Ombra ai Frari

di Saeko_san
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Una preghiera per una persona importante ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1: Vendetta compiuta ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2: Coscienza improvvisa ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: Il primo incontro ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4: Paura e indecisione ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5: Il Patto ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6: Iniziare a lavorare ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7: Omertà veneziana? ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8: La scoperta ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9: Frate Ballon ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10: Sacrificio per un amico sconosciuto ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11: Il pedinamento ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12: La perlina lavorata ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13: La lettera maledetta ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14: Un aiuto sin troppo nascosto ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15: Un discorso con Maria Melania ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16: Ladro di vite ***
Capitolo 18: *** Capitolo 17: Addio, amico mio ***
Capitolo 19: *** Epilogo: La vita va avanti ***



Capitolo 1
*** Prologo: Una preghiera per una persona importante ***


A Luigi e Claudia,
anche se lei è oltre il velo.
 
 
 
 
 
“These eyes are not here
There are no eyes here
In this valley of dying stars
In this hollow valley
This broken jaw of our lost kingdoms
In this last of meeting places
We grope together
And avoid speech
Gathered on this beach of the humid river
 
Sightless, unless
The eyes appear
As the perpetual star
Multifoliate rose
Of death’s twilight kingdom
The hope only
Of empty men”.
 
[Thomas Stearns Eliot, The Hollow Men, 1925]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Prologo:
Una preghiera per una persona importante
 
20 dicembre 1576, Venezia, Campo dei Frari, sestiere di San Paolo.
 
Anni della peste.
Un uomo, sui quarant’anni, con il corpo completamente ricoperto dalle piaghe della malattia si avvicinò alla chiesa francescana, che tutti conoscevano come “I Frari”. Arrancava, piegato in due dal dolore che quel morbo maledetto gli procurava; non si sarebbe dovuto trovare lì, ma aveva un obiettivo da portare a termine, non se ne poteva andare prima di averlo raggiunto. Una leggera pioggia mista a neve scendeva gelida dal cielo grigio, come se volesse tirar via il fetore di morte, che invece rimaneva, impregnando tutto ciò che colpiva. L’uomo bussò con fatica al portone che dava sul canale. Nessuno sentì. Nessuno rispose. Nessuno aprì. Il pover’uomo bussò più e più volte, inutilmente.
 
-È inutile provare- disse una voce arrochita dal tempo.
 
L’uomo si girò nella sua direzione e vide un giovinetto, anche lui provato dalla malattia. Aveva due grandi occhi azzurri, i capelli riccioluti e neri come la notte e la vita che gli si spegneva in corpo giorno dopo giorno.
 
-Dovete entrare dentro a pregare?- chiese il ragazzo, con un minimo di deferenza.
-Sì, per favore-.
-Allora venite con me-.
 
Il ragazzo gli fece cenno di seguirlo e poi si voltò. Entrambi si trascinarono a fatica verso il campanile. Sotto, alla base della struttura, c’era una piccola porticina. Il ragazzo, con le poche forze che gli rimanevano, diede una botta alla porta. Quest’ultima si spalancò con un cigolio sinistro.
 
-Entrate a pregare, ma fate attenzione ai corpi-.
-Quali corpi?- chiese l’uomo, inorridito.
-Quelli dei preti. Sono tutti morti, uccisi dal morbo – uno di loro ha ignorato il provvedimento che ordina di stare nel Lazzaretto Vecchio e ha infettato tutta la chiesa, per cui è stato deciso che rimanessero qui; purtroppo due frati sono fuggiti, non so dove siano andati, per cui non c’è nessuno ad attendere le funzioni-.
 
Il ragazzo sospirò, mentre chiudeva la porta alle sue spalle e indicò l’interno buio dell’edificio sacro.
 
-Ho provato a spostarne alcuni ma mi sono ammalato. I fedeli non dovrebbero venire-.
-Ma tu chi sei?- chiese incuriosito il suo interlocutore.
-Un orfano che hanno trovato proprio qui davanti. Ma sarebbe una storia troppo lunga da raccontare e voi dovete pregare, vero?- disse, aggiungendo un sorriso sarcastico alla sua affermazione, mentre faceva cenno all’uomo di portarsi verso l’altare.
-Come ti chiami?-.
-Mario-.
-Grazie, Mario- disse l’uomo, riconoscente.
 
Sorrise, per quel poco che riusciva a sorridere, poi gli diede le spalle e si avviò verso la navata principale. La morte aveva fatto una strage incredibile lì dentro. I corpi di tutti i frati francescani erano ammassati contro le pareti. Sentì un flebile lamento venire dal coro. Qualcuno, sopravvissuto chissà come, cantava una nenia raccapricciante. L’uomo si andò a sedere su una delle panchine lignee dove di solito stavano i fedeli, ignorando tutto. Era ormai abituato a quelle scene, il Lazzaretto ne era pieno. Si unì alla nenia cantata da quella voce atona, senza più vita. Iniziò a pregare, a recitare tutte le formule messali che gli avevano insegnato, fin da quando era giovane. Infine mormorò tra sé e sé:
 
-Salvala, salva mia figlia. Prendi la mia vita e salva mia figlia dalla peste. Lei deve vivere. Ha solo cinque anni. Ha tutta la vita davanti. Salvala e dalle una famiglia in cui stare. Ti prego-.
 
Una lacrima solitaria scese lenta lungo la sua guancia. Fu l’unica. Non aveva più lacrime per piangere. Le aveva usate tutte quando sua moglie era stata portata via da quella incresciosa malattia. Poi si alzò, gettò uno sguardo veloce al buio che nascondeva i corpi e uscì, lasciando la voce a cantare da sola la sua nenia infinita. Mario non c’era, fuori. Sembrava sparito. I suoi due occhi azzurri spiccarono per un attimo nella sua mente, ricordandogli quelli di sua moglie. Toccò un braccialetto di perline bianche lavorate, che la sua amata gli aveva affidato in punto di morte.
Tienile” aveva detto “devi darle a nostra figlia, viva o morta che sia, quando questa peste sarà passata. Arriveranno a qualcuno prima o poi”. Quelle parole gli risuonavano nella testa, rimbombando qua e là nella sua scatola cranica. Anche per quello era andato a pregare: non voleva che le perle della sua amata moglie, tutto ciò che gli rimaneva di lei, finissero in mani sconosciute e capaci di perderle. Le avrebbe avute sua figlia, come era sempre stato da generazioni. Guardò il cielo. Aveva smesso di piovere, ma aveva iniziato a tirare un vento freddo.
Rabbrividì.
Dopo aver guardato a lungo la facciata dei Frari, si voltò e si incamminò verso il ponte che portava al Lazzaretto, prima che qualche guardia cittadina lo beccasse a zonzo quando non avrebbe dovuto.
Non si era accorto che un laccio che teneva insieme le perle si era rotto. Una piccola perlina lavorata finemente cadde, finendo in una delle fessure delle pietre che coprivano il Campo.
 













Note di Saeko:
E' la prima volta che pubblico in questa sezione; in generale è la prima volta che pubblico una storia originale di questo genere, quindi non sono nemmeno certa che la sezione sia quella adatta. La storia che mi appresto a pubblicare è stata scritta circa una decina di anni fa, io ero appena all'inizio del liceo ed ero appena tornata da un camposcuola fatto a Venezia; mi sono innamorata talmente tanto della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari (chiamata anche semplicemente "I Frari") che ho deciso di ambientarci una storia.
Non so bene se il risultato sia soddisfacente, d'altronde è la prima volta che lascio nel web i miei racconti (sin'ora ho pubblicato spesso e volentieri solo fanfiction), ma ecco, spero che a qualcuno possa piacere.
Sono aperta a consigli e critiche, purché costruttive.
Vi ringrazio per essere giunti sin qui e, beh, ci vediamo al prossimo capitolo!

Saeko's out!

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Capitolo 2
*** Capitolo 1: Vendetta compiuta ***


Capitolo 1:
Vendetta compiuta
 
23 gennaio 2002, Venezia, Campo dei Frari, sestiere di San Paolo.
 
Notte fonda.
Notte buia e senza stelle. Solo una pallida luna a rischiarare i grandi rischi che potrebbe correre un uomo in una notte così oscura; quest’uomo si chiamava Livio Tosca.
Egli aveva ricevuto, pochi giorni prima, una lettera di minaccia che gli diceva chiaro e tondo che quel giorno, a quell’ora della notte, doveva trovarsi lì per contrattare un affare che avrebbe dovuto per forza accettare, se avesse voluto rivedere sua nipote Lixa viva, una volta tornato a casa. Era firmato da un “amico anonimo di vecchia data”. C’era anche un post scriptum che gli diceva di non avvertire la polizia, altrimenti il mittente gliel’avrebbe fatta pagare con un brutto pacco sorpresa recapitato dove meno se lo sarebbe aspettato, nel momento in cui avrebbe avuto meno paura di morire.
Livio Tosca era un uomo sulla cinquantina, presidente di un’azienda dolciaria di Venezia, La Ca’ de Delizie, centro di ricchezze per i suoi dirigenti e dipendenti e poteva quindi permettersi il meglio degli agenti di polizia e di spie di Venezia. Li aveva avvertiti infatti, nonostante le minacce, perché solo una persona completamente pazza non avrebbe avvertito le autorità competenti, una volta ricevuto minacce di quel genere; ma quella notte il signor Tosca si sentiva comunque insicuro.
Era sempre stato un ipocondriaco cronico e aveva sempre avuto un carattere bonario. Quella sera non era per niente sicuro di ciò che la polizia gli aveva consigliato di fare. Non immaginava neanche che l’emissario della lettera avrebbe fatto in modo di bloccare tutti gli agenti che erano stati assegnati al signor Tosca. Sapeva solo di dover salvare la pelle e attendere che la polizia uscisse allo scoperto al momento giusto, poi doveva correre a casa da Lixa. Lui era l’unico parente rimasto a sua nipote, una ragazza dai capelli color castano chiaro e gli occhi color cioccolato. Lixa aveva perso i genitori nel Canal Grande, a causa di un incidente tra il loro motoscafo e il vaporetto della linea pubblica.
Tosca arrivò a Campo dei Frari circa dieci minuti prima dell’orario assegnato. Volse lo sguardo all’imponente Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, spostando gli occhi in maniera alquanto febbrile, tipica di quell’impazienza che all’uomo vien dettata dalla paura.
Fissò il grande finestrone rotondo sopra il portone; da dentro vera visibile una piccola luce. Qualche frate stava di sicuro mettendo in ordine le ultime cose all’interno di quel santuario del Signore, prima di potersi coricare. Poi anche quella luce si spense e tutto il sestiere di San Paolo rimase al buio, con l’edificio sacro che si stagliava nella notte imponente come un gigante. Tosca allora fissò la luna, che rischiarava il cielo notturno e sereno; si mise a sedere davanti al piccolo botteghino delle gondole e attese, gettando di tanto in tanto un’occhiata al costoso orologio che portava al polso.
L’emissario era evidentemente in ritardo. E quell’attesa era snervante.
Un minuto. Due. Tre. Dieci. Quindici. Quell’uomo non arrivava. “Vuoi vedere che si trattava solo di uno scherzaccio?!” pensò stizzito.
Decise che era il momento di andarsene, ormai convinto che fosse stato tutto uno scherzo per ridicolizzarlo. Mentre si alzava, si accorse di quanto si stesse sbagliando. Sentì un rumore alle sue spalle: le gondole attraccate stavano oscillando, segno che l’acqua del canale era stata smossa da qualcosa. Qualcuno era arrivato con una barca, costeggiando il bordo del sestiere. Iniziò ad avvicinarsi rapidamente verso la chiesa.
Vide sul muro dell’edificio una piccola luce comparire alle sue spalle e poi spegnersi. Si voltò e vide una figura scura, con un mantello che la copriva interamente, salire sul piccolo molo del gondoliere. Si avvicinò a Livio Tosca.
 
-Cosa volete?- chiese spaventato.
-Hai con te dei soldi?- chiese la figura, con voce roca.
-Sì, ho qui 30 mila euro in contanti. Non siete stato preciso sulla cifra- disse Tosca.
 
Si era preparato a quell’evenienza e così si era procurato un bel quantitativo di soldi in contanti.
 
-Molto bene, allora avvicinati e posali a terra poco distante dai miei piedi. Poi allontanati-.
 
Tosca eseguì, tremante di paura.
Quando si fu allontanato vide la figura accucciarsi e raccogliere la busta rigonfia con i soldi. Una mano agile e giovane, la destra, uscì fuori dal mantello mentre prendeva il denaro.
 
-Chi siete?- chiese Tosca, impaziente.
-Sono una persona che conosci molto bene-.
-Chi?-.
-Ma come, non ricordi? Questo mantello, lo abbiamo comprato assieme al Carnevale una vita fa … e la mia mano sempre giovane e agile … abbiamo la stessa età … non ricordi le mie idee? Non ricordi nemmeno il mio bellissimo anello? L’unica cosa che non mi portasti via, quindici anni fa … - rispose quello alzando l’altra sua mano, che aveva invece gli stessi calli che aveva Tosca sulle sue e mostrò un bellissimo anello d’oro rosso e bianco in filigrana intrecciata, con un piccolo smeraldo coperto da due piccoli intarsi d’oro giallo.
 
Il signor Tosca riconobbe subito quell’oggetto maledetto.
 
-Antonio Cisano- mormorò a denti stretti.
-Proprio così. Quanto tempo è che non ci vediamo, vero Livio?-.
 
Antonio Cisano era stato il suo compagno di università che gli aveva dato l’idea dell’azienda di dolciumi, che gli aveva fornito alcune ricette inedite di sua tasca, che l’aveva aiutato a trovare i primi locali; poi gli affari loschi con la malavita locale avevano portato Livio Tosca ad allontanarsi dal suo vecchio collega e non dargli alcun credito per le idee che concernevano l’azienda, men che mai comprenderlo all’interno della società. I rapporti si erano inaspriti, fino a che il suo ormai ex amico svaniva nel nulla, senza dare più alcuna notizia di sé.
Antonio Cisano era di origine napoletana da parte di madre, con la famiglia impiantata in Veneto tre generazioni prima.
Dove accidenti è la polizia?” pensò ansioso Livio.
 
-Cosa c’è, Livio?- chiese il suo ora nemico, con una voce che ostentava una finta preoccupazione.
-Nulla, mio caro vecchio amico- rispose Tosca con tono stridulo.
-Ora ti starai chiedendo che fine hanno fatto gli agenti che avevi assoldato, vero?-.
-Beh, in effetti- disse Tosca, detergendosi un po’ di sudore freddo che iniziava a colargli dalla fronte.
-Te lo dico io. Ora sono tutti occupati ad aiutare un corpo di polizia a risolvere una rissa aggravata in Piazza San Marco, a rimettere in piedi il comando andato a fuoco oggi pomeriggio, altri devono seguire alcune piste che sembrano portare all’emittente che ti ha inviato quella lettera, che poi sarei io; sono riuscito a fare in modo che siano tutti in ritardo per il loro arrivo qui. Quelle piste, ovviamente, sono false- disse Cisano.
 
Dunque ecco scoperto il motivo per il quale colui che lo aveva minacciato ci aveva impiegato tanto tempo per arrivare lì.
 
-Hai fatto tutto tu?-.
-Sono stato bravo, vero?- disse quello, con un sorriso estremamente fiero.
 
Tosca non rispose. Aveva capito. Aveva capito che quella sarebbe stata la sua ultima notte. Aveva capito che non avrebbe più rivisto Lixa il mattino seguente, che non si sarebbe alzato per andare a lavoro. Aveva capito che stava per pagare con la vita per gli intrighi che una persona pericolosa come Antonio Cisano aveva dovuto subire. Eppure, nonostante avesse capito, non riusciva a muovere le gambe per potere scampare a quel pericolo. Com’è che si dice? Nulla si ottiene senza uno scambio equivalente. Doveva fare quello scambio. Deglutì.
In quel momento Cisano si tirò via il cappuccio del suo mantello. Due occhi verdi come lo smeraldo che portava al dito lo fissarono. I piccoli occhi neri di Tosca iniziarono a lacrimare.
 
-Hai paura, Livio?-.
-Antonio-.
-Cosa c’è? L’ultima volontà prima di andartene per sempre?-.
-Sì. Dimmi almeno che non farai del male a Lixa-.
-Chi, tua nipote? Stai tranquillo, lei non mi interessa. Tu solo morirai. Così lei rimarrà completamente orfana, la tua azienda cadrà in crisi, ma improvvisamente comparirà un misterioso imprenditore napoletano che la salverà; non hai ancora fatto testamento e sei rimasto socio unico dell’azienda. Si scoprirà che questo imprenditore era un vecchio amico d’infanzia di Livio Tosca e che in onore della sua memoria manderà avanti le sue idee, che poi erano le mie. Non ti pare una morte ben organizzata?-.
 
Cisano aveva ragione e Tosca lo sapeva. La sua sarebbe stata una morte ben congeniata, priva di tutti gli onori per lui e colma di fortuna per il suo nemico. Vide Cisano estrarre con la sua mano finta, che aveva perso una notte di capodanno, un piccolo revolver calibro 22 (Antonio Cisano era sempre stato un tipo parecchio eccentrico) e puntarlo verso il suo cuore. Il signor Cisano sorrise, mostrando una fila di denti bianchissimi. Si passò una mano nei capelli biondo platino.
Poi premette il grilletto e si udì il suono dello sparo.
Tosca lo buscò: un piccolissimo proiettile nel petto, dritto al cuore. Una ferita mortale, senza ombra di dubbio. Tosca cadde in ginocchio, mentre si portava una mano all’altezza del cuore. Non contento, Cisano alzò la pistola, puntandola alla sua fronte. Nel frattempo che il proiettile lo colpiva alla testa, non si accorse dello sguardo di Cisano che inorridiva al suono delle sirene, mentre nascondeva la pistola e fuggiva saltando velocemente sulla sua piccola barca, mentre lui cadeva definitivamente a terra. Anzi, non si accorse neanche di cadere a terra.
Semplicemente, era morto.
Solo un attimo prima di chiudere gli occhi per sempre, nel suo ultimo lasso di lucidità prima che l’ultimo proiettile lo colpisse, si pentì di non aver salutato Lixa come doveva. Una piccola goccia di sangue, l’ultima che il suo cuore riuscì a pompare, era finita poco lontano da lui, in una fessura delle pietre che coprivano il campo, sporcando una piccola perlina bianca lavorata, caduta lì quattrocentoventisei anni prima.











Note di Saeko:
dunque, eccomi qui con il primo vero capitolo di questa storia, che inizialmente era molto più crudo ed esplicito nella descrizione della morte di Livio Tosca, per cui avevo momentaneamente messo il raiting rosso alla storia, ma poiché la parte "violenta" si trovava solo in questo capitolo e in uno più avanti, ho deciso di modificarli per renderli adatti al raiting arancione.
Io non so se tutto ciò che scrivo possa avere un senso, ma vi ringrazio per essere arrivati sino a qui e, in caso, vi aspetto nella sezione recensioni.

Saeko's out!

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Capitolo 3
*** Capitolo 2: Coscienza improvvisa ***


Capitolo 2:
Coscienza improvvisa
 
28 gennaio 2002. Venezia, Campo dei Frari, sestiere di San Paolo.
 
Cinque giorni dopo l’omicidio del presidente della Ca’ de Delizie, la più importante casa dolciaria di Venezia.
Tutto il terreno davanti alla basilica era stato ripulito dal sangue ed erano stati fatti tutti i rilievi del caso. Solo due piccole gocce, poco lontane dal portone principale, erano sfuggite ai medici legali. Quelle due piccole gocce sembrarono risvegliarlo.
Non sapeva bene chi o cosa fosse. Quando aprì gli occhi (o quelli che pensava fossero occhi) vide quelle due piccole gocce rosse grandi come laghi.
Richiuse immediatamente gli occhi.
Quando li riaprì si vide sulla cima del crocifisso sopra il portone della chiesa. Era strano: l’odore metallico di quelle due macchie sembrava averlo destato e poi spaventato. Sapeva che non portavano nulla di buono, eppure non sapeva neanche come avesse questa consapevolezza.
La sua curiosità fu attirata dall’enorme oggetto ligneo su cui era poggiato. Come lo guardò, rabbrividì ancora: c’era un giovane uomo con le mani e i piedi inchiodati a seguire la forma della croce. Ma la cosa che lo aveva spaventato di più era la strana forma del suo corpo. Per la verità non aveva forma; era solo un ammasso di materia scura. Chi era? Era sicuro di essere qualcuno perché dentro di sé aveva ricordi, sprazzi di vita. Setacciò la propria memoria.
Un uomo con un anello verde e una mano più giovane dell’altra sparava alla fronte di un uomo in ginocchio, che aveva già un buco rosso nel petto; questo era il ricordo più recente che aveva.
Un altro ricordo era quello di una ragazza bruna e un ragazzo alto, con una lunga cicatrice che gli attraversava il viso, e i capelli biondi, che si baciavano. Poi immagini confuse di persone, barche e movimenti di nuvole.
Un altro ricordo: una donna che implorava un frate di confessarla; un barbone al di fuori di una porta che aveva la stessa fattura di quella principale che aveva intravisto dalla sua posizione, ma più piccola, che chiedeva denaro ai passanti. Un frate grasso che pregava di fronte ad una strana piramide di marmo. Poi altri ricordi.
Gli sembrava di andare sempre più indietro nel tempo man mano che scorreva quelle immagini e quelle emozioni, che però non aveva mai provato, pensieri del momento che non erano i suoi. Vide un uomo coperto di strane piaghe rosse e gialle parlare con un ragazzo dagli occhi blu e i capelli neri e ricci, anch’esso piagato dalla malattia. Vide quel ragazzo farlo entrare nella stessa porta dove aveva visto il barbone. Vide quello stesso uomo inginocchiarsi in una sala enorme dove si trovavano altre persone che sembravano dormire.
Ricordò un odore sgradevole, l’odore della morte, lo stesso che aveva sentito venire dalle due gocce di sangue sotto di lui. Vide l’uomo uscire davanti al portone principale, guardare il cielo nuvoloso e poi voltarsi per andarsene. Vide qualcosa di piccolo e bianco cadere dal polso della sua mano. Poi altri ricordi, sempre più antichi. Vide la chiesa più piccola di quello che era nella realtà, vide un uomo con la barba nera chino su un quadro quasi finito, attorniato da frati vestiti con sai marroni, e poi vide la chiesa ridotta in mattoni, mentre era in costruzione. Quando si ritrovò davanti a questo ricordo avvertì la sensazione di rinascere: non come era successo quando l’odore del sangue lo aveva svegliato poco prima. Era probabilmente più qualcosa di simile al venire al mondo. Cercò altri ricordi, ma dopo questo non ve n’erano altri, segno che quello era l’ultimo.
O il primo.
Provò un grande moto di curiosità verso quell’edificio, attorno al quale vorticavano i numerosi ricordi delle sue mille vite. Capì che quei ricordi non erano del tutto suoi eppure se lì sentiva dentro, come se fosse uno spettatore di varie vite intrecciate l’una all’altra, racchiuse dentro di lui, che si compensavano tra loro. Decise di entrare nella chiesa per vederla dal vivo. Però non sapeva come scendere; qualcosa dentro il suo essere gli disse di saltare e dunque lo fece: si ritrovò sospeso a mezz’aria, capace di volare. Una luce improvvisa lo colse di sorpresa. Si voltò verso l’origine di quella luce. Vide il cielo rischiararsi dall’oscurità che l’avvolgeva. Un enorme disco luminoso comparve da dietro le case.
Il sole” pensò.
Il suo primo pensiero: ne rimase folgorato. Vide la stessa materia scura che componeva il suo corpo allungarsi ai piedi dei palazzi. Capì che cos’erano: ombre, le ombre delle case. Guardò a terra e non vide la sua, di ombra. Scese in picchiata e si posò con leggerezza a terra. Guardò ancora con attenzione, ma rimase deluso.
Lui non aveva ombra.
Ma certo che non posso avere ombra. Io stesso sono un’ombra”.
Quella consapevolezza lo fece sentire subito meglio. Si girò a guardare la facciata della chiesa. Era alta, imponente e aveva un grande finestrone in stile gotico sopra la porta, finemente lavorata. Osservò il crocifisso sul quale era arroccato quando si era svegliato. Poi posò lo sguardo a terra, in cerca delle due piccole gocce rosse; quando le trovò si sentì stupido per averne avuto paura, poiché erano piccolissime. Poi lasciò perdere le gocce di liquido rosso e si avvicinò al portone. Come poteva entrare? Poggiò sul legno quella che sarebbe stata probabilmente una mano (se ne avesse avuta una) e si ritrovò improvvisamente al di là del gigantesco ostacolo ligneo – dunque era anche in grado di attraversare gli oggetti.
Era in una sala incredibilmente grande. Per terra c’era un pavimento a quadri bianchi e color salmone. Fluttuò su quel pavimento rovinato dal tempo. Poi si voltò a sinistra e vide la stessa piramide dove aveva visto, nei suoi ricordi, il frate grasso pregare. C’erano delle statue ad adornarla.
Una specie di angelo che teneva spenta una lucerna dal fusto lungo e che aveva un volto triste; accanto v’era un leone alato imponente con i denti digrignati.
Gli fece quasi paura.
Spostò lo sguardo sulle sue zampe e notò che tenevano chiuso un grosso libro.
Un vangelo”.
Si stupì di quel pensiero, perché non sapeva che cosa fosse un vangelo; era probabilmente il nome di quel libro molto alto. Poi osservò a lungo due angeli scolpiti sulla facciata della piramide che tenevano un nastro e sotto un nome, scritto con delle lettere scure: “Canova”.
Chissà chi era? Poi, ciò che lo incuriosì di più di quella piramide di bianco marmo era la porta semiaperta. Sentì il residuo di un battito. Era una rumore molto strano, arcano, quasi etero, ma presente. Oltre quella porta nera semiaperta c’era qualcosa che un tempo aveva battuto un colpo, o forse di più.
Un cuore. I cuori della gente battono. Come quello bucato di quell’uomo che ho visto” pensò, rincorrendo i suoi ricordi lontani.
Capì che quella piramide aveva la funzione di monumento funerario. Spostò lo sguardo sulle restanti statue: c’era una figura incappucciata che teneva un vaso chiuso e tre donne. Osservò meglio il mantello del figura con il vaso e le vesti delle tre donne: lo scultore era stato un mago nel ricreare le pieghe degli abiti con il marmo, poiché sembravano vere. Rimase lì a osservarle, dopodiché la sua curiosità fu spostata altrove.
Di fronte alla piramide di Canova c’era un gigantesco mausoleo. Alla base c’era un parallelepipedo di marmo. Si avvicinò. Anche lì senti la presenza di un cuore che un tempo aveva battuto.
Ma avvertì anche qualcos’altro, altra materia. Un corpo, un altro morto. Lesse le iscrizioni sotto la tomba. Erano in una strana lingua che inspiegabilmente riconosceva e capiva: il latino. Le iscrizioni parlavano di un certo Tiziano, un pittore.
Guardò sopra la tomba, sulle immagini del mausoleo e delle statue. Al centro, proprio sopra il parallelepipedo di marmo, c’era la statua di un uomo barbuto, con uno sguardo severo, con accanto due uomini.
Quello deve essere questo Tiziano … accidenti, quando era in vita doveva fare paura parlare con lui” pensò.
Poi passò in rassegna le immagini scolpite sul mausoleo; donne, uomini che si ammassavano l’uno sull’altro; al centro c’era un’immagine più grande di una donna in alto e una massa di uomini che cercavano di raggiungerla con le loro mani da appena sotto di lei.
Che strana immagine” pensò ancora. Un rumore lo fece ritornare alla realtà. Un prete era appena uscito da una costruzione di legno che si trovava di fronte alla grande sala. Era magro e aveva gli occhi neri; di capelli ne aveva pochi e bianchi. Doveva essere molto anziano. Il primo impulso che provò fu quello di rifugiarsi su una delle travi del soffitto e fu quello che fece; anche quando vi fluttuò sopra rimase abbagliato dall’altezza del soffitto e dalla bella fattura delle travi, dipinte in oro con motivi rampicanti. Quando si fu seduto su una di queste guardò in basso il prete che sistemava il luogo per l’apertura.
Allora, vediamo, andiamo a salutare i cari Canova e Tiziano. Forse oggi provo a chiudere la porta del Canova. Non mi piace che rimanga aperta. Però se mi scoprissero si arrabbierebbero molto con me. Si tramanda che quella porta deve restare aperta. Chissà perché poi?”.
Udì questi pensieri e capì che venivano dal frate. Come era possibile? Lui opteva percepire i pensieri della gente? Se faceva più attenzione riusciva a sentire altre voci, appena svegliatesi, di uomini e di donne. I loro pensieri erano un garbuglio in sottofondo, un brusio attenuato dalla loro sola lontananza rispetto all’entrata dell’edificio. Era in grado di avvertirli, ma cercò di estraniarsene subito. Non gli sembrava carino spiare la loro mente, anche se non sapeva bene perché; sapeva solo che doveva evitare di sentire i pensieri di quelle persone.
Ma non ci riuscì. Quelle voci, anche se flebili, lo venivano a cercare. Scivolò verso la gigantesca colonna che sosteneva la trave dove si era rifugiato e passò oltre il prete. Si ritrovò davanti alla grande costruzione di legno da dove aveva visto arrivare il frate magro. Salì le tre scale di marmo che portavano al suo interno.
Qui risiedeva il coro” pensò, e di nuovo si stupì dei propri pensieri: possedeva delle consapevolezze che non sapeva riconoscere, di cui non aveva sentore e arrivavano così, improvvise e inaspettate.
Rimase abbagliato dalla finezza di particolari che aveva quella costruzione. Notò i buchi fatti dai tarli nel tempo. Si insinuò nel legno e ne assorbì l’essenza: gli dava un senso di benessere. Vi uscì e si ritrovò davanti un altro prete, uguale al primo che aveva visto; doveva essere il gemello del frate magro. Vide arrivare anche due ragazzi, uno con una lunga maglietta verde fosforescente e un paio di jeans scoloriti e l’altro con una maglietta rossa e un paio di pantaloni grigi; gli indumenti erano chiaramente di seconda mano.
I due ragazzi, che dovevano avere all’incirca quindici anni, erano accompagnati da una suora sorridente e paffuta che li teneva per le spalle. Erano venuti ad aiutare i due frati gemelli a sistemare tutto per la messa del mattino.
Si voltò e continuò la sua gita per la chiesa. Arrivò alla fine del coro e si ritrovò davanti all’altare, coperto da un drappo viola. Guardò un’immensa figura nera dietro quell’altare. Sembrava fatta di ombra, come il suo corpo. Ne fu sorpreso. Decise che dopo sarebbe tornato ad esaminare meglio quel “buco nero”. Proseguì il suo giro esplorativo, andando a destra dell’ultima immagine che aveva intravisto. C’erano altre cappelle come quelle dell’altare, ma più piccole. Le osservò di sfuggita, perché non attiravano la sua attenzione. Arrivò in una stanza. Davanti a lui c’era un’altra entrata. Oltrepassò la soglia e si ritrovò in una sala con il soffitto poco più basso di tutta la chiesa, ma comunque molto alto.
La sala del Capitolo!”. Un altro pensiero del suo subconscio; conosceva il nome di quel luogo e non ne indovinava il motivo.
Sul lato lungo della stanza, c’era una grande vetrata con delle inferriate che dava su un cortile di forma quadrangolare. Il lastricato era preciso, a differenza di quello che aveva visto fuori al portone d’entrata alla navata principale. Al centro c’era un pozzo con un alto arco. Guardò di nuovo dentro la sala del Capitolo. C’era una tomba, con sopra un’iconografia e sotto un’iscrizione in latino, mezzo rovinata dal tempo. Non perse tempo a leggerla. Ci avrebbe pensato in un secondo momento, semmai. Uscì dalla sala del Capitolo e si ritrovò nell’anticamera che la precedeva: v’era un’altra suora, diversa da quella che aveva incontrato prima e uno dei due ragazzini; era quello con la maglietta rossa. Aveva due occhi neri come il fondo di un pozzo e i capelli biondi e corti. La suora invece, che era abbastanza giovane, sui trentacinque anni, aveva i capelli raccolti in una coda alta, non ancora coperti dal velo e dietro la sua nuca poteva intravedere una cascata di riccioli neri come il carbone; aveva la pelle leggermente abbronzata e un paio di occhi verdazzurri. Stavano sistemando quella piccola sala. Per non farsi vedere prese la consistenza dell’ombra che mandava un crocifisso alle sue spalle. Questo crocifisso sembrava essere molto più grande di quello sul quale si era svegliato, o così gli sembrava – in realtà era un effetto ottico dato dalla grandezza della stanza in cui si trovava.
Rientrò nella navata principale, dove c’erano l’altare e il coro.
Iniziavano già ad arrivare i primi fedeli. Scrutò quei volti e sentì i loro pensieri. Questa volta la curiosità aveva avuto un impulso più forte di quello dell’educazione. Tutti pensavano ai loro cari, ai loro problemi e alcuni anche a quelli del mondo; c’era chi pregava per il solo gusto di farlo, chi per noia, chi per professione. Passò nella parte sinistra all’altare. C’erano altre cappelle. L’unica che destò il suo spirito curioso fu l’ultima. C’era una grata che la separava dal resto dell’edificio, a differenza delle altre, separate solo da piccoli cancelletti. Vide la tomba di un uomo. Un’iscrizione diceva “Monteverdi”.
Il musicista”. Ancora questi pensieri che sembravano non appartenergli.
Vide avvicinarsi il ragazzino con la maglietta verde fosforescente, che aveva visto prima. Aveva gli occhi grigi e i capelli rossi. Lo osservò guardarsi intorno, tirare fuori da sotto la maglietta una rosa bianca, allungare la mano oltre la grata di Monteverdi, cogliere la rosa bianca appassita che c’era lì e metterci quella nuova. Ascoltò i suoi pensieri. “Nessuno sa che io sono un tuo discendente. Vorrei poterlo dire a qualcuno, ma non posso. Uscirei fuori dall’anonimato, no? Mi allontanerebbero da qui, dall’unico parente che ho, nonostante sia defunto da qualche secolo. Però mi sento solo. Perché la mamma mi ha lasciato questo segreto?”.
Quel pensiero aveva il tono di chi si è ripetuto quelle parole dentro per tutta una vita e nell’ultima domanda c’era una punta d’incertezza e tristezza. Improvvisamente, il ragazzo venne chiamato da uno dei due preti gemelli e lo vide allontanarsi correndo. Tornò poco dopo con uno dei due frati gemelli e aprirono una grata che chiudeva una saletta e che si trovava accanto alla cappella di Monteverdi.
Curioso come non mai, vi entrò subito dentro. C’era una fontana e un quadro, incorniciato da una cornice di legno dipinta d’oro con uno stile barocco molto fine. Di per sé la stanza era semplice. Le vetrate alle spalle del quadro lo incuriosivano. C’erano immagini di gente malata curata dai frati, frati che pregavano, lo stesso uomo che aveva visto crocifisso attorniato dagli stessi frati. Aveva notato immagini più o meno simili anche nelle altre vetrate. Uscì dalla saletta, gettò un altro sguardo alla cappella di Monteverdi e poi si andò ad appollaiare sopra una trave.
Osservò arrivare il frate grasso dei suoi ricordi, ma molto più vecchio e affaticato, per fare la messa; vide scolaresche in visita, accompagnate da guide che si perdevano nel racconto della storia quell’edificio; osservò curioso il botteghino che faceva pagare le entrate alle scolaresche e ai non fedeli che venivano a visitare la basilica.
Quando il sole raggiunse il culmine della giornata uscì fuori, strisciando tra le ombre della gente per non essere visto. Avvertiva il fatto di essere visibile e capiva che era meglio che non lo vedessero, gli altri. Trovò un’iscrizione in marmo bianco sulla facciata del portone della chiesa che diceva: “Campo dei Frari. Basilica S. Maria Gloriosa dei Frari”.
Doveva essere il nome della chiesa. Rientrò di nuovo nell’edificio, senza ben capire come articolare e immagazzinare tutte le scoperte fatte in quella mezza giornata. Quando il sole si accinse a tramontare, vide rientrare i fedeli in chiesa per la messa del pomeriggio. Vide di nuovo il frate grasso salire sull’altare e iniziare il sermone. Ascoltò i pensieri di speranza dei fedeli che pregavano e ne riconobbe alcuni molto simili a quelli della mattina.
Poi sentì un vuoto, una mancanza profonda, l’assenza di tutto.
Avvertiva qualcosa, ma non i suoi pensieri, indi per cui rimase con un palmo di naso. Cercò tra i credenti che ascoltavano il frate, identificandone i pensieri corrispondenti.
Gli unici che non sentiva erano quelli di una ragazza, alta, con i capelli lunghi fino alle spalle, biondo rossicci. Volle vederla in volto e così si spostò su uno dei mausolei che si trovavano nella cappella dell’altare. Gettò un rapido sguardo al buco nero dietro all’altare e poi cercò con lo sguardo la ragazza. Portava una frangetta disordinata, i suoi capelli erano lisci, perfettamente piatti. Aveva gli occhi chiusi. Le labbra erano ben disegnate e l’ovale del viso era perfetto. Il naso era forse troppo piccolo, ma nel complesso aveva un volto grazioso. Portava le mani congiunte e mormorava qualcosa mentre il prete parlava. Quanto il frate grasso terminò la messa, lei aprì gli occhi. Erano occhi caldi, confortanti e color cioccolato. Per un attimo gli parve che lo avesse visto e lo osservasse. Si spostò subito fluttuando via dal mausoleo e rifugiandosi dietro al frate grasso, perdendosi nella sua ombra. Quando la messa fu del tutto finita, osservò la ragazza gettare uno sguardo al mausoleo dove si era appollaiato poco prima, alzare le spalle e poi uscire frettolosamente dalla chiesa. Quando tutti si furono allontanati dalle panche, tornò sulla trave dove si era rifugiato quella mattina. Cercò di darsi una forma umana, per potersi muovere più liberamente. Gli venne in mente la ragazza che aveva visto prima. Sapeva di non poter assumere quell’aspetto.
Setacciò i suoi ricordi. Gli venne in mente il ragazzo che aveva visto in un tempo lontano, dove ricordava l’odore di morte, e che aveva fatto entrare un uomo in chiesa; immaginò il suo aspetto, fissandolo davanti a quelli che credeva potessero essere i suoi occhi. Si sentì improvvisamente pesante, perse l’equilibrio e cadde.
Atterrò pesantemente sul pavimento alla base della colonna che sosteneva la trave. Si alzò stordito, eppure non si era fatto nulla, tranne un grosso livido arrossato sulla gamba.
Sorrise. Ora poteva farlo.
Poteva camminare come le persone normali, come tutta la gente che aveva visto frequentare l’edificio sacro per tutta quella giornata. Cercò da qualche parte un qualcosa che potesse riflettere la sua immagine.
Mi serve uno specchio”.
Questa volta sapeva che cosa fosse uno specchio, anche se non riconosceva il perché. Corse a perdifiato per l’enorme sala. Era molto sconveniente avere due gambe così pesanti per muoversi, visto che il suo essere ombra gli aveva permesso di scivolare via alla velocità della luce sui pavimenti di quella costruzione. Trovò fortuitamente un piccolo specchietto per bambini nella sala del Capitolo. L’immagine che l’oggetto gli rimandò non era esattamente quella che ricordava: doveva avere all’incirca tredici anni. Era alto per la sua età, aveva i capelli neri come la notte e riccioluti. Però due ciocche di un verde fosforescente, simile al colore della maglietta del discendente di Monteverdi, gli attraversavano il lato sinistro della testa. Se spostava un pochino i riccioli le ciocche verdi si nascondevano. Però quello che lo stupì non erano i capelli, bensì gli occhi. Erano azzurro cielo. Però avevano delle sfumature d’oro brillante, impossibili da nascondere; sembravano piccole pagliuzze di oro grezzo perse nell’acqua di un fiume d’alta montagna. Provò ad immaginarsi con gli occhi della ragazza che aveva visto a messa, ma non ci riuscì.
Diede poi un’occhiata ai suoi vestiti: portava un maglione bianco e dei pantaloni neri; aveva un paio di scarpe azzurre, da ginnastica, malridotte, ai piedi. Si sentì improvvisamente stanco. Posò lo specchio e si rannicchiò a terra. Cinque secondi dopo si addormentò profondamente, tornando ombra e confondendosi con la notte.
 
***

Lixa era andata alla chiesa dei Frari, come ormai faceva da cinque giorni, ogni pomeriggio. Dal quel maledetto giorno, in cui la polizia le aveva detto che suo zio Livio era stato ucciso.
Livio Tosca era di fede cristiana – per la precisione francescano. Lixa Tosca, non conoscendo altra religione che quella del suo amato zio, fratello di suo padre, (aveva frequentato sin da bambina la Chiesa in Campo dei Frari) andava in chiesa tutti i giorni per pregarlo e per pregare che qualcuno la aiutasse a vendicarsi.
Però quel pomeriggio, quando frate Ballon aveva terminato il sermone e lei aveva riaperto gli occhi, le era parso di aver visto un’ombra con due occhi d’oro fissarla. Era stato solo per una frazione di secondo, poi aveva sbattuto le palpebre e l’ombra era sparita. Prima di andarsene aveva guardato di nuovo verso il mausoleo dove l’aveva vista comparire, ma non era riuscita a notare nulla di strano. Allora si era voltata, pensando ai suoi problemi.
Aveva quindici anni, due genitori che erano morti quando ne aveva dieci, ormai completamente sola al mondo, e aveva anche una questione di vendetta da portare a compimento. Non era quella che si diceva una ragazza comune.




















Note di Saeko:
eccomi qui, con un nuovo capitolo, estremamente lungo, di presentazione del vero protagonista della storia; è vero, ancora non ha un nome, ma lo avrà presto. Come si sarà notato, ho descritto in maniera assai particolareggiata la Basilica dei Frari; all'epoca della mia visita in camposcuola durante il quale maturai l'idea per questo racconto, rimasi talmente affascinata dalla storia e dall'aspetto dell'edificio che l'ultimo giorno, che i professori ci lasciarono libero per esplorare la città per conto nostro, decisi di tornare lì per di stamparmi a fuoco nella mente i particolari che mi erano piaciuti di più; in quegli anni i cellulari facevano fotografie molto sgranate, non si collegavano ad internet come lo fanno ora e soprattutto non avevano abbastanza memoria da poter contenere le note di tutti i particolari che volevo riportare, per cui mi sono affidata alla mia memoria e all'aiuto di un'enciclopedia, facendo in modo di conoscere quell'edificio come se fosse casa mia. Spero che l'effetto che volevo ottenere, ovvero quello della completa appartenenza dell'ombra alla chiesa, pur se la sta scoprendo solamente ora, sia riuscito.
Passo ora ad alcuni ringraziamenti: 

a Estel_naMar per aver recensito il secondo capitolo e aver inserito la storia tra le seguite;
a alessandroago_94 per aver commentato il secondo capitolo di questa storia;
Elgas per essere passata a recensire il primo capitolo dell'altro racconto concluso prima di intraprendere la pubblicazione di questo, ossia "Historiae - Il viaggio fantastico".

Ho inoltre aperto un canale telegram dedicato alla mia pagina qui su EFP e su Ao3, per cui se qualcuno fosse interessato e avesse telegram, eccovi il link: https://t.me/VeronicaSaeko

Grazie ancora per avermi sopportato sino a qui e, salvo imprevisti, ritornerò domenica.

Saeko's out!

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: Il primo incontro ***


Capitolo 3:
Il primo incontro
 
29 gennaio 2002. Venezia, Campo dei Frari, sestiere di San Paolo. Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, sala del Capitolo.
 
Avvertì di nuovo quella sensazione, sgradevole e gradevole al tempo stesso, ovvero la sensazione di rinascere: era di nuovo ombra. Decise di prendere la forma del ragazzino con i riccioli neri, di immaginarsi senza le ciocche fosforescenti e gli occhi oro e azzurri; provò a raffigurarsi con gli occhi verdi e pensò di esserci riuscito.
Si reggeva nuovamente sulle due stesse gambe ossute della sera prima; indossava gli stessi pantaloni neri di velluto sporco e il maglione bianco; ai piedi aveva le stesse scarpe da ginnastica sporche e malridotte. Riprese lo specchietto.
Nulla di cambiato.
Le ciocche verdi erano al loro posto, sul lato sinistro della testa e gli occhi erano sempre azzurro cielo con delle pagliuzze color oro brillante qua e là nel colore dell’iride.
Come poteva andare in giro ad esplorare il mondo con quello strano aspetto, tutt’altro che umano?
Per il momento decise di uscire dalla sala del Capitolo; gli riusciva un pochino più semplice muoversi su quelle gambe, dato che gli parevano meno pesanti.
Si era svegliato più tardi del giorno prima: il sole era già spuntato, anche se da poco; entrò dunque nella navata principale della chiesa e si avvicinò alla cappella dell’altare.
Rimase a bocca aperta.
Davanti a lui, sopra all’altare di marmo coperto con il consueto drappo viola, non c’era lo strano buco nero del giorno prima, ma bensì un quadro bellissimo; notò che il disegno era identico a quello scolpito sopra la tomba di Tiziano.
Ma questo era semplicemente più bello: il volto della donna era più bello. Si avvicinò e con una mano sfiorò la tela. Osservò il volto di quell’essere dalle parvenze eteree: gli sembrava di vedere due profondi occhi azzurri, illuminati dalla luce oro del sole, esattamente come i suoi. Guardò gli uomini disposti attorno alla donna: in confronto a lei gli parvero rozzi e brutti, ma dipinti talmente bene da sembrare reali. La donna invece, sospesa su una corona di nuvole, aveva un che di soprannaturale. Perché ora vedeva quel quadro stupendo, se il giorno prima non c’era?
Provò a ritornare ombra e davanti a lui comparve di nuovo il buco nero visto il giorno precedente; dunque quell’ombra doveva essere il quadro: forse lui apparteneva a quel quadro, a quella donna.
Madre” pensò.
Era possibile? Era possibile che quella potesse essere sua madre? Era possibile che una donna così bella potesse essere la madre di un ombra? Non sapeva rispondersi, eppure sentiva di appartenere come un figlio a quella figura femminile dipinta su tela.
Avvertì dei rumori venire dalle altre sale della chiesa: i frati, le suore e i ragazzini si stavano svegliando. Doveva trovare il modo di uscire di lì in forma umana, senza essere notato; accanto all’altare vide un giaccone lungo nero, con tanto di cappuccio, dimenticato sicuramente da qualcuno; avrebbe potuto usare quello. Lo prese al volo e uscì di corsa, attraverso la porticina del campanile.
 
***

Mattino luminoso e con un cielo senza nubi.
Un’altra giornata passata a pensare alla vendetta. Lixa però, quella domenica, senza sapere perché, si alzò di buon umore. Era certa che qualcosa quel giorno l’avrebbe aiutata. Si vestì con un maglione azzurro e una gonna bianca. Si legò i capelli in una coda alta; nonostante fossero lunghi solo fino alle spalle a volte erano fastidiosi. Prese le chiavi di casa, una giacca a vento e uscì. Avvertì la vicina, poiché, essendo ancora minorenne e non avendo più famiglia, era stata affidata temporaneamente a lei. Anche la signora Laura però stava andando a messa. Le chiese se poteva accompagnarla.
 
***

Fuori, il botteghino delle gondole aveva appena aperto. Il gondoliere stava sistemando al meglio le sue due gondole, per renderle presentabili ai turisti, e attendeva che i suoi colleghi arrivassero. Un negozietto accanto al campanile aprì d’improvviso la serranda e il suo proprietario diede uno scappellotto a quello che doveva essere il figlio. Accanto alla porta del campanile c’era un barbone. Gli tremava una gamba, aveva un bastone da passeggio scheggiato e teneva in mano un barattolo di latta per fare le elemosina. Si doveva essere appena svegliato.
 
-Ragazzo!- disse, rivolgendosi proprio a lui –Aiutami. Dammi qualche moneta, così posso comprarmi qualcosa-.
-Mi dispiace, signore- rispose lui.
 
Si stupì del suo tono di voce vellutato e insieme roco.
 
-Non ho soldi-.
-Sei uno della chiesa?-.
-Non esattamente-.
-Allora sei come i fedeli-.
-Credo di differire proprio da quella categoria di gente- rispose lui, un po’ incerto.
-Quindi sei come me?!-.
-Può darsi. Ora però devo andare-.
 
Cercò di allontanarsi, ma il barbone lo fermò.
 
-Aspetta-.
 
Lo prese per il bavero e lo trascinò alla sua altezza. Il vecchio era mezzo seduto e mezzo appoggiato con la schiena allo stipite della porta del campanile, in una posizione assai innaturale; la barba grigia e sporca e la pelle abbronzata davano al suo volto un senso di trascuratezza non indifferente.
 
-Cosa c’è?-.
-I tuoi occhi … sei il primo che vedo con occhi così belli-.
-Mi lasci andare!- gridò allora.
 
Nessuno doveva vederlo. Si tirò sulla testa il cappuccio del giaccone e fuggì via. Vide un ponticello che collegava quel campo ad un altro, proprio di fronte al piazzale della chiesa. Vi corse sopra e finì addosso a qualcuno. Già malfermo sulle gambe (in fondo era solo un giorno che camminava), cadde a terra e il cappuccio gli volò via. Davanti a lui c’erano una donna sui quaranta e una ragazza, che riconobbe subito: era quella della messa del pomeriggio. I loro occhi si incontrarono, mentre la ragazza gli porgeva la mano per aiutarlo ad alzarsi. Spaventato si alzò da solo e corse dall’altra parte del ponte, senza voltarsi indietro.
 
***

Lixa conversava senza troppi pensieri con la signora Laura. Il cielo era terso, non c’era nemmeno una nuvola e splendeva un sole che accoglieva tutto. Era raro che a Venezia ci fosse un tempo del genere, soprattutto in quel periodo dell’anno. Qualcuno le venne improvvisamente addosso e, nel collidere con lei, cadde a terra. Sorpresa, si chinò ad aiutare un ragazzo con un giaccone nero e lungo. Forse un po’ troppo lungo per lui, tanto che lo aveva fatto inciampare nei suoi stessi piedi. Incontrò i suoi occhi. Erano azzurri, come il cielo di quel giorno e avevano delle sfumature oro brillante, lo stesso colore che aveva intravisto nell’ombra il giorno prima, a messa. Era sicura che fossero la stessa persona. La persona che l’avrebbe aiutata. Se lo sentiva.
Però il ragazzo era spaventato. Anzi, spaventatissimo. Si alzò di scatto e corse via da lei; il ragazzo non si voltò indietro, anzi corse velocemente in avanti; fuggì e basta. Voleva correre e seguirlo, fermarlo, tranquillizzarlo e scoprire qualcosa di lui, soprattutto sui suoi occhi. E poi parlargli della sua vendetta.
Ma ormai non poteva: la signora Laura la stava tirando per la manica della giacca, dato che la messa stava per iniziare. Allora Lixa si voltò e si avviò con la sua vicina alla chiesa.
 
-Lo conosci?- chiese la signora Laura, curiosa.
-No. Beh, non proprio. Lo conoscerò, però-.
-Sai, quando dici queste frasi enigmatiche a volte mi spaventi-.
 
Lixa rise di gusto, per la prima volta dopo cinque giorni di musi lunghi e rispostacce. Sapeva che, comportandosi in quel modo, era stata scortese con la signora Laura che aveva cercato, in qualche modo, di consolarla dopo la morte di Livio Tosca, di evitare che finisse in un orfanotrofio e di mantenerla, pur vivendo in due case diverse, che però si trovavano l’una di fronte all’altra. Poi entrò in chiesa e si zittì. Prese posto su una delle panche e iniziò ad ascoltare le parole di frate Luigi, che di domenica presenziava la messa al posto di frate Ballon. Ringraziò dentro se stessa il Signore. Lo ringraziò, per averle fatto vedere che poteva esserci una possibilità.
 
***

Corse, corse più veloce che poteva, non voleva essere raggiunto. Si rintanò in un vicoletto stretto. Non sapeva quanto si era allontanato dalla chiesa e temeva di essersi perso.
Davanti a lui c’era però un grande ponte; dalla parte opposta vide una specie di casermone e poi una fermata di un traghetto e la scritta sul cartellone che designava la fermata recitava: “Ferrovia”. Sentì dei crampi allo stomaco.
Fame.
Sapeva che dentro quel corpo aveva bisogno di mangiare. Riprese fiato e si tirò il cappuccio sulla testa. Anche di bere - aveva bisogno anche di bere. La sua gola era arsa dalla sete e lui era scosso dagli ansimi della fatica per la corsa.
Ma come poteva procurarsi acqua e cibo? Come aveva detto al barbone, non aveva soldi. Iniziò ad aggirarsi intorno al ponte. C’era un ristorante e accanto un fruttivendolo. Lentamente si trasformò in ombra e uscì fuori dal vicolo; si insinuò tra le ombre dei passanti e arrivò davanti alla bancarella, dove c’erano tante mele rosse e succulente; entrò nell’ombra della bancarella e arrivò sino all’ombra delle mele. Avvolse con il suo corpo ombroso uno dei frutti e poi scivolò via, trascinando con sé l’ombra dell’oggetto in questione, la mela era pesante e dunque cadde a terra. Nessuno si accorse di quel che succedeva.
Pian piano rotolò fino al vicolo dal quale era uscito. Lasciò andare l’ombra della mela e ritornò ragazzo. I morsi della fame gli ferivano lo stomaco. Prese la mela e la portò alla bocca, vorace. Con pochi morsi la finì e si sentì meglio. Molto meglio. Eccetto il picciolo, non risparmiò né torsolo né semi. Poi decise di fare un giro. Si incamminò verso il ponte.
Il sole era ormai alto. Per strada c’erano molti turisti per essere solo gennaio: famiglie con bambini, gondolieri che correvano nella direzione dalla quale veniva. Oltrepassò il ponte e si trovò davanti al casermone. Sentì i pensieri della gente e capì quel “casermone” in realtà si chiamava “stazione ferroviaria”.
Rimase affascinato per un attimo dal rumore scarrozzante e metallico che dovevano fare quelli che le persone chiamavano “treni”. Poi girò a destra e si ritrovò in una via affollata, affollatissima. C’erano negozietti, bar, pizzerie, pasticcerie e bancarelle di tutti i tipi. Si fermò davanti ad una pasticceria e sentì di nuovo i crampi allo stomaco. Aveva di nuovo fame? Possibile? Allora guardò il sole. Era quasi arrivato vicino ai tetti dei palazzi; era dunque evidentemente tardi. Non si era accorto di quanto fosse passato veloce il tempo.
Stava per voltarsi e tornare indietro quando a terra vide un dischetto di metallo, tondo. Era argentato fuori e dorato dentro. Aveva inciso un enorme 2 e uno strano disegno accanto. Sull’altra faccia c’era il volto di un uomo.
“Una moneta. Soldi”. Entrò velocemente e chiese alla signorina dietro il banco:
 
-Cosa ci compro con questi?- di nuovo lo stupì il tono della sua voce, roca e al tempo stesso vellutata.
-Uno di questi biscotti- disse la commessa sorridendogli.
 
Indicò un vassoio dove c’erano degli enormi biscotti verdi.
 
-Con cosa sono fatti?-.
-Pasta di mandorle, pistacchi e gocce di cioccolato-.
-Me ne da uno?-.
-Ma certo-.
 
La commessa prese un biscotto con due pinze d’acciaio e lo mise dentro una bustina di carta marrone. Gliela porse e tese la mano per prendere la moneta. Stava già uscendo dalla pasticceria quando la signorina lo fermò.
 
-Aspetta, piccolo! Non hai preso il resto-.
-Davvero?- fece lui come se fosse sorpreso, senza comprendere cosa fosse il “resto”.
 
La signorina gli diede una monetina tutta gialla dove c’erano un 2 e uno 0 vicini, sempre con quello strano disegno che c’era sulla monetina da due. Sull’altra faccia c’era un uomo eretto in una strana posizione. Sorrise alla commessa e uscì fuori. Si mise nella tasca del giaccone la monetina gialla e guardò il cielo. Il sole stava toccando i palazzi, lasciando una sfumatura arancione e rosso carminio dipinta sopra l’azzurro del cielo. Si mise a correre per raggiungere il ponte. Cercò di rifare tutta la strada che aveva compiuto per arrivare lì e stranamente ci riuscì. Si ritrovò di nuovo di fronte alla chiesa, alla sua casa; si sedette sulle scale del ponticello, nascondendosi ancora di più nel cappuccio della giacca; tirò fuori il biscotto dalla bustina di carta e iniziò a mangiarlo. Era duro, però gustoso. Vide un gruppo di persone che usciva dal portone principale dei Frari.
 
-Ehi tu!- una voce femminile lo chiamò.
 
Alzò il volto dal suo biscotto e fissò una ragazza: la ragazza della messa! La ragazza contro cui era finito quella mattina! Lei si avvicinò e lui decise di non fuggire di nuovo.
 
-Cosa vuoi?- disse con voce scontrosa lui.
-Parlare con te-.
-Io invece no-.
-E io ti parlo comunque. Ti dispiace se andiamo a casa mia?-.
-Io non mi muovo di qui-.
-Allora entriamo nella chiesa. Ti va?-.
-Nella chiesa sì-.
 
Si alzò di malavoglia, rimettendo il biscotto nella busta, che poi infilò nell’altra tasca del giaccone. Si affiancò alla ragazza e la osservò più da vicino.
Era alta, bella. I capelli erano biondo rossicci e nel momento del tramonto sembravano dello stesso colore del cielo che rosseggiava avanti a loro. Sembrava molto orgogliosa. Provò di nuovo a sondarle i pensieri, ma non sentì nulla provenire da lei. Sembrava che accanto a lui non ci fosse nessuno: un buco nero. La ragazza si voltò e lo guardò negli occhi. Non sussultò come aveva fatto quella mattina il barbone, ma ne rimase semplicemente affascinata.
 
-Come ti chiami?- chiese di getto.
-Come … come mi chiamo?- disse lui, incerto.
-Qual è il tuo nome?-.
 
Rimase un attimo a riflettere. Cos’era un nome?
 
-Cos’è un nome?- chiese, pensando ad alta voce.
-Non sai cos’è un nome?- chiese la ragazza sconcertata, mentre entravano dal campanile.
 
Abbassò di colpo il tono della propria voce.
 
-No-.
-Hai presente il disco luminoso che illumina il cielo?-
-Sì. Il sole-.
-Esatto. “Sole” è il nome di quel disco. Quindi qual è il tuo nome?-.
 
Rifletté. Lui era scuro, aveva la consistenza di un ombra. Poteva prendere la forma di un ombra e quando era ombra vedeva il quadro dove si trovava la sua probabile madre, scura come un buco nero, un’ombra profonda. Quindi il suo nome non poteva essere altro che…
 
-Chi va là?- chiese qualcuno d’improvviso.
 
Frate Luigi li aveva sentiti.
 
-Chi va là?- ripeté –Se siete dei fedeli, vi prego di uscire. In questo momento la chiesa ha terminato le sue funzioni. Se siete visitatori venite pure avanti. Qui è aperto fino alle sei-.
 
La ragazza si mise il cappuccio della sua giacca a vento in testa per non farsi riconoscere e camuffò la sua voce, mettendosi una mano davanti alla bocca.
 
-Siamo turisti- disse provando un accento diverso dal suo –Possiamo visitare ancora?-.
-Certo. Ma alle sei dovete già essere fuori-.
-D’accordo. Grazie- rispose la ragazza.
 
Passarono velocemente davanti all’altare e entrarono nell’anticamera che precedeva quella del Capitolo.
 
-Credo che il mio nome sia Ombra- disse lui, riprendo dunque il discorso.
-Ombra?-.
-Sì. Questo ragazzo che vedi davanti a te non sono veramente io-.
-E chi sei veramente tu?-.
-Posso farti vedere?-.
-Certo-.
-Sicura che non scapperai?-.
-Te lo prometto-.
 
La guardò ancora incerto e si abbassò il cappuccio. Le due ciocche verdi sul lato sinistro della testa risaltarono in mezzo al nero dei suoi capelli; la ragazza sembrò sussultare.
Nel frattempo lui si immaginò ombra: avvertì il suo corpo diventare di colpo leggero. Aprì gli occhi: il suo corpo era tornato scuro.
 
-Hai gli occhi d’oro- fu la prima cosa che disse la ragazza.
-Sul serio? Non sono anche azzurri?-.
-No. Sembrano oro puro. Due piccole monetine fatte di oro puro-.
-Pensavo di non avere gli occhi-.
-Invece ce li hai. Li ho visti ieri pomeriggio, a messa-.
 
Al che tornò di nuovo ragazzo. Si tolse la giacca e la mise per terra, sedendocisi sopra, mentre la sua nuova conoscente faceva lo stesso. Scoprì un volto pulito e fresco. Portava i capelli legati in una coda alta. Li per lì non ci aveva fatto caso. Era vestita con un maglione blu e una gonna bianca.
 
-Ombra non mi piace come nome-.
-Perché?-.
-Perché è troppo generico-.
-Allora...-.
 
Ci pensò su un attimo.
 
-Che ne dici di Manes?-.
-Manes?-.
-Vuol dire “ombra” o “spirito vitale”, in latino-.
-Sai il latino e non sai cosa sia un nome?-.
-Ehm, sì-.
-Se penso che io mi sto praticamente impiccando per imparare il latino!-.
-Ma non hai un cappio al collo-.
-Che cosa?-.
-Hai detto che ti stai impiccando e così …-.
-Ma no, è solo un modo di dire-.
 
La ragazza sorrise e mosse la mano accanto al viso, come a voler scacciare via una mosca.
 
-Comunque, vada per Manes. Mi piace di più come nome. È originale-.
-E tu come ti chiami?- chiese allora Manes alla ragazza.
-Il mio nome è Lixa-.
-Lixa … Lixa … in latino vuol dire “vivandiere”-.
-Davvero? Mia madre, in effetti, era una commessa in un negozio di alimentari. È stata lei a darmi questo nome-.
-Mi piace. È originale-.
-Che fai, mi copi?-.
-No. Ho semplicemente detto la verità-.
 
Manes guardò fuori nel cortile la luce, che ormai non c’era più. Era più buio. Ed era tardi.
 
-Lixa … credo che tu debba andare-.
 
La ragazza si guardò il polso, dove c’era un piccolo cinturino in pelle marrone con un disco bianco e delle lancette sopra. “Un orologio!” pensò Manes. Però era un orologio strano. Senza sapere perché lo ricordava più grosso, di legno e appeso ad un muro.
 
-Hai ragione. È davvero tardi. Sono le sei meno cinque. Devo scappare, o frate Luigi mi fa a fettine. Accompagnami fuori- disse, prendendolo per mano e trascinandolo in piedi.
 
Manes fece appena in tempo a prendere la giacca, a mettersela e ad abbassare il cappuccio. Alle sei e cinque erano fuori.
 
-Perché mi hai trascinato fuori?-.
-Tu puoi rientrare sotto forma di ombra, no?-.
-Ah già, è vero-.
-Allora … ci vediamo domani-.
-Domani tornerai?-.
-Certo. Sono curiosa di conoscerti, Manes-.
-D’accordo. Allora ti aspetterò-.
 
La ragazza gli sorrise, poi si voltò e se ne andò.
Strano. Perché quella ragazza voleva conoscerlo?
Lixa.
Bel nome davvero, anche se il suo significato lasciava un po’ a desiderare per una ragazza così bella. Si ritrasformò in ombra e rientrò. Prima di tornare alla sala del Capitolo tornò ragazzo. Guardò la donna che credeva essere sua madre. Toccò di nuovo il quadro.
 
-Madre- sussurrò.
 
***

Lixa salutò Manes.
-Allora … ci vediamo domani-.
-Domani tornerai?- chiese Manes, leggermente sorpreso
-Certo. Sono curiosa di conoscerti, Manes-.
-D’accordo. Allora ti aspetterò-.
 
Lixa gli sorrise, poi si voltò e se ne andò. Era felice. Aveva ragione di credere che quel giorno aveva trovato la sua speranza in un’ombra; un’ombra in grado di pensare e diventare umana. Quello che le serviva.
Senza sapere perché, provava già affetto per Manes. Certo, pensava a lui come a qualcosa da usare, eppure sentiva di non volerlo ferire. Sebbene non sapesse come o cosa attuare, vedeva la sua vendetta vicina.














Note di Saeko:
buona domenica a chiunque sia giunto fino a qui! Questo capitolo, sebbene sia lungo, non è almeno un wall of text come il precedente e spero vivamete che la storia cominci ad essere accativante; la descrizione dell'incontro tra Lixa e Manes è sempre stato un grosso scoglio per me e negli anni ho rivisto questo capitolo innumerevoli volte, poiché non mi soddisfava mai. In realtà ho qualche dubbio anche su questa versione, ma spero che risulti essere sensata; in caso, sono aperta a suggerimenti e critiche (nel limite dell'educazione ovviamente).
Passo ad alcuni ringraziamenti che sono d'obbligo:

Elgul1 per essere passato a recensire il prologo e il primo capitolo, per lo scambio del Giardino di Efp;
alessandroago_94 per essere passato a recensire il secondo capitolo.

Grazie per avermi sopportato sino a qui, dovrei tornare la prossima settimana con un nuovo aggiornamento.

Saeko's out!
 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4: Paura e indecisione ***


Capitolo 4:
Paura e indecisione
 
30 gennaio 2002. Venezia, isola di Murano.
 
Una piccola casetta abbandonata sulla costa lagunare si affacciava tra gli sbuffi di nebbia; al piano superiore, una pistola era posata sul tavolo di una cucina sgangherata.
Sette giorni dall’omicidio.
Antonio Cisano camminava avanti e indietro, misurando il pavimento della cucina nella sua lunghezza e gettando di tanto in tanto uno sguardo inquieto all’arma sul tavolo, ovvero il revolver calibro 22 che aveva ucciso Livio Tosca.
La polizia l’aveva cercato dappertutto, ma lui era stato bravo a nasconderlo: nessuno avrebbe mai pensato di cercarlo in una capsula del tempo nascosta nella sabbia della costa all’isola del vetro; l’idea era piuttosto banale, ma era anche risultata dannatamente efficace.
Ma Cisano l’aveva riportata comunque alla luce, neanche lui sapeva bene perché. L’aveva ripulita da qualsiasi tipo di impronta, come se già non lo avesse fatto in precedenza. Anche questo non aveva senso, visto che non aveva lasciato tracce sulla scena del delitto, se non i due bossoli nel corpo del suo antico collega; per quanto l’arma fosse eccentrica, non l’aveva dichiarata, per cui nessuno sapeva che Cisano l’avesse anche solo acquistata.
Non sapeva bene perché, ma era stato probabilmente un incosciente a riesumare l’arma del delitto; e ora si sentiva inquieto, preoccupato, timoroso.
Timoroso che potesse succedergli qualcosa. L’istinto gli diceva che qualcuno aveva in mente qualcosa, qualcosa di incredibilmente inaspettato. Prese la pistola con un panno e la lasciò scivolare dietro la schiena, mettendola nella cintura dei pantaloni. Ci si mise sopra un cappotto abbastanza lungo da coprire la canna. Prese le chiavi del suo motoscafo blu notte e uscì.
Il motoscafo era attraccato su un piccolo palo poco lontano da lì; vi salì sopra e mise in moto. Si rilassò al suono del motore che si accendeva, si riscaldava e restava in attesa di un suo comando per partire. Era mattina presto; il sole era appena sorto e molto probabilmente erano ormai le sei del mattino, o le sei e mezzo, ma poco importava. Arrivò al centro della laguna e spense il motoscafo; prese il revolver (sempre facendo attenzione a non lasciarvi impronte) e lo lasciò cadere in acqua, lì dove essa era più profonda.
Sarebbe potuto uscire in mare aperto, forse sarebbe stato più sicuro, ma c’erano delle nuvole spaventose all’orizzonte; la luce era soffusa e rischiava di non riuscire più a tornare indietro.
Andava bene anche così, per cui riaccese il motore e tornò verso Murano. I suoi occhi verde smeraldo vagarono per il paesaggio. Quel giorno avrebbe piovuto.
 
***

Una pioggia fine, a catinelle, ma incessante e fastidiosa, bagnava tutto ciò che era possibile vedere.
Manes si era svegliato di malumore.
Aveva preso il biscotto del giorno prima e lo aveva finito. Ora il problema era trovare il modo di poter mangiare qualcos’altro una volta tornata la fame, dato che non poteva uscire; la pioggia non gli dava sicurezza, come se un antico avvertimento gli dicesse che gli avrebbe fatto del male.
Quel lunedì in chiesa c’erano pochi fedeli e visitatori e la messa dunque finì presto. Andò verso la navata centrale a fissare il quadro dove c’era sua madre. Si sedette ai piedi dell’altare di marmo e rimase a fissare la donna.
“Madre. Sento che sei tu. Voglio raggiungerti, venire da te. Ma come faccio? Ho provato a infilarmi dentro il quadro, ma qualcosa non mi fa passare. Sotto forma di ombra vedo solo un buco nero. Come faccio a raggiungerti?”.
Questi pensieri bui gli attanagliavano la mente. Avvertì poi un rumore. Riconobbe il discendente di Monteverdi che stava andando a portare le rose bianche alla tomba del musicista. Manes non fece in tempo a tornare ombra: il ragazzo lo aveva già visto.
 
-Chi sei?- chiese avvicinandoglisi.
 
Quel giorno aveva una maglietta nera con uno scorpione bianco disegnato sul petto e una felpa sformata, anch’essa nera. Notò subito gli occhi e i capelli dell’ombra; spalancò gli occhi.
 
-Chi sei?- ripeté, questa volta con un tono di voce decisamente spaventato.
-Sono Manes- disse lui, senza cercare di nascondersi, dato che a quel punto era decisamente inutile.
-Da dove vieni?-.
-Da qui-.
 
Chissà perché, Manes si sentiva molto tranquillo. Anche troppo, forse. L’istinto gli diceva che il successo nel fare amicizia con Lixa gli avrebbe permesso di stringere un rapporto positivo anche con questo ragazzo.
 
-In che senso, da qui?-.
-Che mi sono risvegliato qui. Più precisamente sul crocifisso che sta sul tetto-.
-Sei un demonio?-.
-Non credo. So per certo di essere un ombra. Ma non un demonio. Per il momento non ho fatto del male a nessuno. Se mi aiuti, magari eviterò di iniziare a farlo-.
 
Aveva mantenuto un tono molto sarcastico. Vide il ragazzo rilassarsi.
 
-Porti le rose al tuo avo, il musicista?-.
 
Un lampo di panico passò negli occhi del ragazzo.
 
-Come fai a sapere che è mio parente?-.
-So leggere i pensieri. Anzi, per la verità sono i pensieri della gente che vengono da me. Non dirò nulla a nessuno-.
-Grazie-.
-Come ti chiami?- chiese Manes.
 
I nomi iniziavano ad affascinarlo.
 
-Paolo-.
-Senti, Paolo, non è che riusciresti a fare in modo di trovarmi un posto dove stare? In questa struttura, possibilmente-.
-Certo. Puoi venire nella mia stanza-.
 
Andò velocemente a mettere le rose bianche alla tomba di Monteverdi e tornò da lui. Manes seguì Paolo, incuriosito. Aveva già sentito quel nome, ma non sapeva dove né quando. Entrarono nella sala del Capitolo; Paolo aprì una delle vetrate, fece girare una chiave in una serratura delle inferriate che davano al cortile. Lo attraversarono e si ritrovarono sotto un portico. Il ragazzo tirò fuori dalla tasca dei jeans scoloriti che portava quel giorno un’altra chiave, più grossa e pesante rispetto alla prima, di un’antica fattura, e aprì una porta altrettanto antica, tentando poi di scaldarsi le mani sfregandole – il tempo era freddo e buio, tipico del mese di gennaio.
Salirono delle scale e arrivarono davanti un’altra porta. Paolo l’aprì con una leggera spallata, dopo aver poggiato la mano sulla maniglia. Dietro l’ostacolo ligneo c’era una stanza rettangolare con una finestra sulla parete parallela a quella della porta. Il letto era messo trasversalmente alla finestra. Sotto di essa c’era una piccola scrivania, con sopra una lampadina e dei libri. Un comodino di compensato stava accanto al letto. Un armadio vecchio addossato alla parete della porta.
 
-Potrai stare qui. Io durante il giorno non ci sono perché devo aiutare i frati insieme a Federico, l’altro ragazzo. Ti troverò un letto è …-.
-Del letto non c’è bisogno- si affrettò a dire Manes.
-Perché?-.
-Te l’ho già detto, io sono un’ombra. E come tale divento la notte. Mi basta una semplice coperta-.
-D’accordo-.
 
Il ragazzo alzò le spalle.
 
-Mi devi promettere una cosa- azzardò allora l’ombra, guardando Paolo fisso negli occhi grigi.
-Cosa?-.
-Che non rivelerai a nessuno la mia presenza-.
-D’accordo anche su questo. Allora ti devo avvertire di una cosa: una volta al mese frate Luigi viene a ispezionare le stanze di tutti quelli che vivono qui. Dovrai nasconderti-.
-In quel caso non ci saranno problemi-.
-Bene, Manes. Allora io ti lascio. Devo scendere giù-.
-Sì-.
 
Vide il ragazzo guardarlo con i suoi occhi grigi, si passò una mano tra i capelli rossi e poi si voltò, pronto ad uscire. In quel momento Manes si ricordò di una cosa.
 
-Ah, Paolo!-.
 
Il ragazzo si voltò verso di lui, in attesa.
 
-Credo che verso il pomeriggio verrà a messa una ragazza. Dopo dovremmo incontrarci…-.
-Chi è?-.
-Non so se la conosci. Si chiama Lixa-.
-Ah, quella ragazza nuova-.
-Nuova?-.
-È da poco che viene a messa tutti i giorni; a quel che so, prima accompagnava lo zio solo ogni tanto. Comunque, te la porterò qui. Ma alle sei dovrà sloggiare. Frate Luigi vuole che tutti quelli che non vivono qui dentro non ci rimangano la notte-.
-L’ho notato-.
-Allora sarò qui per il pranzo. Ci vediamo dopo-.
-A dopo-.
 
Manes rimase solo nella stanza. Gli piaceva: era semplice e si sentì  quasi a casa sua. D’improvviso avvertì le sue guance avvampare: stava pensando a Lixa, che quel pomeriggio sarebbe arrivata nell’edificio e si sarebbe messa a pregare assorta. Avrebbe congiunto le mani strette, inumidito le labbra mentre mormorava quelle parole che non avevano suono, con i suoi pensieri per lui imperscrutabili. Si sentì impotente di fronte a quella sensazione. Per un attimo ebbe paura.
Non sapeva di cosa.
Ma ebbe paura.
 
***

Lixa quella mattina si era svegliata molto presto e si era affacciata alla finestra, prima di prepararsi per la scuola. La luce soffusa del mattino era troppo scura. Sapeva, come tutti i veneziani, che quel giorno avrebbe piovuto.
La pioggia per certi versi le piaceva: la aiutava a riposare la mente; ma per altri versi la odiava, perché non poteva uscire a fare le sue camminate che l’aiutavano a pensare. E in quel giorno particolare, le avrebbero impedito di camminare parlando con Manes.
Di nuovo, mentre si vestiva, la prese quel senso di affetto che provava per l’ombra. Non sapeva come dirgli che aveva bisogno di lui per vendicare suo zio, l’unico e solo parente che le era rimasto da cinque anni a quella parte. E quella mattina la pioggia era incessante; un senso di paura le attanagliò per un attimo l’anima.
Paura.
Paura che Manes potesse offendersi e che dunque non volesse aiutarla.
Indecisione.
Indecisione di chiedergli se c’era qualcosa che desiderava moltissimo e che avrebbe potuto dargli; se così fosse stato avrebbero fatto uno scambio equo e non si sarebbe sentita in colpa come in quel momento.
Il rumore dei suoi passi nelle pozzanghere dei calli le rimbombava nelle orecchie. Era già uscita di casa e si stava dirigendo verso la fermata del traghetto.
E se Manes non avesse desiderato nulla? In fondo era pur sempre un’ombra. Quella mattinata noiosa e angosciante passò troppo in fretta. Il pomeriggio arrivò troppo in fretta. Ma Lixa si fece coraggio; doveva pur fare qualcosa e di conseguenza avrebbe improvvisato, dato che era una delle cose che le riusciva meglio.
Non doveva preoccuparsi. Quando entrò in chiesa la pioggia smise di cadere, ma poco dopo ricominciò, più forte di prima e, nel frattempo, aveva cominciato a soffiare un forte vento gelido, di quelli che oltrepassano lo strato protettivo dei giacconi e si infilano tra le vesti, facendo accapponare la pelle. Alla messa pomeridiana in quel lunedì piovoso i fedeli erano estremamente pochi. Lixa congiunse le mani più strette del solito e si umettò più spesso le labbra.
“Aiutami. Aiutami a convincere Manes. So bene che avresti perdonato l’assassino di mio zio, ma io non sono te. Non posso perdonarlo. Non posso. Devo vendicarlo. E ho bisogno di Manes. Aiutami. Ti prego!” mormorò a se stessa senza voce, solo muovendo le labbra.
Frate Ballon quel giorno la fissò con uno sguardo enigmatico, una volta terminata la messa. Strano. Ma ora aveva un altro problema: dove avrebbe trovato Manes? Proprio in quel momento qualcuno la chiamò, toccandole una spalla. Lixa si voltò e si ritrovò davanti un ragazzo alto, con i capelli rossi e gli occhi grigi; doveva avere all’incirca la sua età.
 
-Sì?-.
-Tu sei Lixa, vero?-.
-Sì, sono io-.
-Dovevi vederti con Manes oggi-.
 
Non era una domanda.
 
-Sai dov’è?-.
-Sì, alloggia nella mia stanza. Seguimi-.
 
Lixa si alzò e seguì curiosa il ragazzo. Era carino, non c’era che dire. Si chiese chi diamine fosse, quale fosse il suo nome. La sua voce era piacevole, un po’ roca magari, ma bella; non come quella di Manes, vellutata e roca al tempo stesso, tanto da risultare sin troppo innaturale.
 
-Come ti chiami?- chiese la ragazza.
-Paolo-.
-E basta?-.
-Tu conosci Manes?-.
-Beh, sì. Sono stata io a convincerlo a utilizzare questo nome-.
-Allora è vero che è un’ombra?-.
-Sì-.
-Allora posso dirti qual è il mio cognome-.
-Perché, gli altri non lo sanno?-.
-Gli altri pensano che io sia orfano-.
-E in realtà chi sei?-.
-Un discendente di Monteverdi-.
-Il musicista?-.
-Sì-.
-E perché non dici a nessuno delle tue origini?- chiese stupita Lixa.
-Perché mi porterebbero via da qui, dall’unico parente che ho. Anche se defunto-.
-Ah-.
 
Paolo era più o meno nella sua stessa situazione. Si sentì impacciata. Non si accorse neanche che erano arrivati sotto un portico, davanti ad una porta antica, dopo aver attraversato il cortile posteriore della basilica.
 
-Lixa?-.
-Eh? Ah, sì scusami-.
-La mia stanza è l’ultima porta a destra, in cima alla scala. Io devo terminare di aiutare i frati, poi ho lezione. Alle sei devi già essere fuori di qui o frate Luigi si arrabbierà con me-.
-D’accordo. Posso chiederti una cosa?-.
-Che cosa?-.
-Quanti anni hai?-.
-Quindici. Tra due settimane ne faccio sedici. Tu?-.
-Anche io ho quindici anni. Ma ne faccio sedici a marzo-.
 
Si guardarono ancora un attimo, come in attesa di dirsi altro.
 
-Bene. Ora penso che tu debba andare. Manes ti starà aspettando- fece Paolo, arrossendo un poco.
-Sì, giusto. Allora … ciao!-.
-Ciao-.
 
Lixa si voltò e iniziò a salire le scale. Sapeva di essere arrossita. Il cuore le batteva forte, più di quello che si sarebbe aspettata. “Paolo” pensò: era proprio un bel nome. Arrivò davanti all’ultima porta a destra e si bloccò, mentre la paura tornava, facendo capolino nella sua mente. Inspirò profondamente e poi bussò, sentendo subito dopo giungere alle sue orecchie uno squillante “arrivo” da dentro. Un sorridente Manes le aprì la porta.
 
***

Manes si stava rigirando i pollici. In fondo, poteva essere sicuro che Lixa sarebbe tornata? Da lui? Uno sconosciuto? E per di più un’ombra? Eppure sperava che arrivasse, attendeva quell’attimo sin da quando la ragazza gli aveva dato quella speranza. Lei poteva avere le risposte ad alcune sue domande: il quadro, la sua origine, il nome di sua madre, su che cosa fosse il “resto”. Sarebbe stato contento di rivederla, era la prima amica che avesse mai avuto. Qualcuno bussò.
 
-Arrivo!- disse, quasi gridando.
 
Aprì la porta di scatto e sorrise; davanti a lui c’era una Lixa dal volto incredibilmente arrossato.
 
-Ciao-.
-Sei tornata- disse.
 
Non si trattenne e l’abbracciò.
 
-Manes, ma che fai?-.
 
Lixa era ancor più imbarazzata, uno sconosciuto, per quanto ragazzino, visto che dimostrava l’età di tredici anni, la stava abbracciando.
 
-Sono contento di rivederti. Devo chiederti alcune cose e pensavo che non saresti venuta-.
-Devi imparare a fidarti delle persone. Almeno, di alcune-.
-Tu sei tra queste alcune?- chiese, mentre la ragazza si scioglieva dall’abbraccio.
-Sì. Cosa vuoi chiedermi?- aggiunse poi, cambiando subito discorso.
-Prima tu. Non avevi detto che volevi conoscermi?-.
-Certo. Ma sarai sempre tu a parlare-.
 
E Manes non seppe più trattenersi. Le raccontò del suo risveglio davanti alle due gocce di sangue, dei suoi ricordi, del suo primo giorno di vita, di quando l’aveva vista pregare, della sua trasformazione in ragazzo; infine arrivò alla faccenda del quadro.
 
-Quando sono ombra, al posto del quadro che sta sopra l’altare vedo un buco nero, fatto della stessa sostanza del mio corpo ombroso. Quando sono ragazzo invece vedo il quadro. E quella donna-.
 
La sua voce tradiva una certa emozione.
 
-Quale donna?-.
-Quella dipinta nel quadro. Io credo sia mia madre. Lo sento-.
-Tua madre?-.
-Sì. Secondo te è possibile?-.
 
Lei rimase un attimo interdetta e si passò la mano destra sul mento, nell’atto di ragionare profondamente.
 
-Forse. Quella è la Vergine che viene assunta in cielo da Dio. È stato Tiziano a dipingerla-.
-Il Tiziano della tomba?-.
-Sì, proprio lui-.
-Come si chiama questa vergine?-.
-Non ha un nome. Il quadro si chiama “L’Assunta”. Indica l’assunzione della madonna in cielo-.
-Allora il suo nome può essere Assunta?-.
-Sì, penso di sì-.
 
Un pensiero disse a Lixa che in realtà il nome sarebbe dovuto essere Maria, ma visto che il ragazzino sembrava così felice, non ebbe cuore di dirglielo.
 
-Ne sono felice. Io sono Manes, figlio di Assunta. Mi piace come suona-.
 
Il suo volto era infatti particolarmente contento e luminoso, l’oro riflesso nel blu dei suoi occhi sembrava avere vita propria, in quella giornata uggiosa e buia.
 
-E se non fossi suo figlio?-.
 
E dunque perché poneva questa domanda? Non lo sapeva neanche lei.
 
-E allora di chi sono figlio? Io mi sono risvegliato sul crocifisso del tetto della chiesa, con gli occhi puntati su due piccole gocce di sangue. Da dove posso venire?-.
-Forse il risultato di molte anime e pensieri- azzardò Lixa, cercando di calmare l’ombra, che aveva alzato la voce.
-Come?-.
-I tuoi ricordi precedenti non sono veramente i tuoi ricordi e ti sembra di aver vissuto un milione e più di vite, che però non ti appartengono. Ricordi persino la sensazione di rinascere, quando vedevi la chiesa che veniva costruita. Tu sei l’anima della chiesa, Manes. Però così è anche vero che tu possa essere un ipotetico figlio dell’Assunta-.
-Davvero?- gli si illuminarono di nuovo gli occhi.
-Sì, è molto probabile-.
 
Lixa guardò fuori dalla finestra della camera di Paolo e pensò a lui, ai suoi occhi grigi.
 
-Lixa, è tardi- disse Manes, con un po’ di risentimento nella voce.
-Hai ragione. Paolo mi ha detto che alle sei devo essere già fuori-.
-Purtroppo è così. Domani tornerai?-.
-Domani non posso. Per i prossimi quattro giorni non potrò venire. Ho alcune cose da sbrigare-.
 
“Cose da sbrigare che si chiamano compiti di scuola” pensò ancora lei, con una punta d’amarezza.
 
-Allora ti aspetterò tra quattro giorni-.
-Va bene-.
 
Lixa si alzò e si diresse verso la porta. La aprì e uscì. Manes la seguì e le chiese attraverso la tromba delle scale:
 
-Lixa, che cos’è un resto?-.
-Un resto di soldi?-.
-Esatto-.
-È difficile da spiegare in poco tempo. Chiedi a Paolo stasera-.
-D’accordo, ciao-.
 
Manes tornò in camera e chiuse la porta, grattandosi la testa. Davvero, cosa diavolo poteva essere un “resto”?
 
***

Lixa scese veloce le scale. La chiacchierata con Manes l’aveva incuriosita: doveva assolutamente vedere il quadro di Tiziano prima di uscire, dunque ci si fermò davanti.
L’aveva osservato molte volte, quando era entrata in quella chiesa con suo zio Livio. Lo ricordava perfettamente.
Si accorse che mancava un angioletto che accompagnava la madonna e nessuno pareva essersene accorto; questo sì, che era strano. Si affrettò verso la porta del campanile. Possibile che Manes fosse davvero il figlio dell’Assunta del quadro? E un altro pensiero le balenò in testa.
“Ho alcune cose da sbrigare” aveva detto all’ombra. Doveva infatti riflettere e adempiere ai suoi doveri di studentessa del liceo classico; si sarebbe dunque ripresentata entro quattro giorni. Fuori incontrò Paolo che rientrava con un fagotto in mano.
Lo salutò timidamente. Altrettanto timidamente rispose il ragazzo. Una volta lontana dal Campo dei Frari, Lixa sorrise.
 
***

Paolo tornò nella sua stanza. Aveva preso la cena da consumare assieme a Manes. Arrossì, ripensando al saluto che gli aveva rivoltò quella ragazza, Lixa. Quando aprì la porta della sua stanza, Manes gli fu subito addosso e gli chiese ansioso:
 
-Cos’è un resto?-.
-Resto monetario?-.
-Sì-.
 
Lo sguardo di Manes era così fremente che quel dubbio doveva roderlo dentro da parecchio tempo.
Paolo sorrise, posò la cena (due bei pezzi di pizza rossa) sulla scrivania e chiuse la porta.














Note di Saeko:
wow, sono riuscita a pubblicare anche oggi; man mano che vado avanti nella correzione di questo racconto, noto che le pagine aumentano sempre di più, perché i particolari sono tanti e spesso li ho lasciati troppo all'immaginazione; spero vi abbia interessato questo piccolo cambio di pov a inizio capitolo con Cisano che si disfa definitivamente dell'arma del delitto. Inoltre questo secondo incontro tra Lixa e Manes servirà ad arrivare al fulcro del racconto nei prossimi due capitoli.
Per il resto, ho alcuni ringraziamenti da lasciare:

alessandroago_94 per aver recensito il terzo capitolo;
Estel_naMar per aver recensito il secondo capitolo;
Miryel per aver rensito il prologo.

Ho aperto un canale telegram dedicato alla mia pagina qui su EFP e su Ao3, per cui se qualcuno fosse interessato e avesse telegram, eccovi il link: https://t.me/VeronicaSaeko

Penso per oggi di aver finito e vi ringrazio per essere giunti sin qui.

Saeko's out!

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Capitolo 6
*** Capitolo 5: Il Patto ***


Capitolo 5:
Il Patto 
 
1 febbraio 2002. Venezia, Hotel “Universo e Nord”, piazzale della Ferrovia.
 
Un uomo alto, aristocratico, vestito di nero con un lungo cappotto soprabito, degli occhiali scuri e un capello elegante, altrettanto nero, con un semplice trolley blu scuro al suo seguito, entrò nella hall dell’albergo, camminando sicuro sulla moquette arancione del pavimento. Si fermò alla reception, dove un uomo calvo, basso, scuro di pelle e con un paio d’occhialetti sul naso gli diede il benvenuto.
 
-Buongiorno, signore. Ha prenotato?-.
-Sì, certo-.
-Mi vuol dire il suo nome?-.
-Cisano. Antonio Cisano-.
-Lei viene da Napoli, vero?-.
-Sì. Ho prenotato tre giorni fa-.
-Il 29 gennaio, giusto?-.
-Sì, esatto-.
-Dovrebbe pagare dieci euro di caparra per eventuali danni. È una specie di assicurazione-.
-Sì, lo so. Mi avevano avvertito-.
 
L’uomo in nero prese il suo portafoglio e ne tirò fuori una banconota rosa da dieci euro, ponendola poi delicatamente sul banco tirato a lucido della reception.
 
-Molto bene. Questa è la chiave della sua stanza- fece l’uomo calvo, prendendo da dietro di sé una pesante chiave di plastica con scritto in blu il numero 41.
 
Poi si volse al nuovo ospite, si sporse leggermente dal banco e indicò il corridoio alla sua destra, entro cui si vedevano delle scale e un ascensore illuminati da una luce fioca e giallognola che rifletteva la moquette chiara e le pareti scure.
 
-Salga le scale e giri a sinistra. Ci sono altre scale, sempre a sinistra. Le salga fino al primo piano. Vada a sinistra e sulla destra si ritroverà la sua stanza-.
-Grazie-.
 
Antonio Cisano prese la sua chiave e seguì alla lettera le istruzioni del receptionist. La camera era una doppia; si chiuse la porta alle spalle, posò il trolley sul letto e si voltò a guardarsi verso lo specchio appeso sopra la piccola scrivania, che aveva un vecchio televisore a tubo catodico poggiato sul piano del tavolo. Osservò bene il suo volto riflesso nello specchio.
In realtà lui non era partito da Napoli quella mattina, come poteva credere l’uomo calvo della hall. Semplicemente, era stata tutta una messinscena. Quella mattina lui era partito da Murano; gli ci era voluto poco ad arrivare in stazione, camuffarsi nel bagno pubblico e uscirne, con in mano un biglietto di sola andata per Venezia da Napoli, di un treno sul quale lui non era mai salito. Ora poteva attuare il suo piano.
 
***

Manes attese con impazienza che quei giorni prima di poter parlare con Lixa trascorressero, tanto sembravano interminabili. La mattina si svegliava e svegliava anche Paolo. Il ragazzo teneva nella stanza sempre qualcosa da mangiare, perché l’ombra la mattina sembrava particolarmente affamata e mangiava qualsiasi cosa le venisse offerto in maniera vorace. Il ragazzo gli forniva poi dei soldi, che Manes metteva nel cappotto rubato nella chiesa, prima di tornare ombra. Quando faceva la trasformazione Paolo rabbrividiva.
Gli aveva detto che lo vedeva diventare una nuvola di fumo nero entro cui i suoi abiti sembravano bruciare e che scompariva per un secondo, ricomparendo poi sotto forma di ombra subito dopo.
Ad ogni modo poi Manes usciva assieme a Paolo, nascondendosi nella sua ombra. Ma mentre il ragazzo rimaneva in chiesa, tra faccende e lezioni utili alla sua formazione, lui faceva delle passeggiate per Venezia, tenendo a memoria i vicoli che prendeva, i calli verso cui si dirigeva.
Cercava tra la gente Lixa, speranzoso di poterla incontrare, ma questo non succedeva mai; d’altronde la ragazza passava le sue mattinate a scuola e i pomeriggi a casa a studiare. Alla fine di ogni giornata Paolo e Manes parlavano di ciò che avevano fatto e Paolo rispondeva alle domande insistenti di Manes. Prendendo la forma di un ragazzino di tredici anni, aveva anche gli istinti di un ragazzino di tredici anni, tanto da tempestare Paolo di domande fino a quando non cadeva assonnato a terra, tornando ombra. E poi quei quattro giorni passarono.
E quel venerdì Lixa ricomparve in chiesa. Non che non ci fosse andata i pomeriggi precedenti. Ma appena finita la messa fuggiva via, si dileguava, non  senza prima aver salutato Paolo e Manes sotto forma di ombra da lontano. Ora quell’attesa era finita.
 
***

Dopo la messa la ragazza andò a cercare Paolo. Lo trovò accanto al mausoleo che si trovava accanto alla tomba a forma di piramide di Canova, con una pezza in mano.
 
-Ciao, Paolo- disse, distraendolo dal suo lavoro di pulizia.
-Lixa. Ciao-.
 
Si passò una mano sulla fronte per detergersi qualche goccia di sudore.
 
-Come va?-.
-Bene. Stavo pulendo un po’ i muri di questo mausoleo. Devo accompagnarti da Manes o fai da sola?-.
-No, posso andare anche da sola. Volevo solo salutarti-.
-Bene. Mi fa piacere. Tieni-.
 
Paolo posò lo straccio che stava usando a terra e tirò fuori una scatolina. Lixa la prese e l’aprì: conteneva il bocciolo in miniatura di una rosa rossa, riprodotto in ogni particolare con il vetro raffinato di Murano. Chissà quanto doveva esser costata.
 
-Ti piace?-.
-Sì. È bellissima- disse Lixa, quasi senza fiato.
-Grazie- aggiunse, schioccandogli un bacio sulla guancia e poi correndo via, verso la sala del Capitolo.
 
Non vide Paolo che si sfiorava la guancia e che arrossiva, lusingato. Lixa arrivò velocemente davanti alla porta della stanza di Paolo. Si calmò, facendo un respiro profondo. Mise la scatolina con la rosa nella tasca del cappotto e bussò. Nessuno aprì, per cui posò la mano sulla maniglia e l’abbassò: la porta era aperta. Lixa entrò, dubbiosa, mentre subito dopo qualcosa le passò alle spalle. E davanti a lei, da una nuvola di fumo nero, comparve Manes.
 
-Sei arrivata prima di me!-.
-L’ho notato-.
-Paolo mi ha detto che eri arrivata e che stavi andando nella sua stanza e sono praticamente volato. Di cosa parliamo oggi?-.
-Paolo ti ha spiegato che cos’è il resto?-.
 
Un bel sorriso divertito illuminò il volto dell’ombra.
 
-Sì. Oggi parliamo di te?-.
-E va bene. Cosa vuoi sapere?-.
-Beh, per esempio, perché è da poco che vieni a pregare tutti i giorni in chiesa-.
-Perché è morto mio zio. Il 23 gennaio è morto mio zio, il mio unico parente-.
-Non ce l’avevi la mamma, o il papà?-.
-No. Sono morti entrambi. Cinque anni fa-.
-Quanti anni avevi cinque anni fa?-.
-Dieci-.
-Quindi ora ne hai quindici. Riguardo a età del corpo sei più grande tu di me-.
-Proprio così-.
-E di cosa sono morti?-.
-Stavano navigando tranquillamente nel Canal Grande con il nostro motoscafo. Poi un traghetto ha sbandato a causa di un malfunzionamento e ha tranciato in due la barca. I miei sono morti sul colpo. E io sono andata a vivere da mio zio-.
-Ma come mai preghi? Ho imparato attraverso i pensieri della gente che le persone pregano per i loro cari e per i loro problemi. Perdona la mia sfacciataggine, ma i tuoi genitori ormai sono morti. Pregare non ti aiuterà certo a riportarli indietro. Come non riporterà indietro tuo zio-.
Lixa assunse un’espressione molto seria in viso.
 
-Hai ragione. Ma io non prego per loro. Anzi, veramente anche per loro, per la loro pace nell’aldilà, ma io prego anche per potermi vendicare. Per poter trovare qualcuno che mi aiuti a trovare chi ha ucciso mio zio e che dunque mi aiuti a vendicarlo. Tutto qui-.
 
Manes la guardò dubbioso; attraverso i pensieri dei frati aveva imparato che non si prega mai per qualcosa di negativo come la vendetta, perché si tratta di un desiderio malvagio inesaudibile per la loro fede. Anche se poi, ascoltando alcuni pensieri meschini di qualche astante delle messe, aveva compreso che l’essere umano non sempre prestava fede in maniera coerente a ciò in cui credeva.
 
-E l’hai trovata questa persona?- chiese Manes, cominciando a capire.
-Credo di sì-.
-È Paolo?-.
-Perché hai pensato a lui?- chiese Lixa, arrossendo.
-Perché lo saluti con più vigore di quando saluti me-.
-E invece penso che tu possa darmi una mano-.
-Io?-.
-Certo. Essendo ombra, per te è più facile insinuarti tra la gente. Inoltre sai leggere nel pensiero. Saresti perfetto-.
-E poi come farei a uccidere la persona che ha ucciso tuo zio?-.
 
Aveva già intuito cosa Lixa voleva fosse fatto.
 
-In che senso?-.
-Che io non so uccidere-.
-Ah- in effetti Lixa non aveva pensato a questo.
-Beh, magari ci penseremo sul momento. O impareremo da qualche parte. Saresti disposto ad aiutarmi?-.
-No-.
 
***

-… Saresti disposto ad aiutarmi?-.
-No-.
 
La risposta di Manes era stata secca, una di quelle che non ammettevano replica. Provava un senso si repulsione verso la vendetta.
“Eppure è da lì che sono nato”.
Perché questo pensiero? Lui era stato semplicemente svegliato dall’odore del sangue secco. Perché quel pensiero?
 
-Ti prego. Aiutami- lo pregò tuttavia Lixa.
 
Manes fissò il suo sguardo azzurro-dorato sul suo viso: i suoi occhi color cioccolato erano umidi. Lixa era caduta in un pozzo profondo e oscuro, da cui era difficile uscire, perché l’odio riesce a rimanere vivo per secoli, più a lungo e più ostinato della serenità, perché l’essere umano aveva il tormento segnato nell’anima: doveva aiutarla, ma l’idea di uccidere qualcuno lo ripugnava davvero. Doveva esserci uno scambio equivalente per poter fare una cosa del genere.
 
-Ci sarà qualcosa che desideri tantissimo- disse allora Lixa, come se gli avesse letto nel pensiero.
 
Manes ci pensò.
Tornare da sua madre; tornare solo anima della chiesa, senza che nessun pensiero umano lo venisse a cercare; smettere di essere un’ombra; questo voleva più di ogni altra cosa.
 
-Saresti disposta addirittura a fare un patto con me per vendicarti? Con me, che sono un’ombra? Forse anche l’ombra del diavolo, invece che di questa chiesa?-.
-Sì. Cosa ti serve?-.
 
Non aveva esitato nemmeno un secondo, segno che aveva già preso in considerazione una possibilità del genere.
 
-Tornare da mia madre. Nel quadro-.
-Che cosa?-.
-È l’unica cosa per la quale sarei disposto a fare ciò che mi chiedi. Io trovo l’assassino di tuo zio e lo uccido. Tu in cambio trovi il modo per potermi far entrare nel quadro e quindi ricongiungermi a mia madre-.
 
Manes vide un lampo di stizza incerta passare negli occhi di Lixa. Non detestava lui, ma la sua richiesta impossibile ed era una cosa della quale lui era perfettamente cosciente. Ma improvvisamente i suoi occhi si illuminarono di una nuova luce e lei sorrise.
 
-Ci stai?- chiese allora Manes, tendendo la mano.
-Sì. Ci sto-.
 
Strinse la mano dell’ombra. Poi entrambi si rilassarono.
E sorrisero mesti.
 
-Siamo entrambi entrati in una faccenda molto torbida- commentò Manes.
-Lo so- convenne Lixa –Ma ormai non possiamo tirarci indietro-.























Note di Saeko:
ben arrivati a chiunque mi abbia letto sino a qui! Con questo capitolo leggermente più breve rispetto ai precedenti, siamo finalmente arrivati all'accordo tra Manes e Lixa, su cui si fonderà il resto della storia. Il capitolo in sé per sé è semplice, ma nemmeno al momento della prima stesura mi convinse molto, un po' vuoi perché non essendo né credente né frequentante non conosco bene nello specifico i dettami della chiesa, figuriamoci di quella francescana (anche se, vista e studiata la vita di Francesco d'Assisi, mi sono potuta fare un'idea), un po' vuoi perché la protagonista ha comunque 15 anni, quindi è in quell'età in cui non si sa bene da che parte si sta, come si vuole ragionare, come si può reagire a eventi violenti - il pensiero della vendetta e dell'uccidere qualcuno sono un concetti difficili da sposare con l'età rappresentata, in cui per'altro difficilmente si ha una vera e propria cognizione di quel che si dice.
Quindi non so, sono un pochino perplessa, tutt'ora.
Una piccola curiosità che vi lascio riguarda l'hotel a inizio capitolo, quello in cui alloggia Cisano: è lo stesso in cui ho alloggiato io nel lontano 2009, quando ho visitato Venezia per la seconda volta.

A questo punto lascio un piccolo ringraziamento a alessandroago_94 che mi sta leggendo con costanza e lascia sempre un commento per farmi sapere la sua in merito a quanto scrivo.

Detto ciò, grazie ancora per essere giunti sino alla fine dei miei sproloqui, dovremmo vederci venerdì prossimo.

Saeko's out!
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6: Iniziare a lavorare ***


Capitolo 6:
Iniziare a lavorare
 
2 febbraio 2002. Venezia, piazza San Marco, Biblioteca Marciana.
 
Era un sabato quasi caldo, ma con un dolce venticello salmastro. Lixa e Manes avevano avuto qualche problema per entrare in biblioteca, poiché vi poteva accedere solamente chi doveva studiare: nessuna visita, nessun prestito d’alcun genere, e il problema principale era che nemmeno loro erano sicuri di cosa dovessero studiare; anzi, per la verità di cosa dovesse studiare Lixa, dato che l’ombra doveva solo dare un’occhiata agli archivi.
Poiché però gli archivi della polizia erano inaccessibili senza autorizzazione da parte delle forze dell’ordine, risultava difficile entrarvi; per fortuna la ragazza aveva un vecchio amico poliziotto dello zio che doveva un favore al defunto presidente della Ca’ de Delizie e lei gli aveva dunque chiesto un’autorizzazione passata di sottobanco, in memoria della vecchia amicizia con Livio Tosca; per il sabato mattina erano riusciti a procurarsela e a fare l’accesso alla Marciana.
La donna all’accettazione li aveva guardati con sospetto, così come aveva guardato con sospetto le autorizzazioni che i due ragazzi le avevano presentato, al che Lixa le aveva detto che se avesse avuto dei dubbi, poteva darle il numero di telefono diretto di chi aveva rilasciato quei documenti; la signora aveva scosso la testa ancora dubbiosa, per poi alzarsi e accompagnare Manes nella sezione degli archivi polizieschi, mentre indicava alla ragazza la sezione libera della biblioteca dove avrebbe potuto cercare quello che le serviva per la “ricerca scolastica” menzionata nell’autorizzazione.
Lixa era riuscita a camuffare Manes abbastanza bene: aveva messo una fascia nera da calciatore intorno alla sua testa per coprire le ciocche verdi e delle lenti a contatto azzurre per nascondere i riflessi dorati degli occhi.
E così si erano divisi.
Lixa, dopo aver indirizzato uno sguardo sbieco alla signora all’entrata, aveva svoltato per la direzione opposta a quella indicata, recandosi nella sezione di racconti di fantascienza e fantasia, accanto (paradossalmente) a quella dei testi religiosi, mentre Manes, dopo essere stato lasciato solo dalla bibliotecaria, si trovava nell’archivio.
Guardò sconsolato gli scaffali di quel luogo polveroso: erano stracolmi.
Mi basterà dare un’occhiata agli ultimi” pensò, lasciando stare la sezione dell’archivio storico.
Così si diresse verso gli ultimi faldoni dell’archivio corrente, sotto la voce “casi recenti”, prese un fascicolo con riportati gli ultimi mesi del 2001e gli inizi del 2002 e iniziò a leggere.
Per l’ora di pranzo ormai li aveva finiti tutti e, purtroppo, non aveva trovato nulla di soddisfacente per le sue ricerche. C’erano storie di gente con problemi psichiatrici (o presunti tali) che aveva ucciso per il gusto di farlo, omicidi di donne da parte di uomini per motivi di gelosia, casi irrisolti, morti avvenute per futili incidenti, morti bianche su luoghi di lavoro; solo tra i casi ancora in corso di svolgimento, aveva trovato citato l’omicidio avvenuto il 23 gennaio 2002 e l’uomo era Livio Tosca. Sapeva che Tosca era il cognome di Lixa, la ragazza stessa gliel’aveva detto; aveva inoltre trovato il luogo dell’omicidio, il risultato dell’autopsia e i dati personali della vittima. Livio Tosca era stato ucciso proprio davanti alla basilica dei Frari; l’autopsia riferiva il fatto che l’uomo fosse deceduto per lo sparo di un revolver calibro 22 al cuore e che, non essendo contento, l’assassino l’avesse colpito anche alla fronte.
L’orario di morte era stato decifrato per l’una e trentacinque della notte del 23 gennaio 2002. Il fascicolo diceva soprattutto che la vittima aveva ricevuto una lettera di minaccia due giorni prima e che dunque aveva portato 30 mila euro con sé e anche che il denaro era stato lasciato accanto al corpo della vittima, intonso; motivo per cui si presupponeva che fosse stato ucciso per un movente che non coinvolgesse i soldi. Quando lesse tali informazioni Manes tornò con la mente al patto che aveva fatto con Lixa, a quando aveva pensato di essere stato risvegliato da una vendetta.
Possibile che fosse stato per quell’uomo? Scorse ancora gli appunti che aveva in mano e trovò data di nascita, il resoconto del lavoro e di parte della vita privata di Livio Tosca. In ultimo c’era scritto che le indagini erano ancora in corso di svolgimento e che solo due persone in tutto il Campo dei Frari avevano sentito gli spari.
Questo era un punto di partenza: avrebbe potuto iniziare a spiare i loro pensieri. Ed ecco che gli venne in mente un ricordo, il primo che aveva avuto quando si era svegliato: un uomo con un anello verde e una mano più giovane dell’altra sparava alla fronte di un uomo in ginocchio, che aveva già un buco rosso nel petto.
Quello doveva essere il momento dell’assassinio di Livio Tosca.
Ricordò ancora: l’assassino improvvisamente spaventato che si voltava a correre e saltare su un battello attraccato poco lontano da lì, mentre delle luci blu si riflettevano in lontananza. Prima che uscisse completamente dal Campo dei Frari lo vide voltarsi un attimo. Non riconobbe le fattezze ma ricordò un paio di occhi verdi, come l’anello che portava al dito. Nel cielo c’era la luna piena, il cielo era terso e non ricordava altro. Adesso almeno aveva qualcosa in più su cui basarsi.
Si alzò e uscì dalla sezione degli archivi e vide Lixa venirgli incontro. Aveva un’aria a metà tra l’afflizione e la felicità.
 
-Lixa!-.
-Andiamo a pranzo, Manes. Sto morendo di fame-.
-D’accordo-.
 
Uscirono dalla Biblioteca Marciana, lasciando detto che sarebbero ritornati nei giorni successivi. Lì accanto c’era una piccola rosticceria; vi entrarono e ordinarono un panino con una cotoletta di pollo. Mentre mangiavano Manes guardò Lixa e le chiese:
 
-Le tue ricerche di oggi non sono andate a buon fine?-.
-Purtroppo no, Manes. Però ho trovato alcune storie interessanti che parlano di quadri in grado di contenere mondi diversi, disegni che prendono vita e cose del genere. Forse in mezzo a quelle righe posso trovare la soluzione per poterti far entrare nel quadro. E tu, hai trovato qualcosa?-.
 
Manes le riferì tutto ciò che aveva scoperto e ricordato. Man mano che raccontava vedeva negli occhi di Lixa crescere il rancore, cosa non gli piaceva per nulla. Il rancore, quella rabbia repressa e profonda che le brillava negli occhi, era innaturale su quel volto grazioso.
Una volta finito il pranzo si avviarono verso la chiesa di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Il sole iniziava lentamente ad abbassarsi.
 
-Lixa …-.
-Sì?-.
-Ho deciso di aggiungere una piccola clausola al nostro patto-.
-Che clausola?-.
-Io ti aiuterò a compiere la tua vendetta, ma tu in cambio non dovrai assistere. O perlomeno, non dovrai provare gioia per l’uomo che verrà ucciso-.
-Non dovrò assistere?-.
-Proprio così. Solo se ci fosse qualcosa che ti costringesse ad assistere, allora ti prego non di provare gioia. Anzi, non provarla in nessun caso-.
-Perché?-.
-Perché quella luce di odio che ti compare negli occhi non mi piace-.
-D’accordo. Tu in cambio dovrai darmi tutto il tempo che mi serve per le mie ricerche. E in tal caso aiutarmi-.
 
Manes alzò un sopracciglio.
 
-Qualche volta- aggiunse Lixa in fretta.
-D’accordo-.
 
Si strinsero di nuovo la mano, questa volta più rilassati. Manes era decisamente più tranquillo. Sorrise alla ragazza, poi le voltò le spalle ed entrò in chiesa; sentì lo sguardo di Lixa sulla schiena finché non chiuse la porta del campanile alle sue spalle.
La ragazza non sapeva quanto quella clausola avrebbe aiutato anche lei, non sapeva se sarebbero stati in grado di rispettarla entrambi.
In fondo non le piaceva essere vendicativa; era tuttavia un sentimento che non riusciva a reprimere. Anzi si trattava di un istinto, più che altro. Come una serpe che striscia infida e affamata tra i vicoli e si vendica sugli umani che hanno tentato di ucciderla perché non a loro somigliante; ma lei non si sentiva una serpe. Fissò il cielo che diventava sempre più scuro. Quando arrivò sulla soglia di casa il sole lo aveva dipinto di rosa, nell’ultimo fulgido bagliore del tramonto.




























Note di Saeko:
buongiorno gente, poiché è venerdì (tra l'altro il venerdì prima di Pasqua), ho finito prestissimo di lavorare oggi e mi sono potuta dedicare a questo capitolo: il difficile ingresso alla Biblioteca Marciana è ovviamente inventato, poiché vi si può entrare liberamente, così come cita il suo sito internet; ma avevo necessità di rendere un po' difficoltoso l'ingresso dei due protagonisti, poiché per un piccolo inghippo letterario ho inventato il fatto che gli archivi della polizia potessero essere conservati nella biblioteca più importante e famosa di Venezia. Spero non risulti esageratamente forzato.
Inoltre mi piaceva l'idea che per cominciare a capire da dove partire per risolvere il caso e capire chi fosse l'assassino di Tosca, decidessero di andare nell'unico posto in cui sarebbe possibile andare senza destar sospetti, ovvero la biblioteca.
Non succede molto di più, a parte Manes che ricollega il primo pezzo del puzzle dei suoi ricordi e comprende cosa significhi la prima scena che la sua mente ha formulato dopo essere stata risvegliata dalle due gocce di sangue rimaste sul ciottolato di fronte alla chiesa.
Passo ora ad alcuni ringraziamenti:

ad alessandroago_94 per aver lasciato un commento al capitolo 5 della storia;
Estel_naMar per essere passata a recensire il capitolo 3;
Miryel per aver letto e recensito il capitolo 1;
Bloody Wolf per essere passata a leggere e recensire il prologo.

Volevo ringraziare inoltre Elgas Cartasporca per aver recensito rispettivamente il capitolo 2 e 1 dell'altra mia fanfiction, ovvero Historiae - Il viaggio fantastico.

Grazie davvero a chiunque sia passato da queste parti a leggermi e ci si vede domenica. Ne approfitto per augurare una Buona Pasqua a tutti voi, nonostante la quarantena e il sole che ci prende in giro mentre siamo tutti a casa.

Saeko's out!

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Capitolo 8
*** Capitolo 7: Omertà veneziana? ***


Capitolo 7:
Omertà veneziana?
 
3 febbraio 2002. Venezia, piazza San Marco, Biblioteca Marciana.
 
Lixa e Manes continuarono a fare indagini. Manes iniziò a ispezionare i pensieri degli studenti che arrivavano alla Biblioteca Marciana, rigorosamente aperta persino la domenica, per capire se sapessero qualcosa dell’omicidio del presidente della Ca’ de Delizie, e rimase stupito: incredibilmente la maggior parte delle persone che entravano lì, in quell’edificio di cultura, avevano tutte un’opinione diversa su quel fatto gravissimo, che sembrava aver scosso tutta Venezia. Tre volte quella domenica vennero agenti a fare ricerche: due per confrontare alcuni articoli di cronaca e degli avvenimenti passati con quelli dell’omicidio e un altro, come Manes scoprì in seguito (nascondendosi prontamente nelle ombre dei fascicoli dell’archivio), per aggiornare i risultati sulle indagini. Questo in particolare sembrava conoscere bene la vittima: era il fratello di un dipendente della Ca’ de Delizie – probabilmente era colui che aveva procurato il permesso a Lixa, ma il ragazzo non ne era certo – e pensava che qualcuno avesse voluto vendicarsi di Livio Tosca, anche se non aveva un’idea chiara di chi potesse essere.
In quel momento la Ca’ delle Delizie era in affari di trattazione per la cessione di proprietà con tre uomini, bisognava scoprire quali e con quale passato.
Quel giorno uscì presto dalla biblioteca. Prima di andarsene, però, avvertì Lixa: la trovò sepolta nella sezione di libri fantasy, china su un testo che sembrava avere cent’anni. Esistevano ancora libri così? Fantasy, poi? Ed era possibile che li trovasse tutti Lixa? Quella mattina era passato due volte e l’aveva vista leggere tre libri diversi, tutti e tre pressoché della stessa età del tomo che stava esaminando in quel momento.
 
-Lixa, io esco-.
-Dove vai?-.
-A continuare le mie indagini-.
-D’accordo. Vai-.
-C’è qualcosa che non va?-.
-No. Non c’è nulla che non va-.
-Sicura?-.
 
Manes la guardò negli occhi. Il color cioccolato del suo sguardo sembrava fondersi  per la preoccupazione. Ma Manes non aggiunse nulla quando Lixa annuì, le sorrise nella speranza di confortarla e poi se ne andò.
 
***
 
Quella mattina si era svegliata presto e aveva tirato giù dal letto sia Manes che Paolo. Il ragazzo era stato costretto ad alzarsi per poter richiamare l’ombra, che sembrava non volersi svegliare per disgregarsi dalle tenebre quando il sole non s’era ancora alzato. Erano appena le cinque quando si prepararono in fretta e furia e Paolo accompagnò Manes da Lixa. La ragazza aveva fissato a lungo gli occhi grigi del discendente di Monteverdi, preoccupata, e lui aveva cercato di capire cosa avesse. Poi se n’erano andati. La Biblioteca Marciana apriva alle sei e mezzo la domenica, perché, a detta del motto della struttura “la cultura non riposa mai”. S’era fatto mezzogiorno, ma Lixa non aveva ancora fame; più si immergeva nella lettura di quei libri, più sentiva di allontanarsi dalla soluzione. Perché avvertiva che una soluzione ci fosse, ma era molto lontana dall’essere scoperta.
 
-Lixa, io esco-.
 
La voce di Manes la fece sobbalzare, ma cercò di contenersi.
 
-Dove vai?-.
-A continuare le mie indagini-.
-D’accordo. Vai-.
-C’è qualcosa che non va?-.
-No. Non c’è nulla che non va-.
-Sicura?-.
 
Manes la guardò negli occhi e, dal cipiglio che il suo visto acquisì, in quel momento la ragazza comprese che le sue espressioni erano come un libro aperto per lui. Aveva capito che c’era qualcosa che la preoccupava.
Tuttavia l’ombra non aggiunse nulla, le sorrise, i suoi occhi azzurrodorati nascosti dalle lenti a contatto la tranquillizzarono per un attimo.
Dopodiché Manes si voltò e se ne andò. Appena vide l’ombra uscire dalla sezione in cui si trovava, lei chiuse il tomo che aveva davanti: aveva una consunta copertina nera e il titolo era vergato in un font antico; la vernice argentata che colorava quei caratteri era quasi consumata del tutto, ma si poteva ancora leggere “Mille mondi e mille modi per arrivarci”.
L’autore era anonimo e il libro era molto interessante. Era arrivata appena a metà. Lì avrebbe certamente trovato qualcosa che forse l’avrebbe aiutata, ma in quel momento voleva riposarsi un attimo, distogliere la mente dal pensiero di non sapere come realizzare quanto Manes le aveva chiesto perché, diamine, la magia non esisteva, non era reale – eppure l’ombra era più vera che mai, quindi un modo per venire a capo del problema doveva esserci; pose il libro sullo scaffale in maniera tale che nessuno potesse notarlo e uscì. Avrebbe fatto una passeggiata per i vicoli di Venezia.
 
***
 
Manes arrivò al Campo dei Frari, dopo essersi fermato in una pasticceria e aver comprato uno spumone al pistacchio. Era un dolce molto buono ed era bastato a saziarlo; aveva inoltre scoperto di avere una predilezione per il gusto del pistacchio, da quel suo primo giorno in forma umana in cui aveva comprato i biscotti in quel negozio vicino alla stazione.
Sui documenti trovati in biblioteca c’era scritto che solamente due persone avevano detto ufficialmente di aver udito gli spari la sera del 23 gennaio. Ed entrambe avevano dichiarato di non aver pensato di controllare se fosse stato realmente uno sparo a svegliarle, magari anche solo affacciandosi da una finestra.
Il primo era un frate della chiesa, il gemello di frate Luigi: frate Lazzaro. Decise di iniziare a interrogare lui, ma non sapeva come avvicinarlo. Cercò di camuffarsi ulteriormente e di prendere l’aspetto di un’altra persona, rimanendo nascosto in un vicoletto proprio accanto all’entrata del campanile. La cosa gli riuscì abbastanza bene: aveva i capelli rossicci e gli occhi erano rimasti azzurri, probabilmente per effetto delle lenti a contatto; purtroppo in quella forma si sentiva estremamente instabile e aveva timore che quel camuffamento non sarebbe durato a lungo. Indossava una divisa da poliziotto e aveva di sicuro più di tredici anni. Mostrava l’età di un venticinquenne.
Entrò nella chiesa. Chiese alle signore del botteghino dei biglietti per le visite turistiche se sapessero dove avrebbe potuto trovare frate Lazzaro. Le signore gli dissero che in quel momento stava confessando un signore.
Senza aggiungere altro, Manes si avviò verso il confessionale e attese che il frate finisse di ascoltare l’uomo, rimanendo in disparte e lontano, in maniera da non ascoltare una cosa tanto privata come una confessione. Osservò con curiosità lo sconosciuto; era la prima volta che lo vedeva lì. Era alto, sulla cinquantina, vestito interamente di nero; aveva i capelli biondo platino e gli occhi verde smeraldo; le mani erano coperte da un paio di guanti bianchi. Gli sembrava di averlo già visto ma non ricordava dove; d’altronde in quel momento non gli interessava molto, poiché stava fremendo solo per poter parlare con frate Lazzaro.
Appena l’uomo si fu finito di confessare e si alzò, i loro sguardi si incontrarono. Manes vide nello sguardo dell’uomo il terrore.
Provò a setacciare i suoi pensieri, rimanendo subito dopo con un palmo di naso: scoprì che sotto forma di poliziotto la sua mente non era in grado di recepire i pensieri altrui. Doveva essere una tattica che solo con il suo corpo di ragazzo anormale o con la sua forma di ombra poteva esercitare. Spostò sconsolato gli occhi su frate Lazzaro, che nel frattempo gli era venuto incontro.
 
-Buongiorno, agente- disse.
-Buongiorno-.
-Mi dica. Cosa vuole?-.
-Vorrei interrogarla sugli spari che ha dichiarato di aver sentito la notte del 23 gennaio, quando Livio Tosca è stato ucciso-.
-Ma allora siete proprio duri di comprendonio?- chiese stizzito il frate.
-Perché?-.
-Perché?? Dio mi perdoni, ma sono la bellezza di cinque volte che ripeto al vostro corpo di polizia che mi è parso di aver sentito il suono di un solo sparo, nemmeno di più d’uno. In quel momento ero quasi riuscito ad addormentarmi. E nello stesso momento mio fratello si era rigirato in modo brusco, facendo cadere il vaso da notte che aveva accanto al letto. In quell’attimo mi è parso di udire uno sparo. Ma sembrava lontano, irreale, per cui non gli ho prestato attenzione e ho tentato di addormentarmi. E poi il mattino dopo, quando sono uscito per aprire il portone della chiesa ho trovato Livio Tosca riverso nel sangue proprio qui davanti-.
-C’è qualcuno che può confermare la sua versione?-.
-Certo, mio fratello. Era con me, tanto nella stanza la notte quanto il mattino quando ho aperto il portone per i fedeli-.
-Siete stato voi ad avvertire per primo la polizia?-.
-No. Il botteghino delle gondole qui di fronte apre sempre prima che noi ci alziamo-.
-Grazie. Mi è stato di grande aiuto-.
-Di nulla- ribadì scocciato il prete.
 
Si voltò senza congedarsi e se ne andò.
In quel momento a Manes non rimaneva che chiedere al secondo testimone e interrogare il gondoliere. Ma sentì il suo corpo venir preso dalle convulsioni. L’aspetto del giovane agente stava per svanire. Entrò d’istinto dentro il confessionale, chiuse la tendina a drappo color rosso magenta e attese.
Dopo poco, sentì di nuovo la fascetta da calciatore sulla fronte: era tornato un semplice ragazzino di tredici anni.
Pensò di trasformarsi di nuovo, poiché non poteva andar in giro a far domande di omicidi con quell’aspetto. Questa volta tuttavia avvertì un bruciore alle ossa; quando uscì fuori dal confessionale, si ritrovò a frugare nelle tasche e vi trovò un cellulare supertecnologico. Usò il riflesso dello schermo come specchio: aveva come minimo trent’anni, due occhi di un colore verde chiarissimo e cangiante e i capelli cortissimi e castani. Un paio di baffoni si erano formati sotto il naso. Sembrava il tipico investigatore in borghese. Comunque avvertiva, ancor più forte di prima, quanto il suo fisico fosse instabile. Si sbrigò a uscire.
Si fermò un attimo davanti al botteghino delle gondole. Salutò cordialmente il gondoliere, che vedendolo venirgli incontro aveva pensato di prepararsi a fargli fare un giro in gondola per i canali di Venezia. Manes spiegò subito che aveva bisogno di alcune informazioni riguardo all’omicidio di Livio Tosca.
 
-Io non so niente. Eccetto che, quella mattina, sono venuto qui alle sei del mattino, come al solito, e ho trovato il corpo di quell’uomo proprio davanti alla chiesa. Pensavo che fosse qualcuno colto da un malore. Poi, quando mi sono avvicinato, ho visto tutto quel sangue e ho chiamato la polizia. Non so altro-.
-Grazie-.
 
Non perse tempo a chiedere ulteriori informazioni; il gondoliere non sembrava intenzionato a dargliene altre.
Mentre si avviava verso un piccolo condominio che dava sul canale opposto al sagrato della basilica, Manes pensò che nessuno volesse parlare di quell’omicidio: come se tutti l’avessero rimosso, come se quella notte del 23 gennaio 2002 nessuno fosse rientrato a casa, come se tutti avessero il sonno talmente pesante da non sentire il rombo degli spari.
Arrivò davanti a un portoncino di legno, color verde bottiglia. C’erano cinque pulsanti sul citofono. Trovò il nome che aveva letto sui rapporti della polizia: Maria Melania Costantin. Suonò il campanello.
 
-Chi è?- chiese una voce femminile, poco dopo.
-Sono …-
 
“Come mi devo presentare?” pensò l’ombra.
 
–Sono Mario Guglielmi- disse, ricordando improvvisamente un nome.
 
Un nome appartenente alla sua memoria. Il nome del ragazzo con gli occhi blu e i ricci neri di cui aveva preso la forma. Il ragazzo, che durante quel periodo di morte che aveva trovato nella sua memoria, aveva fatto entrare in chiesa un uomo che doveva pregare.
 
-Chi?- chiese la voce.
-Investigatore Mario Guglielmi. Sono qui per indagare sull’omicidio del 23 gennaio, la vittima era Livio Tosca-.
-Salga- disse la voce, improvvisamente fredda.
 
Il portone si aprì con uno scatto e Manes salì fino al quinto piano. Mentre posava i piedi sulle scale pensò al nome con il quale si era presentato a questa Maria Melania, ovvero quello di Mario Guglielmi.
Aveva ricordato improvvisamente che quel ragazzo era un orfano trovato proprio davanti alla porta del campanile, che però aveva ricevuto il cognome di Guglielmi, perché chi lo aveva trovato portava il nome, o almeno così dicevano i frati – nessun Guglielmo sembrava aver frequentato la chiesa in quel periodo, da che lui avesse memoria. Si ritrovò davanti ad una porta di legno scuro, appena accostata. Entrò.
 
-È permesso?-.
-Entri, signor Guglielmi-.
 
Manes entrò. Era un appartamento molto grazioso, con uno stile puramente veneziano. In una piccola cucina (anzi un angolo cottura un po’ più grande del normale) una donna con i capelli castani e gli occhi neri armeggiava su un gustoso stufato di carne.
 
-Cosa mi deve chiedere?-.
-Vorrei sapere le circostanze in cui ha sentito lo sparo della notte del 23 gennaio e cosa ha fatto dopo. O cosa ha fatto la mattina quando si è svegliata-.
-Dopo che le avrò detto queste cose se ne andrà? Sa, aspetto gente a pranzo-.
 
Manes gettò un’occhiata fugace ad una tavola apparecchiata, prima di rispondere: -Naturalmente-.
-Bene. Quella notte facevo fatica ad addormentarmi. Anzi, è un po’ che faccio fatica ad addormentarmi. Comunque, mi trovavo nel dormiveglia. Poi ho sentito uno sparo, forse due, non ne sono sicura. Ma ho pensato di essermeli immaginati. Quindi mi sono rigirata nel letto e non ci ho pensato. Sa, quando una persona si trova nello stato di dormiveglia può immaginare di sentire di tutto. Comunque la mattina mi sono alzata verso le sette e mezzo e mi sono affacciata alla finestra che dà sul Campo dei Frari e ho visto i medici legali che tiravano su un telone insanguinato con dentro il corpo di Livio Tosca-.
-Ma lei vive qui da sola?- chiese Manes.
 
Quel racconto gli sapeva di bugia, di discorso preparato in precedenza da raccontare a qualsiasi persona le chiedesse qualcosa in merito, ma essendo in un corpo che non era il solito che usava non poteva ascoltare i pensieri della donna che aveva di fronte. La signora lo squadrò con uno sguardo gelido.
 
-Aveva detto che una volta che le avessi raccontato la mia versione dei fatti lei se ne sarebbe andato-.
-E io le do ragione, tuttavia…-.
-E allora esca immediatamente da casa mia-.
 
In quel momento Manes venne preso dalle stesse convulsioni che lo avevano colto in chiesa, davanti al confessionale. Si piegò in due sul pavimento della casa della signora Costantin.
 
-Signor Guglielmi, si sente male?-.
-No, è tutto a posto- disse con la sua voce roca e vellutata.
 
Stava per tornare ragazzino. Uscì di corsa da quella casa, fece di fretta le scale e arrivò sul marciapiede che dava sul canale, quasi incespicando nei suoi stessi piedi. Si ritrovò in poco tempo sotto forma di ombra.
“Non è umano! Ma allora con chi ho parlato?” fu la prima cosa che sentì.
Melania Costantin lo aveva visto, ancor più grave aveva visto la sua trasformazione. Alzò lo sguardo e guardò in alto. La donna era affacciata alla sua finestra e lo fissava. Sentiva i suoi pensieri sorpresi e insieme spaventati. Senza pensarci due volte, Manes schizzò via verso la chiesa.























Note di Saeko:
Buona Pasqua a tutti!
Spero che questo capitolo non sia risultato troppo irreale e sì, il tipo nel confessionale è esattamente chi pensate chi sia, ovvero Antonio Cisano. L'introduzione del personaggio di Maria Melania è fondamentale per i due ragazzi, perché sarà la chiave per scoprire l'identità dell'assassino di Lixa.
Spero non ci siano errori e che vi abbia intrattenuto abbastanza! Come sempre, sono ben accetti consigli e critiche.

Un ringraziamento ad alessandroago_94 e a Cress Morlet per essere passati a recensirmi.

Inoltre, vi dico che, poiché domani è ancora "vacanza" per me, prima che io ricominci a lavorare (esclusivamente da casa), ne approfitterò per pubblicare un altro capitolo, ergo a domani!
State attenti alla cioccolata e buon tutto.

Saeko's out!












 

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Capitolo 9
*** Capitolo 8: La scoperta ***


Capitolo 8:
La scoperta    
 
28 febbraio 2002. Venezia, Campo dei Frari, sestiere di San Paolo. Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, cappella della tomba di Monteverdi.
 
-La signora Costantin alla fine è venuta- disse Paolo, riscuotendo l’attenzione dei suoi amici.

L’aria era pesante. I due frati gemelli Luigi e Lazzaro erano andati insieme a frate Ballon, sorella Marta (la suora paffuta), sorella Vanessa (la suora giovane) e Federico a San Marco, per un’omelia importante. Avevano lasciato Paolo a occuparsi della Basilica dei Frari; era un giovedì particolarmente tranquillo, poiché in occasione della mancanza dei frati, la messa era stata annullata e i fedeli erano stati invitati a recarsi alla Basilica di San Marco. Lixa aveva assemblea a scuola quel giorno, per cui non appena finita la prima ora si era precipitata nell’edificio sacro, che ormai era diventata la sua seconda casa, incontrandosi poi con Manes e Paolo alla cappella dell’avo del ragazzo.
Quella mattina, di buon ora, la signora Maria Melania Costantin aveva fatto una capatina alla chiesa. Non trovando nessuno aveva deciso di parlare con Paolo; gli aveva raccontato la strana storia di un investigatore in borghese dagli occhi verdi, i capelli castani e i baffi scuri che era venuto a casa sua a farle delle domande riguardo all’omicidio del 23 gennaio 2002. Paolo aveva fatto finta di non saperne nulla, mentre la donna gli raccontava di tutti questi accadimenti.
In realtà, quel 3 febbraio, mentre pranzava, un’ombra con gli occhi color oro si era avvicinata. Manes aveva preso le sembianze di ragazzo (non senza fatica, cosa insolita per lui) e gli aveva raccontato cosa era successo – perciò era perfettamente conscio di cosa stesse parlando la signora Costantin.
 
-Chiama Lixa- gli aveva intimato in quel momento l’amico, agitato come non mai.
 
Paolo aveva eseguito e raccontato tutto alla ragazza; insieme a Manes avevano deciso che avrebbero aspettato che la signora Costantin si fosse fatta viva, perché dopo una cosa di quel genere e dopo aver visto l’ombra schizzare verso la chiesa, la prima cosa che si aspettavano era che la donna venisse a cercarla lì. Era stata una fortuna che non avesse visto Manes sotto forma di ragazzo.
Comunque quella mattina del 28 febbraio, dopo che la signora Costantin ebbe finito il suo racconto, Paolo aveva chiesto:
 
-E perché non è venuta qui il giorno stesso?-.
-Perché per un po’ di tempo mi sono convinta di aver sognato. Di essermi assopita sui fornelli e di aver immaginato tutto- aveva risposto la signora –Ma poi, ripensandoci, ho capito di non essermi assopita. A meno che non sia una sonnambula molto brava a cucinare-.
-E poi?- chiesero Lixa e Manes.
 
Stavano letteralmente pendendo dalle labbra di Paolo. Il ragazzo continuò.
 
-E poi ho fatto l’errore di chiederle cosa aveva detto a quella presunta ombra riguardo l’omicidio di Livio Tosca-.
-E lei?-.
-Lei mi ha guardato storto. Deve aver colto qualcosa nel mio sguardo. Ha detto: “Non credo che siano affari tuoi, giusto?”. Poi si è alzata con un sorriso freddo e se ne andata-.
-Era della stessa freddezza anche quando le ho parlato- convenne Manes.
-Accidenti che razza di casino!- commentò invece Lixa.

***
 
-Accidenti che razza di casino!- commentò Lixa, ma senza convinzione: c’era qualcosa che le dava da pensare.
 
Durante quel mese di ricerche sui libri che aveva trovato nella Biblioteca Marciana l’avevano portata parecchio avanti. Secondo alcuni di quei libri fantasy, che nessuno prendeva dunque mai sul serio, un mondo parallelo poteva esistere nei quadri se, per esempio, si era fatta una magia sopra il ritratto di un mago morto e quest’ultimo prendeva vita, tornando momentaneamente sulla terra. Oppure di quadri usati come porte per altri mondi, che venivano attivati grazie alla parola giusta al momento giusto. In un volume dei tanti libri – concernenti cronache di un mondo fantastico – infatti due dei quattro protagonisti si ritrovavano in una stanza con il quadro di una nave insieme al cugino; dopo una frase detta quasi per caso la cornice del quadro iniziava improvvisamente ad allargarsi e a risucchiare i ragazzi, trasportandoli nel mare del dipinto. C’era un libro, del quale non ricordava il nome, che parlava addirittura di un mondo al di là di uno specchio. C’erano poi storie di demoni disegnati con un particolare inchiostro di china mischiato a sangue umano che prendevano vita e uscivano dal quadro. Oppure di strani cerchi che, collegati attraverso energia magica e sangue di sacrificio, portavano in un mondo al di là di uno strano portale[1].
Ma qualcosa non tornava e Lixa sapeva perfettamente quale fosse il tassello mancante di tutta la faccenda: l’incantesimo, la formula, il sacrificio opportuno per attivare il ciclo della magia atto a raggiungere lo scopo.
Perché ella ormai credeva che potesse essere in ogni caso possibile? Diamine, parlava con un’ombra da quasi un mese, per quanto all’inizio fosse per lei improbabile, come poteva essere possibile che lei non credesse che una qualche magia sarebbe potuta esistere, pur di riportare il nuovo amico nel quadro?
 
-Lixa, cos’hai?- chiese ad un certo punto Manes, con lo sguardo preoccupato.
-Sì, è vero, cos’hai?- convenne anche Paolo –Capisco che tra me e Manes non si sa chi sia il più idiota- l’ombra guardò male il ragazzo, ma Paolo continuò senza curarsene –Ma questo non è il motivo per il quale devi abbatterti-.
-Non sono abbattuta per quello-.
-Ah, no?-.
-E per cosa, allora?-.
 
Gli occhi azzurrodorati di Manes si posarono su quelli color cioccolato di Lixa, la ragazza si sentì improvvisamente come se l’ombra potesse leggerle nel pensiero. Ma poi vide lo sguardo di Manes farsi sconsolato e lei si rilassò – aveva capito che no, ancora non poteva leggerle nella mente.
Iniziò a raccontare delle sue ricerche e del “quasi” negativo esito. C’era ancora una speranza, ma molto blanda e poco sicura.
 
-Ho letto in un grosso tomo, anonimo, che parlava di strane magie nere, come se fossero una cosa reale- continuò –Che esisterebbe una strana tecnica riportata in un’antica pergamena che permette di entrare nei quadri. C’era scritto che questa pergamena è andata perduta quasi novant’anni fa. Veniva chiamata la “tecnica proibita”. Il nome della pergamena era scritto in latino, ma ora non me la ricordo. Devo rileggerlo-.
-Interdictae Artis Membrana- disse Manes, all’improvviso.
 
Aveva lo sguardo vitreo, come se fosse entrato in trance.
 
-È vero, era quello il nome. Vuol dire “Pergamena della Tecnica Proibita”-.
 
Ma l’ombra non disse nulla. Era ancora in trance.
 
-Manes?-.
-Manes? Che hai?-.
 
L’ombra sembrò destarsi repentinamente. E disse, con tono quasi sognante:
 
-Ricordo qualcosa. Una ragazza bruna e un ragazzo alto con una lunga cicatrice che gli attraversa il viso e i capelli biondi, che si baciano al lato del campanile della chiesa. Ma ormai non sono più tanto ragazzi. La ragazza ha in mano un rotolo di pergamena. Prima non l’avevo notato-.
-Prima quando?-.
-La prima volta che ho visto questi ricordi. Il ragazzo prende per mano la ragazza. Ah!-.
-Che c’è?- Paolo era ansioso.
 
Iniziava a capire cosa il ragazzo stesse ricordando e chi fossero quei due “ormai non più tanto ragazzi”.
 
-Mi sto sforzando molto, non sono ricordi chiari. Inizia a farmi male la testa. I due entrano in chiesa… salutano un frate grasso… frate Ballon. Si avvicinano alla tomba di Monteverdi. La ragazza apre il cancello di ferro e fa entrare lui. Lo accostano. La ragazza tira fuori una chiave e la infila nella serratura sotto la tomba del musicista. Apre una piccola urna. È l’urna dei ricordi dei cari di Monteverdi. Ci mette dentro il rotolo. Poi lo richiude. E poggia un dito sopra la bocca del ragazzo-.
-Non ricordi altro?- chiese Lixa, curiosa.
-No. Questo ricordo si interrompe qui. Però c’è qualcos’altro. Legato alla chiave-.
-Allora va avanti- lo incitò Paolo.
 
Sapeva cosa stava per rivelare Manes, ma non voleva iniziare lui quel discorso.
 
-La stessa donna. Poco più anziana. È fuori, al portone principale della chiesa. È appena uscita con il figlio. Gli sta dando la chiave. E gli dice qualcosa-.
-Puoi vedere che aspetto ha il ragazzo?- chiese ancora Lixa.
-Sì…- ma poi si fermò, mentre un’espressione incredula si dipingeva sul suo viso.
 
Si voltò a guardare Paolo. Più stupito che mai.
 
-Che succede?- chiese Lixa, che evidentemente non aveva ancora capito.
-Perché non ci hai detto nulla?- gli chiese.
-Perché non ho pensato che potesse esserci qualcosa di così importante dentro quell’urna-.
-Mi volete spiegare che succede?- Lixa alzò la voce, visibilmente alterata.
-Il bambino che ha ricevuto la chiave dalla donna ha i capelli rossi e gli occhi grigi-.
-Paolo- realizzò la ragazza, voltandosi a fissarlo.
-Sì, ero io quel bambino. Quando la mamma mi diede quella chiave avevo cinque anni e mio padre era morto da cinque mesi. Aveva quella cicatrice che gli attraversava il volto-
-Come se l’era fatta?-.
-Mia madre mi aveva raccontato che quella cicatrice il papà se la fece litigando con il nonno, quando era ancora vivo. Un anno dopo che ricevetti quella chiave mia madre morì. Da allora non me ne sono mai separato e sono sempre vissuto qui, accanto alle spoglie del mio avo. La chiave la porto sempre al collo-.
 
Così dicendo spostò da un lato il colletto del maglione grigio e quello della camicia azzurra che indossava quel giorno, mostrando qualcosa che gli brillava sulla pelle. Una piccola catenella d’argento teneva quella piccola chiave, impreziosita dai ghirigori complessi e da due piccole metà, una smeraldo e una rubino, di una minuscola pietra. Aveva la stessa fattura della piccola serratura dell’urna dei ricordi di Monteverdi.
 
-Possiamo aprirla?- chiese Manes.
 
Paolo incontrò i suoi occhi azzurrodorati, dopodiché spostò lo sguardo le sue due ciocche verde brillante. Sentì che il ragazzo cercava di evitare di leggere i suoi pensieri, anche se gli riusciva ovviamente difficile.
Capì che forse avrebbe fatto di tutto pur di tornare nell’Assunta di Tiziano; ricordò quando Lixa gli aveva raccontato di un angioletto del quadro sparito dal dipinto. Il giorno dopo aveva dato un’occhiata più accurata e aveva scoperto che era vero: mancava un angioletto, ma nessun altro pareva essersene accorto, rendendo la questione cupa e inquietante. Quel quadro era diventato parte integrante della chiesa, una cosa alla quale non si fa più caso.
 
-Sì- rispose infine.
 
Si slacciò la catenina d’argento e porse la chiave all’ombra. Manes la prese, poi si avvicinò all’urna. L’aprì e iniziò a sollevare il coperchio. Non ci riuscì subito, poiché i giunti in ferro erano parecchio arrugginiti e l’ombra temeva di rompere quell’oggetto così importante per i discendenti del musicista. Mentre lo sollevava, Paolo e Lixa ci guardarono dentro. Paolo notò, tra i tanti oggetti, una pergamena arrotolata e rovinata e la prese in mano. C’era uno strano simbolo in cera lacca rossa, raffigurante il leone di Venezia con una specie di chiave gigantesca; sopra vi era la scritta “Interdictae Artis Membrana”.
 
-È questo il rotolo- disse porgendolo a Lixa.
 
La ragazza lo prese delicatamente, spalancando tuttavia gli occhi; mai si sarebbe aspettata di avere veramente tra le mani qualcosa di nominato in un libro che parlava di magie nere, in maniera alquanto discutibile e inverosimile; invece si ritrovava con una pergamena ereditata da un discendente di un musicista morto quasi a metà del 1600. Sempre delicatamente, aprì il sigillo.
 
***
 
L’odore che Manes avvertì quando Lixa aprì il sigillo in cera lacca fu quello stesso odore di morte che ricordava in quelle memorie di molto tempo prima.
Arricciò il naso.
Osservò la ragazza mentre srotolava la pergamena, facendo attenzione a non rovinarla. Quel giorno indossava una felpa rossa e un paio di jeans scoloriti e strappati. I suoi occhi si erano riempiti di curiosità mentre strappava la lacca dalla carta.
“Quant’è bella”. Un pensiero improvviso, che aveva un suono dolce, qualcosa di incredibilmente ovattato e sognatore.
Quel pensiero non però era suo, ma di Paolo. Si voltò a guardarlo: i suoi occhi grigi si erano riempiti di affetto e passione, le sue guance si erano colorite. Subito dopo si mise a osservare Lixa; anche lei aveva le guance colorite e sembrava consapevole del fatto di essere osservata con tanto affetto. Eppure non stava guardando Paolo.
Ancora una volta provò a sondare i suoi pensieri, solo per trovare per l’ennesima volta il vuoto ad accoglierlo. Lixa aveva iniziato a leggere l’Interdictae Artis Membrana, mentre la sua espressione si faceva sempre più confusa.
 
-Lixa che ti prende?- chiese Paolo, diventando ansioso.
-C’è qualcosa di macabro?- chiese allora Manes.
-No. È che non riesco a capirci nulla-.
-È scritto in latino?-.
-No-.
-E allora?-.
 
Paolo si avvicinò.
Anche lui assunse uno sguardo confuso.
 
-Allora?-.
 
A quel punto Manes perse la pazienza e anche lui si sporse sul foglio ingiallito dal tempo. Strani segni quadrati si susseguivano formando parole, che tuttavia non era in grado di capire. Sapeva tuttavia di che genere di scrittura si trattasse, a quale lingua appartenesse.
 
-È cirillico- disse semplicemente.
 
Il suo tono lasciava intendere che non capiva però come tradurlo.
 
***
 
Di nuovo le nuvole scure all’orizzonte: quella notte avrebbe probabilmente piovuto; ma non importava. Sapeva che ormai non doveva più preoccuparsi; Antonio Cisano non doveva preoccuparsi, perché il suo piano stava andando a gonfie vele: dopo la morte di Livio Tosca era riuscito a sbarazzarsi del revolver e a presentarsi come vecchio grande amico di Tosca alla Ca’ de Delizie e a prenderne le redini, tanto da portare in poco tempo alla cessione quasi completa della società, senza intoppi di sorta. La polizia, nonostante stesse ancora indagando, non era riuscita a trovare l’assassino di Livio Tosca. Fissò a lungo il cielo dal vano della finestra della sua camera all’albergo Universo e Nord. Poteva ritenersi un uomo fortunato, libero ormai dalle paure che l’avevano portato a confessarsi alla chiesa davanti al quale aveva compiuto l’omicidio.
Tuttavia egli non poteva aspettarsi nessuno degli intrighi che il suo assassinio aveva scatenato.




 
 

[1] Si parla di notizie presenti all’interno dei volumi di “Harry Potter” di J.K. Rowling, del volume 5 de “Le Cronache di Narnia”, ovvero “Il viaggio del veliero”, del mondo del nostro Io interiore al di là dello Specchio de “La Storia Infinita" di Micheal Ende, di menzioni provenienti dai primi volumi di “Inuyasha” di Rumiko Takahashi e infine dai volumi di “Full Metal Alchemist” di Hiromu Arakawa.




















Note di Saeko:
cominciavo a temere di non riuscire a pubblicare, dato che questo capitolo è stato decisamente complicato da revisionare; tra il racconto di Paolo del suo incontro con Maria Melania e il time-skip di circa un mese dagli avvenimenti del capitolo precedente, cominciavo a dilungarmi troppo. Come sempre, spero di aver dato un senso compiuto a quanto sto raccontando e che la storia vi intrattenga.

Devo ringraziare alessandroago_94 e Miryel per essere passati a leggermi e recensirmi, sono contenta che la storia vi appassioni.

Una piccola menzione va anche a Cartasporca che ha letto e recensito un altro capitolo dell'altra mia long, Historiae - Il viaggio fantastico.

Spero che stiate trascorrendo in maniera serena questa Pasquetta, prima o poi ne usciremo (spero il prima possibile). A questo punto a venerdì, non ingozzatevi troppo e attenti alle carie.
Un abbraccio (virtuale).

Saeko's out!

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Capitolo 10
*** Capitolo 9: Frate Ballon ***


Capitolo 9:
Frate Ballon
 
5 marzo 2002. Venezia, Campo dei Frari, sestiere di San Paolo. Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, sala del Capitolo.
 
Manes, Lixa e Paolo avevano cercato un vocabolario di cirillico e lo avevano trovato, nella piccola biblioteca presente all’interno del chiostro della chiesa, nel punto opposto rispetto alla sala del Capitolo; ma non riuscivano comunque a capirci nulla, perché i caratteri antichi erano difficili da associare a quelli moderni e non riuscivano a ricostruire tutte le parole. L’unica cosa che erano riusciti a capire dai grafemi più comprensibili, presi casualmente assieme a frasi smezzate, era che l’Interdictae Artis Membrana era stata trascritta in cirillico perché chi l’aveva ideata aveva usato troppo “sangue” per arrivare alla sua conclusione nella lingua d’origine. Non erano riusciti a capire altro. Avevano provato anche a cercare delle documentazioni che parlassero di quel documento di “magia nera”, ma non era servito ugualmente a nulla.
 
-È inutile- sbottò Paolo.
 
Manes lo guardò; era quasi incredibile come fosse entrato nel patto che lui e Lixa avevano stretto. Visto l’intenso coinvolgimento che il ragazzo provava, sia per l’ombra che per la ragazza, aveva quasi senso inserire una seconda clausola che lo riguardasse: infatti Paolo aveva il compito di aiutare sia Lixa che Manes e fare in modo che il patto venisse rispettato.
Era entrato in quell’avventura solo due giorni prima e si era già dato tantissimo da fare: aveva aiutato Manes a cercare tra i documenti della polizia qualcuno che corrispondesse al ricordo di Manes, anche se non era ancora uscito fuori niente. E ora stava aiutando lui e Lixa a cercare di tradurre quel documento.
 
“E tutto perché la ama” pensò Manes. Aveva capito che Paolo provava amore per Lixa; e lei sembrava ricambiare.
 
-Però…- provò a dire, ma Lixa lo interruppe sconsolata.
-Paolo ha ragione, Manes. È inutile-.
-Cosa è inutile?-.
 
Una domanda di una voce estranea al discorso li fece sobbalzare. Si voltarono e sulla soglia della Sala del Capitolo s’era affacciato Frate Ballon, quel frate grasso che Manes riconosceva anche dai suoi ricordi, solo più anziano. Era l’unico frate che sapeva che stessero cercando di imparare in un lampo il cirillico, dato che era stato lui a procuragli il vocabolario, indicando lo scaffale giusto all’interno della piccola raccolta di testi della Basilica.
Era anche l’unico, lì dentro, a sapere dell’esistenza di Manes. L’unico che non si era mostrato confuso nel vedere i suoi occhi e i suoi capelli e l’unico che non si era spaventato osservando la sua trasformazione in ombra; d’altronde, era difficile nascondere la sua presenza all’uomo che gestiva qualsiasi cosa dentro il piccolo mondo dei Frari.
“In qualche modo anche lui è entrato a far parte del nostro patto, anche se implicitamente” pensò l’ombra.
 
-È inutile che proviamo a imparare il cirillico senza avere una base; non riusciremmo comunque a tradurre questo documento- concluse Lixa.
-Ne siete sicuri?-.
-Sì, frate Ballon- affermò sconsolato Paolo.
 
Manes non aveva aggiunto nulla e continuava a guardarlo. Ispezionava i suoi pensieri: “Questi ragazzi. Ci hanno provato. Forse…”, ma il prete lasciò il pensiero in sospeso, perché posò il suo sguardo su Manes. Frate Ballon aveva un paio di occhi neri e profondi come pozzi, tant’è che per un attimo l’ombra si sentì trapassata dall’intensità del suo sguardo.
 
-Se volete, posso tradurvela io- concluse il vecchio prete.
-Lei conosce il cirillico?- chiesero all’unisono Paolo e Lixa.
-Certo. Chi pensate abbia inserito un vocabolario di quel genere in quella piccola biblioteca?-.
-Anche questo è vero- convenne il ragazzo.
-Allora ce lo potrebbe tradurre lei?- chiese Lixa, con gli occhi che le brillavano.
-Lixa, non possiamo chiederglielo, non fa parte del patto-.
 
A quel punto Manes doveva necessariamente intervenire.
 
-Ma che dici, Manes? Forse, con il suo aiuto possiamo farti tornare den…- uno sguardo veloce agli occhi di Manes e Lixa si corresse -… tornare dalla tua mamma-.
-Sì, ma se ci fosse scritto qualcosa di troppo pericoloso? E se frate Ballon, dopo aver tradotto quel documento, lo ritenesse troppo pericoloso e si rifiutasse di darcelo?-.
-Ho un’idea- disse Paolo.
 
Fece avvicinare i due amici a lui, facendo capannello lontano dalle orecchie dell’uomo, e disse sottovoce:
 
-Possiamo far tradurre l’Interdictae Artis Membrana a frate Ballon senza farlo entrare a far parte del patto. Non diremo cosa Manes ha promesso in cambio del favore di Lixa. In fondo non è a conoscenza delle origini di Lixa e Manes potrebbe essere l’incarnazione di un suo ipotetico antenato-.
-Buona idea!- sussurrò Lixa.
 
Manes osservò con curiosità con quanto fervore lei avesse sottolineato quel complimento e come Paolo arrossì.
 
-D’accordo, se la mettiamo sotto questi termini, si può fare- convenne poi l’ombra.
 
Si voltarono e comunicarono la loro decisione a frate Ballon. L’anziano prete ascoltò attentamente ciò che gli raccontarono e quando ebbero finito un suo pensiero limpido, chiaro, concreto, arrivò a Manes: “Mi stanno nascondendo qualcosa. La loro storia non è completa”. Manes immaginava che quell’uomo ci sarebbe arrivato subito; poteva essere un uomo di chiesa, chiuso in quelle quattro mura da tanto tempo, ma non era certo uno stupido o un ingenuo.
“Proverò comunque ad aiutarli”.
Manes tirò un sospiro di sollievo, poiché immaginava che fosse difficile aiutare un’ombra; lo leggeva negli occhi della gente, perfino in quelli dello stesso Paolo. L’unica che non sembrava avere un problema personale con lui (un’ombra) era di certo Lixa.
 
***
 
Dominìc Ballon era un vecchio frate bontempone, nato in Russia, a Vladivostok – dall’altra parte del mondo –, ma possedeva origini francesi, e preferiva essere chiamato con il cognome, che qualificava anche la sua mole. Ma era anche un uomo intelligente che, nonostante avesse deciso di diventare frate per poter vedere il sorriso sul volto di sua madre, aveva un animo pieno di curiosità e interessi particolari; inoltre, non si tirava indietro di fronte ad una sfida.
Per questo aveva deciso che avrebbe tradotto quel documento di molta importanza per quei tre ragazzi. Era l’unico in quella chiesa a sapere dell’esistenza di quell’ombra e aveva anche fatto in modo di tenerla abbastanza nascosta.
Un’ombra che aveva il nome di “Manes”; “spirito vitale”, in latino. Era incredibile quanto quel nome si addicesse all’ospite della chiesa. Quell’essere era pieno di vita, di voglia di realizzare il suo desiderio primordiale, cioè quello di tornare da sua madre – come un bambino preadolescente che si è ritrovato sperduto in luogo oscuro: la prima cosa che fa è cercare sua madre, poi inizia a correre e a usare tutti i mezzi per poterla raggiungere.
Era curioso come Manes stesse facendo proprio questo: prima si era risvegliato come ombra della chiesa; un buco nero di ricordi che non erano suoi, un mondo che non conosceva gli si spalancava davanti agli occhi; perciò aveva sicuramente provato il desiderio di ritornare il respiro della chiesa; quindi aveva preso una forma umana, che però risentiva di quel richiamo.
Anche questo richiamo aveva un modo curioso di mostrarsi: un paio di occhi azzurrodorati e due ciocche di capelli verdi. Aveva trovato un buon mezzo per poter tornare anima semplice e pura, semplice figlio di quell’edificio chiamato chiesa: una ragazza e un ragazzo, uniti dal caso, lo avrebbero aiutato a tornare in un quadro che era diventato parte integrante di quella basilica.
 
-Dominìc, che cos’è quel pezzo di carta?- una voce interruppe il filo dei suoi pensieri.
 
Una dolce voce femminile. Alzò lo sguardo. Davanti a lui c’era sorella Vanessa insieme a Federico.
 
Sorrise a entrambi dicendo: -È solo un semplice foglio che ho trovato nella sala del Capitolo. Mi sarà utile per appuntare i conti che desiderava Luigi-.
-Sai che dobbiamo andare alla messa del pomeriggio… vuoi che dica a Marta di sostituirti?-.
-Sì, grazie. Sei molto gentile-.
-Di nulla- disse la suora.
 
I suoi occhi verdi guizzarono ancora una volta sul foglio di carta che teneva in mano, poi prese Federico per le spalle e cercò di condurlo nella sala dell’altare, alla navata principale. Ma Federico si fermò, dicendo qualcosa alla sorella Vanessa e raggiunse nuovamente frate Ballon.
 
-Dimmi, Federico-.
-Non lo faccia, frate Ballon-.
 
I suoi occhi neri si immersero nei suoi.
 
-Fare cosa?-.
-Aiutare quel ragazzo che sta con Paolo. So che lei sa che c’è un ragazzo con gli occhi azzurri e oro che sta sempre con Paolo. Ho sentito l’altra sera che l’avrebbe aiutato. Non lo faccia-.
-E perché?-.
-Perché… perché è pericoloso. Lo sento-.
 
Gli occhi neri del ragazzo potevano sembrare anche oscuri e bui, ma in quel momento esprimevano il desiderio di essere ascoltati. Frate Ballon sorrise.
 
-Grazie per il consiglio, Federico-.
 
Il ragazzo annuì in maniera grave, si lasciò andare ad un sospiro e poi se ne andò.
15 anni, orfano, ragazzo introverso, Federico aveva trovato la sua madre ideale in Vanessa; sorella Vanessa aveva ritrovato il figlio che aveva perduto nel parto, un parto che l’aveva portata a divorziare e a farsi suora. Questi erano Federico e Vanessa; questo era Federico. Aveva avvertito un pericolo, qualcosa che non ci sarebbe dovuto essere nella sua vita, aveva visto giusto, perciò aveva cercato di avvisarlo.
Anche frate Ballon avvertiva il pericolo.
Aveva deciso di ignorarlo.































Note di Saeko:
salve salvino a chiunque sia arrivato sino a qui! Sono contenta di essere arrivata sino a qui e posso dirvi che siamo circa a metà della storia. Abbiamo scoperto alcune cose e visto l'inserito di un nuovo personaggio (e la menzione di altri personaggi secondari, che però sussistono in ogni caso). La storia ha ormai preso la sua forma e man mano gli elementi introdotti nel prologo cominciano a prendere forma e posto nella narrazione - manca poco è verrà presto detto qualcosa anche in merito al bracciale di perline lavorate.
Passo ad alcuni ringraziamenti, come sempre d'obbligo:

ad alessandroago_94 per la sua costanza e per essere passato al capitolo precedente;
a _Lightning_ per aver letto e recensito il prologo e per aver inserito questa storia tra le seguite;
Estel_naMar per continuare a leggere e recensire questa storia con costanza;
LadyTsuky per aver inserito questa storia tra le seguite;
Elgas per essere passata a recensire un altro capitolo dell'altra mia long.

Vi ringrazio davvero molto, i vostri commenti e le vostre impressioni, così come consigli e critiche sono sempre ben accetti e mi permettono di crescere e migliorarmi. Perciò grazie davvero, di cuore.
A questo punto levo le tende, spero di aver "allietato" questo venerdì 17 e ci vediamo domenica!

Saeko's out!

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Capitolo 11
*** Capitolo 10: Sacrificio per un amico sconosciuto ***


Capitolo 10:
Sacrificio per un amico sconosciuto
 
7 marzo 2002. Venezia, Campo dei Frari, sestiere di San Paolo. Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, cella ovest. 
 
La luna piena stagliava i suoi deboli raggi nella notte scura, infiltrandosi ambigua attraverso la finestra della cella dell’uomo, erano all’incirca le due di notte e tutto sembrava andar bene (ma solo apparentemente). Il vocabolario di cirillico era aperto; una biro vecchio stile a inchiostro blu in mano al frate aveva appena finito di scrivere l’ultima parola della traduzione e la “Pergamena della Tecnica Proibita” stava srotolata affianco al foglio moderno.
Interdictae Artis Membrana.
Perché ora sapeva cos’era. Aveva il foglio con la traduzione poggiato ordinatamente sul tavolo, di fronte a lui. Soffocò un sospiro di terrore.
Quella formula era dannatamente diabolica; sentiva crescere dentro il suo cuore quell’impulso che aveva predetto Manes: impedire a quei tre di sapere il contenuto di quel documento una volta venutone a conoscenza; avvertiva la voglia opprimente di accartocciare quella vecchia pergamena sgualcita, di gettarla nelle fiamme del piccolo antico camino della sua stanzina e lasciare che la damnatio memoriae cogliesse quello scritto.
Ma si contenne. Posò la biro accanto al foglio sulla scrivania, tentando di fermare il visibile tremolio della sua mano.
Due giorni di lavoro ci erano voluti, per una traduzione decente – i grafemi erano antichi, le parole non sempre corrispondevano a quelle odierne, pur se la lingua russa era la stessa.
Agli altri monaci e suore suoi colleghi aveva riferito di avere avuto una febbre improvvisa; la curiosità di tradurre quel foglio che Manes, Lixa e Paolo gli avevano affidato era stata tanta, ma ora si sentiva svuotato di ogni tipo di interesse e spirito d’avventura: aveva solo paura.
Una paura che non sapeva descrivere, ma l’ignoto che poteva celarsi dietro a quella opera era qualcosa di terribilmente oscuro; decise che comunque si trattava di magia e la magia non esisteva sulla terra, ma solo la fede in Dio era auspicabile.
Avrebbe dato quella traduzione ai tre ragazzi: si sarebbero resi conto da soli della sua pericolosità.
Glielo aveva promesso e frate Dominìc Ballon manteneva sempre le promesse.

 
***
 
Quel mattino si presentò assolato e splendente. Era il primo, dopo un inverno di continue piogge e freddo gelido e vento insopportabile; anche se non era ancora arrivata, la primavera iniziava a far sentire le sue prime avvisaglie.
Lixa, quel mattino, si era svegliata con una strana sensazione: sentiva che quel giorno, nonostante il bel sole che splendeva nel cielo, sarebbe successo qualcosa di spiacevole; probabilmente riguardava frate Ballon e l’Interdictae Aris Membrana. Il pomeriggio del giorno prima era andata in chiesa a pregare e a trovare Manes e Paolo; i due amici le avevano detto che frate Ballon si era chiuso in camera sua per un’improvvisa febbre, ma tutti e tre sapevano che in realtà stava traducendo il loro prezioso documento. Inoltre aveva seguito Paolo e Manes nelle loro ricerche dell’assassino di suo zio; avevano ricavato un identikit dell’uomo grazie ai ricordi di Manes.
I due avevano provato a chiedere alla ragazza se tra quelli che conoscevano suo zio ce ne era uno con gli occhi verdi e una mano più giovane dell’altra, probabilmente meccanica; ma lei non aveva mai visto nessuno con quelle caratteristiche ruotare attorno alla sua famiglia.
I tre avevano dunque cercato al comando di polizia e all’anagrafe di Venezia tutte le foto e i dati di tutti gli abitanti della città sulla laguna – sempre grazie a quell’amico di vecchia data del signor Livio, che aveva il fratello che lavorava nella casa dolciaria del defunto imprenditore.
Era stato un lavoro lungo e faticoso, ma era l’unico modo per poter capire chi fosse l’uomo in questione. Avevano iniziato non appena Paolo era entrato a far parte del patto e proprio due giorni prima avevano finito: nessun cittadino veneziano corrispondeva all’identikit dell’omicida.
Ora avevano iniziato con i turisti, che in quel periodo dell’anno erano veramente pochi a Venezia, perciò avrebbero fatto in fretta; era una fortuna avere una persona amica che avesse accesso a quelle informazioni, che altrimenti da soli non sarebbero mai stati in grado di reperire.
Questi pensieri l’accompagnarono per tutta la mattina, mentre seguiva le lezioni a scuola, durante la ricreazione, mentre tornava a casa, pranzava, faceva i compiti e attendeva l’orario dell’inizio della messa del pomeriggio. Quando furono le cinque meno venti si mise la sua giacca blu e bianca e uscì. Le giornate iniziavano gradualmente ad allungarsi e quando giunse al sagrato della chiesa, il sole era ancora in cielo, anche se si stava avviando verso il tramonto.
Senza sapere perché, Lixa avvertiva la sensazione che tutto ciò che le stava attorno si muovesse più lentamente, che il tempo stesso scorresse più lentamente, mentre lei si muoveva frenetica, come se il tempo non fosse mai abbastanza. Infatti si ritrovò davanti al portone della chiesa alle cinque meno dieci, dieci minuti di anticipo. Non le era mai successo, dato che di solito arrivava lì perfetta come un orologio.
Comunque entrò e attese. Man mano arrivarono gli altri fedeli e tra loro intravide anche la signora Laura; la donna la salutò cordialmente, decisamente sorpresa di vederla già lì.
“Certo, ogni volta ci incontriamo fuori” realizzò Lixa, vedendo lo sguardo confuso della sua vicina e tutrice, ma facendole segno di non preoccuparsi. La messa iniziò, Lixa congiunse le mani, chiuse gli occhi e iniziò a pregare a labbra strette. Ma una voce che non aveva mai sentito, se non in rare occasioni, iniziò il sermone: non era quella di frate Ballon e nemmeno quella di frate Luigi. Lixa aprì gli occhi e sull’altare vide frate Lazzaro: era identico a frate Luigi, ma il timbro di voce era decisamente più profondo; quel tono ebbe un effetto calmante sulla ragazza, che invece di ricongiungere le mani, chiudere gli occhi e cominciare a pregare a labbra strette, rimase vigile e attenta a quanto il frate stava dicendo, forse per la prima volta da quando lo zio era morto senza pensare alla vendetta.

 
***
 
La messa finì presto. Frate Ballon aveva fatto in modo che fosse frate Lazzaro a tenere il sermone, quel giorno; lui aveva bisogno del tono di voce rassicurante di quell’uomo.
Avrebbe dovuto consegnare a Paolo, Lixa e Manes la traduzione dell’Interdictae Artis Membrana e aveva fatto in modo che anche Paolo e Manes si trovassero lì durante la messa pomeridiana. Frate Lazzaro, eccetto rarissime volte, era il perfetto contrario del fratello gemello. Se frate Luigi era nevrotico, isterico e rabbioso e solo rare volte cercava di mantenersi calmo, frate Lazzaro invece era tranquillo, paziente e incredibilmente loquace, poiché solo poche cose riuscivano ad irritarlo (e tra queste c’era l’insistenza della polizia nel fargli domande sull’omicidio di Livio Tosca).
Parlare con lui era l’unico rimedio all’agitazione; anche solo ascoltarlo aveva un effetto calmante.
Quando il sermone finì, tutti i fedeli sembravano tranquilli e sicuri che le loro preghiere sarebbero state ascoltate.
“Dovrebbe esserci sempre Lazzaro a tenere la messa” pensò il prete a capo del personale della basilica. Persino Federico, il ragazzo introverso che viveva lì, sembrava più calmo: infatti parve non preoccuparsi quando frate Ballon si avvicinò a Paolo, stranamente solo.
 
-Dov’è Manes?- gli chiese.
-Nella mia ombra- rispose il ragazzo –Uscirà fuori quando tutti i fedeli se ne saranno andati, quando Lixa si avvicinerà e quando gli altri funzionari della basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari si saranno allontanati dalla sala dell’altare-.
-Ti ha detto lui così?-.
-Testuali parole-.
 
Lo sguardo grigio di Paolo per un attimo si immerse in quello nero di frate Ballon, prima di addolcirsi nel vedere Lixa mentre li raggiungeva; dopodiché il ragazzo spiegò anche a lei le condizioni nelle quali Manes sarebbe uscito dalla sua ombra.
Quando tutti i fedeli se ne furono andati e gli altri frati e suore si allontanarono dalla sala dell’altare, l’ombra si affacciò da dietro le spalle di Paolo. I suoi occhi d’oro sembravano due monetine sospese a mezz’aria e risaltavano tantissimo nel suo corpo ombroso; frate Ballon sussultò per la prima volta a quella vista.
Poi l’ombra si trasformò in fumo nero e al suo posto comparve il ragazzo con i capelli neri e ricci, due ciocche di capelli verdi sul lato sinistro della testa e gli occhi azzurrodorati.
Fissò frate Ballon, facendo uno sguardo che diceva: “So già quel che c’è nel documento”. I ragazzi non avevano detto al prete della capacità di Manes di leggere nel pensiero, quindi l’uomo non se ne curò più di tanto.
 
-Ragazzi, ho passato due giorni a tradurre il vostro pezzo di carta-.
-E di cosa parla?- chiese Lixa, con gli occhi che le brillavano.
-Di una tecnica che spiega come poter portare qualcuno in un quadro. Ci sono tutte le indicazioni per eseguirla. Non c’è bisogno che vi spieghi nulla, è fin troppo esplicita. Non c’è menzionato nessun modo per tornare indietro una volta nel dipinto-.
 
Mentre frate Ballon pronunciava queste parole aveva tratto da sotto il suo saio un foglio A4 ripiegato molte volte su se stesso, assieme al rotolo della pergamena, legato con un nastro bourdeaux.
 
-A chi li consegno?-.
-Lo dia a Paolo- disse Manes, con una voce atona.
 
Il suo tono roco e vellutato aveva uno strano effetto mentre cercava di apparire senza emozione; quell’effetto ebbe le conseguenze di allarmare sia Lixa, che lo guardava confusa, sia Paolo, che invece lo fissava sorpreso e preoccupato.
 
-Paolo è stato l’ultimo di noi tre a entrare nel patto. Può fungere da intermediario tra me e te- spiegò Manes, in risposta allo sguardo interrogativo della ragazza.
 
Il prete consegnò all’orfano la traduzione, ignorando ciò di cui stava parlando l’ombra; il solo atto di consegnare quei due pezzi di carta aveva qualcosa di incredibilmente ufficiale. Li guardò con un nodo allo stomaco. Stava facendo la cosa giusta?
 
-Beh, da adesso in poi potrete fare da soli- disse –Se comunque avete bisogno di aiuto, sapete dove trovarmi-.
-Grazie, frate Ballon- dissero i tre all’unisono, mentre aprivano la traduzione e iniziavano a leggerla.
 
L’uomo anziano si voltò un attimo. Sui loro volti si stava già dipingendo un’espressione inorridita. Lui, frate Dominìc Ballon, aveva fatto la cosa giusta?

 
***
 
Si erano ritrovati tutti e tre nella saletta che si trovava accanto alla tomba di Monteverdi, il mattino seguente; era domenica, i visitatori non potevano entrare e la messa mattutina era finita da poco. La sera prima avevano letto attentamente la traduzione dell’Interdictae Artis Membrana, anche più di una volta. Sembrava loro di essere precipitati in una sorta di incubo.
L’unico modo concreto per poter entrare in un quadro era un sacrificio di sangue. Umano. C’erano descritti tutti i riti necessari che dovevano precedere l’uccisione, poiché bisognava sacrificare la vittima davanti al quadro, per potervi poi entrare.
 
-Siamo sicuri che questo sia l’unico modo per poter entrare in un quadro?- chiese Manes.
 
Lixa e Paolo lo guardarono in uno strano modo. Era stato il primo ad aver rotto il silenzio.
 
-Sì, purtroppo- rispose sconsolata Lixa –Ho letto tutti quei libri che c’erano nella Biblioteca Marciana. Non ci sono altre spiegazioni concrete-.
-E quindi ora come facciamo?- chiese Paolo.
-Due sono le cose: o rinunciamo al nostro patto, io non troverò chi ha ucciso lo zio di Lixa e non tornerò nel quadro, da mia madre- e detto questo guardò i suoi due amici.
 
Entrambi scossero il capo, Lixa con più vigore di Paolo. Per l’ennesima volta provò a scrutare i pensieri della ragazza, ma ancora una volta ne rimase deluso; di nuovo niente, zero assoluto, solo silenzio proveniva dalla mente della ragazza. Allora espose la seconda opzione:
 
-Oppure troviamo qualcuno da sacrificare e manteniamo il patto-.
 
A quest’affermazione vide loro due sbiancare di nuovo. Lo facevano spesso quando avevano cominciato a sentire il verbo “sacrificare”.
-Siamo ad un punto fermo- convenne Paolo, sedendosi sulla panchina di marmo davanti al quadro della saletta.
-Io avrei un’idea- iniziò Lixa.
 
Manes la scrutò intensamente, in attesa; era indecisa, si mordicchiava il labbro inferiore, non sembrava essere certa nemmeno lei di quello che stava per proporre. L’ombra avrebbe voluto seriamente riuscire a leggerle nel pensiero.
Silenzio.
 
-Che idea?- chiese Paolo, guardandola con uno sguardo speranzoso.
-Ma non credo che vi piacerà-.
-Tu intanto dilla-.
-Poteri essere sacrificata io-.
 
Silenzio di nuovo. Ma stavolta non solo dai pensieri di Lixa, poiché anche nella sua testa c’era il silenzio assoluto. Persino Paolo non disse nulla. Sembrava che il tempo si fosse fermato nel tempo stesso in cui Lixa aveva pronunciato la frase: “Potrei essere sacrificata io”. Persino la chiesa sembrava tacere; era come se quella frase l’avesse urlata e chiunque nel raggio di miglia fosse ammutolito.
 
-Sei impazzita, Lixa?- riuscirono a dire Paolo e Manes.
-No. Io sarei disposta a questo-.
-Saresti disposta?- quando Manes pronunciò questa frase ebbe l’impressione di un deja-vu.
 
Aveva detto quella stessa domanda quando lui e Lixa avevano stretto il patto e quella volta Lixa era stata irremovibile; questa volta Manes avrebbe dovuto impedirlo. “Devo impedirlo!” pensò con vigore.
 
-Sì-.
-Ti rendi conto che questo renderebbe nullo il patto che tu e Manes avete stretto?- chiese Paolo, con gli occhi sorpresi.
-Come?- le difese di Lixa sembrarono improvvisamente intaccate.
-Certo- continuò Manes, che aveva capito ciò che intendeva Paolo –Se tu ti lasciassi sacrificare, io non avrei più motivo di vendicare tuo zio-.
-Ma potresti vendicarlo prima che io venga sacrificata-.
-Non se ne parla. Mi rifiuto di ucciderti- disse Manes, voltandosi verso la polla dell’acqua santiera presente in quella stanza.
-Io avrei un’altra idea- disse Paolo d’improvviso, con lo sguardo che gli si accendeva sul viso.
-Quale?- chiese Manes, senza voltarsi.
-Potreste sacrificare l’uomo che ha ucciso Livio Tosca. Così Lixa avrebbe la sua vendetta e Manes potrebbe tornare tranquillamente nel quadro-.
-Ma non abbiamo ancora trovato quell’uomo-.
-Ve lo volevo dire ieri, ma poi con quella traduzione…-.
 
Manes si voltò e sia lui che Lixa si avvicinarono a Paolo.
 
-Chi è?- chiese la ragazza.
-Si chiama Antonio Cisano. È un imprenditore napoletano che si è appena accaparrato la direzione della Ca’ de Delizie, l’azienda dello zio di Lixa. Corrisponde perfettamente all’uomo che Manes ha visto nei suoi ricordi. Si veste sempre di nero, ha gli occhi verde smeraldo, come l’anello che porta sul medio della mano sinistra e ha la mano più giovane, finta e meccanica perché quand’era giovane sembra che abbia perso quella vera in una battaglia per le vie di Napoli con i fuochi d’artificio-.
-È lui- disse Manes.
 
Ne era sicuro.
 
-Paolo, sei un mito!- gridò Lixa, piena di felicità.
 
Corse ad abbracciare il ragazzo. Un’emozione fortissima investì Manes in pieno; ma non era la sua emozione, bensì quella di Paolo. C’era qualcosa di sbagliato nel provare felicità per aver trovato un uomo che poi sarebbe stato ucciso per vendetta, ma tutte quelle settimane passate a vagare nel nulla sembravano improvvisamente acquistare un senso.
Lasciò soli i due ragazzi, uscì dalla saletta e si avvicinò all’altare. Guardò il quadro dell’Assunta di Tiziano. “Madre” pensò, mentre sfiorava la tela con un dito “Sto per tornare da te”. Anche lui, dopo molto tempo, sorrise.




























Note di Saeko:
siamo giunti finalmente al turning point della storia, in cui i due ragazzi uniscono molti punti del mistero; scoprono l'identità dell'assassino presente nei ricordi di Manes e trovano un modo (forse) concreto per riportare l'ombra nel quadro. Spero di essere riuscita nell'intento di rendere questo capitolo lugubre, come era nelle mie primarie intenzioni. Una piccola "chicca" che posso lasciarvi era che la suspense era stata creata inizialmente da frasi brevissime che però, rileggendo l'intero capitolo, spezzava moltissimo la narrazione e credo fosse sinceramente fastidioso da leggere; mi auguro che questa versione sia più piacevole ma che al tempo stesso non abbia eliminato quel senso di trepidazione che volevo scaturisse dal capitolo. Se ci sono errori o altro, fatemi sapere!

Passo a ringraziare alessandroago_94 per essere passato a commentare anche il precedente capitolo e AuroraDea per avermi inserita negli autori preferiti.

Vi auguro di passare una buona domenica (o quel che ne rimane); bye folks.

Saeko's out!

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Capitolo 12
*** Capitolo 11: Il pedinamento ***


Capitolo 11:
Il pedinamento
 
10 marzo 2002. Piazza della Ferrovia, Hotel “Universo e Nord”. Hall dell’albergo.
 
Antonio Cisano, con una sigaretta tra le dita, un jeans nero, mocassini neri tirati a lucido e maglioncino grigio scuro, era appoggiato su una delle vetrine che di fronte alla sala d’aspetto; la hall era silenziosa e vuota, l’uomo che lavorava solitamente dietro al banco della reception si era allontanato un attimo.
Quando finì la sigaretta Cisano schiacciò la cicca nel posacenere posto accanto a lui, si avvicinò alla porta di vetro automatica, attese che si aprisse e uscì. Arrivò davanti alla scalinata della stazione; erano appena le dieci di mattina ma nonostante ciò era gremita di persone, combriccole, scolaresche in visita e persone anonime, che passavano inosservate.
Si voltò. Un traghetto della linea pubblica era appena arrivato, pronto per andare a Piazza San Marco. Decise di prenderlo repentinamente, fece velocemente il biglietto e riuscì a salire sul battello prima che questo partisse; il viaggio fu abbastanza breve.
Mentre arrivavano in vista di Piazza San Marco, Cisano si sentì osservato. Si guardò in giro; c’erano solo sei persone con lui sul battello: una signora con un piccolo cane dal morbido pelo bianco in grembo, un anziano con la nipote e una comitiva di tre ragazzi, due ragazzi e una ragazza, con un’età che probabilmente andava dai tredici ai quindici anni. Erano ormai tre giorni che aveva deciso di iniziare ad uscire allo scoperto, muovendosi tra le calli di Venezia e facendo in modo che quella città tornasse ad essere sua, come lo era quando andava all’università con Livio; non era la prima volta che gli capitava di scorgere quei ragazzi che erano con lui ora sul traghetto. La ragazza era alta per l’età che dimostrava, aveva i capelli biondo rossicci e gli occhi scuri, uno dei due ragazzi aveva i capelli rossi e gli occhi grigi e l’altro aveva i capelli ricci e neri e gli occhi blu. Portava una fascetta da calciatore blu sulla testa.
Parlavano allegramente, ma qualche volta i loro sguardi indugiavano verso la sua parte. Decise che doveva trattarsi solo di coincidenze, in fondo l’accento puramente veneziano dei tre indicava che abitavano nella città sulla laguna, semplicemente facevano la stessa strada tutti i giorni.
Egli non si sentiva comunque tranquillo, perché quando scese dal battello i ragazzi iniziarono a correre verso di lui, lo superarono e sparirono tra la gente che passeggiava tranquilla per la piazza. Quella era la cosa più strana che gli fosse mai capitata di vedere.
 
***
 
Tre giorni avevano impiegato, per trovare l’albergo, identificare Antonio Cisano, pedinarlo ed escogitare un piano per attirarlo nella chiesa; cosa che non era ancora riuscita ai tre ragazzi che si trovavano sul battello dove era appena salito il signor Cisano, il nuovo direttore della Ca’ de Delizie. Quel giorno Lixa, Paolo e Manes non avevano deciso di seguire l’imprenditore di origine napoletana; dovevano andare semplicemente a Piazza San Marco per cercare alcuni documenti relativi alla Ca’ de Delizie nella Biblioteca Marciana, si erano perciò ritrovati sullo stesso battello quasi per caso.
Per il momento era una fortuna che l’imprenditore napoletano non conoscesse ancora il volto della nipote del suo predecessore alla Ca’ de Delizie; nessuna presentazione ufficiale, niente di niente. Quando avevano visto Cisano salire sul battello erano certamente rimasti di sasso, poiché neanche a volerlo avrebbero potuto incontrarlo così facilmente.
Fecero finta di niente, per non destare sospetti, dato che l’uomo li aveva già scorti un paio di volte negli ultimi tre giorni ed era probabile che li avesse riconosciuti. Per combinazione anche Cisano scese a Piazza San Marco.
I tre ragazzi si guardarono e poi presero la rincorsa, superando il direttore della casa dolciaria che si era voltato a guardarli. Si confusero tra la gente, fecero il giro della piazza e poi arrivarono alla biblioteca. Antonio Cisano era svanito praticamente nel nulla, come un fantasma alla luce del sole.
Una volta dentro l’edificio, iniziarono dunque la loro ricerca; dovevano capire quale fosse il movente che aveva spinto l’amico di vecchia data a uccidere lo zio di Lixa.
 
-Lixa, Manes! Venite a vedere-.
 
Paolo, come al solito, era stato il primo a trovare qualcosa. Eppure era passata appena un’ora da quando erano entrati; il suo strillo di richiamo aveva fatto agitare la bibliotecaria sulla sedia che, per quanto giovane, era particolarmente ligia al dovere, come tutti i veneziani; d’altronde, in biblioteca si sta in silenzio.
La ragazza e l’ombra rimisero a posto i fascicoli che avevano preso e si avvicinarono all’amico, passando proprio davanti a lei, che gettò loro un’occhiataccia degna di un’acida nonnina.
Il ragazzo teneva stretto nella mano destra due articoli di giornale e nella sinistra un grosso fascicolo verde.
 
-Quest’articolo risale a venti anni fa, al 1982. C’è appena un trafiletto che parla di un piccolo imprenditore di origini campane, Antonio Cisano appunto- iniziò a dire Paolo, abbassando di colpo la voce –che, sembra, finanziò il primo negozietto che vendeva i dolci della Ca’ de Delizie. Inoltre l’articolo dice che il signor Cisano e il signor Tosca erano vecchi amici d’infanzia-.
 
Lixa strappò di mano al ragazzo il pezzo di giornale. Fissò la foto di suo zio trentenne davanti al primo piccolo negozio, più simile ad un buco, che sorrideva. Indugiò un attimo sull’immagine prima d individuare una persona affacciata alla vetrina: vi riconobbe Antonio Cisano, anch’egli di vent’anni più giovane; anche in quella foto era vestito di nero, esattamente come in tempi odierni, mentre il signor Livio portava degli abiti color panna e il suo sguardo era rivolto dritto dritto nell’obiettivo. Il suo amico dentro al negozio era invece di profilo rispetto alla macchinetta fotografica e guardava appena verso la posizione del fotografo. I suoi occhi verdi si confondevano con quelli che erano gli antenati degli spumoni al pistacchio, che una volta non avevano la morfologia di una meringa ma erano bensì liquidi, come se fossero stati sorbetti.
 
-Ma se erano stati amici d’infanzia- disse la ragazza con gli occhi lucidi di rabbia –Perché l’ha ucciso?-.
-Per sapere questo forse è meglio che guardi l’altro articolo- disse Manes guardando Paolo.
 
Come al solito l’ombra aveva anticipato i suoi pensieri. Lixa tese la mano per prendere il fascicolo verde che l’amico teneva sottobraccio.
Il fascicolo conteneva diversi articoli e trafiletti di giornale; il primo che Lixa vide risaliva a dieci anni prima, quindi esattamente dieci anni dopo la fondazione della Ca’ de Delizie. Ma per la maggior parte vi erano, in quel primo foglio contenuto nel fascicolo, pubblicità di detersivi, cibi e c’era anche un inserto che offriva un lavoro. L’articolo di cui parlavano Paolo e Manes era solo un piccolo trafiletto, senza foto e con un titolo minuscolo.
Era un riassunto di ciò che era accaduto una decina di anni prima, nel 1992: Antonio Cisano, visto da alcuni gondolieri, aveva cercato dar fuoco al negozio, che si sarebbe dovuto trasferire il giorno dopo alla data di pubblicazione dell’articolo in quella che sarebbe diventata l’ubicazione definitiva dell’azienda.
Cisano aveva poi accusato Tosca di avergli letteralmente rubato la metà dei guadagni della produzione dolciaria. Accusava lo zio di Lixa di avergli “rubato” persino l’idea di aprire un’azienda dolciaria di alto livello; Antonio Cisano era stato poi rispedito a Napoli due giorni dopo, poiché mancavano delle prove vere e proprie che confermassero la sua azione dolosa ai danni della Ca’ de Delizie. Livio Tosca non aveva dichiarato nulla se non di non aver mai pensato di essere tradito da un suo amico.
Quando finì di leggere, Lixa guardò prima Paolo e poi Manes. Si soffermò su quest’ultimo. “Lui saprà già il contenuto dell’articolo. Lo ha sicuramente letto nella mente di Paolo. Come posso chiedergli di continuare a vendicare mio zio dopo questo?”.
Manes si avvicinò e poi l’abbracciò.
 
-Vendicherò comunque tuo zio- le disse all’orecchio.
-Come puoi continuare a farlo?-.
-Diciamo che i tuoi occhi erano molto espressivi- disse l’ombra –Nonostante la tua mente rimanga, diciamo, “muta” alla mia, poco fa i tuoi occhi erano dannatamente espressivi. Diciamo che ho capito la tua domanda implicita-.
-Quindi il patto rimane valido?-.
-Sì- confermò Manes, sciogliendo l’abbraccio.
 
Aveva avvertito una punta di gelosia nei pensieri di Paolo e non voleva disturbare l’amico.
 
-E poi- aggiunse –Io non tornerei da mia madre, se sciogliessimo il patto, no?-.
-Ma potrei continuare a…- provò a dire Lixa ma Manes la interruppe.
-No, no! Io posso contare sul fatto che tu mi aiuterai a entrare nel quadro solo se manteniamo il patto-.
 
Lo sguardo azzurrodorato dell’ombra bloccò la ragazza, che stava per ribattere.
 
-Ma ora credo che Paolo debba farci vedere qualcos’altro- disse poi.
 
“Ha intercettato di nuovo i miei pensieri” pensò il ragazzo, arrossendo; si sentiva un po’ spiato in presenza di Manes. O forse, semplicemente, non sopportava la confidenza che avevano lui e Lixa.
Poi si sedettero su una scrivania che si trovava lì vicino e Paolo mostrò il resto del contenuto del fascicolo verde.
 
-I due articoli che avete visto sono dello stesso autore. Si chiama Mirco Lostello. Questo fascicolo parla di lui, di come s’interessò alla storia della Ca’ de Delizie e particolarmente al tentato incendio della Ca’ de Delizie e di come i suoi articoli in merito furono presi in poca considerazione. Alcuni non superarono neanche la censura. Comunque, dieci anni fa, questo Mirco aveva trentacinque anni. Ora ne ha quarantacinque e vive a Burano. Nel suo ultimo articolo, cinque anni fa, parlava del deperimento del “buco” che era stato la prima sede della Ca’ de Delizie. Racconta che quel posto è stato bruciato sette volte in tre anni e che quindi è stato reso inagibile per i vari incendi. Eppure- Paolo rovistò tra alcuni fogli nella cartellina verde e ne tirò fuori uno ingiallito dal tempo –Alcune ricerche di Lostello dimostrano che Antonio Cisano non si trovava a Venezia in quel periodo, ma che era partito per andare in America. Poi c’è qualcosa che non quadra- aggiunse dopo una pausa.
-Che cosa?- chiese Lixa.
-Ci sono dei fogli che sono di qualche mese fa, più precisamente del luglio 2001. Sono semplici appunti, nei quali il signor Lostello dice che Antonio Cisano è tornato dall’America il 15 luglio 2001, che ha venduto la casa che aveva vicino al porto di Napoli, chiuso il piccolo negozio di ferramenta di suo padre e che poi ha comprato, il 28 agosto 2001, una casa a Murano. Ma tra questi nuovi appunti e gli ultimi scritti c’è una distanza di cinque anni-.
-Beh, forse- disse Manes –Mirco Lostello ha sempre mantenuto i suoi contatti per le sue ricerche, nonostante siano passati cinque anni e abbia smesso di scrivere per il giornale-.
-Sì, questo è molto probabile- convenne Paolo –Però forse sarebbe meglio parlare con il signor Lostello-.
-Potremmo andare domani- propose l’ombra.
-No, io non posso- disse Lixa d’improvviso.
 
Sia Manes che Paolo la guardarono sorpresi.
 
-Mi sono dimenticata di dirvi che domani, all’ora di pranzo, parto-.
-Per dove?- ragazzo e ombra avevano chiesto all’unisono.
-Per Aosta. Vado lì in campo scuola. Sto via cinque giorni. Torno il 16. Ho dimenticato di dirvelo-.
-Non fa nulla- disse Manes.
 
“Come sarebbe a dire che non fa nulla?” chiese Paolo. Lo aveva pensato volontariamente per chiedere una domanda a Manes, una muta domanda che necessitava di risposta. L’ombra fu brava a mascherare la risposta, perché disse, mentre fissava Paolo:
 
-In fondo abbiamo tutti bisogno di staccare un attimo da questa faccenda. Lixa, hai bisogno di riposo. E anche tu Paolo. Io non ne necessito quanto voi dal punto di vista fisico, ma devo riposare la mente. Sappiamo dove si trova Antonio Cisano, dove si trova Mirco Lostello e il movente che ha indotto Cisano a uccidere Livio Tosca-.
 
Manes fu inamovibile sulla sua decisione, ma in realtà non ci fu molto bisogno di essere ostinati. Erano tutti e tre stanchi e decisero che sarebbero andati dal signor Lostello quando Lixa fosse tornata dal suo viaggio scolastico.
Così uscirono dalla Biblioteca Marciana; fuori c’era la signora Laura, la vicina di Lixa, che aspettava la ragazza.
Mentre le due donne si avviavano verso il Ponte dei Sospiri, Manes e Paolo salivano sul traghetto che li avrebbe riportati verso il Piazzale della Ferrovia e da lì alla Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari.
























Note di Saeko:
dopo una settimana per me estremamente pesantuccia (nonostante il lockdown sto continuando a lavorare da casa) sono riuscita a revisionare anche questo capitolo; anche se il titolo è "Il pedinamento", in realtà non c'è racconto del vero e proprio pedinamento da parte dei ragazzi nei confronti di Antonio Cisano. Spero comunque che sia risultato di vostro gradimento e che il testo non presenti errori.
Un ringraziamento speciale ad alessandroago_94 e a Miryel per essere passati a leggermi e recensirmi.
Grazie a chiunque mi abbia sopportato sino a qui e, beh, ci si vede domenica.

Saeko's out!

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Capitolo 13
*** Capitolo 12: La perlina lavorata ***


Capitolo 12:
La perlina lavorata
 
17 marzo 2002. Isola di Burano, Venezia.
 
La mattinata, già trascorsa, aveva lasciato un filo di umidità; Burano era una graziosa isoletta, che però, come tutti i luoghi di Venezia, aveva il difetto della troppa presenza di acqua nell’aria, di quell’atmosfera quasi asfittica dei luoghi aperti ma strapieni di umidità.
A Burano quel giorno comunque, dopo l’ora di pranzo, sembrava che avesse appena piovuto; la casa di Mirco Lostello era proprio nel centro dell’isola, tra le vie principali, accanto ad una piccola parrocchia. L’entrata dell’edificio, una piccola casa bifamiliare, era affacciata su un piccolo giardino.
Quando Manes, Paolo e Lixa arrivarono a quel piccolo spazio verde erano da poco scattate le due, la campana della parrocchia suonava, ma faceva ugualmente un caldo umido e insopportabile; sembrava che il mese fosse quello di giugno e non quello di marzo.
Trovarono subito la casa del signor Lostello. Non era un semplice condominio come le nuove case che c’erano a Venezia, ma bensì una piccola villetta a un piano, in stile inglese, una bifamiliare, appunto. Il nome del suo padrone era scritto in maniera appena accennata accanto al citofono con il tratto di un pennarello indelebile.
Manes suonò: rispose una voce registrata e poco dopo il cancello si aprì, in maniera decisamente sinistra. I tre amici, dopo essersi guardati incerti sul da farsi, entrarono. C’era qualcosa di strano nell’aria, come se fosse successo qualcosa che loro certamente non si aspettavano. C’era un registratore installato anche nel citofono della porta: la voce ripartì e poco dopo s’inceppò.
La porta di casa era già aperta; la vernice bianca che una volta la ricopriva era quasi scrostata del tutto. Prima di entrare Lixa fermò Paolo e Manes.
 
-Che c’è, Lixa?- chiese Paolo.
 
La ragazza aveva lo sguardo fisso sulla serratura della porta. La indicò senza dire nulla; sia l’ombra che il ragazzo guardarono la toppa. Paolo si avvicinò e notò segni di scasso.
 
-Questa porta è stata scassinata- affermò il ragazzo.
 
“Ciò vuol dire che qualcuno è arrivato prima di noi” pensò Manes.
 
-Lixa- disse poi.
 
La ragazza si voltò e incontrò gli occhi azzurri, modificati dalle lenti a contatto che gli avevano messo.
 
-Che c’è, Manes?-.
 
Il tono della ragazza era stranamente calmo, in contrasto con il suo viso teso.
 
-È meglio se tu rimani qui-.
-E perché dovrei?-.
-Non sento arrivare vita da dietro la porta- disse Manes, sincero –E due sono le ipotesi: o che Mirco Lostello sia morto o che sia stato rapito. Non voglio che tu assista-.
-Non senti pulsare un cuore?- chiese Paolo.
-No. Ma ho la sensazione che qui una volta ci fosse vita- continuò Manes, riconoscendo lo strano sentore che gli procurava rimanere accanto alla tomba di Tiziano e a quella di Canova –Qui c’era un cuore che batteva. Ma ora non batte più. Da almeno due giorni-.
-Come fai ad esserne sicuro?- chiese Lixa.
-Perché il residuo dei battiti è ancora presente-.
 
Detto questo si voltò verso Paolo e gli disse:
 
-Rimanete qui fuori. Non vi permetto di entrare-.
 
Si mise davanti alla porta.
 
-D’accordo, Manes- dissero infine Lixa e Paolo.
 
Manes sospirò ed entrò. Dentro la casa c’era un odore che riusciva ad identificare benissimo grazie ai suoi ricordi: odore di morte; inoltre la casa era sotto sopra. “Qualcuno ha ucciso Lostello e poi ha cercato qualcosa”.
Arrivò in camera da pranzo e l’odore si fece più forte. Dietro al tavolo intravedeva del sangue allargatosi in una pozza informe; l’odore metallico gli diede fastidio alle narici, perciò non resistette e uscì fuori dalla stanza. Lì c’era il cadavere di Mirco Lostello.
Trattenne per un attimo l’impulso di fuggire via; ma doveva rimanere per due motivi precisi. Primo: doveva abituarsi, se il suo destino si fosse rivelato essere quello di uccidere Antonio Cisano; secondo poi doveva trovare qualcosa che magari l’assassino di Mirco Lostello non aveva trovato.
Esplorò le altre stanze. Anche queste erano state setacciate accuratamente, tutte; tranne una: c’era un ultima porta in fondo al corridoio, chiusa a chiave. Anche questa riportava tentativi di scasso, che però non erano andati a buon fine. Pensò che lui poteva passare oltre le porte e i muri, quando era sotto forma di ombra.
Così chiuse gli occhi e poco dopo sentì il suo corpo diventare più leggero. Mosse un passo nell’aria e passò attraverso la porta. Si ritrovò davanti una libreria stracolma di libri e ad una piccola scrivania con un computer portatile di forma quadrata. Sotto la scrivania c’era un cassetto. Tornò umano.
“Ora posso muovermi meglio” pensò. Doveva ammettere che essere umano lo aiutava; probabilmente si era abituato a quella forma, molto più che a quella di ombra. Aprì il cassetto.
Dentro c’erano, disposte in modo ordinato, alcune cose: un astuccio di stoffa nera, una cartellina azzurra, un diario e una cassetta. Prese la cartellina e al suo interno vi trovò le ultime ricerche di Mirco Lostello.
Poi afferrò il diario, che era coperto di pelle marrone e aveva un lucchetto che lo chiudeva. Stava pensando a come aprirlo quando un urlo improvviso lo colse di sorpresa. Un urlo di paura, di orrore. Avvertì immediatamente i pensieri di Paolo: capì che aveva cercato di trattenere Lixa, ma lei alla fine era entrata, lui l’aveva seguita, per poi non provare altro che sgomento davanti al cadavere di Mirco Lostello.
Ma c’era qualcos’altro che aveva sorpreso Manes: avvertiva anche un’altra corrente di emozioni, proveniente da qualcuno che si trovava vicino a Paolo, da una mente che gli era sempre rimasta muta, almeno sino a quel momento.
Prese al volo astuccio, diario, cartellina e cassetta e andò addosso alla porta. Si era dimenticato che in quel momento non era ombra, ma non importò perché la sfondò con una forza che non credeva di avere. Arrivò in sala da pranzo, dove vide Paolo e Lixa dietro al tavolo. Manes non fece più caso all’odore del sangue, fece il giro del mobile e si ritrovò accanto a i due ragazzi. Lanciò appena un’occhiata al cadavere dell’ex-giornalista e invece fissò Lixa. Il suo volto era rigato di lacrime. La ragazza si girò a guardarlo. Una voce femminile, rotta e spaventata raggiunse la sua mente.
“Manes”. Il suo pensiero era chiaro. Da quel momento avrebbe potuto sentire la sua mente.
 
***
 
Due ore dopo, la polizia era ormai giunta a casa di Lostello e aveva portato via il corpo, dopo aver fatto tutti i rilievi del caso. A Manes, Lixa e Paolo erano state date alcune coperte (nonostante facesse caldo, i tre avevano i brividi) e fatte alcune domande sul perché si trovassero lì. Dissero che il signor Lostello era un vecchio amico dello zio di Lixa e che erano venuti a trovarlo, dopodiché furono lasciati andare.
Ripresero in silenzio il battello che li aveva portati lì; non dissero una parola per tutto il tragitto. Una volta arrivati al Piazzale della Ferrovia, si avviarono verso la basilica. Arrivarono davanti al portone.
 
-Forse è meglio se ci vediamo domani- disse Manes, guardando il cielo.
 
Il sole era già tramontato, anche se nel cielo era rimasta visibile una leggera sfumatura rosata sul blu scuro della notte.
 
-Hai ragione- convenne Paolo, voltandosi a guardare Lixa –È stato un lungo pomeriggio per tutti-.
-Sì- continuò Manes –E poi domani ho delle cose da farvi vedere-.
-Quello che hai trovato nella stanza in fondo al corridoio?- chiese Lixa.
 
“Acuta la ragazza” pensò Manes.
 
-Sì-.
-Allora dobbiamo vederle stasera-.
-No, Lixa- intervenne Paolo al posto di Manes –Siamo tutti scossi. Non va bene continuare. Domattina è domenica. A mente fresca potremmo riflettere meglio-.
 
“Che carino, si preoccupa per me”. Il pensiero di Lixa raggiunse la mente dell’ombra; Manes si stupiva ancora di quanto fosse ovattata la voce dei pensieri della ragazza. Guardandola, si accorse che era arrossita; allo stesso modo anche le guance di Paolo si erano colorite. Due pensieri arrivarono alla sua mente insieme, come due voci che parlavano all’unisono: “Se solo fossimo soli”. Capì subito cosa stesse succedendo.
 
-Beh, io intanto entro- disse e poi non diede il tempo ai due ragazzi di rispondere, perché diventò ombra ed entrò nella chiesa.
 
Non ebbe bisogno di guardare i due ragazzi che si avvicinavano pian piano, che si sorridevano, che si baciavano. Il campanile guardava al suo posto e scolpiva nella sua memoria l’immagine e il sentimento di immensa felicità che entrambi provavano, nel buio della morte che li aveva accolti quel giorno.
 
***
 
Il giorno seguente Lixa si svegliò bene, come non succedeva da molto tempo, con la mente leggera e il sorriso sulle labbra. Sarebbe andata alla messa mattutina e poi avrebbe incontrato Manes e Paolo; la sensazione delle loro bacio, un semplice sfiorarsi di labbra, le era rimasta impressa nella mente e non se ne andava. Si vestì con un bel maglioncino verde speranza e un paio di jeans scoloriti. Prese la giacca a vento, si infilò gli stivali e uscì.
L’aria era frizzante, ma c’era un caldo sole primaverile ad abbellire tutto. Arrivò alla chiesa assieme alla signora Laura e, per la prima volta dopo quasi tre mesi, stette tranquilla a seguire la messa, senza congiungere le mani e pregare a labbra strette – senza calcolare quell’unica volta in cui aveva sentito frate Lazzaro dire il sermone. Avvertì per la prima volta la bellezza oscura di quella chiesa.
Pose lo sguardo sul quadro dell’Assunta di Tiziano e su quell’angioletto che mancava all’appello. Intravide due occhi d’oro che la guardavano dal profondo della cappella dell’altare. Sorrise.
 
***
 
La messa finì presto e Manes era ancora sotto forma di ombra. Attese che Lixa si avvicinasse a Paolo e lo salutasse con un bacio veloce sulle labbra. Solo dopo si avvicinò anche lui; mostrò i suoi d’oro e i due ragazzi smisero di sorridersi, come se fossero stati colti in flagrante a fare qualcosa che non avrebbero dovuto fare.
Fece loro segno di andare verso le colonne; in quel momento i fedeli stavano uscendo e nessuno avrebbe notato due ragazzi che si fermavano un attimo a parlarsi accanto alle colonne; in realtà dietro le schiene di Paolo e Lixa, Manes sarebbe diventato il ragazzo di sempre.
Paolo e Lixa controllarono in giro e poi si misero a parlare un pochino ad alta voce. Lixa aveva notato infatti che da un po’ di tempo, durante la sua trasformazione, si sentivano una serie di schiocchi improvvisi, come se man mano la transizione da ombra a ragazzo stesse diventando più complicata. Manes non li aveva mai avvertiti e, per quanto ne sapesse, non li aveva mai riprodotti neanche durante le sue prime trasformazioni.
Ma non importava; ciò non cambiava quello che era e a cosa stesse mirando; quando si addormentava tornava ad essere ombra e ogni volta che era ombra vedeva il buco nero al posto dell’Assunta, era in grado di passare attraverso i muri e nascondersi nelle ombre degli oggetti e delle persone.
Una volta trasformatosi fece finta di arrivare dai suoi due amici dietro le spalle e di coglierli di sorpresa, come da copione. Lixa e Paolo si voltarono, gli sorrisero e lo salutarono. Poi, come se quella chiesa fosse un normale pub, si spostarono dalla sala principale e arrivarono alla sala del Capitolo.
Si sedettero in un angoletto e Manes guardò negli occhi di Lixa. Il color cioccolato di quei due occhi lo fecero sciogliere. Avvertì nei pensieri della ragazza una muta domanda.
 
-Prima di dirvi cosa ho trovato nello studio di Mirco Lostello- iniziò –C’è una cosa che Lixa deve sapere-.
-Cosa?- chiese la ragazza.
-Dopo che tu hai visto il cadavere del signor Lostello… io ho avvertito i tuoi pensieri-.
-I miei pensieri?-.
 
Lixa strabuzzò gli occhi, per la sorpresa.
 
-Sì. Ora posso sentirli-.
-Ma come è possibile?- fece poi la ragazza, più sorpresa che mai.
 
“Forse ho capito”. Il pensiero di Paolo raggiunse Manes, che si voltò a guardarlo. Lasciò che fosse il ragazzo a fare la domanda.
 
-Lixa- disse Paolo –Tu, per caso, hai visto il cadavere di tuo zio?-.
-Sì. Me lo hanno fatto vedere per forza. Prima all’obitorio per riconoscerlo e poi al funerale. Perché?-.
-Dev’essere stato in quel momento che i tuoi pensieri si sono chiusi, di conseguenza Manes non poteva leggerli. Forse li hai inconsciamente chiusi di proposito per attirare l’attenzione di qualcuno che ti aiutasse a vendicarti, ma non è detto. Tuttavia, davanti al cadavere del signor Lostello, la tua mente non deve aver retto e i tuoi pensieri si sono schiusi. E quindi Manes ora può percepirli-.
-Ma perché non me l’hai detto prima??- fece Lixa a Manes.
-Perché ieri avevate bisogno di non avere preoccupazioni- disse l’ombra fissandola ancora una volta negli occhi.
 
Lixa abbassò lo sguardo e arrossì. Manes avvertì che anche Paolo si era imbarazzato e che aveva abbassato lo sguardo.
 
-Comunque, andando avanti- Paolo ruppe il silenzio –Cosa hai trovato, Manes?-.
-Ah, sì-.
 
Manes si alzò e andò a prendere il materiale, che aveva nascosto la sera prima dietro alla piccola bara di marmo con sotto le iscrizioni in latino.
 
-Un astuccio, un diario, una cartellina e una cassetta- elencò Lixa, guardando gli oggetti.
-Sì- convenne Manes –Non ancora aperto nulla-.
-Io inizierei con l’astuccio e il diario, poi con il fascicolo e infine andiamo alla sala video della Biblioteca Marciana e vediamo la cassetta-.
-Sono d’accordo- dissero Lixa e Manes all’unisono.
 
Allora il ragazzo prese in mano l’astuccio e lo aprì. Dentro c’erano una penna stilografica dalla forma strana (sulla cima c’era una specie di ghirigoro simile a quello delle chiavi) e un braccialetto di perline lavorate a mano.
 
-Ma quello è il braccialetto di mia madre!- esclamò Lixa.
-Come, il braccialetto di tua madre?-.
-Sì. Lo aveva sempre avuto, almeno fino a quando è morta. Poi se n’era preso cura mio zio. L’ho cercato per un sacco di tempo da quando è morto. Perché lo aveva Mirco Lostello?-.
-Ora lo scopriremo- disse Manes.
 
Aveva in mano la stilografica e aveva smontato lo strano ghirigoro dalla cima, rivelando una piccola chiave. La confrontarono con la serratura del lucchetto del diario di Lostello: combaciava perfettamente. Aprirono il diario di pelle e scorsero le prime pagine. Era un Mirco Lostello appena divenuto giornalista quello che scriveva in quei primi fogli ingialliti dal tempo. Parlava delle sue prime esperienze, dei suoi primi articoli. Poi, andando avanti, menzionava un caso che lo aveva interessato molto; scoprirono che era un conoscente di Livio Tosca dai tempi dell’università e che era proprio il suo caso che lo aveva interessato. Parlava dei progressi delle sue ricerche, della crescita della Ca’ de Delizie, dell’incendio del primo negozio, di Antonio Cisano e dei suoi probabili coinvolgimenti con la criminalità organizzata, fino ad arrivare all’omicidio e al funerale dello zio di Lixa. E qui lessero qualcosa d’interessante, qualcosa che riguardava il braccialetto di perline.
“… mentre il prete dava l’estrema unzione a Livio, ho stretto tra le mani il braccialetto che mi ha dato sei giorni fa. Me lo ha affidato per scaramanzia. Ricordo benissimo cosa mi ha detto: ‘non voglio preoccupare Lixa, quindi prendi tu il bracciale di mia sorella. In caso, dallo a mia nipote’. Mi ha detto che quel braccialetto è nella famiglia Tosca da secoli ed è molto importante. Guardandolo meglio, adesso, ho notato che il tempo ha roso alcune perline perline lavorate, facendone perdere la decorazione che rende il braccialetto estremamente prezioso. Ne ho trovata una falsa nella chiusura che va sul polso. L’altra, quella vera, deve essere andata perduta. Suppongo che abbia un qualche valore di casata. In fondo la famiglia dei Tosca è molto antica, qui a Venezia. Ho scoperto che i loro antenati sono arrivati qui nel 1229 circa e si chiamavano Tosciani, proprio perché sono di origine toscana. Poi nel 1500 hanno assunto il nome di Toschesi e che questo braccialetto è sopravvissuto alla peste del 1576. È incredibile quanto la loro storia sia radicata nel tempo”.
Qui finiva il paragrafo che parlava dei Tosca e del braccialetto; poi Lostello riprendeva con la descrizione del funerale. Si arrivava infine ai giorni che precedevano la sua morte: quelle ultime pagine erano piene d’angoscia e parlavano sempre più spesso di Antonio Cisano.
Sembrava che Mirco Lostello sentisse che sarebbe stato ucciso di lì a poco proprio dall’imprenditore napoletano o da chi per lui. L’ultima frase dell’ultima pagina diceva: “Queste pagine rimarranno nascoste nel cassetto della mia scrivania, perché ho la sensazione che Cisano possa arrivare da un momento all’altro e, purtroppo, io non posso fuggire, non ora, dato che non ho un vero posto dove stare, oltre alla casa che ho comprato e amato attraverso i sacrifici di una vita; la mia ora sta per giungere”.
La data di quella frase risaliva al 14 marzo 2002. Quattro giorni prima.
 
-Ma quindi è stato Antonio Cisano?- fece Paolo.
-Penso di sì- rispose Manes –Ormai non c’è alcun dubbio. Dobbiamo fare in modo di nascondere bene questo materiale. La polizia non deve trovarlo-.
-Perché?- chiese il ragazzo.
-Perché se lo trovasse- questa volta fu Lixa a rispondergli –Manes non potrebbe più uccidere Antonio Cisano e il patto sarebbe nullo-.
-Ah, è vero-.
 
Paolo si passò una mano tra i capelli rossi. Poi prese il diario e lo richiuse, prese la cassetta, il fascicolo, mise la penna-chiave dentro l’astuccio e richiuse anche quello; poi si fece scivolare il bracciale dei Tosca in tasca e andò verso la sala principale, dicendo ai compagni di seguirlo. Arrivarono alla cappella di Monteverdi: aprirono il cancello ed entrarono. Poi Paolo tirò fuori da sotto la maglia le chiavi dell’urna dei ricordi, che aprì con mano tremante; dentro ci avevano rimesso l’Interdictae Artis Membrana, assieme alla sua traduzione fatta da Frate Ballon. Paolo ci mise dentro anche i quattro oggetti e poi richiuse l’urna. Infine si voltò verso Manes e Lixa.
 
-Ora ho nascosto questa roba qui. È il posto più sicuro che abbiamo. Nessuno potrà mai venire a guardare nell’urna dei ricordi dei familiari e dei discendenti di un musicista defunto. Se mai la polizia dovesse arrivare qui… nella sala del Capitolo e nelle altre sale, non troverebbe nulla di compromettente-.
-L’importante è quella chiave rimanga sempre appesa al tuo collo- disse Manes, indicando la chiave con il rubino e lo smeraldo appesa alla catenella d’argento che Paolo portava al collo.
-Ovviamente-.
 
“Quella di Paolo è stata un’ottima idea” pensò Lixa.
 
-Concordo con te, Lixa- convenne Manes, senza accorgersi che stava rispondendo ad alta voce al suo pensiero –Paolo ha fatto veramente un ottimo lavoro-.
 
Lixa arrossì e Paolo si voltò a guardare prima lei e dopo l’ombra, un po’ in imbarazzo anche lui.
 
-Oh, scusa!- fece Manes, intercettando i loro pensieri –Sembrava che avessi parlato! Dunque, ora me ne vado. Devo sistemare alcune cose… con i fascicoli sul caso Tosca e Cisano che ho trovato alla Biblioteca Marciana- e così Manes si allontanò velocemente, lasciando i due ragazzi (entrambi sedicenni da poco) immersi nel loro imbarazzo.
 
Passò di fronte al quadro dell’Assunta e si fermò. Ormai aveva imparato la posizione di ogni singolo particolare dei quel quadro.
 
-Ti raggiungerò. Madre, presto tornerò- mormorò, prima di diventare, inconsapevolmente, ombra.
 
***
 
Lixa osservò Manes che si allontanava. Era grata all’amico, perché l’aveva lasciata sola con Paolo. Sorrise.
 
-Ecco, vorrei che sorridessi sempre in questo modo dolce- disse la voce di Paolo, con tono di scherno. Lixa , dicendo:
-Smettila-.
-Ma è vero!-.
-Già. In effetti non voglio che tu smetta-.
 
I loro volti erano già molto vicini. Paolo la prese per un fianco per avvicinarla ancora di più a sé, i loro volti si avvicinarono dunque ancora di più e Lixa si alzò in punta di piedi. Si baciarono dolcemente, accarezzandosi rispettivamente i volti, assaporandosi come solo gli adolescenti sanno fare, persi in intimità nuove di cui non hanno mai avuto sentore.
Una voce interruppe il loro gran daffare, imbarazzandoli ancora di più: era sorella Marta che cercava Federico. Non si era accorta che dentro la cappella del Monteverdi c’erano Paolo e Lixa.
I due ragazzi arrossirono violentemente, per poi uscirono frettolosamente dalla cappella e andarono fuori, nella piazzetta del Campo dei Frari.
 
-Lixa, questo penso che dovresti riprenderlo tu- disse Paolo, tirando fuori dalla tasca il braccialetto di perline e porgendolo alla ragazza. Lixa lo prese dolcemente dalle mani di Paolo e lo sfiorò, come si sfiora un vecchio ricordo.
 
-Sono contenta di riavere il braccialetto della nostra famiglia-.
-Sapevo che ne saresti stata felice-.
 
Si sorrisero. Il ragazzo l’aiutò ad allacciarsi l’antico gioiello ed entrambi notarono che Mirco Lostello aveva visto giusto: l’ultima perlina che chiudeva il bracciale era di plastica ingiallita, invece che di avorio.
Stavano per baciarsi di nuovo, quando una voce li fece sobbalzare nuovamente.
 
-Paolo! Smettila di fare il piccioncino! Sorella Vanessa e Frate Ballon hanno bisogno di me e te per sistemare la cappella dell’altare!-.
 
Federico era un buon amico del ragazzo, ma ultimamente era diventato piuttosto insopportabile, sia perché non vedeva di buon occhio Manes, sia perché nessuna ragazza lo aveva mai accettato veramente e dunque era invidioso della fortuna di Paolo; inoltre, provava una certa gelosia nei confronti di Lixa, poiché sino a quel momento il suo universo era composto solo dai frati e dalle suore della chiesa e da lui e il suo amico; era difficile accettare la venuta di nuove persone nel suo fragile mondo.
Paolo diede un bacio veloce sulla guancia di Lixa e fuggì via, alla malandrina. Lixa si passò una mano sul punto dove il ragazzo aveva posato le labbra, con fare assente; poi si voltò e si avviò verso casa.
Ma prima di arrivare al ponticello che collegava il Campo dei Frari al resto di Venezia, notò qualcosa di bianco tra i sampietrini del calle. Si fermò e lo raccolse. Era una perlina lavorata, esattamente identica a quelle che componevano il suo bracciale di famiglia; una microscopica macchiolina rossa, di sangue rappreso, sporcava la perlina da un lato. Era evidentemente quella la perlina mancante del suo braccialetto, quella che in quel momento era sostituita da quella di plastica.
“E se il sangue fosse di zio Livio?” pensò, rabbrividendo; in fondo, se ricordava bene, i rilievi erano stati fatti proprio in quel punto.
Strinse quella perlina nel pugno della mano, improvvisamente livida di dolore e rabbia; alzò lo sguardo verso il cielo: nonostante fosse appena l’ora di pranzo, un nuvolone primaverile si era addensato proprio sopra la chiesa.
Una piccola goccia di pioggia, l’unica di quella giornata, scese dal cielo e cadde sul naso della ragazza. Senza sapere perché, a Lixa parve di aver già vissuto quella scena.















Note di Saeko
è domenica e giustamente è il momento per me di un nuovo capitolo; dopo di questo, prevedo altri cinque capitoli e un prologo di chiusura della storia, per cui stay tuned. In questo in particolare, avevo necessita di recuperare l'atmosfera noir che volevo dare al racconto, per cui l'introduzione di un personaggio, ahimé già morto ormai, era necessaria; sono finalmente riuscita a trovare una collocazione sia al braccialetto che alla perlina che si nominano tanto al prologo che al primo capitolo di questa storia e ho inserito un piccolo cenno storico alla famiglia dei Tosca; in merito a questo, volevo avvertire che si tratta di una rielaborazione di notizie di altre famiglie veneziane, che però ho voluto adottare per dare un minimo di lignaggio e continuità alla storia della famiglia.

Per i ringraziamenti, devo assolutamente ringraziare alessandroago_94 per essere passato a recensire lo scorso capitolo e soprattutto Nexys, per aver deciso di leggere questa piccola grande avventura che risale alla mia adolescenza (lei che normalmente non legge originali, arigatou).

Grazie per avermi sopportata sino a qui e ancora buona domenica.

Saeko's out!

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Capitolo 14
*** Capitolo 13: La lettera maledetta ***


Capitolo 13:
La lettera maledetta
 
23 marzo 2002. Venezia, passaggio sotto la Torre dell’Orologio, Piazza San Marco.
 
Antonio Cisano attendeva una persona che aveva pagato per un lavoro: un lavoro molto importante, che prevedeva il tagliare i ponti con il suo passato di Venezia, ovvero eliminare tutti i documenti che lo riguardassero e le persone che lo conoscessero.
Fortunatamente queste ultime erano assai poche: sua madre, che ormai era talmente vecchia e affetta da demenza senile, da essersi persino dimenticata di avere un figlio; Livio Tosca, già eliminato; infine Mirco Lostello, il giornalista che si era interessato alla nascita della Ca’ de Delizie, nonché ex conoscente dei tempi dell’università, sia di lui che di Livio Tosca.
Aveva parlato qualche volta con quell’uomo e aveva provato a servirsene per far crollare il successo di Tosca, cosa che però non aveva funzionato e che anzi, gli si era quasi ritorta contro.
Un gruppo di ragazzini gli passò davanti, inseguiti dai genitori. Era domenica, era una cosa normale.
Cisano guardò nervosamente l’orologio: mezzogiorno meno un minuto. Si era accordato con quel sicario, Salvio Mortarelli, per incontrarsi sotto al passaggio della Torre dell’Orologio al suono delle campane di mezzogiorno; dovevano far finta di essere vecchi amici e andare prima in un bar e dopo prendere il traghetto e arrivare a Murano.
Già quel fatto lo rendeva nervoso, poiché avrebbe preferito che il sicario fosse venuto direttamente alla sua casa a Murano, ma purtroppo la polizia aveva sguinzagliato i suoi scagnozzi per pedinare e controllare chiunque fosse coinvolto con il caso Tosca, lui compreso, visto che aveva acquisito l’azienda da veramente troppo poco tempo per non destare sospetti. Quella del “incontro un vecchio amico, andiamo in un bar e poi a casa mia” era una strategia per sviare qualsiasi sospetto potesse nascere.
Le campane iniziarono a suonare. La miriade di turisti (che andavano dai giapponesi agli inglesi, fino ad arrivare ai francesi e ai tedeschi, ma anche agli italiani) si voltò a guardare la Torre dell’Orologio; le varie guide turistiche cominciarono a spiegare nello stesso momento, nelle varie lingue, come funzionasse il meccanismo, con i segni dello zodiaco, e quale fosse la serie di rotelle che metteva in moto le statue di bronzo che battevano i colpi sulle campane.
In quel momento nel passaggio della torre entrò un tizio vestito con una giacca a vento bianca e gialla, un sigaro in bocca e i capelli bianchicci. Si avvicinò a Cisano. Gli sorrise e disse:
 
-Antonio! Eccoti! Ti aspettavo fuori dal passaggio!-.
 
“Tutto come da programma” pensò il napoletano.
 
-Ma se ti avevo detto che ti avrei spettato qua sotto!- esclamò lui.
-Allora ci siamo capiti male-.
 
“Ora lo sbirro capirà il perché ero qui e guardavo l’orologio”.
Cisano e Mortarelli iniziarono a chiacchierare amabilmente; sembravano normali chiacchiere tra due vecchi amici, eppure erano state studiate appositamente e provate per telefono.
I due uscirono dal sottopassaggio della Torre dell’Orologio ed entrarono in un bar lì accanto, sotto i portici di Piazza San Marco. Continuarono a chiacchierare del più e del meno e poi, dopo aver bevuto un caffè, pagarono e uscirono; arrivarono fino alla fermata dei traghetti e presero quello che li avrebbe portati a Murano. Mentre stavano appoggiati sul bordo del battello, attendendo che i passeggeri finissero di salire, i due videro salire per ultimo un uomo con i baffi e i capelli neri; era vestito con un k-way blu e un cappello nero con visiera; aveva inoltre un paio di ray ban posati sul naso e le mani infilate nella tasca del giacchetto
Cisano e Mortarelli capirono di chi si trattasse, ma fecero finta di nulla; arrivarono a Murano in dieci minuti. Scesero assieme all’uomo con l’impermeabile blu e gli occhiali da sole, che però prese una strada diversa rispetto alla loro. O meglio, un’altra strada che portava alla casa di Antonio Cisano.
Di questo Cisano era pienamente consapevole: conosceva Murano meglio di tutta Venezia, perciò questo aveva preso casa lì. Vi arrivarono e Cisano fece entrare tranquillamente Salvio Mortarelli, chiudendosi poi la porta alle spalle.
 
-Avevi ragione- disse il sicario –C’è quel tizio che ti segue. In questo momento è fuori da casa tua, nascosto in un cespuglio del tuo giardino-.
-Lo so. Ma veniamo a cose più importanti-.
-Ci sono cimici?- fece Mortarelli.
-No, ho controllato in tutti i luoghi di questa casa: non ci sono né cimici né telecamere-.
-Bene-.
-Ho letto sul giornale che Mirco Lostello è morto e che non si sono trovati i suoi ultimi appunti di ex-giornalista, né a casa sua né nella Biblioteca Marciana, contando il fatto che aveva la pessima abitudine di aggiornare tutto quasi in tempo reale- iniziò Cisano, tirando fuori il portafogli per pagarlo.
-In effetti ho provato a guardare nella biblioteca io stesso, per poter trovare qualcosa da eliminare, in caso fosse compromettente. Invece non ho trovato nulla, ne sono positivamente stupito. Hai fatto un buon lavoro, Salvio-.
 
Gli porse i contanti, ma quello non li prese. Lo guardava con uno sguardo indecifrabile.
 
-Cosa c’è?- chiese allora Cisano.
-Anch’io ho guardato nella biblioteca e poi nella casa di Lostello, dopo averlo ammazzato. Non ho trovato nulla-.
 
Cisano sbiancò e serrò la mano sui soldi, digrignando i denti. Rimase immobile, in attesa che l’uomo a lui continuasse.
 
-Come sarebbe a dire?- lo esortò.
-Nella Biblioteca Marciana ho trovato i fascicoli vuoti, mentre a casa di Lostello c’era una porta chiusa a chiave, che tra l’altro ho trovato appositamente spezzata in due. Siccome non faccio lo scassinatore di mestiere, me ne sono andato con l’intenzione di ritornare, ma la polizia è arrivata prima di me. Quindi abbassa il pagamento- aggiunse infine, indicando i soldi.
 
Cisano si mosse come un automa, si riprese alcuni contanti e diede il denaro restante a Mortarelli, per poi accompagnarlo alla porta. Prima di andarsene, Salvio Mortarelli si girò e diede il giornale di quel giorno a Cisano.
 
-Penso che quello che c’è scritto in queste pagine possa interessarti-.
 
Poi senza aggiungere altro se ne andò. Arrivò al cancelletto e ricordandosi della spia, salutò con un sorriso il “suo vecchio amico”, agitando la mano. Cisano rispose fingendo un sorriso e inclinando leggermente la testa; chiuse subito dopo la porta, dopo aver indugiato un attimo, mentre iniziava a leggere il giornale. Una volta che ebbe finito si lasciò cadere distrutto su una poltrona.
In prima pagina c’era la notizia riguardante le indagini sul caso Tosca, le quali potevano avere collegamento con il caso Lostello, perché non si era trovato da nessuna parte il resoconto degli appunti di quest’ultimo. Inoltre, ad aver trovato il corpo dell’ex-giornalista erano stati tre ragazzi: Lixa Tosca, Paolo Montagnoli e Mario Guglielmi.
Le foto corrispondevano al ricordo di quei tre ragazzi che aveva visto correre pochi giorni prima in Piazza San Marco.
“Quindi la ragazza è la nipote di Tosca” pensò Cisano, leggermente sorpreso.
Inoltre, in fondo all’articolo si parlava di una porta completamente sfondata, sulla quale non c’erano impronte digitali, capelli o qualsiasi altra cosa potesse corrispondere al DNA di qualcuno. L’uomo aveva la sensazione che c’entrassero per forza quei tre ragazzi, tra i quali c’era anche la nipote di Tosca.
 
***
 
Era pomeriggio inoltrato nella stanza di Paolo e i raggi del sole ormai primaverile illuminavano la piccola camera; i tre amici non si erano potuti rifugiare, come di consueto, nella sala del Capitolo perché Federico e sorella Marta dovevano accogliere un prete della Basilica di San Marco.
 
-Cosa vediamo oggi?- chiese Lixa, sedendosi sul piccolo letto spartano della piccola stanza.
-Penso sia meglio guardare il fascicolo con le ultime ricerche di Mirco Lostello- disse Manes, intercettando i pensieri di Paolo.
 
Il ragazzo lo guardò infastidito.
“Ultimamente leggi un po’ troppo spesso nel pensiero, Manes”, gli disse il ragazzo attraverso la mente.
 
-Perché?- chiese ancora Lixa, portandosi una mano al viso per spostare una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
 
Aveva al polso il bracciale dei Tosca, che tintinnò debolmente.
 
-Perché- rispose Paolo –Manes ha preso in prestito il materiale aggiornato dal signor Lostello, trasformandosi in Lostello stesso-.
 
Così dicendo tirò fuori i fascicoli che avevano trovato alla Biblioteca Marciana.
 
-Perché non mi avete detto nulla?- fece la ragazza.
 
Avevano rischiato tantissimo, calcolando che non ancora non sapessero cosa fosse capitato all’ex-giornalista, al momento di entrare nella Marciana con il suo aspetto.
 
-Perché lo abbiamo fatto quando tu sei partita per andare in Valle d’Aosta, e ci è passato di mente- rispose Manes.
 
***
 
-L’ultima volta, prima che Lixa partisse, eravamo arrivati agli appunti più recenti del signor Lostello, cioè al momento in cui Cisano ha comprato una casa a Murano dopo essere tornato dall’America e sette mesi dopo o giù di lì l’ex-giornalista è morto-.
 
Lixa ascoltava con attenzione. Si sentiva a metà tra due emozioni completamente differenti: la prima era di odio, odio profondo verso Antonio Cisano, che nonostante tutto aveva ucciso l’unico parente che le era rimasto, l’unica famiglia che aveva conosciuto negli ultimi cinque anni; la seconda invece era profonda ammirazione per Paolo, del quale si sentiva incredibilmente innamorata; provava felicità nel solo ascoltarlo e pendeva dalle sue labbra.
Nonostante l’odio e la vendetta rodessero una parte del suo cuore, l’altra brillava di luce propria. Inoltre, bisognava notarlo, quel ragazzo era molto bravo a seguire il filo logico delle cose.
 
-Ora dobbiamo aprire questo fascicolo- e prese la cartellina blu con le scritte rosse posata sul letto, accanto a Lixa.
 
Il suo braccio la sfiorò e i due si guardarono e si sorrisero imbarazzati.
 
-Ehm ehm- fece la voce di Manes, tossicchiando leggermente.
 
Si ritrassero. Si dimenticavano sempre che l’ombra poteva leggere i loro pensieri o anche solo che fosse presente, lì con loro.
Paolo aprì il fascicolo. Era stracolmo di fogli, appunti e pezzetti di carta; tuttavia era tutto classificato con un ordine quasi maniacale: Mirco Lostello doveva essere stato una persona incredibilmente precisa, diligente e anche molto paziente, nonché particolarmente metodica.
Erano tutti appunti sistemati in ordine di data, concernenti la morte di Livio Tosca e il suo funerale. Qui trovarono qualcosa di interessante, poiché anche Antonio Cisano aveva partecipato al funerale dello zio di Lixa. Oltre all’elenco presenze con i pensieri di addio al vecchio imprenditore, dove era visibile la firma dell’assassino, c’era la copia di una foto di uno dei giornalisti che erano accorsi all’evento lugubre e che anche la polizia, come dicevano gli appunti, aveva recuperato: ritraeva Mirco Lostello in prima fila. In ultima fila, dopo una miriade di gente, stava Antonio Cisano, vestito di nero, come suo solito. Non sembrava né addolorato né troppo felice. Aveva un’espressione impassibile, di circostanza.
O quasi.
Si intravedeva l’ombra di un ghigno sul suo volto. Accanto a Mirco Lostello si poteva notare la giovane spalla di una ragazza con i capelli rossicci. Il volto non si vedeva, ma Lixa si riconobbe; improvvisamente ricordò anche di aver parlato con l’uomo che le stava accanto, ma senza registrare effettivamente di averlo fatto, poiché il dolore era troppo in quel momento per pensare ad altro.
 
-Davvero ci hai parlato?- chiese Manes.
 
Sia la ragazza che Paolo lo guardarono.
 
-Sì, ci ho parlato. Mi ha fatto alcune domande, anche riguardo al braccialetto. Ma non ha nominato Antonio Cisano-.
-Beh- fece Paolo –Qui ci sono anche gli appunti di ciò che vi siete detti-.
 
Teneva in mano il foglio a cui era attaccata la foto.
 
-Ma non è nulla che già non sappiamo-.
 
Continuarono il setaccio degli appunti metodici di Lostello. Infine trovarono un ultima notizia, conservata in un foglio di plastica trasparente; era datato a quattro giorni prima della morte dell’ex-giornalista e riportava il fatto che quel giorno aveva trovato nella Biblioteca Marciana la lettera intimidatoria che l’assassino (o il mandante) aveva spedito a Livio Tosca per farlo trovare il 23 gennaio 2002 alla piazzetta del Campo dei Frari, davanti alla basilica francescana.
Infatti, nella stessa busta dove c’era l’appunto, trovarono la fotocopia in bianco e nero della lettera che era stata recapitata a Livio Tosca. Era stata scritta con delle lettere di giornale accostate le une alle altre per formare parole, come si vede in molti film e telefilm di carattere giallo. Il messaggio era breve e coinciso:
 
“Fatti trovare il 23 gennaio 2002 all’una e mezza di notte alla piazzetta del Campo dei Frari, davanti alla basilica. Dobbiamo parlare di un affare che non potrai rifiutare. Vieni, se vuoi vedere tua nipote viva, il giorno dopo. Porta dei soldi.
 
                                                                             Amico Anonimo di vecchia data
 
P.S. Non avvertire la polizia. Se lo farai, lo saprò”.
 
Quella era la lettera che aveva portato lo zio di Lixa sulla forca. Secondo gli appunti di Lostello poi, si diceva che non erano state rilevate impronte o residui di DNA sul foglio di carta. Infine, come un post scriptum, in fondo al foglio degli appunti c’era scritto che Antonio Cisano era arrivato a Venezia il primo febbraio, con un treno da Napoli, esattamente nove giorni dopo la morte di Livio Tosca; la casa di Murano che aveva comprato l’estate precedente era risultata vuota fino a quando, dopo essere stato all’Hotel Universo e Nord, nel sestiere della Ferrovia, Antonio Cisano non ne aveva preso possesso, dopo essere diventato il nuovo direttore – nonché proprietario – della Ca’ de Delizie.
 
-Quindi Cisano si è costruito un alibi perfetto- disse Paolo, dopo aver scandagliato assieme ai compagni quella caterva di parole scritte.
-Oppure ha mandato qualche sicario a uccidere mio zio e poi è venuto a Venezia- disse Lixa.
-Impossibile- obbiettò Manes.
-Perché?-.
-Perché, secondo i miei ricordi, l’uomo che ha ucciso Livio Tosca e Antonio Cisano sono la stessa persona-.
-È vero- convenne Paolo –È grazie ai ricordi di Manes che abbiamo trovato Cisano-.
-E allora come ha fatto?-.
-Questo non lo so, Lixa- disse Manes –Ma presto lo scopriremo-.





























Note di Saeko:
è il primo maggio, è festa, ma è anche venerdì, per cui eccomi con un nuovo capitolo. Stiamo man mano ricostruendo tutti i tasselli del puzzle e manca poco per arrivare alla fine - sono emozionata perché non pensavo di mantenere fede anche a questa avventura con la costanza che ci sto mettendo, ma scrivere mi sta aiutando a ritrovare me stessa e a passare diversi momenti bui che la mia famiglia sta passando, soprattutto dal punto di vista economico. Se c'è qualcosa di non chiaro nel testo, non esitate a farmelo sapere, spiegherò e correggerò tutto.
Ora dei piccoli ringraziamenti, come sempre:

ad alessandroago_94 per la costanza con cui mi legge e commenta i capitoli;
Nexys e Miryel, che stanno man mano recuperando i precedenti capitoli - sono contenta che la storia vi appassioni;
Elgas e Cartasporca per essere passate a recensire l'altra mia storia conclusa, Historiae - Il viaggio fantastico.

Grazie per avermi sopportata sino a qui, cercherò di tornare domenica; buona festa a tutti, pur se siamo chiusi in casa. Vi abbraccio (virtualmente).

Saeko's out!

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Capitolo 15
*** Capitolo 14: Un aiuto sin troppo nascosto ***


Capitolo 14:
Un aiuto sin troppo nascosto
 
28 marzo 2002. Venezia, Campo dei Frari, sestiere di San Paolo.
 
Erano passati circa due mesi dall’uccisione di Livio Tosca e Cisano passeggiava, per la prima volta da quando aveva vissuto quella notte intensa di gennaio, di fronte alla Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, in maniera aperta, senza svicolare tra le persone.
Rammentava come avesse ucciso Tosca e anche come avesse fatto uccidere Mirco Lostello. Spesso rivolgeva i suoi pensieri ai ragazzi che l’avevano seguito, perché di quest’ultimo fatto era sicuro: a volte se li era ritrovati alle calcagna e sapeva ormai che tra loro c’era la nipote di Tosca. Ma non poteva dire nulla, perché facevano tutto come se nulla fosse, a volte intuendo (forse) le sue mosse. Pensava al fatto che le ultime ricerche di Lostello, i suoi ultimi articoli, quelli che parlavano soprattutto della Ca’ de Delizie nei suoi primi anni di attività non fossero stati trovati, a come tutto quel materiale compromettente per lui fosse scomparso, in maniera anche piuttosto conveniente.
Inoltre pensava a come si sentisse bene dopo aver compiuto la sua vendetta ed essere riuscito a riprendersi ciò che gli spettava di diritto. Si guardò la mano finta, pensò che quella sensazione che aveva avuto nove giorni dopo aver assassinato Livio Tosca, cioè che qualcuno stesse tramando qualcosa di terribile, che implicasse la sua presenza, fosse semplicemente legata a quei tre ragazzi, innocui, che lo seguivano. Sorrise a se stesso, sarcastico.
“A volte sei proprio paranoico, Antonio” pensò.
Non si accorse che una donna castana e con gli occhi neri lo stava osservando, mentre comprava il pane al negozio nel campo di fronte a quello dei Frari; non poteva sapere che quella donna l’aveva riconosciuto; non poteva sapere che Maria Melania Costantin quella notte aveva sentito entrambi gli spari e si era affacciata alla finestra e l’aveva visto fuggire. Continuò a passeggiare, ignaro di tutto.
 
***
 
La signora Costantin stava comprando il pane, quando qualcosa, forse un sussurro, una sensazione sgradevole (la stessa che aveva avvertito la notte del 23 gennaio, dopo il suono degli spari), la fece voltare verso la chiesa: c’era un uomo vestito in nero che passeggiava proprio davanti al sagrato. Su una mano aveva un anello verde smeraldo, mentre l’altra era più giovane, non aveva venature o macchie dovute alla vecchiaia.
“È lui!” esclamò la sua mente, spaventandosi. Lo riconobbe all’istante come l’uomo in nero che aveva visto fuggire in quella notte che non era riuscita a dormire, in quella notte che era morto Livio Tosca.
“So anche chi è: Antonio Cisano. L’ho riconosciuto dalla foto sui giornali. Ma non pensavo che quel verme sarebbe tornato proprio qua davanti, come se nulla fosse”.
 
-Melania? Melania, cos’hai?-.
 
Giorgio, il panettiere, cercava di porgerle il pane, che lei aveva appena comprato e che non prendeva, come pietrificata sul posto. La signora Costantin si riscosse.
 
-Tutto a posto, Melania? Sembrava che ti avesse colpita un fulmine!-.
 
La signora Costantin sorrise all’uomo, osservandogli i piccoli baffetti che gli contornavano le labbra paffute.
 
-Sì, Giorgio, non preoccuparti. Mi sembrava solo di aver visto qualcuno che conoscevo-.
-Chi?-.
 
Il panettiere si sporse per guardare nella direzione di Cisano, che ora si era allontanato.
 
-No, nessuno. Devo essermi sbagliata- disse lei, con voce assente.
 
Prese dunque il pane e salutò Giorgio; doveva tornare a casa e cercare di comunicare con quei ragazzi. Era vero che era sola, ma era anche una donna molto sveglia.
Aveva una specie di sesto senso che le diceva sempre cosa fare o come comportarsi ed era stato quello stesso sesto senso a dirle di non raccontare ciò che sapeva alla polizia; come se ci fosse qualcuno che avrebbe potuto usufruire meglio di quelle informazioni; sempre il suo sesto senso le diceva che quell’ombra che era venuta a parlare con lei poco tempo prima poteva avere a che fare con quei tre ragazzi che aveva visto girare sospetti per Venezia, in cerca di indizi, fino ad arrivare a Mirco Lostello.
 
***

Due giorni dopo, al cortile della Basilica dei Frari, Paolo stava in piedi, mentre seduta su un gradino della piattaforma del pozzo centrale c’era Lixa; Manes invece era appollaiato sul bordo del pozzo stesso.
Erano di nuovo un punto fermo.
Sapevano chi fosse l’assassino di Livio Tosca, Antonio Cisano; sapevano che si era costruito un alibi perfetto; sapevano anche dove si trovasse e che avesse probabilmente ucciso Mirco Lostello. Ma mancava ancora qualcosa.
La vera e propria ricostruzione dei fatti, una motivazione più che certa che li portasse a commettere quello che altro non era che un omicidio.
Qualcosa che completasse ciò che era successo la notte del 23 gennaio. Qualcosa che spiegasse la dinamica dell’omicidio di Mirco Lostello, qualunque cosa che potesse giustificare la realtà di ciò che stavano per fare.
 
-Potremmo già passare al rito sacrificale- provò a dire Manes.
 
Si sentiva come il giorno che aveva conosciuto e parlato con Lixa: diffidente e leggermente timoroso.
 
-È vero, Lixa- convenne Paolo –Cosa stiamo aspettando?-.
-Sei tanto ansioso di veder morire un uomo? Senza prima esserti impresso nella mente, come minimo ventimila volte, il motivo per il quale lo fai? Senza aver bene in testa tutto ciò che quell’uomo ha fatto di male?- sbottò Lixa.
 
Aveva la testa incassata tra le ginocchia e guardava i due ragazzi con uno sguardo che chiedeva comprensione.
 
-Hai paura di compiere la tua vendetta?- chiese Manes.
 
Riusciva a capire i suoi pensieri, la sua paura, il suo ribrezzo e il timore di non riuscire nel tentativo di rimandarlo da sua madre, di non riuscire ad adempiere alle condizioni del loro patto. Paolo le si avvicinò, si abbassò al suo livello e l’abbracciò. L’unico pensiero che Manes sentiva nella testa del ragazzo era “Perdonami” e fu esattamente quello che le disse.
 
-Perdonami-.
 
Lixa singhiozzò.
 
-Lixa-.
 
I due si staccarono dall’abbraccio. Manes stava parlando.
 
-Lixa… Abbiamo cercato ovunque un modo per ricostruire i fatti. Ma non ci siamo riusciti. A meno che qualcuno – forse solamente Dio potrebbe – non ci dica come sono andate le cose in questo periodo, a partire dalla morte di tuo zio… non so proprio come fare. Non c’erano testimoni-.
-Forse, per poter essere sicuri di quello che stiamo facendo potremmo vedere la videocassetta registrata dal signor Lostello- azzardò poi Manes.
-Sì, questa è una buona idea!- convenne Paolo, cercando di tirar su la ragazza.
 
In quel momento arrivò dietro di loro qualcuno.
 
-Scusate-.
 
Una voce infantile, ma profonda, ovvero la voce di Federico.
Paolo, Manes e Lixa si voltarono a guardarlo. I suoi occhi neri come la pece li fissarono un poco, prima che il ragazzo dicesse:
 
-Fuori è arrivata una lettera per voi-.
-Fuori? In che senso, Federico?- chiese Paolo, scrutando il ragazzo con fare sospettoso.
-Una signora, coperta da un velo azzurro, è arrivata lì in biglietteria. L’ho sentita chiedere a Costanza di poter consegnare una lettera alla signorina Lixa Tosca-.
-Chi è Costanza?- fece Lixa.
-È una delle bigliettaie- rispose Federico –Costanza le ha chiesto se fosse sicura che la signorina Tosca si trovasse qui. Lei ha detto che a casa sua non c’era. Allora mi sono avvicinato io e le ho detto che sapevo dov’eri. Lei mi ha dato la lettera, mi ha detto grazie e poi se ne andata-.
-L’hai vista in volto?- chiese Manes, discendendo dal bordo del pozzo.
-No, non l’ho vista. Il velo le faceva ombra. Ma sembrava avere una quarantina d’anni, almeno dal tono della voce-.
-E ora dov’è la lettera?- chiese Paolo.
-Eccola-.
 
Federico tirò fuori dalla tasca dei suoi jeans una busta di piccolo formato, leggermente spiegazzata. Non c’erano mittenti o destinatari, era semplicemente bianca. Il ragazzo la porse all’amico, gettò uno sguardo di disprezzo a Manes, si voltò e se ne andò.
 
-Chissà chi era quella donna…- fece Manes.
 
Avrebbe desiderato tornare indietro nel tempo per potersi ricordare di sondare tutti i pensieri delle persone che entravano o uscivano dalla chiesa. Aveva molto spesso l’istinto di tornare indietro nel tempo, per sistemare cose che non sarebbero dovute accadere; forse perché trovava ancora incredibile che potesse possedere dei ricordi come quelli che aveva e che attorno a quell’edificio fossero accadute cose così spiacevoli.
 
-Forse possiamo scoprirlo aprendo la busta- disse Lixa, indicando la lettera che Paolo aveva in mano.
 
Il ragazzo sorrise.
“Le è tornata la voglia di andare avanti”.
Anche Manes sorrise e chiese:
 
-Ti è tornata la voglia di andare avanti?-.
 
Paolo lo guardò. Manes lo fissò, sorridendo. Lixa guardò prima l’uno e poi l’altro. Capì cosa era successo e si mise a ridere, con una voce cristallina. Anche gli altri due si misero a sghignazzare un attimo.
 
-Allora, leggiamo la lettera e poi andiamo alla videoteca di Ponte di Rialto a vedere quella videocassetta?- chiese la ragazza, diventata improvvisamente frenetica.
-Sì, siamo d’accordo- risposero Manes e Paolo all’unisono.
 
I tre amici si alzarono e andarono verso la stanza di Paolo, salirono le scale e arrivarono all’ultima porta a destra. Entrarono e mentre Lixa e Manes si sedevano sul letto, Paolo tirò fuori dal piccolo cassetto della sua piccola scrivania un taglierino. Aprì delicatamente la busta, tirò fuori la lettera e iniziò a leggerla a voce alta. Era piuttosto breve.
 
Ragazzi,
so cosa avete intenzione di fare.
Non sono certa di quali siano i vostri nomi, a parte quello della signorina Lixa. Se volete veramente sapere come sono andati i fatti del 23 gennaio, fatevi trovare il 18 aprile al Campo della Testa, alle 15 in punto, nel bar vicino al botteghino delle gondole. Vi aspetto. Vestitevi in modo da non essere riconosciuti.
 
I tre ragazzi si guardarono in modo strano, perché in quella piccola missiva non c’era nemmeno una firma. Nessuno dei tre sapeva bene cosa pensare. Chi poteva sapere cosa stessero facendo? E soprattutto, chi poteva sapere ciò che era successo la notte del 23 gennaio?
 
-Questa sì che è una cosa strana- commentò Paolo.
-La persona che ha portato questa lettera, non solo sa cosa vogliamo fare, ma sa anche chi siamo. E molto probabilmente sa anche che qualcuno di noi è un ombra- disse Lixa.
 
Su quest’ultima affermazione posò lo sguardo su Manes.
 
-Ma come è possibile?- chiese Paolo.
-Se fosse stata solo una persona che voleva dare una lettera a Lixa- spiegò Manes, anticipando il discorso di Lixa –Una volta a casa sua avrebbe potuto consegnare la lettera alla sua vicina, la signora Laura, invece che portarla qui, il posto dove, a parte la signora Laura appunto, nessuno sa che viene di più-.
-Quindi deve essere per forza qualcuno che ci osserva- concluse la ragazza.
-Già. È vero- convenne Paolo.
 
Manes avvertiva un vuoto venire dalla sua mente. Evidentemente, proprio come lui e Lixa, non sapeva cosa dire.
 
-Sentite, ho un’idea- cominciò a proporre, rompendo il silenzio che era caduto tra loro.
 
I due ragazzi si voltarono a guardarlo. Avevano paura. A Manes ricordò molto la sensazione che aveva provato quando, dopo aver conosciuto Paolo, aspettava che Lixa venisse a trovarlo.
 
-Che ne dite intanto di vedere la videocassetta di Mirco Lostello? Tanto al 18 aprile manca poco più di una settimana. Contando che oggi è il 31 marzo… se domani…-.
-Domani è domenica, Manes. La videoteca di Ponte di Rialto è chiusa- disse Lixa.
-Ma di mattina no- obiettò l’ombra.
-Magari possiamo aspettare un paio di giorni- azzardò Paolo –E poi lunedì andare alla videoteca-.
-Anche. Anzi, credo che sia meglio- convenne Manes.
-Va bene. Ci sto- disse Lixa.
 
Si alzò.
 
-Ma sappiate che se quella donna prova a dir qualcosa alla polizia, io mi tiro fuori. Mi dispiace, Manes. Ma non posso rischiare così tanto-.
 
Sembrava triste e arrabbiata al tempo stesso e ciò che disse fece scattare Manes.
 
-E pensi che uccidere una persona non sia “rischiare così tanto”?-.
 
La ragazza rimase in silenzio. Il suo sguardo mandava scintille di rabbia, poiché Manes aveva ragione, ma non voleva semplicemente ammetterlo.
 
-Non sei stata tu stessa a dire che prima di uccidere un uomo bisogna imprimersi nella mente le ragioni per le quali si uccide? Tu hai iniziato a rischiare nel momento stesso in cui hai cercato di parlarmi- disse Manes, alzando la voce.
 
Silenzio.
 
-Ora non puoi più tirarti indietro- aggiunse.
 
Altro silenzio. La ragazza lo guardò di nuovo rabbiosa, poi si voltò e uscì, quasi correndo, dalla stanza di Paolo.
Il ragazzo si voltò a guardare l’ombra.
 
-Capisco che tu abbia ragione- iniziò –Ma puoi evitare di litigare con lei in camera mia?-.
-Scusami-.
-No, niente. È solo che ora non posso andare subito a consolarla-.
-Perché?-.
-Perché rimarreste sempre in disaccordo, se non ve la sbrigate da soli, per cui non posso intervenire, nonostante il mio primo istinto, ora, sia quello di correrle dietro-.
 
Manes rimase in silenzio. Si guardò le mani. I suoi occhi azzurrodorati avevano sciolto le lenti a contatto; succedeva sempre, quando le portava per troppo tempo.
 
-Vai- disse Paolo.
-Dove?-.
-Da lei. A cercare di farla ragionare, di fare pace-.
-Ma…-.
-Niente ma- disse Paolo –Vai e basta. Io ti seguirò-.
-Va bene-.
 
Manes si alzò e, senza rendersene conto, diventò ombra. Scese alla velocità della luce le scale, attraversò il cortile, la sala del Capitolo, l’interno della chiesa e uscì fuori dalla porta del campanile. Lixa non c’era.
Fece il giro e arrivò all’ingresso principale. Il grande portone ligneo era aperto e la gente stava uscendo fuori, alla fine della messa pomeridiana. In mezzo a tutti quei fedeli che uscivano tranquilli dalla chiesa, Manes riconobbe Lixa. Aveva il volto rigato dalle lacrime, ma in quel momento aveva smesso di piangere. Manes si avvicinò.
“Non posso diventare di nuovo ragazzo davanti a tutta questa gente” pensò, improvvisamente spaesato. Allora si immerse nelle ombre delle persone, fino ad arrivare a quella di una donna che si trovava appena avanti a Lixa e si era messa a parlare con una signora anziana. I suoi occhi d’oro dovettero spiccare in quell’ombra, perché la ragazza si riscosse. Allora passò velocemente nell’ombra della chiesa, che man mano che il sole tramontava si allungava e diventava sempre più imponente, avvolgendo chiunque si trovasse sul sagrato. La ragazza lo seguì con lo sguardo, per poi immergersi anche lei nell’ombra della chiesa.
Manes le si avvicinò e le disse, con voce bassissima, in modo che solo lei potesse sentirlo:
 
-Scusa se ti ho attaccato in quel modo, prima-.
 
La gente ormai se ne era andata quasi tutta dall’edificio sacro.
 
-No- sussurrò lei, con fermezza –È stata colpa mia. Dovevo immaginarmi che sarebbe potuta accadere una cosa del genere, fin dal primo momento che ci siamo parlati. Hai ragione. Perdona la mia stupidità-.
 
Lixa sorrise. Anche Manes provò a sorridere. Forse da fuori il suo sorriso non si poteva vedere, però Lixa parve capire che si erano rappacificati.
 
-Accidenti a te, Manes! Se devo starti dietro che bisogno c’è di… correre in quel modo?-.
 
Paolo era arrivato in quel momento e aveva visto Lixa che sorrideva ai due occhi d’oro sospesi nell’aria. Sia Manes che Lixa si voltarono e risero. Lo raggiunsero.
 
-Io entro- iniziò a dire, poi si fermò un attimo.
-Paolo, oggi dovrai sbrigarti. Credo che frate Luigi e frate Lazzaro ti vogliano parlare-.
 
Aveva avvertito i pensieri arrabbiati dei due frati. Si sbrigò ad entrare e si appollaiò su una delle travi del soffitto. Sapeva che in quel momento Paolo aveva dato un bacio veloce sulle labbra a Lixa e che la ragazza era fuggita via correndo. I due preti, in effetti, stavano venendo verso di loro.
Manes ascoltò curioso la ramanzina che i due gemelli fecero a Paolo. Infatti il ragazzo, nell’ultimo periodo, si era dato poco da fare con le mansioni della chiesa, era stato poco attento alle lezioni scolastiche, gli ultimi voti presi non erano stati quelli buoni di una volta. Chissà perché? Si chiedevano i frati. Paolo si sorbì tutto quanto e poi promise di darsi più da fare.
 
-Capiamo che sei anche impegnato con la tua fidanzata- disse frate Luigi.
-Ma devi anche darci una mano qui e devi studiare, per il tuo bene- disse in conclusione frate Lazzaro.
-Sì, so che avete ragione- convenne Paolo.
-Luigi, Lazzaro, che ci fate qui?-.
 
Era arrivato frate Ballon.
I due frati dissero ciò che stavano facendo.
 
-Beh, non vi preoccupate, adesso ci penso io. Piuttosto, c’è sorella Vanessa che vi cerca. Vi dispiace andare a vedere cosa vuole?-.
-Non l’ha detto a te?- fece Lazzaro.
-Dice che doveva parlare con voi, riguardo a una mattonella del pozzo del cortile che si è rotta-.
-Oh, va bene. Andiamo Luigi-.
 
I due gemelli si allontanarono. Frate Ballon diede un’occhiata eloquente a Paolo e il ragazzo sorrise; entrambi alzarono la testa verso le travi e videro i due occhi dorati di Manes. Dentro di sé l’ombra sorrise.























Note di Saeko:
buona domenica a tutti! Questo capitolo è molto di passaggio e forse non è uno dei migliori usciti, ma avevo necessità di mostrare la conflittualità della decisione che i ragazzi stanno per prendere e dovevo inserire un personaggio che non ha ancora concluso il suo coinvolgimento all'interno della storia; spero sia comprensibile ciò che volevo intendere e che, nonostante tutto, la narrazione risulti scorrevole.

Lascio qui di seguito i miei soliti piccoli ringraziamenti:

alessandroago_94 per essere passato a leggere lo scorso capitolo;
Nexys per essere passata a recensire il secondo capitolo di questa storia.

Brace yourselves, mancano solo 3 capitoli e l'epilogo e non ci riesco a crede nemmno io, quasi, mannaggina. Visto che oggi è il 4 maggio, vi lascio con lo slogan migliore di questa giornata: May the Force be with you.

Saeko's out!

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Capitolo 16
*** Capitolo 15: Un discorso con Maria Melania ***


Capitolo 15:
Un discorso con Maria Melania
 
18 aprile 2002. Campo della Testa, bar vicino all’imbarcadero.
 
Erano le 15 meno un quarto; tre amici, due ragazzi e una ragazza, discesero lungo il ponticello che portava al Campo. Uno dei ragazzi era vestito con una maglietta bianca, jeans neri e un cappellino nero in testa; l’altro portava una felpa blu e dei jeans scoloriti e i capelli rossi erano tenuti al’indietro con quintali di gel, degli occhiali da sole a montatura blu, mentre la ragazza era vestita con una magliettina bianca e rossa e un paio di jeans grigi; sul naso aveva anche lei degli occhiali da sole.
Lixa, Manes e Paolo.
Erano arrivati lì un quarto d’ora prima dell’appuntamento; anzi, ora dieci minuti prima.
Erano tutti e tre silenziosi, poiché tutti e tre stavano pensando alla stesa cosa: il discorso di Mirco Lostello registrato su quella videocassetta, che avevano visto lunedì 1 aprile. Una volta arrivati alla videoteca “L’imbarcadero di Rialto” al Ponte di Rialto, appunto, avevano chiesto alla signora che stava in cassa di poter usare la sala, chiedendo inoltre espressamente di non far entrare nessuno; la signora aveva acconsentito, non senza una certa curiosità verso quello strano gruppetto.
Quando il video era partito, sullo schermo era apparso un uomo sulla quarantina, con i capelli biondi e gli occhi di un azzurro chiarissimo, che a volte sembrava confondersi con il bianco dell’occhio: si trattava di Mirco Lostello.
L’uomo aveva iniziato a parlare, sfoggiando sul viso un sorriso triste.
 
“Se state vedendo questo video, chiunque voi siate, vuol dire che sono morto.
Purtroppo sento che la mia fine sta giungendo e non posso fare niente per fermarla. Soprattutto se non ho prove concrete. Perché io sono sicuro che sarà Antonio Cisano, o chiunque per lui, ad uccidermi e so per certo che è stato lui a uccidere Livio Tosca, però non bastano vecchi articoli di giornale e indizi sparsi qua e là a incriminarlo. Forse potrebbero metterlo sulla lista degli indagati, ma nulla è sufficiente per mandarlo in galera con un sano processo e un’accusa in tutti e tre i gradi d’appello. Spero solo che questo video sia visto da persone competenti che vorranno prendere sul serio la voce di un morto, soprattutto se morirò davvero. Tutte le mie ricerche sono nel cassetto della scrivania del mio studio assieme a questa registrazione e al mio diario personale; ho aggiornato negli ultimi mesi, quasi quotidianamente i miei file nei fascicoli della Biblioteca Marciana. Inoltre penso che i due “quasi” testimoni degli spari del 23 gennaio, frate Lazzaro e la signora Maria Melania Costantin, possano aver mentito alla polizia. Questi sono i miei ultimi giorni di vita e voglio che non vengano commesse ingiustizie senza essere smascherate. Grazie e addio”.
 
Il contenuto della videocassetta era stato molto utile ai tre ragazzi per capire chi sarebbe potuto venire incontro al bar del Campo della Testa, datosi che molto probabilmente si sarebbe trattato di Maria Melania Costantin; era l’unica che potesse sapere che uno di loro fosse un’ombra.
Lixa guardò l’orologio che aveva al polso: le 15 meno un minuto. Osservò attentamente Paolo e Manes.
 
-Un minuto. Manca un minuto- disse.
-Continuiamo ad aspettare- disse l’ombra.
 
Si erano messi d’accordo perché sondasse la mente di chiunque fosse entrato nel bar, passasse per il Campo della Testa o provasse a parlare con il gondoliere.
Paolo si allontanò un attimo per ordinare tre bicchieri di coca-cola gelata, pur di far passare quel solo minuto d’attesa. Quando tornò fuori, al tavolino su cui si erano seduti, erano ormai le 15 e 2 minuti. Il tempo passava, le lancette sull’orologio giravano. Lixa vide gli occhi di Manes spostarsi febbrilmente da una persona all’altra. Si stava innervosendo.
“Quella donna non è ancora arrivata?” si chiese mentalmente la ragazza.
 
-No, non è arrivata- rispose Manes ad alta voce.
 
Si guardarono. Avevano deciso di lasciare gli occhi al naturale, azzurro dorati; gli avevano messo il berretto con la visiera il più possibile abbassata sul volto, cosicché potesse camminare normalmente senza che nessuno se ne accorgesse. Si sentì trapassata da quegli occhi. Paolo li guardò, si avvicinò alla ragazza e prese a giocherellare con un filo rosso della maglia della ragazza. Si fecero le 15 e mezzo.
 
-È arrivata- disse Manes.
-Cosa?- fece Paolo, girandosi di scatto e mollando il filo della maglia di Lixa.
-Ho sentito nei pensieri di una donna una voce che diceva: “Devo trovare quei tre ragazzi” e c’era l’immagine sfocata di noi tre davanti alla porta del campanile dei Frari-.
 
Infatti, poco dopo, videro avvicinarsi a loro una donna con il velo azzurro in testa, proprio come l’aveva descritta Federico.
 
-Siete voi?- chiese la donna, indirizzandosi verso di loro e evitando qualsiasi preambolo.
-Noi chi?- fece Paolo.
-Quelli della lettera?-.
-Sì- confermò allora Manes.
 
Ora erano sicuri che fosse lei. Lixa sapeva che il suo amico e il suo ragazzo avevano fatto quel giochetto di domande per verificare che fosse il mittente.
 
-Possiamo fare una passeggiata?-.
-D’accordo- asserirono i due ragazzi, alzandosi e lasciando abbandonati sul tavolo i tre bicchieri che una volta contenevano le coca-cole.
 
Come avrebbero fatto a parlare, se camminavano per strada, senza stare in un posto lontano da sguardi indiscreti? Lixa se lo chiedeva preoccupata, dentro di sé. Si avvicinò all’orecchio di Manes e chiese:
 
-L’hai riconosciuta?- .
-No. Non sono sicuro di chi sia- disse l’ombra –Il suono dei suoi pensieri non l’ho mai sentito prima d’ora. Eppure ho la sensazione di averla già conosciuta-
-Cosa confabulate?- chiese Paolo, avvicinandosi.
 
Sembrava irritato.
Manes spiegò le due parole che si erano appena detti.
 
-Cosa confabulate?-.
 
Stavolta la domanda proveniva dalla donna misteriosa. I tre amici non risposero.
Passarono dal Campo della Testa per una miriade di altri campi, per arrivare fino al Ponte di Rialto. Vi salirono sopra e cominciarono a passeggiare più lentamente.
 
-Ci scusi, ma dove ci sta portando?- chiese la ragazza, che iniziava anch’ella ad irritarsi.
-Voi seguitemi. Poi vedrete-.
 
Lixa sentì Manes, dietro di lei, avere un sussulto. Che pensiero aveva sentito? Che immagini aveva visto?
Anche Paolo s’era accorto che l’amico aveva sussultato, ma ora non potevano parlare senza che la donna se ne accorgesse e chiedesse di nuovo cosa confabulassero; questo Lixa lo sapeva.
Dopo il Ponte di Rialto continuarono a camminare e si ritrovarono in una via che Lixa conosceva bene: ci aveva passato molti pomeriggi con lo zio Livio e poi con la signora Laura; era la stessa via della quale Manes le aveva parlato quando la prima volta che si erano visti, lui era fuggito per cercare qualcosa da mangiare.
 
-Chiedo scusa- intervenne di nuovo Lixa –Ma dove stiamo andando?-.
-Già, in fondo, se dovevamo fare tutta questa strada, facevamo prima a darci appuntamento direttamente dove vuole portarci- intervenne Paolo.
-Così ho più tempo per pensare al discorso che vi farò, dato che non è semplice-.
 
L’atmosfera che si era creata era a dir poco sgradevole. Lixa non si sentiva sicura; passarono davanti alla stazione ferroviaria, salirono sul ponte e continuarono a camminare. Infine arrivarono proprio davanti alla basilica dei Frari.
“Ma perché non ci ha fatti incontrare direttamente qui?” pensò Lixa. Guardò Manes, che aveva certamente sentito la sua muta domanda, poiché lo sguardo che le rivolse era decisamente eloquente. L’ombra avrebbe voluto rispondere, ma non sapeva come fare; nei suoi occhi c’era anche un velo di preoccupazione.
Passarono un piccolo ponticello e arrivarono a un condominio, proprio di fronte al Campo dei Frari.
Salirono fino al quinto piano e la signora li fece entrare in un appartamento molto grazioso. Poi si tolse il velo azzurro dalla testa: davanti a loro comparve una donna non molto giovane, ma neanche troppo vecchia, con gli occhi neri e i capelli castani.
 
-Ma- disse Paolo improvvisamente –Lei è la signora Costantin!-.
 
Si era ricordato di quell’unica volta che aveva discusso con lei, quando Manes era andato a interrogarla sotto le vesti di un poliziotto in borghese.
“Allora si tratta veramente di lei” pensò Lixa. Avvertì Manes che annuiva, in risposta al suo pensiero.
 
-Sì, sono io- rispose la signora -Ora voglio sapere chi di voi è l’ombra. Non lo dirò a nessuno. Lo giuro-.
 
I tre si guardarono e Manes annuì. Lixa era preoccupata: troppe persone sembravano essere a conoscenza del loro segreto; in primo luogo Paolo; poi Federico, frate Ballon e ora la signora Costantin.
 
-Sono io l’ombra che avete visto, signora Melania-.
-Tu sei quello che si è presentato a me con il nome di Mario Guglielmi?-.
-Sì-.
 
Così dicendo Manes si tolse il berretto dalla testa, in modo che la signora potesse vedere le sue due ciocche verdi in mezzo alla nuvola di capelli neri e ricci, ma soprattutto perché potesse vedere gli occhi. Una volta che gli occhi neri di Maria Melania Costantin incontrarono quelli azzurrodorati di Manes, lei sembrò avere un mancamento. Manes fu veloce a prenderla e a sostenerla prima che cadesse. Fece un cenno a Paolo e Lixa.
“Accidenti, se sviene chi possiamo chiamare?” pensò Lixa. In nessun modo qualcuno doveva venire a sapere che lì c’erano stati loro.
Accompagnarono la signora Costantin sul piccolo divano del soggiorno. Non era ancora svenuta, ma farneticava. Le portarono un po’ d’acqua e attesero.
Mentre Maria Melania si calmava, Manes si avvicinò all’orecchio di Paolo e gli sussurrò qualcosa. E poi fece lo stesso con Lixa:
 
-Non dobbiamo dire altro su di me, soprattutto del fatto che so leggere nel pensiero. Né del nostro patto-.
-D’accordo-.
-Avete sempre la mania di confabulare voi tre, eh?-.
 
La signora Costantin si era ripresa e si era messa a sedere in maniera composta.
 
-Sant’Iddio, ma come è possibile che esista qualcuno come te… ehm… qual è il tuo nome?- chiese poi, come ricordandosi improvvisamente le buone maniere.
-Manes-.
-Oh, nome appropriato. “Spirito vitale”-.
 
La discreta conoscenza del latino della signora – dovuta agli studi fatti in gioventù – emerse come la cosa più naturale del mondo, dalle sue labbra.
 
-Come è possibile che esista qualcuno come te, Manes?-.
-Non so. Sono nato e basta. Non sta a voi sapere come sono nato, perché esisto. Lei ci vuole solo dire tutto quello che ricorda della notte del 23 gennaio, proprio come ci ha detto nella lettera. Non ha chiesto nulla in cambio-.
-Anche tu hai ragione. Sai parlare bene, per essere un’ombra, eh? Proprio come Mario Guglielmi-.
 
Rise nervosamente.
Lixa mise una mano sul braccio dell’ombra, come per frenarlo dal fare domande.
 
-Io ti conosco- aggiunse poi Maria Melania, guardando Paolo –Mi hai praticamente chiesto se avevo visto quell’ombra, il giorno dopo che era stata a casa mia-.
-Signora- intervenne Lixa –Può dirci che cosa ricorda della notte del 23 gennaio?-.
-Ah, già-.
 
Iniziò a raccontare. La signora sembrava entrata in trance, tanto il tono sembrava sommesso e preoccupato.
 
-Saranno state le due di notte. O forse era l’una e mezzo? Non ricordo l’orario preciso, so solo che non prendevo sonno. Così sono uscita sul balconcino a prendere un poco d’aria; come potete vedere, il mio balconcino dà sul Campo dei Frari. E ho visto quei due uomini. Uno era un po’ grassoccio e l’altro era magrolino e tutto vestito di nero. Li ho visti scambiarsi qualcosa. Poi l’uomo in nero ha tirato fuori una pistola. Ricordo di aver intravisto un barlume verde smeraldo che brillava alla luce della luna; mi sembrava di assistere ad un telefilm poliziesco. Senza sapere perché, avevo in mano una tazza di tè, eppure non mi sembrava di aver messo su l’acqua nel bricco, prima di uscire fuori. Insomma, ci furono gli spari. Ci fu il primo, e vidi quell’uomo grassoccio cadere a terra, in ginocchio. Arrivò poi il secondo, che però non sentii benissimo: mi fischiavano le orecchie, probabilmente a causa del primo sparo. Poi l’uomo in nero è fuggito mentre l’altro si accasciava definitivamente a terra. Io sono rientrata a casa. Mi sembrava di aver sognato, ero frastornata, ho pensato che l’indomani il cadavere non ci sarebbe stato. Questo fatto si è avverato, ma al suo posto c’erano i medici legali e la polizia che controllavano. Ho pensato, per qualche strano motivo, che non dovevo rivelare ciò che sapevo agli agenti che mi interrogavano. Sentivo che sarebbe servito per qualcosa. E poi siete comparsi voi e ho creduto di riconoscere l’assassino in Antonio Cisano-.
 
Maria Melania Costantin sembrò svegliarsi dalla trance, riprendendosi e guardandoli improvvisamente fredda; sembrava aver assolto il suo compito.
 
-Sarà meglio che andiate. Secondo la polizia, io non la racconto giusta; hanno ovviamente ragione. Ma è meglio che nessuno vi veda uscire di qui-.
-Ma se ci hanno visto entrare!- esclamò Paolo.
-Lo so. Ma nessuno vi può riconoscere, vero?-.
-No, in effetti no-.
-Dirò che mia nonna e i miei lontani nipoti sono venuti a farmi visita. Uscite dall’altra porta del condominio. È l’entrata dal Campo opposto a quello dei Frari-.
-Va bene signora- disse Manes.
 
Si alzarono.
Uscirono, senza essersi nemmeno congedati in maniera consona da colei che aveva rivelato per filo e per segno cosa era successo la notte in cui Livio Tosca era morto, colei che aveva confermato tutti i loro sospetti e che aveva consegnato nelle loro mani il futuro di Antonio Cisano.
Iniziarono a camminare spediti verso il Piazzale della Ferrovia.
 
-Manes-.
-Sì, che c’è, Lixa?-.
-Sai benissimo che c’è-.
 
“Ormai li leggi benissimo i miei pensieri”.
 
-Mi sembrava buona educazione chiedere-.
-Non importa!-.
 
“Perché non ci hai detto subito che era la signora Costantin?”.
 
-Perché non ho mai ascoltato i suoi pensieri-.
-Come sarebbe?-.
-Scusate- li interruppe Paolo –Ma potrei essere informato del contenuto della vostra contorta discussione, di grazia?-.
 
Era decisamente irritato. Lixa pensò che ciò di cui avevano appena parlato lei e Manes doveva essere incomprensibile da ascoltare.
 
-La tua ragazza, Paolo- spiegò l’ombra –Mi stava chiedendo perché non vi ho detto che era la signora Melania sin da subito-.
-Me lo chiedevo anch’io- convenne Paolo, guardando di sbieco Lixa.
-Per il semplice fatto che non ho riconosciuto il suono dei suoi pensieri. Non li avevo mai ascoltati prima. Sotto forma del poliziotto in borghese non ero in grado di leggere nel pensiero. Mi pare anche di avervelo detto-.
 
Lixa arrossì violentemente: Manes aveva ragione e lei aveva parlato senza pensare, facendo la paternale al suo amico ingiustamente.
 
-Poi, quando sono stato sicuro di chi fosse, non potevo dirvi nulla. Non poteva né doveva sapere che io so leggere nel pensiero-.
-Come hai fatto a capire che era Maria Melania Costantin?-.
-Perché quella donna ha pensato intensamente alla casa dove abitava e a quello che stava per fare. Solo così ho capito-.
 
Entrarono in un negozio di dolciumi, lo stesso dove Manes era capitato la prima volta che era uscito dai Frari.
La giovane commessa lo riconobbe e lo salutò.
 
-Cosa posso servirvi?- chiese poi.
 
I tre amici si scambiarono uno sguardo e poi guardarono i biscottoni verdi al pistacchio in prima fila. Sorrisero.

























Note di Saeko:
buonsalve, amici del web; questa settimana è stata per me molto pesante (ho ricominciato a lavorare quasi a tempo pieno e in più devo preparare un esame in tre settimane) e purtroppo non ho avuto tantissimo tempo per ricorreggere questo capitolo, per cui, se dovessero esserci degli errori, non esitate a farmelo sapere, provvederò a correggerli. Avrei voluto impostarlo in maniera diversa, rendere forse più accattivante l'incontro con Maria Melania, ma il tempo che ho avuto per lavorarci è stato poco; spero in ogni caso che funzioni e che sia riuscita a comunicare il velo di stranezza che questo incontro e il silenzio della signora Costantin sino ad ora hanno creato nella storia.
Ringrazio moltissimo alessandroago_94 per essere passato a leggere lo scorso capitolo, NexysMiryel e _Lightning_  per aver recensito i primi capitoli man mano che recuperano la storia, ed Elgas per essere passata a recensire un altro capitolo dell'altra mia long, Historiae - Il viaggio fantastico.
Domenica tornerò con il penultimo capitolo, so bring it on che siamo quasi alla fine!


Saeko's out!

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Capitolo 17
*** Capitolo 16: Ladro di vite ***


Capitolo 16:
Ladro di vite
 
27 aprile 2002. Venezia, Campo dei Frari, sestiere di San Paolo. Piramide del Canova, all’interno della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari.
 
Era ormai sera inoltrata, la messa era finita da un pezzo e Lixa, Manes e Paolo erano seduti sulle scale che portavano alla tomba dell’artista; i loro volti erano sconvolti; Lixa stringeva ancora convulsamente tra le mani il giornale del giorno prima.
Quel giornale aveva una testata che occupava quasi tutta la prima pagina, una foto della basilica Santa Maria Gloriosa dei Frari e un articolo che terminava alla pagina seguente; il titolo recitava: “Omicidio ai Frari: Che la chiesa francescana nasconda una maledizione?”, mentre l’occhiello recitava: “Un altro omicidio avvenuto in prossimità della Chiesa dei Frari, la polizia crede che ci sia un collegamento con l’omicidio di Livio Tosca”.
L’articolo era molto lungo ma c’era una sezione in particolare che interessava i tre e riportava le seguenti notizie: “Lo scorso 26 aprile è stato trovato il corpo esanime in casa sua, nell’appartamento di fronte alla basilica francescana dei Frari; si tratta della signora Maria Melania Costantin, 40 anni, vedova. In seguito al rapporto della prima autopsia, sembra che la donna sia morta all’una e mezzo del mattino del 26 aprile, lo stesso orario della morte dell’ex esponente della Ca’ de Delizie, Livio Tosca. La polizia crede che ci sia un collegamento tra le due morti, perché oltre allo stesso orario del decesso, la signora Costantin è stata trovata con un proiettile nel cuore e uno nella fronte, proprio come è stato trovato il presidente della famosa casa dolciaria veneziana. Anche questa volta nessuno che vivesse nei paraggi ha sentito degli spari nella notte. È stato interrogato varie volte frate Lazzaro, prete nella Chiesa dei Frari, unico che, insieme alla signora Costantin, sembrava aver udito i due spari del 23 gennaio che hanno ucciso il signor Tosca; per la sua sicurezza, l’uomo sarà accompagnato nelle prossime settimane da una scorta. La squadra d’investigazione crede anche in un possibile collegamento con la morte di Mirco Lostello, ex giornalista morto il…”.
Sembrava che tutto ciò che loro tre avevano vissuto nelle ultime settimane fosse stato spiattellato ai quattro venti, omettendo i loro nomi per puro rispetto della privacy.
Era per questo che Manes e Lixa avevano deciso di catturare Antonio Cisano, senza aspettare altro tempo; con il suo omicidio e la scomparsa di Manes nel quadro, quella brutta faccenda sarebbe finita una volta per tutte.
Ma nessuno dei tre aveva effettivamente il coraggio di parlare o accennare alla cosa; Paolo non avrebbe assistito all’omicidio di Cisano, ma sarebbe rimasto a far la guardia; Lixa avrebbe invece avuto la sua vendetta, vedendo morire l’assassino di suo zio, di Mirco Lostello e della signora Costantin; infine Manes avrebbe raggiunto la madre nel quadro.
In quel momento l’ombra fissava la copia in marmo di fronte a lui, sul mausoleo di Tiziano.
“Sto per tornare”.
 
***
 
Sull’isola di Murano, Antonio Cisano aveva appena finito di leggere il telegramma, che recitava: “Lavoro eseguito Stop La signora sta bene Stop Richiesta aumento assegno Stop Richiesta incontro Stop Distinti saluti”.
Il mittente era Salvio Mortarelli, il suo sicario; in quel momento si sentiva finalmente tranquillo. L’ultima persona che avrebbe potuto sapere qualcosa su ciò che c’era da sapere sulla notte del 23 gennaio era morta; non c’era bisogno di uccidere anche quel frate, dato che l’unica vera persona sospetta era Maria Melania Costantin.
Ora non importava quanto Mortarelli avrebbe chiesto in aumento all’assegno da 1.940 euro. Che buffo, quanto poco può valere la vita di una persona? Ora non restava che prendere definitivamente le redini della Ca’ de Delizie. Entro una settimana l’amministrazione della ditta sarebbe passata in mano sua a tutti gli effetti.
 
***
 
Due settimane dopo la morte della signora Costantin, alla sede amministrativa della Ca’ de Delizie, spostata nell’isola di Murano, si festeggiava. Antonio Cisano, in veste di vecchio amico d’infanzia del primo dirigente, prendeva il comando dell’azienda e, secondo le ultime volontà di Livio Tosca, sottoscriveva che in qualsiasi caso di sua assenza la dirigenza sarebbe passata a Lixa Tosca, che ormai aveva compiuto sedici anni da un paio di mesi.
Il buffet era stato esposto davanti all’entrata; Lixa aveva invitato solo Paolo, mentre Manes era venuto con loro sotto forma di ombra.
Dovevano riuscire isolare Antonio Cisano, dopodiché Manes avrebbe provato a prendere controllo del suo corpo. Essendo una cosa che non aveva mai provato, se non avesse funzionato Lixa e Paolo avrebbero comunque fatto in modo di portarlo via dal ricevimento per arrivare alla Chiesa dei Frari.
Erano le sette di sera dell’8 maggio 2002: quel giorno Antonio Cisano sarebbe morto.
Lixa e Paolo erano dentro la nuova sede, seduti su un divano.
 
-Che facciamo?- chiese una voce.
 
Era Manes, nascosto nell’ombra del ragazzo. Gli occhi d’oro non si vedevano: con uno sforzo immane, erano riusciti a far indossare all’ombra delle lenti a contatto nere, proprio mentre si trovava nella sua forma più eterea.
 
-Se non dovessi riuscire a prendere il controllo?- fece Paolo.
-Sì-.
-Beh- spiegò Lixa –Tra poco la festa finirà. Pensavo di invitare Cisano a casa mia per prendere un caffè e parlare delle alternative per poter mandare avanti la ditta. Paolo se ne dovrà andare prima che noi arriviamo a casa. Una volta davanti alla porta gli metterai una benda nera sugli occhi e un fazzoletto cosparso di quella droga allucinogena che abbiamo trovato in farmacia. E poi lo trascineremo alla chiesa. E lì Manes farà il suo lavoro-.
 
Il discorso cadde nel silenzio. Tutti e tre provarono dei brividi quasi incontenibili, poiché stavano per fare una cosa che nessuno sano di mente avrebbe mai fatto. Nessun piano è mai perfetto, nessun piano è mai giusto.
 
-Manes- chiamò poi la ragazza.
-Sì?-.
-Quando dirò la parola “adesso” dovrai provare ad agire. Indipendentemente dal contesto, quando mi sentirai pronunciare la parola “adesso” dovrai tentare di impadronirti della sua testa, d’accordo?-.
-D’accordo-.
-Lixa Tosca-.
 
Una voce ghiaiosa la chiamò e si trattava proprio di Antonio Cisano. Fortunatamente non era ancora troppo vicino per aver sentito i loro discorsi.
 
-Sì, signor Cisano?-.
-Oh, per favore, basta con queste formalità. Chiamami pure Antonio-.
-Mi dica, signor Antonio-.
 
Cisano si lasciò andare ad un risolino forzato.
 
-Come mai siete qui, soli soletti, tu e il tuo amico? Perché non vi godete la cerimonia?-.
 
Quell’uomo stava cercando di usare un tono piuttosto mieloso, ma con la sua voce risultava più sgradevole di quello che sarebbe dovuto essere.
 
-Perché dovevamo discutere di una cosa importante- disse Lixa, accennando un sorriso freddo.
-Che ne dite di prendere un drink? O qualcosa di buono da mangiare? C’è ancora un po’ di torta- insistette Cisano, forse con l’intenzione di ingraziarsi Lixa il più possibile.
-D’accordo, tu che ne dici, Paolo?- rispose Lixa.
 
Aveva improvvisamente usato un tono fin troppo dolce e un sorriso molto gioviale, mentre si voltava verso il ragazzo.
 
-Sì, anche per me va bene- disse Paolo, sorridendo forzatamente anche lui.
 
I due si alzarono e seguirono Antonio Cisano fuori dalla stanza, verso il buffet.
 
-È incredibile che voi siate proprio quei ragazzi che qualche volta ho incontrato per strada- stava dicendo Cisano, mentre si accingeva a tagliare l’ultimo quarto della torta deliziosa che era stata preparata per l’occasione.
-Già, proprio incredibile- convenne Lixa, sorridendo appena.
 
Manes aveva ascoltato bene i pensieri di Cisano: dicevano chiaramente che voleva ingraziarsi Lixa per allontanare da sé qualsiasi sospetto riguardo la morte dello zio; mentre si avvicinavano al piatto con la torta, Lixa sussultò. Formulò subito un pensiero da comunicare a Manes.
“Manes ho avuto un’idea”. Gli mostrò le immagini della piccola modifica del piano.
“Dì a Paolo di stare al gioco”.
Manes non era affatto sicuro della riuscita di quella nuova trovata, ma non potendo comunicare con Lixa non gli rimaneva che dirla a Paolo.
 
-Lixa ha cambiato leggermente il piano. Dice di stare al gioco- gli sussurrò in un orecchio.
 
Paolo annuì, in segno che aveva capito; non si poteva arrischiare a rispondere a voce alta con Antonio Cisano così vicino. Presero tutti e tre un pezzo di torta, finendola del tutto. Era una specialità che Lixa conosceva molto bene: si trattava della ricetta che sua madre aveva inventato e poi aveva dato al fratello nel momento in cui l’idea dell’azienda dolciaria si era concretizzata.
Era la prima ricetta creata alla Ca’ de Delizie e si chiamava appunto “Torta Delizia”: era fatta da un duro strato di biscotto che accoglieva una spuma di panna montata e frammenti di frutti di bosco. Poi c’era un piccolo strato di pan di Spagna, uno strato di crema al limone e una spuma di menta. Il tutto ricoperto con una finissima glassa di cioccolato fondente. Infine v’era una ciliegia caramellata a contornare il tutto. L’ incontro di tutti quei sapori significavano festa per le papille gustative.
Manes riusciva a vedere i ricordi che quel dolce portavano alla mente di Lixa: vedeva le immagini di una donna sempre indaffarata in cucina con una miriade di ingredienti attorno a lei, il forno acceso accanto alle sue gambe, terrine e miscelatori poggiati sul bancone. Aveva i capelli identici a quelli di Lixa, ma gli occhi erano verdi; in viso era perennemente sporca di farina, in particolare sul naso, leggermente a patata; un particolare che Lixa ricordava fin troppo bene erano i continui colpi di tosse che aveva e gli starnuti che la farina le causava.
 
-Allora Lixa, cosa mi racconti?-.
-Cosa dovrei raccontarle, signor Antonio?-.
-Mah, non so. Ad esempio come va a scuola, chi è il tuo amico… cose così, di questo genere. Ho molto piacere di conoscere come si deve la nipote del mio defunto amico-.
-A scuola va tutto bene e il mio amico mi pare di averglielo già presentato- disse Lixa, con un dolce sorriso.
 
Finto, ovviamente.
 
-E poi dice che ci ha già visto- aggiunse Paolo, alzando le spalle e addentando un altro pezzo di torta.
 
Cisano lo guardò con un leggero velo di disprezzo.
 
-Ah bene e… posso chiederti come è venuta fuori la ricetta di questa torta deliziosa? Mi hanno detto che è stata la primissima ricetta della Ca’ de Delizie!-.
-Sì, è un’invenzione di mia madre. Ci ha lavorato notte e giorno e poi l’ha data a zio Livio, dicendogli che poteva provare a lanciare quel dolce per iniziare la sua impresa. Mio zio era proprio un buongustaio-.
-Sì, lo so. Ricordo che quando eravamo piccoli, mia nonna, che veniva da giù, da Napoli, mi portava sempre dei dolci che faceva in casa. In particolare c’erano delle crostatine ai frutti di bosco, crema pasticciera e miele che mi piacevano molto. E allora tuo zio veniva sempre a casa per poterle assaggiare. Però diceva che la sua preferita era una rotellina di pasta sfoglia con la crema di cioccolato e l’uvetta-.
-Mmh, che bontà!- fece Paolo, spontaneamente, all’idea di tutti quei dolci messi insieme, dolci che non aveva mai assaggiato nemmeno una volta nella vita.
-Sì, da far venire l’acquolina in bocca- convenne Lixa.
 
I dolci di cui Antonio Cisano aveva appena parlato erano tutte ricette che venivano prodotte dalla Ca’ de Delizie: erano rispettivamente “La Crostatina” e “La Rotellina Pasquale”.
 
-Mio zio diceva sempre che erano di origine campana. Ha sempre detto che si era permesso di prendere la ricetta alla nonna di un suo amico. Allora era lei, quell’amico?-.
-Sì, Lixa, ero io-.
 
“Bene, ora posso fare presa su questo per ingraziarmela” pensò Cisano, ma Lixa non glie diede tempo di andare oltre.
 
-Senta, io vorrei capire meglio quale potrebbe essere il mio ruolo nella Ca’ de Delizie, per quando sarò abbastanza grande da poterla dirigere-.
-Ma certo, Lixa. Se vuoi te lo spiego subito-.
-Invece, che ne dice di venire a casa mia? Posso prepararle un buon caffè, mentre parliamo-.
-Sì, per me va bene- convenne subito l’uomo che, data la sua indole napoletana, era sempre stato un buon intenditore di caffè.
-Ehi, io non ho mai assaggiato il tuo caffè!- fece Paolo.
 
“Voglio capire se devo venire o aspettare”.
 
-Ah, è vero-.
 
Lixa fece una pausa studiata.
 
-Signor Antonio, va bene se viene anche Paolo? Ci tiene sempre ad assaggiare le cose che cucino, persino le più insignificanti e il caffè lo abbiamo sempre
rimandato e…-.
-Lixa, non ti preoccupare. Sei tu che mi hai invitato e quindi sei libera di invitare anche il tuo amico-.
-Bene, allora andiamo- disse Lixa, fingendo soddisfazione.
 
Manes avvertiva l’irritazione che la ragazza provava nel parlare con quell’uomo, però bisognava ammettere che Lixa aveva proprio le doti di una brava attrice.
Si incamminarono velocemente verso casa della sua amica, prendendo il traghetto e tornando verso Venezia. Parlarono ancora in quel modo finto e smielato, che Manes iniziava a non sopportare più. L’ombra era stata attenta, ma non aveva colto mai una volta dalla bocca di Lixa la parola “adesso”. Anche Paolo cercava di capire cosa avesse in mente Lixa; sul traghetto con loro non c’era nessuno. Poi successe.
 
-Signor Antonio, ma come mai ha deciso proprio adesso di tornare a Venezia?-.
 
Era il segnale. Mentre Antonio Cisano rispondeva, Manes si spostò dall’ombra di Paolo a quella dell’uomo; poggiò quelle che sarebbero state le sue mani sulla nuca dell’assassino e cercò di fondersi con i pensieri di lui. Sentì che Cisano si era accorto che qualcosa non andava, ma lo prese per un malanno passeggero e cercò di non pensarci, pur di continuare a parlare con la nipote di Livio Tosca. Manes esplorò con minuzia i pensieri di Antonio Cisano e cercò di farli suoi, senza perdere la propria coscienza. All’improvviso avvertì i pensieri di Cisano acquietarsi in un angolo della sua mente, fino a diventare un piccolo sussurro spaventato, e il suo corpo divenne pesante.
Aprì gli occhi: vedeva bene Lixa e Paolo, che lo guardavano stupiti. Non sapeva perché, ma aveva una percezione delle loro immagini dall’alto in basso.
 
-Manes?-.
-Sì?-.
 
Che voce strana che aveva. Non era più roca e vellutata al tempo stesso, ma ghiaiosa, come se avesse mal di gola perenne.
 
-Wow, ha funzionato!- esclamò Paolo, osservandolo ancora con stupore.
-Sono nel corpo di Antonio Cisano?- chiese l’ombra, incerta.
-Sì che lo sei!- disse Lixa, ancora più stupita di Paolo –Non te ne accorgi?-.
-Non esattamente- disse l’ombra –La percezione del corpo di quest’uomo è molto diversa da quella del corpo che mi sono creato io-.
-È incredibile. Hai ancora le lenti a contatto nere!- disse Paolo, guardandolo negli occhi.
-Sul serio?-.
-Sì, toglile- ordinò Lixa.
 
Manes eseguì.
Era un po’ difficile muoversi con quel nuovo corpo e non riusciva a controllare bene la mano finta di Cisano, ma alla fine si tolse le delicate lenti colorate. Il sospiro di stupore dei suoi due amici lo fece sentire come un fenomeno da baraccone.
 
-I tuoi occhi sono oro e verde smeraldo- disse Lixa.
-Veramente? Allora l’oro dei miei occhi si può fondere con qualsiasi colore di altri occhi, se non metto le lenti a contatto- concluse Manes.
-Già, è fantastico- disse Paolo.
 
L’euforia di Paolo era alquanto contagiosa e anche Manes si sentì molto eccitato; arrivarono alla fermata del traghetto, scesero e s’incamminarono verso la meta.
Provò a fare movimenti strani con le mani di Cisano, a camminare e saltare, si fissò l’anello verde che portava al dito. Anche Paolo lo guardò curioso.
 
-Ehi, ragazzi, tornate con i piedi per terra-.
 
La voce di Lixa era molto seria. Manes provò una leggera vergogna per se stesso e per l’eccitazione che aveva provato nell’essere riuscito ad entrare nel corpo di un uomo che avrebbe dovuto uccidere. Anche Paolo si era rabbuiato.
 
-Dobbiamo andare- disse ancora Lixa, tetra.
 
Si voltò e iniziò ad andare verso il Campo dei Frari. I jeans blu scuro che si era messa quel giorno per andare alla cerimonia sembravano essere più cupi di lei. Paolo e Manes la seguirono.
Arrivati di fronte alla basilica, aprirono il portone principale, che avevano lasciato accostato con una piccola listella di legno, al momento della chiusura della chiesa. Lixa si girò verso Paolo.
 
-Rimani qui- disse con voce atona.
 
Manes provò a sentire i pensieri della ragazza, ma nel corpo di quell’uomo non riusciva a leggere nella mente.
 
-Sì-.
 
Anche Paolo aveva un tono di voce appena accennato. Lixa annuì e poi si spostò per far passare il corpo di Antonio Cisano, guidato da Manes. Lixa stava per raggiungerlo quando la voce di Paolo disse:
 
-Lixa, aspetta-.
 
***
 
-Rimani qui- disse Lixa.
 
Sentì la sua voce suonare piuttosto atona. Era sempre così quando doveva mascherare la sua preoccupazione. Stava per assistere all’omicidio dell’uomo che aveva eliminato l’ultima persona che le era rimasta in famiglia, al mondo.
 
-Sì-.
 
“Anche tu sei preoccupato?” chiese Lixa con il pensiero a Paolo.
Poi annuì, come rispondendosi da sola, e si spostò per far passare Manes. Gettò un altro sguardo veloce a Paolo, poi si voltò per raggiungere l’ombra. Fu in quel momento che la voce di Paolo la raggiunse.
 
-Lixa, aspetta-.
 
Non era un grido, ma quasi un sussurro; non dovevano farsi sentire dalle persone che erano nell’edificio, addormentate e inconsce di quanto stava per avvenire.
Anche se quel mercoledì tutta la chiesa era quasi vuota a causa un seminario fuori città, erano rimasti frate Ballon e Federico a presidiare l’edificio.
 
-Che c’è Paolo?-.
-Volevo dirti che… qualsiasi cosa accada, io ti sarò sempre vicino-.
-Davvero?-.
 
Quelle parole sembrarono un’ancora di salvezza per la ragazza.
 
-Certo-.
 
Paolo fece una pausa.
 
-Io ti amo-.
 
Lixa sorrise.
 
-Anch’io ti amo-.
 
Quelle parole, anche se non molto consone a quel momento buio, erano balsamo per lei. Forse poteva affrontare meglio la cosa.
Paolo si avvicinò a lei, le prese il viso fra le mani e la baciò, con un bacio lungo e dolce. Quando le loro labbra si separarono Lixa sorrise di nuovo, poi si voltò per raggiungere Manes. Sentì Paolo sospirare e chiudere dietro di sé il portone principale.
“Ormai è Paolo la mia famiglia”.
Passò in mezzo al mausoleo di Tiziano e alla piramide di Canova.
“In realtà anche Manes è parte della mia famiglia” pensò poi, amaramente.






















Note di Saeko:
siamo finalmente al tanto sospirato turning point, al momento in cui la storia sta per finire. Mi manca un solo capitolo, con il quale tornerò auspicabilmente il prossimo venerdì e dopo di questo un epilogo. Ho voluto inserire alcuni elementi che potessero connotare qualcosa della casa dolciaria di cui parliamo dal capitolo 1, ovvero la Ca' de Delizie e che è stata un po' il fulcro di tutta l'azione, il motivo ultimo per cui Cisano ha ucciso Tosca. Spero di avervi incuriositi abbastanza sino a qui e di aver creato un po' di cliffhanger per il prossimo capitolo che verrà.
Passo ora a dei veloci ringraziamenti:

come sempre ad alessandroago_94 per essere passato a commentare lo scorso capitolo;
shilyss per essersi imbattuta nel prologo e aver deciso di recensirmi.

A presto e buona domenica.

Saeko's out!

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Capitolo 18
*** Capitolo 17: Addio, amico mio ***


Capitolo 17:
Addio, amico mio
 
8 maggio 2002. Interno della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari.
 
Mentre Paolo e Lixa rimanevano a parlare al portone principale, Manes aveva iniziato lentamente a camminare dritto dritto verso il quadro di sua madre; la tavola dell’Assunta di Tiziano era in bella mostra sopra l’altare nella navata centrale della chiesa.
Essendo nel corpo di Antonio Cisano e avendo assorbito parte del suo animo per potervi entrare, sentiva di avere due coscienze: la sua di ombra della chiesa e quella dell’imprenditore di origini campane; avvertiva la stessa sgradevole sensazione di quando si era svegliato la prima volta, sul crocifisso al di fuori sella chiesa.
Ora capiva perché quelle due piccole gocce di sangue di Livio Tosca lo avevano risvegliato: erano state versate per colpa dell’animo geloso di quell’uomo, erano state versate per un motivo futile, devastando la vita di una persona che ormai considerava amica; questo era qualcosa che non poteva sopportare né perdonare. Ora aveva una motivazione in più per uccidere quell’essere umano: portare di nuovo la pace al di fuori della casa di Dio.
Si fermò davanti alla rappresentazione dell’Assunta. Osservò il volto della Vergine che veniva chiamata in cielo: era un volto pacifico e benevolo e si sentì rincuorato a quella vista. Gli sembrava che la donna aspettasse solo lui, prima di salire ad un livello superiore e ricevere Dio.
Riuscì ad accantonare il senso di paura e terrore che sentiva arrivare dal corpo di Cisano.
 
-Manes, tutto a posto?-.
 
Lixa l’aveva raggiunto.
 
-Sì, certo-.
 
Fece una pausa. Doveva pensare a come agire, ricordando ciò che diceva l’Interdictae Artis Membrana.
 
-Devo uscire da questo corpo per poterlo uccidere. Devo essere della mia forma che uso di solito e poter fissare il quadro mentre lo uccido, dopodiché tornare ombra. Ma prima dobbiamo drogarlo. Non me la sento proprio di uccidere un uomo così, cosciente- disse tutto d’un fiato.
 
Lixa annuì. Prese la bottiglietta del medicinale contro l’insonnia che aveva preso in farmacia, che se usato in dosi particolarmente copiose poteva creare uno stato di forte sonnolenza e/o incoscienza, e la mostrò a Manes.
 
-Questa è la più potente che avevano?-.
-È la più potente che potevano darmi. Anche se ho sedici anni, sono ancora minorenne e non posso darmi niente di più forte-.
-Bene. Legami mani e piedi. Così posso uscire da Cisano ed essere sicuri che non fugga mentre lo droghiamo-.
-D’accordo-.
 
Lixa tirò fuori dalle tasche un rotolo di nastro isolante e due bende. Manes si mise le mani dietro la schiena, dunque Lixa gliele fasciò di nastro adesivo. Poi l’ombra si mise seduta sul gradino in marmo al di sotto dell’altare e si fece fare la stessa operazione ai piedi.
 
-Quanto ci mette a fare effetto quell’affare?- chiese
-Una ventina di minuti, perché?-.
-Devi darmelo ora. È possibile che togliendo il bavaglio alla bocca per drogarlo, Cisano provi ad urlare-.
-Ok-.
 
Lixa stappò la boccetta e la versò tutta nella bocca dell’uomo che le stava davanti. Manes fece una faccia schifata, poiché il liquido aveva un sapore dolce e chimico, tipico dei medicinali.
 
-Ora mettimi prima il bavaglio alla bocca. Legalo più stretto che puoi-.
 
Lixa non disse nulla ed eseguì. Manes sentì stringere il bavaglio sulla sua bocca, ma era molto lento. Si voltò a lanciare a Lixa uno sguardo eloquente.
 
-Devo stringere di più?- chiese sorpresa la ragazza.
 
Lui annuì. Sentì la morsa della stoffa diventare veramente stretta sulla sua bocca; sentì la paura della coscienza di Antonio Cisano crescere e anche le forze abbandonarlo.
Chiuse gli occhi e attese di sentire le mani di Lixa che lo bendavano. Quando anche lo straccio fu stretto sugli occhi, prima che potesse perdere definitivamente conoscenza, Manes cercò di inspirare dentro di l’odore della chiesa, i pensieri di Lixa, Paolo, frate Ballon e Federico, che si trovavano dall’altra parte dell’edificio, e cercò di allentare il più possibile la presa sulla coscienza di Cisano dalla sua e tornare ombra; risultò piuttosto facile, perché le forze dell’uomo andavano scemando sempre di più. Sentì il suo corpo leggerissimo e aprì gli occhi.
 
-Sono di nuovo io?- si chiese.
 
Lixa lo guardava dal basso. Lui si guardò un attimo ciò credeva fossero le sue mani: vide davanti a se solo due protuberanze nere. Si voltò verso l’Assunta e vide un’enorme buco nero.
Sì. Era tornato ad essere ombra.
 
-Beh?- la voce di Lixa tradiva un certo nervosismo –Che fai? Sbrigati a diventare ragazzo! Cisano è appena svenuto! Non abbiamo tutta la notte!-.
 
Manes divenne dunque ragazzo, si passò una mano tra i capelli e si portò avanti le due ciocche verdi. Fissò quel verde fosforescente con molta intensità.
 
-Quando dura l’effetto della droga?- chiese, voltandosi verso Lixa.
-Un’ora e mezzo-.
-Ok-.
 
Mentre Lixa andava a chiudere le porte che davano sulla sala del Capitolo, quella principale e quella del campanile, Manes si voltava verso il corpo della vittima e si rimboccava le maniche.
Distese Antonio Cisano sull’altare, non senza una certa fatica, visto il suo corpo di gracilino tredicenne. L’Interdictae Artis Membrana diceva che bisognava affondare l’arma sacrificale nel cuore, nel momento stesso in cui l’arma perforava il petto la vittima moriva subito pronunciare la formula; non c’erano vere e proprie parole “magiche” ma solo una lenta litania che andava ripetuta a se stessi. Le parole dovevano rappresentare una speranza per la vita e bisognava pensare intensamente al quadro nel quale si voleva entrare.
“Cosa posso dire?” pensò Manes. Parole di vita, questo bisognava dire, dove le andava a prendere parole di vita in un momento come quello?
 
-Non ce la fai?-.
 
Lixa era tornata.
Era abbattuta, triste e non voleva veder morire nessuno, nonostante desiderasse vendetta.
 
-Sì che ce la faccio-.
 
Aveva capito che cosa doveva mormorare: parole di vita per Lixa, ecco cosa.
 
-Lixa deve avere una vita normale, che non dovrà mai essere rovinata da individui come Antonio Cisano-.
 
Poi ci pensò un attimo.
 
-E me-.
 
Gli era costato dirlo, ma sapeva che si trattava della verità: se non ci fosse stato lui, Lixa non avrebbe pensato di realizzare la sua vendetta, avrebbe continuato a soffrire, certo, ma non sarebbe mai arrivata a quel punto.
Ripeté all’infinito quella frase, assorbendone le parole, fino a dimenticarne il significato; nel frattempo, estrasse dalla tasca dei suoi pantaloni un vecchio pugnale che Lixa aveva trovato a casa sua. Quando finalmente riuscì a pronunciare quel periodo senza pensare al suo senso reale, si concentrò sul ricordo del quadro e avvicinò la punta del pugnale al petto di Antonio Cisano. L’uomo respirava debolmente.
 
-Lixa deve avere una vita normale, che non dovrà mai essere rovinata da individui come Antonio Cisano e me-.
 
Non si accorse che stava ripetendo quella litania a voce alta finché non sentì la muta domanda nei pensieri di Lixa: “Ma cosa sta dicendo?”.
Riaprì gli occhi, senza smettere di parlare o pensare al quadro. Affondò il pugnale nel petto di Cisano e spinse finché non raggiunse l’impugnatura dell’arma. L’uomo finì di vivere in quell’istante.
La chiesa era sprofondata in un silenzio assordante. Anzi, il mondo stesso era sprofondato in un silenzio assordante da quando aveva preso vita nel corpo di Cisano; quel silenzio era sembrato farsi ancora più incontenibile nel momento in cui l’assassino di Livio Tosca aveva smesso di respirare.
Solo il rumore della litania che Manes stava ripetendo era presente in quel vuoto che sembrava aver sostituito il mondo; quella situazione ricordò all’ombra qualcosa che aveva già vissuto, qualcosa di cui ora poteva ricordare la data: 1576.
Anno in cui la peste aveva colpito Venezia.
Ricordava l’odore di morte, lo stesso che ora sentiva provenire dal corpo di Cisano, e la lenta litania che una voce cantava all’interno della struttura che ospitava il coro. Aveva lo stesso ritmo della preghiera di Manes.
Ricordava il ragazzo al quale aveva preso l’aspetto, Mario Guglielmi, far entrare un uomo a pregare. Ricordava quell’uomo che si faceva spazio tra i corpi dei frati francescani, inginocchiarsi davanti all’altare e pregare qualcosa che riguardava la salvezza di sua figlia.
Rimembrava di quell’uomo che usciva, si guardava intorno alla ricerca di Mario e poi fissava il cielo plumbeo sopra di lui.
Ricordava di aver visto cadere una piccola perlina bianca lavorata dal polso dell’uomo: la stessa che Lixa aveva raccolto e aveva detto appartenere ai Tosca da quando erano arrivati a Venezia.
Collegò i due pensieri: quell’uomo era un antenato di Lixa e in più aveva pregato per la salvezza della figlia; Mario Guglielmi era svanito nel nulla, dopo aver fatto entrare quell’uomo in chiesa.
Riaprì nuovamente gli occhi. Non si era accorto di averli chiusi.
La sua bocca, le sue mani e il suo pensiero stavano agendo l’uno diviso dall’altro, in attesa che succedesse qualcosa, ma i minuti passavano e non stava succedendo proprio nulla.
Qualcosa non quadrava. Man mano le mani di Manes mollarono la presa sul pugnale, il pensiero dell’ombra tornò alla chiesa del presente e le sue labbra smisero di muoversi. Aveva ucciso Antonio Cisano e dato la vendetta a Lixa ma... perché lui non veniva trasferito nel quadro? Si voltò verso la ragazza. Anche lei lo guardava confusa.
 
-Che succede?- chiese.
-Non lo so-.
 
“Non ho pensato esclusivamente al quadro”.
 
Quella consapevolezza colpì l’ombra come un pugno in pieno stomaco. “Mi sono lasciato distrarre dai ricordi”. Si voltò verso l’Assunta.
 
-Madre, cosa ho fatto?- chiese ad alta voce, disperato.
-La giusta cosa. Hai capito il vero motivo per il quale sei passato da respiro di chiesa a ombra-.
 
 Era la voce di Lixa, ma aveva qualcosa di diverso, di ultraterreno.
 
-Lixa?- disse voltandosi verso di lei.
 
Gli occhi della ragazza erano divenuti grigi, sembravano perle che rilucevano al buio.
 
-Dovevi capire prima il perché ti sei materializzato al di fuori di questa basilica- disse la ragazza.
-Madre?-.
-Sì. Sono io-.
-Io sono diventato ombra per aiutare Lixa?-.
-Sì. Quando quell’uomo venne a pregare in questa chiesa, nel 1576, non salvò la figlia, che morì di peste. Lui si risposò, perché sopravvisse al morbo che gli aveva portato via la famiglia. Ma la sua preghiera era rimasta nella chiesa, come se fosse stata trascritta a forza sulle sue pareti. Tu hai esaudito la preghiera di quell’uomo, liberando la sua ultima discendente dal male. Le due gocce di sangue dello zio ti hanno risvegliato perché Livio Tosca ha desiderato ardentemente di potersi occupare di Lixa, in quell’ultimo istante più che nella sua intera vita, perché era consapevole che la nipote sarebbe rimasta per sempre sola. Quel desiderio ha riportato indietro la preghiera del suo antenato e ti ha fatto nascere sottoforma di ombra. Ora, oltre ad eliminare il male che incombeva su Lixa, le hai dato anche una famiglia. Quel ragazzo, che ha conosciuto grazie a te, le sarà sempre accanto-.
 
Gli occhi della ragazza tornarono color cioccolato e sul suo volto si dipinse un espressione stupita.
 
-Lixa, che c’è?-.
 
Manes credeva che non sarebbe riuscito a sopportare altro. Stava succedendo tutto troppo velocemente.
 
-Manes, guarda!-.
 
La ragazza indicò qualcosa dietro di lui. L’ombra si voltò: il corpo di Cisano stava diventando polvere dorata e stava svanendo; il quadro dell’Assunta si stava illuminando di una luce bianca e calorosa, pura; la voce ultraterrena che prima si era impadronita di Lixa si rivolse alla mente di Manes, dicendo: “Ora puoi tornare”.
Manes sorrise. Sentiva la sua anima purificarsi sempre di più e allontanarsi da quel mondo.
 
-Aspetta, Manes-.
 
Lixa si era avvicinata e gli aveva preso il polso.
 
-Lixa-.
 
Guardò la mano della ragazza stringersi sul suo polso e si sentì avvampare, esattamente come la prima volta che aveva pensato a lei che ritornava a trovarlo in chiesa dopo averlo conosciuto. Ricordò la paura che aveva provato, poiché la provava anche in quel momento. Aveva paura che qualcosa sarebbe potuto andarle storto, che qualunque cosa avrebbe potuto ferirla.
 
-Come faremo quando si chiederanno della scomparsa di Antonio Cisano?-.
 
I suoi occhi color cioccolato sembravano sciogliersi alla muta richiesta dietro a quella domanda, al desiderio che lui rimanesse. Sorrise pensando a Paolo.
 
-Sono sicuro che un modo lo troverai. Sei una ragazza molto intelligente. D’altronde con te ora c’è Paolo. Non sei più sola-.
-Lo so, ma...-.
-Ma?-.
-Ormai anche tu fai parte della mia famiglia-.
-Già. Ma io non me ne andrò-.
-Sul serio?-.
 
Lo sguardo di Lixa si illuminò.
 
-Certo. Finché esisterà la Basilica dei Frari, Manes con l’aspetto di Mario Guglielmi esisterà. Io sono il respiro e l’ombra della chiesa-.
-Hai ragione-.
 
Mute lacrime scesero sulle sue guance. Manes l’abbracciò. Quando si staccò le disse con un sorriso triste:
 
-E ricordati di venirmi a trovare qualche volta-.
-Certo. Stai sicuro che non me ne dimenticherò-.
 
Dopo aver sentito queste parole Manes iniziò ad indietreggiare verso la luce che veniva dal quadro, senza staccare gli occhi da Lixa.
 
-Addio-.
-Addio-.
 
Con un ultimo lampo, Manes tornò definitivamente nel quadro.






































Note di Saeko:
mi tremano le mani al pensiero di essere arrivata alla fine anche di questa avventura. Pur con tutte le difficoltà che sto vivendo, riuscire a dedicarmi con costanza alla passione della scrittura per me è un metodo di evasione che mi permette di mantenere un minimo di sanità mentale.
Questo capitolo è conclusivo per la storia del nostro protagonista, ma non è ancora finita: manca un epilogo reale a tutta la faccenda e lo pubblicherò domenica. Intanto, spero che fino a qui la storia vi sia piaciuta e che questo finale vi abbia chiarito tutti i piccoli indizi che ho lasciato in tutta la storia, che altro non dovevano fare che ristabilire l'ordine naturale delle cose.
Ne approfitto per ringraziare ora tutti coloro che mi hanno letta con una certa costanza sin qui:

alessandroago_94
Estel_naMar
Miryel
Nexys
_Lightning_
shilyss


Un ulteriore ringraziamento a tutti coloro che sono passati anche solo per caso, lasciando una sola recensione, e a tutti coloro che mi hanno semplicemente letta silenziosamente.
Grazie davvero per tutto il sostegno.
A domenica.

Saeko's out!

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Capitolo 19
*** Epilogo: La vita va avanti ***


Epilogo:
La vita va avanti
 
4 marzo 2003. Venezia, Campo dei Frari, sestiere di San Paolo.
 
Lixa era alla panetteria davanti alla basilica. Il signor Giorgio fece per consegnarle le due pagnotte e la rosetta che aveva chiesto, ma la ragazza non le prese subito; era voltata verso la chiesa e sembrava quasi in uno stato di trance, persa nei suoi pensieri.
“Oh no, di nuovo”.
Giorgio ricordava come la signora Maria Melania Costantin aveva reagito allo stesso modo, circa un anno prima, guardando la chiesa.
 
-Signorina Tosca, il pane-.
 
La ragazza sembrò risvegliarsi. Aveva lo sguardo allucinato.
 
-Ah, grazie Giorgio-.
 
Lixa prese il pane, pagò l’uomo e se andò senza salutare.
“Accidenti, che ragazza strana. Sono convinto che quella chiesa porti una specie di maledizione” pensò Giorgio, mentre guardava Lixa Tosca allontanarsi.
“Prima ci muore davanti Livio Tosca, poi Melania e infine trovano il corpo di Antonio Cisano dietro l’edificio; tra l’altro hanno trovato quegli appunti dell’ex-giornalista qualche giorno dopo nel pozzo dietro l’abside e pare che Cisano avesse ammazzato Tosca. Possibile?”.
Giorgio si ripeteva mentalmente quel piccolo gioco di eventi, quasi ogni giorno; erano strani, quasi irreali e il fatto che fossero accaduti quasi un anno prima non aiutava, perché nel frattempo, come sempre, la vita era andata avanti.
 
***
 
Lixa uscì velocemente dal forno e attraversò il ponticello che portava al Campo dei Frari. Non poteva credere a ciò che stava osservando.
Lì, proprio in mezzo al sagrato davanti alla basilica, dove era morto suo zio, c’era un ragazzino vestito con una maglia bianca e i pantaloni neri, esattamente come quelli che indossava Manes il giorno che le era venuto addosso. Quel ragazzino che stava lì, in piedi, muto, a fissare il cielo, aveva i capelli neri e ricci come i suoi.
Si avvicinò a lui con incertezza e gli mise una mano sulla spalla. Era leggermente più basso di lei. La cosa che la stupì fu che non appena toccò il tessuto della maglia il ragazzo iniziò a diventare trasparente, a svanire nel nulla.
Ma ancor più di questo fatto, la cosa che la stupì più di tutto fu quando si voltò. Il volto era quello con cui Manes le si presentava ogni volta che diventava ragazzo, ma non v’erano ciocche verdi sul lato sinistro della testa e i suoi occhi erano di un azzurro intenso, nessuna pagliuzza d’oro a decorare le iridi.
 
-Lo sapevo- disse lui, sorridendo alla ragazza.
-Cosa sapevi?-.
-Che questo posto sarebbe rimasto in eterno-.
-In che senso?-.
-La mia anima è rimasta qui per molto tempo, nonostante sia morto di peste. Poi ad un certo punto qualcosa l’ha svegliata. Non riuscivo a trovare il modo per uscire dall’ombra. Ci sono riuscito solo questa mattina-.
 
Fece una pausa. Nel frattempo il suo corpo continuava a svanire lentamente.
 
-Venezia è cambiata molto. Ma la chiesa dei Frari è rimasta quella che era, quella che ricordavo-.
 
Ormai il suo volto era quasi svanito, insieme al corpo. Però rimanevano nitidi i suoi capelli ricci e neri, gli occhi azzurri e il grande sorriso beato che aveva dipinto sul volto.
 
-Come ti chiami?- chiese Lixa.
-Io?- chiese indicandosi con la mano evanescente –Io mi chiamo Mario Guglielmi-.
 
Lixa gli tolse la mano dalla spalla, poiché ormai stringeva aria.
 
-Ehi, aspetta- disse Mario –Ma tu somigli a quell’uomo che ho fatto entrare in chiesa!-.
-Che uomo?-.
 
Ma non arrivò risposta. Ci fu solo un leggero bagliore e l’immagine dell’anima di Mario Guglielmi trovò la pace.
 
***
 
Paolo stava sistemando le panche. I fedeli erano appena usciti, poiché la messa del mattino era finita. In quel momento entrò dal portone principale Lixa; reggeva una busta che emanava un buonissimo profumo di pane appena sfornato. Quel giorno la sua scuola era chiusa per una disinfestazione, quindi sapeva che sarebbe venuta a trovarlo.
 
-Lixa!-.
 
Era felice che fosse arrivata, perciò le rivolse un sorriso radioso; poi si accorse dell’espressione strana che aveva.
 
-Che hai?-.
-Paolo, è successa una cosa incredibile-.
 
Mentre Paolo ascoltava il racconto di Lixa che incontrava l’anima di Mario Guglielmi, il ragazzo al quale Manes aveva preso l’aspetto, ripensò a quell’8 maggio dell’anno prima.
Ripensò a quando Antonio Cisano era morto.
Lui era rimasto fuori per evitare che qualcuno eventualmente venisse in chiesa, per qualsiasi motivo, ma il Campo dei Frari era rimasto silenzioso come suo solito.
Aveva repentinamente iniziato a piovere; lui si era stretto contro il portone, per proteggersi dall’acqua. Sapeva che non doveva entrare per non interrompere il rito; sarebbe venuta Lixa a chiamarlo. Tuttavia era poi successo qualcosa di strano: c’era stata una luce intensa che proveniva dalla chiesa stessa, la cui durata si era protratta per molti minuti; il ragazzo si era sentito avvolto da un calore familiare, come quello che gli regalava sua madre ogni qualvolta che lo abbracciava.
Tutto era finito in un attimo e quel punto Paolo non aveva resistito, aveva aperto il portone ed era entrato. Davanti all’altare c’era Lixa. Sola.
Stava fissando il quadro dell’Assunta di Tiziano.
Piangeva.
 
-Lixa! Cosa è successo? Dov’è Manes? E il corpo di Cisano?- aveva chiesto, correndole incontro.
-Il corpo di Cisano sembra sparito- aveva risposto lei –Ma Manes è tornato da sua madre-.
-Sul serio?-.
-Sì. L’angioletto mancante è di nuovo al suo posto-.
 
Paolo aveva guardato nel punto dove effettivamente era sparito un angioletto: in quel momento era di nuovo lì (e lì era rimasto anche nei giorni a venire).
Il giorno dopo, il corpo di Cisano era stato ritrovato dietro l’edificio, disteso supino con le braccia aperte, quasi a rappresentare un crocifisso; ma solo lui e Lixa avevano notato una cosa, che, effettivamente, solo loro potevano notare: il cadavere era messo in parallelo all’altare dentro la chiesa, nella posizione in cui Manes lo aveva disteso. Il pugnale era rimasto conficcato nel cuore, ma era privo di impronte digitali. Lixa e Paolo avevano pensato che forse si erano cancellate nel passaggio attraverso il quadro.
Avevano deciso, qualche giorno dopo, di lasciare tutte le prove che avevano recuperato dai diari di Mirco Lostello nel pozzo vicino all’abside, poco lontano dal luogo di ritrovamento dell’imprenditore.
In quell’anno, la Ca’ de Delizie aveva trovato un tutore legale che potesse coprire gli interessi della giovane proprietaria per permetterle di finire la scuola e diventare maggiorenne, prima di decidere che cosa fare del suo futuro.
 
-Quindi, forse l’anima di Mario Guglielmi si è svegliata nello stesso momento in cui Manes ha deciso di prendere il suo aspetto- terminò di dire Lixa.
-Probabile-.
-Non ci credo ancora! È stato come riavere Manes di nuovo qui. Però non ho fatto in tempo a ringraziarlo per aver vendicato mio zio-.
-Sono sicuro che lui già lo sa, te l’ha detto: finché ci sarà la Basilica dei Frari, ci sarà anche Manes-.
-Sì, lo so, tuttavia …-
-Ora basta-.
 
Paolo le mise un dito sulle labbra.
 
-Manes non vorrebbe che tu sia triste perché lui non c’è e che tu lo cerchi ogni volta che ne hai l’occasione. Lo sai benissimo che è inutile-.
-Sì, hai ragione-.
 
Lixa abbassò lo sguardo. “Allora, la sposto sullo scherzo” pensò Paolo.
 
-E poi così mi ingelosisco. È incredibile che lui riesca ad avere ancora la priorità sul tuo cuore, nonostante ora non sia più in questo mondo, ma nel suo-.
 
Lixa sospirò prima di alzare la testa e sorridere sbarazzina.
 
-E così t’ingelosisco?-.
-Sì, e pure a dovere-.
-Bene. Vuol dire che mi vuoi bene. Però i gelosi non li sopporto-.
 
Paolo fece uno sguardo interrogativo.
 
-E poi è Manes che dovrebbe essere geloso-.
-Perché?-.
-Perché lui sa benissimo che chi ha priorità sul mio cuore sei tu-.
-Già, è vero. Ormai sapeva leggere anche i tuoi di pensieri, giusto?-.
-Sì-.
 
Lixa si avvicinò e lo baciò.
Paolo la strinse a sé.
 
-Ehi, qui siamo in una chiesa- la voce di frate Luigi li fece staccare d’improvviso –Se volete fare questo genere di smancerie, fatele in un luogo privato-.
 
Tutti e due arrossirono violentemente, prima di rispondere:
 
-Sì, frate Luigi. Ci scusi-.
 
Paolo diceva che non doveva essere triste per Manes, che doveva smettere di cercarlo ogni volta che ne aveva l’occasione. Anche Lixa sapeva che era completamente inutile.
Eppure era qualcosa che ormai le veniva automatico; però ci avrebbe provato, perché sapeva che Manes voleva che lei vivesse la sua vita: ricordava ancora benissimo la litania che l’ombra aveva recitato mentre affondava il pugnale nel petto di Cisano.
In fondo al suo cuore, sapeva che avrebbe ricordato per sempre Manes, la strana ombra che l’aveva portata al di fuori del naturale, fino a raggiungere il soprannaturale; che l’aveva aiutata a trovare una famiglia con cui stare.
Lixa l’avrebbe ricordato per tutta la vita.
 
 



Niente va mai perduto veramente.
Tutto ha una fonte,
anche le cose che sembrano dimenticate.
E’ solo che a volte
non è facile trovare l’inizio di tutto,
l’inizio di noi.
Tutto ciò che possiamo fare è cercare.
 
 
 





 
 
Fine






























 
Postfazione e ringraziamenti di Saeko_san

 
La genesi di questo racconto non è stata particolarmente sofferta (non come il primo che ho scritto, almeno); avevo quasi quindici anni, ero alla fine del mio quarto ginnasio ed ero in gita d’istruzione a Venezia. Avevamo una signora a farci da guida nelle varie passeggiate fatte per la città, di cui purtroppo non ricordo più né nome né volto, ma ricordo che ci raccontò tantissime cose di una città che evidentemente amava.
 
Molte delle descrizioni della città che avete trovato in questa storia sono state fatte con gli occhi della me adolescente, affascinata dalla passione che la nostra guida infondeva nei racconti della sua casa; questo piccolo romanzo è stato scritto in poco più di otto mesi, per poi essere lasciato a se stesso nel dimenticatoio dei miei hard disk.
Ha subìto una prima revisione circa sei anni fa e all’epoca credevo che fosse ormai concluso e che non avesse bisogno di ulteriori rimaneggiamenti.
Tuttavia, rileggendolo, mi sono resa conto che c’era ancora molto che si poteva migliorare e spero che adesso abbia raggiunto la sua forma finale.
 
Non è cambiato moltissimo dalla sua prima stesura, soprattutto a livello di trama; l’unico elemento ad essere effettivamente cambiato è stato il cognome di Antonio Cisano, che inizialmente si chiamava Antonio Casano – ma poiché questo nome mi sembrava troppo riconducibile all’ex calciatore della Roma Antonio Cassano, ho deciso di cambiarlo.
 
Ringrazio chiunque sia giunto alla fine di questa piccola avventura, ma soprattutto devo molta della mia gratitudine ai miei genitori (a cui il lavoro è dedicato), che si sono sempre mostrati entusiasti dei miei progetti, di questo in particolare; anche se mia madre non c’è più, sono certa che quest’ultima versione di questo racconto le sarebbe piaciuta moltissimo.
 
Basta poco per rendere felice una persona, perciò grazie di avermi permesso di passare sul vostro cammino.





 

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