Passi veloci come il vento

di Fre Angel
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***



Capitolo 1
*** I ***


Sua nonna amava le ottobrate romane: quando il tempo tornato sereno dalle piogge di settembre invitava la gente a uscire nuovamente. Il sole si manteneva gentile scaldando la pelle rimasta ancora scoperta e donando la solita sensazione che tutto sarebbe andato bene, nonostante l’inverno fosse alle porte. Solo quando il caldo astro spariva dietro l’orizzonte e l’aria diventava fredda, le persone tornavano alla realtà, iniziando a proteggersi con una giacca leggera o una sciarpa di cotone, da un autunno ormai iniziato. Sua nonna non tollerava la sera, o almeno non quella da ottobre in poi. Il freddo, il rimanere a casa, non facevano per lei: anima calda che viveva bene solamente d’estate. Cristina ora la capiva, perché provava la stessa sensazione di nostalgia verso una stagione calda, affollata e rumorosa come l’estate, dal giorno in cui perse sua nonna, e la sua vita decise di catapultarla improvvisamente in una routine fredda, buia e fin troppa solitaria.  
  Guardava Piazza del Popolo con le braccia appoggiate sul muretto del Pincio. I turisti erano tornati a camminare per le vie della Capitale d’Italia e a due anni dalla Pandemia, sembrava che tutto fosse tornato alla normalità. Gli adesivi strappati e rovinati dal tempo sui sedili delle metro erano l’unico ricordo tangibile di quel lungo periodo di pausa dalla vita. Pausa. Sorrideva sempre quando ripensava ai quei mesi definendoli: “pausa”. Aveva letto da qualche parte che la mente tende a ricordare in modo più positivo, come una sorta di protezione. Ma lei aveva appuntato quotidianamente i suoi stati d’animo sul diario, e non erano stati certamente in pausa. Aveva finito il suo percorso di studio da poco, non poteva cercare un lavoro, era costretta a lunghe giornate in casa, ma la sua mente non stava di certo in pausa.        
   Non era più tempo di pensare al passato, di rimpiangere un periodo in realtà così oscuro dove l’incertezza era l’unica certezza che cresceva settimana dopo settimana. Sua nonna, però, in quel periodo era ancora viva. Sospirò scuotendo la testa. Odiava i rimpianti, non guardava di buon occhio rammarichi e ricordi. Il sole, poi, stava sparendo dietro il Cupolone, era tempo di tornare a casa. Percorse viale Gabriele d’Annunzio con lo stesso riguardo di sempre, come se il grande intellettuale che aveva cambiato la letteratura novecentesca cui era dedicata la strada, la seguisse passo dopo passo. In pochi minuti si ritrovò tra i turisti che guardavano estasiati le Chiese gemelle e l’obelisco della piazza. “A volte vorrei non essere nata a Roma solo per venirla a visitare per la prima volta e rimanerne affascinata.” lo pensava sempre, soprattutto quando doveva fermarsi per non passare davanti uno straniero intento a scattare fotografie a una statua, un monumento o un angolo di strada. Le sorridevano sempre, il gesto internazionale del “grazie”, probabilmente, e lei ricambiava con un cenno del capo.
I giocolieri si mischiavano agli artisti di strada. Rimaneva affascinata dagli spettacoli di street dance mentre a una decina di metri un ragazzo cantava Something dei Beatles, una ragazza un brano di una boyband che non conosceva, forse coreana, e un uomo rimaneva immobile a impersonare la Statua della Libertà. Quella era Roma: arte e spettacoli gratuiti a ogni metro, bambini che correvano consumando i sampietrini secolari per inseguire le bolle di sapone. Tutto ciò le riempiva il cuore di gioia, si arricchiva ogni minuto che passava in compagnia della città.
La sera si avvicinava, l’aria si faceva più fresca e con sé non aveva il trench, indumento non necessario quando decise di incamminarsi per Villa Borghese subito dopo pranzo. A via del Babuino si chiedeva come fosse possibile che avesse passato tre ore come se fossero dieci minuti, e all’inizio di via Margutta s’imbatté in una ragazza.    
«Scusami.» disse coprendosi le labbra con le mani, in preda alla vergogna di essere stata così maleducata.       
La ragazza si voltò, scrutandola. Accennò un sorriso, non riprese a camminare. Cristina sentì il suo cuore accelerare senza motivo. «Ti sei persa.»
Era una domanda? Un’affermazione? Non era facile capirlo. «Come? No, abito a pochi metri da qui.»
La ragazza portava un lungo abito bianco, e le sue braccia erano coperte da una giacca jeans chiaro. «Qual è il tuo sogno?»          
Glielo chiese decisa, così decisa che Cristina rimase in silenzio ma non pensò “ecco un’altra matta”, come spesso le capitava girando per Roma. La ragazza si avvicinò, dandole un biglietto. «Mi chiamo Ginevra. Chiamami.»          
Successe tutto in pochi minuti, forse solo secondi: si erano scontrate, si erano parlate e si erano lasciate. La sconosciuta riprese il suo cammino verso Piazza del Popolo, mentre Cristina rimase sola, con il biglietto in mano.

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Capitolo 2
*** II ***


Le risultò difficile non pensare all’incontro. Si fece la doccia, sistemò l’appartamento, lavò i piatti del pranzo e della colazione, ma la sua mente era sempre concentrata a ricordare l’incontro, arricchendolo ogni volta con dettagli maggiori. Quanto possono essere inaffidabili i ricordi, se dopo poche ore la mente comincia già a manipolarli? Lo aveva letto da qualche parte: i ricordi non sono mai esatti, ecco perché non si affida appieno su di essi. Ma c’è qualcosa che proprio non la fa smettere di pensare a Ginevra: la luce attorno a lei. Non era dovuta al sole che era già sparito all’orizzonte, né ai fari delle macchine, avendo alle spalle una zona totalmente pedonale. Lei vedeva una luce luminosa e bianca attorno alla ragazza. O almeno così credeva.      
Si mise seduta davanti alla tv, ma nessun programma la interessava in modo particolare. Dopo la Pandemia era cambiato anche il palinsesto televisivo e lei era più invogliata ad accendere l’apparecchio che per dieci anni aveva tenuto sempre spento. Quando ebbe fine l’età dei cartoni animati, non si era mai appassionata a nessuna trasmissione in generale: o erano troppo superficiali, o era zeppa di persone urlanti che pensavano di sapere ogni cosa. Lei non sopportava tutto ciò, così la accendeva solo per vedere documentari o vecchi film. Ma dopo la Pandemia, i programmi trash e di pseudo inchiesta avevano lasciato il posto a più documentari, e programmi ben fatti, dove anche la leggerezza era diventata arte. Era bello seguire la televisione, sia per la moltitudine di canali di qualità, sia perché a farla erano finalmente persone giovani e preparate, con la mente aperta e pronti a parlare di qualunque cosa, senza cedere a facili giudizi o polemiche. Nonostante la buona intenzione di non pensare all’incontro, a ciò che aveva visto, e alla ragazza che non era mai uscita dalla sua testa, spense la televisione dopo pochi minuti, e si mise a fare una breve ricerca su internet, sperando che Google la aiutasse a trovare almeno il cognome di Ginevra, così sarebbe stato più semplice cercarla sui social. Non ebbe nessun risultato utile e si andò a preparare una cioccolata calda per lo sconforto. Evidentemente l’unico modo per sapere qualcosa di Ginevra era chiamarla, cosa che voleva assolutamente evitare.
Si mise seduta sul divano sotto la finestra, bevve un sorso di cioccolata dalla sua tazza, portando le ginocchia al petto e ruotando il busto in direzione della finestra dove poteva ammirare il rosso mattone dei tetti di Roma che dava risalto al marmo bianco dell’Altare della Patria, maestoso come sempre. Era il punto che più preferiva dell’appartamento, ecco perché aveva obbligato la nonna a mettere il divano proprio lì, e sua nonna l’aveva accontentata, come sempre.
Posò la tazza sul tavolino e si stiracchiò, distendendosi pigramente su quel morbido divano giallo. Guardò il soffitto, era accesa solo la lampada arancione che proiettava ombre a ogni angolo del salottino. Sua nonna le aveva lasciato l’appartamento di via Margutta: una cucina, due bagni, due salotti e due camere da letto. Era il suo preferito, l’unico bene materiale a cui non avrebbe voluto rinunciare per nulla al mondo. Aveva passato lì tutta la sua vita, e continuava a respirare l’aria di infanzia e adolescenza; a volte le sembrava anche di sentire i passi leggeri di sua nonna alle prime luci dell’alba. Non doveva piangere, anche se tutto attorno a lei era fermo e in ombra, anche se era sola in casa e nessuno sarebbe mai venuto a conoscenza delle sue lacrime. Non doveva piangere.
Ripensò al numero di telefono ricevuto da una sconosciuta, perché quel pensiero non riusciva ad andare via dalla sua testa? Cos’era la luce bianca attorno a lei, ma soprattutto: era reale?       
“Qual è il tuo sogno?” Cominciò a piangere: di sogni, ormai, non ne aveva più.

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