In ascensore

di flyerthanwind
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Livia ***
Capitolo 2: *** Qualcuno ***
Capitolo 3: *** Black out ***
Capitolo 4: *** Crop Top ***
Capitolo 5: *** Parole ***
Capitolo 6: *** Di nuovo ***
Capitolo 7: *** Bacio ***
Capitolo 8: *** Salvataggio ***
Capitolo 9: *** Fuori ***



Capitolo 1
*** Livia ***


Livia

Dovevo rimanere a casa questa sera. La stanchezza di una settimana di studio mi è crollata addosso sabato pomeriggio, l'unico momento in cui sono riuscita ad allungarmi sul letto per riposarmi. La spossatezza ha rivoltato completamente i vecchi ritmi studenteschi a cui ero abituata, quando la notte si faceva festa e la mattina si andava a lezione. La laurea è ormai vicina, e tra la scrittura della tesi e l'ultimo esame da dare non ho tempo nemmeno per un bagno rilassante.
Il getto d'acqua fredda della doccia -non ho tempo nemmeno di chiamare il tecnico per farla riparare, e le altre inquiline sono già tornate a casa- mi ridona quel poco di vitalità alle gambe per arrivare fino in salotto quando il campanello suona insistentemente. So che una sola persona avrebbe le energie per schiacciare così a lungo quel pulsante mezzo rotto -di nuovo, non ho tempo-, per cui non mi stupisco di trovare Livia davanti la porta.
«Sofi!» esclama allegramente, incurante delle occhiaie livide che mi incorniciano gli occhi e della vecchia tuta che mi sono infilata per poter stare comoda.
«Che ci fai qui?» domando andando dritta al punto. Indossa dei tacchi vertiginosi che nei week-end, quando può darsi alla pazza gioia, sembrano incollarsi direttamente alla pianta del suo piede, e un vestito rosso fuoco che scende leggero sul fisico snello.
«Andiamo a una festa stasera!» esclama tutta eccitata. Un fremito di terrore mi vibra lungo la schiena, so che quando si mette in testa qualcosa è difficile farle cambiare idea.
«Ti prego, sono stanchissima, non ho nessuna voglia di uscire» provo a convincerla mettendo su la miglior faccia stanca di cui sia capace. Che poi non è solo una scusa, davvero non ho le forze per uscire, figurarsi per ballare con lei tutta la sera.
«Dai che la festa sarà nel pub all'angolo, non possiamo proprio mancare! Ci sarà anche Stefano!» tenta di convincermi con la sua carta vincente.
Stefano è un ragazzo che frequenta la nostra stessa università, spesso lo incontro nei corridoi tra i dipartimenti oppure nella caffetteria della sede centrale o ancora in biblioteca. Anche se non so praticamente nulla di lui, nemmeno cosa studia, a volte ci troviamo a fissarci senza riuscire a distogliere lo sguardo. Prima sentivo il suo sguardo addosso e pensavo fosse una mia paranoia, ma poi l'ha notato anche Livia e da allora mi dà il tormento.
«Non ho voglia nemmeno di lavarmi i capelli» continuo, tentando di dissuaderla. Naturalmente invano, poiché interpreta quella mia piccola fuga di informazioni come un invito a prepararmi lei stessa.
Inutile dire che in men che non si dica mi ha fatta lavare, mi ha lavato e asciugato i capelli, truccata e scelto abiti e scarpe al mio posto.
«Sei bellissima!» esclama, osservando soddisfatta il suo capolavoro e permettendomi solo allora di rimirarmi. In effetti, devo dire che ha fatto un bel lavoro: il correttore ha mascherato completamente le occhiaie, mentre un filo di fondotinta ha donato colore alla mia pelle pallida; l'ombretto scuro risalta gli occhi grigi mentre il rossetto fa sembrare le mie labbra sottili molto più carnose.
«Modestamente» mi vanto, sfilando per la mia camera sulle scarpe alte mentre la risata fragorosa di Livia mi fa da sottofondo. Non avevo alcuna voglia di uscire e continuo a non averne, ma l'entusiasmo della mia amica è contagioso al punto che deve necessariamente essere accontentata, per cui butto giù del paracetamolo e afferro la borsa che lei mi ha preparato prima che entrambe usciamo dal mio appartamento.

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Capitolo 2
*** Qualcuno ***


Qualcuno

La festa a cui Livia mi ha trascinato non è un granché, quindi avrei potuto benissimo rimanere a casa, ma nonostante tutto lei sembra divertirsi da matti, complici anche i quattro cocktail che le sono stati offerti dal tipo con cui adesso ride sommessamente.
Vorrei tanto sapere cosa abbia detto di tanto divertente, ma non ho voglia di fare il terzo incomodo o rovinare l'appuntamento alla mia amica, per cui me ne sto seduta al bancone rigirandomi un bicchiere di thè tra le dita sperando che passi per qualche nuovo cocktail, dato che non posso bere sui medicinali. Dopo aver scambiato un paio di occhiate col barista, il quale probabilmente spera che io ordini qualcos'altro, dato che occupo quel posto da circa due ore, decido che è il caso di tornare a casa.
Faccio un cenno veloce a Livia e mi dileguo alla ricerca dell'ascensore prima che possa seguirmi. Nonostante spesso frequenti questo locale, a volte ho problemi a trovare l'uscita dato che sembra tutto uguale. Non appena lo avvisto, sento una voce squillante richiamarmi.
«Sofia! Perché te ne vai?» mi domanda Livia con l'aria scocciata di chi ha dovuto appena lasciare il ragazzo per correre dietro l'amica capricciosa.
I suoi atteggiamenti da primadonna -o bambina viziata, che dir si voglia- mi urtano molto, ma non ho nessuna voglia di litigare adesso, per cui le dico che sono solo stanca e ho voglia di andare a casa a riposare. So che è una buona amica, ma essendo del primo anno non riesce a rendersi conto dello stress a cui i laureandi sono sottoposti, e non ho voglia di discutere.
«Sogni d'oro» mi urla con un sorriso sulle labbra mentre mi allontano dandole le spalle.
«Buonanotte» le dico di rimando, ammiccando verso la sala in cui c'è la sua preda e continuando a dirigermi verso l'ascensore senza guardare. Pessima scelta, dato che faccio in tempo a voltarmi solo quando Livia si sbraccia incitandomi a farlo e finisco per sbattere addosso a qualcuno.
Qualcuno di alto e grosso e decisamente conosciuto.

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Capitolo 3
*** Black out ***


Black out
 
Quel qualcuno alto e grosso e decisamente conosciuto altri non è che Stefano, con le gote leggermente arrossate da calore e alcol e le mani saldamente posizionate sui miei fianchi, dove mi ha afferrata pochi secondi prima per impedirmi di cadere.
«Oddio, scusami!» biascico, nel tentativo di ricompormi dopo che nell'urto con il suo petto ho preso una storta e mi sono quasi rotta una gamba cadendo dalle scarpe alte. Per fortuna mi ha vista arrivare ma non è riuscito a spostarsi in tempo, per cui mi ha afferrato al volo prima che potessi rovinare a terra.
«Tranquilla» sorride mesto con gli occhi leggermente socchiusi, probabilmente ha bevuto più di quanto avrebbe dovuto.
«Tu sei Sofia» esordisce quando le porte dell'ascensore si chiudono e finalmente questo comincia a muoversi, portandoci verso la destinazione. Deve aver decisamente bevuto troppo se sta ammettendo di conoscermi nonostante non abbiamo mai parlato, così decido di sorridere di rimando ed evitare qualsiasi conversazione di cui domattina potrebbe pentirsi.
«Io ti guardo sempre, sei davvero bella» continua a parlare, incurante del fatto che io non abbia proferito parola e che al momento gli stia dando le spalle. Farei qualsiasi cosa pur di evitarlo, potrei persino farmela a piedi se questo coso mi permettesse di scendere adesso.
Probabilmente qualcuno dall’alto doveva aver udito i miei sproloqui mentali e si stava adoperando per rendere il mio soggiorno su questa terra –e in questo ascensore- molto più simile all’Inferno dantesco.
Un rumore metallico e decisamente non di buon auspicio ci fa scattare sull’attenti, consci che la situazione si stia mettendo male. In effetti, più che male, la situazione stava per diventare malissimo.
Lo stridio metallico ha presagito il brusco arresto dell’ascensore, che dopo un tonfo sordo e trenta secondi di blackout totale -in cui nella mia testa si sono susseguiti i peggiori scenari- è stato scosso in maniera talmente violenta da farci cascare entrambi a terra.
La prima cosa di cui riesco a prendere coscienza, dopo gli attimi di panico in cui ho letteralmente sentito il cuore pulsarmi in gola, è che il tacco delle scarpe si è spezzato e mi ha piegato la caviglia, la quale ora sembra pizzicata da centinaia di aghi contemporaneamente. Dubito che sia rotta, nonostante il dolore riesco a muoverla completamente, ma credo di aver preso una brutta distorsione.
Stefano, invece, se ne sta accasciato con il capo sullo specchio e un’espressione di dolore sul volto. Credo che nell’impatto abbia battuto la testa, ma non riesco a mettermi in piedi da sola per accertarmi che stia bene; lui, d’altro canto, non sembra essere molto collaborativo.
«Stefano, hey, voltati per favore, ho bisogno d’aiuto» tento di coinvolgerlo più possibile per spronarlo a reagire, ma l’unico mutamento che noto è una maggiore contrazione dei suoi muscoli facciali.
«Ti prego, devo alzarmi, non ce la faccio da sola» la mia voce ormai somiglia più a una supplica che all’ordine autoritario che avevo formulato nella mia testa e che avrebbe dovuto farlo voltare immediatamente, ma paradossalmente riscuote più successo.
Il mio lamento lo ha spaventato, per cui ora mi osserva con gli occhi sgranati attraversati da un lampo di panico, permettendomi di osservarlo meglio: sotto gli occhi chiari due occhiaie sono accentuate dal rossore sulle gote; le labbra socchiuse permettono a un maggior quantitativo d’aria di raggiungere i polmoni, già fortemente provati dai respiri spezzati che gli sollevano ritmicamente il petto; una ciocca di ricci ribelli, sfuggita alla cera, si poggia sulla fronte grondante di sangue.
«Tesoro, abbassati per favore, siediti accanto a me» gli faccio posto contro la parete provando a mantenere un contegno e una calma che in questo momento non mi appartengono, ma a quanto pare lui è già abbastanza terrorizzato per entrambi.
Non si era accorto del sangue finché qualche gocciolina non mi è scivolata sulla mano quando gliel’ho passata sulla fronte, e adesso è, se possibile, ancora più spaventato e irrequieto. La loquacità che ha sfoggiato fino a pochi minuti prima sembra essere svanita, insieme al colorito roseo sul viso, ora improvvisamente pallido. Deduco che sia impressionato dalla vista del sangue, per cui cerco di adoperarmi al fine di bloccare il flusso che continua a scorrere dal taglio profondo sulla fronte.
Tre anni di infermieristica pediatrica, turni infiniti di tirocinio e una serie di esami superati con ottimi voti avrebbero dovuto prepararmi al meglio ad una situazione del genere, eppure mancano gli strumenti per poter fare qualcosa di concreto. Inoltre i bambini non sono così spettrali, quando sono spaventati piangono e gridano, e preferirei di gran lunga sentire le urla di Stefano piuttosto che il suo respiro affannoso e spezzato.
«Okay, adesso sta’ tranquillo, è solo un taglietto, fermo subito il sangue» tento di tranquillizzarlo come meglio posso mentre spremo le meningi cercando qualcosa da utilizzare per coprire quel taglietto che aveva persino frammentato lo specchio.
«Mi serve qualcosa di stretto per fasciarti» dico a voce alta, coinvolgendo anche Stefano nel tentativo di risvegliarlo dal torpore in cui pareva essere caduto.
«In ascensore non c’è mai un kit di emergenza, gli unici oggetti a disposizione sono quelli che ho nella borsa e quelli che… indosso!» di colpo un’illuminazione mi fa balzare in avanti, sotto lo sguardo stupito e sempre più teso di Stefano che mi osserva posare le mani sul seno. Ho bisogno di qualcosa di stretto da poter legare intorno al suo capo, e la cosa più stretta presente in questo abitacolo è proprio il mio crop top, che sfilo velocemente adagiandolo sulla sua fronte e stringendo dietro la testa, riuscendo finalmente a fermare il sangue che scorreva copiosamente.

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Capitolo 4
*** Crop Top ***


Crop top

Rientrata l’emergenza, l’adrenalina che mi aveva fatto agire così prontamente stava lentamente fuoriuscendo sotto forma di sudore. Mentre la temperatura all’interno dell’ascensore saliva vertiginosamente, Stefano riprendeva colorito e facoltà mentali smaltendo l’alcol assunto durante la serata. Invano avevamo tentato di farci udire dall’esterno poiché la musica ovattava ancora gli altri suoni, il pulsante di emergenza inoltre era andato fuori uso, per cui saremmo rimasti chiusi lì dentro per chissà quanto altro tempo.
Dopo averle tentate tutte ci eravamo lasciati cadere lungo le pareti e avevamo ripreso fiato, sperando che prima o poi qualcuno si sarebbe accorto di quell’ascensore fuori uso e avrebbe mandato dei tecnici a liberarci.
«Grazie» mi sorride d’un tratto Stefano, mentre nella mia testa stavo ripercorrendo tutte le mosse sbagliate compiute dal primo vagito, cercando di capire chi potesse avercela con me al punto da augurarmi di rimanere bloccata in ascensore con l’uomo dei miei sogni e in reggiseno per poterlo curare. Sì, ho decisamente problemi mentali.
«Figurati» gli sorrido di rimando, cercando di evitare il suo sguardo: sono consapevole di non essere al meglio delle mie condizioni, avvolta da una patina di sudore che si sta asciugando sulla pelle, col trucco sfatto e senza una maglietta indosso. Diciamo pure che il problema principale è la maglietta, non l’avrei mai tolta, ma c’era stata una situazione d’emergenza e avevo dovuto sfruttare tutti gli strumenti disponibili sul luogo, compresi miei abiti.
«Sai il… sangue mi dà la nausea» si giustifica gesticolando animatamente e rischiando più volte di togliersi la fasciatura, ormai allentatasi a causa del tempo trascorso.
«Tranquillo, è piuttosto comune, una volta ho visto un tirocinante oss svenire quando sono saltati i punti di sutura di un’operazione» rispondo per rassicurarlo, solitamente i maschi credono di dover essere impavidi, intrepidi in qualsiasi situazione, quando invece è normale provare timore.
«Beh, almeno io mi tengo a debita distanza dagli ospedali» ironizza, ridendo leggermente e sospirando all’ennesimo movimento della fasciatura.
«Aspetta, la sistemo di nuovo» mi sporgo verso di lui prima che faccia danni e il sangue riprenda a sgorgare in fiotti. La sua statura non è molto superiore alla mia, ma per ottenere la giusta angolazione da cui osservare la ferita ho bisogno di sollevarmi sulle ginocchia e avvicinarmi a lui.
«Il sangue si è fermato, dovremmo disinfettarla almeno superficialmente ma non ho niente di meglio della saliva» spiego, tentando di eliminare le tracce di sangue rappreso dalla sua fronte.
«Fai pure, io preferisco non vedere né sapere niente» scherza ancora, facendo ridere anche me. Forse l’ho giudicato troppo presto, non tenta di nascondere i propri timori, non teme di mettere a rischio la propria virilità, magari voleva solo spiegarmi la sua reazione piuttosto estrema.
«Tutto sistemato, spero solo che ci tirino fuori prima di doverla aggiustare nuovamente» provo a scherzare anch’io, allontanandomi leggermente per controllare di aver coperto l’intero taglio e accorgendomi solo in quel momento del suo sguardo posato sul mio seno.
Se prima la situazione era già abbastanza imbarazzante, ora è difficile stabilire chi dei due sia più desideroso di scomparire all’istante: io ho percepito il sangue affluire direttamente sulle guance, ora di un vivido color pomodoro, e in una situazione normale mi sarei attribuita il primato; tuttavia Stefano, oltre a un ben poco discreto color pesca sulla gote abbronzate, ha persino iniziato a balbettare, per cui non me la sento di rubargli il primato così alla leggera.
«S-scusa… s-scusami io… no-non sono un maniaco» continua a balbettare ininterrottamente finché la mia risata –isterica, imbarazzata e piuttosto divertita- lo mette finalmente a tacere.
«Scusami tu, non avrei dovuto sbattertele in faccia così alla leggera» cerco di sdrammatizzare questa situazione oramai divenuta tragicomica. In un altro contesto avrei davvero iniziato a scavarmi una fossa profonda almeno da permettermi di raggiungermi il magma, ma oramai siamo bloccati in ascensore da circa un’ora, la lucidità sta svanendo e la stanchezza sta avendo la meglio su entrambi.
«Non che mi dispiaccia eh» si lascia sfuggire con un sorriso sornione, salvo poi soffocarlo con un colpo di tosse dandosi poco discretamente del coglione e decidendo saggiamente di mettersi a tacere mordendosi un dito e affondando la testa tra le ginocchia.
«Non ti reputo un maniaco, penso solo che tu sia un maschio leggermente brillo a cui qualcuno ha mostrato il seno» osservo tranquillamente, aggiungendo nella mia testa qualcuno di estremamente stupido dopo aver aperto la mia stramaledetta bocca.
Perché gli insulti verso la propria persona abbondano in questo ascensore.
«Credo di aver smaltito almeno tre dei sette bicchieri di vino che ho bevuto» confessa, strofinandosi gli occhi con le dita come farebbe un bambino molto stanco. In effetti tra i riccioli biondi, gli occhi grandi e le gote ancora arrossate, gli manca solo un dito in bocca per mimetizzarsi tranquillamente con un bimbo che sta per addormentarsi.

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Capitolo 5
*** Parole ***


Parole
 
La temperatura nella cabina sembra stabile, ma il sudore ormai asciugatosi sui nostri corpi ci fa percepire qualche grado in meno. Saranno passate almeno tre ore dal momento in cui l’ascensore si è bloccato e nessuno ancora è venuto a tirarci fuori. Stefano dice che probabilmente se ne accorgeranno domattina, quando tutti i clienti avranno lasciato il pub e qualche dipendente necessiterà dell’ascensore per portare l’immondizia a terra.
Abbiamo parlato molto in questo lasso di tempo, soprattutto per impedirgli di addormentarsi: la sua ferita non è abbastanza grave da far presagire danni permanenti, né ha perso abbastanza sangue da perdere i sensi, ma preferisco evitare di dover spiegare ai medici quando esattamente ha smesso di rispondere agli stimoli sensoriali –anche perché qui non ho strumenti per stimolarlo.
Studia economia nella mia stessa Università, anche lui è all’ultimo anno, si laureerà presto e non vede l’ora di tornare a casa da sua nonna; sarebbe dovuto andare questo weekend, ma poi un suo amico lo ha costretto a venire alla festa e ora eccoci qui, bloccati in questo ascensore da un numero imprecisato di ore.
«Nemmeno io volevo venire alla festa, sono costretta da un’amica che ora starà limonando con un tipo» confesso, giusto per mandare avanti la conversazione.
Quando ti trovi rinchiuso in meno di due metri quadri i silenzi possono essere molto imbarazzanti.
«Quando ci tireranno fuori dovremmo insultarli pesantemente» afferma lui con una risatina, ben presto sostituita da un colpetto di tosse. Sospetto si stia ammalando, ma temo che se glielo dicessi potrei solo peggiorare la situazione dato che mi sembra leggermente ipocondriaco.
Non ho nemmeno il tempo di pensare a una risposta che un nuovo blackout, questa volta di soli pochi secondi, ci fa scattare sull’attenti: Stefano si alza in fretta, un po’ troppo in fretta a giudicare dalla perdita di equilibrio che ne consegue, e io mi tiro a sedere nella maniera più dignitosa possibile –per quanto possa essere dignitoso stare seduti in un ascensore con un tacco rotto e il solo reggiseno indosso.
«Pensi che abbiano capito che c’è qualcosa che non va?» domando, un po’ per essere rassicurata un po’ per rompere il silenzio spettrale che sembra essere calato sull’intero edificio.
«Lo spero» risponde telegrafico, sebbene nella sua voce percepisco una leggera nota stonata. Deve essersi accorto di qualcosa, qualcosa che chiaramente a me è sfuggito, e sta cercando in tutti i modi di non farmelo notare. Peccato che io sia reduce da tre anni di tirocinio nei reparti pediatrici, dove i bambini sono particolarmente avvezzi alle bugie per scampare ai trattamenti o al dolore, per cui sono stata formata per recepire anche una lievissima inclinazione nella voce. E devo dire che i bambini riescono a mentire decisamente meglio di lui.
Un clangore metallico associato al tipico rimbalzo che fanno gli ascensori quando partono ci avvisa che sì, finalmente si sono resi conti del problema e hanno chiamato i soccorsi, i quali sono riusciti a risolvere qualsiasi cosa fosse e stanno per tirarci fuori.
Quasi fatico a credere che sia davvero finita. Stefano ormai sta sorridendo, convinto di essere praticamente già fuori; è evidente che non conosce la cosiddetta legge di Murphy, per cui, se una cosa può andare peggio, sicuro lo farà. E indovinate chi sarà stavolta a sperimentarlo?

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Capitolo 6
*** Di nuovo ***


Di nuovo

Un nuovo blackout ci annuncia che no, anche se sembrava fosse finita, non lo è affatto. L’ascensore si ferma ancora, questa volta assestandoci una scossa che ci fa vacillare ma non cadere. 
Stefano, in piedi accanto a me, perde l’equilibrio ma riesce a riacquistarlo prima di cadermi addosso; io sono sempre seduta a terra, la schiena contro la parete e una mano tra i capelli, a studiare le sue reazioni.
Doveva essersi accorto che qualcosa non andava perché non è stato colto impreparato dal brusco arresto -al suo posto io sarei crollata a terra senza ombra di dubbio-, tuttavia non comprende del tutto cosa stia accadendo.
«Forse stanno avendo dei problemi a tirarci fuori» suppone, il tono basso di chi sta cercando in sé una calma che non è sicuro di avere.
Non mi sento pronta per sostenere una crisi di nervi, per cui decido di far forza sulla caviglia sana e mettermi in piedi, raggiungendo quasi la sua altezza. Stefano mi sorride ma in realtà non fa altro che arricciare le labbra e mostrare i denti. È teso –chi non lo sarebbe, bloccato in un ascensore con una sconosciuta e un taglio sulla testa medicato con un crop top- ma ha le mani ferme. Sta tastando le porte dell’ascensore, forse per accertarsi di poterle manomettere, ma dal modo in cui serra la mascella credo che la risposta sia negativa.
«Credi che sappiano che c’è qualcuno?» domando, senza togliergli gli occhi di dosso. Si è arrotolato le maniche della camicia in un momento imprecisato e adesso posso vedere i suoi muscoli guizzare mentre tenta di forza la porta interna.
«Non lo so, nel dubbio premi di nuovo il pulsante d’emergenza» consiglia a denti stretti. Tutti i tentativi precedenti sono stati fallimentari in questo senso, ma magari l’ennesimo blackout ha resettato i sistemi.
Siccome non tutto può sempre andare storto, questa volta il pulsante si illumina di un rosso vivo che mi fa sussultare. Nel medesimo istante si ode il rumore di una sirena che risuona nell’androne, per cui deduciamo di esserci fatti notare.
Stefano mi sorride, questa volta più sinceramente, e si avvicina a me per sostenermi quando, saltellando dalla contentezza, una fitta di dolore più acuta del solito mi ha attraversato la caviglia. Non ha mai smesso di far male eppure questa volta sembra diverso, a momenti sarei caduta se non mi avesse afferrato al volo.
Per la seconda volta nel giro di una notte, le sue mani sono di nuovo sui miei fianchi, pronte a sorreggermi quando il mio equilibrio precario decide di abbandonarmi. Tuttavia, adesso mi sembrano più sicure, più forti, complici anche la sbornia ormai smaltita e la confidenza che si è instaurata a causa della condivisione forzata di questo spazio angusto.
«Sono un disastro, scusami» biascico incerta, mentre i suoi occhi vagano sul mio corpo. Rafforza la stretta quando si posano sul profilo del seno, coperto solamente dal reggiseno in pizzo. Quasi mi viene da ridere a pensare che Livia me l’ha fatto indossare con la forza mentre io volevo metterne uno più comodo.
«E se poi devi spogliarti?» ha insinuato con malizia, strappandomi dalle mani il reggiseno a balconcino che tenevo stretto sopra l’asciugamano. Devo ricordarmi di ringraziarla dove averla uccisa per avermi trascinato alla festa.
Il pomo d’Adamo si muove su e giù, attirando la mia attenzione sul volto criptico di Stefano. Deglutisce ancora a vuoto finché i suoi occhi tornano a posarsi sul mio viso, sulle mie labbra.
A questo punto sono io che deglutisco, avvampando sotto il suo sguardo famelico. Spesso ho pensato a lui, desumendo i suoi modi di fare dai comportamenti che tiene con gli amici e immaginando la sua personalità.
Non ho mai pensato che fosse ipocondriaco, a tratti sfacciato e persino passionale. Sì, passionale, perché è quella che avverto quando poggia le labbra sulle mie suggellando un bacio che forse entrambi abbiamo anelato per troppo tempo.

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Capitolo 7
*** Bacio ***


Bacio

Nella mia personale lista di cose da fare prima di morire non c’è mai stata la voce “Rimanere bloccata in ascensore”, ma forse dovrei aggiungerla alle esperienze pregresse nel curriculum. Dopotutto ho mostrato sangue freddo e ho arrestato la fuoriuscita di sangue con una top!
Ciò che sicuramente c’è -anche se non lo ammetterò mai, no signore, nemmeno sotto tortura, hai capito Livia?- è la voce “Baciare Stefano”. Insomma, è pur sempre uno sconosciuto con cui ho scambiato diverse occhiate in università, ma ventidue anni si hanno una sola volta nella vita e sono l’età giusta per fare qualche cazzata.
Le sue labbra sono leggermente screpolate poiché le stava mordicchiando fino a pochi istanti fa, ma presumo che i miei denti su di esse gli facciano molto più piacere dei suoi. Se così posso interpretare il repentino avvicinamento dei nostri corpi quando ho iniziato a mordere il suo labbro inferiore.
«Volevo farlo dalla prima volta che ti ho vista» confessa, staccandosi da me per riprendere fiato e ponendo tra i nostri corpi una distanza quantomeno dignitosa.
Si morde l’interno della guancia, strizzando un occhio e forse pentendosi delle parole che ha appena pronunciato.
«Forse non hai ancora smaltito il vino» lo schernisco ridacchiando, alludendo alla sua lingua fin troppo sciolta che in questa nottata mi ha rivelato molto più di quanto avrebbe fatto da sobrio.
«Forse no» mi concede, spalmandosi contro la parete opposta; prendendo consapevolezza del gesto appena compiuto aggiunge: «Mi spiace io non… non avrei dovuto».
Sono costretta a trattenermi per rimanere ferma sul posto e non prendergli il viso tra le mani, beandomi di quell’espressione fanciullesca che gli curva i lineamenti.
«Ci ho messo del mio eh, mi prendo le mie responsabilità» provo a sdrammatizzare ancora mentre lui pare star combattendo una battaglia contro se stesso.
Non l’ho contraddetto –sarei stata un’ipocrita, ho ricambiato il bacio con trasporto e l’ho apprezzato parecchio- sebbene ritenga non sia il momento adatto per le dichiarazioni. Comprendo il suo stato d’animo, il panico che si dissolve e la preoccupazione che non lo abbandona, e so che l’alcol ancora in circolo nel suo organismo lo rende più disinibito e meno avvezzo alla comprensione del pericolo.
«Domani, quando avrò smaltito del tutto la sbornia e ricorderò tutto ciò ho fatto, farò un biglietto di sola andata per il Messico» ridacchia ancora, sciogliendo i muscoli tesi e osservando con un certo interesse le scarpe,
«No, scusa, ma in Messico ci vado io. Trovati un altro Stato… che ne so… Congo, Guatemala» lo provoco divertita, dando inizio a un colorito scambio di battute sulla meta che avremmo raggiunto pur di sfuggire all’imbarazzo.
È l’ennesimo blackout a interromperci, spazzando via l’imbarazzo per il bacio avvenuto poco prima e spingendoci a cercarci nel buio. Questa volta è prolungato, non sono pochi secondi come i precedenti.
«S-stefano» bercio con voce stridula, portando la mani avanti e spostandomi a tentoni lungo la parete per raggiungerlo. So che non può fare molto dato che ne sa quanto me, ma la consapevolezza di non essere sola è un fattore importante nel controllo del panico.
«Sono qui» risponde subito, permettendomi di seguire la sua voce. Il mio respiro torna regola solo quando tasto il suo braccio e mi aggrappo a lui, facendo scorrere le mie dita tra di noi.
A questo punto l’imbarazzo passa in secondo piano, nemmeno ci penso al fatto che sono in reggiseno e che sto tenendo la mano e un quasi sconosciuto che prima mi ha baciata contro la parete.
«Perché cazzo non torna la luce…» si lamenta, porgendo la domanda retorica alla cabina vuota in cui si ode solo il rumore dei nostri sospiri e del mio piede dolorante che batte con ritmo cadenzato sul pavimento.
Quasi come l’avesse invocata, la lampadina dell’ascensore torna a illuminarci, scoprendoci quasi avvinghiati contro un angolo dell’abitacolo, stretti l’uno contro l’altro senza alcun pudore.
Sbatto le palpebre un paio di volte, abituando le iridi alla luce, finché una voce dall’esterno ci riscuote.
«Hey! Ci siete? Vi tiriamo fuori».

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Capitolo 8
*** Salvataggio ***


Salvataggio

La manna dal cielo donata agli ebrei nel deserto mentre raggiungevano la terra promessa è stata accolta sicuramente con meno urla di giubilo. Io e Stefano ci siamo fatti sentire dall’esterno, comunicando che eravamo feriti ma integri, e loro hanno detto che ci avrebbero tirato fuori il prima possibile.
Peccato che gli inconvenienti sembrano essere all’ordine del giorno in questa vita, per cui siamo ancora bloccati in questo dannatissimo ascensore, entrambi ormai irritati e imbronciati, con i vigili del fuoco all’esterno che di tanto in tanto ci chiedono se va tutto bene.
«La prossima volta gli dico che sto collassando così si danno una mossa» grugnisce lui, sospirando rumorosamente e schioccando la lingua sul palato.
Sono trascorse ormai cinque ore, siamo stati, disidratati e sudati; non ne possiamo davvero più. Stanno facendo del loro meglio, ne siamo consapevole, ma la situazione è divenuta intollerabile.
Io mi sono accasciata nuovamente al suolo, il dolore alla caviglia si è intensificato di nuovo e adesso anche quella sana inizia a fare i capricci, indignata per lo sforzo a cui è stata sottoposta oggi.
Stefano, invece, rimane in piedi, alternando sbuffi indisposti a ticchettii della dita contro le pareti dell’ascensore. Inizialmente ha anche battuto con forza la mano, ma poiché ne ha rimediato solo un dolore fastidioso ha deciso di lasciar perdere.
«Ragazzi, c’è un problema» la voce all’esterno richiama la nostra attenzione. Stefano scatta in avanti, adagiandosi contro la porta per udire meglio, mentre io tendo l’orecchio senza muovermi.
«Non riusciamo a riportare l’ascensore al piano quindi adesso apriamo le porte e vi caliamo una corda per aiutarvi a salire» spiega l’uomo scandendo bene le parole, probabilmente non solo per farcele comprendere ma anche per calmarsi.
«La caviglia mi fa troppo male, come salgo?» mi lamento, provando a mettermi in piedi con un grugnito di dolore mentre mi mordo l’interno della guancia per non piangere.
«Ferma, sta’ giù, non ti muovere» ordina Stefano, allontanandosi dalla porta per poi abbassarsi alla mia altezza. È piegato sulle ginocchia mentre dice: «Ti aiuto io, sali sulle mie spalle e poi ti aggrappi a qualcuno fuori per farti tirare su» propone e mi sembra la scelta più saggia.
Il piede sta iniziando a gonfiarsi e con uno sforzo peggiorerei solamente la situazione, senza contare che non è affatto certo che riesca a salire fino in cima, nonostante il dolore.
«Va bene» confermo, poggiando le mani sulle mie gambe senza tentare di alzarmi di nuovo.
Stefano mi sorride di rimando, lasciando due buffetti sulla mia gamba prima di alzarsi nuovamente in piedi dopo aver udito un clangore metallico.
Il portone esterno deve essersi definitivamente aperta perché uno spiraglio di luce entra dalla fessura tra le ante della porta interna. Ormai sarà l’alba, ma quell’illuminazione è di sicuro frutto delle torce dei vigili del fuoco.
Una sottile asta di ferro viene infilata nella fessura, poi girata di lato per fare leva e forzarne l’apertura. Stefano si precipita a spingere i due estremi, facilitando in tal modo l’operazione. Quando ormai le due ante sono separate possiamo vedere il fascio di luce raggiungerci direttamente, posizionata sul caschetto rosso di uno deli operatori.
«Adesso vi tiriamo fuori» afferma la stessa voce di prima, che ora posso identificare come quella di un uomo che si staglia dietro alcuni componenti della squadra, inginocchiati per aprire la porta interna.
Lasciano cadere una corda con dei nodi a cui aggrapparsi, una di quelle che si usano negli allenamenti o per l’arrampicata, e Stefano la afferra prontamente, testandone la resistenza con un paio di scossoni.
Infine si volta nella mia direzione e mi aiuta a tirarmi su, rimanendo inginocchiato ai miei piedi per permettermi di salire sulle sue spalle.

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Capitolo 9
*** Fuori ***


Fuori

Uscire dall’ascensore è stato più imbarazzante del previsto, e non solo perché sono in reggiseno davanti a una squadra di vigili del fuoco che distolgono lo sguardo in imbarazzo non appena si rendono conto del mio intimo.
Ecco, adesso vorrei di nuovo uccidere Livia, se non mi avesse costretto ad indossare il pizzo non starei pregando di non morire dalla vergogna.
Stefano mi ha fatto salire sulle sue spalle come avevamo preventivato, tuttavia nessuno dei due aveva calcolato il fattore gonna attillata. Ho dovuto arricciarla più che potevo per stringere le cosce intorno al suo viso, desiderosa che quella tortura potesse finire il più in fretta possibile.
Poi le braccia di uno degli operatori, piegato a mezzo busto all’interno della cabina e sorretto dai suoi colleghi, mi hanno sollevata di peso e fatta uscire da lì, praticamente spalmandomi sul pavimento.
Dopo il primo istante di smarrimento mi sono ripresa, tirandomi a sedere e cercando di non avvampare sotto i loro sguardi incerti. Evidentemente non si aspettavano di soccorrere una donzella seminuda.
La voce che abbiamo sentito per tutta la durata dell’estrazione appartiene al Capo Squadra, che non ha mancato di lanciarmi sguardi di biasimo intrisi di rimprovero finché qualcuno non mi ha dato una coperta termica e l’ho avvolta attorno al mio busto.
Estrarre Stefano è stato più semplice: è salito senza troppi sforzi ed è stato aiutato ad uscire quando praticamente era fuori. Se non altro, quando hanno notato la sua fasciatura arrangiata hanno smesso di chiedersi perché io sia nuda.
«Dottore, mi scusi» mi avvicino al medico di primo soccorso che sta attendendo di visitare Stefano, impegnato a spazzolarsi i jeans e rimettersi in piedi.
«Mi dica, ha bisogno di qualcosa? Vuole che le guari di nuovo la caviglia?» domanda con premura. Ha confermato la mia diagnosi –ciò che non è rotta- consigliandomi di mettere una pomata e stare a riposo.
«No» nego, scuotendo la testa, poi indico Stefano che si sta avvicinando, «Il suo taglio non è molto profondo, ma non ho potuto disinfettarlo come si deve. Se pensa che possa esserci qualche piccola scheggia, non glielo faccia intendere, andrà nel panico» mi affretto a terminare quando ormai Stefano è alle mie spalle.
Sorride tranquillo, per cui deduco che non abbia sentito ciò che ho riferito al dottore.
«Come stai?» domanda invece, rivolgendosi a me e indicando la caviglia con un cenno.
È il medico a interromperlo, invitandolo a sedersi su una sedia. «La signorina sta bene, non si preoccupi. Ora mi faccia controllare se ha fatto un buon lavoro con la fasciatura» riferisce, sciogliendo il top e facendomi l’occhiolino senza farsi notare.
Osserva la ferita a lungo, aiutandosi con una piccola torcia e con la lente, tuttavia non trova nulla di strano per cui si appresta a medicarla e inserire una fasciatura sterile. E più consona di un top.
«Ha fatto un ottimo lavoro, i bambini saranno in buone mani con lei» mi sorride infine, alludendo alla mia laurea imminente e al mestiere che mi appresto a svolgere.
Mi ha fatto parecchie domande nell’attesa, sia mentre controllava la mia caviglia che durante la medicazione di Stefano, suppongo sia per ingannare il tempo che per distrarre il diretto interessato, che è impallidito alla vista degli strumenti chirurgici.
«Come stai?» mi domanda nuovamente lui quando il medico si allontana, recuperando le sue cose per riporle nella valigetta e andare via.
«Sto bene» rispondo sinceramente, passandogli una mano tra i capelli per allontanare i ricci dalla fasciatura intorno al capo, «E tu?» aggiungo con apprensione, notando il velo di agitazione che gli tende i muscoli.
«Ora che sono fuori da lì e non sanguino sto meglio» confessa ridacchiando, scostando la mia mano dalla fronte per prenderla tra le sue. Intreccia le dita e prende un lungo respiro prima di continuare.
«Senti, stavo pensando… Siccome non è il luogo adatto per… beh… parlare… e nemmeno il momento in verità, ma il mio tempismo è sempre pessimo» ridacchia ancora, carezzando il dorso della mia mano con le dita, «Mi chiedevo se ti andasse di uscire a bere qualcosa una sera di queste».
Le mie labbra si arricciano in un sorriso che non riesco a controllare. Il suo sguardo vaga altrove ma io attendo che i suoi occhi si posino nei miei prima di rispondere.
«Va bene» concedo, e anche le sue labbra si arricciano in un sorriso ampio, «Ma niente locali con ascensori!».


N.d'A.
Oggi mettiamo la parola fine a questo piccolo progetto, nato quasi per caso come una one-shot e poi separato per farlo divenire una storia breve. Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, se vi è piaciuto e magari se aveste voluto saperne qualcosa di più di Sofia e Stefano.
Per chi volesse continuare a seguirmi c'è sempre la mia fanfiction in corso!
flyerthanwind

 

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