono tanti uomini, ma nessuno era ancora riuscito a rubare il suo cuore. Lei era ribelle e inafferrabile.
Persa tra i suoi pensieri, fu portata alla realtà dal fruscio di un cespuglio poco lontano da lei, facendola sollevare sulle braccia. La prospettiva era cambiata, e davanti a sé vedeva il boschetto che la circondava e il fiume scorrere lento e cristallino. Si guardò intorno per pochi secondi e la fonte di disturbo sbucò dal cespuglio di fronte ai suoi piedi.
«Ciao, stronzo» disse Mary, spezzando il religioso silenzio che l’aveva accompagnata per circa un’ora, rivolgendosi a un grosso gatto rosso con una macchia bianca che andava dal muso fino al petto. Era il suo gatto Proust, un animale che rispecchiava perfettamente il carattere della sua padrona: libero, incorreggibile, sfuggente agli altri, impiccione e alle volte aggressivo. Lo trovò un anno prima sulla sponda opposta del Prue quando era solo un cucciolo, urlante in riva al fiume. Mary pensò bene di togliersi le scarpe, attraversare il fiume noncurante dell’acqua gelida e andarlo a prendere, e una volta afferrato lo portò vicino al viso e gli disse: «tu sarai mio complice». Lo chiamò Proust per evocare a livello sonoro il nome del fiume, dove il micio fu salvato, ma soprattutto perché «se fossi rimasto a Lakoma, adesso ti chiameresti Prue. Ma sei di Little Garden, quindi meriti un minimo di cultura».
Dopo aver salutato il suo fedele compagno, Mary tornò a sdraiarsi sul lenzuolo mentre anche un lembo del suo vestito azzurrino che le arrivava alle caviglie era già sporco di terra. Proust si accomodò accanto alla ragazza, reclamando qualche carezza, così Mary lo accontentò. Dal prato strappò una piccola margherita e la appoggiò sulla testa del gatto, che prontamente fece cadere per terra iniziando a giocarci. La ragazza prese il fiore, quasi disturbata da Proust per non averle chiesto il permesso per giocarci, e lo infilò tra i suoi capelli soddisfatta. Mettendosi a sedere, si stiracchiò le braccia verso l’alto e poi rivolse uno sguardo a Proust.
«Non guardarmi così. L’avresti rovinato» gli disse, successivamente si alzò da terra con uno scatto e afferrò il lenzuolo. Per Mary, parlare con il suo gatto era la normalità, in quanto secondo lei fosse l’unica anima vivente affine alla sua. Non che evitasse il contatto umano, anzi, la ragazza era sempre al centro della vita mondana di Little Garden, anche involontariamente. Era la seconda figlia femmina di una famiglia modesta che ha sempre abitato, da prima della nascita dei suoi fratelli, in una villetta rustica in cui stavano un po’ stretti. Poi il destino ha voluto che Mary crescesse in fretta a causa di eventi concatenati che portarono alla distruzione della sua famiglia: dapprima morì la madre a causa di un brutto male, il padre dopo una brutta storia di depressione e alcolismo lasciò la famiglia per risposarsi, e rimasero Mary, sua sorella Jade e il fratello Harry. Qualche anno dopo Jade si sposò, trasferendosi con suo marito nella città di Lakoma, facendosi viva con la famiglia di tanto in tanto con una telefonata o una visita a sorpresa. Ma la vita della ragazza prese una nuova svolta quando, insieme al fratello, scoprirono di aver ereditato il patrimonio di un caro zio da parte di madre. Il buon vecchio zio Jerard lasciò ai ragazzi non solo una cospicua eredità, ma anche la sua magnifica villa vicino la sponda del fiume Prue a Little Garden.
Mary camminava lentamente, seguita da Proust come se fosse la sua ombra, passeggiando per il vialetto sterrato che portava al retro della sua grande dimora. Il sole le baciava la pelle olivastra, mentre i lungi capelli castani erano coperti da un cappello di paglia intrecciato che andava tanto di moda in quel periodo. Il vestito morbido azzurrino fluttuava grazie al filo di vento che si era levato per un istante, facendo sembrare in lontananza la ragazza una figura sinuosa tutt’uno con l’aria.
La grande villa dei Williams si trovava sulla strada principale che portava al centro città, ma alle spalle era avvolta da un piccolo boschetto simile a quello da dove la ragazza stava tornando. Arrivata davanti la grande inferriata, aprì silenziosamente il cancelletto lasciato socchiuso qualche ora prima ed entrò nel giardino privato. La villa sorgeva su una grande proprietà e possedeva un altrettanto vasto cortile, dotato tra le altre cose di due gazebi in ferro battuto e una piccola serra in vetro dove fioriva un roseto. Mary estrasse dalla sua borsa in tessuto un paio di occhiali da sole neri dalla montatura allungata e li indossò, facendosi strada nel vialetto che portava fino all’ingresso sul retro della casa. Alle sue spalle, Proust smise di seguirla per concentrarsi ad acchiappare le foglie trascinate dal vento. Aprì la porta e la lasciò socchiusa, così che il gatto potesse entrare successivamente.
Non appena entrò subito avvertì la differenza di temperatura: la casa era sempre fresca, nonostante all’esterno si sfiorassero i 40 gradi. Il silenzio che regnava fuori, tuttavia, si mantenne anche dentro. La ragazza si avvicinò all’imponente scala dai passanti in ferro battuto e gli scalini in marmo bianco, quando dal piano superiore scese correndo il figlio della governante e le si piazzò davanti.
«Victor» disse, a mo’ di saluto «una bella giornata. Non trovi?». Il bambino le rispose con un sorriso timido, per poi correre via verso il giardino. Victor, figlio di Jane la governante, era un bambino sordomuto. Aveva sette anni ma sembrava essere molto più furbo per un bimbo della sua età, e soprattutto un attento osservatore delle vite dei suoi coinquilini. Insieme alla madre, si trasferirono alla tenuta dei Williams quando Harry riuscì a trovare un lavoro nel campo del turismo per non gravare sull’eredità, e assunse Jane per evitare che la casa diventasse un porcile. A soli 27 anni, Harry Williams aveva già una fortuna e al tempo stesso un lavoro rispettabile, cose che lo resero molto appetibile agli occhi delle centinaia di ragazze di Little Garden alla ricerca disperata di ricchezza. “Se solo sapessero”, pensava Mary, “quale sia la vera ricchezza”. E non lo pensava per altezzosità, al contrario: Mary è sempre stata tutto ciò che di più diverso esistesse dall’intera comunità di Little Garden, una comunità frivola, egoista, narcisista. Mary sapeva bene che la ricchezza più grande non apparteneva al loro mondo, ed era la ricchezza d’animo, e quella non la si può comprare in nessun modo. Nonostante ciò, la ragazza veniva etichettata dai suoi compaesani come una loro simile. La bellezza, l’eleganza, la sensualità di Mary facevano invidia all’intera comunità, ma ciò che più faceva storcere i nasi era il suo essere ribelle. Era uno spirito libero, nessuno poteva vincolarla in alcun modo, amava far festa e bere gin, portava abiti attillati e faceva soffrire gli uomini.
Quando entrò nella sua stanza al piano di sopra, le sembrò di essersi appena svegliata da un sogno. L’impatto potente del sole l’aveva stordita, decise di sedersi al tavolino bianco nel suo balcone che dava sul retro, dove a quest’ora non batteva il sole. Il balcone non era molto grande, ma c’era abbastanza spazio per farci entrare il necessario: sulla sinistra un tavolino con due belle sedie rivolte verso il panorama, sulla destra una panchina in legno con diversi cuscini. Mary si sedette sulla panchina, alzando i piedi sulla ringhiera. Lei e suo fratello amavano organizzare di tanto in tanto delle feste nella tenuta, che finivano per essere eventi mondani a cui partecipavano anche persone provenienti appositamente da Lakoma. E il fatto che non fossero eventi periodici ma occasionali, li rendevano ancora più esclusivi.
Mentre guardava il paesaggio, la ragazza sentì un tonfo provenire dalla sua stanza e saltò in aria, per poi girarsi di scatto. Si alzò dalla panchina e lentamente spostò la tenda bianca.
«Harry?» chiamò, prima di entrare nella sua stanza. Mary trasalì quando vide una figura femminile di spalle giocare con un oggetto preso dalla sua scrivania. In un attimo cercò di pensare chi potesse essere quella ragazza, ma non somigliava fisicamente a nessuna delle sue poche amiche, tantomeno a Jane la governante. Ma il vero colpo al cuore lo avvertì quando la figura si voltò verso di lei.
«Non ridi più, Mary?» disse la ragazza in piedi davanti a lei. Mary pensò di avere le allucinazioni, perché quella donna era… lei stessa. In tutto e per tutto, dalla testa ai piedi, aveva davanti agli occhi una copia di se stessa. Mary iniziò a sentire la testa così pesante e le gambe così deboli, che alla fine si abbandonò e cadde per terra perdendo i sensi.
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. ***


Capitolo 2.

 

Mary riprese conoscenza gradualmente, distesa sul pavimento della sua stanza e circondata dagli inquilini di casa Williams al completo, Proust compreso. Harry le accarezzava dolcemente il viso mentre le sussurrava parole di conforto, Jane le poggiò un panno umido sulla fronte, e Victor stava in piedi sull’uscio della porta ad osservare la scena impassibile. Quando la ragazza aprì gli occhi, inizialmente non riusciva a mettere a fuoco le immagini, ma poco dopo queste divennero nitide. Mary si ricordò di ciò che era successo qualche attimo primo e credette di essere impazzita.

«Cara bambina, cara…» disse la governante, carezzandole il braccio. Mary accennò un sorriso e provò a tirarsi su, ma la testa ancora girava e si sentiva troppo debole. Così, Harry la prese in braccio, proprio come quando era piccola e si faceva male correndo, e la adagiò sul letto matrimoniale.

«Non è niente, solo un mancamento» mormorò la ragazza con gli occhi socchiusi, mentre il grosso gatto rosso le si sedeva accanto.

«Mangi troppo poco, Mary!» la rimproverò severamente Jane, prendendo da terra il panno che prima aveva messo sulla fronte della ragazza. Questa cercò di protestare, ma fu fermata dal fratello che diede ragione alla governante.

«Mangi poco e bevi troppo» la riprese quest’ultimo, passandosi una mano sulla fronte e cercando di imitare un tono più severo possibile. Harry cercava sempre di riprendere Mary nelle sue sregolatezze, ma in lei rivedeva una versione femminile di se stesso dieci volte più forte ed esuberante, e sapeva che qualsiasi imposizione con lei sarebbe stata inutile. Per questo non ha mai fatto la parte del fratello geloso e possessivo, lasciandola libera in ogni scelta della sua vita. Questa è stata la base del loro meraviglioso rapporto.

Mary alzò gli occhi al cielo mentre sorseggiava un bicchiere d’acqua poggiato sul suo comodino. Sapeva benissimo che il fratello stava cercando di farle una ramanzina senza crederci davvero, e soprattutto sapeva che lui era quasi messo peggio.

Dall’angolo opposto della stanza, un piccolo spettatore scrutava i movimenti di quelle persone che a tratti gli sembravano fin troppo distanti. Quelli che per Victor erano le uniche persone più vicine a dei parenti che aveva, oltre sua madre, certe volte gli sembravano così strani e grotteschi. Il bambino avrebbe tanto voluto che la giovane donna gli facesse da sorella maggiore, ma erano entrambi sfuggevoli a vicenda. Mary d’altronde era troppo concentrata sulle feste e sugli uomini.

La ragazza invitò tutti a lasciarla riposare, mentre scivolava sotto le coperte e trascinava con sé un Proust già mezzo addormentato. Pensò che la camminata sotto il sole di qualche ora prima non le aveva fatto bene e decise di recuperare le forze.

«Non te la puoi cavare semplicemente svenendo, Mary» interruppe improvvisamente il silenzio una voce, la stessa di poco prima, facendo saltare in aria la ragazza distesa. Mary guardò dritto davanti a sé e si disse di poter sbagliare una volta, ma non due: quella davanti a lei era proprio una copia identica di se. Si alzò piano dal letto, procedendo a tentoni verso la scrivania.

«Tu… tu sei uguale a me…» disse, gli occhi spalancati e la voce tremolante. Per un attimo sentì di nuovo le gambe cedere, ma si disse di resistere questa volta.

«Io sono te» replicò la sua proiezione. Mary si sedette sulla panca imbottita ai piedi del letto, prese la testa tra le mani e cercò di ragionare.

«Che significa che sei me? Sono impazzita, forse?» rispose, spaventata dall’idea di parlare con una sua fotocopia. «Sei tipo la mia coscienza?»

«Chiamami come vuoi. Ci conviene fare amicizia, passeremo molto tempo insieme» replicò questa. Mary iniziò ad innervosirsi, cercava con tutte le sue forze di scacciare via quella visione e tornare alla realtà, ma ogni volta che riapriva gli occhi era sempre lì davanti a lei.

«Io voglio capire perché sei qua, anzi, perché sono due volte qua! Che sta succedendo?» sbottò, alzandosi e camminando verso il balcone. Si affacciò, guardando il cielo. Alle sue spalle, la seconda Mary faceva i suoi comodi e si lanciava sul suo letto.

«Sii onesta con te stessa, Mary. C’è qualcosa che non va in te» disse quest’ultima. Mary si sentì ferita nel profondo e offesa allo stesso tempo. Sapeva che era la verità, c’era da tempo del marcio dentro di lei di cui non si riusciva a liberare e che giorno dopo giorno le corrodeva la mente. Ma era troppo orgogliosa per ammetterlo. «Io sono qui per aiutarti»

«Non ho bisogno di alcun aiuto» rispose infastidita la ragazza, voltandosi a guardare la copia di se stessa con risentimento. Mary sentì dentro di sé una scarica elettrica, una sensazione che avvertiva ogni volta che si preparava ad essere cattiva con qualcuno. Negli ultimi tempi il sarcasmo, suo carattere distintivo, si stava progressivamente trasformando in cattiveria, alle volte ferendo anche senza una precisa ragione, solo per il gusto di sentirsi potente. Il vero esercizio di potere sulle persone, diceva Mary, è farle soffrire. «Forse sei tu la Mary che ha bisogno di essere aiutata. Forse in te c’è qualcosa che non va» continuò, avvicinandosi alla ringhiera del letto. «Lasciati aiutare…»

La ragazza si fermò improvvisamente quando sentì un leggero colpo alla sua porta, e si spaventò che qualcuno potesse ascoltare i suoi deliri. Si avvicinò rapidamente e abbassò la maniglia in uno scatto, per trovarsi davanti un inerme Victor colto in flagrante. Le sorrise, sporgendosi di poco in avanti verso il bambino.

«Oh, Victor…» gli disse guardandolo negli occhi, «non sai che i bambini non devono intromettersi negli affari degli adulti?».

Il bambino la fissò per qualche istante, il volto inespressivo, e poi scappò via perdendosi nel lungo corridoio. Quando Mary rientrò nella stanza, la sua copia era ancora lì ad aspettarla con sguardo inquisitore, come un giudice sul punto di emettere la sentenza. Questa si alzò, tenendo il contatto visivo fisso, e procedette verso la sedia della scrivania.

«Cosa è andato storto, Mary?» chiese la coscienza-giudice, sedendosi a cavalcioni sulla sedia mentre Mary faceva avanti e indietro per la stanza, nervosa.

«Di che cosa stai parlando?» sbottò, alzando il tono della voce, ma cercando di contenersi non appena se ne accorse. Anche se tutto ciò che stava accadendo era surreale, Mary decise di stare momentaneamente al gioco e vedere fin dove la sua mente malata era in grado di spingersi. Aveva paura che da un momento all’altro fosse entrato Harry, sorprendendola a parlare da sola, credendola pazza per poi metterla sul primo treno per il manicomio.

«Voglio che tu mi dica qual è stato il momento preciso in cui ti sei rotta» rispose la seconda. Mary avvertì un tonfo al cuore, una seconda coltellata autoinflitta. Non voleva cedere, non si voleva abbandonare a quella nuova figura per timore di perdere anche l’ultimo lembo che la teneva ancorata alla realtà.

«Signorina Mary!» sentì la ragazza chiamare dalle imponenti scale della casa, riconoscendo la voce di Jane la governante. Colta alla sprovvista, si fermò all’istante sul posto, gelandosi. Sapeva benissimo che ciò che stava accadendo non era reale, eppure sentì dentro di sé il dovere di nascondere la fotocopia di sé dagli altri inquilini di Villa Williams. Mormorò un “tu resta qui” tra i denti alla coscienza dai panni umani e lasciò la sua camera, per affacciarsi dalla balaustra in marmo.

«Suo fratello la desidera nel suo studio» annunciò Jane, mentre spolverava dell’argenteria su una credenza del piano terra, vicino l’ingresso. La ragazza scese le scale a piedi nudi, per andare verso una discreta porta in un angolo quasi nascosto vicino la porta di casa. Prima di sparire dentro lo studio, però, si voltò a guardare Jane e le rivolse un sorriso.

La stanza emanava un forte odore di fumo, Harry era solito fumarci dentro, come stava facendo in quel momento accompagnato da un cognac.

«Mia cara» disse lui, togliendo i piedi dalla scrivania e andando verso Mary, «mia preziosa, mia bella...» la abbracciò, dandole un bacio sulla fronte.

«Sai che questo studio sta diventando una topaia, Harry?» chiese lei con un sorriso, per poi abbandonarsi sulla chaise-longue di metallo dai cuscini neri in pelle. Ogni volta che entrava in quella stanza, si immaginava come sarebbe stato suo zio al posto che occupa adesso Harry. Sicuramente più composto e severo, molto meno sregolato.

«Stasera daremo una festa, mia bella» annunciò il fratello con un sorriso smagliante. Questo annuncio fece drizzare le antenne di Mary, che fino a quel momento credeva di essere stata richiamata per una ramanzina sul mangiare di più e più sano. Si alzò dalla chaise-longue e si avvicinò a un Harry sdraiato sopra la scrivania, intento a fissare il soffitto con un’espressione estasiata.

«Prima o poi dovremo iniziare a vendere i biglietti, caro fratello, almeno potremmo recuperare la metà dei danni che riscontriamo a fine serata, ogni santa volta» ribatté, punzecchiandolo sullo stomaco e provocandogli solletico. Il ragazzo si contorse ridendo sulla scrivania, per poi sedersi e assumere uno sguardo ancor più divertito. Il pensiero di prezzare le sue feste epiche si fece strada nella sua immaginazione, vedendo se stesso immerso nella montagna di soldi ricavati. Harry scacciò in fretta quell’idea, tornando alla realtà: già disponeva di una montagna di soldi, non aveva bisogno di speculare. Ciò che a lui veramente importava era essere amato. Dagli amici, da sua sorella, dagli sconosciuti: poco importa chi, Harry aveva bisogno di sentirsi importante e apprezzato per la sua vera natura. Cosa che in pochi riuscivano ad apprendere, essendo stato etichettato a Little Garden come lo scapolo d’oro. Guardò sua sorella fantasticare sul vestito da mettere per l’occasione, e pensò di possedere il bene più grande del mondo. Si promise, per l’ennesima volta, di proteggerla per il resto della sua vita, da tutto e tutti. Anche da se stessa. Harry conosceva il suo dolore e, allo stesso tempo, sapeva che non avrebbe mai potuto salvarla da quello.

«Tu cosa indosserai, tesoro?» gli chiese Mary, riportandolo alla realtà. Senza nulla togliere agli ottimi consigli della governante, Harry se ne intendeva di moda, eccome. Ogni giorno cambiava d’abito, anche quando non usciva dalla villa, e in ogni occasione più o meno speciale sfoggiava i più diversi look, invidiati da tutta la popolazione maschile di Little Garden.

«Sorpresa» rispose con un occhiolino, «adesso sparisci, ho da lavorare. L’alcol non si compra da solo!».

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***


Capitolo 3.


Mary rimase seduta sul suo letto a fissare il vuoto per qualche minuto. Quello che era accaduto poco prima in quella stessa stanza, le allucinazioni, l'aveva così sconvolta che non riusciva a tornare alla realtà. Suo fratello le aveva appena comunicato che la sera stessa avrebbero dato una festa a Villa Williams, ma il suo umore non era dei migliori. Pensava a quando, qualche ora prima, era distesa sulla riva del Prue ad accarezzare con le dita lo scorrere dell'acqua, e quanto un piccolo evento possa stravolgere un'intera giornata. Dal corridoio sentì la voce soffocata della governante rimproverare Victor di aver nascosto sotto il suo letto una scatola contenente qualche foglia e un paio di lumache prese dal grande giardino, accusandolo di voler creare un piccolo allevamento clandestino. Sorrise a questa idea, tornando finalmente lucida. Allora si convinse che le sue visioni fossero dettate dal troppo sole preso nel momento più caldo della giornata di volta a casa, e si alzò dal letto per andare in contro a Jane.

«Preparati, Jane» le disse, distraendo la signora dal battibecco con il figlio. «Andiamo a fare compere»

«Signorina Mary, lei dovrebbe solo riposare adesso...» disse Jane, sistemandosi una ciocca di capelli biondi dietro l'orecchio con un'espressione contrariata. Jane era una signora di mezz'età che dimostrava almeno dieci anni in meno, di corporatura robusta e statura bassa. Le sue labbra sottili si contorsero al pensiero di accompagnare Mary in giro, dopo il mancamento di qualche attimo prima, specialmente sapendo cosa significava per la ragazza fare compere. I suoi ritmi frenetici e la sua perenne indecisione davanti ogni tipo di abito la stressavano ogni volta, ma non riusciva mai a dirle di no.

«Non vorrai che mi presenti stasera con lo stesso abito dell'ultima festa?» chiese Mary alzando le sopracciglia e nascondendo un sorrisetto furbo. Sapeva che la governante non riusciva a resistere alle sue richieste e cercava di accontentarla sempre. Da quando era entrata a far parte della famiglia, la viziava come se fosse una figlia e si prendeva cura di lei in ogni occasione.

Jane, senza replicare, si voltò scotendo la testa e sorridendo andò verso la sua stanza per prepararsi. Lo stesso fece Mary, che indossò un grande paio di occhiali da sole scuri per nascondere il volto e un bel foulard rosso di seta sui capelli. I preparativi per le feste erano per lei come delle missioni in incognito: se qualcuno l'avesse notata, sicuramente tutte le ragazze si sarebbero presentate alla serata con il suo stesso vestito. Per questo Mary non comprava mai un solo abito, ma ne prendeva almeno tre. Al momento della sua entrata teatrale, mandava Jane a spiare la sala per vedere se e quale dei suoi abiti le fosse stato copiato, e in tal caso rimediava con le riserve. Indossò degli stiletto neri per uscire in modo da facilitare la prova abito successivamente negli ateliers, ma anche perché se qualcuno l'avesse vista non avrebbero dovuto dubitare del suo stile.

Scesero le scale di fretta, mentre dallo studio di Harry proveniva la sua voce impartire comandi via telefono ai suoi fedeli addetti alle bevande, e lasciarono la villa uscendo dalla porta principale. Davanti a questa si spiegava un lungo viale sul quale era parcheggiata la macchina di famiglia, una Rolls Royce Silver Shadow nera dall'aria cattiva che emanava lusso da tutte le parti, esattamente l'opposto di ciò che Mary riteneva in grado di passare inosservato. Quando la governante Jane si avvicinò alla portiera del guidatore, la ragazza la fermò compiaciuta.

«Non vorrà andare a piedi, Mary...» disse preoccupata, lanciando uno sguardo veloce ai tacchi di Mary, mentre mentalmente si chiedeva entro quanto se ne sarebbe pentita di questa scelta.

Nello stesso istante, si fermò davanti l'imponente cancello di ferro battuto della tenuta alla fine del viale una macchina anonima grigia, alla cui guida stava un'uomo giovane con il gomito appoggiato al finestrino aperto.

«Signorina Williams?» urlò dal finestrino, strizzando gli occhi per vedere bene le due figure di donne in fondo al viale della proprietà. Mary sorrise agitando compostamente una mano verso l'alto, come per farsi riconoscere, poi rivolse uno sguardo a una Jane confusa.

«Ho chiamato un autista» le spiegò, poi iniziò a camminare nella sua direzione senza aspettare risposta da parte della governante. Il sottile tacco nero picchiettava contro le grosse pietre del viale di casa e un vento un po' più prepotente di quello della mattina stessa le faceva svolazzare i capelli sotto il foulard ben saldo. Mary si sedette accanto all'autista con un bel sorriso, infrangendo il cliché dei sedili posteriori, e chiuse la portiera con veemenza mentre adagiava la borsa vicino i suoi piedi. Dopodiché si sfilò piano gli occhiali da sole, tenendoli sulla punta del naso, e si rivolse all'autista che la scrutava quasi intimidito.

«Cornwell Street, 62».

 

*

 

Dalla finestra socchiusa entrava un filo di vento stridente che tentava di rinfrescare quella giornata afosa del 13 luglio, mentre la camera da letto restava ombreggiata grazie alla posizione del sole nel cielo a quell'orario. Louis si avvicinò alla finestra lentamente e la aprì per sporgersi e guardare il deserto di Cornwell Street. Era una strada lunga e stretta, parallela a quella principale del centro città, ma decisamente più pittoresca. I bassi edifici che popolavano la strada, come quello dove si trovava lui, si alternavano in colori neutri e colori pastello, forse per rimediare durante l'inverno al paesaggio sempre cupo e uggioso. I balconi delle abitazioni erano tutti adornati da piante e fiori colorati, e su quelli di fronte a lui batteva forte un sole cocente che minacciava la vita delle piante, mentre gli abitanti stavano rintanati nelle stanze più fresche. Era la seconda volta che Louis entrava in quella casa e, tra sé pensò, forse anche l'ultima. Alle sue spalle sentì il suono ovattato di due piedi nudi camminare nella sua direzione e non si preoccupò di voltarsi quando una voce cominciò a parlargli.

«Vuoi restare per la cena?» gli chiese una voce di donna giovane, che alle orecchie del ragazzo apparve come una mezza supplica. Continuò ad osservare la stretta via sul quale si affacciava l'appartamento della donna e si disse che era un bel posto dove abitare. Finalmente si voltò a guardarla: era di un paio d'anni più grande di lui, aveva un caschetto biondo e aspettava una sua risposta nuda in piedi appoggiata alla porta della camera da letto, speranzosa di convincerlo a restare, se non per tutta la vita, almeno per un altro po'. Louis le sorrise spontaneamente perchè in quell'attimo la ragazza gli fece una profonda pena e quasi si pentì di essere salito a casa sua.

«Ho molto da fare» disse, prendendo i suoi vestiti da terra e iniziando a vestirsi, mentre la ragazza lo scrutava in silenzio. Questa lo imitò, afferrando in fretta il suo vestito di lino bianco e vestendosi più velocemente di lui, senza ancora perdere la speranza di poterlo fermare prima della porta di casa. Ci pensò su qualche istante, mentre Louis stava già allacciando le scarpe.

«Neanche un tè?» propose poi, lievemente imbarazzata ma decisa a insistere.

«Christine» disse Louis in tono secco, quasi di rimprovero, per fermare la ragazza. Si erano conosciuti qualche sera prima al Manhattan, il bar più popolare di Little Garden, e Christine gli aveva subito puntato gli occhi addosso. Louis si trovava lì per festeggiare il trentesimo compleanno del suo migliore amico e la notte stessa sarebbe dovuto tornare alla città di Lakoma, dall'altra parte del fiume Prue, ma al Manhattan conobbe Christine e passarono la notte insieme. Era solito a fare avanti e indietro da Lakoma a Little Garden per sbrigare faccende lavorative e talvolta fare festa con i suoi amici nella città del turismo, ma preferiva di gran lunga la vita da solitario nel suo grande appartamento a Lakoma.

Si affacciò un'ultima volta alla finestra che dava su Cornwell Street mentre arrivava una macchina che, approfittando del riposino pomeridiano dei cittadini, si fermò al centro della strada per far scendere due donne. La prima, una signora bassa e un po' pienotta, si guardò a destra e sinistra prima di mettere piede fuori dal veicolo. La seconda era una donna giovane e aveva i capelli avvolti da un foulard rosso e il viso nascosto sotto un grosso paio di occhiali da sole neri. Louis si chiese che tipo di celebrità dovesse essere per cercare di nascondersi e al tempo stesso farsi riconoscere nel centro della città di Little Garden. La ragazza scattò picchiettando i tacchi contro l'asfalto e si addentrò in un vicolo che portava alla strada principale, seguita dalla signora che continuava a guardarsi intorno. Louis distolse lo sguardo e finalmente si allontanò dalla finestra, pensando di nuovo che fosse una bella strada su cui abitare.

Ora Christine era vestita e incrociava le braccia dietro la schiena, rivolgendo un sorriso timido al ragazzo che superava la porta della camera da letto e andava verso quella d'ingresso.

«Chissà, magari ci rivedremo» disse Louis ammiccando, la mano sulla maniglia, mentre il sorriso sul volto della ragazza andava svanendo. Forse non era proprio quello che voleva sentirsi dire.

 

*

 

Mary adorava spostarsi camuffata ma quel pomeriggio la temperatura non era dalla sua parte. Il caldo afoso la faceva soffrire sotto il foulard e desiderava strapparlo via, ma al tempo stesso quel piccolo triangolo di tessuto le dava un potere nuovo, come se riuscisse a sentirsi ancora più bella del solito, e soprattutto molto più misteriosa. Scese dalla macchina grigia scattante, e con Jane al suo seguitò, si infilò in un vicoletto ormai ben noto che la portava fino alla strada principale della città, quella piena di ateliers e negozietti. Ad ogni modo sapeva che le persone per strada l'avrebbero riconosciuta, ma questo camuffamento faceva parte del costruire il suo personaggio. E dentro di sé, l'idea di venir "scoperta" la divertiva, quasi lo sperava.

«Adesso inizia il vero divertimento, Jane» disse Mary alla governante che trotterellava al suo fianco con la fronte imperlata di sudore.

Entrarono nel primo negozio che incontrarono una volta sbucate sulla grande via e vennero accolte con calore da una commessa alta e dai capelli tirati in uno chignon degno di una ballerina. Tutte le commesse riconoscevano le due donne, se non a prima vista Mary, sicuramente subito Jane, e le accoglievano sempre con grandi sorrisi e cortesia.

«C'è per caso una festa nell'aria?» disse la commessa dall'aspetto severo. In effetti, a guardarla sembrava un'educatrice vecchio stampo, mentre tendeva le mani magre e vecchie verso quelle giovani e morbide di Mary. La ragazza sorrise di rimando.

«Solo se vieni anche tu, Bertha» disse ammiccando, generando le risate della commessa che si apprestava a salutare anche la governante.

«Se avessi almeno vent'anni in meno...» rispose gioviale, tornando dietro il suo bancone. Poi chiamò un'altra commessa dal magazzino, più giovane e più antipatica di lei, e si rivolse nuovamente a Mary. «Da dove iniziamo, cara?»

Mary e la governante girarono almeno cinque negozi prima di decidere i capi da acquistare, chiaramente senza esserne troppo sicure. Ne prese quattro totalmente diversi tra loro, sia per lo stile ché per il taglio, e aspettarono l'auto a Cornwell Street per tornare alla villa prima che questa si iniziasse ad affollare di scaricatori e collaboratori per i preparativi della serata. Nell'atrio del piano inferiore della casa iniziavano a comparire le prime casse contenenti champagne mentre Harry camminava avanti e indietro parlando al telefono e dando direttive. Dietro di lui, seduto sul penultimo gradino della grande scala di marmo c'era Oliver Blake, il suo consulente nonché segretario nonché sbrigafaccende sempre agli ordini di suo fratello e sempre entusiasta per ogni festa, intento a mandare inviti a quanta più gente possibile ma tenendo sempre un margine di selettività.

Mentre Mary passava davanti suo fratello per andare verso le scale, quest'ultimo le fece un inchino e fu subito imitato da Oliver Blake, che da diversi anni ormai era innamorato segretamente della ragazza. Quest'ultima salì rapidamente le scale trascinando 4 ingombranti sacchi, ancora nascosta dai grandi occhiali e dal foulard rosso, e si infilò nella sua stanza per prepararsi.

Tutto avvenne seguendo dei movimenti meccanici: si spogliò, si lasciò scivolare nella vasca da bagno del suo bagno privato e restò lì fin quando Jane non la venne a riscuotere. Allora si alzò controvoglia e si avvolse attorno al corpo un asciugamano bianco, poi si sedette sul bordo della vasca mentre Jane nella sua stanza iniziava a tirare fuori dai sacchetti gli abiti. Le punte delle dita ancora gocciolavano mentre le sembrava che questo bagno fosse durato un attimo, e nello stesso momento entrò il gatto Proust nel bagno lasciando impronte di terriccio sul pavimento immacolato.

«Ci farai uccidere entrambi, qualche giorno» disse Mary rivolta al gatto, mentre lanciava un'occhiata alla governante al di là della porta e con uno scatto si alzava per pulire le tracce dell'animale in modo grossolano.

Si fecero le ventuno e già l'atrio della villa al piano inferiore era piena di persone in anticipo di un'ora dell'orario d'inizio ufficiale. Il cancello d'ingresso era spalancato e nel viale che portava alla villa parcheggiarono alcune auto privilegiate, come quella di Oliver Blake e altri collaboratori di Harry, mentre all'esterno della proprietà, a lato della strada, si era creata una lunga fila di macchine ferme dalle quali scendevano persone elegantissime pronte a sfilare sulla passerella. I proprietari Williams erano gli unici che ancora non si vedevano in mezzo alla folla, mentre spiccavano uomini che tentavano di imitare Harry nello stile e donne con l'acconciatura che Mary portò all'ultima festa. Molti degli invitati vedevano le serate dei Williams come trampolini di lancio verso la scalata sociale, e questo spesso avveniva soprattutto per gli uomini in cerca di soci in affari, ma in verità tutto ciò che di più interessante succedeva nella villa rimaneva dentro la villa.

La prima entrata in scena fu quella di Harry. Spuntò sulla scalinata sotto gli occhi scrutatori di tutta la sala, chi gli rivolse grandi sorrisi, chi addirittura abbozzò un applauso mentre scendeva le scale e salutava i suoi ospiti. Vicino alle pareti quattro grandi tavoli fungevano da banconi pieni di bicchieri di cristallo che venivano prontamente riempiti di champagne dagli addetti in smoking nero e di amari, liquori, tutte le bevande che fu possibile reperire lo stesso pomeriggio erano presenti. Harry saltava da un tavolo all'altro infilandosi nei più svariati gruppi di persone che incontrava, prendendo parte alle conversazioni, rubando l'attenzione delle donne libere e di quelle degli altri, una mano impegnata dalla sigaretta e l'altra dallo champagne.

Anche il grande giardino era stato imbandito per la festa: grandi tavoli bianchi come quelli dell'atrio erano presi d'assalto dagli invitati, mentre vicino la serra si teneva un mini concerto jazz che risuonava in tutto il terreno fin dentro la villa – gli ospiti già danzavano e saltellavano in giro presi dalle bollicine.

Ma tutti, anche Harry, sapevano che la festa non sarebbe davvero iniziata fin quando da quelle scale non fosse spuntata Mary nel suo abito da sera, più splendida che mai, facendo girare le teste a tutti gli invitati e facendo ingelosire tutte le donne presenti. Ma lei, che teneva al suo personaggio, decise di non spuntare prima dell'orario ufficiale d'inizio della festa, se non addirittura dopo. Mandò Jane a spiare la sala e il giardino per sapere le ospiti come erano vestite, o meglio, quale dei suoi abiti erano riuscite a scoprire e copiare.

«Rosso fuori gioco» disse la governante entrando nella sua stanza, senza vedere Mary. Poi si accorse che era affacciata al balcone, indossando ancora la vestaglia. «E anche petrolio»

Mary si morse il labbro inferiore, perchè puntava proprio sull'abito petrolio. Aveva già il trucco pronto e anche l'acconciatura, semplice, raccolta e con alcune ciocche che le cadevano morbide davanti il viso.

«So cosa fare» disse rivolgendosi a Jane, poi entrò spedita nella sua stanza e aprì l'armadio con uno scatto.

Mary spuntò in cima alle scale quando ancora tutti gli invitati erano persi nelle proprie conversazioni, mentre dal giardino risuonava un'allegra musica jazz che coinvolgeva tutti gli ospiti. Vide Harry alla fine della scala intento a parlare con due donne che non conosceva, il bicchiere di champagne sempre in mano. Quando iniziò a scendere le scale, una mano appoggiata alla ringhiera, nella sala iniziavano a diminuire le voci e tutti le puntavano gli occhi addosso. Come al solito, anche questa volta Mary aveva generato una sorpresa generale, tutti la guardavano a bocca aperta – anche chi cercava di passare indifferente. Indossava un abito avorio di seta con lo scollo halter sul collo e uno scollo vertiginoso fino al fondo schiena; il corpetto era aderente che sembrava toglierle il respiro e terminava con un sottilissimo cinturino fatto di brillanti, la gonna le cadeva morbida sui fianchi e si apriva in un piccolo spacco vicino la caviglia sinistra, da dove spuntava un sandalo alto abbinato al cinturino. Tutti i presenti nella sala passavano in rassegna il suo corpo senza tralasciare la parte che spiccava di più in assoluto: il viso dolce della signorina Williams sul quale vi era dipinto un radioso sorriso. Lo stesso, come dissero gli invitati da quel giorno in poi, che sembrò illuminare Little Garden per il resto dell'estate.

Mentre scendeva le scale, Mary cercava di non darsi più arie del necessario, ma gli stessi ospiti presenti la mettevano nelle condizioni di farlo, per loro sarebbe stato sbagliato se avesse fatto il contrario. Tra tutte le persone che la guardavano, il più insistente degli sguardi fu quello di un giovane in piedi davanti la porta d'ingresso, le braccia incrociate, che seguiva con attenzione persino il fruscio dell'abito di Mary. Lei, pur non conoscendolo, gli rivolse un sorriso di cortesia che lui forse non si aspettava, e lo notò dal modo in cui i suoi occhi tentarono di interrompere il contatto visivo, ma lui cercò di controllarsi. Alla fine della scalinata si aggrappò al braccio di suo fratello – anche lui, come tutti gli altri, la guardava come se fosse la cosa più bella esistente sulla terra – che la portò a fare un tour del giardino, dove i festeggiamenti erano più caldi rispetto alla sala d'ingresso. Il concerto jazz continuava a far saltare le persone a destra e sinistra, i tavoli sempre più affollati e dal cancello principale continuava ad entrare gente, di cui Oliver Blake prima si assicurava che fossero sulla lista d'invitati. I fratelli Williams si avvicinarono a un gruppo di persone sedute in uno dei tanti tavolini sparsi su tutta la proprietà per l'occasione, e Mary si accorse di non conoscere nessuno dei presenti.

«Permettetemi di presentarvi il gioiello di Villa Williams» disse Harry agli ospiti. I due uomini scattarono in piedi per stringere la mano di Mary, mentre le due donne restarono sedute. Mary, senza doverci pensare due volte, si avvicinò loro e si presentò sorridendo maliziosa. Scoprì che i due signori erano colleghi del settore di Harry ma di un'altra società, che tentava in tutti i modi di comprare suo fratello per averlo dalla loro parte. Harry, dal canto suo, si lasciava corteggiare e manteneva i rapporti, ma non avrebbe mai lasciato il suo posto da capo di se stesso. Si accomodarono al tavolo sotto lo sguardo inquisitore delle due signore.

«Ci dica, signorina Williams» disse uno dei due uomini seduti al tavolo, che Mary scoprì essere un certo signor Jones proveniente dalla città di Lakoma, «che piani ha per il futuro? Seguirà la strada di suo fratello Harry?»
Mary sorrise mentre sorseggiava lo champagne dal suo lungo calice di cristallo.

«Probabilmente» rispose in tono deciso, ben attenta a non far trapelare la realtà. Mary non aveva idea di cosa fare della sua vita, né nell'immediato futuro, né a lungo termine. I piani la spaventavano perché puntualmente, quando pianificava, qualcosa andava storto. Preferiva vivere alla giornata, preoccupandosi del presente, ma la consapevolezza di non avere le idee chiare la faceva sempre sentire a disagio con se stessa. Non che non avesse mai preso in considerazione l'impresa di suo fratello, anzi: quello era il suo porto sicuro, in qualsiasi momento sapeva che Harry l'avrebbe accolta. Ma era davvero quella la sua strada?

La musica allegra si diffondeva per tutto il giardino e gli invitati ballavano non solo davanti la banda, ma anche vicino i tavoli, lungo il viale, dentro la villa. Ai due fratelli bastò scambiarsi un'occhiata per leggersi nel pensiero, così entrambi lasciarono gli invitati al tavolo e si mescolarono alla folla danzante. Harry la fece saltare a destra e sinistra, spaziandosi tra la gente di prepotenza con delle prese e facendole fare delle piroette, mentre Mary rideva e urlava e tutte le persone si stringevano in cerchio attorno a loro battendo le mani a ritmo di musica. Fin quando la mano di un uomo non si appoggiò sulla spalla di Harry interrompendo il loro spettacolo.
«Permetti?» chiese il ragazzo, prima a Mary e poi al fratello. Questi, tenendo fede alla loro intesa perfetta, si guardarono divertiti e scelsero di stare al gioco. Mary avvolse le braccia attorno al collo dello sconosciuto mentre nello stesso istante iniziava una nuova saltellante canzone. Era un ragazzio giovane, ma dal suo volto notò che era più grande di lei, aveva un paio d'enormi occhi color ghiaccio e un sorriso malizioso dipinto sulle labbra, tanto che Mary pensò per un attimo che le stessero facendo un qualche scherzo.
«Tu chi sei?» chiese la ragazza, mentre si lasciava guidare.
«Non sono un esperto di moda, signorina» disse lui, facendole fare un mezzo giro e avvolgendola dalle spalle. Poi avvicinò le labbra all'orecchio sinistro di Mary e sussurrò: «ma credo che il foulard rosso le sarebbe stato una meraviglia anche su questo abito».

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