Truth be told

di adamantina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1

 

Cominciò tutto una mattina qualunque, quando Sam, nel mezzo di una colazione come mille altre in un diner di Pine Grove, Louisiana, chiese:

«Allora, com’è andata con quella cameriera bionda? Sei rientrato tardi stanotte.»

Nella sua testa, aveva già in mente la risposta del fratello, qualcosa sulla falsariga di Mi ha fatto salire a casa sua e le ho fatto dimenticare persino come si chiamava, o in alternativa, Mi stai rinfacciando gli orari a cui torno la sera come se fossi mia moglie, Sam, fatti una vita.

«Non è successo niente. Mi ha proposto di farci una sveltina in bagno, ma non ne avevo voglia. Sono andato a fare un giro in macchina da solo per farti pensare che ero con lei.»

Sam sollevò gli occhi dal suo piatto di uova e fissò il fratello, apparentemente intento a dissezionare una fetta di bacon. Per diversi secondi regnò il silenzio. Poi Dean sembrò rendersi conto di quello che aveva appena detto e impallidì.

«Cazzo,» disse. «Fottutissime streghe.»

 

In realtà, era abbastanza facile fare due più due e capire cosa fosse successo. Il pomeriggio del giorno precedente, i Winchester avevano concluso una caccia piuttosto complessa che aveva incluso due insegnanti delle superiori con diversi arti rotti, un giornalaio con un naso che sanguinava ininterrottamente da una settimana, una famiglia il cui figlioletto di un anno aveva improvvisamente perso la capacità di emettere suoni, e un consigliere comunale la cui casa era semplicemente scomparsa nel nulla da un giorno all’altro, lasciando il terreno deserto.

Si erano imbattuti in quella caccia per caso, mentre si riprendevano da quella precedente, ben più sanguinosa, e avevano impiegato parecchi giorni per ricollegare tutti quegli avvenimenti bizzarri a un elemento comune, una gentile signora che aveva ricevuto degli sgarri più o meno gravi da tutti i protagonisti della vicenda.

Sam e Dean avevano suonato il campanello di Agnes Bayes, una strega sulla sessantina, e le avevano dato una strigliata, facendole presente che l’avrebbero tenuta d’occhio e che al primo segnale di attività sospette in quell’area avrebbe ricevuto qualcosa di ben peggiore di una ramanzina. Agnes si era scusata profusamente, aveva raccontato in grande dettaglio gli sgarri dei suoi compaesani (che variavano da un clacson suonato senza motivo a vicini troppo rumorosi), aveva promesso di far tornare tutto alla normalità e li aveva congedati con un ringraziamento “per il servizio che svolgevano per la loro comunità”.

Evidentemente, però, si era premurata di lasciar loro un piccolo regalo d’addio.

«Qual è la tua marca di auto preferita?»

«…Chevrolet?»

«Ok, evidentemente funziona soltanto su di me,» sbuffò Dean.

«Devi ammettere che sei stato decisamente poco gentile con lei.»

«Dovevamo convincerla a smettere di maledire le persone, Sam, non a offrirci una tazza di tè.»

«Sì, infatti vedo com’è stata efficace la tua strategia del poliziotto cattivo.»

«Vaffanculo.»

«Propongo di andare a trovare Agnes prima che tu riveli accidentalmente la tua cantante preferita.»

«Madonna. Sam

 

Dieci minuti dopo, l’Impala era parcheggiata davanti a una casa completamente vuota, con un cartello ben in vista che proclamava “vendesi”.

«Merda.»

Dean reclinò la testa contro il sedile dell’Impala, stancamente.

«E adesso come la rintracciamo?» sbuffò Sam. «Avrà preso tutte le precauzioni per evitare di essere trovata.»

«Sam,» disse Dean, e il suo tono era molto più serio del solito, al punto che il fratello si voltò per guardarlo negli occhi. «Devi promettermi che non userai questa cosa contro di me.»

Sam batté le palpebre, confuso dall’improvviso cambio di tono della conversazione.

«Cosa?»

Dean scosse la testa e prese fiato, evidentemente infastidito dal dover approfondire l’argomento.

«Non voglio che questa storia della verità diventi la scusa per parlare delle nostre emozioni o altra merda del genere. Ti conosco e non ho intenzione di stare al gioco.»

Sam rifletté per un momento su quell’affermazione, ma alla fine concesse:

«Va bene. Promesso.»

 

Tornati nella stanza del motel che era attualmente la loro dimora, Sam si piazzò alla scrivania con il suo portatile, mentre Dean accese la TV a basso volume, sintonizzata su un vecchio film di Jackie Chan.

Sam si sforzò di rimanere concentrato sulla ricerca, ma non poté evitare che la sua mente vagasse su ciò che era appena successo e sulle possibili ripercussioni. Senza contare che la richiesta di Dean di non approfittare della situazione, per quanto sensata, aveva smosso la sua curiosità. Cosa aveva da nascondere?

Sam non si era ancora del tutto abituato alla presenza del fratello, che per quattro anni era stato mediamente a centinaia di miglia di distanza da lui. A Stanford, Dean era passato dall’essere una delle uniche due costanti della sua vita ad essere una figura del suo passato, onnipresente nei suoi ricordi ma totalmente assente dalla sua vita quotidiana.

Finché, sei mesi prima, era ricomparso. Sam aveva visto la sua fidanzata prendere fuoco sul soffitto della loro camera da letto, e Dean gli aveva impedito per un soffio di fare la stessa fine.

Durante i primi giorni di apatia totale, Dean lo aveva guidato con delicatezza ma fermamente, trascinandolo in un motel, assicurandosi che mangiasse, che parlasse al telefono con i genitori di Jess, che si facesse una doccia, che comprasse dei vestiti per il funerale (“Non è colpa mia se sei un gigante, altrimenti ti avrei anche prestato uno dei miei completi da agente federale, ma non ne ho di taglia Yeti”). Poi era giunta la fase della rabbia, e Dean aveva fatto da punching-ball, prendendosi tutte le urla del caso, e a volte anche i pugni. Passato anche quello stadio, Sam sentiva di essere quasi tornato a uno stato emotivo stabile, eccezion fatta per il tumulto di sensazioni contrastanti che ancora provava quando pensava a Dean, tornato ad essere l’unico punto fermo nella sua vita disastrosa, quasi come se quei quattro anni di distanza non fossero serviti a niente.

«Penso di aver trovato un incantesimo per rintracciare Agnes,» annunciò Sam, distratto dalle proprie riflessioni da un sito web particolarmente promettente.

«Sento che c’è un però

«Gli ingredienti non sono difficili da recuperare, ma dobbiamo aspettare la prossima luna piena.»

«Che è?»

«Fra diciotto giorni.»

Dean imprecò e spense la televisione con un gesto nervoso.

«E cosa dovremmo fare per diciotto giorni in questo buco dimenticato da Dio?» chiese, acido.

«Non lo so, Dean, ma non possiamo allontanarci troppo. L’incantesimo deve essere fatto in un luogo in cui è stata la persona che vogliamo trovare.»

«Merda.»

Sam sollevò le spalle, sconfitto, e chiuse il portatile.

«Penso che andrò a correre,» annunciò.

 

Diciotto giorni potevano non essere così tanti, ma a Sam sembravano infiniti. Non avere nulla da fare lo rendeva nervoso e gli dava decisamente troppo tempo per pensare. Il più frequente di questi pensieri era perché diavolo Dean fosse così insopportabile. Nel giro di ventiquattr’ore aveva già ripulito e ricaricato ogni singola arma dell’arsenale contenuto nel bagagliaio dell’Impala, aggiornato il diario del padre con i dettagli delle ultime cacce, corso per un’ora e mezza ed esplorato l’intero paese (non che ci fosse molto da vedere).

All’ennesimo sospiro rumoroso che giungeva dall’altro lato della stanza, Sam perse la pazienza.

«Dean, cosa c’è che non va? Sei ancora più fastidioso del solito.»

«Questa storia dell’incantesimo mi rende nervoso,» rispose lui.

Sam fece in tempo a sorprendersi per la risposta sincera e la mancanza di sarcasmo prima di realizzare di essere stato lui stesso a porre una domanda a cui Dean aveva dovuto rispondere con sincerità. Trattenne a stento un perché?, ma solo per lo sguardo assassino che gli lanciò il fratello.

«Alleniamoci,» propose, per alleviare la tensione e trovarvi un possibile sfogo.

«Finalmente un’idea intelligente, Sammy,» approvò Dean, saltando in piedi.

Pochi minuti dopo erano all’esterno, nel parcheggio del motel, deserto nell’aria tiepida del primo pomeriggio. Mentre saltellava sul posto per scaldarsi, Sam studiò furtivamente il fratello, che era certo stesse facendo lo stesso. Indossava soltanto un paio di pantaloni della tuta, ampi e morbidi, bassi sui fianchi, e Sam non poté evitare di notare quanto Dean fosse cambiato dall’ultima volta che avevano combattuto così, in pieno giorno, al solo scopo di tenersi allenati. Sulla sua figura non c’era un filo di grasso, ma muscoli tesi e pronti a scattare. Sul petto e sull’addome, una serie di cicatrici che Sam conosceva a memoria (molte di esse le aveva ricucite lui stesso, essendo stato proclamato da tempo miglior infermiere fra i tre Winchester) erano adesso accompagnate da altre, non familiari, alcune storte, forse chiuse da Dean stesso nelle occasioni in cui aveva cacciato da solo. Sam sentì lo stomaco stringersi spiacevolmente al solo pensiero.

«Se hai finito di ammirare lo spettacolo, magari diamoci una mossa prima che faccia notte,» disse seccamente Dean, distogliendo la sua attenzione.

Sam sentì il sangue scaldargli le guance e decise di evitare ulteriori indugi avvicinandosi a Dean e sferrando il primo pugno. Lo fece quasi senza pensare, d’istinto, e Dean lo schivò con una facilità che sarebbe stata quasi imbarazzante se Sam non avesse avuto la scusante di essere fuori allenamento.

Ben presto, ritrovarono il ritmo che era loro familiare quanto respirare. Le loro tattiche erano simili: dopotutto entrambi avevano imparato da John Winchester. Tuttavia, nel tempo avevano perfezionato le loro strategie. Sam conosceva a memoria quelle di Dean: cercare di attirare l’avversario il più vicino possibile, prima di tutto, perché se a distanza era pericoloso, nel corpo a corpo Dean era letale. Le tecniche che usava più frequentemente derivavano per la maggior parte dal Muay Thai, e Sam sapeva perfettamente che mettersi nella traiettoria di una sua ginocchiata o gomitata sarebbe stata la mossa peggiore possibile. D’altra parte, sapeva anche che Dean tendeva a favorire il lato destro; che il suo ginocchio sinistro era sempre stato più vulnerabile dopo che se l’era rotto in una caccia quando aveva diciassette anni; e che il suo punto debole più grande di tutti era Sam stesso.

Sam incassò una gomitata ben piazzata nello stomaco e si lasciò sfuggire un umph soffocato. Dean esitò per una frazione di secondo prima di infliggergli il colpo successivo (come volevasi dimostrare), e Sam colse l’occasione per trovare la sua guardia abbassata e fare leva sulla sua gamba sinistra per gettarlo a terra. Dean cercò in tutti i modi di evitarlo, perché sapeva perfettamente che, se lui era letale nel corpo a corpo, Sam lo diventava quando riusciva a portare l’avversario sul pavimento.

Rotolarono insieme sull’asfalto per un po’, entrambi cercando di dominare la situazione. Sam notò immediatamente una cosa che fino a quel momento non aveva realizzato: rispetto all’ultima volta in cui si erano trovati in quella posizione, lui aveva guadagnato diversi centimetri di altezza e anche parecchi muscoli. Nel giro di un paio di minuti, Sam riuscì a sfruttare questo vantaggio per bloccare il fratello sotto di sé, tutto il proprio peso sulle sue gambe e le mani che inchiodavano con forza i polsi di Dean all’asfalto. Dean si divincolò per un po’, ma senza risultati.

«Da quando sei diventato un fottuto gigante, Sammy?» chiese, senza fiato.

Sam si prese ancora un minuto per godere della propria vittoria. C’era qualcosa, nell’avere il fratello completamente sotto il proprio controllo, che gli causava una scarica di adrenalina a cui non era abituato. Le ultime volte in cui si erano scontrati, Sam era molto più mingherlino, e aveva da poco raggiunto Dean in altezza, dopo anni passati a guardarlo dal basso verso l’alto; adesso la situazione si era ribaltata a suo favore.

«Sei solo arrabbiato perché sai che non riuscirai più a battermi,» disse allegramente, sistemandosi meglio sul fratello per impedirgli di sfuggire alla propria presa.

Impiegò un attimo per rendersi conto che Dean si era completamente immobilizzato.

«Ehi, cosa…» cominciò, e vide il panico salire negli occhi del fratello, che si divincolò con tale forza da cogliere Sam di sorpresa e fargli lasciare la presa, finendo col sedere sull’asfalto.

Dean schizzò in piedi e fece tre passi indietro, riprendendo fiato. Sam lo guardò, confuso.

«Cosa–» riprovò.

«Non. Chiedere,» intimò Dean, il tono così perentorio che Sam chiuse subito la bocca.

Si voltò e si avviò velocemente verso la loro camera. Sam scosse la testa senza capire e si rialzò lentamente prima di seguirlo, lasciandogli un po’ di tempo per sbollire.

Quando rientrò nella stanza, Dean non c’era più. Il panico iniziò subito a salirgli in gola, ma dopo un momento vide il biglietto che gli aveva lasciato sul tavolo (Sono andato a bere qualcosa. Non sclerare. –D) e si tranquillizzò.

Certo, andare a bere qualcosa alle tre di pomeriggio non era un comportamento ammirevole, ma se non altro Dean non era scappato per il resto di quei diciassette giorni che ancora mancavano al termine della maledizione.

 

Quattro giorni passati, due settimane mancanti, e Sam stava impazzendo, chiuso in camera tutto il giorno. Dean si era rifiutato di allenarsi di nuovo, impedendo a Sam di provare anche solo a domandargliene la ragione, e dopo un po’ Sam aveva smesso di insistere.

Aveva, invece, ripreso l’abitudine di andare a correre che aveva mantenuto per tutti gli anni del college; il ritmo della musica nelle cuffie e quello del suo cuore che batteva rapido avevano l’effetto di calmarlo e di distrarlo dalla situazione corrente.

Gli incidenti non erano stati frequenti, ma qualche inciampo c’era stato: una mattina Sam, ancora mezzo addormentato, aveva chiesto a Dean dormito bene? E si era sentito rispondere No, non ho chiuso occhio fino a un’ora fa. Dean gli aveva lanciato un’occhiata stizzita ed era uscito sbattendo la porta.

Senza contare i tre diversi Come stai e Come va che Sam si era fatto sfuggire. Stava iniziando a capire perché Dean sembrava avere i nervi a fior di pelle.

Quando rientrò dalla sua corsa, sudato, trovò il fratello al telefono con qualcuno.

«Mm-hmm. E poi cos’è successo?»

Sam gli lanciò un’occhiata interrogativa, ma Dean si limitò a stringersi nelle spalle.

«Sì, ok, mi sembra il mio tipo di situazione. Ripetimi l’indirizzo… ok. Posso essere lì fra tre o quattro ore. Ok. A dopo.»

«Che succede?» domandò subito Sam, ricordandosi di nuovo in ritardo della maledizione.

Dean gli lanciò un tipo di occhiataccia che ormai gli era familiare e che comunicava chiaramente Davvero, Sam? Di nuovo?

«Mi hanno contattato per una caccia. Un tizio che conosco. È a poche ore da qua.»

«Oh, ok. Partiamo subito?»

«No… no, Sam, vado da solo. Tu non vieni. E non provare a chiedermi perché,» lo interruppe prima che potesse protestare. «È così e basta.»

«Non ti lascio andare da solo,» dichiarò Sam.

«Si dà il caso che me la sia cavata egregiamente a cacciare da solo fino a poco fa, Sam,» disse bruscamente Dean. «Non voglio che tu venga e la questione è chiusa.»

Sam cercò un modo per obiettare che non includesse costringere Dean a dirgli la verità tramite l’incantesimo, ma mentre ragionava, il fratello aveva già afferrato il borsone e le chiavi dell’Impala.

«Ci vediamo presto. Se hai bisogno chiama.»

E gli chiuse la porta in faccia. Sam sbatté con rabbia il pugno sul tavolo, sentendo il motore dell’Impala che prendeva vita e si allontanava in fretta.

Al ritorno del fratello, decise, se ne sarebbe fregato della sua sensibilità delicata e avrebbe preteso delle risposte, maledizione o meno.

 

«Non chiedere,» furono, ovviamente, le prime parole di Dean quando rientrò nella stanza. Erano passati tre giorni, che per Sam erano durati almeno il doppio. Aveva chiamato Dean in più occasioni, almeno per assicurarsi che tutto stesse andando bene, ma naturalmente ogni chiamata era andata direttamente alla segreteria telefonica. Sam si era premurato di lasciare più di un messaggio in cui diceva al fratello esattamente cosa pensasse di quella fuga, e lo avvisava che se entro la sera seguente non si fosse fatto vivo, Sam sarebbe partito per cercarlo, in un modo o nell’altro.

Quando si aprì la porta, Sam, seduto davanti al computer, alzò gli occhi immediatamente, senza riuscire a trattenere un sussulto.

«Dean! Cosa–» cominciò nel vedere il viso tumefatto del fratello. Aveva un occhio gonfio, il labbro inferiore spaccato e una varietà di graffi e tagli che proseguivano sul collo e oltre lo scollo della sua t-shirt.

«Non chiedere, Sam,» lo interruppe Dean, dirigendosi verso il bagno.

Sam sentì un fremito di rabbia e si alzò di scatto, infilando il piede nella porta nel momento in cui Dean stava per richiudersela alle spalle.

«Cosa cazzo vuoi?» sbottò con furia quest’ultimo.

«Voglio solo che tu mi dica la verità,» replicò subito Sam.

«Ironico, no?» sbuffò Dean.

«Cosa è successo?»

Sam vide il lampo di furia negli occhi del fratello prima che l’incantesimo lo costringesse a rispondere a denti stretti:

«Un cazzo di poltergeist mi ha sbattuto qua e là. Sei soddisfatto?»

«No,» rispose Sam. «Dov’eri?»

«Gillburg, Mississippi. Sam, smettila,» Dean ringhiò, tentando di passare oltre al fratello per uscire dalla stanza, ma Sam stava bloccando la porta del bagno e non sembrava intenzionato a lasciarlo passare.

«Chi ti ha chiamato?» insistette Sam.

«Dave Crawford.»

Dean non perse altro tempo prima di indirizzare un pugno deciso verso il fratello, che lo bloccò senza difficoltà e lo spintonò indietro, verso il muro del bagno.

«E chi è Dave Crawford?» continuò, implacabile.

«Un…» Sam vide Dean mordersi con forza il labbro già sanguinante. «Un ragazzo che ho conosciuto quando eri a Stanford.»

Sam prese fiato. Sapeva che c’era qualcosa che Dean gli stava nascondendo, e sapeva che era vicinissimo alla verità. Doveva solo fare le domande giuste.

«Sam, hai promesso che non l’avresti fatto,» disse Dean, la voce spezzata, le spalle al muro sia letteralmente che metaforicamente.

Sam immaginò di essere un’altra persona, più forte, più empatica, una persona che avrebbe lasciato stare Dean, che gli avrebbe permesso di fuggire di nuovo dal motel e di andare a nascondersi da qualche parte per salvare la faccia. Ma lui non era quella persona, e il suo desiderio egoistico di sapere, di capire cosa stesse succedendo a Dean era troppo forte per lasciarsi scappare quell’occasione. Senza contare la frustrazione accumulata in tre giorni senza alcuna notizia.

«Cosa è successo tra te e questo Dave Crawford quando io ero a Stanford?» enunciò lentamente Sam, guardando il fratello negli occhi. Vide chiaramente il tradimento lampeggiare nello sguardo di Dean, lo vide voltare la testa, stringere i pugni, combattere fino allo stremo l’impulso di parlare, ma alla fine la sua voce uscì, roca e graffiata per lo sforzo di oltrepassare la gola serrata.

«Siamo usciti insieme per qualche mese.»

Sam fissò il fratello. Non era la risposta che si aspettava.

«Usciti insieme?» ripeté stupidamente. «Nel senso che…»

«Nell’unico senso che c’è, Sam,» replicò Dean, la voce che tremava dalla rabbia. «Puoi levarti dalle palle, adesso?»

«Sei uscito con un ragazzo per qualche mese? Davvero?»

«Sì! Cristo, Sam, te n’eri andato!» urlò Dean, raddrizzandosi per spingere con furia il fratello. «Mi avevi lasciato da solo, quindi cosa cazzo te ne frega

«Io non –» cominciò Sam, incredulo, ma si interruppe prima di dire non me ne sono andato. Solo perché lui aveva conservato la sua capacità di mentire, non significava che dovesse farlo per forza.

«Sei contento, adesso? Hai risolto l’enigma, puoi levarti dai coglioni?»

«No,» rispose Sam in automatico. «Non sapevo ti piacessero gli uomini.»

Dean lo fissò con aria incredula.

«Seriamente? Sam, forse io e te abbiamo ricordi diversi.»

«Pensavo…» iniziò lui, annaspando alla ricerca delle parole giuste per esprimere il proprio sconcerto.

«Cosa? Pensavi di essere un caso a parte? L’eccezione alla regola?» rise Dean, la rabbia tramutata in cattiveria, in desiderio di usare l’arma della verità a proprio favore. «Beh, Sam, ho una grande notizia da darti: il mondo non gira intorno a te.»

Con una spallata, finalmente riuscì a uscire dal bagno. Afferrò le chiavi della macchina e uscì dal motel sbattendosi la porta alle spalle. Sam rimase lì, come un idiota, riascoltando mentalmente quella conversazione inaspettata.

 

Dean rientrò che ormai era notte fonda. Sam era ancora sveglio, disteso sotto le coperte ma senza riuscire a chiudere occhio.

«Mi dispiace,» disse subito, mettendosi a sedere. «Non avrei dovuto insistere.»

Dean non replicò, entrando in bagno e sbattendo la porta. Per un adulto, Dean ultimamente sbatteva le porte molto di frequente, pensò Sam, rimanendo in silenzio ad ascoltare il rumore dell’acqua che scrosciava nella doccia. Passarono lunghi minuti, e si era quasi assopito quando Dean riaprì la porta.

«Mi serve una mano,» ammise controvoglia.

Sam si ridestò immediatamente, tirandosi a sedere e guardando il fratello appoggiato allo stipite del bagno.

«Arrivo,» disse, chinandosi sul proprio borsone per tirare fuori il loro ben fornito kit di pronto soccorso.

Dean accese la luce della stanza per poi sedersi sul proprio letto con una smorfia e distendere di fronte a sé la gamba destra, un lungo taglio sanguinante che partiva da metà coscia e arrivava fino al ginocchio. Sam lo osservò preoccupato.

«Serviranno dei punti,» annunciò.

«Lo so, Sam, per questo te l’ho detto,» replicò Dean, stizzito, appoggiando la schiena ai cuscini.

Sam non replicò, limitandosi ad estrarre tutto il necessario e ad allungare a Dean due pillole di antidolorifico e un bicchiere d’acqua, che lui mandò giù senza fare storie. Mentre infilava il filo nella cruna dell’ago, Sam arrischiò un’occhiata al fratello. Per un attimo gli mancò il fiato. Stanco, pallido, i lividi delle ombre scure sul volto e sul petto, con i capelli bagnati e addosso solo dei boxer scuri, la testa piegata indietro e gli occhi chiusi, era così bello da lasciarlo senza parole. Sam scosse impercettibilmente la testa, deglutì e tornò a concentrarsi su ciò che doveva fare, appoggiando una mano sulla gamba di Dean e mettendosi al lavoro per ricucirlo con attenzione.

Proseguì in silenzio, meticoloso nel fare punti piccoli e tutti uguali e nell’essere il più rapido possibile per non prolungare inutilmente la sofferenza del fratello.

«Siamo usciti per tre mesi, dopo due anni che tu eri partito,» disse Dean dal nulla, a bassa voce.

Sam sussultò e quasi strappò il filo. Alzò lo sguardo sul fratello, che però non si era mosso e aveva ancora gli occhi chiusi. Cautamente tornò al lavoro, le orecchie tese ad ascoltare, timoroso di interromperlo.

«Io stavo di merda, davvero. Persino papà mi aveva lasciato a cacciare da solo perché non mi sopportava più,» proseguì Dean, amaramente autoironico, e Sam dovette mordersi la lingua per non intervenire. «Ho conosciuto Dave durante una caccia. Gli ho salvato il culo da un wendigo, mi ha offerto da bere e gli ho raccontato tutta la verità, tanto ormai aveva visto quello che si nasconde là fuori. Poi mi ha chiesto di uscire e mi sono detto, perché no. Sicuramente avevo bisogno di una scopata.»

Sam si rese conto di star usando l’ago con troppa forza dalla smorfia di Dean e dallo spasmo dolorante della sua gamba, e si costrinse ad allentare la presa.

«Mi sono accorto tardi che lui voleva di più di una scopata. Ci ho provato per un po’, poi papà mi ha chiamato per un’altra caccia e me ne sono dovuto andare da Gillburg. Quando l’ho salutato mi ha detto che andava tutto bene, che tanto aveva già capito da un pezzo che ero ancora –» Dean si interruppe, per poi correggere la rotta, «che pensavo ancora a qualcun altro.»

Sam terminò l’ultimo punto con la mano che tremava e alzò gli occhi. Dean lo stava guardando con un’espressione indecifrabile.

«Ed era così?» chiese Sam senza poterselo impedire.

Dean abbassò lo sguardo e per un istante Sam immaginò di averci visto un lampo di delusione.

«Sì,» rispose.

Scese il silenzio. La domanda successiva era già sulla punta della lingua di Sam, e sarebbe stato così facile porla. Pochi secondi e avrebbe avuto la risposta, avrebbe saputo con certezza qual era la verità.

Sam realizzò solo in quel momento che non avrebbe potuto fare questo a Dean, che strappargli quel genere di informazione sarebbe stata una vera e propria violenza. Per quanto desiderasse saperlo, non poteva costringere Dean a dirglielo.

«Ho finito,» annunciò. «Andiamo a dormire?»

Dean lo guardò con un’espressione sollevata.

«Sì, ok.»

Sam ripose il kit e si lavò le mani, per poi spegnere la luce e infilarsi sotto alle coperte. Il sonno sembrava svanito, e la domanda che era andato così vicino a porre gli lampeggiava nella mente, inevitabile. E adesso, ci pensi ancora?

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2

 

Dodici giorni andati, sei rimasti, e Sam stava maledicendo mentalmente se stesso per aver insistito a investigare le persone scomparse a Watson, a poche miglia da Pine Grove. L’aveva proposto perché Dean aveva i nervi a fior di pelle da giorni, a malapena gli rivolgeva la parola, e anche lui stesso sentiva il bisogno di sfogare la tensione accumulata. Questo, però, forse non era il metodo più appropriato.

Il sensitivo diventato serial killer che li aveva imprigionati nella propria cantina aveva infatti capito immediatamente il loro piccolo problema.

«Hai un’aura lilla,» aveva annunciato allegramente, guardando Dean. «Hai fatto arrabbiare una strega, eh?»

Dopodiché, aveva cominciato a giocare con lui come un gatto con il topo, approfittando del fatto che sia lui che Sam fossero legati saldamente a due sedie e non potessero muovere un dito.

Chi siete? Cosa ci fate qui? Da dove venite? Come mi avete trovato? Avete armi nascoste? Come pensavate di uccidermi?

E Dean, naturalmente, aveva dovuto rispondere con dolorosa sincerità a ogni singola domanda, mentre Sam assisteva impotente allo spettacolo. Superate le formalità, lo psicopatico di turno aveva deciso di divertirsi un po’.

«Mm, vediamo… Dean, qual è stato il giorno peggiore della tua vita?» domandò, facendo roteare tra le dita un lungo coltello sporco di sangue.

Sam avrebbe voluto coprirsi le orecchie, ma non aveva potuto fare altro che evitare lo sguardo del fratello e fingere di non aver sentito la risposta:

«Il giorno in cui Sam è partito per Stanford.»

«Uh, interessante!»

Dean guardò Sam con aria implorante, come a chiedergli di trovare un modo per zittirlo. Sam si strinse nelle spalle, impossibilitato a fare qualunque cosa: essendo legato alla sedia, non poteva neanche dare un colpo in testa al fratello per metterlo KO ed evitargli perlomeno l’umiliazione. L’unica cosa positiva era che Dean non sapeva della lametta che Sam aveva nella manica della camicia, con la quale stava lentamente lavorando per liberarsi, e quindi non aveva potuto dire nulla al riguardo al loro carceriere. Però si trattava di un lavoro lungo e impegnativo, che avrebbe richiesto molti minuti per essere portato a termine, anche se l’attenzione dello psicopatico era concentrata su Dean.

«E com’era la vita dopo che Sammy è partito?»

Sam avrebbe voluto chiudere gli occhi e fingere che non stesse succedendo nulla, ma si limitò a continuare il lento lavoro di tagliare le corde e a fissare il rapitore per assicurarsi di non essere scoperto.

«Uno schifo. Io e papà non ci siamo praticamente rivolti la parola per sei mesi. Ho cacciato da solo per la prima volta e poi sono andato da Sam e non avrei dovuto, non me ne fregava nulla di fare attenzione e ho rischiato di essere ammazzato e papà mi ha urlato contro e se n’è andato per i fatti suoi e quando mi sono rimesso in piedi sono tornato di nuovo a Stanford e–» Dean si bloccò dopo aver parlato così velocemente da perdere il fiato e si morse il labbro con violenza.

«Sei tornato a Stanford, eh?» lo istigò il sensitivo, accovacciandosi davanti a lui e sfiorandogli il volto con il coltellaccio che teneva in mano. Dean si tirò indietro bruscamente per quanto gli era possibile, cercando di evitare il contatto. «Per fare visita al tuo fratellino?»

Sam si ostinò a non guardare il fratello, la gola chiusa dall’angoscia e un senso di colpa che gli vibrava nella mente, perché una parte di lui era morbosamente avida di informazioni e voleva sapere di cosa Dean stesse parlando. Lui ricordava con chiarezza solo un’occasione in cui Dean gli aveva fatto visita, e poi era sparito del tutto.

«Sono andato a trovarlo, ma non mi sono fatto vedere.»

«No no, Dean, questo non va bene. Stai tralasciando qualcosa di importante.» La lama del coltello stavolta penetrò la pelle, lasciando una sottile scia di sangue dalla tempia allo zigomo. Dean strinse i denti e cercò di allontanarsi, ma il sensitivo lo afferrò per i capelli e lo tenne fermo. «Dimmi perché non ti sei fatto vedere.»

Sam continuò a limare le corde laboriosamente, il cuore che batteva più rapido del normale, desiderando dire qualcosa – qualunque cosa – per distrarre l’attenzione da Dean e dalla lenta tortura che stava subendo, ma sapendo di essere l’unica possibilità di concluderla in tempi brevi.

«Era con una ragazza,» disse Dean, la voce strozzata per essere costretta a uscire contro la sua volontà. «Con Jess. Sembrava… felice, e non volevo intromettermi.»

«Perché mai pensavi che farti vedere avrebbe significato intromettersi, Dean?» cantilenò il cattivo, mentre la lama proseguiva il suo percorso, tagliando una linea continua dal lato del collo di Dean al suo petto, strappando la t-shirt al suo passaggio. Dean fece una smorfia di dolore.

«Perché ero il motivo per cui se n’era andato,» rispose.

Sam sussultò e rischiò di farsi scivolare la lametta dalle dita già intorpidite.

«Non è vero,» protestò senza poterselo impedire.

Lo psicopatico si voltò di scatto verso di lui, come se si fosse appena ricordato della sua presenza. Sam imprecò mentalmente e si affrettò a far risalire la lametta nella manica, lasciando il lavoro incompiuto.

«Non è vero,» ripeté comunque, cercando lo sguardo di Dean senza successo, mentre questi teneva la testa ostinatamente voltata dall’altra parte. «Non me ne sono andato per colpa tua.»

«Perché lo pensavi, Dean-o?»

Sentire quel pazzo usare un nomignolo affettuoso che gli ricordava papà provocò a Sam un’ondata di nausea.

Dean emise un suono spezzato e Sam vide distintamente una goccia di sangue scivolargli sul mento per la forza con la quale si era morso il labbro per non rispondere. Doveva essere la domanda giusta, quella a cui a tutti i costi non aveva voluto rispondere. Approfittando del fatto che il carceriere fosse nuovamente concentrato su Dean, Sam si prodigò per continuare a segare le corde, e con un fremito di sollievo si accorse che erano finalmente vicine a cedere.

«Perché… perché…» Dean stava annaspando, e Sam non aveva bisogno di guardarlo per sapere che il pazzo stava di nuovo usando il coltello su di lui, ma non poteva voltarsi, doveva finire il lavoro e doveva finirlo subito. «Perché quello che stavamo facendo non era normale e lui voleva scappare e aveva ragione, ed era tutta colpa mia.»

Sam sentì una violenta stretta allo stomaco, perché non era possibile che Dean avesse pronunciato quelle parole, e anche se lo aveva fatto non poteva pensarlo davvero. Non poteva veramente essere convinto di essere stato lui la ragione per cui…

«E cosa stavate facendo esattamente?»

Dean emise un singhiozzo strozzato che diede a Sam la spinta finale per riuscire finalmente a recidere gli ultimi filamenti della corda che gli stringeva i polsi. Con uno scatto si liberò e si mise in piedi, per poi gettarsi senza esitazione sul sensitivo, che si era voltato con gli occhi sgranati, coltello alla mano. Per quanto potesse essere esperto, però, non aveva alcuna possibilità contro un Winchester inferocito.

Sam lo disarmò in una sola mossa e non ebbe alcuna esitazione nell’atterrarlo e usare il suo stesso coltello per trafiggergli il petto, lasciandolo in pochi secondi a terra senza vita.

Si voltò subito dopo verso il fratello, che era rimasto immobile, gli occhi serrati e il respiro accelerato, il sangue che gocciolava dai numerosi tagli e il labbro gonfio per i troppi tentativi di impedirsi di parlare.

«Dean,» mormorò, e recuperò uno dei coltelli che gli erano stati sottratti per liberarlo. «Stai bene?»

Troppo tardi si rese conto di aver di nuovo posto una domanda che l’avrebbe costretto a rispondere sinceramente.

«No,» rispose Dean con la voce rotta. «Possiamo andarcene da qui?»

 

Un’ora dopo, erano tornati nella solita stanza del motel di Pine Grove, ormai familiare come una casa d’infanzia, e Dean si era chiuso in bagno con la scusa di una doccia, negando bruscamente di aver bisogno dell’aiuto di Sam per medicare le ferite.

Era stato un viaggio silenzioso in maniera imbarazzante, e Dean aveva messo a tacere il fratello con un’occhiataccia ogni volta che aveva provato ad aprire bocca. Sam aveva la mente in tumulto, ogni singola parola che Dean era stato costretto a pronunciare che gli risuonava in testa ripetutamente.

Quando Dean aprì la porta, Sam lo osservò in silenzio mentre si lasciava cadere sul letto libero, e non poté impedirsi di dire:

«Non sei tu il motivo per cui me ne sono andato.»

Dean chiuse gli occhi.

«Sam, non ne voglio parlare.»

«Io sì.»

«Vuoi costringermi anche tu a rivelarti cose che non voglio dire?»

«No, voglio solo mettere le cose in chiaro.»

«Le cose sono già abbastanza chiare così.»

«Non me ne sono andato per colpa tua, Dean.»

Dean si alzò di scatto e andò verso la porta, per poi rendersi probabilmente conto di essere svestito e che era notte fonda e limitarsi a spegnere con più forza del necessario la luce della stanza.

«Voglio andare a dormire.»

«Me ne sono andato perché avevo bisogno di cambiare aria, e perché il nostro stile di vita mi stava facendo impazzire.»

«E quindi? Che differenza fa?» ribatté Dean, la sua voce che giungeva bassa dalla penombra della stanza.

«Volevo allontanarmi da papà e della caccia, non da te.»

«Pensavo volessi una vita normale

«Infatti.»

«E nella tua concezione di normale è incluso scopare con tuo fratello, Sam?»

Le parole di Dean, così fredde e crude, riecheggiarono per un momento nel silenzio della stanza. Sam prese fiato, senza credere che Dean l’avesse detto davvero. Se c’era una cosa di cui non parlavano mai – specialmente da quando avevano ripreso a cacciare insieme – era proprio questa. Dean prese il suo silenzio come una risposta e rise amaramente.

«Come pensavo.»

«Dean…»

«Andiamo a dormire. Domani dobbiamo iniziare a preparare l’incantesimo.»

Sam, senza sapere come continuare la conversazione, annuì in silenzio.

 

Se avesse dovuto indicare il momento esatto in cui era iniziato tutto, Sam non ne sarebbe stato capace. Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare un momento della sua prima adolescenza in cui il suo rapporto con Dean non fosse stato diverso.

E non sapeva neanche dire in quale momento l’affetto fraterno che provava per lui fosse diventato quella cosa strana, sbagliata, ingestibile che lo divorava costantemente ancora adesso, un decennio più tardi.

Non aveva potuto farci nulla: innumerevoli docce fredde, tentativi di concentrarsi sulle compagne di classe più carine, discorsi dispregiativi con se stesso erano stati inutili.

E Dean… beh, Dean sicuramente non l’aveva aiutato in quel senso. La prima volta in cui aveva baciato una ragazza, Dean – che aveva dodici anni – era rientrato nell’appartamento che li ospitava temporaneamente e si era lasciato cadere sulla sedia di fronte alla sua. Sam aveva sollevato lo sguardo dai compiti che stava facendo e l’aveva guardato con aria interrogativa.

«Sammy, non hai idea. Ho baciato Sarah Paulson.»

Sam aveva lasciato cadere la penna e aveva preteso il racconto dettagliato dell’impresa, che Dean non aveva mancato di descrivergli il più precisamente possibile, mentre lui ascoltava a metà tra l’ammirato e il disgustato.

Era stato l’inizio di una tradizione: tutte le prime volte (e spesso anche quelle successive) di Dean erano state accompagnate da racconti precisi dell’accaduto, spesso bisbigliati nel buio dopo che John era andato a dormire. Sam non sapeva esattamente in quale momento quei racconti erano passati da confidenza fraterna a motivo di gelosia, ma sapeva con certezza che quando Dean, poco più che sedicenne, gli aveva confidato di aver fatto per la prima volta l’amore con una ragazza (e quello non era affatto il termine che aveva usato), Sam aveva ascoltato tutto il resoconto con una strana sensazione che gli annodava lo stomaco, per poi chiudersi in bagno e scivolare con la schiena contro la porta, una frustrazione enorme che lo travolgeva, indeciso se piangere di gelosia o entrare nella doccia e farsi una doccia ghiacciata per scacciare il calore che lo aveva assalito.

E poi… poi era stato il suo turno, ed era cambiato tutto. Perché Sam sicuramente c’era arrivato più tardi rispetto al fratello, ma c’era arrivato con stile (e con una certa dose di disperazione, perché doveva dimostrare che poteva essere normale anche lui, grazie tante). Una sera, quando Sam aveva quattordici anni, era rientrato nella roulotte che era la loro casa in quel momento, si era lanciato sul divanetto accanto a Dean e aveva rivelato:

«Dean… sono appena tornato da casa di Cindy.»

Aveva iniziato a raccontargli del suo primo bacio, e di come al primo ne fosse seguito subito un secondo, e di come Cindy gli avesse spinto la mano sotto alla gonna e come fossero stati costretti a fare assolutamente silenzio perché i suoi genitori stavano guardando la televisione al piano di sotto e…

Sam aveva notato lo sguardo infuriato di Dean e la cascata di parole si era arrestata. Era sceso il silenzio, si erano guardati.

«Avete fatto sesso?» gli aveva chiesto Dean, la voce più roca del solito.

Sam aveva deglutito.

«Uhm. No.»

Le spalle di Dean si erano abbassate di un millimetro, forse per il sollievo, forse per qualche altro motivo incomprensibile.

«Bene,» aveva sentenziato, per poi alzarsi e andarsene dalla roulotte.

Sam era rimasto lì, immobile, senza riuscire a dare un senso a ciò che era appena successo. Ci aveva pensato e ripensato, cercando di intuire dove potesse aver sbagliato, cosa ci fosse di diverso tra il suo racconto e tutti quelli che Dean gli aveva sottoposto negli anni. Aveva continuato a pensarci anche dopo che Dean era tornato, quella notte, così ubriaco da non riuscire a infilare la chiave nella serratura, e anche quando Cindy gli aveva chiesto di nuovo di uscire, il giorno seguente, e lui le aveva detto di no senza neanche riflettere.

Ci aveva pensato così tanto che quando quella sera era arrivato a casa dopo la scuola e aveva visto Dean con solo un asciugamano in vita, i capelli bagnati, appena uscito dalla doccia, gli si era piazzato davanti, lo aveva guardato per un momento e poi lo aveva baciato.

Il resto era storia. Dean era impazzito, l’aveva cacciato via e gli aveva imposto di non farlo mai più, e i suoi buoni propositi erano durati fino all’appuntamento successivo di Sam, qualche settimana più tardi, dopo il quale Dean aveva forzatamente rimosso ogni residuo del sapore alla fragola del lucidalabbra della ragazza e lo aveva messo schiena al muro, una mano a tenergli fermi i polsi, per poi ricordargli esattamente a chi appartenesse.

La vita, da quel momento in poi, in realtà non era cambiata così tanto. Avevano continuato a comportarsi da fratelli, a spintonarsi e a battibeccare per delle sciocchezze, a guardare film horror commentando quanto i mostri fossero poco credibili, a discutere su chi fosse il personaggio migliore del Signore degli Anelli (per Sam era evidentemente Gandalf, per Dean era Aragorn). Ma oltre a questo, adesso c’erano sessioni improvvisate di baci durante un bagno estivo al lago; abbracci nascosti quando papà usciva, accompagnati dall’adrenalina e dal terrore di poter essere scoperti; c’erano le notti sotto alle coperte quando finalmente sapevano di essere soli per qualche settimana.

Il problema non era mai stato Dean. Il problema era tutto il resto: John e la sua testardaggine, il regime militare a cui li sottoponeva, la caccia, la vita in continuo movimento, il terrore quando Dean partiva con il padre per una caccia e tornava ferito e zoppicante. Sam si sentiva sempre più fuori luogo, guardava i suoi compagni di classe nelle varie scuole che attraversava pianificare il proprio futuro in maniera così naturale: il college, la specializzazione, un lavoro, una casa, una famiglia.

Sam era tormentato: da una parte la vita normale che aveva sempre desiderato; dall’altra Dean, che era tutto ciò che aveva e l’unica persona che contava davvero.

Quando aveva mandato la domanda di iscrizione a Stanford, Sam non credeva neanche che gli avrebbero risposto. Aveva sempre avuto ottimi voti, questo era vero; ma aveva cambiato decine di scuole e gli unici insegnanti che gli avevano scritto una lettera di raccomandazione lo conoscevano sì e no da sei settimane. Per questo non l’aveva detto a Dean – o almeno questo si era raccontato: inutile parlargliene quando con ogni probabilità non se ne sarebbe fatto nulla.

Tranne che poi era arrivata la risposta: ammissione con borsa di studio completa. Inizio della settimana di orientamento il primo lunedì di settembre.

Era giugno e Sam aveva in mano il suo biglietto per scappare. Peccato che Dean non ne avesse idea e continuasse a sorridergli come se niente fosse, a proporre piani per il futuro – appena avrai preso il diploma partiremo con l’Impala, Sammy, solo io e te, a cacciare e a fare tutto quello che vogliamo, insieme – senza sapere che avevano i giorni contati.

Perché Sam aveva pensato di non accettare, ma la furia gli cresceva dentro ogni volta che discuteva con papà e che Dean prendeva le parti di John; e lo stesso faceva il suo odio per tutto ciò che riguardava il sangue, la caccia, le armi, quella vita che non aveva scelto e che lo aveva marchiato per sempre. Non poteva restare.

Ricordava come se fosse ieri l’ultima notte che avevano passato insieme. Lui sapeva già che se ne sarebbe andato l’indomani, mentre Dean era ancora all’oscuro di tutto. Con la coscienza pesante, Sam aveva lasciato che il proprio egoismo prendesse il sopravvento e aveva trascinato Dean nel letto con sé per un’ultima volta. John era nella stanza accanto, quindi avevano fatto l’amore in assoluto silenzio, spegnendo ogni gemito sulle labbra dell’altro, e Dean aveva sorriso, guardandolo con una devozione totale, e Sam si era sentito la persona peggiore del mondo per non aver saputo essere una persona adulta, per non aver detto la verità a Dean fin da subito.

Quando Sam aveva finalmente trovato il coraggio di annunciare la propria imminente partenza, il giorno seguente, Dean era impallidito e aveva dovuto sedersi. Papà aveva protestato, aveva urlato, gli aveva intimato Se esci da quella porta non tornare mai più, e Sam aveva fatto esattamente quello, la furia che lo invadeva senza lasciare spazio ad alcun pensiero razionale.

Quando aveva afferrato il suo borsone per andarsene, Dean lo aveva fermato e gli aveva detto che lo avrebbe accompagnato almeno fino alla stazione degli autobus. Papà gli aveva urlato dietro qualcosa, ma Dean, per una volta, non l’aveva ascoltato. Il tragitto nell’Impala era stato mortalmente silenzioso, e quando Dean lo aveva lasciato alla fermata, gli aveva messo in mano una busta piena di soldi e aveva ignorato ogni suo tentativo di protestare.

Prenditi cura di te, Sammy.

 

Quelle parole gli erano risuonate nella mente per mesi, a Stanford. Ogni volta che faticava a prendere sonno nella stanza del dormitorio, con il suo coinquilino che russava e si rigirava e che non era Dean, Sam pensava al fratello e si chiedeva cosa stesse facendo. Lo immaginava insieme a papà, nel mezzo di una caccia, impavido e spensierato come sempre, oppure intento a conquistare la popolazione femminile di tutti i paesi che attraversava (e Sam ignorava sempre la fitta allo stomaco che gli provocava quel pensiero in particolare), o sereno alla guida dell’Impala, con i Led Zeppelin sparati al massimo e i finestrini abbassati.

Non aveva mai pensato che la situazione potesse essere diversa. Certo, supponeva che Dean sentisse la sua mancanza – e un po’ ci sperava – ma non credeva che la sentisse allo stesso modo in cui la percepiva lui: un vuoto costante e incolmabile, un pensiero fisso. Un continuo domandarsi se avesse fatto la scelta giusta a lasciarsi alle spalle l’unica persona che lo avesse mai capito.

Far coincidere quelle supposizioni con tutte le informazioni che Dean gli aveva fornito nelle ultime settimane, più o meno volontariamente, era difficile. Sam aveva a questo punto un’immagine abbastanza chiara dello stato di devastazione che il fratello doveva aver attraversato in quel periodo: Dean chiuso nel suo silenzio ostinato e John infuriato, il nome di Sam eliminato da qualunque conversazione.

In quei mesi, Sam aveva scritto dei messaggi al fratello più o meno regolarmente. Gli aveva fatto sapere il proprio indirizzo, in caso volessi passare da queste parti, com’era il suo coinquilino, come andavano le lezioni. Dean gli rispondeva raramente, ma quando lo faceva l’intera giornata di Sam sembrava illuminarsi.

Una volta, Sam gli aveva anche telefonato. Certo, era piena notte ed era completamente ubriaco dopo una festa, ma aveva preso in mano il telefono e lo aveva chiamato. Non ricordava molto di quella conversazione: era abbastanza certo di aver biascicato qualcosa di imbarazzante tipo Mi manchi e Non ce la faccio più e Ti prego, e Dean doveva averlo ascoltato in silenzio, per poi parlargli a bassa voce di cose stupide, come il fatto che si era rotta una delle sue musicassette dei Metallica, o che quel giorno aveva attraversato tre stati diversi, o che aveva acceso la TV e aveva trovato una replica di quel cartone animato con cui Sam era ossessionato quando aveva cinque anni, e Sam si era addormentato stringendo a sé il telefono.

Dopo quella chiamata, Sam era sparito per un po’, imbarazzato dalle rivelazioni che gli erano sfuggite. Poi, una sera, mentre era intento a studiare, qualcuno aveva bussato alla porta. Sam aveva aperto, pensando che fosse qualche compagno di corso passato per chiedergli gli appunti, ed era rimasto senza fiato quando si era trovato davanti il fratello, pallido come la morte e che a malapena si reggeva in piedi.

«Dean,» aveva mormorato, incredulo.

«Ciao, Sammy,» aveva risposto lui, per poi accasciarsi prontamente in ginocchio sull’uscio dell’appartamento.

«Dean!»

Sam si era affrettato a portare il fratello dentro casa fino al bagno, un po’ trascinandolo e un po’ convincendolo a collaborare. Improvvisamente si era sentito seriamente grato che il suo coinquilino non fosse a casa quella notte.

«Cos’è successo?» gli aveva chiesto, la voce piena di ansia.

«Un lum… un lu’cntropo,» aveva bofonchiato Dean.

«Un licantropo? Dimmi che non ti ha morso, ti prego.» Sam sfilò la camicia e la maglietta dal corpo quasi inerme del fratello.

«No, no, solo… solo ‘ffiato.»

«Non mi sembra proprio un graffio,» aveva mormorato Sam, ispezionando i quattro tagli paralleli che correvano lungo le costole di Dean e sanguinavano abbondantemente.

«Non… niente ‘spedale, S’mmy.»

«No, ok, Dean, tranquillo. Niente ospedale.»

Sam aveva medicato e ricucito tutte e quattro le ferite, mentre Dean scivolava nell’incoscienza e si risvegliava ripetutamente; gli aveva dato una dose potente di antidolorifico e l’aveva portato di peso sul proprio letto.

«Scusa, S’mmy. Non sapevo… andare,» bisbigliò Dean quando appoggiò la testa sul cuscino.

«Shh, non ti scusare. Dormi, vedrai che domani andrà meglio.»

Dean aveva ancora detto qualcosa di incomprensibile a mezza voce, per poi scivolare nel sonno. Sam era rimasto sveglio quasi tutta la notte, su una sedia accanto al letto, tormentandosi le mani e fissando il fratello come se fosse un fantasma. E in un certo senso lo era, un’impronta della sua vita passata che dopo quasi un anno di assenza era ricomparsa dal nulla. Tuttavia, rifletteva Sam mentre guardava la sua pelle bianca, le lentiggini che risaltavano su di essa più nettamente del solito, Dean non era affatto un fantasma. Era vivo e vegeto e sanguinante, e aveva deciso di venire da lui.

Alla fine Sam era crollato, ancora seduto ma con la testa appoggiata al letto, in una posizione scomodissima; e all’alba Dean aveva socchiuso gli occhi e lo aveva tirato con sé sotto le coperte. Sam non se n’era quasi accorto, rannicchiandosi d’istinto sul fianco sano del fratello, la testa sulla sua spalla, e aveva dormito bene come non faceva da mesi.

Al mattino, Sam si era svegliato e aveva trovato il letto vuoto e un bigliettino sulla propria scrivania. Grazie, Sammy. Ho una caccia da finire. Scusa per l’improvvisata. – D.

Sam lo aveva chiamato una volta, poi due; alla terza aveva permesso che le lacrime gli scorressero sul volto e che tutte le emozioni che aveva cercato di sopprimere uscissero allo scoperto.

Poi aveva rimesso insieme i cocci. Aveva smesso di scrivere a Dean, smesso di aspettare che si facesse vivo lui, smesso di pensarci (per quanto possibile) e si era concentrato sullo studio.

Un paio di mesi dopo aveva conosciuto Jess, e il vuoto che aveva dentro, se non si era colmato, era diventato più facile da dimenticare. Le vecchie abitudini erano state messe da parte, una nuova routine era entrata in gioco, la normalità a cui aveva tanto aspirato.

Dean, nel frattempo (lo sapeva adesso, ma allora non ne aveva idea) aveva rischiato di morire in una caccia comportandosi in maniera troppo avventata, per poi essere abbandonato da John in un paesino del Mississippi con l’avvertimento di darsi una regolata e mettere la testa a posto, o qualcosa del genere. E aveva conosciuto Dave.

Sam non avrebbe saputo dire perché, ma immaginare Dean con questo ragazzo a cui non poteva associare un volto era molto peggio di pensarlo con una sfilza di ragazze carine conosciute nei bar di mezza America. Dean aveva detto che erano usciti insieme, e quel termine faceva pensare Sam ad appuntamenti al ristorante, a serate passate sul divano con una pizza e un film, a mattine pigre in cui ci si svegliava insieme e si faceva l’amore dimenticandosi degli impegni della giornata. Cose che appartenevano a lui e a Jess; forse perfino a lui e a Dean, per certi versi, ma sicuramente non a Dean e allo stramaledetto Dave.

Poi John era tornato e Dean aveva dovuto salutare anche quello stralcio di normalità, e Sam non ne era affatto felice pensandoci adesso… no, neanche un po’.  Soprattutto perché Dean aveva ammesso che in quel periodo “pensava ancora a qualcun altro”.

Dean aveva ripreso a cacciare, e intanto Sam aveva cambiato vita, finalmente, e aveva capito di essere cresciuto, di essersi lasciato alle spalle la relazione che fino a quel momento era stata la più importante per lui, ma che sapeva, razionalmente e grazie al crescente distacco, essere sbagliata. Il cambiamento non porta sempre crescita, ma non c’è crescita senza cambiamento. La sua vita adesso era perfetta, almeno all’apparenza, e Sam non sentiva la mancanza di Dean, davvero, e se lo faceva non lo avrebbe mai ammesso perché adesso aveva Jess, adesso era felice…

Finché Dean non era ricomparso, facendo irruzione nel suo appartamento in piena notte, e aveva stravolto la vita che Sam aveva faticosamente costruito. Che era andata in fumo insieme alla sua casa, insieme a Jess, pochi giorni più tardi.

Insieme ad ogni speranza che Sam avesse mai avuto di poter veramente cambiare.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3

 

Mancavano due giorni al momento in cui finalmente avrebbero potuto convocare la strega, e Dean aveva avuto una pessima idea.

«È davvero una pessima idea,» reiterò Sam, fermandosi davanti alla porta del bar.

«L’hai già detto, Sammy,» replicò allegramente Dean. «Nessuno ti obbligava a venire.»

«Lasciarti andare da solo sarebbe stata un’idea ancora peggiore,» sospirò Sam, e aprì la porta.

Si sistemarono a un tavolo e ordinarono due birre, studiando la situazione in silenzio. Ai tavoli da biliardo, un gruppetto di ragazzi in età da college giocava e rideva rumorosamente; accanto a loro, dei biker grossi e tatuati facevano lo stesso, ma con meno baccano.

«Prede facili,» annunciò Dean a bassa voce.

«Dean, lascia che vada io,» lo supplicò Sam.

«Ti prego, non voglio perdere gli ultimi cinquanta dollari che ci sono rimasti.»

«Sono almeno bravo quanto te.»

«Sei fuori allenamento,» lo contraddisse Dean.

«Dì che non è vero che sono altrettanto bravo,» lo sfidò Sam con un sogghigno.

Dean aprì la bocca, ma non ne uscì nulla. Irritato, alzò il braccio per ordinare qualcosa di più pesante e iniziare il proprio gioco.

Tre whiskey più tardi, la maggior parte dei quali aveva finito per bere Sam, Dean si alzò in piedi.

«Dean, davvero, lascia perdere. Non abbiamo così tanto bisogno di soldi.»

«Il motel non si paga da solo, Sammy,» replicò lui, lanciandogli un occhiolino prima di avviarsi verso i tavoli da biliardo con un’andatura da ubriaco evidentemente falsa – almeno all’occhio allenato di Sam.

Ovviamente, siccome suo fratello sapeva essere la persona più testarda dell’universo, Dean non raggiunse i ragazzi del college, ma i motociclisti.

Fottuto idiota, pensò Sam, osservando la situazione da lontano.

Nonostante la sua diffidenza, Sam non poté evitare di notare che Dean era molto più silenzioso del solito e non aveva praticamente aperto bocca dopo l’iniziale Ehi, volete fare una partita? Evidentemente l’esperienza recente con il sensitivo pazzo gli aveva insegnato che la maledizione non andava sottovalutata.

La strategia stava funzionando bene, Dean aveva perso una notevole quantità di denaro, e Sam – in una mossa ripetuta innumerevoli volte negli anni, da ben prima di avere una vera carta d’identità che attestasse la sua maggiore età – si alzò per dare corda al fratello quando questi mise sul tavolo tutti i soldi che gli erano rimasti.

«Tutto o niente,» disse Dean, assicurandosi di biascicare quel tanto che bastava da risultare credibile.

«Dean, basta così. Hai bevuto troppo,» intervenne Sam.

«Non puoi dirmi cosa devo fare, Sammy,» rispose automaticamente Dean.

«Già, Sammy, non puoi dirgli cosa deve fare,» gli fece eco in tono canzonatorio uno dei bikers.

«Lascialo fare, Sammy,» aggiunse ridendo l’uomo che stava giocando in quel momento, un tizio basso e pelato, pieno di tatuaggi.

«Come vuoi, sono i tuoi soldi,» si arrese facilmente Sam, alzando le mani.

Non appena tutti i soldi furono sul tavolo – ed era davvero un bel gruzzoletto – Dean sembrò trasformarsi: abbandonò l’atteggiamento da ubriaco per concentrarsi sul gioco e mise a segno un colpo dopo l’altro.

Sam si concesse di osservare il fratello all’opera. Rapido, capace, Dean era precisamente nel suo ambiente. Involontariamente, a Sam venne in mente la sera in cui Dean gli aveva insegnato a giocare a biliardo. Sam era ancora troppo giovane anche per una carta d’identità falsa, ma il motel in cui papà li aveva lasciati per qualche settimana aveva una saletta con un tavolo e delle stecche, ed era sempre deserta.

Sam ricordava come se fosse successo ieri quanto gli fosse sembrato grande Dean, coì esperto nel mettere in buca una palla dopo l’altra. E poi si era piazzato dietro di lui e gli aveva fatto vedere come impugnare la stecca, e Sam aveva sentito una cascata di brividi scivolargli lungo la schiena nel percepire il respiro del fratello sul collo, le sue mani sulle proprie, il petto contro la sua schiena…

«Ci hai presi per il culo, stronzo?» ringhiò il biker tatuato, e Sam tornò bruscamente alla realtà.

«Sì,» rispose genuinamente Dean.

 

Dieci minuti più tardi, i fratelli erano nell’Impala e ridevano senza riuscire a smettere.

«Oh, Dio, le loro facce,» esalò Sam, le lacrime agli occhi.

«I duecento dollari meglio guadagnati della storia,» esultò Dean, sventolando le banconote stropicciate.

«Abbiamo rischiato di essere linciati, ma ne è valsa la pena.»

«Oh, ti prego. Non avevano speranze contro i fratelli Winchester.» Dean si voltò verso Sam e aggrottò la fronte. «Ti ha colpito,» disse.

Sam alzò istintivamente una mano verso il proprio sopracciglio, dove uno dei motociclisti era riuscito a far atterrare un pugno maldestro che Sam non aveva schivato solo perché nel frattempo ne stava tirando uno lui, ed erano pur sempre sei contro due.

«Non è niente,» cominciò, interrompendosi quando Dean spostò la sua mano per metterci la propria.

Sam batté le palpebre e trattenne il fiato quando le dita di Dean passarono dal sopracciglio alla sua guancia e si fermarono lì. In un istante, sentì tutto l’alcol che aveva bevuto quella sera andargli alla testa e offuscargli la vista. Alzò gli occhi e incontrò quelli di Dean, incerti, sospesi in quel momento, appena prima del salto.

«È passato così tanto tempo, Sammy,» mormorò Dean.

Sam si immobilizzò, senza respirare e incapace di rispondere, e quando Dean si avvicinò cautamente, i suoi occhi si chiusero spontaneamente. La sensazione delle labbra che premevano contro le proprie fu… come tornare a casa. Un misto di familiarità, calore e senso di giusto che fecero domandare a Sam, fugacemente, come avesse fatto a vivere senza per più di quattro anni.

Rispose al bacio e scivolò più vicino a Dean, una mano che d’istinto andava a stringere la sua nuca, l’altra che si appoggiava sul suo fianco, le dita che si intrufolavano sotto alla maglietta per sentire la pelle a contatto con la propria. Sentì Dean rabbrividire e stringerlo ancora di più a sé, mentre un bacio diventavano due, e tre, e –

Il trillo allegro di un cellulare li congelò entrambi. Sam riaprì gli occhi; Dean esalò un respirò tremante e appoggiò la fronte a quella di Sam per un momento.

Al terzo squillo, si riattivò ed estrasse dalla tasca il telefono.

Sam vide il colore defluire dalle guance del fratello, che fece per premere il tasto verde ma sembrò ripensarci all’ultimo momento, uno sguardo di panico negli occhi.

«Rispondi tu,» disse, spingendogli in mano il cellulare.

Sam lo guardò con aria interrogativa, per poi soffermarsi sul nome che lampeggiava sullo schermo. Papà.

Oh.

Sam deglutì e rispose.

 

«Dean, devi davvero darti una calmata,» ringhiò Sam, guardando il fratello che camminava avanti e indietro per la stanza.

«Vaffanculo,» rispose Dean in automatico, ma si fermò e si sedette su uno dei due letti.

«È solo papà,» insistette Sam, cercando di essere ragionevole.

«Lo so.»

«E vuole darci una mano a risolvere questo casino.»

«Lo so.»

«Non hai motivo di essere nervoso.»

«Sono nervoso solo perché non chiudi quella dannata bocca, Sam,» scattò Dean.

Scese il silenzio per un paio di minuti. Sam guardò l’ora: John sarebbe stato lì a momenti. Un controllo di routine si era trasformato in un’offerta di aiutarli, visto che aveva appena concluso una caccia e che il demone dagli occhi gialli non aveva più alzato la testa né dato alcun segno della propria presenza nelle ultime settimane.

«Sam, se mi chiedesse…» cominciò Dean all’improvviso, per poi tacere di nuovo.

Sam alzò gli occhi e li posò sul fratello, che stava tamburellando nervosamente le dita sul proprio ginocchio.

«Non ha alcun motivo di chiederti nulla, Dean,» rispose Sam, cercando di mostrare almeno lui la calma che il fratello sembrava aver perso. «Non penso abbia mai avuto sospetti, no?»

Sam cercò di ricordare l’atteggiamento del padre nel periodo in cui lui e Dean avevano veramente avuto qualcosa da nascondergli, ma era tutto molto confuso. Di quei due o tre anni ricordava fondamentalmente solo Dean, e tutte le interazioni che aveva chiare in mente con John avevano incluso litigate furiose e porte sbattute.

«Non lo so,» rispose Dean a bassa voce.

«Dean, ti prometto che se dovesse fare delle domande scomode per qualunque motivo ci penserò io a cambiare argomento, ok?»

Dean non sembrava convinto, ma in quel momento qualcuno bussò con forza alla porta della stanza, e lui respirò a fondo.

«Ok,» rispose, alzandosi in piedi con decisione. «Facciamo questa cosa.»

 

«Ciao, ragazzi,» disse John con un sorriso quando Sam aprì la porta.

«Ciao, papà,» rispose Sam, e fece un passo avanti per abbracciarlo.

John li strinse entrambi e poi si chiuse la porta alle spalle. Sam studiò il viso scavato del padre. Non lo vedeva da qualche settimana, e sapeva soltanto che era sempre più immerso nella caccia al demone dagli occhi gialli, alla quale non voleva assolutamente che i figli si avvicinassero, ma che ultimamente era giunta a un punto morto.

«Dean, cos’è successo?» chiese John, lasciandosi cadere su una sedia.

Sam sentì un brivido di fastidio nel notare che il padre si rivolgeva direttamente a Dean ed ebbe quasi la tentazione di rispondere, ma si ricordò subito che Dean sarebbe stato costretto a farlo in ogni caso.

«Credo di aver fatto incazzare una strega,» cominciò questi, per poi raccontare per filo e per segno tutti i dettagli.

 

La prima reazione di John, naturalmente, fu quella di fare una ramanzina a Dean per aver provocato la rabbia di una strega, e il figlio la subì in silenzio. La seconda fu quella di testare la portata dell’incantesimo, mentre gli occhi di Dean saettavano verso il fratello alla ricerca disperata di una via di fuga.

«Ci hai davvero messo due settimane a cacciare quel rugaru, l’anno scorso?»

«No, ci ho messo due giorni e ho passato il resto del tempo a casa di una ragazza.»

«Hai imparato a memoria l’esorcismo che ti ho mandato per quel caso a Duluth?»

«No, l’ho dovuto leggere. Papà…»

«È vero che non sei mai stato a trovare Sam a Stanford?»

«Ci sono andato due volte.»

«Papà, credo che basti così,» intervenne fermamente Sam, percependo l’avvicinarsi a un territorio potenzialmente pericoloso.

John spostò lo sguardo sul figlio minore e annuì, un’espressione poco soddisfatta sul volto.

«Il discorso non è chiuso, Dean,» disse severamente. «Ma ora parlatemi di questo incantesimo.»

Dean guardò Sam con malcelata gratitudine mentre quest’ultimo si lanciava in una descrizione dettagliata della procedura che avrebbero dovuto svolgere quella notte. Avevano già radunato tutti gli ingredienti e li avevano dosati e mescolati, ma l’ultimo ingrediente, il sangue della persona che era stata incantata, sarebbe stato aggiunto all’ultimo momento, quando la luna avrebbe raggiunto il punto più alto nel cielo.

«E una volta che avremo convocato la strega, come la convinceremo a spezzare la maledizione?» domandò John, corrugando la fronte.

Seguì un momento di silenzio.

«Le parleremo con grande gentilezza?» suggerì Dean alzando le spalle, per poi abbassare la testa quando il padre lo fulminò con un’occhiataccia.

«Questo è il tipo di leggerezza che potrebbe farvi uccidere,» sbottò John. «Pensavo di avervi addestrati meglio di così.»

«Addestrati?» ripeté Sam, incredulo. «Parli come se fossimo dei fottuti soldati.»

«Sam,» disse Dean in tono d’avvertimento.

«Siamo tutti dei soldati, Sammy,» ribatté John.

«Non chiamarmi Sammy.»

«Andiamo in guerra ogni singolo giorno e non possiamo farlo impreparati,» proseguì John, ignorando la protesta.

«Siamo sopravvissuti abbastanza a lungo senza di te, papà, non ci servono i tuoi consigli.»

«Sam!» ringhiò di nuovo Dean, frapponendosi fisicamente tra lui e John. «Finiscila!»

«Tu sei sopravvissuto nascondendoti in California per quattro anni, Sam. Non è esattamente la stessa cosa.»

«Forse sì, ma hai lasciato Dean a cacciare da solo per tutto questo tempo, quindi evidentemente ti dovevi fidare abbastanza delle sue capacità, oppure semplicemente non te ne fregava un cazzo?» sbottò Sam tutto d’un fiato, la furia che gli faceva perdere il controllo, come gli succedeva sempre quando c’era di mezzo suo padre.

A fermarlo furono le mani del fratello sul petto, che lo spinsero fermamente indietro di due passi.

«Basta così, Sam!»

«Io ero in prima linea con lui, Sam. Tu dov’eri, invece?»

«Basta, tutti e due!» urlò Dean, alzando abbastanza la voce da zittirli entrambi. «Cristo, pensavo che dopo tutto questo tempo fosse in grado di controllarvi, almeno quando c’è il lavoro di mezzo.»

Sia Sam che John tacquero.

«Sammy, vieni con me. Andiamo a prendere le armi in macchina. Papà, sulla scrivania c’è il libro con l’incantesimo, se vuoi dargli un’occhiata.»

Dean spinse Sam verso la porta senza alcuna delicatezza, afferrò le chiavi della macchina e uscì senza guardarsi indietro.

Solo quando furono entrambi nel parcheggio, con le teste dentro al bagagliaio dell’Impala, Sam si azzardò a parlare.

«Scusa, Dean. Hai ragione. È che mi manda fuori di testa, lo sai.»

Dean prese fiato mentre sollevava due fucili diversi e li soppesava nelle mani.

«Lo so, Sam, ma prima o poi dovrai deciderti a crescere e a comportarti da adulto. Sai che papà è fatto così.»

«Sì, lo so.»

«Fammi il favore di controllarti, almeno tu. Dovresti essere il mio alleato in questa cosa, ma se mentre papà mi fa il terzo grado sei troppo impegnato ad essere incazzato con lui, sinceramente non so cosa… Cosa potrebbe uscire fuori.»

Sam alzò lo sguardo e incontrò quello preoccupato del fratello. L’impulso di afferrarlo e baciarlo fino a fargli perdere la testa lo stordì per un secondo, prima di ricordarsi che erano perfettamente visibili dalla finestra della stanza e che John avrebbe potuto tranquillamente chiedere a Dean cosa avessero fatto per tutto quel tempo nel parcheggio. Oh, niente di che. Abbiamo scelto le armi, preso le munizioni e limonato come due ragazzini del liceo.

«Hai ragione,» ammise, e afferrò la propria Glock preferita, controllando che fosse carica con gesti rapidi ed esperti. «Andiamo a spezzare questa fottuta maledizione.»

 

Quella notte, si ritrovarono tutti e tre di fronte alla casa in vendita che era appartenuta ad Agnes Bayes. In silenzio, controllarono tutta la proprietà, accertandosi che fosse deserta come sembrava. Poi Dean manomesse la serratura in pochi secondi e si riunirono nel soggiorno buio.

La luce era stata staccata, perciò Sam accese le candele che si erano procurati per il rito e le posizionò intorno all’elaborato disegno che John stava copiando con un gesso sul pavimento in legno opaco. Era una trappola che, a quanto sosteneva il più esperto tra i Winchester, avrebbe dovuto trattenere la strega e ridurre i suoi poteri.

«Ok, ci siamo,» annunciò Dean, guardando fuori dalla finestra. «La luna è alta, possiamo cominciare.»

Fu John a prendere in mano la situazione, afferrando il libro e cominciando a leggere l’incantesimo. Sam provò l’impulso irrazionale di strapparglielo di mano dicendo qualcosa tipo L’ho trovato io questo maledetto incantesimo, ma si ricordò dell’ammonizione del fratello e si trattenne.

Dean si chinò sulla ciotola in ceramica con gli ingredienti mescolati, estrasse dalla cintola il proprio pugnale e con un gesto veloce si procurò un taglio lungo l’avambraccio, facendo gocciolare il proprio sangue all’interno del contenitore.

Per un lungo minuto non accadde nulla, l’unico suono nella stanza la voce di John che continuava a leggere le parole in latino; poi, un soffio di vento spense una delle candele e una figura comparve al centro della stanza, prima semitrasparente e poi, mentre John pronunciava l’ultima frase, del tutto solida e reale.

Scese il silenzio.

Poi Agnes sorrise, le rughe sul suo volto che si distendevano e i denti ingialliti che venivano scoperti.

«La famiglia Winchester al completo,» osservò. «Che onore!»

«Hai lanciato un incantesimo su mio figlio, strega,» disse John gravemente. «Spezzalo e ti lasceremo andare senza colpo ferire.»

Agnes sollevò le sopracciglia.

«Mi lascerete andare?» ripeté. «Non mi ero accorta che mi steste trattenendo.»

E come se niente fosse, allungò un piede per cancellare con tranquillità una delle linee disegnate col gesso.

Sam sbiancò e sollevò d’istinto la pistola. Vide che, agli altri lati della stanza, Dean e suo padre stavano facendo lo stesso.

«Cacciatori,» sospirò la donna. «Così prevedibili.»

Agnes sollevò le mani con un gesto imperioso. Sam si sentì sollevare e andò a sbattere con la schiena contro il muro alle proprie spalle; due tonfi contemporanei lo informarono che John e Dean avevano subito lo stesso destino. Un altro movimento delle mani rugose della strega, e le dita si Sam si aprirono contro la sua volontà, lasciando cadere a terra la sua arma.

«Basta così,» disse fermamente Dean da un punto imprecisato alla sua sinistra. «Spezza l’incantesimo e lasciaci andare. Nessun cacciatore ti disturberà più.»

Agnes scoppiò in una risata roca e sguaiata.

«Oh, bambino mio,» disse, «Non sei riuscito a capirlo? Ti ho già aiutato al massimo delle mie possibilità.»

«Basta enigmi, strega,» ringhiò John. «Annulla la maledizione, oppure…»

«Oppure?» gli fece eco bruscamente Agnes, ogni traccia di ilarità svanita. «Cosa credi di potermi fare?»

Strinse una mano a pugno e John ansimò, portandosi le mani alla gola mentre il flusso d’aria nei suoi polmoni veniva inesorabilmente bloccato.

«Lascialo stare, stronza!» urlò Dean, lottando per liberarsi dai legami invisibili che lo tenevano immobilizzato.

«Dean, Dean, Dean,» sospirò la strega. «Pensavo che avessi imparato la lezione, a questo punto. Devi sempre riflettere su quello che dici, sulle parole che usi… perché altrimenti potrebbero non piacerti le conseguenze.»

«Lascialo… per favore,» intervenne Sam, sperando di aver capito cosa desiderasse la strega, visto che suo fratello sembrava deciso ad ignorarla.

«Vedi, Sam, tu sì che sei un ragazzo a modo. Tuo fratello, piuttosto…»

Agnes scosse la testa e lasciò andare il pugno. John ansimò e riprese fiato, boccheggiando. La donna si avvicinò a Dean, ancora bloccato contro la parete, e si piazzò di fronte a lui.

«Sarebbe stato così semplice spezzare la maledizione,» sospirò. «Tutto quello che dovevi fare era dire la verità sui tuoi sentimenti alla persona che amavi, e sarebbe andata via da sola. E invece tu hai combattuto inutilmente e hai preferito attirarmi qui. A questo punto non penso che te la caverai così facilmente, ragazzo mio.»

«Lasciami stare, maledetta…» cominciò Dean.

Sam percepì con chiarezza il momento in cui Agnes decise di concentrare tutto il proprio potere nell’attaccare Dean. Se ne accorse perché sentì la presa che lo spingeva contro il muro allentarsi, e non perse un istante per approfittarne. La sua mano corse alla pistola, la sfoderò e la puntò contro di lei; con la coda dell’occhio intravvide John fare esattamente lo stesso.

Il tempo parve rallentare. Agnes si voltò verso Sam, puntò gli occhi su di lui, e con un grido di rabbia gli scagliò addosso un’ondata violenta di magia che lo sollevò in aria.

Per un lungo, interminabile istante, Sam sentì il proprio corpo sollevarsi, essere strattonato violentemente di lato, e la parete in pietra alla sua sinistra avvicinarsi sempre di più. Poi un tonfo, un dolore violentissimo al capo, in lontananza quello che sembrava uno sparo, e infine il buio.

 

«Sam! Sammy, ti prego, ti prego, apri gli occhi. Sam!»

La voce di Dean era così imperativa che Sam si trovò costretto ad obbedire, anche solo per istinto. La luce delle candele, per quanto flebile, gli provocò immediatamente una fitta violenta alla testa e gli sfuggì un mezzo gemito.

«Sammy! Stai bene?»

Sam provò a parlare ma non riuscì ad articolare alcun suono. Tutto sembrava attutito e davanti ai suoi occhi danzavano macchie nere che offuscavano la figura sfocata di Dean.

«Sam, ti prego. Rispondimi. Come ti chiami?»

Che domanda idiota. Sam provò a rispondere, ma dalla sua bocca non uscì nulla.

«Sam! Apri gli occhi!»

Sam non si era neanche reso conto di averli chiusi, ma si sforzò di riaprirli e provò a mettere a fuoco qualcosa, inutilmente. Tutto era una distesa di macchie indefinite.

«Dean, probabilmente è un trauma cranico. Tienilo sveglio, io vado a recuperare il kit del pronto soccorso in macchina.»

Questa era chiaramente la voce di papà. Cosa ci faceva qui?

«Papà, non dovremmo chiamare un’ambulanza?»

«No, figliolo, non serve. Tienilo sveglio, chiudiamo la ferita e vediamo come procede nelle prossime ore. Vedrai che migliorerà.»

«Papà, si tratta di Sam. Non possiamo aspettare le prossime ore.»

«Dean…»

«Non me ne frega niente. Se non la chiami tu lo faccio io. Non possiamo correre rischi.»

Un attimo di silenzio. Sam pensò che probabilmente doveva avere le allucinazioni, perché Dean non rispondeva così a papà. Mai.

«Va bene. Chiamo io.»

Un rumore di passi che si allontanava e un sospiro accanto a sé, una mano che stringeva la propria. Sam si sforzò di riaprire gli occhi: non ricordava neanche di averli chiusi.

«Sammy,» sussurrò Dean, appoggiandogli una mano sul viso. «Andrà tutto bene, vedrai. Tra poco arriveranno i soccorsi.»

Sam fece uno sforzo mostruoso per aprire la bocca e mormorare, con un filo di voce:

«Dean?»

Il fratello sembrò illuminarsi e si avvicinò ancora di più; il volto di Dean iniziò a mettersi a fuoco.

«Sammy,» sussurrò. «Oh, grazie a Dio. Come stai?»

Ma Sam aveva esaurito le energie: si limitò a stringere per quanto possibile la mano che ancora era avvinghiata alla propria. Dean ricambiò la stretta con vigore, gli passò con estrema delicatezza una mano sui capelli e si chinò per sfiorare le sue labbra con le proprie.

«Andrà tutto bene,» sussurrò.

Sam avrebbe voluto rispondere Lo so, ma non gli fu possibile. Non solo perché non aveva le forze per farlo, ma anche perché entrambi sentirono l’inconfondibile suono di qualcuno che si schiariva la voce.

Dean si allontanò di scatto.

«L’ambulanza sta arrivando,» disse stancamente John.

Una parte del cervello di Sam, quella ancora razionale, decise in quel preciso momento di non essere nelle condizioni per affrontare quella particolare situazione. Lasciò che gli occhi gli si richiudessero e scivolò nuovamente nell’incoscienza.

 

Sam riprese coscienza lentamente e la prima cosa che notò fu la pesantezza del proprio corpo, che affondava nel materasso troppo morbido e sembrava impossibilitato a muoversi. Aprire gli occhi sembrava un’impresa impossibile, quindi non si preoccupò neanche di provarci.

Un bip costante lo informò che con ogni probabilità doveva trovarsi all’ospedale.

Fluttuava in uno stato a metà tra sonno e veglia, e le voci basse che sentiva potevano essere reali tanto quanto frammenti della sua immaginazione. Si sforzò di dare un significato alle parole che gli giungevano alle orecchie.

«…starà bene.»

Questo era papà: Sam avrebbe riconosciuto la sua voce profonda ovunque.

«Sì, lo so.»

Questo invece era chiaramente Dean. Aveva appena mormorato, ma Sam aveva praticamente una laurea nell’interpretare il fratello, e poteva decifrare nel suo tono ansia, preoccupazione e sicuramente un po’ di sollievo.

«E starai bene anche tu.»

«Lo so.»

«Sai già da chi andare per spezzare la maledizione?»

Silenzio. Nella sua mente, Sam poteva vedere Dean chiaramente come se lo stesse guardando davvero. Accigliato, forse seduto su una sedia accanto al suo letto, i gomiti poggiati fermamente sulle ginocchia. John dietro di lui, che teneva sott’occhio entrambi i figli.

«Sì,» rispose alla fine Dean, probabilmente perché era costretto a farlo.

Sam riusciva a sentire la tensione nella sua voce, un sentimento che nelle ultime settimane aveva imparato ad associare ai momenti in cui Dean temeva che qualcuno gli facesse una domanda a cui veramente non voleva rispondere con sincerità.

Ma John non fece la domanda più ovvia.

«Da quanto tempo va avanti questa storia?» chiese invece, il tono cupo ma al tempo stesso rassegnato. Non c’era rabbia nella sua voce.

Sam poteva immaginare il sussulto di Dean, il suo desiderio di implorare il padre di non chiedergli cose del genere, ma non l’avrebbe mai fatto. Dean non avrebbe mai discusso con John per nessun motivo, o almeno per nessun motivo che non andasse direttamente a beneficio di Sam. Questo lui lo sapeva fin troppo bene: Dean era di natura il soldato perfetto che Sam non sarebbe stato mai.

«Da sempre,» fu la risposta di Dean, enunciata chiaramente, senza esitare.

John prese fiato.

«Perché?» domandò.

Dean rise. Una risata roca e senza speranza, sempre a basso volume per non svegliare il fratello che credeva addormentato.

«Perché? Perché no, piuttosto?» ribatté. «Papà, è sempre stato Sammy, dal momento in cui sono corso fuori da casa nostra con lui in braccio. Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per lui. Non c’è mai stata neanche l’ombra di qualcuno che potesse avvicinarsi a lui. Ci ho provato –» la voce di Dean si spezzò, un singulto represso con rabbia, «Ci ho provato con tutto me stesso, te lo giuro. Non volevo… non volevo che fosse sbagliato come lo ero io. L’ho lasciato andare. Anche se avevo il cuore a pezzi l’ho lasciato andare perché speravo che almeno lui potesse uscirne.»

Se Sam avesse potuto alzarsi per abbracciare il fratello, lo avrebbe fatto esattamente in quel momento.

«E scommetto che non sei stato tu a cominciare questa…. cosa,» sospirò John.

Non era una domanda.

«Papà…»

«Puoi dirmi sinceramente di aver fatto tu il primo passo, Dean?» Silenzio. «Come immaginavo. Vi conosco troppo bene.»

«Papà, ti giuro che non gli ho mai fatto del male. Te lo giuro su quello che vuoi.» La voce di Dean era rotta e Sam, inchiodato al letto senza potersi muovere, sarebbe stato pronto a scommettere che il fratello stava piangendo.

«Lo so, figliolo. Lo so. Su questo non ho mai avuto dubbi. E sul resto… beh, ho iniziato ad averli probabilmente prima che li aveste voi. E ho provato a separarvi, ma immagino fosse troppo tardi. Suppongo che alla fine sia anche colpa mia.»

«No, papà, non –»

«Sono stato io a metterti nelle mani una responsabilità che era troppo grande per te, Dean.»

«Sammy non è mai stato una responsabilità!» protestò Dean. «Non mi è mai pesato –»

«Lo so, lo so,» disse John in tono conciliatorio. «Come ho detto, vi conosco troppo bene.»

Scese di nuovo il silenzio, e durò così a lungo che Sam iniziò a scivolare di nuovo nel sonno. Quando risentì le voci, gli sembrarono molto, molto lontane.

«Io devo andare, figliolo.»

«Ma papà, Sam…»

«Non ho tempo di aspettare che si svegli. Salutalo da parte mia. Vedrai che starà bene.»

«D’accordo.»

«E Dean…» un’esitazione, «Prenditi cura di tuo fratello.»

«Sai che lo farò.»

 

Sam si risvegliò che fuori era buio. Batté le palpebre contro la luce della lampada al neon sulla propria testa e la girò lentamente per cercare Dean.

Era seduto su una sedia accanto al letto, esattamente come lo aveva immaginato durante la conversazione che aveva origliato; però si era finalmente addormentato, piegato su se stesso con la testa appoggiata alle braccia, sul bordo del letto ospedaliero di Sam. A Sam venne in mente un ricordo lontano in cui lui stesso era nella medesima posizione, con Dean ferito nello stretto letto della sua camera, a Stanford. Sembrava passata un’eternità.

«Dean,» mormorò, e quando non ebbe risposta si schiarì la voce e lo ripeté più forte.

Dean si svegliò di soprassalto, e come sempre quando gli succedeva, in una frazione di secondo era in piedi e in posizione d’attacco, una mano alla vita per cercare una pistola che non c’era. Poi mise a fuoco la stanza bianca e Sam che lo guardava e si rilassò.

«Sammy! Stai bene?»

«Sì, sto bene,» rispose Sam, mettendosi cautamente a sedere.

Dean si precipitò al suo fianco e si sedette sul letto accanto a lui.

«Ci vedi bene? Hai mal di testa?»

«Sì, ci vedo e no, sono solo un po’ indolenzito.»

Sam fece un rapido controllo delle proprie funzioni vitali. La testa gli doleva un po’, ma era sopportabile; i muscoli erano tesi e doloranti, ma c’era da aspettarselo. Probabilmente, in ogni caso, in quel momento era imbottito di antidolorifici, come dimostrava l’ago che aveva fastidiosamente infilato in un braccio.

«Papà è andato via,» osservò dopo essersi guardato intorno per un attimo.

«Uh, sì,» rispose Dean. «Aveva una caccia che lo aspettava.»

Sam annuì. Guardò il fratello per un istante e un pensiero gli balenò nella mente. Esitò per un momento e poi gli chiese:

«Allora… di cosa avete parlato mentre ero fuori gioco?»

Vide chiaramente il lampo di ansia di Dean, la sua esitazione, seguita da una risposta incerta:

«Uhm… niente di importante.»

Sam batté le palpebre e gli sfuggì un mezzo sorriso. Dean sembrò non accorgersene e si affrettò a cambiare argomento.

«Sammy, per quanto riguarda la maledizione, penso…» si bloccò per un attimo, valutando come proseguire, e Sam ne approfittò:

«Dean… mi hai appena mentito riguardo a papà.»

Dean alzò la testa di scatto e corrugò le sopracciglia.

«Cosa? No, non l’ho fatto.»

«L’hai appena fatto di nuovo.»

Dean aprì la bocca, per poi fermarsi per riflettere.

«La mia macchina preferita è la Prius. Adoro l’insalata. Sammy, è vero!» esclamò con entusiasmo. «Posso mentire di nuovo!»

Sam rise per l’evidente gioia del fratello.

«Non pensavo che ne sarei stato così felice, ma pare proprio di sì.»

Dean rilasciò un respiro che probabilmente conteneva una gran parte della tensione che aveva accumulato nelle ultime settimane.

«Grazie a Dio,» mormorò. Poi un pensiero sembrò passargli per la mente. «Come facevi a sapere che stavo mentendo? Su papà, intendo.»

Sam si passò una mano sul volto, vagamente imbarazzato.

«Uhm… potrei aver sentito la vostra conversazione, prima.»

Dean lo guardò con gli occhi sbarrati.

«Cosa?»

«Ero più nel mondo dei sogni che in quello reale, però ho sentito le parti salienti.»

«Quindi sai che papà… merda

«Non mi sembra che l’abbia presa troppo male.»

«Non avrebbe mai dovuto saperlo!»

«Sei stato tu a farci scoprire, non guardare me!»

«Stavi morendo, Sam, scusami se non ero esattamente padrone delle mie azioni!»

Sam scosse la testa, divertito.

«A quanto ho capito, lo sospettava da ben prima di ieri sera.»

«Il che è ancora più preoccupante.»

Scese il silenzio. Dean giocherellò per qualche secondo con il bordo sfilacciato del lenzuolo bianco, per poi alzare lo sguardo su Sam.

«La maledizione si è spezzata.»

«Già.»

«Come è successo?»

Sam guardò il fratello negli occhi e fece un mezzo sorriso.

«Hai detto a papà la verità su quello che provi per me, e io ho sentito. Non serviva altro.»

È sempre stato Sammy...

Tutto quello che ho fatto l’ho fatto per lui…

Non c’è mai stata neanche l’ombra di qualcuno che potesse avvicinarsi a lui…

L’ho lasciato andare.

I fratelli sembrarono ripercorrere insieme, in silenzio, le parole che ancora aleggiavano nell’aria.

«Dean… sai che per me è sempre stato lo stesso, vero?» chiese Sam a bassa voce, cercando inutilmente di incrociare il suo sguardo.

«Te ne sei andato,» mormorò Dean, senza alzare gli occhi dalla stoffa tra le proprie dita.

«Dovevo andarmene, Dee,» disse Sam in tono implorante, e Dean finalmente alzò gli occhi, probabilmente sorpreso dall’uso del nomignolo che non sentiva da anni. «Io e papà avremmo finito per ucciderci. E dovevo dimostrare di essere cresciuto, di poter essere indipendente, di non essere più il piccolo Sammy che doveva essere protetto e tenuto al sicuro. Tu avevi la caccia, Dean, è sempre stato il tuo mondo… io dovevo trovare il mio.»

«Senza di me,» replicò Dean con amarezza.

«Se avessi pensato anche solo per un secondo che saresti venuto con me te lo avrei chiesto, Dean. Ma sai bene quanto me che non avresti mai lasciato la caccia.»

«E adesso?» replicò Dean bruscamente. «Adesso sei libero, perché non te ne vai? Magari non a Stanford, ma da qualche parte dove puoi avere una vita normale, trovarti una fidanzata, un lavoro…»

«Quel capitolo è chiuso per me. Adesso so dov’è il mio posto, ed è qui. Sulla strada, nell’Impala, con te.»

Il tono di Sam era così definitivo che Dean sembrò quasi credergli, per un attimo.

«E Jess?» chiese, in tono di sfida.

«Amavo Jess,» concesse Sam a bassa voce, senza distogliere lo sguardo da quello del fratello. «Ma non era a lei che pensavo quando andavo a dormire. Non era lei che chiamavo quando ero ubriaco. Non era a lei che pensavo quando –» si interruppe e arrossì, scuotendo la testa.

Dean fece un mezzo sorriso divertito.

«Beh,» sospirò, facendo per alzarsi, «Non so te, ma io ne ho avuto abbastanza di conversazioni da pigiama party. Che ne dici se chiamiamo un’infermiera, ci facciamo confermare che sei ancora tutto intero, e poi alziamo le tende e lasciamo questo paesino di merda una volta per tutte?»

Sam sorrise e gli mise fermamente una mano sul ginocchio, impedendogli di alzarsi.

«Solo un altro momento da pigiama party,» propose, e si sporse per baciarlo.

Dean si irrigidì per un secondo, ma quasi subito la sua mano si alzò d’istinto e si portò sul collo del fratello, attirandolo a sé. A differenza di quando si erano baciati nell’Impala dopo il biliardo, ubriachi e disinibiti, e di quando Sam aveva ripreso conoscenza a casa di Agnes, e Dean era carico di adrenalina e aveva agito puramente d’istinto, questa volta era calcolato. Lento, pieno di così tanti significati che probabilmente se si fossero fermati a rifletterci ancora sarebbero scappati, e pienamente desiderato.

Fu il bacio della riscoperta, del reimparare come muoversi l’uno insieme all’altro, del ricordarsi il sapore e il respiro e il tocco delle mani e di chiedersi come avevano fatto a pensare di poter sopravvivere senza.

Si separarono dopo minuti che sembravano ore, le fronti appoggiate, i respiri che rallentavano lentamente e i battiti che tornavano regolari.

Sam vedeva già in lontananza un futuro che era così simile al passato da dargli l’impressione di chiudere un cerchio. Lui e Dean, l’Impala, le immense strade dell’America, una caccia in programma, le pistole cariche e la musica al massimo. E poi baci furtivi, notti in motel, bisticci e litigate vere e proprie e una serie di conseguenze che aveva il potenziale di rovinare tutto.

Eppure, realizzò Sam, per la prima volta nella vita sentiva di avere davvero tutto quello di cui avrebbe mai avuto bisogno. Ed era ironico rendersi conto che era l’unica cosa – l’unica persona – che aveva avuto fin dal primo momento.

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