Double Trouble

di DaisyEriksen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sister Major (et moi) ***
Capitolo 2: *** Imperfetto passato, prossimo ***



Capitolo 1
*** Sister Major (et moi) ***


Sister Major (et moi)

 

La mia vita è facile.
Ho una madre e un padre, una casa, una sorella, una nipote, un lavoro.
Non è che sia perfetta, ma, guardandomi intorno, non mi posso lamentare.

La mia amica Aya, ad esempio, lei voleva fare la farmacista.
Ha studiato tanti anni e si è impegnata. Ah, gli intrugli che non mi ha propinato nel tempo… unguenti per capelli, magia nera. Eppure era sempre splendente quando si presentava alla mia porta con l’ennesima creazione definitiva, le brillavano gli occhi. Ai tempi della scuola passavamo serate intere impiastricciandoci la faccia con improbabili maschere fruttate, bevendo litri di the, guardando film dell’orrore di serie B e inzuppando biscotti bruciati.

Quelli li preparavo io, con inquietante costanza.

Alla fine il lavoro in farmacia Aya lo ha anche trovato, meglio di me niente, ma di fatto si ritrova a fare la commessa e a barcamenarsi tra anziani indispettiti o peggio allupati, e ipocondriaci in crisi di astinenza... non propriamente un sogno realizzato.
Almeno i miei biscotti sono migliorati, a un certo punto, ma nel frattempo lei si è trasferita e le nostre serate sono diventate rare; la chiamo quando posso e lei mi risponde sempre con trasporto, ma quando ha smesso di spedirmi la scorta di scrub al pepe rosa ho capito che qualcosa non andava.

Fuka me lo ripete da sempre:  tu vivi nel mondo delle favole . Lo pronuncia proprio così, senza punteggiatura, come un giudizio universale, un dato di fatto imprescindibile.
Fuka non è mai stata brava con i filtri, ma non ha mica torto, lo so benissimo, anzi probabilmente lo so meglio di lei.
In effetti, se vogliamo dirla tutta, ultimamente, io ne ho fatto il mio scopo. Ma di sicuro non glielo vado a raccontare.

Fuka è stata quella che ha affrontato questa realtà meglio di tutte noi.
Il ‘sacrificio necessario’, lei lo ha accolto a braccia aperte con quella rassegnazione stoica che sembra trascritta parola per parola da un poema epico, ma che a lei viene così, spontanea. Il resto se lo custodisce dentro, meticolosamente sigillato, a tenuta stagna, cosa che le conferisce anche una certa aria di mistero. Come ci riesce poi, chi può dirlo.
Quando le persone si complimentano con me per la i suoi modi impeccabili, io racconto loro che la ammiro per questo, ma dubito che ci credano.
E fanno bene.

In tutto questo, io tiro avanti.
Certo, passo dieci ore al giorno a fare un lavoro che non mi piace, ma, considerando che l’obiettivo primario della mia generazione, il Sacro Graal della stabilità - il Posto Fisso - mi è stato consegnato a domicilio con tutti i benefit correlati, il fatto che non corrisponda a ciò che desidero per me non conta. E forse è giusto così, forse è una questione di rispetto nei confronti degli altri, quelli come Aya, che, nonostante tutto, si ritrovano ogni anno a sperare che il lavoro che li ha delusi non gli venga portato via.
Bisogna essere realisti - giusto, grazie Fuka.

Che poi, non è che io proprio mi sveni per questo lavoro.
Forse non dovrei ammetterlo così, platealmente, ma negarlo sarebbe una bugia di dimens--
- Mi scusi?
Sì! Sono qui, ci sono. Realtà, via.
- Sì, buongiorno.
Sorrido prontamente alla donna al bancone, di fronte a me, e mi avvicino. Ho un bel sorriso, su questo c’è consenso unanime, mia sorella la batto di misura.
- La mia chiave magnetica non funziona.
Osservo la tessera che la donna mi sta porgendo.
- Mi dà il suo numero di stanza?
- Quella è una chiave per le piscine, Sana.
Mia sorella mi sta sfrecciando alle spalle con la sua camminata stressata. Non ha usato un tono duro, semplicemente il suo solito tono nervoso, che mi irrita. Mi irrita perché lo sapevo. O meglio, non lo sapevo, ma solo perché non so a memoria ogni cosa che succede nel nostro hotel, come lei, ma dal numero di stanza lo avrei scoperto subito.
Non rispondo, sorrido. Quella è la mia arma, è l’unica cosa che la mia brillante sorella non fa.
- Vediamo subito.
Rassicuro la donna con la voce più calorosa che riesco a improvvisare e poi passo la carta sul lettore.
- È impostata per le 10:00. Sicuramente è per questo… Adesso gliela attivo.
- Ci scusi signora Miyu, provvediamo subito. Adesso Sana la accompagna per verificare che funzioni tutto.
Oggi ce l’ho alle calcagna a quanto pare, si vede che è già di buon umore. Splendido.
Sorrido.
- Venga pure con me.
 

*

 

Ma tutto sommato mi ha fatto un favore.
Il siparietto mi ha dato una scusa per allontanarmi dalla reception caotica e, dopo aver accomodato la cliente, riesco a fare due passi tra le piscine, attraverso il parco. Amo questo posto. Nonostante tutto forse è l’unico aspetto che veramente apprezzo del mio lavoro. In una mattina come questa, poi,  in cui il cielo è terso, il sole picchietta le spalle, tiepido e il vento diffonde leggero il profumo dei fiori freschi, è uno spettacolo. Tra l’altro gli ospiti sono ancora quasi tutti impegnati a fare colazione o a prepararsi, quindi c’è tranquillità.
In questi momenti mi ricordo che cosa vorrei davvero.

Ma non si può.
Così mi incammino per tornare al mio posto. Ma siccome non sono mia sorella, una piccola deviazione me la concedo.
Al lato sud dell’hotel, il bistrot è già in movimento.
I clienti difficilmente vengono qui la mattina presto, preferiscono la colazione a buffet oppure si sistemano direttamente in piscina, ma qualcosa da fare c’è sempre: Doi apparecchia i tavoli in terrazza, Chio allestisce la vetrina con i dolci e la macedonia, una ragazza che non conosco spazza il pavimento. Mi avvicino, saluto, sono sempre tutti accomodanti con me perché resto sempre la figlia dei proprietari, ma non vorrei esserlo. Sorrido, e passo dietro il bancone per raggiungere la cucina: Hiro sta impastando, lo sento dal profumo, lo sento dal rumore.
Il rumore che fa l’impasto del pane quando è lavorato da qualcuno che lo sa fare davvero è uno scalpitio unico di carezze di incoraggiamento ruvide e di modellazioni energiche ma gentili.
Sorrido davvero.
- Che ci fai qui piccola Sana, sei già in fuga alle nove del mattino?
Hiro è speciale. Lui capisce. Forse perché combatte da sempre per poter fare ciò che ama o forse semplicemente perché ha il cuore più grande di tutti.
- Non è un po’ tardi per il pane?
Lui si gira a guardarmi annuendo, divertito.
- In realtà sei tu che sei in ritardo. Ti aspettavo almeno un’ora fa, credevo saresti arrivata di corsa. Ormai ci avevo perso le speranze…

Ok, so che sta scherzando, deve essere così per forza,  ma qualcosa mi sfugge.
Detesto non capire le battute e detesto ancora di più ammetterlo.

- Avresti potuto chiamarmi, sarei venuta subito.
Sto azzardando, lui mi guarda di sottecchi, ma non gli darò questa soddisfazione. Mi muovo con leggerezza per la cucina, fingendo indifferenza. Adoro giocare con Hiro. Mi guardo intorno con un mezzo sorriso, evitando il suo sguardo, e alla fine pesco un biscotto tiepido dal vassoio nell’angolo.
Non dovrei toccarli, lo so, ma sto cercando di provocarlo e poi i biscotti sono quelli alle mandorle, una delizia, come si può resistere?
Ma lui non raccoglie, mi raggiunge, senza una parola copre i biscotti con una campana di plastica, poi torna al suo impasto fatato.
- Se anche lo avessi fatto, tu non saresti venuta.
Lui puntualizza, mentre la farina, appena libera, gli fluttua intorno. Mi scappa da ridere ma mi trattengo.
- Che cosa? Certo che sarei venuta!
- No, invece.
Lui ridacchia e io mi sento una stupida.
- Hiro!
- Controlla allora.

Mi sfugge, che-co-sa-mi-sfu-gge!

Ma non ho scelta, e così prendo il telefono dalla tasca della giacca.
Che è vuota.
Oh.

Ma lui sta già ridendo, mentre, con un movimento della testa, mi indica il mio telefono poggiato con cura sul mobiletto in fianco alla porta, e io vorrei stropicciarlo tutto come se fosse un orsetto di peluche, perché lui è bello.

Non sono innamorata di Hiro.
A volte penso che vorrei esserlo, perché forse sarebbe facile.
Un uomo sicuro, ma gentile. Un uomo che si impegna in quello che fa, ma senza perdere il sorriso. Un uomo con un cuore così grande, in cui potersi sistemare comodamente, a lungo, senza timore.
Ma allo stesso tempo non lo vorrei davvero. Perché saperlo qui, ogni giorno, a fare ciò che anche io vorrei fare, mi trasmette un senso di pace, come se almeno qualcosa in tutto questo caos stesse girando per il verso giusto.
Hiro è la mia certezza preferita e amarlo sarebbe un rischio troppo grande.
L’amore è volubile, l’affetto no.

In ogni caso, il problema non si pone.
E non solo perché quando penso all’amore io vedo sempre, da sempre e per sempre  un unico maledettissimo viso, corollato da capelli di un biondo esagerato, ma soprattutto perché Hiro, il mio soffice amico baffuto, ha un incomprensibile debole per la mia perfettissima sorella.
O almeno questo è quello che dice. Con Hiro non si può mai sapere.
 

*

Rientrata in postazione, sono pronta a sentirmi comunicare il mio tempo con tanto di cronometro decimale alla mano, invece ricevo solo un’occhiataccia da dietro Frangia Castana e un sospiro frustrato. Intanto le e-mail sono quadruplicate, e, di fronte a cotanta  tristezza, il sospiro glielo copio.
Vorrei dire che è questione di genetica, ma non sarebbe vero.

A mezzogiorno i messaggi non letti si sono ridotti a quattro, ma le persone in fila non accennano a diminuire.
Marzo è uno dei mesi più importanti per il nostro lavoro. Appena le giornate accennano a farsi serene, la gente si riversa qui per godersi il primo sole nell’acqua termale calda. Non tutti sono ospiti dell’hotel, molti vengono semplicemente per una giornata di coccole, per questo la fila in entrata non si esaurisce mai.
- Ho chiamato Andrew, fai pausa.
Non mi ero neanche accorta che fosse tornata. In questo periodo mia sorella sta lavorando con i progettisti e l’impresa di costruzione per definire la ristrutturazione delle camere prevista per l'estate, quindi è spesso fuori.
- Non fa niente, c’è tanta gente.
Questa sono io, in uno slancio di empatia verso di lei e verso la nostra vita... non sono sempre così maldisposta.
- Vai Sana. Invece nel pomeriggio puoi fermarti?
Intanto la donna anziana che ha fatto il check-in dieci minuti fa mi sta guardando spaesata.
Sorriso d’ordinanza. Nessun problema, ne ho ancora una bella scorta.
- Signora, prego, l’entrata è alla sua destra.
Indico la porta, lei mi saluta, annuendo.
- Devo andare a prendere Akiko alle tre e mezzo, oggi escono prima.
- Come?
Merda!

Ogni volta che mia sorella nomina sua figlia, io sento sempre qualcos’altro… Ma è mai possibile essere ancora così ossessionati dopo quanto? Sei… sette anni?
Mi calmo, mi sto calmando.
Lentamente mi volto, ma lei ha gli occhi sul telefono, per fortuna.
E allora non sorrido, perché quando si tratta della mia nipotina non si scherza.
- Non c’è problema.
Annuisce senza smettere di scrivere.
Il multitasking incarnato.

E così eccomi beffata, di nuovo.
Andrew libera nella hall il suo fascino brasiliano, le nonne si imbizzarriscono e io sono costretta a prendermi una pausa nell’unico momento in cui non l’avrei voluta.
Proprio nell’unico momento in cui sto pensando a lui, di nuovo.
Naozumi direbbe che la braciola è al s--
Oddio!
Merda...
Merda, merda, merda fotonica!
Dov’è il telefono...

Stavolta è nella tasca, dove dovrebbe essere.
Il problema è quello che ci trovo dentro.
Vale a dire la prova inconfutabile, registrata per sempre nell’etere, che io-sono-pessima.

32 nuovi messaggi - 11:42
Kamu

Trentadue, cazzo!
Avrà anche ragione,  ma ci ha ricamato su una trapunta, accidenti!

Li scorro all’indietro, ce ne saranno una ventina solo di stamattina che ripetono:
Sana
Sana
Sana
Sana

Lo fa apposta, è per farmelo pesare.
E, per accertarsi che io lo comprenda, lo dichiara apertamente nel messaggio numero trentatrè, che mi arriva in questo momento.
Guarda che lo so che hai il telefono silenzioso per non turbare SM, ma non mi importa.

SM sarebbe mia sorella.
Naozumi ha coniato  per lei questo nomignolo anni fa e poi la cosa è degenerata.
Sister Major.
Non è davvero un’offesa, sarebbe un gioco di parole tra sorella maggiore e maggiore dell’esercito, ma se lo si spiega, non rende più.
È una cosa idiota, me ne rendo conto, ma la trovo rappresentativa del mio rapporto con Kamu, oltre che della mia frustrazione. E poi a me piace, mi fa ridere, dopo anni, mi fa ridere ogni volta, quindi va bene. Basta solo non usarlo davanti a lei.

Lo chiamo.
- Sono proprio una brava sorella!
- Sei proprio un’amica scarsa!
- Ahaha lo so, mi dispiace… io--
- Ma lascia stare che tanto non è vero niente, eri lì a eclissarti col tuo sexy-cuoco...
- Ma che dici! Abbiamo preparato la frolla!
- Se, se, sono sicuro che avete passato la notte a impastar-vi...
- Ommioddio!!
- Comunque non mi interessa! Devo dirti una cosa.
- Sentiamo.

- Ma... stai arrivando?
- No.
- Come no?? E io ho ripulito la Mina per niente??!

(La Mina sarebbe la sua vecchia Honda, con Naozumi serve l’interprete.)

- Non posso, Kamu, devo fermarmi oggi pomeriggio.
- Ma io devo dirti una cosa!
- E dimmela! Che differenza fa?
- Ma...! Tutta la differenza! Vengo lì.
- Ahh... non è una buona idea, facciamo stasera…
- Niente ‘frrrrolla’ stasera?
- Cosa? No… ma che stai dicendo!?
- Dai, vengo lì! E se tu sei troppo impegnata allora vuol dire che Andrew sarà libero.
- Maddai, ancora!… Ha una moglie, hai presente?
- Un classico… Allora?
- Non posso...
- Peggio per te!
- Non c’è dubbio.
- Sappi che *io* ho la soluzione a tutti i tuoi problemi.
-  Addirittura!
- Ma ora non mi va più di dirtela.

La pazienza che ci vuole.

- D’accordo… Prometto solennemente di pregarti… stasera.
- Ci devo pensare.
- Mi sembra giusto.
- Infatti.

- Vabbè ma quindi ieri sera?
- Stasera!
- Dai!
- Te l’ho detto, ho fatto la frolla! Magari te la faccio assaggiare...
- Eh?! Ma per carità… Vabbè ho capito. Me ne torno a casa, replicano ‘La villa dell’acqua’, alla faccia tua!
- Bravo. A stasera!

Naozumi è stato la mia prima vera cotta.
Se ci penso ora, sembra una follia, eppure è proprio così. Il primo giorno della prima media ho incontrato i suoi occhi turchesi e il mio cuore non è mai più stato lo stesso.
Col tempo siamo diventati amici, finché un giorno di febbraio, alla fine del terzo anno, lui ha deciso che io ero speciale, talmente speciale da confidarmi il suo segreto più grande. La cosa più intima e difficile che avrebbe potuto condividere con qualcuno.
Quel giorno io gli ho promesso di non raccontarlo mai.
Con tutte le mie forze di ragazzina ho preso la mia cotta, l’ho chiusa bene in un cassetto dell’armadio, e poi mi sono presa cura di lui, con le parole migliori che conoscevo e il cuore che mi stavo ancora costruendo, un giorno alla volta.
Avevamo tredici anni e credevamo che il mondo sarebbe rimasto sempre così.

Anni dopo ho trovato il coraggio di dirgli la verità.
Seduti al tavolino di un bar, gli ho confessato i miei sentimenti - ormai sepolti - in quel modo totale che si riesce a sfiorare solo con i migliori amici, le persone che sanno perché c’erano.
Quel giorno lui si è sentito importante e io mi sono sentita libera e soprattutto forte.

Arrivo alle 20e32, se mi bidoni ti do un pugno.
Ecco, ora io e lui siamo questo. E io ne vado orgogliosa.

Si potrebbe pensare che la mia sfortuna in amore abbia raggiunto il suo massimo già al primo tentativo, a undici anni. Invece no, il disastro è arrivato dopo.
Alto
Biondo
Atletico
Divertente
Impegnato
Avevo sedici anni quando è iniziata e ne avevo venti l’ultima volta che l’ho visto.
Davanti alla porta di casa mia, quella notte, lui era un altro: aveva concentrato tutto se stesso nei pugni stretti, i segni della rabbia e del dolore gli segavano il viso e la tensione delle sue spalle avrebbe potuto far crollare tutto l’isolato.
Non mi sono mai sentita tanto intrusa come in quel momento, mentre lo guardavo combattere la sua guerra, dalla finestra della mia stanza.
Ma non potevo evitarlo, perché era lui e perché sapevo che era l’ultima volta.

Eppure non è proprio corretto dire che da allora io non lo abbia più rivisto.
Perché io vivo nel mondo delle favole, è ciò che ho scelto, per mille motivi o forse solo per uno, e la mia mente ha l’abitudine di ringraziarmi mostrandomi quello che desidero, forse un po’ più spesso di quanto dovrebbe, sicuramente molto più spesso di quanto io possa gestire.

E così ogni borsone blu è il sacco slabbrato che lui abbandonava all’entrata.
Ogni ciclista è lui che prova un percorso.
Ogni capello biondo mi fa tremare.

Proprio come ora, mentre, tornata al lavoro, sto archiviando la copia del documento di un uomo appena arrivato e la coda dell’occhio mi si impiglia in una chioma del colore giusto. Lo cerco tra la gente, ma non riesco a metterlo a fuoco.
Ma tanto lo so che non è lui.
Non è mai lui.
Non è possibile.
È la mia testa.
Non può essere lui… vero?






 

** full disclosure: sono figlia unica.

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Capitolo 2
*** Imperfetto passato, prossimo ***


Imperfetto passato, prossimo

Quando il pensiero razionale riprende il controllo mi ritrovo nel bagno.
Come nella commedia più scadente, con il cervello in arresto, non avevo saputo fare nulla di più intelligente che scappare in ufficio, pregare la povera Aoi di sostituirmi per un improbabile ‘malessere improvviso’, e rifugiarmi lì. Come se potesse cambiare qualcosa.

Erano anni che desideravo incrociare di nuovo il suo sguardo.
Per anni avevo fissato ogni ragazzo con una fisionomia anche solo vagamente affine alla sua, aspettando che si voltasse, sperando che mi sorridesse con i suoi occhi.
E adesso che era successo, stavo avendo un attacco di panico.


Avanti Sana, riprenditi. Respira.
Mi scruto nello specchio e vedo tutto fuori posto. Mi scappa un risolino amaro: fortuna che Fuka non è qui, altrimenti mi beccherei una filippica di quelle infinite su come il nostro aspetto sia il nostro biglietto da visita.
Accidenti a lei e alla sua frangia castano-catarifrangente! La mia è sempre un po’ sbilenca... non lo so, forse ho più capelli da un lato...

Con addosso quel pensiero tento di sistemarmi: sposto, tiro, aggiusto, liscio. Non sono brava in queste cose. Non sono una di quelle ragazze che, con una forcina, realizzano acconciature artistiche in quattro secondi, il trucco che porto è lo stretto necessario per non arrivare al lavoro con occhi di panda. Non è una presa di posizione la mia, è che non sono capace, e non mi interessa.

Eppure adesso mi mangerei tutte le mani, un piccolo morso alla volta...
Perché lui era stato lì ad aspettarmi. Mentre io lo cercavo, nel tempo di secondi dilatati, lui aveva tenuto gli occhi fissi su di me, aspettando che io lo trovassi.

Non avrei mai potuto essere pronta per questo.

Frenando a fatica  tutte le domande che spingono sulle mie tempie, mi impongo di uscire.
Io non ho niente da nascondere, niente di cui vergognarmi.
Lui si è presentato qui all’improvviso.

Con quello che è successo, io non c’entro.
Già... anche se questo pensiero fa un po’ male. Non devo pensarci. Adesso vado!

*

Alla fine esco dalla porta finestra sul retro dell’ufficio e rientro dall’entrata principale, così... tanto per vedere che sta facendo... Braveheart.

Appena riesco a vedere con chiarezza il bancone, mi fermo: Andrew è al telefono, Aoi ha l’aria sconvolta. Poveretta, è qui in stage da dieci giorni e io l’ho mollata nella mischia senza remore né preavviso. Osservo i clienti in fila, quelli seduti sui divanetti, quelli vicino al bar, quelli che entrano e escono dall’ascensore. Osservo ogni persona nella hall, ma niente. Io non lo vedo più.

Okay... se l’ho immaginato, questa volta devo davvero, davvero vedere un neurologo, o almeno uno psicanalista. E che sia uno serio, con tanta esperienza! Penso che preferirei una donna, perché non so come potrei raccontare ad un uomo tutta qu

- Sana...?


 

Hh.

Anche i pensieri mi restano incastrati in gola.
Non riesco a parlare, non riesco a muovermi, non riesco a respirare. Ma lui non ha nessuna intenzione di aspettarmi, questa volta. Lo sento avvicinarsi da dietro, passarmi a fianco e, alla fine, mi si para davanti.

E allora io lo guardo.

Akito Hayama oggi ha le spalle più larghe e più piene, un accenno di barba chiara e come occhi due pietre lucide che io davvero ero convinta di ricordare. Lo guardo tutto, serrando le labbra e stritolandomi le mani, tentando l’impossibile per mantenere un contegno. Poi lui mi sorride e per me è la fine.

- Stai meglio?

Lo guardo, non so più come smettere. Non lo so che cosa mi stia dicendo.
Qualcosa sul fatto che gli hanno detto che non stavo bene, qualcosa sul fatto che pensava lo stessi evitando. Sta scherzando, credo. Io sto capendo solo che le sue labbra sono qui e si muovono.

- … Sana?
Lui ride e scuote la testa, e, anche se ho le vertigini, improvvisamente qualcosa gratta.
Si sta comportando come se niente fosse, dopo sei anni.
- Non credevo che fossi tu, Hayama.

Non è completamente falso, ma di sicuro non erano queste le prime parole che immaginavo avrei detto nel rivedere l’amore della mia vita. E credo che lo pensi anche lui, dato che si blocca con una smorfia. Sta per dire qualcosa, ma cambia idea. I suoi lineamenti si distendono di nuovo e sorride. Non ce la posso fare.
- Hay--
- Ti trovo bene, Kurata.
Oddio. Il complimento mi vibra addosso, ma allo stesso tempo sento quel nome stringermisi intorno alla gola e istintivamente lascio uscire qualcosa che non dovrei.

- Non chiamarmi così.

Non va bene. Devo allontanarmi, subito. E so anche come fare. Basta riprendere il controllo e riuscire a pronunciare l’unica parola che rovinerà tutto.
Ma lui mi batte sul tempo:
- Ma tua sorella si è sposata?

Lo dice guardando il bancone, ridendo, o almeno ci prova. Persino io - con le connessioni neurali ben sotto il trenta percento - comprendo che non potrebbe chiederlo in nessun altro modo.
- No.
Mi esce appena sussurrato, e mi fa un male cane.
Lui torna a guardarmi.
- Non fa niente, sai. Sono contento per lei. - Il suo tono si abbassa, come se quelle parole ad alta voce non si potessero dire, poi si scrolla e il suo viso si riaccende
- È che quando ho chiesto di lei e mi hanno risposto che l’unica Fuka qui si chiama Matsui, non ci ho capito più niente! Che diavolo mi sono perso?
Akito ride di gusto e il cuore mi scoppia. E allora sono io che mi comporto come se niente fosse.
- Non è così… Lei…
Non so neanche come spiegarla questa follia... Ritento, con ordine.
- È che... quando nostro padre se n’è andato, Fuka ha deciso che non voleva più portare il suo nome. E così adesso si fa chiamare come nostra madre…
- Matsui.
- Già.
Annuisce, con le pupille accese di divertimento, poi si gira verso di me.
- Strano che non abbia costretto anche te a fare lo stesso!
- Hahaha, non è che non ci abbia provato…!

Mi sto sciogliendo, mi sento leggera, dopo neanche otto minuti mi sto permettendo di ridere con lui, sto lasciando entrare i suoi occhi, aria pulita.
Non può finire bene. Mi devo concentrare. Faccio un passo indietro, lui capisce.
E poi lancia l’affondo finale, col suo tono caldo, quello che brucia lentamente.
- Tu stai bene?
Come se potessi rispondere a una domanda del genere.
Sorrido...
- Devo tornare al lavoro. Ma te la chiamo.
Lui mi fa l’occhiolino e io spero solo di non dimenticare lì troppi pezzi.

*

Forse il metodo migliore per far sì che io non alzi gli occhi mai, neanche per un secondo, dal mio lavoro è avere Akito Hayama seduto a meno di dieci metri. Ora, questo non significa certo che io sia concentrata, ma di sicuro mi porta a reprimere immediatamente qualsiasi istinto di allontanarmi o anche solo di distrarmi.
Sono passate due ore e io sono talmente rigida che scommetto che domani mi faranno male i muscoli e non sono nemmeno sicura che lui sia ancora lì. Stendiamo un pietoso velo.

A Fuka ho mandato un messaggio tremulo, per ‘avvisarla’, ma l’unica risposta che ho ricevuto è stato un ok frettoloso, dopo più di venti minuti. Non è che vorrei che si confidasse con me, non credo che potrei reggere, ma insomma a volte sarebbe bello avere come sorella un essere umano.
Voglio dire, il suo ex storico si presenta qui dopo anni e la sua reazione è: ok?
A meno che, certo, lei non lo sapesse già.

A questo pensiero il mio malessere diventa completamente reale: ho il battito accelerato, mi gira la testa, mi sento la nausea. Quando arrivo al limite alzo la testa e basta.
Non c’è.
E per la prima volta ne sono sinceramente sollevata.
Approfittando di un momento di calma, mi rintano in ufficio per respirare. Ora come ora, vorrei solo arrotolarmi in una coperta cicciona, sistemarmi su un divano morbido e lasciar andare tutto. Magari con la mamma o con Aya. Mi mancano entrambe così tanto…

Inforco il telefono e per un po’ fisso lo schermo indecisa. Alla fine chiamo Kamu. Non voglio creare troppa agitazione.

- Shhh, mi fai perdere il finale!
La sua voce allegra mi strappa un micro-sorriso, per un micro-attimo.
- Kamuu-
- Aspetta!! Mako sta uscendo dalla casa in fiamme proprio ora… ahh che pathos!
Ma io non ce la faccio più.
- Akito è qui.
In sottofondo sento i suoni della TV.
- Che?
Alzo la voce e scandisco bene.
- Akito Hayama è qui…
- Come? Di già??
Lui... ride? Non capisco... e perdo la pazienza.

- Naozumi non è uno scherzo!! Lui è qui! Ci ho parlato due ore fa!
Sento la sua voglia di ridere sgonfiarsi.
- Cazzo, sul serio?
- Credi che ci scherzerei?
Mi viene da piangere.
- Ma… e che cosa ci fa lì?
Tu cosa pensi??
- Merda! Non ci credo... per Fuka?
Ma improvvisamente non voglio più parlarne. Improvvisamente vorrei non aver telefonato. So che lui non ha colpa, ma il suo tono sorpreso mi irrita da morire, per non parlare delle domande idiote a cui non posso pensare.
- Non lo so… Adesso vado.
- Aspetta--
- Non posso stare al telefono, scusa, era uno sfogo. Ci vediamo stasera.
- Okay…
Okay...
Sono una stronza.
E cosa ancor peggiore, l’ho rivisto da due ore e sta già cadendo il mondo.

*

Almeno i sensi di colpa mi distolgono un po’ da Akito Hayama e la sua luccicante venuta. Essere a casa, ovviamente, aiuta.

La nostra casa è oltre il parco dell’hotel, verso ovest.
Il terreno apparteneva a mio nonno materno, ma è rimasto inutilizzato per anni dopo che lui e la nonna si sono trasferiti a Osaka. Poi, quando mio nonno è morto, mia madre e mio padre sono tornati qui con l’intenzione di metterlo in vendita, ma mio padre se ne è innamorato follemente e ha convinto mia madre a trasferirci tutti e avviare l'attività.
Io avevo dieci anni e la nostra vita a Osaka me la ricordo molto poco ormai. 

Ho staccato da un’ora e ho fatto in tempo a fare un bagno bollente. Di mangiare non se ne parla, ma tanto non mi può certo far male.
Il campanello suona alle otto e diciotto, il che significa che ho fatto dei danni.
Mi alzo, apro la porta, e, mentre aspetto che lui entri e si tolga le scarpe, inizio a sistemare un po’ i cuscini del divano. Non che a Naozumi interessi qualcosa dell’ordine, è che sono agitata, ho bisogno di dare alle mie mani qualcosa da stropicciare.

Mia sorella vedrà Akito stasera.
Da quello che ho capito, si sono visti per un minuto nel pomeriggio, quando lei è tornata, solo per mettersi d’accordo per stasera. Non è un appuntamento o almeno non credo... ma non ho chiesto molto, l’unica cosa che mi premeva sapere è che si incontreranno fuori, da qualche parte, quindi almeno mi eviterò il teatrino di lui che la viene a prendere. Piccole vittorie.

- Se continui così ti porto al pronto soccorso.
Il sorriso mi si apre da solo e il sollievo mi fa salire il magone. Sono proprio stupida. Quando mi volto trovo due occhi turchesi che mi guardano profondi, adesso sì che sono a casa.
Lui ghigna e si butta sul divano.
- Allora, non ho capito, quanti siamo? Tre... quattro?
Oddio, non fa ridere.
Ma il mio adorabile asso nella manica, ce l’ho anch’io.
- Siamo in tre.
Lui si illumina, ma non fa in tempo a rispondere che sentiamo un urlo arrivare dalle camere.

Qualcosa sbatte, qualcosa cade con un tonfo, Fuka alza la voce e Kiko mi viene incontro di corsa. La prendo al volo.
Ha tre anni ed è uno splendore, oltre ad essere la copia al millimetro di sua madre.
- Non devi correre in casa!
Con queste parole colme di simpatia, mia sorella emerge dalla camera dei miei - che ormai è diventata la camera di Kiko -  in tutta la sua altezza e magrezza. Faccio scendere la mia nipotina - che ora è attratta dai bottoni luccicanti della giacca di Kamu - e osservo mia sorella, così giusto per farmi del male.

Sarò anche ripetitiva, ma lei è perfetta. Ha delle gambe lunghissime e longilinee anche con un paio di jeans. Non le si vede un filo di pancia neanche con la camicia infilata nei pantaloni. Non lo so, per me persino il ginocchio un po’ storto dall’infortunio in qualche modo le dona. Aggiunge carattere, una sfumatura da sopravvissuta.
Lei mi lancia un’occhiata, poi ‘saluta’ Naozumi.
- Kamura...
Sembra sempre scocciata, ma lui non la teme.
- Elsa!

L’ha detto sul serio e guardandola negli occhi. Io intanto ho rischiato di strozzarmi per non ridere.

Lei sostiene il suo sguardo, ma non reagisce, poi torna a rivolgere le sue attenzioni a Kiko.
Kamu scivola lungo il divano per avvicinarsi a me e mi parla a bassa voce.
- Ma secondo te l’ha capita?
Io ridacchio, gli tiro una gomitata, e, istintivamente, la guardo ancora. Si sta mettendo la giacca e si sta aggiustando i capelli color ebano. Non ne avevano bisogno, comunque.
- Che c’è?
Oh, parla con me.
- Niente, sei uguale alla mamma.
Lo penso davvero e lei lo sa, si addolcisce per un battito di palpebre, ma io me ne accorgo. Poi raggiunge l’entrata, con Kiko che la rincorre, e, con movimenti eleganti, si mette le scarpe blu col tacco largo che mi piacciono tanto. Ora è ancora più alta e sofisticata.

Maledizione, anche io preferirei lei.

- Chiamala.
- Mmh?
- La mamma, dovresti farti sentire.

Ha ragione, e non c’è altro da aggiungere.

Fuka saluta Kiko, saluta me e poi lancia la sua stangata finale, con un piede perfetto già sulla soglia.
- Kamura, per
tua informazione: ho una figlia di tre anni, certo che l’ho capita.

Sono convinta che a mia sorella Naozumi piaccia.
Non ne abbiamo mai parlato esplicitamente, ma lo vedo che Fuka ‘sopporta’ la sua presenza in casa nostra più facilmente rispetto a quella di altri. Senza cercare troppo lontano, Rei, il ragazzo che ho frequentato stabilmente per oltre due anni e mezzo, non è mai stato altrettanto benvenuto. E non è solo perché a Kamu piacciono gli uomini, penso che sia proprio perché lo rispetta. Forse perché Kamu gira per casa nostra da così tanto che ha visto tutto, compresa lei che cresceva. O forse semplicemente - udite, udite - perché le è simpatico.

- Zia Saanaaa!
Mi giro e scoppio a ridere. Kiko si sta trascinando verso di me con ‘addosso’ le scarpe rosse di Fuka. La raggiungo.
- Oooh, ma che alta che sei!
Lei è l’immagine della gioia e allora me la sbaciucchio tutta. Ma la mia nipotina si svincola quasi subito e mi indica le scarpe.
- Anche tu!
La guardo annuendo divertita, non so dirle di no e non vedo perché dovrei. È il bello di essere zia.

Dopo aver rischiato la vita più volte sulle scarpe di Fuka - servirebbe, cortesemente, un altro pietoso velo, bello ampio - ci buttiamo sul divano e Kiko crolla al sesto minuto di Brave, addossata per metà su di me e per metà su Naozumi. Come diavolo può una bimba di neanche un metro occupare un intero divano non potrò mai comprenderlo, ma daltronde la fisica non è mai stata il mio forte.

Quando torno in salotto, dopo averla messa a letto, l’agitazione mi assale di nuovo. Naozumi sta spulciando  i DVD sugli scaffali, concentratissimo, come se fosse la prima volta che entra in casa mia. Mi siedo sul divano, in attesa dell’inevitabile. Lui osserva ancora un po’, poi pesca qualcosa che lo soddisfa e alla fine dice semplicemente:
- Vuoi parlarne?
Il magone mi scoppia in gola e istintivamente mi piego su me stessa con le mani in viso.
Nel giro di un minuto sento la tv ripartire, una coperta che mi avvolge, un abbraccio che mi accoglie e carezze lente tra i capelli.
Sono una stupida vergognosamente fortunata.

*

Un rumore metallico improvviso.
Cerco di spostarmi, ma un braccio mi tiene la testa saldamente ferma.
Cerco di ritrovare il filo... sono a terra, sul tappeto del mio salotto, con la seduta del divano dietro la schiena. La tv trasmette per inerzia un documentario sui treni. Kamu è attaccato a me. Mi accoccolo ancora, non ne vale la pena.

Ci sono dei passi fastidiosi che sembrano attraversare il salotto a più riprese. Forse delle parole soffiate. Kamu si muove, ma non mi molla, anzi sposta il braccio sui miei fianchi e mi stringe di più. Chiudo gli occhi ancora per un pochino, magari.

- Alla faccia del migliore amico!...
- Shhh.
- E tu li lasci fare??
- SHHH!! Ecco. Ciao.

La porta si chiude in un tonfo, sento mia sorella camminare verso la camera cercando di fare piano. Ma ormai sono completamente sveglia e ho di nuovo il cuore in allarme.
Mi sgancio da Kamu, che è sveglio e ora non stringe più.

Lo spedisco a casa con un bacio leggero. Ho tutto il collo incriccato e un’emicrania potente... Non ho più l’età per il tappeto. Vado in camera, mi cambio, mi sento veramente stravolta. Questa giornata mi ha distrutta completamente e vorrei solo che  le voci che continuano a chiedersi come sarà andata tacessero, almeno un po’. Ma non è per niente realistico.

Sposto la coperta, controllo il telefono, accendo la lampada. Ma c’è ancora una cosa che devo fare.

La camera di Fuka è vuota, sicuramente è andata a controllare Kiko. Entro, mi siedo sul suo letto: profuma di more, come lei. Quando arriva è senza trucco e distrutta, pure lei: un biglietto da visita che solo gli intenditori sanno comprendere. Mi si siede a fianco, non dice niente.
- Stai bene? - Le chiedo.
Lei fa un respiro profondo, poi prende la spazzola, abbandonata sul letto, e inizia a passarla tra i miei di capelli.
- Sei uguale alla mamma.
Mi scrollo.
- Non è vero…
- Sì invece. La mamma veniva sempre a salutarmi prima di dormire.

Ed ecco che le lacrime mi assalgono per l’ennesima volta, in questa giornata assurda che proprio non vuole finire. Ma è notte fonda e io sono arrivata davvero al limite.
- ...Tornerete insieme?
Lo dico serrando gli occhi, ma Fuka non mi dà neanche il tempo di pentirmene.
- No.
Sono sollevata, lo ammetto, ma anche stupita di questa sicurezza incomprensibile… Per un momento sono quasi tentata di dirle che sbaglia, che dovrebbe pensarci, che di Akito Hayama ce n’è solo uno. Ma le sue parole sono ferme.
- Non provo niente per lui.
Mi sembra veramente impossibile e probabilmente lei me lo legge in faccia, ma non cede:
- È così. Io non provo niente per Akito e lui lo sa. Non devi preoccuparti... - Aggiunge a voce più bassa. Queste parole, però, non mi rassicurano affatto, anzi mi fanno sentire a disagio, fragile, esposta. Voglio andarmene.

- Buonanotte.
- Sana.

Mi blocco, ma non mi giro verso di lei. Aspetto che continui.
- Io…
Le mancano le parole, quindi la bomba dev’essere questa.
- Io gli ho dato un lavoro. Lui... ne ha bisogno.

No.

Non è possibile...

- Farà l’istruttore e il soccorso. E poi vedremo come va. Yusuke vuole andarsene, quindi avrei comunque dovuto cercare qualcuno...

No.

No!

Io non ho altre parole. Mi alzo, devo andarmene!

- Ah aspetta…
Si alza anche lei e fruga nella sua borsa, appesa al muro accanto alla porta. Tira fuori una scatolina di cartone blu con un fiocchetto bianco.
Oh merda...
No, no, no, non credo proprio!


- Questa me l’ha lasciata Hiro per te…

Oh.

Hiro.
Il sollievo mi esce in un soffio e mi svuota.

Prendo la scatoletta con mani ghiacciate e me ne torno finalmente in camera mia. Mi chiudo dentro - davvero - non ne voglio più sapere.

*

Seduta sul mio letto, finalmente mi godo un momento solo mio.
Con la delicatezza di mani tremanti, apro il regalo... Sono dei biscottini al cioccolato, e, neanche a dirlo, sono spettacolari. Mi viene di nuovo da piangere, oggi mi sembra di non aver fatto altro, ma il mio cuore saltella, questo… questo è proprio quello di cui avevo bisogno! Vorrei chiamarlo, chissà se dorme… probabilmente sì.
Prendendo il secondo biscotto mi scivola fuori  un bigliettino blu, come la scatola, lo apro entusiasta: 

Prepararli insieme a te sarebbe stato molto più divertente. La prossima volta...
Hiro.

Sì.
Domani andrà meglio, adesso ci credo.








 

** fanciulle pulcherrime, che cosa ne dite di questa fossa che mi sto scavando? è abbastanza profonda? è abbastanza solida? ... Comunque, ancora un capitolo di pazienza, poi dovrebbe capirsi l’idea improbabile che ha provocato questa tragedia di insicurezze e cuori infranti. E poi sarà la fine!

 

*** Grazie a te che stai leggendo. Davvero, per me significa tantissimo.

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