La volontà di Velka

di Lupoide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Rosso su bianco.

Vermiglie macchie sanguigne che insozzano la neve ai vostri piedi. Lì ove m’inginocchio per consolarvi il pianto.

Perché quelle lacrime bagnano il vostro volto? Rispondetemi, ve ne prego, Velka, Madrina di tutti noi. Spiegatemi le ragioni che v’attanagliano il cuore in questo momento.

Sono io, il vostro fedele discepolo, a chiedervelo.

Seguendo lo sguardo vostro s’incontra la vastità del ponte che porta dove dimora colei che ci protegge tutti: la prima esiliata, ed è lì che mi dirigo come manifesta la vostra volontà.


La Falange è caduta, insieme al cavaliere di Berenike che sorvegliava quella lingua di pietra posta a proteggervi, madre Priscilla.


L’armatura dei Cavalieri d’Argento pesa sulle mie spalle mentre avanzo verso di voi. La stessa armatura che fu motivo di discordia e che intaccò così profondamente il nostro sentimento.

V’ho amata sin da quando ho ricordo eppure ora non posso dirvi di provare lo stesso.

Voi così misericordiosa con tutti noi reietti del mondo, lontani da tutto ma vicini al vostro cuore puro. Crescendo e maturando, però, si vede tutto con occhio più sciente e così il vostro ruolo scadde in quello della carceriera.

Anche voi versaste lacrime quel giorno, quando dalla bocca mi venne strappata la lingua per volere e ordine di un padre sconosciuto. Non ero che un fanciullo, eppure non aveste pietà di me più di quanta ne ebbe lui. Mi infilarono in bocca una brace ardente e ve la cucirono all’interno, così che le mie ferite si cauterizzassero velocemente. Sapevate che non avrei sentito il dolore del fuoco, ora ne sono consapevole, ma foste comunque complice della privazione della mia parola.

Per questo v’odio e v’amo, madre. E non potrò mai dirvelo.

L’armatura giunse in un secondo momento, quando quello stesso sconosciuto padre cercò di riaccaparrarsi il mio favore con un dono, promettendomi un ruolo di spessore tra le file del dio del fulmine. Ma questo metallico carapace ormai conta più d’un lustro d’età e porta appesi tutti i miei sogni infranti.

Questi sono i motivi per cui la indosso ogni giorno. Così che ogni mio passo che ne produce il tintinnio, possa ricordarmi tutto il dolore che m’avete causato in vita.

Ho sempre rispettato la vostra volontà, soggiogando il mio desiderio d’esplorare il mondo al vostro di tenermi al sicuro. Intrappolato per sempre dalla stessa mano che m’ha levato, colei che mi donò la vita eterna. Finora ho sempre visto questo come un’oscura ascia sospesa sopra al mio capo. Maledetto sin dalla nascita a vagare per questa landa desolata e coperta di neve per l’eternità.

Sarebbe troppo facile alludere alla famigerata gabbia dorata ma qui è diverso, è più simile a un bacile di lacrime profughe, ove voi mi tenete immerso con la scusa di riuscire sempre a toccare con le punte dei piedi.


Con gli anni ho imparato l’arte del combattimento, affinando poi la destrezza in questa tecnica su tutti i non morti della nostra terra che osavano posar, sulla mia figura, un occhio di sfida. In una mano lo stocco, nell’altra il talismano. Entrambi regali della Dea che sorveglia benevola tutti noi e alla quale voi, madre, mi donaste completamente.

Persino nel nome che sceglieste per me: Velkrow, discepolo del peccato.

I cari ricordi possono tenerti in vita, me lo ripetevevate spesso, ma quelli che aprono una ferita, invece, possono marchiarti e corromperti per sempre.


Un gemito di dolore interrompe i miei pensieri.

Affrettando il mio passo verso di voi, comprendo improvvisamente il motivo delle lacrime di sangue di Velka.


Nello spiazzale ove per anni vi ho vista erigervi a sentinella del nostro mondo, ora giacete ferita in mezzo alla neve.

La coda dell’occhio mio afferra uno scintillio dorato, non molto distante da voi. Mentre salta nel vuoto riesco a scorgere la figura che può essersi macchiata di quest’atroce delitto. Non ho che una frazione di secondo per catturare quell’immagine ma tanto mi basta per riconoscere il colpevole.

Ornstein, l’Ammazzadraghi.

Pare che alla fine v’abbia trovata, abominevole madre.


Non ho tempo d’odiarlo, però. Né di odiare voi. I vostri dolorosi lamenti mi riportano in me che subito accorro in vostro soccorso. Al cospetto vostro io sembro decisamente un fanciullo, per via della vostra taglia fuori dalla normalità umana, eppure tra le braccia mie sembrate così piccola e indifesa.

- Perché? Cosa cercava? Non sa per quale motivo Ariamis dipinse questo mondo per noi?

Riuscite a sussurrarmi con un filo di voce.

Vorrei rispondervi che è ingiusto e che sicuramente egli non conosceva il ruolo vostro in questo mondo. Eppure l’impossibilità di proferir parola mi ricorda ancora una volta i peccati di cui vi siete macchiata.

Una singola lacrima corre sul mio viso, arrestando poi la caduta sul vostro.

Non avrei comunque fatto in tempo a rispondervi poiché avete già esalato l’ultimo sospiro.

M’immergo in un acquitrino di sentimenti misti, da cui quasi mi sembra impossibile poter emergere. Con voi finisce il mio tutto, il mio mondo, madre.

Eppure una scintilla di speranza s’è accesa in fondo al cuore.


Finalmente libero dalla vostra prigionia.


Accolgo la vostra anima in me e poi seguo le impronte del Primo Cavaliere di Gwyn, trovandomi a guardare il profondo crepaccio che si staglia sotto i miei piedi.

L’aria gelida mi sferza la faccia, attraversando persino il pelo della mia barba e sulla mia fronte. Qui, nel vostro mondo dipinto, vi è sempre stato il gelo, madre. Eppure è la prima volta che provo freddo davvero.


Ricorderò questo giorno come il primo da uomo libero.


Il giorno in cui una Dea di pietra macchiò la neve con lacrime di sangue.

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Capitolo 2
*** Capitolo primo ***


Il volo è stato decisamente breve, quasi come un batter di ciglia. Aprendo nuovamente gli occhi mi ritrovo in una grande stanza rettangolare, talmente grande che il mio sguardo quasi non riesce a scorgerne la fine.

Quando vi riesce, però, una fitta al cuore me l’attanaglia stretto. Lo sguardo di un’altra dea di pietra, con una spada tra le mani, veglia sul quadro che finora è stato il mio carcere.

Seppur questa sia la prima cosa che mi colpisce, noto subito che tutt’attorno a me sono disseminati numerosi corpi vestiti completamente di bianco. Quale mano può aver ucciso così caparbiamente tutti costoro? Che sia stato lo stesso Ornstein?

Soltanto uno di questi cadaveri spicca tra tutti, lì dietro una colonna, infatti, ve n’è uno poggiato con le spalle al muro, diverso agli altri per il modo in cui è corazzato. Una pesante armatura nera lo copre da capo a piedi, completandone l’equipaggiamento con il gigante scudo di ferro nero poggiato al suo fianco.

Nel silenzio di tutta questa morte risuona il mio passo corazzato, echeggiando in lungo e in largo e tornando alle mie orecchie in maniera sinistra. Affretto il passo, attraversando un’ apertura sulla destra e trovandomi improvvisamente all’aria aperta. Il sole illumina, per la prima volta, il freddo metallo che mi copre. Non l’avevo mai visto così libero e splendente, così… incandescente.

È caldo sulla pelle. Meravigliosamente caldo.


Perché volevate impedirmi di scoprire così tanta bellezza? Perché m’avete tenuto sempre così lontano dai suoi raggi?


Domande che non potrò mai più formularvi per tanti motivi, madre, e per primo v’è quello che voi non siete più in vita.

Stento ancora a crederlo, eppure non fa così male come avrei potuto immaginare. Forse proprio perché ha posto fine ai miei giorni sotto la vostra protettiva prigionia?


Non faccio in tempo a perdermi in lunghe considerazioni poiché un gracchio cattura la mia attenzione. Sopra la mia testa, appollaiato su quello che sembrerebbe un enorme ingranaggio al centro d’uno spiazzale, v’è un gigantesco corvo nero.

La volontà di Velka.

Immediatamente m’inginocchio di fronte a esso, pronto a seguire ogni sua indicazione che in fondo è la vostra, oh mia Dea.

Ai miei piedi piove la maschera tipica del vostro culto che non m’attardo ad indossare per celare il mio viso, quand’ecco che mi sento sollevare da terra da due mastodontiche zampe rapaci.

Andrò ovunque voi vogliate, Velka, ma ve ne prego, fate in modo che io non subisca la mia sorte ma rendetemi autore del mio destino.



Nuovamente aria fredda che mi solletica il viso, meno ghiacciata però rispetto a quella a cui ero abituato.

Quattro torce rischiarano l’aria placida e statica di questo posto. Sono la prima cosa che scorgo quando, dopo questo breve volo, riesco a toccare nuovamente il terreno. Ove mi trovo ora è un posto sconosciuto, come tutto il mondo fuori dal dipinto. Una struttura gigantesca che mi si staglia di fronte fino a perdita d’occhio. Invero, non v’è timore nel mio passo. Se la Dea mi vuole qui è solo perché io adempia al mio destino.

Avanzo, tronfio e orgoglioso poiché Lei lo vuole.

I quattro non morti che reggono la fiaccole non s’attardano ad avvicinarsi e a brandire le loro improvvisate armi verso di me. Son di poco conto per il mio stocco che, rapido, fende l’aria e le loro teste. Varcando il gigantesco portone che trovo sulla mia strada, mi ritrovo in una stanza piena di colonne e vasi rotti. Il pavimento al centro è crollato, lasciando intravedere un piano inferiore che appare come una gigantesca cella.

Proseguendo oltre, vedo guizzare le fiamme d’un foco. Una spada conficcata nel terreno che pare ardere come legna. Un falò, esattamente come quello che vi era nel nostro mondo, madre Priscilla. Eppure è diverso. Quello che ricordo era fioco, debole mentre questo pare emanare tutt’altra potenza. È solo una percezione, eppure sembra scorrere in me come se ardesse direttamente tra le mie mani.

Senza indugiare oltre, riprendo l’esplorazione di quel luogo così statico, varcando la soglia d’una piccola porticina che si trova alla mia sinistra. Poco dopo, una volta salita una scalinata che conduce a un buco in una parete, trovo a terra, riverso nel suo stesso sangue, un cavaliere che appare così fuori dal contesto di codesto posto. La sua armatura richiama quelle elitarie delle nobili famiglie, descrittemi nelle storie che mi venivano narrate da piccolo. Le mie illazioni trovano conferma nello scudo blu intarsiato d’oro, ormai anch’esso sporco di sangue e riverso in quella pozza.

Cercando d’evitare di sporcarmi, lo colgo per poterlo portare con me. In fondo sarebbe uno spreco lasciarlo giacere fino a che non sia troppo corroso da essere inutilizzabile, e poi il mio fianco sarebbe troppo scoperto senza.

Non passa molto tempo prima ch’io riesca a trovare il passaggio che costeggia l’enorme cella che vidi poc’anzi nel buco del pavimento. Un gracchio lontano mi fa capire che sto procedendo nella direzione giusta.

Quand’ecco, nell’oscurità, un rumore di passi in corsa.

Un’armatura nera carica da lontano, puntando lo spadone dritto davanti a sé e, sembrerebbe, verso il mio petto. Scarto velocemente su un lato, lasciando che il cavaliere nero venga sbilanciato dalla sua stessa carica e m’oltrepassi per porgermi le spalle.

Chi è costui? Quale motivo lo spinge a tale animo belligerante nei miei confronti?

Dei non morti non s’ha da fidare, e questo mi è stato ripetuto più volte da quand’ero poco più d’un bambino. Eppure la sua corazza è simile alla mia, per quanto appaia annerita come se fosse stata incendiata.

Un fendente di quello spadone rischia d’aprirmi la testa così colma di pensieri; fortunatamente riesco ad abbassarmi in tempo e riesce soltanto a tranciare l’aria, facendola sibilare sopra di me. Una piroetta su me stesso e mi trovo nuovamente alle sue spalle. Stavolta, però, non lascio che i dubbi mi distraggano e affondo lo stocco direttamente nella schiena del cavaliere, arrivando a trafiggere gli intestini. Quando costui cade a terra, esplode in una nuvola di cenere, lasciando solo la sua fida lama a testimonianza del suo passaggio.

Per un attimo sono attanagliato da un dilemma. Percepisco un potere immenso sprigionarsi da quell’arma, eppure questo vorrebbe dire abbandonare il mio fido stocco. Eppure ne sono così attratto. Non v’erano armi simili nel mondo in cui ero recluso, di spadoni del genere ne ho sempre e solo sentito parlare nelle ballate che mi raccontavate voi, madre. E sono autenticamente curioso di capirne il reale potenziale.

L’afferro, lascio che la lama rifletta la luce delle torce e che il mio braccio s’abitui al suo peso, prima d’abbandonare la mia lì a terra. Che sia simbolo di rinascita, dunque.

Nuovamente quel gracchio interrompe il flusso dei miei pensieri. Da una cella, ch’ora m’appare indifesa davanti a me, vedo provenire un raggio di sole. E non l’avrei mai detto, madre, eppure ora sto lasciando ch’esso mi guidi.

E potete immaginare il mio stupore quando, una volta dentro, vedo che quello stesso raggio proviene da una fessura del soffitto, ove incontro nuovamente gli occhi del corvo che mi ha portato qui.

Non riesco ancora ad afferrare saldamente i motivi che v’abbiano spinto a librare il mio corpo nel cielo affinché io possa trovarmi in questo posto, oh Velka.

Tuttavia sono sicuro che questi motivi esistano, e che siano soltanto il preludio delle ballata delle mie gesta. Quella che voi state scrivendo per me.

Facendo la strada a ritroso, trovo nuovamente i non morti a brandire le loro fiaccole nella mia direzione e mi compiaccio a pensare quale sguardo stupito potrebbero manifestare ora, a vedermi sguainare questa lama nera come la pece.

Riesco per la seconda volta a batterli con scarso impegno e, mosso dall’istinto, mi reco a quel picco ove mi avete lasciato all’inizio.

Lì trovo il corvo in paziente attesa, a muover la testa con piccoli scatti mentre m’osserva avvicinarmi a lui.

Proprio incrociando il suo sguardo, sento un improvviso bruciore al petto. È forte, doloroso al punto d’essere insopportabile. Non riesco a trattenere le mani che si muovono da sole in cerca di sollievo, slacciando e rimuovendo il pettorale che ghermisce il mio corpo nella sua metallica presa. Non ne traggo il giovamento che sto ricercando con tanta bramosia. Scosso da involontari fremiti, vedo all’altezza del cuore formarsi il marchio che tante volte ho visto sui non morti.

Dunque è possibile anche per gli immortali divenire non morti? Perché me l’avete donato, mia Dea? Che faccia parte del vostro insindacabile piano?

Anche questa volta, il filo dei miei pensieri viene saldamente afferrato dalle zampe della vostra Volontà e il mio corpo diventa un fantoccio, sospeso sulla lingua di terra da cui viene prelevato.

Sono confuso, lo ammetto. Ma spaventato mai, finché avrò un posto nei vostri disegni, Velka.

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