Il
volo è stato decisamente breve, quasi come un batter di
ciglia.
Aprendo nuovamente gli occhi mi ritrovo in una grande stanza
rettangolare, talmente grande che il mio sguardo quasi non riesce a
scorgerne la fine.
Quando
vi riesce, però, una fitta al cuore me
l’attanaglia stretto. Lo
sguardo di un’altra dea di pietra, con una spada tra le mani,
veglia sul quadro che finora è stato il mio carcere.
Seppur
questa sia la prima cosa che mi colpisce, noto subito che
tutt’attorno a me sono disseminati numerosi corpi vestiti
completamente di bianco. Quale mano può aver ucciso
così
caparbiamente tutti costoro? Che sia stato lo stesso Ornstein?
Soltanto
uno di questi cadaveri spicca tra tutti, lì dietro una
colonna,
infatti, ve n’è uno poggiato con le spalle al
muro, diverso agli
altri per il modo in cui è corazzato. Una pesante armatura
nera lo
copre da capo a piedi, completandone l’equipaggiamento con il
gigante scudo di ferro nero poggiato al suo fianco.
Nel
silenzio di tutta questa morte risuona il mio passo corazzato,
echeggiando in lungo e in largo e tornando alle mie orecchie in
maniera sinistra. Affretto il passo, attraversando un’
apertura
sulla destra e trovandomi improvvisamente all’aria aperta. Il
sole
illumina, per la prima volta, il freddo metallo che mi copre. Non
l’avevo mai visto così libero e splendente,
così…
incandescente.
È
caldo sulla pelle. Meravigliosamente caldo.
Perché
volevate impedirmi di scoprire così tanta bellezza?
Perché m’avete
tenuto sempre così lontano dai suoi raggi?
Domande
che non potrò mai più formularvi per tanti
motivi, madre, e per
primo v’è quello che voi non siete più
in vita.
Stento
ancora a crederlo, eppure non fa così male come avrei potuto
immaginare. Forse proprio perché ha posto fine ai miei
giorni sotto
la vostra protettiva prigionia?
Non
faccio in tempo a perdermi in lunghe considerazioni poiché
un
gracchio cattura la mia attenzione. Sopra la mia testa, appollaiato
su quello che sembrerebbe un enorme ingranaggio al centro
d’uno
spiazzale, v’è un gigantesco corvo nero.
La
volontà di Velka.
Immediatamente
m’inginocchio di fronte a esso, pronto a seguire ogni sua
indicazione che in fondo è la vostra, oh mia Dea.
Ai
miei piedi piove la maschera tipica del vostro culto che non
m’attardo ad indossare per celare il mio viso,
quand’ecco che mi
sento sollevare da terra da due mastodontiche zampe rapaci.
Andrò
ovunque voi vogliate, Velka, ma ve ne prego, fate in modo che io non
subisca la mia sorte ma rendetemi autore del mio destino.
Nuovamente
aria fredda che mi solletica il viso, meno ghiacciata però
rispetto
a quella a cui ero abituato.
Quattro
torce rischiarano l’aria placida e statica di questo posto.
Sono la
prima cosa che scorgo quando, dopo questo breve volo, riesco a
toccare nuovamente il terreno. Ove mi trovo ora è un posto
sconosciuto, come tutto il mondo fuori dal dipinto. Una struttura
gigantesca che mi si staglia di fronte fino a perdita
d’occhio.
Invero, non v’è timore nel mio passo. Se la Dea mi
vuole qui è
solo perché io adempia al mio destino.
Avanzo,
tronfio e orgoglioso poiché Lei lo vuole.
I
quattro non morti che reggono la fiaccole non s’attardano ad
avvicinarsi e a brandire le loro improvvisate armi verso di me. Son
di poco conto per il mio stocco che, rapido, fende l’aria e
le loro
teste. Varcando il gigantesco portone che trovo sulla mia strada, mi
ritrovo in una stanza piena di colonne e vasi rotti. Il pavimento al
centro è crollato, lasciando intravedere un piano inferiore
che
appare come una gigantesca cella.
Proseguendo
oltre, vedo guizzare le fiamme d’un foco. Una spada
conficcata nel
terreno che pare ardere come legna. Un falò, esattamente
come quello
che vi era nel nostro mondo, madre Priscilla. Eppure è
diverso.
Quello che ricordo era fioco, debole mentre questo pare emanare
tutt’altra potenza. È solo una percezione, eppure
sembra scorrere
in me come se ardesse direttamente tra le mie mani.
Senza
indugiare oltre, riprendo l’esplorazione di quel luogo
così
statico, varcando la soglia d’una piccola porticina che si
trova
alla mia sinistra. Poco dopo, una volta salita una scalinata che
conduce a un buco in una parete, trovo a terra, riverso nel suo
stesso sangue, un cavaliere che appare così fuori dal
contesto di
codesto posto. La sua armatura richiama quelle elitarie delle nobili
famiglie, descrittemi nelle storie che mi venivano narrate da
piccolo. Le mie illazioni trovano conferma nello scudo blu intarsiato
d’oro, ormai anch’esso sporco di sangue e riverso
in quella
pozza.
Cercando
d’evitare di sporcarmi, lo colgo per poterlo portare con me.
In
fondo sarebbe uno spreco lasciarlo giacere fino a che non sia troppo
corroso da essere inutilizzabile, e poi il mio fianco sarebbe troppo
scoperto senza.
Non
passa molto tempo prima ch’io riesca a trovare il passaggio
che
costeggia l’enorme cella che vidi poc’anzi nel buco
del
pavimento. Un gracchio lontano mi fa capire che sto procedendo nella
direzione giusta.
Quand’ecco,
nell’oscurità, un rumore di passi in corsa.
Un’armatura
nera carica da lontano, puntando lo spadone dritto davanti a
sé e,
sembrerebbe, verso il mio petto. Scarto velocemente su un lato,
lasciando che il cavaliere nero venga sbilanciato dalla sua stessa
carica e m’oltrepassi per porgermi le spalle.
Chi
è costui? Quale motivo lo spinge a tale animo belligerante
nei miei
confronti?
Dei
non morti non s’ha da fidare, e questo mi è stato
ripetuto più
volte da quand’ero poco più d’un
bambino. Eppure la sua corazza
è simile alla mia, per quanto appaia annerita come se fosse
stata
incendiata.
Un
fendente di quello spadone rischia d’aprirmi la testa
così colma
di pensieri; fortunatamente riesco ad abbassarmi in tempo e riesce
soltanto a tranciare l’aria, facendola sibilare sopra di me.
Una
piroetta su me stesso e mi trovo nuovamente alle sue spalle.
Stavolta, però, non lascio che i dubbi mi distraggano e
affondo lo
stocco direttamente nella schiena del cavaliere, arrivando a
trafiggere gli intestini. Quando costui cade a terra, esplode in una
nuvola di cenere, lasciando solo la sua fida lama a testimonianza del
suo passaggio.
Per
un attimo sono attanagliato da un dilemma. Percepisco un potere
immenso sprigionarsi da quell’arma, eppure questo vorrebbe
dire
abbandonare il mio fido stocco. Eppure ne sono così
attratto. Non
v’erano armi simili nel mondo in cui ero recluso, di spadoni
del
genere ne ho sempre e solo sentito parlare nelle ballate che mi
raccontavate voi, madre. E sono autenticamente curioso di capirne il
reale potenziale.
L’afferro,
lascio che la lama rifletta la luce delle torce e che il mio braccio
s’abitui al suo peso, prima d’abbandonare la mia
lì a terra. Che
sia simbolo di rinascita, dunque.
Nuovamente
quel gracchio interrompe il flusso dei miei pensieri. Da una cella,
ch’ora m’appare indifesa davanti a me, vedo
provenire un raggio
di sole. E non l’avrei mai detto, madre, eppure ora sto
lasciando
ch’esso mi guidi.
E
potete immaginare il mio stupore quando, una volta dentro, vedo che
quello stesso raggio proviene da una fessura del soffitto, ove
incontro nuovamente gli occhi del corvo che mi ha portato qui.
Non
riesco ancora ad afferrare saldamente i motivi che v’abbiano
spinto
a librare il mio corpo nel cielo affinché io possa trovarmi
in
questo posto, oh Velka.
Tuttavia
sono sicuro che questi motivi esistano, e che siano soltanto il
preludio delle ballata delle mie gesta. Quella che voi state
scrivendo per me.
Facendo
la strada a ritroso, trovo nuovamente i non morti a brandire le loro
fiaccole nella mia direzione e mi compiaccio a pensare quale sguardo
stupito potrebbero manifestare ora, a vedermi sguainare questa lama
nera come la pece.
Riesco
per la seconda volta a batterli con scarso impegno e, mosso
dall’istinto, mi reco a quel picco ove mi avete lasciato
all’inizio.
Lì
trovo il corvo in paziente attesa, a muover la testa con piccoli
scatti mentre m’osserva avvicinarmi a lui.
Proprio
incrociando il suo sguardo, sento un improvviso bruciore al petto.
È
forte, doloroso al punto d’essere insopportabile. Non riesco
a
trattenere le mani che si muovono da sole in cerca di sollievo,
slacciando e rimuovendo il pettorale che ghermisce il mio corpo nella
sua metallica presa. Non ne traggo il giovamento che sto ricercando
con tanta bramosia. Scosso da involontari fremiti, vedo
all’altezza
del cuore formarsi il marchio che tante volte ho visto sui non morti.
Dunque
è possibile anche per gli immortali divenire non morti?
Perché me
l’avete donato, mia Dea? Che faccia parte del vostro
insindacabile
piano?
Anche
questa volta, il filo dei miei pensieri viene saldamente afferrato
dalle zampe della vostra Volontà e il mio corpo diventa un
fantoccio, sospeso sulla lingua di terra da cui viene prelevato.
Sono
confuso, lo ammetto. Ma spaventato mai, finché
avrò un posto nei
vostri disegni, Velka.
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