La Principessa e la Draghessa (Ovvero: Il Principe e il Povero versione HP)

di Alexia96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Rose Weasley e Emily Dragan ***
Capitolo 2: *** Perché non... ***
Capitolo 3: *** Scambio di casa ***
Capitolo 4: *** Vari tipi di voci ***
Capitolo 5: *** 5. Verità a galla ***
Capitolo 6: *** Il talento di Lily ***



Capitolo 1
*** Rose Weasley e Emily Dragan ***


La Principessa e la Draghessa

(Ovvero: Il Principe e il Povero versione HP)

 

 

 

 

1.             Rose Weasley e Emily Dragan

 

La piccola Rose aveva innanzi a sé l’enorme ingresso del Ministero della Magia: gli ascensori dorati; la fontana interamente in marmo bianco; le decine di persone che correvano senza mai scontrarsi, come gli ingranaggi di un orologio ben calibrato, senza la minima imperfezione. Tutti questi elementi rendevano quel luogo incredibilmente affascinante, e ogni volta che sua madre parlava del suo lavoro, Rose non ascoltava più di due parole, perché immancabilmente s’immergeva nei ricordi di quel posto magico, che sognava di poter visitare ogni giorno.
All’improvviso, davanti ai suoi occhi si parò un grosso oggetto, alto e incredibilmente rosso: suo padre.
“Non siamo qui in gita” disse molto serio. “Perciò non fermarti ogni due secondi, intesi?”
Rose annuì. Prese la mano di suo padre e si lasciò portare verso uno degli ascensori.
“Buongiorno signor Weasley” salutò cordialmente una guardia vicino agli ascensori. “E buongiorno anche a lei signorina”
“Per lei non è un buon giorno, la sto portando da sua madre” disse Ron sempre con la stessa espressione seria. La guardia abbassò lo sguardo verso la bambina, e la guardò con una faccia fintamente spaventata.
“Non vorrei essere nei tuoi panni, piccola”.
La bambina capì che la guardia stava scherzando, ma non riusciva a sorridere. Lei e suo padre entrarono in un ascensore vuoto, e una volta chiuse le sbarre dorate gli tirò il braccio, per ottenere la sua attenzione.
“Cosa c’è?” sospirò Ron.
“Scusami” pigolò Rose.
Ron sospirò ancora. Sua figlia aveva il viso chino, ed era intenta a fissarsi le scarpette rosse che stamattina le aveva premurosamente allacciato. Non che lei non sapesse farlo, ma gli piaceva aiutare Rose a vestirsi, e lo avrebbe fatto fin quando non sarebbe stata abbastanza grande da vergognarsi a cambiarsi di fronte a lui. E questo sperava accadesse il più tardi possibile.
“Non pensi di essere abbastanza grande e intelligente da sapere che in questi casi non ha senso chiedere scusa?”
“Lo so” rispose lei a voce bassa.
Ron sapeva che la bambina voleva dire altro, ma aspettò pazientemente che fosse lei a parlare. E dovette aspettare solo pochi secondi.
“Però non è colpa mia se Matt mi ha buttato a terra!”
“Non è un buon motivo per fargli mangiare le merendine di zio George, non credi?” disse saccente Ron. Si era preparato la risposta, ma non avrebbe mai immaginato che Rose avrebbe contrattaccato.
“Mamma dice che non devo avere i vostri prodotti, ma tu me li regali sempre” disse con ancor più saccenteria Rose. “Perciò è colpa tua”
Le porte si aprirono su un corridoio pieno di maghi e streghe indaffarate, che non notarono la faccia scioccata del noto Ronald Weasley e il sorrisino furbo della bambina riccioluta accanto a lui. Ron la sollevò per le ascelle e, sebbene non fosse proprio piccola, la portò senza problemi fino alla fine del corridoio, vicino a una porta che segnava il nome di Hermione Weasley.
“Tu non puoi veramente credere che la mamma darà ragione a te” esclamò Ron a Rose, ancora in braccio al padre.
“Mi metterà in punizione, ma poi si arrabbierà anche con te”. Un piccolo ghigno spuntò nel volto della bambina. “Mamma ti farà dormire sul divano”
Rose aveva ragione, e Ron lo sapeva bene. Avrebbe tolto giochi e libri alla figlia per una settimana, ma lui si sarebbe ritrovato a dormire in quella lastra di pietra che quei venditori Babbani avevano osato chiamare divano.
“Hai vinto, non dirò alla mamma cosa hai fatto” disse Ron sconfitto.
La bambina fece un sorriso dolcissimo e abbracciò forte il padre, che però non rispose con lo stesso entusiasmo. Rose si staccò da Ron preoccupata: spesso combinava dei guai, ma lui la perdonava sempre. Una volta aveva persino fatto volare via Leotordo per lo spavento (con un piccolo aiuto di Grattastinchi e un grosso secchio pieno d’acqua), ed era tornato solo dopo parecchi giorni. Per quell’occasione non era potuta andare dai nonni e dai cugini per un mese, e si era beccata una delle sfuriate più violente di Ronald Weasley. Il giorno dopo, però, era tornato il solito papà caloroso di sempre.
Adesso invece non la stava sgridando, e non dava segni di voler mostrare affetto alla figlia. Rose incominciò a pensare che forse aveva esagerato un po’.
“Papino” disse con voce flebile. “Sei tanto arrabbiato con me?”
“Sì” rispose leggermente alterato “Tu conosci le regole dei maghi meglio di molti adulti, sai che non bisogna esporsi di fronte ai Babbani però continui a fare magie di proposito!”
“Di solito sorvolo sui guai che provochi, ma è la quarta volta che ho dovuto far cancellare la memoria ai tuoi compagni e alla maestra, quest’anno. Sai quanto è frustrante avere una figlia così intelligente che però si comporta in modo così infantile? Le tue azioni si riflettono su di me e su tua madre, facendoci sembrare dei pessimi genitori”.
Rose si sorprese di avere gli occhi lucidi. Per essere una bambina di sette anni le capitava molto raramente di piangere. Ma la nota di delusione che captò nella voce del padre riuscì a riempirle gli occhi di lacrime.
Anche Ron vide che sua figlia stava per piangere. Voleva farle capire di aver sbagliato, ma aveva esagerato. Gli capitava spesso: i concetti che Rose riusciva a esprimere gli facevano dimenticare di avere una bambina davanti a sé, non un adulto. La fece scendere dalle sue braccia, per ricordarsi quanto piccola fosse, e poi si abbassò lui per starle vicino.
“Io ti voglio un mondo di bene” accompagnò la frase con un dolce bacio sulla fronte. “Sei la mia principessa, lo sai, ma devi cercare di comportarti in modo più regale e posato”.
Rose si rasserenò a quelle parole, e rise.
“Ho capito papà, devo controllarmi” disse Rose. “Ma non è facile, sento la magia che mi scorre dentro come un fiume!”
“E questo mi fa molto piacere” disse Ron. “Ma anche i fiumi devono essere controllati, altrimenti rischiano di danneggiare le cose intorno a loro”.
Rose annuì, per far intendere che aveva capito il concetto. Sapeva che era sbagliato fare magie, e che metteva nei guai i suoi genitori più che se stessa, ma era più forte di lei: le piaceva la sensazione di forza che si ritrovava in corpo quando sprigionava la magia. Quando lo faceva, non era più la bambina petulante che risponde a ogni domanda della maestra; quando usava la magia, era un tornado in miniatura, capace di spaventare tutti quelli che la prendevano in giro. Non era giusto perché loro non potevano difendersi alla stessa maniera, le diceva sempre sua madre, e lei anche lo sapeva. Ma una parte di sé (che i suoi parenti chiamavano ‘Ronesca’) la faceva agire d’istinto, senza ragionare, causando così l’ennesimo guaio.
“Ora entriamo da tua madre e le diciamo qualcosa per spiegarle perché sei qui” esclamò Ron.
“Forse è meglio che mi porti con te in negozio, così non dovremmo mentire alla mamma” disse Rose con non curanza.
“Certo, e magari nel frattempo ti faccio testare ogni prodotto Tiri Vispi Weasley” disse sarcasticamente Ron.
“Davvero?”
“Ovviamente no, non voglio che i clienti scappino”.
“Perché dovrebbero scappare?”. L’ultima frase non la pronunciò Rose, e nemmeno Ron.
Hermione era poco distante dai due, con molti fascicoli in mano e una faccia perplessa.
“Hermione, che bello rivederti” disse Ron cercando di distrarla.
“Ci siamo salutati a casa nostra neanche due ore fa” disse Hermione alzando un sopracciglio. Brutto segno.
“Non posso essere felice di vedere mia moglie?” esclamò Ron contrariato.
“Perché Rose è qui e non a scuola?” disse Hermione ignorando il marito. Ron stava velocemente elaborando una scusa, ma fu preceduto da Rose.
“A scuola un ragazzino aveva i pidocchi, perciò ci hanno fatto uscire prima. Papà mi ha già controllato, non ho nulla, ma preferisce non portarmi in negozio, per sicurezza”. La risposta di Rose era stata esposta così bene che Ron si chiese se sua figlia gli avesse mai detto la verità, nei suoi sette anni di vita.
“E ho preferito portarla qua perché non mi andava di disturbare i nostri genitori” aggiunse Ron. “In fondo per te non è un problema, no? Dici sempre che vuoi passare più tempo con i ragazzi”.
“Sì, ma non a lavoro” disse Hermione a bassa voce, rivolta solo a Ron. “Non voglio che sappia cosa sta succedendo in Romania”.
“Basterà non dirle tutto, ma solo il minimo per non spaventarla” bisbigliò Ron.
Hermione annuì.
“D’accordo, la controllo io” disse Hermione.
Ron sorrise e baciò Hermione, un po’ per ringraziamento, un po’ come premio personale. Non è per niente facile imbrogliare sua moglie.
“Io ora vado, ci vediamo più tardi”
Si allontanò salutando le due da lontano, e Rose gli fece l’occhiolino. Quella bambina era impossibile da controllare!

Ma non poteva fare a meno di amarla anche per questo.

 

 

  

***

 

 

 

La giornata era passata piacevolmente sia per Rose che per Hermione. Entrambe si adoravano a vicenda, e si divertivano anche solo parlando di quel che facevano a lavoro, o a scuola, nel caso di Rose. In generale non mentivano l’una all’altra, ma Rose sapeva che sua madre non poteva parlarle di tutti i suoi lavori, e Hermione sapeva che Rose combinava più guai di quelli che le raccontava; però non se la prendevano, e andavano avanti come se non ci fosse nulla da nascondere. Almeno fino alle quattro e dieci di quel pomeriggio. In quel preciso istante, dal camino dell’ufficio di Hermione fuoriuscirono delle scintille verdi, e si alzò la voce di un uomo.
“Weasley, è in ufficio?” gracchiò l’uomo. “Può rispondere?”
Hermione si abbassò verso il camino e gli rispose. “La sto ascoltando Crown”
“Una famiglia rumena sta per arrivare nel suo ufficio, sai cosa fare, vero?”
Hermione annuì, e il volto scomparì così com’era apparso. Lei si voltò verso la bambina, che stava guardando fuori dalla finestra magica.
“Mi dispiace Rose, ma per un po’ dovrai stare fuori dal mio ufficio” disse Hermione dispiaciuta.
Anche Rose cercò di sembrare dispiaciuta per quella notizia, ma in realtà stava facendo i salti di gioia dentro di sé: aveva una scusa per allontanarsi da sua madre e curiosare in giro per il Ministero.
“So cosa stai pensando, ma non puoi gironzolare per il Ministero” disse Hermione a Rose, distruggendole i piani che stava già formulando nella sua piccola testa. “Dovrai rimanere qui vicino, altrimenti non potrai leggere per una settimana”.
“Ma ho appena incominciato a leggere un nuovo libro di Mark Twain…”.
“Motivo in più per non disubbidirmi” sentenziò Hermione.
“Che cosa sta succedendo in Romania?”
 Hermione non si aspettava quella domanda. Era riuscita a nasconderle tutte le pratiche che riguardavano il caso, come aveva fatto a capire che c’erano dei problemi?
“Perché mi fai questa domanda?” disse cautamente Hermione. Forse Rose aveva solo intuito qualcosa, ed era meglio capire subito fin dove il suo intuito l’aveva portata.
“Tu e papà avete bisbigliato a voce troppo alta” disse tranquillamente lei. “Lo fate spesso, pensate che io e Hugo non vi sentiamo, invece ascoltiamo ogni parola”. Si gustò la faccia imbarazzata della madre per un po’, poi fece la domanda che stava trattenendo da tutta la giornata.
“Zio Charlie sta bene?”
“Sì, sta bene” sospirò Hermione.
“Allora perché dici che mi spaventerebbe sapere che succede in Romania?” domandò Rose dubbiosa.
“Ho esagerato” disse Hermione ridendo. “Pensavo che l’avresti trovato spaventoso perché là ai bambini non è permesso uscire, e non possono mangiare la cioccolata”.
Rose assunse una faccia così scioccata che Hermione non poté evitare di scoppiare a ridere.
“Ma allora è il posto più brutto del mondo!” esclamò inorridita Rose. “Come fa lo zio Charlie a viverci?”
“Dove abita lui è come se non facesse parte della Romania, né di qualsiasi altro stato” spiegò Hermione. “È un luogo libero”
“Che bello” disse incantata Rose. “Quanto mi piacerebbe andarci”
E non era la prima volta che lo pensava. Quando immaginava il suo futuro, vedeva il Ministero o lo zio Charlie in groppa a un drago, e cercava mille modi per combaciare i due sogni; diventava Ministro e rendeva i draghi nuovi mezzi di trasporto, al posto delle scope; oppure spostava il rifugio dei draghi in Inghilterra, così da poter essere un impiegata ministeriale di giorno e una domatrice di draghi la notte.
“Se il sogno ad occhi aperti è finito” la canzonò Hermione “Ora dovresti uscire”.
Rose sbuffò irritata, eseguendo quello che le venne ordinato. Non ascoltò le istruzioni di sua madre, ma la vide indicare una sala d’attesa dove di solito vedeva gente strana che aspettava di essere chiamata da un ufficio. Incominciò a camminare mentre sentiva che la madre chiudeva la porta del suo ufficio.
Hermione poggiò la fronte contro la porta, frustrata. Non aveva mentito alla figlia, Charlie non correva nessun pericolo, dove si trovava ora. Una parte di sé, però, continuava a ripeterle che era stato stupido ridurre a del cioccolato mancato i disagi delle famiglie rumene in quel periodo. Si chiese perché non le aveva spiegato le reali condizioni della Romania. Non voleva spaventarla? No, Rose non si sarebbe spaventata di una cosa così lontana da casa, soprattutto dopo aver saputo che lo zio era al sicuro. La verità era che, per quanto volesse rendere i figli indipendenti, per quanto li spingesse a cercare le risposte a tutte le loro domande, non voleva che vedessero quanto il mondo potesse essere orribile e crudele. E sapeva troppo bene che una guerra era la perfetta sintesi di quello che voleva nascondere ai suoi figli.
 

 

 

***

       

 

 

Rose era seduta in una poltroncina della sala d’attesa da circa cinque minuti, ma già non ne poteva più di stare ferma. Non c’era nessuno con cui chiacchierare, né qualcosa da leggere; gli unici oggetti presenti nella stanza erano noiosamente ordinari per trovarsi al Ministero della Magia. C’erano cinque poltroncine di pelle e un tavolo coperto da una pesante e vecchia tovaglia verde, e sopra al tavolo una caraffa di caffè riempiva una tazza di ceramica ogni volta che qualcuno si avvicinava al tavolo.
La poltroncina dove Rose si era seduta era accanto alla porta d’ingresso, messa in modo tale che nessuno che aprisse la porta potesse vederla dall’uscio. Infatti, i due ragazzi che spalancarono la porta del salottino non videro Rose, e non si preoccuparono di controllare meglio.
“Sei sicuro che non ci disturberà nessuno qui?”
“Tranquilla Jessica, non viene mai nessuno in questo vecchio salottino”.
E iniziarono a intrecciarsi le lingue in bocca, appoggiati alla porta spalancata che non faceva vedere loro Rose, ma che non copriva i suoni da loro emessi.
L’ultima volta che Rose si era ritrovata in una situazione del genere (era successo più di una volta), l’avevano sgridata pesantemente, perché pensavano che lei li stesse spiando di proposito. Quella volta non le aveva dato fastidio essere sgridato senza colpe, perché la faccia di suo zio Percy mentre urlava, metà arrabbiato e metà imbarazzato, l’aveva fatta morire dal ridere; ma stavolta sarebbe stata sua madre a rimproverarla, e non c’era niente di divertente in questo.
Scrutò velocemente la stanza, e pochi attimi prima che la porta si chiudesse Rose si era già fiondata sotto il tavolo. La tovaglia non filtrava neanche il più piccolo raggio luminoso, così che lei non potesse né vedere né essere vista. Almeno, non dai ragazzi che gemevano poco lontani da lei.
“Wow!”
Rose si voltò verso la fonte di quell’esclamazione, e si ritrovò davanti a sé: con altri vestiti, certo, e sperava di non fare quella faccia ogni volta che guardava qualcosa di straordinario, ma era proprio lei.
“E tu chi sei?” disse meravigliata la bambina uguale a Rose.
“Chi sei tu, piuttosto!” esclamò Rose quasi offesa. Si riteneva unica, non le piaceva proprio vedere un’altra lei.
“Mi chiamo Emily Dragan” disse sorridente. “Qual è il tuo nome?” ripeté poi.
“Rose Weasley” disse cauta. “Come fai a essere uguale a me?”
Il sorriso andò via da Emily.
“Sei tu che sei uguale a me!” esclamò indignata.
“Non fare quella faccia, devi essere contenta di essere uguale a me!”.
“Non ho voglia di essere uguale a una bimba presuntuosa come te”. Puntellò Rose con l’indice, e ricevette una spinta tale da ritrovarsi a terra. Con i capelli sparsi sul pavimento e la spallina del vestito di Emily spostato, Rose notò qualcosa.
“Cos’è quello?” disse Rose indicando una macchiolina sulla pelle.
“Mamma dice che è una voglia” spiegò Emily “Secondo mio papà assomiglia alla fiamma di un drago, mi chiama ‘Piccola Draghessa’, anche se mamma di che quella parola non esiste. Tu non ce l’hai?”
“No, non ho voglie” rispose Rose, allargando il colletto della T-shirt per mostrare la spalla sinistra.
“Oh, ma allora non sei uguale a me” disse Emily sorridendo. Ora che la sua unicità era stata salvata, anche Rose sorrideva, curiosa di conoscere di più la bambina davanti a lei.

 

 

Note personali (definirmi autrice è esagerato)

Se conoscete il romanzo citato nel titolo, sapete già che cosa accadrà alle due bambine. Ma che conseguenze ci saranno? Verranno scoperte? E per quale motivo Emily era sotto il tavolo?!

Queste e altre domande avranno risposta nei prossimi capitoli, perciò restate in ascolto!

Un grosso abbraccio,
Alexia96

 

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Capitolo 2
*** Perché non... ***


2 . Perché non…

 

Da sotto un tavolo è difficile percepire cosa succede in una stanza intera. Per questo motivo Rose ed Emily continuarono a parlare tra di loro, anche dopo che qualcosa fu appoggiato sul tavolo, facendolo ondeggiare ritmicamente e producendo dei rumori insoliti.
“Scusa se ti ho spinto” disse Rose porgendo la manina a Emily “A volte non controllo la mia magia”.
“Tranquilla, non mi sono fatta niente!” disse Emily sorridendo. Si sedette sulle ginocchia e si sistemò la spallina del vestitino.
“Perché eri nascosta qua sotto?” chiese Rose.
“Non ero nascosta, mi stavo annoiando e mi sono messa a esplorare questa stanza” spiegò Emily. “Quando mi sono infilata qua, ho sentito qualcuno che entrava, e mi sono vergognata a uscire”. Dopo il suo racconto sorrideva ancora, ma le sue guance si erano colorate di rosso.
“Io invece mi sono nascosta perché sono entrati due ragazzi che si baciavano, e non mi andava che mi vedessero”.
Si sentì un forte colpo, e diverse urla. Rose distinse chiaramente le parole ‘Mancanza di pudore!’ e ‘Licenziati in tronco!’, poi cadde un silenzio strano, imbarazzante. Dei passi e un nuovo colpo le fecero intuire che erano sole nella stanza.
“Forse possiamo uscire” disse Rose “Credo che se ne siano andati”. Lei ed Emily alzarono la tovaglia di qualche centimetro, e videro che non c’era nessuno. Uscirono dal loro nascondiglio gattonando, e si alzarono. Rose si lisciò il vestito, levando un po’ di polvere che la fece starnutire.
Să vă binecuvânteze” disse Emily.
“Che
cosa hai detto?” domandò Rose stranita. Emily non capì lo stupore della bambina, poi sembrò rendersi conto di qualcosa.
“Scusa, volevo dire salute” esclamò Emily “A volte mi scappa qualche parola in rumeno”.
Il volto di Rose s’illuminò.
“Tu parli il rumeno?” domandò eccitata.
“Certo, vengo dalla Romania” disse tranquillamente Emily.
Era la prima volta che Rose incontrava una persona straniera, e che riusciva a parlarci. Una volta aveva incontrato un omone con una grossa barba grigia che doveva parlare con suo zio Harry, ma non faceva altro che gesticolare e gridare delle parole incomprensibili in uno strano e sconosciuto dialetto russo. Zio Harry cercava di farsi capire con qualche parola russa, e nel frattempo chiedeva a chiunque passasse di trovare qualcuno che lo parlasse veramente. Probabilmente mescolò un po’ le due lingue, perché a un certo punto i membri del ministero non riuscirono a comprenderlo, e l’uomo russo si arrabbiò tanto da lanciargli un incantesimo che gli graffiò la faccia. Questa bambina invece aveva un’ottima pronuncia, migliore di quella di suo fratello Hugo.
“Romania?” domandò eccitata Rose “E hai mai visto un drago?”
“Sicuro!” disse Emily “Mio papà conosce un uomo… Forse lo conosci anche tu, si chiama Charlie Weasley, è tuo parente?”
“Sì, è mio zio!” esclamò felicissima Rose. Per quanto adorasse suo zio Charlie, lo aveva visto poche volte. L'ultima volta era venuto a trovarli per Natale, due anni fa.
“Mi aveva detto che assomigliavo a sua nipote, ma chi pensava che eravamo praticamente gemelle?”
“Già” disse Rose “Chissà che faccia farà quando lo scoprirà. Tu quando torni in Romania?”
“Spero mai” disse Emily, perdendo il cipiglio allegro tenuto finora.
“Perché no?” chiese Rose, che avrebbe dato tutti i suoi averi (e suo cugino James) per poter andare in Romania. Poi le ritornarono in mente le parole di sua madre.
“Perché non puoi uscire da casa?”
“Esatto, è terribile!” si lamentò Emily “Soprattutto perché papà invece esce ogni giorno”.
“Lui dice che non si diverte quando esce, però non smette! In più non posso vedere nessuno dei miei amici. L’unica cosa bella che posso fare anch’io è andare da tuo zio Charlie. Là posso giocare all’aperto, e forse, se continuo ad aiutarli, mi faranno cavalcare un drago”.
Gli occhi e la bocca di Rose erano spalancati al massimo.
“Oramai però non ha importanza, tanto mi sto trasferendo qui”.
“Qui in Inghilterra?” disse Rose sconvolta “Ma non vuoi cavalcare un drago?”
“Non sono sicura che si può fare davvero, penso me l’hanno detto per scherzo” disse Emily “E comunque non lo voglio fare”.
Preferì non dirle che secondo lei era una pazza, e che al suo posto avrebbe rinunciato volentieri anche al cibo per due minuti vicino a un drago.
“Tu come mai sei qui al Ministero?” chiese Emily a Rose.
“La mia mamma lavora qui” spiegò Rose “Però doveva parlare con una famiglia rumena, e mi ha detto di uscire”.
“Allora forse sta parlando con i miei genitori!” disse Emily entusiasta “Andiamo da loro?”
Rose fece un cenno con la testa, e scortò Emily da sua madre. Una volta vicina alla porta, però, non bussò. Dall’ufficio uscivano delle urla spaventose e confuse, e qualcuno aveva buttato a terra una delle sedie che sua madre teneva di fronte alla sua scrivania, per i visitatori.
“È il mio papà” sussurrò Emily “Sta urlando in rumeno”.
“E che dice?” domandò a bassa voce Rose.
“La tua mamma è qua dentro?”
“Sì”
“Allora è meglio non dirtelo”
Rose stava per chiedere lumi sul perché, ma non ce ne fu bisogno: stavolta era sua madre a urlare.
“GUARDI CHE CAPISCO BENISSIMO IL RUMENO, E NON SONO NESSUNA DI QUESTE COSE!” tuonò Hermione, spaventosa e arrabbiata come mai Rose l’aveva sentita, e come mai sperava di doverla risentire “Vi sto solo illustrando la decisione della Commissione d’Aiuto per la Romania, che tra l’altro non ha niente a che fare con il mio ufficio. Ambasciator non porta pena, o non si Schianta il gufo per la Strillettera, se preferite”.
“Mia moglie è inglese, ha diritto di tornare a Inghilterra con sua familia” gridò il padre di Emily. Il suo inglese era peggiore di quello della figlia, e con un accento molto forte.
“Le ho già spiegato che molti inglesi sono bloccati in Romania, mio cognato in primis” disse Hermione con tono pacato, molto diverso da quello di prima “Date le circostanze, siete fortunati a dover aspettare solo un mese di verifica per potervi trasferire qui”.
“Un mese che dovremo trascorrere in Romania, senza sapere se passeremo la verifica” disse la voce di una donna, la madre di Emily. Il suo inglese, al contrario del marito, era molto pulito, ma risentiva di una cadenza strana, un miscuglio tra gallese e altro.
“Essendo lei del Galles la verifica è solo una formalità” spiegò Hermione “Sono certa che la passerete, a meno che non portiate con voi cuccioli di drago”.
“No, solo Draghessa” disse ridendo il padre di Emily.
“Nostra figlia” chiarì la madre di Emily. Rose s’immaginò la sua di mamma, dopo la parola draghessa. A lei non piacevano i draghi: suo papà le aveva spiegato che aveva avuto una brutta esperienza con un drago; Rose le aveva risposto che si sarebbe fatta legare alla sua coda, pur di vedere un drago.

Si è capito che a Rose piacciono i draghi, vero?
“Uffa, non posso ancora venire qua in Inghilterra” sbuffò Emily irritata.
“Be’, tra un mese potrai venire, non è un gran problema” disse pratica Rose “Così magari puoi vedere ancora i draghi…”.
“Non vedevo l’ora di venire qua, mamma dice che ci sono dei parchi grandissimi pieni di giochi…”.
“E forse zio Charlie te li farà cavalcare! Sarebbe bellissimo!”
“E potrò giocare con tutti i bambini che incontro, senza che la mamma mi porti subito a casa…”.
“Non so che dare per vivere da te!”
L’ultima frase l’avevano pronunciata contemporaneamente, guardandosi dritte negli occhi. Continuarono a fissarsi per qualche secondo, poi, a entrambe, venne un’idea. Un’idea assurda, pazzesca, molto complicata e che certamente le avrebbe messe nei guai se le avessero scoperte.
Ma non sarebbe stato questo a fermarle, non il disubbidire ai genitori.

 

 

 

***

   

 

 

L’ufficio di Hermione Weasley era sempre, impeccabilmente in ordine. Per lei era fondamentale mostrare la sua capacità d’organizzazione, e niente era efficace come un ufficio ordinato e pulito, in qualsiasi circostanza. Suo marito Ron e il suo amico Harry le facevano notare che una maniacale attenzione all’ordine era spesso indice di pazzia, ma in generale non osavano criticare le sue decisioni a riguardo. Si sa che i pazzi vanno assecondati, si dicevano.
Per questo aveva una specie di tic all’occhio, al momento. Le sedie e il divano che lei teneva sempre nello stesso punto ora erano completamente fuori posto, e le sedie erano anche ribaltate. I rotoli di pergamena che aveva diligentemente compilato e ordinato sopra la scrivania erano diventati dei coriandoli sparpagliati nel pavimento. La scrivania di solito immacolata presentava una grossa macchia d’inchiostro nero, finito anche nel suo vestito da lavoro verde.
“Io chiede scusa” disse lentamente la voce di un uomo “Io no controlla mie mani e mia rabbia”
Il tic di Hermione sembrò peggiorare, ma se c’era una cosa per cui era famosa (a parte l’aver contribuito alla fine di Voldemort) era la sua fermezza: se non voleva perdere il controllo, nulla poteva distoglierla dal suo intento.
“L’importante è che avete accettato il compromesso” disse Hermione. Trasse un profondo respiro, prese la bacchetta e con un elaborato movimento di polso sistemò il suo ufficio.
Pero un mese è troppo tempo!” esclamò di nuovo l’uomo. Prima che potesse fare un qualche movimento, la moglie gli mise una mano sul braccio.
“Boris è preoccupato perché gli scontri nelle strade aumentano, così come gli attacchi dei giganti” disse lei rivolta a Hermione “Teme che ci possano attaccare nel cuore della notte, senza darci la possibilità di difenderci”
“Capisco le vostre preoccupazioni, davvero” disse Hermione “Noi inglesi abbiamo avuto lo stesso problema, senza che nessuno Stato ci aiutasse”.
“E tutta la Romania è grata dell’aiuto che ci state dando”. Mentre sua moglie diceva questa frase, Boris sbuffò alzando gli occhi al cielo.
“Mandare Auror che uccide rumeni è aiuto? Grazie tante!” esclamò Boris sarcastico “Fa parlare me, Angel” aggiunse prima che la moglie potesse parlare.
“Auror attacca a maghi oscuri, ma anche a rumeni, senza guardare, senza controllo! Miei amici morti due mesi fa, Auror inglesi li uccide”
“Questo lo ritengo improbabile” disse ferma Hermione “Il Capo dell’Ufficio Auror è il mio migliore amico…”.
“Potter, sì, lui non controlla più Auror, chieda a incapace!” gridò Boris.
“Signor Dragan, non le permetto di mancare di rispetto ai miei cari!” esclamò Hermione. Stava avendo serie difficoltà a mantenere il suo autocontrollo.
“E io volio che guerra finisce, ma prima suo amico deve controllare Auror, o niente finisce!”
Boris e Hermione si lanciavano sguardi di sfida, per vedere chi sarebbe stato il primo a continuare il diverbio, pronti a scaricare la tensione che entrambi sopportavano da mesi.
Perché sì, Boris aveva ragione: gli Auror mandati da Harry erano stati soggiogati dalla Forza Oscura che stava cercando di impadronirsi della Romania. Non erano stati controllati grazie alla Maledizione Imperius, semplicemente erano passati al fronte nemico, senza una vera spiegazione. Auror impassibili e che aveva combattuto per anni le Forze Oscure in questo momento stavano devastando le città rumene, non fermandosi davanti agli innocenti, o ai vecchi colleghi e amici inglesi. E per questo Harry lavorava giorno e notte, e il solo motivo per cui non era andato personalmente in Romania era che il Ministro preferiva che lui rimanesse a Londra, per controllare anche gli Auror rimasti nel territorio inglese; nulla escludeva che il cambio di bandiera non potesse accadere anche ai membri rimasti in Gran Bretagna. Harry stava affrontando un periodo difficile, e i rappresentanti delle altre nazioni non facevano altro che aumentare lo stress che si trascinava dietro. E se alcuni si erano mostrati disponibili a collaborare per terminare in fretta la guerra, altri si allontanarono immediatamente; in particolare il ministro russo aveva aggredito il suo amico, tagliando così non solo il suo volto, ma anche ogni possibile ponte fra Regno Unito e Russia.
E Hermione, come poche altre volte nelle loro vite, non poteva fare nulla per aiutarlo. Nulla, tranne che difenderlo nella discussione con Boris.

 

 

 

***

 

 

 

“Leggi molto, sei allergica ai mirtilli, ti piacciono i draghi, il tuo cugino preferito è Albus, quello che detesti è James perché ti fa sempre un sacco di scherzi” elencò Emily accucciata sotto il tavolo dove si erano conosciute lei e Rose.
“Tua mamma si chiama Herr… Hemmi…”
“Chiamala semplicemente mamma, non penso sia un problema” disse Rose mentre si slacciava le scarpette. “Sei sicura che non dovrò parlare il rumeno?”
Emily annuì.
“Non conosco nessuno che lo parla, anche i miei amichetti parlavano inglese, e la mamma vuole che papà si eserciti, quindi parlo inglese anche con lui”.
Emily sfilò dalla testa il suo vestitino, producendo un dolce tintinnio. Una catenina d’oro stava oscillando attorno al suo collo, mentre un grosso ciondolo ovale sbatteva contro il petto della bambina.
“Cos’è quella?” chiese Rose indicando la collana.
“Oh, è il ciondolo di nonna Agnes” spiegò Emily. “Me l'ha dato la mamma, è il suo più caro ricordo della nonna”.
“Devi darmelo, altrimenti poi si accorgerà dello scambio”.
“Non posso!” esclamò Emily. “Ho promesso di non togliere mai la collana. In più” aggiunse, “mi ha detto che nessuno deve vedere che ho io la collana, neanche lei”.
“Va bene” disse Rose “Non parlerò mai della collana, ma tu devi ricordarti di vestirti e lavarti da sola”.
“Per non far vedere la voglia, lo so”.
Le due bambine finirono di spogliarsi e, in silenzio, ognuna mise i vestiti dell’altra. Una volta finito, uscirono da sotto il tavolo, soddisfatte.
Rose non si conteneva dalla gioia. Continuava a sorridere, non diversamente da come aveva fatto Emily quando si erano incontrate; è questo la rendeva ancora più euforica.
“Ok, quindi ora dobbiamo spiare l’ufficio di tua mamma e aspettare che i miei genitori escono” disse Emily “Poi io entro nell’ufficio, mentre tu vai dai loro, esatto?”
“Giusto!” disse Rose. “e poi tra un mese tu devi fare in modo di essere qui al Ministero, così da poterci scambiare di nuovo”.
Era un piano geniale. E sebbene non fosse tutta farina del suo sacco, Rose non riusciva a non compiacersi della sua capacità di escogitare nuovi modi per disubbidire ai genitori.
“E sei sicura che funzionerà?” domandò Emily.
“Nel libro che ho letto funziona, e se non dimentichi i nomi dei miei cugini, non ci saranno problemi”.
“La fai facile, hai un sacco di cugini” disse corrucciata Emily.
“Un sacco di cugini con cui puoi giocare nel giardino della Tana, all’aria aperta” precisò Rose. “Mentre io invece cavalcherò un drago!”
“Te l’ho detto, era una battuta di tuo zio…”.
“Non importa, lo convincerò io!”.

 

 

 

  

 

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Capitolo 3
*** Scambio di casa ***


3. Scambio di casa

            

Angel e Boris Dragan avevano appena chiuso la porta dell’ufficio di Hermione, quando una vocina li fece voltare verso il fondo del corridoio di fronte a loro.
“Ciao mamma, ciao papà!”.
Rose/Emily si avvicinò ai signori Dragan, raggiante.
“Allora, com’è andata?” chiese la bambina, cercando di sembrare la più curiosa possibile.
“Mi dispiace, piccola” disse la madre, inginocchiandosi di fronte a lei. “Purtroppo dovremo aspettare ancora un mese prima di trasferirci qui”.
“Oh”. Cercò di sembrare dispiaciuta della notizia, ma subito riprese il sorriso. “Però tra un mese ritorneremo qui in Inghilterra, vero?”
“Sì, picola Draghessa” disse il padre
“Allora va bene!” disse Rose con un sorriso a trentadue denti.
I due genitori si sguardarono confusi.
“Insomma” continuò Rose, notando il loro stato d’animo, “Volevo tanto venire qua, ma se devo aspettare solo un mese, posso farcela. Soprattutto se andiamo a trovare Charlie Weasley”.
Boris sorrise raggiante, e disse qualcosa in rumeno. Rose per un attimo andò in paranoia, ma poi ricordò le parole di Emily.
“Papà, tra un mese sarai inglese, non puoi parlare rumeno”.
Stavolta toccò ad Angel ridere, mentre Boris fece una smorfia tra il seccato e l’offeso. Poi prese Rose da sotto le ascelle e se la mise sulle spalle.
“Stavo dicendo che tua era ottima idea, Draghessa” disse Boris pizzicando il naso alla piccola.
Rose lo trovò incredibilmente fastidioso, ma dovette starsi zitta: era una delle cose che Emily e il padre facevano sempre.
“Allora andiamo!” disse Rose, e pizzicò a sua volta il naso a Boris.
Così, Angel e Boris avanzarono verso gli ascensori, più allegri di come la loro situazione permettesse; senza sapere che la vera Emily li stava guardando dal salottino in fondo a quel corridoio dove aveva incontrato Rose.
Si sentiva triste a doversi separare dai suoi genitori. Per lei non erano solo quello, non erano solo la sua mamma e il suo papà, erano anche, e soprattutto, suoi amici: sebbene le dispiacesse non passare del tempo con dei suoi coetanei, non avrebbe mai rinunciato al tempo passato con loro. E sì, negli ultimi due anni sono stati i suoi unici compagni di gioco, ma a lei non dispiaceva. Perciò dovette ricordarsi delle parole di Rose: è solo un mese, sarò circondata da cugini e potrò uscire quando mi pare e piace.
Più serena, si accorse appena in tempo che Hermione era uscita dal suo ufficio, e che si stava dirigendo proprio verso di lei. Emily ebbe a malapena il tempo di sedersi su una poltroncina, che si aprì la porta.
“Ciao mamma!” disse Emily/Rose.
“Ciao” disse perplessa Hermione. “Non mi aspettavo di trovarti qui”.
“Ho pensato che non aveva senso andare in giro per questi uffici, perché ormai li conosco a memoria” disse Emily, ripetendo le parole che Rose le aveva suggerito di dire, conoscendo la natura dubbiosa della madre, e sapendo quale risposta si sarebbe aspettata di sentire.
Effettivamente Hermione non sembrò stupirsi della risposta, che Emily non avrebbe mai avuto il coraggio di dire. I suoi genitori potevano anche essere suoi amici, ma li trattava sempre con rispetto e garbo, senza replicare o rispondergli.
“Dai, andiamo a casa” Hermione fece un cenno con la mano, ed Emily la seguì. D’istinto stava per stringerle la mano, ma si fermò appena in tempo: Rose le aveva raccontato di come lei preferiva camminare da sola, senza che qualcuno la tenesse. Si diressero quindi fianco a fianco, senza però toccarsi, verso gli ascensori dorati.

 

 

 

***

 

 

 

Casa Weasley era, in una parola, piena: piena di foto alle pareti; piena di giocattoli e merendine dall’aspetto insolito; piena d’affetto e calore umano sprigionato da ogni singolo angolo della casa. Eppure, nonostante ogni corridoio fosse ricolmo di oggetti, era tutto perfettamente in ordine. Era come se il caos e l’ordine coesistessero nello stesso piano, senza combattersi a vicenda per cercare di prevalere sull’altro. Era un perfetto ordine caotico. Ed Emily lo trovava splendido.
“Puoi andare a giocare un po’ in camera tua, ma tra poco si cena” disse Hermione mentre appendeva il suo cappotto all’ingresso. “Ti senti bene?” aggiunse, dopo aver notato che sua figlia si era fermata in mezzo al salotto con una faccia sbalordita.
“Cosa?” esclamò Emily distratta.
“Che cosa stai guardando?” chiese Hermione alla bambina, avvicinandosi a lei. Emily cercò qualcosa da dire, ma per fortuna il rumore della porta d’ingresso che si apriva distrasse Hermione dal suo comportamento.
“Gli uomini di casa sono tornati!” Ron entrò nel salotto, insieme a un bambino col viso pieno di lentiggini e un piccolo cespuglio rosso in testa. Emily lo riconobbe come Hugo, il fratello di cinque anni di Rose.
“Ciao mamma!” esclamò Hugo pimpante. “Ciao Vose”.
Emily scoppiò a ridere per la pronuncia del bambino, ma capì subito di aver fatto qualcosa di tremendamente sbagliato: Hermione la guardò arrabbiata, mentre Hugo sembrava sul punto di piangere.
“Rose!” gridò Hermione. “Ti abbiamo detto mille volte di non prendere in giro Hugo per come parla!”.
Ron rimase impassibile: Hermione prendeva sempre molto a cuore quel piccolo difetto di Hugo, perché lo aveva avuto anche lei, da bambina. Lui invece, come Rose, lo trovava buffo, e capitava spesso che scherzassero con lui su questo. Ma mai Rose era scoppiata così apertamente in una risata, tanto forte da sembrare offensiva.
“Io non volevo prenderlo in giro” cercò di scusarsi Emily. “Davvero, solo…”.

E ora che posso dire? pensò Emily.
“Dai, in fondo Rose non ha fatto nulla di male” cercò di aiutarla Ron. “Sta solo sdrammatizzando”.
Hugo, dal canto suo, sembrava ancora offeso.
“E poi non stavo ridendo di te, Hugo” aggiunse Emily.
“E di chi videvi?” domandò Hugo, sospettoso.
“Di… un uomo che ho visto al ministero” inventò Emily sul momento. “Che si chiamava Hugo… e aveva delle corna blu sulla testa”.
Hugo scoppiò a ridere, e anche Ron sembrò credere alla bugia. Hermione invece continuava a guardarla con serietà.
“Allora non è vero che non sei uscita dal salottino” disse Hermione fissandola con più intensità di prima, tanto da sbarrare gli occhi. Ora Emily doveva scegliere se mentire alla finta madre, e probabilmente essere punita, o ammettere che l’erre moscia di Hugo era terribilmente buffa per lei.
“E va bene” disse Emily. “Lo ammetto: sono andata in giro per gli uffici”.
Hermione sbuffò esasperata, ma era molto più pacifica di prima.
“Chiedi scusa a tuo fratello e andate di sopra, prima che cambi idea e ti punisca”.
Ron osservò Hugo andare al piano di sopra con Rose, che gli chiedeva scusa per aver riso di lui e gli prometteva che non si sarebbe mai ripetuta una cosa del genere.
Lui e Hermione, invece si sedettero sul divano. Nel volto della moglie si leggeva ancora il turbamento per quello che era successo. Ron non ebbe il tempo di dischiudere le labbra che Hermione lo interruppe.
“Lo so che ho esagerato” disse lei. “È più forte di me: quando si tratta di Hugo, divento iperprotettiva, attacco persino Rose, è incredibile, sono una madre…”.
Ron le tappò la bocca con un bacio. Hermione non riuscì nemmeno a protestare che subito lui prese a parlare al posto suo.
“Sei una madre fantastica” completò Ron per lei. “E se a volte preferisci schierarti dalla parte di Hugo, piuttosto che da quella di Rose, non c’è niente di male”.
Hermione fece un sorriso stanco, e si appoggiò alla spalla del marito.
“A volte dimentico la tua saggezza, sai?”.
“Penso che con la barba avrei un’aria più intelligente, che ne pensi?”.
Hermione non rispose. Si alzò dal divano, e con un ghigno si fermò proprio dietro di Ron.
“Penso che prima dovresti preoccuparti di far crescere i peli sulla testa”. E detto ciò sfiorò un punto del capo di Ron in cui cominciavano a mancare i capelli.
Ron non reagì subito alla provocazione di Hermione. La moglie era già in cucina quando lui urlò: “NON sto perdendo i capelli!”.

 

 

 

***

 

 

 

“Emily, siamo arrivati” mormorò Angel all’orecchio di Rose. La bambina mormorò infastidita, mentre sentiva un treno fischiare nelle vicinanze.
Aperti bene gli occhi, ricordò dove si trovava: erano su un treno Babbano preso a Berlino, la città dove erano atterrati con la Passaporta di Londra. Saltò giù dal suo sedile, uscì dallo scompartimento e scese giù dal treno. Emily le aveva detto che il suo villaggio non era bello come Londra ma Rose non riuscì comunque a non rimanere scioccata quando uscì dalla stazione.
Dragomirești era la città più triste che avesse mai visto. Le strade erano piccole e sudicie, senza alberi sui marciapiedi o cartelli che indicassero le vie. Quasi tutte le case avevano le finestre sbarrate da assi di legno marce, e i giardini incurati, con l’erba secca. I pochi volti che giravano per le strade tenevano il volto chino, senza mai incrociare lo sguardo con qualcuno. Il tutto era contornato da un’aura grigia, un misto di cielo plumbeo e nebbia fitta.
“Beh, siamo tornati” disse la madre, malinconica.
“Già” rispose Rose, e il suo tono rasentava la depressione cronica.
Il suono di quello scambio di battute fu l’unico che sentirono per tutto il viaggio verso casa. Durante il tragitto, Rose riuscì a sbirciare attraverso qualche fessura di quelle assi di legno, e vide che le case erano tutte abitate. Ma anche se a ogni loro passo la luce del Sole scemava, da nessuna finestra usciva il minimo bagliore di una lampadina, e dai comignoli non usciva fumo che potesse presupporre un fuoco. Dopo dieci minuti di camminata si fermarono davanti a una villetta, che in confronto alle altre dimore sembrava una reggia.
“Voi sta qua” sussurrò Boris. Lui attraversò il giardino, e Rose lo vide estrarre la bacchetta. Anche Angel la estrasse, controllando che nessuno arrivasse da qualche vicolo o spuntasse all’improvviso.
Dopo qualche altro minuto in cui Boris fece qualche incantesimo alla casa, la porta si aprì. Angel sospirò di sollievo, e spinse Rose a entrare.
L’interno della casa era molto spoglio, ma pulito e in ordine. Rose pensò che probabilmente la situazione dei Dragan era la meno problematica della città, e che tutto sommato non era molto peggio di casa sua.
“Perché non vai di sopra a riposare?” le disse Angel. “Poi ti chiamo io per cenare”.
Rose annuì e salì le scale, ringraziando il cielo che non salissero con lei, così che potesse ispezionare la casa.
Angel e Boris invece si diressero verso la cucina. Lei si avvicinò ai fornelli. Lui chiuse la porta con la bacchetta, che emise un bagliore giallo.
Per fortuna non ci sono stati attacchi, in nostra assenza” disse Boris in rumeno.
“Dovresti parlare inglese anche quando non c’è Emily, lo sai?” disse Angel accennando un sorriso. Si girò verso di lui, e vide che il suo volto era contratto in una smorfia esasperata. Questo la fece ridere, e decise di accontentarlo.
“Ok, parliamo rumeno” gli disse. “Vuoi parlare di Quidditch?”.
“In dieci anni di matrimonio non abbiamo mai parlato di Quidditch e vuoi farlo ora?” rispose Boris. “Sai di cosa dobbiamo discutere”
Angel sospirò. Aprì la bocca, ma non riuscì a esprimere nulla. Si girò nuovamente verso i fornelli, e prese a cucinare.
“Non puoi tenerti tutto dentro, devi sfogarti!” esclamò Boris. Si avvicinò a lei e strinse dolcemente le sue spalle.
“Per favore, dimmi qualcosa”. Lo sussurrò appena, ma Angel riuscì a sentire il dolore che quelle parole nascondevano, l’angoscia e la paura che ormai accompagnava ogni loro giornata.
“Che cosa dovrei dirti?”. Anche Angel sussurrò, ma nelle sue parole nulla era nascosto, si riusciva a percepire tutto nella sua voce tremante, e Boris si accorse che anche le spalle tremavano.
“Dovrei dirti che avevo voglia anch’io di distruggere quell’ufficio, e magari anche di dare un pugno a quella donna?”
Se sua moglie non stesse tremando, avrebbe anche potuto ridere per quella confessione. Ma non c’era nulla di divertente nel tono della donna. Era un lamento, uno di quelli che sentiva spesso, ultimamente.
“O magari” continuò, “dovrei dirti che mi sento una stupida a essere tornata qui, nonostante il pericolo che corriamo ogni singolo minuto trascorso in questa casa”.
Boris fece voltare Angel verso di lui. Come immaginava, non una lacrima usciva dai suoi occhi, anche se erano comunque lucidi. Erano poche le cose che potevano farla scoppiare; ma anche con quelle lei resisteva. Voleva sempre mostrarsi forte ma sapeva, purtroppo, che la loro condizione la stava distruggendo.
“Oh, ecco un’altra cosa” disse alzando il tono di voce, guardandolo dritto negli occhi.
“Mi sento la madre peggiore del mondo per non essere capace neanche di ritornare nel mio paese natale per mettere al sicuro mia figlia!”
“Questo non lo devi mai dire!” anche lui urlo, conscio che l’incantesimo lanciato alla porta non avrebbe permesso a Emily di ascoltare, neanche se si fosse appoggiata alla porta.
“Non devi mai dire che sei una pessima madre, perché non è così. Da quando è iniziata questa guerra, hai vissuto solo per Emily, l’hai protetta meglio di quanto io avrei mai potuto fare, gli hai dato quello che molti altri bambini non hanno: una vita felice”.
“È vero che abbiamo il minimo indispensabile per sopravvivere, ma non hai mai fatto mancare nulla a nostra figlia. Parla l’inglese, è intelligente, non fa altro che sorridere tutto il giorno, e questo perché tu la proteggi dalla guerra sia fisicamente che emotivamente”.
Angel sembrò rilassarsi, ma Boris notò che ancora non era del tutto convinta.
“E se consideriamo che in tutto questo non hai mai mancato di adempiere ai tuoi doveri coniugali” aggiunse sorridendo Boris “sei la madre e moglie migliore al mondo!”
Anche Angel sorrise, e lentamente rilassò i suoi muscoli.
“Se lo sono, è solo merito tuo” disse Angel, appoggiando il capo contro il torace del marito.
“Sì, so di essere anch’io il migliore marito del mondo”.
Angel alzò lo sguardo verso Boris, e quasi gli rise in faccia nel vederlo imitare la posa tipica dei supereroi americani.
“Sei sempre il solito scemo!”
“Non è per questo che mi ami?”
Angel annuì, e lo baciò.

 

 

 

***

 

 

 

Un uomo correva senza sosta lungo un isolato sentiero di campagna. Il volto era sudato e rosso, ma non accennava a fermarsi. A un certo punto, dal nulla comparve una villa immensa, circondata da un recinto murato. All’ingresso, un cancello in ferro battuto si aprì cigolando, permettendo all’uomo di entrare senza fermarsi. Lo stesso accadde per il portone, che si aprì mostrando la meravigliosa sala d’ingresso, e con una stanza al piano superiore. L’uomo si fermò all’uscio, con il fiatone, piegato sulle ginocchia.
Per la precisione si trovava in uno studio: le pareti erano coperte da enormi librerie che non lasciano intere il loro vero colore, e una poltrona bordeaux era messa vicino a un caminetto acceso, unica fonte di luce ora che era calata la sera.
“Signore” disse ansante l’uomo, rivolgendosi alla poltrona “ I Dragan sono tornati”.
Continuò ad ansimare, senza che qualcuno desse segno di averlo sentito. Poi, sentì ridere. Una risata gelida, stridula, in grado di far venire la pelle d’oca a chiunque la sentisse. Una figura si alzò dalla poltrona, e la luce del camino creò un’ombra amorfa, che coprì l’uomo fermo sull’uscio, tanto pietrificato da quel suono da non riuscire a riprendere fiato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

N.P.

 

Ammetto sia passato un bel po’ di tempo dall’ultima volta che ho pubblicato, ma ci siete ancora? Mi seguite? Se sì, vi ringrazio, e vi chiedo cortesemente di farmi sapere che ne pensate. Va bene qualsiasi cosa, davvero, anche un “OK”.
Se non mi seguite, perché non ne discutiamo insieme? Basta mettere una recensione, così che io possa conoscere il vostro punto di vista e rispondervi.
Quindi, riassumendo: recensite!

 

Alexia96

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

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Capitolo 4
*** Vari tipi di voci ***


 

4. Vari tipi di voci

 

Crescendo insieme a sei fratelli maggiori, Ginny Potter si era abituata a vedere le cose più assurde, soprattutto di prima mattina. Dagli esperimenti esplosivi di Fred e George alle esibizioni canterine di suo padre durante la doccia mattutina, nulla ormai riusciva a coglierla di sorpresa.
Anche se, quella mattina suo fratello Ron e suo marito Harry ci andarono molto vicino.
“CHE COSA È SUCCESSO QUI?”.
Aveva appena sceso le scale, superando il salotto per dirigersi verso la cucina, quando con la coda dell’occhio vide qualcosa che la fece bloccare sul posto. Sul pavimento c’erano fogli stracciati e bottiglie di Burrobirra e Whiskey Incendiario che avevano macchiato il pavimento, il tappetto e buona parte della poltrona che una volta era di colore bianco. Il divano non era sporco ma Ginny non riusciva a togliere il suo sguardo da lui e chi lo occupava: Ron e Harry, sdraiati e abbracciati l’un l’altro, profondamente addormentati. Il suo urlo riuscì a svegliare Harry, che emise una specie di rantolo mischiato a uno sbadiglio. Harry cercò di alzarsi, ma si accorse troppo tardi che Ron era sdraiato sul suo petto, e lo buttò a terra con un grosso tonfo. Sul momento non accadde nulla; poi Ron s’issò di scatto, girandosi verso Ginny.
“Non è come sembra!” biascicò Ron.
“Non hai cercato di tirare su il morare a Harry facendogli bere litri di alcol e distruggendo tutti i suoi documenti e il mio salotto?” disse con tranquillità Ginny.
“Esatto!” rispose fermo Ron.
“Allora” continuò Ginny “devo presumere che tu sia venuto qua ieri sera con queste bottiglie, hai fatto ubriacare Harry, gli hai confessato il tuo eterno amore per lui e avete passato una notte di passione selvaggia, pur sapendo che io dormivo un piano sopra di voi”.
Ron si grattò il collo, mentre le sue orecchie s’imporporavano insieme al viso.
“Qual era la prima?”
“Cameratismo nei confronti di Harry”
“Aggiudicata!” esclamò Ron. Harry cercò di soffocare una risata, senza però riuscirci.
“Tu zitto, dopo arrivo anche da te” disse Ginny puntandogli il dito contro. “Tu sei in grado di tornare a casa?” chiese a Ron.
“Certo” disse Ron. E non si mosse di un millimetro verso la porta, né cercò la sua bacchetta per materializzarsi.
“Riformulo la domanda” disse Ginny cercando di non ridergli in faccia “Hai la forza e il fegato per tornare a casa da Hermione?”.
Ron abbassò lo sguardo verso il pavimento, ancora più rosso di prima.
“No” disse Ron, e lo fece con la voce da cane bastonato. Ginny sospirò esasperata, mentre si chinava a raccogliere un foglio non troppo malridotto e qualcosa con cui scrivere. Trovato tutto l’occorrente, levò qualche bottiglia dal tavolino da caffè vicino al divano e scribacchiò velocemente qualcosa. Una volta finito si alzò e diede il foglio a Ron.
“Dallo a Hermione, avrà pietà di te”.
Ron mormorò un grazie, levò la bacchetta dalla tasca e sparì in un pop.
Harry continuò a fissare il punto in cui Ron era scomparso. Non stava più ridendo e Ginny costatò con tristezza che stava riprendendo lo stesso umore nero che da giorni lo appestava. Harry sapeva quanto facesse male alla moglie vederlo in quelle condizioni, ma non riusciva più a sopportare lo stress che gli si era accumulato sopra e questo, purtroppo, si rifletteva anche nel suo comportamento a casa.
“Conosci un incantesimo per ripulire i fogli?” chiese Ginny. Si sedette accanto a Harry, che stava cercando la bacchetta in mezzo ai cuscini del divano.
“Io no, ma Hermione sì” disse Harry. Recuperata la bacchetta, fece un colpo secco col polso, e le bottiglie sparirono. Un altro gesto, e i fogli si raggrupparono sopra il tavolino, spiegazzati e macchiati.  
“Erano molto importanti?”
“Sono solo le novità arrivateci dagli Auror ancora sotto il Ministero riguardo quello che sta succedendo in Romania” rispose Harry. “Quindi no, non sono importanti, posso tranquillamente sostituirli con un foglio del mese scorso, o di quello prima ancora, non ci sarebbe differenza”.
A Ginny stringeva il cuore sentirlo parlare così: rassegnato, stanco, depresso. L’Harry che aveva davanti era un uomo che nessuno che lo conoscesse avrebbe mai pensato di vedere. Un uomo senza speranza.
“Io ho poche certezze nella vita, Harry” incominciò Ginny. Strinse la mano di suo marito, ma lui non diede segno di essersene accorto. “So che non cucinerò mai bene come mia madre, che mio fratello Ron non ha spina dorsale a sufficienza da affrontare sua moglie” e qui vide un accenno di sorriso nel volto di Harry “e so che tu non sei in grado di arrenderti. Sei troppo testardo per gettare la spugna”.
“C’è chi la definirebbe perseveranza” mormorò Harry. Strinse più forte la mano di Ginny, e si voltò a guardarla. A volte non gli serviva altro: se sentiva la sua forza andarsene, se aveva bisogno di sentirsi meglio, se semplicemente voleva un po’ di conforto, doveva solo guardare Ginny. E basta. Niente parole, scambi di baci o carezze amorevoli. Gli occhi di sua moglie erano in grado di riempirlo di conforto, senza dover aggiungere altro.
“O meglio ancora coraggio” aggiunse Ginny, dandogli un bacio a fior di labbra. Poi un altro, più lungo. E un altro ancora. Forse quei baci sarebbero sfociati in qualcos’altro, ma furono interrotti da un coretto di acute esclamazioni.
I loro figli James, Albus e Lily stavano ammirando il caos del salotto dalla porta che lo collegava al corridoio, con le bocche spalancate dallo stupore.
“Chi è stato?” chiese sbalordito James. Di solito era lui quello che combinava guai del genere.
“È stato papà?” domandò Lily. “Per questo ha dormito sul divano?”
Ginny rise, notando che sua figlia era molto vicino alla realtà.
“Diciamo di sì” rispose Ginny, ridendo, e trascinando con sé anche Harry.
 

 

 

***

 

 

 

Erano già due settimane che Emily viveva in casa Weasley e nonostante le iniziali difficoltà, ormai si era adattata a quella nuova vita, così diversa e migliore alla precedente sotto tantissimi aspetti. Non era mai da sola, ma non lo trovava asfissiante come Rose, anzi lo adorava; i suoi genitori rumeni le mancavano, ma Ron e Hermione non le facevano mancare nulla, né attenzioni né altro; e soprattutto, non doveva rimanere chiusa in casa. A volte passava il pomeriggio sdraiata sul prato di casa a fissare le nuvole per ore, senza pensare a nulla tranne che a quanto si sentisse felice e libera in quella casa. Anche questa mattina si era alzata con questi sentimenti, ma le persone attorno a lei non rispecchiavano lo stesso umore. Hugo, con cui aveva legato molto dopo l’incidente dell’erre moscia, era seduto accanto a lei tecnicamente per fare colazione. In pratica stava dormendo con la guancia schiacciata contro il tavolo. Hermione invece era molto agitata, tanto che non riusciva a rimanere seduta due secondi senza poi scattare in piedi a prendere qualcosa o a passeggiare nervosa attorno alla sedia. Infine, Ron non era ancora sceso a mangiare, cosa che aveva dell’incredibile, o così aveva comunque imparato in quei giorni.
“Mamma, perché sei così agitata?” chiese Emily intimorita. Hermione si voltò verso di lei, senza però guardarla davvero.
“Nulla, nulla… Non è successo niente… Non è più un Auror, non è in pericolo…” Continuò a farfugliare finché la porta dell’ingresso non si aprì. Emily la vide spalancare gli occhi e scattare verso l’entrata. Sentì il nome di Ron urlato con forza, e la curiosità di vedere cosa stava succedendo la spinse a sbirciare i due adulti. Nascosta dietro una porta, vide Hermione furiosa e Ron terribilmente dispiaciuto. Notò che aveva un foglio tra le mani e anche Hermione lo vide. Glielo strappò via con violenza e lo lesse mantenendo quel cipiglio seccato; ma una volta finito di leggere il foglio sospirò triste e abbracciò il marito. Emily si stupì del repentino cambiamento d’animo, e si stupì di sentirla dire: “Vai sopra a farti una doccia, io avverto George che arriverai in ritardo”. Ron la lasciò qualche secondo dopo, e salì moscio verso il secondo piano. Lo seguì con lo sguardo sporgendosi di più, tanto che Hermione si rese conto della sua presenza.
“Rose!” esclamò Hermione “Hai origliato?”
“Ecco, io…” balbettò Emily “Sì, ma perché ero preoccupata per papà, tu hai urlato, e mi sono spaventata”.
Hermione le sorrise dolcemente.
“Chiama Hugo, prima di andare a scuola dobbiamo passare da casa di zio Harry e zia Ginny” le disse. Emily tornò velocemente in cucina e diede un pizzicotto a Hugo.
“Ahi, Vose, mi hai fatto male!” strillò il bambino “Che vuoi?”
“Dobbiamo andare dai cugini Potter, sbrigati!” esultò estasiata Emily. Adorava i piccoli Potter, soprattutto James. Per Rose era il contrario, ma pensò che lo odiasse soprattutto perché erano davvero simili. Albus e lei passavano molto tempo insieme solo perché doveva far finta di essere Rose: era un ragazzino simpatico, ma lei avrebbe voluto poter intensificare il rapporto con il ‘cugino’ più grande.
Era ancora immersa in quei suoi giudizi quando Hermione suonò al campanello di casa Potter. Ginny aprì loro la porta con un sorriso vispo ma con gli occhi stanchi.
“Ciao ragazzi” disse allegramente “Che fate qua?”
“Oggi ho pensato di accompagnare io i ragazzi a scuola” disse semplicemente Hermione “Non è il mio turno, ma non ho voglia di arrivare puntuale. Ogni volta poi mi ritrovo da sola, è seccante”.
Ginny li fece entrare, ed Emily credette di sentire un ‘grazie’ sussurrato all’orecchio di Hermione.
“James e Al stanno finendo di vestirsi” disse Ginny rivolta a Rose e Hugo “Mentre aspettate, potete andare in cucina, ci sono Lily e dei muffin ancora caldi che vi aspettano” Hugo sfrecciò senza dare il tempo di dire altro. Emily invece rimase un po’ indietro ad ascoltare le due donne.
“Harry come sta?” bisbigliò Hermione.
“Bene, ora è sopra a farsi una doccia” rispose Ginny “Non è che potresti dare una sistemata ai suoi documenti?”
“Certo!” disse Hermione con un sorriso.
Emily decise di dirigersi in cucina dove Hugo, tutto contento, stava mangiando un muffin al cioccolato. Lily invece sembrava fissare il vuoto. Non era la prima volta, ricordò Emily, che la ritrovava in questa posizione e ogni volta che distoglieva lo sguardo, faceva qualcosa di strano, come spostare le persone o cambiare la posizione degli oggetti nella stanza. Quando finalmente smise di contemplare le macchiette sulla parete, sembrò accorgersi dei cugini.
“Ciao Lily” disse educatamente Emily.
Lily le lanciò uno sguardo confuso e spaventato. Svelta, scese dalla sedia, le strinse il braccio e la fece uscire dal salotto. Continuò a trascinarla fino al sottoscala, che aprì con la magia. Entrarono nella stanzetta piena di polvere, Lily richiuse tutto e accese una piccola lampada che pendeva dal soffitto.
“Ti ho sognata” disse tutto d’un fiato Lily “Eri con una bambina uguale a te, vi stavate scambiando i vestiti e volevate ingannare qualcuno”.
Emily spalancò la bocca, scioccata, e cominciò a sudare freddo.
“Era solo un sogno Lily” cercò di spiegare Emily uscendo dalla bocca una vocina più acuta del solito “Non significa niente…”.
“Succederà qualcosa di brutto se ascolterai quella bambina” continuò agitata “Per favore, non ascoltare quella bambina, va bene?”
Emily vide che Lily era rimasta terrorizzata da quel sogno e anche lei ora si sentiva turbata. Annuì promettendo che non avrebbe dato ascolto a nessuno che le somigliasse, ma solo Lily si tranquillizzò con quelle parole. Emily, invece, ebbe il terribile presentimento che le sue parole potessero corrispondere a verità.

 

 

 

***

 

 

 

Un corpo cadde a terra agonizzante dal dolore. Si rigirava, non riuscendo neanche a urlare per l’intensità della maledizione che stava ricevendo. Attorno a lui diversi uomini lo osservavano, impassibili, freddi e immobili.
“Basta così” sentenziò una voce piatta fuori dal cerchio formatosi attorno all’uomo.
L’uomo si fermò e si sdraiò di schiena, ansimando forte, gli occhi chiusi e la mano sul petto. Dalla fronte scendevano piccole perle di sudore che scivolavano giù fino al pavimento di pietra. Un piccolo varco si aprì in mezzo al gruppo di spettatori e la voce di prima si avvicinò al centro. Camminò, facendo riecheggiare i suoi passi, unico suono insieme agli ansiti dell’uomo a terra. Arrivato ai suoi piedi, si chinò su di lui, uscendo la sua bacchetta dalla manica.
“Facciamo un gioco, ti va?” domandò con la stessa inespressiva voce. L’uomo continuò ad ansimare ma lui fece come se niente fosse.
“Ora ti farò delle domande, e tu dovrai rispondere con sincerità” continuò puntandogli la bacchetta alla gola “Prima domanda: come ti chiami?”.
L’uomo non smise di ansimare ma si voltò verso il suo carnefice e lo squadrò da testa a piedi.
“Forse non sono stato chiaro con le regole di questo gioco. Se non rispondi alle domande, ricevi una penitenza”.
E dalla sua bacchetta partì un raggio rosso che inondò tutto il corpo dell’uomo a terra, facendolo inarcare gemente.
“Ripeto la domanda” disse ponendo fine all’incantesimo “Come ti chiami?”
Dopo qualche secondo ci fu una risposta: “Ryan… C-clayton”.
“Vedo che cominci a ragionare, Ryan” gli diede una pacca sulla spalla, come fosse un vecchio amico che ti fa i suoi complimenti quando gli parli dei traguardi raggiunti negli anni in cui non vi siete visti.
“Ora ti faccio un’altra domanda facile: chi sono io?”
“Michael Sparks, un lurido bastardo!” gridò riprendendo un briciolo della sua forza.
“La darò per valida” disse Michael, ora con voce leggermente innervosita. Si alzò e diede le spalle a Ryan, cominciando a girargli intorno.
“Terza domanda: tu lo sai, dove ti trovi?”.
Ryan riuscì a sollevarsi poggiandosi sui gomiti, così da riuscire a guardarlo negli occhi.
“A casa tua, il tuo covo segreto”.
“Quarta domanda: sai cosa cerchiamo?”.
“La Corona di Sarah, un potente artefatto in grado di rigenerare le ferite…”.
“… e di centuplicare il collegamento tra il mago e la sua bacchetta” terminò Michael al suo posto “Ora ti farò un’ultima domanda, quella che deciderà se potrai andare a casa oppure no”.
Michael si fermò di fronte a lui, in modo da guardarlo dall’alto verso il basso, senza distogliere lo sguardo dalla sua vittima.
“Dove si trova la donna che la nasconde?”
Ryan continuò a fissarlo dritto nelle pupille e ghignò.
“Per questa temo che dovrò chiedere l’aiuto del pubblico”.
Michael scoppiò in una risata stridula e agghiacciante, che levò definitivamente il sorriso dal volto di Ryan. Continuando a ridere scagliò un incantesimo contro di lui, che cadde a terra con un tonfo secco.
“Questo aveva davvero senso dell’umorismo!” esclamò continuando a ridere “Portate via questo cabarettista e andate a prendere un altro prigioniero”.
“E i giganti?” pigolò uno degli uomini in mezzo al gruppo. Non aveva la stazza proporzionata alla voce che gli era uscita. “Eravamo sicuri di trovare oggi la Corona e…”.
“Mandateli a distruggere qualche villaggio” disse agitando una mano con noncuranza “Magari uno confinante con qualche altro Stato, per spaventare un po’”.
L’uomo annuì e si allontanò di corsa, mentre Michael riprendeva a ridere e ripeteva: “L’aiuto del pubblico! Ah!”.

 

 

 

***

 

 

 

Rose continuava a rigirarsi tra le coperte. Erano state le due settimane più lunghe della sua breve vita. La vita in Romania era monotona e grigia e, per il momento, non aveva visto neanche l’ombra di un drago. Cominciava anche a sentire la mancanza della sua famiglia. I signori Dragan erano davvero molto affettuosi, soprattutto Angel ma non erano i suoi genitori. Anche Hugo e i suoi cugini le mancavano, e i suoi zii e tutta la sua grande famiglia. Stava davvero cominciando a pentirsi di quello che aveva escogitato quando sentì un suono strano.
Da lontano veniva un ruggito cavernoso, inumano. Rose si alzò dal letto e si affacciò alla finestra, per cercare di vedere qualcosa. Vide una figura alta e dalla forma strana, con attorno a sé delle fiamme altissime…
Corse fulminea fuori dalla cameretta e sfrecciò nella stanza dei signori Dragan, che dormivano profondamente. Rose non si scoraggiò e si buttò di peso sopra Boris. L’uomo, come risposta, disse una parola rumena dall’aria poco pulita.
“Emily” brontolò Boris, grattandosi la folta barba “Che fai ancora svelia?”
“C’è un drago là fuori” disse entusiasta Rose “Posso uscire fuori a vederlo meglio?”
 Boris spalancò gli occhi e lanciò con poca grazia Rose addosso alla moglie, svegliandola. Angel stava ancora cercando di capire qualcosa che sentì Boris urlare: “Dobiamo andare, ora!”
Sollevò Rose dal letto e la portò con sé nel salotto di casa. La bambina sentì le urla del drago più forti ma a esse si aggiunsero altri suoni: urla, pianti e crolli.
“Che succede papà?” domandò spaventata Rose.
Boris la guardò altrettanto spaventato, incerto su cosa dire.
“No paura, Emily, io qua, va bene?” Rose annuì poco convinta. Angel li raggiunse poco dopo, ora completamente sveglia.
“Dove andiamo?” chiese a Boris mentre prendeva una scatola piena di Polvere Volante.
“Da Rosso, lui ci aiuta” rispose lui convinto. Prese un po’ di polvere ma una scossa lo fece cadere a terra, insieme alla polvere e al resto della sua famiglia. Un altro scossone fece cadere buona parte dell’intonaco del soffitto, imbiancando i capelli color fiamma di Rose e Angel.
“Emily, qua!” urlò Boris e lei gli corse incontro, terrorizzata. Anche Angel si avvicinò a lui e lo abbracciò, coprendo insieme il corpo della bambina. Rose respirava a fatica, sia per il poco spazio che per il terrore che le mozzava il fiato. Sentì un’altra scossa, molto diversa dalla precedente, e un rumore assordante le riempì le orecchie. Da un piccolo spiraglio tra le braccia dei Dragan, vide che gran parte del soffitto era scomparso, così come la canna fumaria e la parete di fronte a loro. Ciò che aveva fatto questo li osservava con sguardo furente, e non era di certo un drago, si disse. Era un gigante dalla pelle grigia e grinzosa, con il capo pelato e piccolo come quello di un neonato. Lo vide muovere le sue enormi mani verso di loro, e Rose urlò terrorizzata, così forte da non sentire altro che la sua voce terrorizzata.  

   

   

  

 

 

 

 

 

 

N.P.

Salve a tutti! So che è passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ci siamo sentiti (ancora era il 2014!) ma vi prometto che, anche se lentamente, finirò questa storia! Anche perché se la interrompessi proprio ora, potrei scatenare qualche folla inferocita…

Prima di salutarvi, vorrei ringraziare chi mi segue: BlackandLupin, C l a i r e s, Lux_Potterhead, Rebs96, tribute_potterhead e devina, che è anche l’unica ad aver recensito per ora :D

Perché non seguite il suo esempio? Su, su…

 

 

 

 

 




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Capitolo 5
*** 5. Verità a galla ***


5. Verità a galla

 

Emily si svegliò di soprassalto. Al piano di sotto qualcuno stava trafficando con gli arnesi da cucina e a giudicare dalle voci che arrivavano dalla porta socchiusa, era tutta la sua famiglia temporanea.
“Ron, attento al forno!”.
“Hugo, smettila di aizzare i cucchiai contro di me!”
“Ma papi, ho fame, non vesisto!”
Si chiese perché tutta quell’agitazione per una semplice colazione domenicale. Controllò il calendarietto appoggiato nel comodino accanto al letto per vedere se aveva dimenticato qualche data speciale. Nel mese di maggio c’erano due date segnate da Rose: il due, squadrato in nero, e il ventisette, cerchiato con tanti colori sovrapposti. Dentro quell’arcobaleno di pastelli, in piccolo, lesse B-DAY.
Era il compleanno di Rose. Doveva esserle sfuggito quando avevano organizzato lo scambio. O forse non le importava granché. Finse di non aver sentito nulla e scese verso la cucina in punta di piedi. Arrivata di fronte alla porta della cucina, si fermò. Hermione stava finendo di cucinare le frittelle; Ron invece sistemava in un piatto, ancora fumanti, i biscotti alla cannella che piacevano tanto a entrambe le bambine (anche se lui non lo sapeva); Hugo completava il quadretto con un mazzolino di fiori appena sradicati.
Emily sorrise intenerita davanti a quella scena così dolce e piena d’amore; tutti i membri di quella famiglia si erano dati d’impegno per preparare una perfetta colazione di compleanno, e la festeggiata si trovava in un altro Stato. Non pensò che Rose fosse un’ingrata: lei voleva bene alla sua famiglia, lo aveva capito dal modo in cui gliel’aveva descritta. Non capiva però tutto questo desiderio di allontanarsi da qualcosa di così bello e profondo.
Hermione finì di spadellare le frittelle e si voltò, vedendo così Emily nascosta dietro la porta socchiusa.
“Rose!” esclamò la donna. Ron e Hugo seguirono lo sguardo di Hermione e videro la bambina entrare in cucina con un sorriso a trentadue denti.
Auguvi Vose!” strillò Hugo correndole addosso e stritolandola in un abbraccio. Emily ricambiò la stretta fino a sollevarlo in aria, ruotando su se stessa. Ron si avvicinò di soppiatto ai due bambini, poi li prese entrambi in braccio.
“Auguri principessa!” disse Ron, schioccandole un bacio sulla guancia. Anche Hermione si avvicinò, baciandole l’altra guancia.
“Buon compleanno, Rose!” disse Hermione “Vai veloce a vestirti, così possiamo fare colazione tutti insieme”.
“E farle fare le scale?” esclamò Ron mettendo giù Hugo “Non sia mai che la mia principessa si sforzi in tale maniera!”
Hermione alzò il sopracciglio sinistro e sbuffò, prendendolo in giro.
“Sbuffa, mentre io vado a vestire la mia piccola Altezza Reale” disse fintamente indignato, continuando lo scherzo.
Emily rideva così tanto del battibecco tra i coniugi Weasley che quasi non sentì quello che disse Ron. Per sua fortuna riuscì a percepire la parola ‘vestire’ e intuire il pericolo.
“Non c’è bisogno papà” disse velocemente Emily “Ormai ho otto anni, posso vestirmi da sola”.
“E allora?” chiese Ron “Sai vestirti da sola da quando avevi tre anni, non per questo ho smesso di aiutarti”.
Emily entrò nel panico. Cominciò a balbettare senza sapere che dire. Per sua fortuna, Hermione intervenne nella discussione.
“Forse quello che vuole dire Rose, è che troppo grande per vestirsi di fronte al padre, e che vuole un po’ di privacy” disse Hermione. Ron tornò a essere più serio che mai, lasciando a terra Emily.
“Ha ragione la mamma?” chiese quasi in sussurro Ron. Emily, pur sapendo che questo avrebbe ferito profondamente quell’uomo tanto buono e solare, annuì e si diresse immediatamente nella camera di Rose.
Ron si sedette mogio sulla sedia più vicino a lui. Uno sbuffo più violento di quello di prima accompagnò il suo gesto.
“Andiamo Ron, non puoi mettere il broncio perché tua figlia non ti vuole in camera con lei” esclamò Hermione con una punta di esasperazione nella voce. Doveva combattere quasi quotidianamente contro l’iperprotettività di suo marito nei confronti della figlia.
“Tu non capisci Hermione” disse disperato Ron “Sai cosa significa questo?”
“Che forse Rose si vergogna a spogliarsi di fronte a qualcuno?”.
“Non qualcuno, me!” sentenziò Ron, come se questo bastasse a spiegare tutto il melodramma che stava architettando. Dagli sguardi di Hermione e Hugo, che ascoltava la conversazione mangiucchiando biscotti (come già detto da Rose, loro due non si rendono mai conto di parlare a voce troppo alta, e troppo vicino ai figli), il discorso non era così chiaro.
“Mi vede come maschio, non come padre!” disse amareggiato. “Come uno del sesso opposto”
“Che vuol dire ‘sesso’?” domandò ingenuamente Hugo.
Ron si voltò velocemente verso Hermione e aprì bocca ma lei fu più veloce.
“Parlaci tu!” esclamò Hermione, uscendo di corsa dalla cucina e lasciando Ron da solo con un Hugo decisamente incuriosito. 

 

 

 

***

 

 

 

“Buon compleanno Rose!”
Emily era appena uscita dal camino della Tana, e tutti i Weasley e i Potter erano lì davanti ad aspettarla per farle gli auguri tutti insieme.
“Bene, abbiamo fatto gli auguri, ora possiamo tornare casa” disse George Weasley dirigendosi verso la porta.
“Meglio, più torta per me!” esclamò Ron ancora dentro il camino.
Emily rise di gusto allo scambio di battute dei due, così come tutti gli altri. Era come se quel posto facesse diventare tutti più allegri e spensierati. Anche lo “zio” Harry, che finora aveva visto sempre stanco e depresso, adesso sfoggiava un sorriso a trentadue denti, nonostante fosse palese la spossatezza che ancora provava, segnata soprattutto da pesanti occhiaie e un colorito per niente sano.
“Grazie a tutti” strillò Emily, galvanizzata da tanta allegria racchiusa in una sola stanza. Tutti a turno vollero darle un bacio o un abbraccio; la signora Weasley ne diede in abbondanza di entrambi.
“Basta nonna, non respiro!” disse ridendo Emily. La “nonna” la poggiò a terra, dandole un ultimo bacio.
“Ragazzi, perché non andate a giocare in giardino mentre i grandi sistemano per il pranzo?”
La proposta fu accolta da più di dieci urletti infantili, che si precipitarono in giardino. Emily stava finalmente per ammirare il giardino della Tana, quando all’ultimo secondo qualcosa le tirò il braccio.
“Ehi Rose, aspetta, ti devo dire una cosa”
E così si ritrovò trascinata su per le scale da Albus Potter, il miglior amico di Rose. Ma non il suo.
Era molto dolce e amichevole ma non la entusiasmava stare con lui. La copertura, però, sarebbe saltata, se non l’avesse accontentato.
Si fermarono di fronte a una porta con su scritto ‘GINNY’ e Albus le fece segno di entrare. Chiuse la porta e spiò dal buco della serratura se per caso qualcuno stesse origliando.
“Bene, siamo soli, James non ci ha visto” disse Albus.
“Che problema c’è se lo viene a sapere?” chiese Emily al bambino che, nonostante tutto, non aveva problemi con James.
“Se venisse a sapere questo, mi prenderebbe in giro” spiegò Al “Anzi, penso che anche mamma e papà si arrabbierebbero”.
Emily vide che stava tremando leggermente, mentre si torturava le mani e tirava la sua camicia.
“Che cosa è successo?” chiese Emily, sinceramente preoccupata.
“Prima devi giurare” disse Al, sporgendo il braccio verso di lei. Emily gli strinse forte la mano e gridò: “Lo giuro!”
Albus non disse nulla, né mollò la presa.
“Beh?” esclamò Albus “E il resto?”
“Il resto di cosa?” domandò confusa Emily.
“Il resto della stretta segreta!”
Emily spalancò gli occhi terrorizzata. Rose non le aveva parlato di nessuna stretta segreta. Sapeva del forte legame con Albus ma non pensava che fossero tanto uniti dal non rivelarle questo. Entrò nel pallone e Albus se ne rese conto.
“Io…” cercò di spiegare Emily “Non me la ricordo…”.
“È impossibile, l’hai inventata tu, me l’hai insegnata e nessuno oltre a noi due…”.
Si fermò, come se si fosse appena accorto che il cielo era di colore verde, e non azzurro com’era sempre stato. Fissò Emily intensamente, sempre con la stessa espressione scioccata.
“Tu non sei Rose!” esclamò infine Albus, indietreggiando e indicandola sconvolto.
“Che dici, è ridicolo!” balbettò Rose cercando di scherzarci su, ma si rese conto da sola che il suo tono di voce non era credibile.
“Davvero?” le domandò scettico Al “E cosa è successo lo scorso Natale a noi due?”
Emily era sempre nervosa.
“Abbiamo…” iniziò a dire, ma Al la fermò subito.
“Non abbiamo fatto nulla, perché ho avuto il vaiolo di drago!” le disse alzando la camicia e mostrando la pelle butterata vicino all’ombelico “Per fortuna mi è rimasto solo questo e qualche scintilla quando starnutisco, ma è stato comunque bruttissimo e Rose non lo dimenticherebbe mai!”
Emily si rassegnò all’evidenza dei fatti. Tirò un grosso respiro e decise di confessare tutto.
“Hai ragione, non sono Rose” e fece vedere ad Albus la sua voglia “Mi chiamo Emily Dragan e vengo dalla Romania”.
Albus spalancò la bocca sorpreso.
“Aspetta, non stai usando una magia, sei davvero uguale a Rose!”
Emily annuì e continuò a parlare: “Io e Rose abbiamo solo questa voglia come differenza. Appena mi ha visto ha pensato di scambiarci, perché io volevo venire qua in Inghilterra e lei voleva vedere i draghi da suo zio”.
L’umore di Al sembrava essere completamente cambiato: dallo shock per quell’estranea, era passato alla meraviglia per la storia straordinaria.
“Wow!” esclamò infine Albus, dopo qualche minuto passato ad assimilare la notizia “Rose è un genio”.
Emily annuì concorde.
“Tra due settimane circa tornerà con i miei genitori per trasferirsi, e allora ci scambieremo di nuovo!”.
“Aspetta che lo sappiano gli altri…” disse elettrizzato Albus, che uscì dalla porta prima che Emily potesse fermarlo. Lei lo inseguì fino al soggiorno, dove riuscì a placcarlo. Gli mise una mano sopra la bocca per impedirgli di parlare e bisbigliò: “Non lo deve sapere nessuno, altrimenti io e Rose saremo punite!”
Albus mormorò qualcosa che somigliava vagamente a un ‘va bene’ ed Emily lo lasciò andare, permettendogli così di respirare meglio.
“La prossima volta lavati le mani prima di tapparmi la bocca!” gracchiò Albus “Mi è entrata della cenere del camino!”
“Scusa” disse colpevole Rose “Andiamo in cucina a prendere un bicchiere d’acqua”. E si avviarono verso la maniglia della porta per aprirla, ma la voce della signora Weasley gli fece cambiare idea.
“Non è meglio se silenziamo la stanza?” chiese lei preoccupata “Nel caso i bambini…”.
“Mamma, non senti tutto il baccano che fanno?” le disse George indicando la finestra aperta dietro di lui “Non sentiranno nulla, e finché non li chiamiamo, non entreranno in casa neanche se gli tagliassero un braccio!”
Emily e Albus avvicinarono le proprie orecchie alla porta, curiosi di sentire il resto della storia. Per sbaglio la scostarono di un paio di centimetri, ma nessuno dentro la cucina se ne accorse, così presero a sbirciare e origliare senza problemi.
“Che cosa dicevi su Charlie, Harry?”
Harry era seduto in modo tale che i due bambini non lo potessero vedere, ma sentirono che stava prendendo della carta; molta, molta carta: “Mi è arrivata una sua lettera quasi una settimana fa… se solo la trovassi…”
Dai suoni che riuscì a sentire, Emily pensò che avesse fatto uscire centinaia di fogli, e si chiese da dove diamine li avesse presi. Dopo un po’, Harry esclamò: “Accio lettera Charlie!”
Una folata, ed Emily vide una lettera volare in aria. Il signor Weasley la acchiappò in aria e l’aprì.
“Dice che sta bene, che non ci sono grossi problemi nella riserva e che sta dando tutto l’aiuto possibile agli Auror e ai civili” riassunse Harry per loro.
“Non ci sono segni di miglioramento?” chiese Angelina, la moglie di George.
Harry scosse la testa.
“La situazione sta solo peggiorando” disse sconsolato “Gli attacchi sono arrivati fino in Transilvania, quasi al confine con l’Ucraina”.
“E speriamo rimangano lì” esclamò Percy, poco distante da Harry e anche lui con delle pesanti occhiaie “L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno e che in Ucraina arrivi una guerra magica, oltre che quella Babbana in corso”
“Non sapevo di questi attacchi in Transilvania” chiese Hermione, preoccupata “Quando ci sono stati?”
“Due giorni fa un gruppo di giganti ha raso al suolo un’intera città, senza lasciare sopravvissuti”.
Ogni parola di quella frase era pesante come un piccolo monte, e Harry sentiva ogni singolo grammo sulle sue spalle, ogni volta che doveva ripeterle; ma era parte del suo lavoro farlo.
“Gli Auror hanno fatto il possibile, ma di
Dragomirești* è rimasta solo polvere”.
Emily si ghiacciò sul posto.

È la mia città.
In polvere.
Nessun sopravvissuto.

Anche in cucina ci fu una reazione di angoscia a quelle parole. Hermione impallidì e si portò le mani sulla bocca.
“Oh, no!” esclamò a occhi spalancati “I Dragan…”.
Tutti fissarono confusi Hermione, Albus compreso, che aveva dimenticato di aver appena sentito quel cognome.
“Di che parli?” le domandò Harry.
“Una famiglia ha chiesto la cittadinanza qui… la madre era del Galles, non c’erano problemi” cercò di spiegare Hermione, ma era visibilmente provata nel farlo “Ma mi avevano detto di rispedirli a casa, che doveva passare un mese… e ora non ci sono più”.
Ron la abbracciò da dietro, cercando di darle conforto in qualche modo. Hermione si appoggiò alle sue braccia, tremante, e continuò: “Avevano una bambina dell’età di Rose…”.
All’improvviso, fu come se Albus avesse appena capito qualcosa di estremamente importante. Si voltò verso Emily, e le vide il volto ricoperto di grossi lacrimoni.
“Emily…” sussurrò Albus.
Emily continuò a piangere silenziosamente, senza dare segno di aver sentito Albus. Tremava dalla punta delle dita fino alle piccole labbra, da cui cadevano a strapiombo goccioline di pianto e un po’ di muco, che cercava di fermare tirando su col naso. Tirò forte, cercando di far smettere questo pianto, ma più ci provava e più le parole di Harry le risuonavano nel cervello.

Due giorni fa un gruppo di giganti ha raso al suolo un’intera città, senza lasciare sopravvissuti.
Di
Dragomirești è rimasta solo polvere.

E continuò a piangere, cercando invano di fermarsi, finché non ebbe un singulto. Dalla piccola fessura della porta vide George accorgersi della loro presenza.
“Rose, Al!” esclamò andando ad aprire la porta. Anche Ron si avvicinò e quando vide sua figlia in lacrime, si precipitò a sollevarla da terra e ad abbracciarla forte. Anche Ginny corse verso Albus, che era comunque pallido e spaventato. Ron si sedette su una sedia, poggiando Emily su un suo ginocchio. Hermione si avvicinò subito alla bambina, asciugandole subito le lacrime.
“Rose, calmati” le disse dolcemente “Va tutto bene”
Ma la bambina non accennava a fermare il suo pianto; anzi, stava aumentando.
“Che cosa avete sentito?” chiese ad Albus Harry, una volta avvicinatosi a lui e a Ginny.
“Noi…” cominciò a dire Al, titubante “Hai detto che non c’erano sopravvissuti, ma neanche uno?”
Harry scosse la testa, mesto. Emily intensificò il suo pianto, ormai incontrollabile.
“Non piangere, principessa, c’è il tuo papà” tentò di consolarla Ron.
Ma non era suo padre, lui, e lei non era la sua principessa. Entrambi erano morti e ridotti a una manciata di polvere.
“No…” disse Emily tra un singulto e l’altro.
“Cosa?” chiese Ron confuso.
“Non sono una principessa, sono una draghessa!” strillò tutt’in un fiato.
Hermione scattò al sentire quelle parole. Si chinò su di lei e cominciò a parlare a bassa voce, come se fosse una conversazione solo tra loro due.
“Che cosa hai detto di essere?” le domandò, con la voce sottile di chi non voleva farsi sentire, o di chi non ha la forza di esprimere un concetto troppo orribile.
“Una draghessa” scese dalle gambe di Ron e lo guardò in faccia. Doveva farlo. Dovevano saperlo.
“È così che mi chiama il mio papà” continuò Emily.
“Io non ti ho mai chiamato così” disse Ron, sempre più confuso.
Emily aveva tanta voglia di correre, lontano da quella stanza. Erano brave persone, non lo meritavano…
“Perché tu non sei il mio papà, e io non sono Rose”
Tutti si guardarono confusi, come se la persona accanto ne sapesse più di loro, che invece erano all’oscuro della verità. Solo Hermione continuava a fissare Emily, inginocchiata a terra per averla più vicina.
“C-che vuol dire che non sei Rose?”
Emily fece un respiro profondo e, come poco prima con Albus, fece vedere la voglia a forma di fiamma sulla spalla.
“Io mi chiamo Emily Dragan” ora non c’era uno sguardo che non la perforasse “Io e Rose ci siamo scambiate al Ministero…” vide Hermione elaborare, davanti a sé, tutte quelle informazioni, che combaciavano alla perfezione, come pezzi di un indovinello nascosto.
Hermione era paralizzata a terra. Tutte le persone dentro la cucina avevano smesso di fiatare, come se quel semplice gesto fosse talmente rumoroso da bloccare il pensiero di Hermione. Alla fine, emise un sussurro ancora più fiele degli altri: “Rose era là?”
Emily annuì.
Fu come una ghigliottina, quel semplice gesto con la testa. Ron cadde a terra, accanto a sua moglie, mentre Hermione spalancò la bocca, terrorizzata, mentre emetteva un urlo silenzioso, che perforava l’anima, invece che i timpani. Alla fine si accasciò accanto a Ron, e fece uscire l’urlo che il suo volto stava esprimendo senza fiato. E fu un urlo straziante, carico di dolore, amarezza e disperazione.
“ROSE! LA MIA BAMBINA!”
Ron la strinse, appoggiando il proprio capo sulla sua folta chioma. Non per consolarla, ma per nascondere le proprie lacrime, che uscivano copiosamente, bagnando i ricci di sua moglie. Piangevano entrambi e si stringevano l’un l’altro, come se questo fosse l’unico modo per sopravvivere. L’aria non serviva a niente, il quel momento: solo la vicinanza con l’altro, il contatto, riusciva a dare loro una parvenza di senso, in una situazione che senso non ne aveva neanche un po’.
La loro bambina era morta.
Morta.
Morta.
Nessun altro pensiero riusciva a entrare nelle loro menti.
Morta.
E davanti a questo strazio, Emily non ce la fece più.
“Mi dispiace…” disse tra le lacrime, e corse via dalla stanza.
Da quelle urla.
Da quel dolore.    

 

 

 

 

 

 

 

 

 
* Dragomirești è una vera città della Transilvania, vera regione della Romania(vera terra di Dracula? Chi lo sa…). Si trova davvero vicino all’Ucraina e, se ho fatto i conti giusti, Rose compie otto anni il 27 maggio 2014, mentre in Ucraina viene attuata, purtroppo, una vera rivoluzione, che porterà a molte troppe vittime morte per davvero, e non solo in questa fanfiction. Morti che restano morti.

P.S.: Se v’interessa saperlo, anche Dragan è un vero cognome rumeno.

 

 

 

 

 

 Potete dire e fare quello che volete, ma sappiate che sono straziata tanto quanto voi! E non solo per quello che avete appena letto(non picchiatemi!), ma anche per quanto tempo ci ho messo! Sì, perché noi fanwriter non siamo mai felici di ritardare nello scrivere un capitolo!
Detto questo, cercherò di velocizzarmi, esami permettendo.
(Maledetto Giovanni Gentile!! Ma se gli esami di maturità sono un lascito del Fascismo, e il Fascismo e stato rese illegale, perché esiste ancora!?!?)
Ringrazio tutto coloro che mi stanno seguendo e che si fanno sentire, e spero che questo capitolo vi sia piaciuto!

 

Alexia96

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Il talento di Lily ***


6. Il talento di Lily


 
Il giardino della Tana mostrava il meglio di sé, in primavera: i fiori sbocciavano sul prato erboso, morbido come un cuscino; gli uccellini cantavano gioiosi, riempiendo l’aria di musica; persino i nani, di solito molto dispettosi, si sdraiavano sull’erba e oziavano in tranquillità.
Sarebbe stato un perfetto angolo di paradiso, se non fosse per un piccolo, quasi impercettibile, difetto: una bimba piangeva.
Nascosta tra le radici di un grosso albero, Emily poteva vedere il bellissimo paesaggio che da giorni sperava di poter ammirare, ma non la rallegrò come immaginava. Non poteva, non dopo la notizia che i suoi genitori erano morti.
Continuava a cercare di non pensarci, e immancabilmente i volti di sua madre e di suo padre spuntavano davanti ai suoi occhi, sfacciatamente felici e abbracciati l’un altro. E questo le portava altre lacrime, e altri lamenti, che però soffocava quanto più possibile. E quando riusciva a fermarsi, poteva sentire Hermione urlare il nome di Rose, straziata. Forse era quello, a farla sentire così male, pensò Emily. Il fatto che era morta una bambina, che doveva essere qui a festeggiare il suo compleanno, e che invece non avrà mai otto anni.
Mentre pensava tutto questo, sentì un tonfo vicino a lei, e una voce lamentarsi: “Ci mancava solo questa!”.
Emily riconobbe la voce e uscì dal suo nascondiglio. Harry, che doveva averla seguita, aveva il piede incastrato in una radice e sembrava non riuscisse a liberarsi. Rassegnato, alzò il capo e vide Emily poco distante.
“Emily, che cosa ci fai qui?” le disse “Potresti farti male”.
Emily non rispose. Harry, intanto, continuava a tirare la gamba per liberarsi, ma senza successo. La bambina allora andò verso di lui e, infilando le sue manine sotto la radice, riuscì a spostarla un poco, permettendogli di rimettersi in piedi.
“Grazie” disse Harry, e si sedette sulla stessa radice dov’era rimasto intrappolato. “Perché sei scappata?” domandò poi a Emily. La bambina continuò a non parlare.
“Non avere paura, non succederà nulla di brutto” la rassicurò Harry, ma fu lui a spaventarsi. Emily cominciò a tremare violentemente, come in preda alle convulsioni; impallidì di colpo, e vide i suoi occhi riempirsi di lacrime.
“I-io non c-ce la faccio a p-parlare” balbettò tra le lacrime Emily “N-non ci riesco, perché piango e…”.
Non riuscì a finire la frase perché era semplicemente troppo, per lei. Scoppiò a piangere, andando incontro al petto di Harry, che la strinse forte a sé. Si sfogò a lungo, bagnando completamente la camicia dell’uomo e impiastricciandola di muco.
Dopo dieci minuti pieni, Emily riuscì a calmarsi e a smettere di piangere.
“Mi scusi signor Potter, le ho macchiato la camicia…” mormorò Emily con la voce ancora roca dal pianto.
“Non preoccuparti, ormai è vecchia” la rassicurò. “E non chiamarmi signor Potter. Io sono Harry, solo Harry”.
Emily alzò lo sguardo verso di lui: le stava sorridendo ma gli occhi, verdi come mai li aveva visti, erano tristi e lucidi, quasi sul punto di versare fiumi di lacrime.
“Non è arrabbiato per quello che ho fatto?” domandò Emily, sinceramente preoccupata. Stava soffrendo molto in quel momento, ma ciò che veramente la angosciava era la convinzione di essere responsabile per quello che era successo.
“No, non sono arrabbiato, perché non credo che sia colpa tua” affermò Harry. La bambina lo guardò stranita, come se le sue parole fossero assurde o insensate.
“Ma Rose…”.
“Ora voglio che mi ascolti attentamente”. Prima di continuare prese un grosso respiro, ed Emily era certa che lo fece perché, nonostante volesse sollevarle il morale, anche lui aveva una voglia matta di piangere.
“Quello che è successo ai tuoi genitori e a Rose… è orribile, e tutti noi siamo tristi per questo. Voi due non sapevate quello che stava succedendo, sicuramente avevi capito che c’erano dei problemi, ma di certo non pensavi che ci fosse una guerra in corso. Se davvero vuoi un colpevole, prenditela con me”.
“Perché, tu sei buono…” cominciò a dire Emily ma Harry le parlò sopra: “Avevo il compito di fermare questa guerra, e non ci sono riuscito. Sono morte tante persone, tra cui mia nipote”. Harry fece una pausa e prese altri grossi respiri.
“Tu sei solo una bambina, non prenderti colpe che non hai”.
Restarono in silenzio per qualche minuto. Harry continuava a stringere Emily a sé, e lei si aggrappò con tutte le sue forze alle sue spalle, fino a quasi lacerargli la pelle.
“Che ne dici di tornare dentro?” propose Harry dopo molto altro tempo. Emily non sembrava entusiasta dell’idea.
“Non posso andare dentro, ci sono i signori Weasley, loro…”.
“Ron e Hermione sono stati distrutti quanto te da questa notizia, e come te si riversano colpe inutili, che non porteranno indietro chi è morto” continuò Harry. “Parlare insieme, forse, vi farà sentire meglio”.
Emily si prese qualche istante per riflettere, ma alla fine accettò la proposta di Harry. Entrambi si spostarono con cautela da sopra le radici dell’albero e si diressero verso la Tana. Passarono davanti alla finestra del salotto, dove vide gli altri ragazzi seduti e attenti ad ascoltare le parole di Ginny, che probabilmente stava spiegando il motivo di tutta quell’agitazione. Notò che mancavano solo Hermione, Ron e Hugo.
Superata la finestra, non si diressero verso la porta principale; invece, Harry portò Emily a una porta di servizio che li fece entrare direttamente in cucina. I due restarono fermi sulla soglia: Harry vide che anche Hugo adesso era in lacrime, abbracciato alla madre, e non riusciva a muoversi davanti a quella scena così straziante; Emily, dal canto suo, non riusciva a trovare il coraggio di avvicinarsi alla famiglia che aveva contribuito, anche se inconsapevolmente, a distruggere.
Fu solo perché Hugo spostò lo sguardo su di Harry che la situazione si sbloccò.
“Zio, che stai…”.
Smise di parlare quando vide accanto a lui Emily, diventando subito pallido. Anche i suoi genitori cambiarono in volto, mostrando qualcosa che la bambina non si aspettava di vedere: compassione.
“Ehi, Emily…” disse Ron, con un groppo in gola che trasformò la sua voce di solito allegra in un suono stanco, che sembrava provenire da lontano e non dall’uomo di fronte alla bambina; che entrò in cucina cauta, come se si aspettasse che scattasse un allarme per ogni suo movimento brusco.
Una volta di fronte ai tre, Emily credette di aver percorso una maratona, per come le batteva il cuore. Cercò di pensare a qualcosa di carino da dire, a delle scuse o alle condoglianze che di solito si usano in quelle occasioni. Solo una cosa, però, le sembrava giusta da dire in quel momento, in grado di riassumere tutto ciò che sentiva.
“Fa così male…”.
Un sussurro semplice, che arrivò dritto al punto, trasmettendo tutto il dolore non solo per la morte dei suoi genitori, ma anche per quella di Rose, e la paura per quello che sarebbe stata la sua vita dal quel momento in poi.
Emily era sul punto di scoppiare a piangere di nuovo, ma le lacrime non ebbero il tempo di attraversare le sue guance che Hermione la abbracciò stretta, seguita da Ron.
E subito dopo, Hugo scoppiò.
Pevchè l'abbvacciate’” urlò il bambino, allontanandosi dai genitori. “È colpa sua se…”.
“Non ha più colpe di noi due, che non ci siamo nemmeno resi conti dello scambio” gli rispose Ron, asciugandosi le lacrime con le nocche della mano. Con quegli occhi gonfi e rossi, e il fatto che era piegato sulle sue ginocchia, sembrava anche lui un bambino da consolare.
“Non è vevo, Vose è morta pev colpa sua!”.
“Rose non è morta”.
Lily, che si trovava a metà strada tra il salotto e la cucina, si era fatta sentire da tutti quanti, guadagnandosi un sacco di sguardi scioccati e tristi.
“Tesoro” disse Harry, “so che è brutto quello che è successo, ma non devi mentire a tuo cugino su una cosa del genere”.
Lily rispose con un grosso respiro, e scosse la testa, come se si aspettasse quella risposta. “Non mento, io so che Rose è viva, solo che non so dov’è”.
Nessuno sembrava crederle, ma all’improvviso Emily scattò in aria, come se qualcosa di molto importante le fosse appena tornato in mente.
“Quel sogno…tu sapevi dello scambio!” esclamò indicandola. Dopo qualche attimo, lei annuì.
“Pensavo che non fosse ancora successo” spiegò. “A volte vedo cose segrete che sono già successe, a volte cose che ancora devono avvenire”.
“Aspettate, Lily è una veggente?!” esclamò George avvicinandosi alla bambina. Anche Ginny si avvicinò, e si mise accanto alla figlia.
“Lily, se stai mentendo…” incominciò Ginny ma la bambina la interruppe.
“Zio George e zio Ron scommettono su quale Casa di Hogwarts andremo, e so che entrambi sbaglieranno su Albus”.
“Ehi!” esclamarono i due interessati.
“Sai in quale Casa andrò?” domandò Al, sbucando da dietro lo zio.
“Sì, so in quale casa andranno tutti, tranne la mia” rispose Lily “Non so perché ma non riesco a vedere il mio futuro”.
Albus stava per fare un’altra domanda ma venne interrotto da Hermione: “E come sai che Rose è ancora viva?”.
Lily chiuse gli occhi e assunse un’espressione corrucciata, come se si stesse sforzando: “Mentre la mamma spiegava cos’era successo, io ho visto Rose che correva in un prato, e c’erano due signori che la chiamavano Emily”.
Emily rimase a bocca aperta.
“Ma quindi anche la mia mamma e il mio papà sono vivi!”. Appena pronunciò quelle parole sentì come se le avessero tolto un macigno da sopra le spalle. Ma Lily glielo fece ricadere addosso: “Non lo so, potrebbero anche essere altre persone, non ti lasciavano mai a casa di qualcun altro?”.
“Beh, sì, a volte mi lasciavano con qualcuno…” le lacrime stavano per tornare a rigare il suo volto ma durò solo per un secondo: “Con tuo zio Charlie! Lo avresti riconosciuto se era lui, no?”.
“No, non era lui!” esclamò entusiasta Lily. Se già la notizia che Rose stava bene aveva tranquillizzato tutti, con questa si era arrivati quasi a festeggiare. D’istinto Emily abbracciò Hermione. E d’istinto lei la strinse forte al petto
 
 
 
 
 
 
Boris aveva ancora un braccio fasciato, una caviglia slogata e la testa che non smetteva di girare ma nonostante tutto si sentiva estremamente felice: davanti a lui sua figlia e sua moglie si rincorrevano, e ridevano di cuore. Non aveva mai visto Emily correre così veloce, e vedere come Angel si sforzasse per starle dietro lo fece ridere di gusto. Purtroppo, anche le sue costole erano state strapazzate, e finì col trasformare le risate in gemiti di dolori.
“Ehi fenomeno, vedi di non sforzarti” disse Charlie, avvicinandosi a lui. Aveva con sé due bicchieri pieni di liquido ambrato, e ne porse uno a Boris.
“Mi conosci, io duro come roccia!” esclamò, prendendo subito dopo un bel sorso dal bicchiere.
“Sei stato letteralmente stritolato dalla mano puzzolente di un gigante, qualsiasi roccia si sarebbe trasformata in polvere, sei più duro delle scaglie di un drago!”.
Charlie non stava affatto esagerato. Nel momento in cui quel gigante aveva distrutto il loro tetto, riuscì ad attirare la sua attenzione e a permettere ad Angel ed Emily di scappare, ma non ebbe nemmeno il tempo di lanciare un incantesimo che il gigante lo aveva già afferrato; se sua moglie non avesse lanciato delle luci segnalatrici, probabilmente sarebbe diventato una marmellata d’uomo. Per fortuna, in pochissimo tempo gli altri membri della resistenza e gli Auror inglesi intervennero immediatamente.
“Ancora grazie per tua accoglienza, Rosso” disse dopo un po’ Boris, cercando di non pensare più a quel ricordo.
“Non dirlo neanche, sapete che il rifugio è aperto a chiunque abbia bisogno di un posto sicuro, non solo ai draghi” rispose Charlie; dopo un altro sorso continuò dicendo: “Almeno finché non vi trova il signor Wang… ma lo sai, con la vista che si ritrova basta mettersi a tre metri di distanza per non farsi beccare”.
I due risero, e continuarono a parlare tranquillamente, mentre poco più in là Emily e Angel continuavano a rincorrersi; a qualche centinaio di metri c’era l’edificio principale del rifugio per draghi, da dove venivano i rumori di decine di persone che lavoravano a pieno ritmo; e ancora più lontano, di fronte ai cancelli di pesante piombo che separavano i draghi dal mondo esterno, un centinaio di uomini erano in formazione d’attacco, attenti a sentire le parole dell’uomo in testa al gruppo.
“La donna mi serve viva. Uccidete tutti gli altri”.








  

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