Roots - Le radici di famiglia

di Melanto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Dietro il vetro di otto anni prima ***
Capitolo 2: *** I: Farsi scappare il tempo da tutte le parti ***
Capitolo 3: *** II: Figli di Marzo ***
Capitolo 4: *** III: Rami di Melograno ***
Capitolo 5: *** IV: Le fondamenta nascoste negli occhi smarriti e in quelli severi ***
Capitolo 6: *** V: La perfezione non è la risposta ***
Capitolo 7: *** VI: A volte ritornano ***
Capitolo 8: *** VII: Così vicini... ***
Capitolo 9: *** VIII: ...e alla distanza del sole ***
Capitolo 10: *** IX: Radici ***



Capitolo 1
*** Prologo: Dietro il vetro di otto anni prima ***


Roots - Prologo

Note Iniziali: ‘Roots’ è ambientata in due tempi: questo Prologo si colloca OTTO anni prima degli eventi che partiranno dal Capitolo 1 (quindi in pratica sono trascorsi nove anni dall’inizio di ‘Malerba’). Shuzo ha iniziato il secondo dei due anni di prigione che gli sono rimasti (dopo esser stato arrestato alla fine di ‘Malerba’ e aver avuto una riduzione di pena da 5 a 2 anni).

Ricordate la prima shot della raccolta ‘Jikan’? Ecco, quella è ambientata lo stesso giorno di questo Prologo! Lì si parlava di Akio che era tornato dalla prigione, mentre qui… qui c’è appena arrivato :3

 

Let’s start the show!

Buona lettura ♥

 

 

 

 

 

 

Roots

- Le radici di famiglia -

 

 

 

 

- Prologo: Dietro il vetro di otto anni prima -

 

 

 

«Hai visite, 77592.»

Shuzo alzò la testa dal libro di matematica e inarcò un sopracciglio. L’espressione di Ishie, che comparve sulla soglia della cella, non gli stava mentendo. Storse un sorriso.

«È in anticipo.»

Mamoru continuava a presentarsi nei giorni più disparati, senza seguire logiche né schemi.

 

“Così non te l’aspetti e non puoi rifiutarti di vedermi.”

 

Chissà se si rendeva conto di quanto quei salti da un giorno all’altro gli facessero passare in fretta la settimana. Acceleravano il tempo e la sua relatività, gli facevano divorare i giorni tanto da svegliarsi al mattino e trovare che un’altra sera fosse già arrivata e pronta a schiarire nell’alba. Il tempo non era più suo nemico né alleato, ma solo qualcosa che esisteva nel suo stesso mondo e che poteva accettare o rifiutare, stava a lui. Shuzo l’aveva accettato, vivendone il passaggio.

Sorridendo richiuse il libro con gli esercizi, si fece mettere le manette e seguì la guardia senza alcuna protesta.

Era diventato un detenuto modello, gli aveva detto un giorno il direttore Kotatsu.

Nemmeno quello gli importava, lui faceva solo ciò che doveva e voleva: sistemava le sue cose sospese, una alla volta; scontava il debito, recuperava ciò che si era perso per strada. Che alla fine tutto quello lo facesse sembrare Gesù Bambino era irrilevante: contavano il fine e la fine. Contava che, una volta uscito da Fuchu, lui non avesse lasciato nulla alle proprie spalle.

Venne introdotto nella sala visite, che ormai conosceva a memoria: ci finiva due volte a settimana di fisso, tra le visite di sua madre e di Mamoru. La mamma era sempre puntuale: ogni giovedì, nel primo pomeriggio – e quindi sapeva per certo non fosse lei, perché era martedì e l’ora di pranzo non era ancora arrivata. Mamoru, invece, era una meteora che volteggiava nell’arco della settimana: tutti i giorni erano suoi, tranne, appunto, il giovedì. Un po’ lo faceva ammattire, con quell’andirivieni senza logica, e un po’ gli faceva desiderare il momento in cui l’avrebbero condotto nella stanza per trovarlo dall’altra parte del vetro infrangibile che sorrideva soddisfatto di averlo sorpreso ancora. Sorprenderlo sempre. Se solo avesse saputo avrebbe gongolato mesi interi, quindi no, non gliel’avrebbe detto.

Per questo quando entrò nella sala, si guardò subito attorno nella speranza di adocchiare i suoi bei capelli neri che gli mancavano di continuo, e dire che l’aveva visto solo due giorni prima.

«Box-3», disse Ishie, poi chiuse la porta; tanto nella sala c’era un’altra guardia ferma a vigilare, e le telecamere erano ovunque: seguivano tutto dall’alto.

Shuzo si volse a sinistra e con piccoli passi, per le catene che aveva alle caviglie, si avvicinò al gabbiottino; sorriso smagliante e mani abbandonate in grembo.

Ma il sorriso sparì, perché non era Mamoru che lo aveva sorpreso questa volta.

 

Akio aveva le mani intrecciate sul piccolo ripiano. Gli sudavano i palmi, ma non sciolse l’intreccio delle dita, muovendole le une sulle altre; fissandole.

Non sapeva se fosse stata o meno una buona idea presentarsi di persona, sapeva solo che aveva voluto farlo, a discapito di ogni conseguenza; Shuzo non avrebbe potuto infrangere il vetro per poterlo picchiare un’altra volta.

Sarebbe sempre voluto andare a trovarlo, anche prima e più spesso, ma ci si era tenuto alla larga: non è un buon momento, diceva ogni volta. Stare in prigione era già pesante, non c’era bisogno di irritarlo di più.

Esalò l’ennesimo sospiro e alzò la testa. In quel momento, i suoi occhi incrociarono quelli di Shuzo. Aveva avuto un bel sorriso sulle labbra che sparì nell’attimo in cui si guardarono. Era evidente che non stesse aspettando lui.

Akio drizzò la schiena, le dita smisero di rimestarsi e si aggrapparono strette, le une alle altre.

Poco più di un anno era passato da quando era stato preso a pugni fuori del Kokoro, dagli alberi cadevano le prime foglie di settembre e si insinuavano i primi freschi serali. Era la prima volta che si rivedevano dopo quel momento in cui aveva scelto la via dell’odio, pagandone le conseguenze più pesanti. Di quel pugno, Akio non conservava alcun segno visibile ma il ricordo era impossibile da cancellare. Si domandò se anche Shuzo lo ricordasse o se per lui fosse stato niente più che l’ennesimo atto di sfogo e ribellione.

Ad ogni modo, Akio si sentiva strano. Preda d’una smania che avrebbe voluto togliere quella parete divisoria per poter guardare meglio suo figlio da vicino, parlargli senza un telefono a fare da tramite, accertarsi che stesse bene.

Lo sezionò con gli occhi, iniziando dal cappello che copriva la testa rasata fino ad arrivare a quelle specie di ciabatte che portava ai piedi. Non erano troppo leggere ora che l’autunno stava arrivando? Lo pensò anche della tuta grigia con il numero stampato sul petto.

77592

L’identificativo di suo figlio.

Quante cose aveva affrontato la sua famiglia. No, non i ‘Morisaki’, ma la sua famiglia. Lui, Yumeko, Yuzo e Shuzo. Avrebbe potuto incolonnarli come si faceva con le liste della spesa: un tentato omicidio, il riformatorio, un cambio di cognome, le gang, il carcere, la morte, i silenzi, l’odio, la violenza, le liti, le distanze e poi di nuovo il carcere. Sembrava non potesse avere mai fine; alcuni nomi si rincorrevano come in un eterno girotondo, ma nonostante tutto continuavano ad andare avanti. La sua famiglia avrebbe potuto superare tutto, aveva capito una sera seduto nel giardino di casa sotto il gazebo fantasma. Avrebbero superato anche quello. E poi, fissando il fondo del bicchiere di liquore con cui si era fatto compagnia durante quella solitaria riflessione, si era domandato quante cose avessero visto i suoi occhi. Più di quelle che a un uomo normale veniva chiesto di affrontare.

Vedere il figlio ammanettato ai polsi e alle caviglie, con quella tuta grigia era l’ennesima prova cui i suoi occhi venivano sottoposti.

Se reggi anche questo, puoi reggere tutto.

Dopotutto, aveva retto alla vista del cadavere di Yuzo all’obitorio; non c’era più nulla che potesse davvero scalfirlo.

Quindi resse il disprezzo sul viso di Shuzo, sulle labbra incurvate verso il basso e nel modo in cui assottigliava lo sguardo. Resse fino a che Shuzo non gli volse le spalle, pronto ad andarsene senza neppure ascoltarlo.

Akio batté un pugno sul vetro, che attirò anche l’occhiataccia della guardia, tanto da farla muovere verso di loro. Nella stanza delle visite c’era solo un altro detenuto, seduto all’altro capo della fila di gabbiotti: parlava fitto con una donna vestita in maniera appariscente.

Shuzo si girò, lui aveva ancora il pugno chiuso contro il vetro. Lo aprì, sorpreso dalla propria urgenza, e gli indicò la sedia.

Gli occhi di suo figlio si spostarono un paio di volte dal viso alla seduta. Valutavano. Alla fine sbuffò. Con espressione seccata, e che non faceva nulla per dissimulare, si accomodò alla sedia e poggiò entrambi i polsi sul piccolo ripiano d’acciaio, prese il telefono e lo portò all’orecchio.

Per la prima volta dopo un anno, Akio sentiva suo figlio respirare.

Un rifiato nervoso, a volte pesante, altre volte silenzioso quasi da sparire e a quel fruscio poteva associare uno sguardo, quello che Shuzo gli teneva puntato negli occhi, carico di disprezzo e senza alcuna intenzione di distoglierlo, quasi fosse in atto una sfida.

Testa alta, come un vero Morisaki.

Akio si perse alcuni istanti a osservare il colore delle iridi, le linee del viso, le espressioni, la forma delle labbra e del naso. L’ultima volta che aveva potuto vederlo da così vicino era finita male, ma ora Shuzo non avrebbe colpito un vetro infrangile e quindi poté concedersi quei brevi momenti per rivedere, nel suo, anche il viso di Yuzo.

Erano uguali, i suoi figli, tanto che lui per molto tempo aveva faticato a distinguerli; soprattutto da bambini. Adesso quell’uguaglianza gli sembrò miracolosa, perché per un attimo glieli restituì entrambi.

«Sei venuto per fissarmi o per parlare?»

L’asprezza di Shuzo sciolse la cornetta con la sua acidità.

Akio cercò di non mostrare apertamente il proprio turbamento e tossicchiò prima di salutare con quell’incerto: «C-ciao.»

Ottenne un sogghigno di commiserazione.

«Sì, e poi?»

«Come… come stai?»

Un nuovo sogghigno, più aspro del precedente. «E poi

Shuzo non gli stava lasciando alcuno spazio per avere un dialogo, o quantomeno tentare anche solo di gettare nei loro silenzi degli innocui convenevoli.

Akio avrebbe voluto sapere come stava, aveva l’impressione che fosse dimagrito – l’aveva solo immaginato? –, che gli occhi avessero segni scuri di stanchezza.

Avrebbe voluto scambiare due parole di quelle inutili, che non dicono niente, ma sanno di normalità. Quella che, tra loro, non avevano mai conosciuto.

Akio tese di più le spalle e aggrottò le sopracciglia scegliendo l’atteggiamento che Shuzo conosceva di più e che, paradossalmente, lo avrebbe messo a suo agio: la severità.

«Avrebbe dovuto dirtelo Mamoru, ma gli ho chiesto di lasciarlo fare a me.»

Shuzo si irrigidì: l’espressione interessata, il sorrisetto sparito.

«Questa mattina è stata emessa la sentenza contro Daidouji.»

«Questa mat-… ma l’udienza era la settimana prossima! Di che stai-?!»

«È stata anticipata. La decisione era già stata presa.»

Shuzo sgranò gli occhi, tirò indietro la testa e le spalle. «Io non lo sapevo! Nessuno me l’ha detto.» Si avvicinò minaccioso al vetro, mostrando i denti in uno sguardo feroce che gli ricordò il loro scontro; in particolare, l’attimo prima che il pugno lo colpisse. C’era quello stesso lampo di odio nelle iridi nocciola che, ogni volta, sapevano stupirlo per quanto assomigliassero a quelle di Yuzo. Avrebbe dovuto essere abituato, ma la natura che li vedeva gemelli sapeva ferire quando non se l’aspettava. Come in quel momento, ad esempio, quando immaginava che a guardarlo con tale rancore fosse anche il figlio che gli avevano ucciso.

«È stata una tua idea?! Hai detto tu agli altri di-»

«È stato Mamoru a proporlo. A noi è sembrata la cosa giusta e abbiamo accettato. Diceva che saresti rimasto nervoso e teso fino a che non avessi saputo l’esito. Era uno stress inutile.»

Anche Akio l’aveva reputata la scelta migliore: che Shuzo rimanesse irascibile e sulle spine fino al verdetto non avrebbe avuto senso, tanto non avrebbe potuto fare nulla né tantomeno protestare. Inoltre, non gli avrebbero permesso di essere presente alla seduta, quindi, stare in tensione non sarebbe servito a nessuno. Lo stress e le pressioni affrontate durante parte del processo contro Daidouji erano stati sufficienti, lui l’aveva visto: Shuzo era stato chiamato a testimoniare dall’accusa per i fatti occorsi a Obuchi. Non era stato facile, anche se in aula si era comportato bene e aveva risposto in maniera impeccabile e calma. Yumeko gliene aveva parlato in separata sede, raccontandogli le proprie impressioni di quando l’incontrava in carcere e quelle che le condivideva Mamoru: Shuzo sentiva il peso dell’essere vicino a chiudere la faccenda e temeva che le proprie azioni avrebbero potuto compromettere il risultato di quell’attesa tanto lunga, renderla vana.

Almeno il carico della sospensione finale avevano voluto evitarglielo.

A quel punto, Shuzo distolse lo sguardo, dopo essere rimasto a fissarlo dritto negli occhi. Teneva stretta la cornetta, ma l’allontanò dall’orecchio per qualche momento. Akio pensò volesse riagganciare e andarsene, ma era certo che suo figlio non se ne sarebbe andato senza prima aver saputo che fine avrebbe fatto Daidouji.

Lo vide annuire, storcere le labbra e rosicchiarne l’interno. Doveva avere la testa piena di ragionamenti tutti suoi.

Portò di nuovo la cornetta all’orecchio, ma aveva ancora lo sguardo distolto verso un punto indefinito. Shuzo rigò il labbro inferiore con gli incisivi, pareva quasi non averlo ascoltato, ma alla fine tornò a guardarlo dritto negli occhi. E lo sguardo, anche se aveva lo stesso colore di quello di Yuzo, aveva il ferro che Akio fissava nello specchio ogni mattina.

«Dimmi il verdetto.»

Akio prese un profondo respiro, accennò un sorriso che camuffò nell’umettarsi le labbra.

«Gli hanno dato la pena capitale a fronte del duplice omicidio e tutte le imputazioni più gravi.» Guardò l’espressione di suo figlio mutare in maniera impercettibile, gli occhi farsi grandi. Dentro di essi poteva leggere la stessa emozione che aveva provato in prima persona poche ore prima: soddisfazione, senso di giustizia, gioia. Nessuno dei due si sentiva orribile nell’esultare sulla pelle di qualcun altro, perché entrambi pensavano che se lo meritasse e che, anzi, stesse pagando già troppo tardi. Nessuna pietà nei loro occhi. Nessuna pietà nei loro cuori. Nessuna pietà. «Daidouji morirà al Tokyo Kochinsho.»

Shuzo serrò le labbra; tremarono nelle smorfie che cercava di trattenere e il tremore si trasmise al viso, alle spalle, all’intero corpo. Si morse l’interno della guancia, abbassò lo sguardo sul ripiano che aveva davanti e tolse la cornetta dall’orecchio. La strinse così forte, che Akio pensò volesse spezzarla o lanciarla contro il vetro o sbatterla da qualche parte, ma si limitò a battere più volte il pugno nel palmo vuoto. Storse un sorriso così folle che per un momento stentò a riconoscerlo, ma passò in fretta e la bocca si piegò verso il basso sotto tutt’altre emozioni. Chinò la testa, la eclissò dietro le mani e la cornetta, che svettava tra di esse, strette l’una all’altra come in preghiera. Si nascose lì, in quello spazio microscopico e tutto ciò che Akio vide di suo figlio furono le spalle che sussultavano, le dita che afferravano la testa rasata di fresco da sotto al berretto e stringevano. Attraverso la cornetta percepì un singhiozzo, il fiato che veniva filtrato tra i denti, il naso che tirava su.

Una volta di più, avrebbe voluto che non ci fosse alcun vetro tra loro così da poterlo toccare. La testa magari o la spalla. Di sicuro non si sarebbe fatto abbracciare, ma almeno quello, almeno… fargli capire che condivideva il senso di liberazione, che poteva sfogarsi se voleva, che la fine, dopotutto, era davvero arrivata. L’avevano attesa per così tanto quella vendetta chiamata giustizia, potevano dare pace ai sensi di colpa che non erano mai riusciti a silenziare, agli ‘avrei potuto’, agli ‘avrei dovuto’, ai ‘mi manca’.

Tutto ciò che Akio poté fare, fu di poggiare la mano contro il vetro, mentre Shuzo piangeva e si dondolava sulla seggiolina, nascondendosi in ogni modo.

È quasi finita, ragazzo mio. Ormai è quasi finita.

Un pensiero che rimase affidato a quella mano sul vetro che subito ritirò quando Shuzo si ricompose in fretta e furia, perché c’era lui dall’altra parte e non qualcuno di cui si fidasse, come Mamoru o sua madre. C’era solo lui, il peggior nemico dopo Daidouji… oh, e quindi adesso era salito al primo posto?

Shuzo tossicchiò, passò i palmi sugli occhi e infine calcò il cappello sulla testa, celando lo sguardo con la piccola visiera. Non sollevò più il viso, avrebbe finito col mostrargli una vulnerabilità che affondava radici in un passato troppo lontano in cui era stato un ragazzino e non di certo un uomo.

Attraverso la cornetta, però, non riuscì a camuffare l’incertezza che aveva nella voce, anche se si schiariva la gola. Di quella fragilità, Akio fu felice in fondo al cuore: significava che suo figlio non si era inaridito del tutto.

«Hanno detto una data?»

«No. La comunicheranno quando sarà il momento.»

Shuzo annuì, più volte. Picchiettava con l’indice sul ripiano, manifestando una certa impazienza.

«Allora, se questo è tutto, ti saluto.»

«A-aspetta!»

«Devi dirmi altro?»

Tante, tante cose avrebbe voluto dirgli e chiedergli. Così tante che la mezz’ora che avevano a disposizione non sarebbe mai potuta bastare, e così tante che non avrebbe saputo neppure da dove cominciare. Per questo l’istinto fu di tirarsi indietro, all’improvviso, perché quando si arrivava al dunque ogni proposito spariva.

«No, io…»

«Allora non serve a niente stare qui a perdere tempo. Hai fatto quello che dovevi.»

«Non quello che ‘dovevo’ ma quello che ‘volevo’

«E cosa cambia?»

«Che sono qui.» Sono qui, ora. Posso esserci in futuro. «E ci sei anche tu.»

Shuzo si passò di nuovo il dorso della mano sulla guancia e la bocca. Qualcosa gocciolò sul ripiano, ma subito la ripulì col braccio. Akio lo sentì schiarirsi la voce un’ultima volta per poi restare in silenzio. E non sapeva se fosse ancora toccato a lui interromperlo o se adesso spettasse a suo figlio fare una mossa, che fosse quella di mandarlo al diavolo o schernirlo, insultarlo. Ma Shuzo ripose la cornetta sul supporto e si alzò, solo allora sollevò la testa. Akio poté guardare gli occhi arrossati e la durezza che portavano con sé.

Non tornare, mimarono le labbra, accompagnate dal moto della testa che negava la sua presenza e imponeva che a quella visita non ne sarebbero dovute seguire altre. Gesto cui si fece trovare ritto e preparato, con la stessa durezza riflessa nelle iridi scure, perché era solo così che sapevano comunicare. Poi, non gli rimase che vederlo andare via, la porta della stanza aprirsi e Shuzo venire inghiottito dal resto della prigione.

Solo allora, ormai solo nel box e nell’intera stanza, Akio sospirò, appoggiando la cornetta sul supporto. Rifiutato, ancora, in quella Guerra Fredda giocata su tempi lunghi come ere geologiche. Magari avrebbero dovuto aspettare di diventare fossili per poter arrivare a una tregua. Magari gli sarebbe davvero toccato morire per riuscire a sotterrare i rispettivi rancori.

Akio si passò una mano nei capelli dove il colore scuro aveva da tempo perso la battaglia dell’età. Si alzò e lasciò la sala, pensando che non ci fosse due senza tre; avrebbe dovuto prepararsi al prossimo rifiuto.

 

«Ehi, che faccia che hai, 77592. Pessime notizie?» Ishie, che era rimasto fuori della sala per riprenderlo, gli scoccò un’occhiata perplessa dopo avergli tolto catene e manette.

Per quanto Shuzo tentasse di nasconderli, o di ostentarli come non significassero nulla, i suoi occhi rossi non passavano inosservati. Lo sguardo stravolto sull’espressione aggressiva lo faceva sembrare molto più umano che pericoloso.

«Tutt’altro.»

«Se fossero state lacrime di felicità, avresti dovuto avere un sorriso a trentadue denti, e invece sembra che vorresti mangiarti anche me con tutte le scarpe.» Ishie la buttò in scherzo, Shuzo non rispose.

Dentro aveva tutto sottosopra.

Verso Mamoru provava emozioni contrastanti. C’era una parte di lui, quella che lo amava sopra ogni ragionevole dubbio, che aveva compreso il suo gesto e l’aveva trovato protettivo, tipico di lui. Avrebbe addirittura sorriso e la prossima volta che si sarebbero visti gli avrebbe detto che si ostinava ancora a trattarlo come una principessa del cazzo. Ma un’altra parte, quella del cannibale che lo amava allo stesso modo, stava smaniando per potergli gridare contro che non avrebbe dovuto tacergli la verità. Avrebbe dovuto dirglielo e se sarebbe stato in ansia, nervoso o solo gli dèi sapevano cosa, sarebbero stati solo cazzi suoi. Lo conosceva così poco da prenderlo per una fighetta? Cazzo!

Per fortuna il tempo avrebbe fatto decantare i contrasti che sentiva agitarsi nel petto e nello stomaco; tutto si sarebbe depositato nella testa, come la posa di un vino. In superficie sarebbe rimasto, in equilibrio, solo il buono: l’avrebbe ringraziato, l’avrebbe rimproverato e insieme avrebbero gioito di quella minuscola vittoria. Yuzo avrebbe avuto giustizia, ma la gioia sarebbe stata come una nuvola passeggera in mezzo al deserto: sollievo di un attimo che non avrebbe cancellato i dolori degli anni passati.

E poi…

E poi c’era Akio.

Quando l’aveva visto, aveva stentato a credere che fosse lì. In carcere aveva trascorso anni interi ancor prima di quello e lui non si era mai fatto vedere. Come non fosse mai esistito.

Non gli aveva urlato ‘non sei più mio figlio’, dopotutto?

Per un attimo aveva creduto che fosse successo qualcosa a sua madre, poi la repulsione che nutriva nei suoi confronti aveva vinto su ogni catastrofismo.

Se solo ripensava che era andato per dirglielo di persona gli ingranaggi continuavano a saltare. C’era qualcosa nei loro meccanismi abituali che si inceppava: non avevano mai funzionato così.

Mentre camminava seguendo il ritmo di una marcetta immaginaria, il dubbio si insinuò e gli fece pensare che forse le sue, per una volta, non fossero state solo chiacchiere. Ma bastò girare l’angolo che dal corridoio dove si trovava la sala visite conduceva all’ala delle celle, che l’ottusità costruita dalle esperienze passate glielo fece cancellare in fretta.

Akio era campione di chiacchiere, e quelle lo erano più delle altre che aveva mai sentito, perché erano fasulle. Aveva ancora la pretesa che lo accogliesse a braccia aperte? Cadeva male, perché lui le braccia le teneva serrate al petto, più strette possibile. Non sarebbe finito in un tranello tanto stupido, per chi l’aveva preso?

Ma non sapeva spiegarsi come avesse potuto piangere davanti a lui, come fosse stato un bambino. Si era lasciato sorprendere dalla notizia, sopraffare dalle emozioni. Aveva ceduto a una debolezza improvvisa come un idiota che dalla vita non aveva imparato nulla. Un tempo non sarebbe stato così disattento e non avrebbe mostrato nulla, trattenendo ogni cosa fino a che non si fosse rintanato nel proprio appartamento.

Ma era anche vero che un tempo sarebbe stato solo, senza nessuno di cui fidarsi ciecamente come con Mamoru. Un tempo non sarebbe stato che una malerba e basta, ma quell’immagine indistruttibile di sé dietro cui si era nascosto per anni era ormai venuta giù e il ‘Chi sei?’ non aveva più paura di piangere. Anche quella era una dimostrazione di forza, a suo modo. Solo che farlo davanti ad Akio faceva quasi credere che avesse bisogno del suo appoggio.

Hai fatto quello che dovevi.

Non quello che ‘dovevo’, ma quello che ‘volevo’.

Quella frase echeggiò più forte tra tutta la confusione che gli smaniava dentro.

«E chi è venuto a darti la lieta novella? La mammina, l’avvocato scemo o l’amichetto?»

Ishie gli aprì la porta della cella e lo fece rientrare, lui non sollevò il capo, neppure per lanciargli un’occhiata sarcastica e una risposta ironica che l’avrebbero fatto finire in punizione.

«Nessuno di loro», disse, sfilandogli davanti per entrare in cella. La porta venne chiusa alle sue spalle e il rumore della chiave che girava nella toppa a doppia mandata gli disse che, a fronte di tutto quello che avrebbe potuto essere o meno reale, Akio era andato a trovarlo dopo quasi tre anni di riformatorio e otto di prigione.

Era andato a trovarlo.

E lui gli aveva detto di non tornare.

«…era mio padre.»

 

“Giuro che è vero:

il passato non è morto,

è vivo e sta accadendo

dietro la mia testa.”

 

It’s happening again – Agnes Obel

 

 


 

 

Note Finali: …here we go again. :3

Come spiegato nelle note iniziali, questo prologo si colloca otto anni prima degli eventi di ‘Roots’.

Malerba è tornato e qui era, come dire, ancora molto sulle sue con Akio.

Grazie alla raccolta ‘Jikan’ però sappiamo che, insomma, qualcosa è accaduto. Akio e Shuzo hanno imparato a stare nella stessa stanza senza far succedere putiferi e hanno anche sopportato cene intere a casa degli Izawa – dove Akio ha detto a suo figlio di non aver problemi con la sua omosessualità.

Le cose pareva dovessero prendere l’impennata… Ma poi c’è stata la fine della storia ‘Malerba’, con l’esecuzione di Daidouji, e pare che tutto sia finito in un nulla di fatto: Akio e Shuzo restano sempre su un livello di equilibrio, ma senza grandi differenze.

 

E qui comincia ‘Roots’.

Esattamente l’anno successivo all’epilogo di ‘Malerba’.

Vediamo un po’ cos’è rimasto di queste radici. :3

 

Inizio col ringraziare chiunque vorrà farmi compagnia anche durante questa pubblicazione, gli aficionados del Tamarro e chiunque leggerà.

‘Roots’ è composta da DIECI capitoli totali (Prologo + 9cap.), è già tutta scritta e pronta per essere pubblicata. :*

See you nei miei soliti #LunedìFyccina <3

 

 

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Capitolo 2
*** I: Farsi scappare il tempo da tutte le parti ***


Roots - Capitolo 1

 

 

 

- I: Farsi scappare il tempo da tutte le parti -

 

I disturbi, alla fine, si presentavano sempre allo stesso modo: frequenti stati d’insonnia, fatica a concentrarsi, difficoltà a respirare, fitte allo stomaco che lo svegliavano anche nel cuore della notte e quel distacco della mente dal mondo che aveva attorno, dai problemi aziendali, dalla vita quotidiana, dalle chiacchiere dei suoi collaboratori, amici, parenti.

Quella era la quarta volta in meno di un mese e mezzo che finiva nello studio del medico di famiglia da quando Yumeko gli aveva detto che così non poteva continuare – e non era nemmeno sicuro, alla sua età.

Lui non era mai stato tipo da medici, ci andava solo quando era proprio necessario e per il resto faceva regolarmente gli esami di routine. Da uno di questi, era emerso un innalzamento della pressione, ma i controlli successivi avevano escluso problemi più seri.

«Sei iperteso.»

La diagnosi definitiva.

Aveva così iniziato, per la prima volta nella vita, a dipendere da un farmaco in modo costante e giornaliero. La scoperta stata quasi contemporanea al ritorno di Shuzo, e quindi erano circa nove anni che assumeva la solita pillolina dopo ogni colazione e già gli era sembrato un supplizio. Ora ci si mettevano anche quell’insieme di disturbi che, per quanto piccoli, lo stavano sfiancando poco alla volta.

Diversamente dal solito, però, Akio non stava affrontando il problema con praticità e fermezza.

Il motto ‘alza la testa, reagisci, sii forte, vai avanti’ non valeva solo per il lavoro o le relazioni sociali, era proprio una regola di vita. Ma Akio avvertiva, tra spalle e spirito, una stanchezza che non aveva mai conosciuto e che gli faceva srotolare l’esistenza in passi tanto conosciuti da essere ormai meccanici. Programma compilato nelle sue subroutine sinaptiche e lasciato ad attivarsi in automatico al suono di ogni sveglia.

Akio non si era opposto, e del motto di vita tutto si era ridotto a un trascinato ‘vai avanti’. In tale monotonia non ricordava più dove avesse perso il resto.

Tra loro, in quella stanza – lui e il medico – l’unico ad alzare lo sguardo fu il dottore.

«Gli esami sono tutti negativi, anche quelli più specifici che ti ho fatto fare. Una buona notizia, no?»

Lui annuì, ma sentiva di avere la testa distante già da quando si era seduto in sala d’aspetto. Non sapeva come, ma si perdeva con facilità, anche durante le riunioni di lavoro.

Lui si perdeva e non sapeva dove.

«Senti, Akio.» Il medico tolse gli occhiali dopo aver atteso una qualche reazione da parte sua. «Ci conosciamo fin dal liceo, fammi essere più amico che medico, adesso. Ti spiace?»

«No, basta che non mi chiedi di farti copiare il test di giapponese.»

«Ehi! Era Toshyuki a copiare giapponese. Io ti chiedevo fisica!»

Akio si passo una mano sul mento, le labbra si incresparono in un sorriso. «Vero. Chissà come se la passa. Non lo sento dai tempi dell’università.»

«Se la passa che è un vecchio con la pancia, quindi non c’è da preoccuparsi. Ma stavamo parlando di te, e anche nel tuo caso non c’è di che preoccuparsi. Forse. O forse sarebbe il caso che ne parlassimo con chiarezza.»

«Di cosa? Hai detto che non ho niente.»

«Di casi come il tuo ne ho visti tanti. Nella mia personale classifica delle frequenze sono al terzo posto, dopo raffreddori e infarti. Praticamente potrei dirti che i dolori allo stomaco sono dovuti a gastrite nervosa, e che l’insonnia, il respiro difficoltoso, i battiti saltati sono tutti sintomi di un forte stato d’ansia. Sei iperteso, Akio. Hai un’età per cui è anche normale, ma tu hai sempre avuto una salute di ferro, fin da ragazzo. La faccenda va guardata da un altro punto di vista.»

«Non mi pare di aver alzato i ritmi lavorativi.»

«Il lavoro è secondario. Al massimo possiamo considerarlo un’aggravante di minima entità.»

Il medico tolse gli occhiali e ripescò uno straccetto nero dalla custodia poggiata accanto al portapenne. Akio faceva molta meno fatica a seguire quei piccoli movimenti, che lo sguardo del suo interlocutore.

«Da quando è morto tuo figlio, non ti sei preso una pausa, non sei mai venuto da me per farti prescrivere una vacanza o anche solo un lungo permesso lavorativo e darti modo di riprenderti e riflettere. La settimana dopo i funerali eri di nuovo operativo, ma non è quello che fanno le persone normali nelle tue condizioni. Le persone normali, dopo il primo impatto, si prendono del tempo, staccano la spina… la tua è sempre rimasta nella presa. La testa ha retto fino a che ha potuto perché sei molto forte, ma non è rilassata. Non lo sei. Stai cedendo alla pressione.»

«Mi stai dicendo che sto diventando pazzo, forse? Andiamo…»

«No, ma la tua condizione di stress è critica. Ti colpisce costantemente e il corpo cerca di farvi fronte, ma non vi riesce al 100%, così ti lancia segnali di allarme: dolori, insonnia.» Il medico intrecciò le dita sulla superficie del tavolo e si sporse in avanti. «Akio, uno specialista saprebbe spiegartelo meglio, ma sei nel mezzo di un esaurimento nervoso.»

Akio sputò la propria ironia in un sorriso deforme. Alzò le mani. «Io non sono esaurito!»

«È quello che dicono tutti coloro che non vogliono rendersene conto. L’accettazione è il primo passo, il secondo è farsi aiutare. Ma se non corri ai ripari, ti ritroverai faccia a faccia con la depressione. Quindi, se vuoi un consiglio da medico e amico, la possiamo risolvere in due modi: affronti il problema e inizi a prenderti cura di te stesso o passiamo ai farmaci.»

Un aut-aut che Akio non si era aspettato.

Si guardò le mani, chiedendosi quando avessero iniziato a perdere la presa sulla sua vita e poi cambiando di colpo la domanda in una più subdola: era mai stato in grado di tenerla insieme? Guardando quanti spiragli ci fossero tra un dito e l’altro, l’idea che se la fosse fatta scivolare adagio senza rendersene conto non gli parve tanto campata in aria.

«Facciamo così.»

Akio alzò gli occhi sul vecchio compagno di scuola, nelle cui mani non avrebbe mai pensato di finire come paziente. Kurogane non era mai stato una cima a scuola, eppure l’impegno aveva dato i suoi frutti, bisognava solo trovare la strada, assecondare la predisposizione e ci si finiva per trovare con la maturità e l’autorevolezza per riuscire a dare un ordine anche lui, quando nessuno era mai stato in grado di dargliene, al di fuori di suo padre.

Nessuno era costretto a rispettare il canone della prima impressione, tutti potevano cambiare. Ma nell’assecondare la vocazione personale, Akio intravide uno scorcio fatto di quelle stesse vocazioni negate sul nascere con tutta la veemenza possibile. Castrate come animali, affinché nascessero e morissero lì, perché non collimavano con le sue, di vocazioni.

Fu un’immagine rapida, apparsa e scomparsa nel guardare gli occhi di quel compagno di scuola troppo diverso dalla persona che era diventata. E in quell’immagine vide prima un bambino troppo timido e poi un uomo troppo aggressivo. Se avesse assecondato quel bambino, forse avrebbe potuto trovare ancora traccia di quella timidezza nell’uomo che sarebbe diventato, forse avrebbe mantenuto più a lungo l’innocenza dell’infanzia, perdendola poco alla volta, senza che facesse male, invece che svegliarsi adulto dalla sera alla mattina.

Perché ci aveva pensato proprio adesso con così tanta forza?, si chiese mentre sentiva gli occhi, pesanti di colpo, pungere agli angoli, bruciare come li avesse tenuti spalancati a guardare la luce diretta del sole.

Akio li chiuse, strinse la sommità del naso, poggiando le dita negli angoli più interni che si trovò ad asciugare in maniera inaspettata.

«Ti senti bene?»

«Sì, sì.» Agitò l’altra mano nell’aria e poi guardò verso la finestra, sbattendo più volte le palpebre. Nella gola la saliva aveva un improvviso retrogusto salato. «Devo essere allergico a qualcosa nell’aria, ultimamente.»

Perché quei flash di consapevolezza lo avevano colpito in svariate occasioni, nei mesi precedenti, con una precisione chirurgica e nei momenti più disparati. Mentre era a lavoro, mentre parlava con Yumeko, mentre era fermo a un semaforo: la sua mente girava attorno agli oggetti che vedeva e le sinapsi creavano collegamenti fulminei e assassini come folgori che lo lasciavano disarmato.

Sì, disarmato: nessuna armatura per incassare il colpo, nessuna spada per poter colpire a propria volta e nessuno scudo dietro cui nascondersi.

«Certo, l’aria. Ascolta, facciamo che per questo mese ti trovi qualcosa da fare e vediamo come va. Rallenta i ritmi di lavoro, delega di più.»

«Quello non è un problema.»

«Bene. Dedicati a un hobby.»

Akio tirò indietro il mento.

«Hai capito bene.»

«E che hobby dovrei trovare?»

«Devi saperlo tu. Ci sarà pure qualcosa che ti piace fare nel tempo libero, qualche interesse… Che fai quando sei a casa?»

«Controllo il lavoro per il giorno dopo.»

«Oppure?»

«Mi aggiorno sulle novità, leggo le notizie dei concorrenti…»

«Qualcosa che non riguardi il lavoro.»

Akio sorrise spostando lo sguardo sul legno scuro e lucido della scrivania. «Seguivo le partite di mio figlio.»

«E ora che non c’è più?»

Akio realizzò di aver esaurito le risposte: a conti fatti, l’unico svago che aveva avuto era stato seguire la carriera di Yuzo, per il resto non faceva niente che non fosse legato al lavoro. Ci si era chiuso dentro, guadando tutto il mondo da una finestrella; la visuale limitata dove tutto scorreva via e lui immobile, dall’altra parte, a vederla andare.

«Ecco, è di questo che stavo parlando. Devi trovare qualcosa che ti tenga la testa impegnata dagli stessi pensieri, che spezzi la routine cui sei abituato. Hai bisogno di stimoli per distrarti, sentirti attivo.»

«Io mi sento attivo!»

«Allora fai più sesso con tua moglie. Consiglio del medico.»

Akio fece per ribattere, ma quando vide l’amico ridacchiare da sotto ai baffi assottigliò lo sguardo e fece partire un sopracciglio per vette acute. «L’abito non fa il medico, con te.» Si alzò, appoggiò sul collo la sciarpa in lana pettinata ripiegata a doppio e la strinse a cappio, in modo che le due estremità pendessero sul davanti; sarebbero sparite sotto al cappotto.

«Anche quello è uno stimolante.» Kurogane allargò le braccia. «Naturale, per di più! Lo so che siamo nell’età del far cilecca, se vuoi posso sempre prescriverti un aiuto. Funziona.»

E quindi, sì, in definitiva potevi diventare un medico rispettabile e rimanere lo stesso ciarlatano che eri da ragazzo. Di sé stesso, Akio sapeva di essere rimasto pressoché identico allo studente che era stato e aveva diviso più volte la classe con l’altrettanto over-sessanta che stava piazzato dietro la scrivania a lanciare sottintesi e doppi sensi battendo le dita sul legno del tavolo. Quel pensiero, se un attimo prima l’aveva fatto sorridere, l’istante successivo rubò tutta la leggerezza che aveva portato con sé perché gli aveva fatto realizzare di non essersi mai evoluto. Fine a sé stesso, dall’inizio alla fine, sempre uguale come se non fosse cresciuto e la persona che era ora era anche quella che era stata. Era rimasto il ragazzino fermo al banco del liceo cui nessuno si sognava di dare ordini.

La malinconia fu un pugno allo stomaco che gli spezzò il respiro a metà, in una fastidiosa sensazione che diventava più o meno intensa a fasi alterne. Akio sopperì alla mancanza di fiato con un mezzo sbadiglio, dissimulò, e indossò il cappotto.

«Allora siamo d’accorso», riprese Kurogane. «Prova a trovare da solo un modo per rilassarti, fai un’alimentazione più sana e meno grassa, concediti un po’ di attività fisica. Tra un po’ torni e vediamo: se sei ancora allo stesso punto, ti mando da uno specialista che conosco e cominciamo una cura farmacologica leggera. Vorrei non arrivare a sentirmi dire che hai avuto un attacco di panico.»

L’orgoglio di casa Morisaki, il motto storico del ‘reagisci, sii forte, vai avanti’ gli fece alzare la testa e tendere la schiena. La sua struttura era ancora imponente, anche a dispetto degli anni che passavano e che lo vedevano ormai oltre i sessanta. Sbuffò un sorriso dal naso e il mezzo respiro che prese gli diede di nuovo la sensazione di incompletezza e di aria mancante.

«Non avrò mai un attacco di panico. Non io.»

 

«E che avrebbe dovuto dire? Niente di più di ciò che già sapevamo: stress e ipertensione.»

– Nient’altro?

«Ho un po’ di gastrite, ma è una conseguenza come le altre.»

Il sospiro di Yumeko fu come se riuscisse a passare il filtro telefonico dello smartphone. Akio ebbe l’impressione che si poggiasse sull’orecchio, caldo e carezzevole. Non si sentì in colpa per averle omesso parte della verità, bastava la sensazione crescente di non essere stato un buon marito a raggruppare anche tutto il resto. Quella era una percezione nata di recente, ma che aveva trovato terreno fertile per svilupparsi e dargli una fitta in più nei suoi mal di stomaco notturni.

Pessimo padre, pessimo marito e pure pessimo figlio, ma era il meno peggio. C’era qualcosa per cui non fosse stato così fallimentare nella sua vita? Dopo aver passato sessant’anni a sentirsi arrivato, di colpo si era posto il resto della domanda: ma arrivato dove? E aveva scoperto di non essere mai andato da nessuna parte. Se non vai non arrivi, semplice.

– Meglio così. Ti ha dato qualcosa da prendere?

«Dei gastroprotettori. Passerò in farmacia prima di andare al lavoro.»

– Avresti potuto evitare di andarci, oggi. Hai dormito quasi per niente stanotte. Il dottore ha detto che dovresti riposare di più?

«Sai che i ricambisti stanno premendo per strappare condizioni migliori nel nuovo contratto. Bisogna star dietro a ogni clausola.»

E io sono anni che ti dico che devi lavorare meno. Hai molti collaboratori, affida a loro qualcosa. Possibile che solo nel week-end io riesca a vederti a casa prima delle nove?

«Abbiamo l’ultima produzione in corso. Ne avrò ancora per un po’, ma si potrebbe…» Akio guardò fuori dal finestrino il fiume di Nankatsu e chissà perché gli venne in mente il mare d’estati lontane nel tempo ma non nelle distanze spaziali, in cui aveva trent’anni in meno e Yumeko era ancora una margherita che apriva al sole i propri petali, nel girare di una gonna a ruota.

Perché non usciamo a cena più spesso?

Yumeko lo anticipò, strappandolo a quei ricordi persi nel tempo e vecchi, anche se avevano l’odore della gioventù. – Magari posso passare al lavoro, – rise, – ti vengo a prendere io così non avrai scuse.

«Mi sembra una buona idea, ci sono dei ristoranti nuovi in cui sono stato con i clienti che non erano male.»

E intanto nelle orecchie continuava a frusciare il mormorio del mare.

 

Da qualche tempo aveva settato la sveglia sul telefono affinché suonasse a orari precisi e con segnali acustici differenti per poterli riconoscere e capire subito in quale momento della giornata si trovasse. Non era stata una sua idea, ma della nuova e giovane segretaria. La metodica e conosciuta Hirazawa, figlia della vecchia scuola come lui, era andata in pensione dopo essere rimasta al suo servizio per venticinque anni. Il tempo era passato anche per lei e aveva ammesso, con un’onestà che le aveva invidiato, di non essere più in grado di tenere quel ritmo.

Alla sua domanda: «Non si annoierà con tutto quel tempo libero?» la donna aveva riso con una familiarità estremamente rara nei suoi confronti.

«Tempo libero? Con cinque nipoti sarà già un miracolo se potrò dedicarmi a un hobby!»

Non avendo nipoti di cui occuparsi – e ricordando che nella sua famiglia erano sempre state bambinaie e maggiordomi a occuparsi dei bambini – Akio realizzò che non avrebbe mai potuto capire quell’entusiasmo a cavallo tra gioia e impegno. Chiudeva un lavoro per occuparsi di un altro a titolo gratuito.

Akio aveva allora scoperto di non sapersi pensare senza il lavoro. Nella sua natura il concetto di restare con le mani in mano non esisteva. Ma senza lavoro e nipoti che avrebbe fatto?

Poteva chiudersi nella sicurezza che ci sarebbe voluto ancora tempo, ed era sempre la sua scelta finale per dimenticarsi della domanda e della risposta che non sapeva dare. Lui era in grado di tenere insieme le fila di quella filiale e stare dietro al Consiglio d’Amministrazione, viaggiare per il Giappone, viaggiare all’estero.

La signorina Miyoko era arrivata una settimana prima che la Hirazawa andasse via. Aveva fatto affiancamento per prendere confidenza con le sue abitudini e non fargli risentire del cambio che era anche generazionale. Lo aveva realizzato quando si era visto arrivare questa bella ragazza sui venticinque, con i capelli corti in un caschetto perfetto, tailleur impeccabile e scarpe con tacco alto e sottile su cui volteggiava con l’agilità degli equilibristi. Era piena di idee e suggerimenti per ottimizzare e rinfrescare le vecchie abitudini un po’ stantie.

La differenza di energie era stata netta.

Se la signora Hirazawa poteva essere considerata costante come flusso d’acqua da un rubinetto, Miyoko era zampillo.

Un giorno se n’era uscita con quel nuovo metodo di non ricordava quale influente personaggio di internet e aveva smanettato con il suo cellulare.

«Perché deve imparare a regolare il suo tempo, Morisaki-san. Ci si perde troppo; guardi che mica l’aspetta.»

Non si era mai sentito come uno che perdeva tempo. Anzi, era diventato un esperto nell’ottimizzarlo fino all’ultimo minuto. Lui, il tempo, l’aveva chiuso in compartimenti stagni ben definiti e ordinati. Ma ora si era reso conto di averne riservato troppo poco alla famiglia: giusto quegli avanzi tra un lavoro e l’altro. I risultati si erano visti e le convinzioni avevano iniziato a crollare come vecchie mura infiltrate dall’acqua. Ma aveva sveglie precise, adesso, in cui saper ritrovare tutto il tempo di cui aveva bisogno, quindi il pensiero che fosse in pieno esaurimento – addirittura a un passo dalla depressione – lo faceva un po’ ridere. Kurogane da buon medico tendeva a ingigantire per farlo spaventare, visto che di solito le persone lasciavano correre. Con lui, però, la psicologia del terrore non faceva una gran presa, perché non era mai stato tipo da spaventarsi in fretta ed era orgoglioso di come conosceva sé stesso e i propri limiti.

Magari, sì, avrebbe solo rallentato un po’ il lavoro non appena il periodo delle produzioni e ridefinizione dei contratti fosse stato superato. Anzi, adesso avrebbe atteso la sveglia delle 19.30 e avrebbe staccato per far vedere anche a Yumeko che i suoi non sarebbero stati solo altri dei tanti propositi non mantenuti. Aveva anche fame, nonostante alcune fitte allo stomaco che l’avevano costretto a ricorrere a una rilassante camomilla.

E addio al caffè, aveva detto Kurogane, addio al fumo, addio al vino. Insomma, gli avesse detto “di’ addio alla vita” sarebbe stato più facile. Tanto alle sigarette non avrebbe rinunciato e al diavolo tutti i dolori di stomaco del mondo.

Il telefono sulla scrivania – il fisso – suonò mentre finiva di controllare una tabella sui rendimenti mensili.

Afferrò con sicurezza il cordless senza staccare gli occhi dal monitor. E perché Miyoko gliel’aveva passata a quell’ora? Lo sapeva che dopo le 17.00 riceveva solo telefonate familiari.

«Morisaki.» Calò l’inflessione più tagliente del repertorio per far capire che il suo tempo super distribuito non aveva spazi.

– Lo sapevo, – sospirarono dall’altra parte.

Akio tirò indietro il mento e tolse gli occhiali. «Miyoko-chan? Perché mi sta chiamando sul telefono aziendale?»

– Perché me ne sono andata, salutandola per giunta, e lei non se n’è proprio accorto. Immaginavo fosse ancora lì.

«Andata via? Di già? Aveva un impegno? Non lo ricordavo.»

Il nuovo sospiro arrivò più pesante del primo. – Morisaki-san, lo ha fatto ancora. Ha una vaga idea di che ore siano?

«Non sono ancora le 19.30», disse con orgoglio e un pizzico d’arroganza. Il cellulare iniziò a suonare in quel momento. «Sentito? Eccole. E ho anche quasi finito.» Ma nel prendere il telefono si accorse che mancava del tutto il frizzante suono del sax di Charlie Parker, in favore della lugubre eleganza dei violini.

– Ho sentito eccome. È la colonna sonora di Game of Thrones. Sono le 21.00 non le 19.30. Lo ha fatto ancora. Ci si è perso ancora.

«Ho lavorato, non ho perso tempo.» Akio non misurò la stizza. Lanciò lo smartphone tra le scartoffie con un moto infantile come quando perdeva a carte con Riyuusei, da bambini.

– Ma non è il tempo che si perde. Il tempo è sempre quello. È lei Morisaki-san. È lei che si perde dentro al tempo e se lo fa scappare da tutte le parti. Io ci provo a organizzare i suoi orari al meglio, ma lei non mi aiuta mica. Pensi alla signora Yumeko che le ha preparato la cena e la starà aspettando.

Akio avrebbe voluto arrabbiarsi. Il suo orgoglio borbottava come una pentola e diceva che una simile bambinetta dovesse portargli più rispetto e invece si lasciò cadere contro l’imbottitura della poltrona, gli occhiali sulla scrivania, le dita strette alla sommità del setto.

«Vuole farmi sentire in colpa?»

– Funzionerebbe a farle prestare più attenzione a sé stesso? Non deve affaticarsi alla sua età.

«Ehi! Sono ancora perfettamente in grado di dare le piste ai trentenni.» Ma con la tazza vuota della camomilla che lo guardava dall’angolo della scrivania si sentì poco credibile. E anche la risatina tra le parole di Miyoko ci mise del suo.

– Non ne dubito, ma ora torni a casa. Faccia il bravo. Buona notte.

«A domani.»

Il telefono gli scivolò addosso, mentre restava col viso affondato nella mano. Gli occhi chiusi, il respiro regolare ma pesante con cui cercava di controllare una frustrazione che era solo colpa sua, del suo essere fuori tempo con ciò che lo circondava: non importava quante sveglie mettesse, lui non ci stava dietro, era sempre in ritardo.

Perso nel tempo.

Non si era mai pensato in quel modo, perché aveva sempre avuto tutto sotto controllo da non avvertire mai una sensazione di smarrimento. Lui aveva il controllo di tutto… ma poteva essere a sua volta sotto il controllo di qualcosa senza essersene mai accorto?

Di certo quello di suo padre fino a qualche anno fa, però liberarsene non era bastato?

Di cosa non riusciva a scrollarsi che lo rendeva così distratto e scollegato dal mondo?

Perduto.

Mi sono perduto.

Quando?

…con Yuzo.

L’avevi superato.

Dio, come si fa a superare un figlio morto ammazzato? Come si fa a superare la morte di un figlio?

Si fa tenendosi stretto ciò che resta.

Ma in ciò che restava l’altro figlio lo tollerava a malapena, aveva distrutto le certezze del rapporto con suo padre e credeva che Yumeko lo sopportasse solo per pazienza e abitudine.

Ti stai esaurendo?

Akio spalancò gli occhi a quella vocina nella testa e bloccò il respiro a metà, la bocca aperta. Un battito saltò; aveva di nuovo il fiato ridotto all’osso e le mani aggrappate alle teste dei braccioli. L’ufficio, nella penombra della sola lampada da scrivania, gli fece capire quanto buio fosse fuori, ma non quanto lo fosse dentro. Un buio che divorava il fondo della stanza fino alla porta e sembrava aspettarlo.

Prese un paio di rifiati e si gettò sulle carte e il computer, aggrottando le sopracciglia.

Stava bene, era solo stressato. Era normale con quello che aveva passato, con l’età.

Drizzò la schiena e nella testa le frasi in cui si dava del rammollito e attribuiva la colpa alla soggezione si sommavano a raffica, alternate a mentali risatine. Ridere di sé, delle sciocchezze con cui gli altri gli avevano riempito la testa. Erano solo cose di poco conto, da dimenticare. C’era il lavoro a cui stare dietro, molto più importante, e dopo superati contratti e produzioni si sarebbe rilassato e avrebbe fatto passare quei dolori fastidiosi, quelle ansie di respiri tronchi.

Esaurimento. Panico. Che idiozie.

Non si era perso in niente, non lui. E seppure avesse avuto un attimo di sbandamento a ritrovarsi ci avrebbe messo un momento, perché lui non si perdeva mai e non perdeva mai nessuno.

Akio si prese tutto il tempo per sistemare i fogli sparsi e non ritrovarli in disordine il giorno dopo. Spense il computer e si alzò. Recuperò il cappotto nei pressi dell’appendiabiti accanto alla porta e indossò anche quello col dovuto tempo in un susseguirsi di prese di posizione contro tutte le sveglie e gli orologi del mondo: Akio Morisaki non si perdeva, che fosse dentro o fuori dal tempo.

Afferrò la ventiquattrore e spense la lampada. Lasciò che a guidarlo fuori nel corridoio fossero la sua memoria di quel posto e le luci di emergenza, che soffondevano l’ambiente in raggi d’azione grandi quanto il doppio di un pallone da calcio. Tracciavano un percorso che poi l’abitudine completava dei tasselli mancanti.

Una mano nella tasca del cappotto aperto, i lembi della sciarpa che pendevano e la valigetta; Akio era padrone assoluto di quella penombra piena di negazioni. Perché il buio nascondeva per principio ed era facile annidarci dentro anche ciò che non si voleva vedere.

L’azienda era silenziosa, almeno al piano dove si trovava il suo ufficio. Avrebbe potuto pensare non ci fosse nessuno e lui fosse l’ultimo irriducibile, però non era così presuntuoso e sapeva che qualcun altro stava tirando tardi. Gli informatici, quelli del team di Ricerca e Sviluppo, gli addetti stampa. Meteore che al buio brillavano di più e dimostravano quanta effettiva dedizione ci mettessero nel lavoro.

Akio era sempre stato orgoglioso della propria sede. Sentiva, senza presunzione, di avere buona parte del merito del loro successo. Quei dipendenti li aveva motivati lui, faceva loro da esempio e li andava a controllare spesso. Forse aveva dedicato loro tutto il suo tempo, quello che non sprecava mai.

E quanto di quello stesso tempo aveva sottratto alla sua famiglia?

Nell’ascensore dalle pareti opache e neon diffusi in alto, l’aria sparì ancora.

E quanto di quello stesso tempo l’aveva inglobato, trasformandolo da controllore a controllato?

Akio allentò il nodo alla cravatta; l’aria non entrava ma sapeva di averla lì attorno. Il problema era solo nella sua testa, tutto nella sua testa.

E quanto di quello stesso tempo avrebbe potuto passare con Yuzo?

Akio strinse gli occhi, preda di una sensazione di disagio che cresceva, arrivava da lontano e montava come la marea dalle piante dei piedi, pietrificava le gambe, diffondeva un calore improvviso che lo faceva sudare.

E quanto di quello stesso tempo avrebbe potuto dedicare a Shuzo, invece di voltargli le spalle?

Magari sarebbe cresciuto diversamente, magari non sarebbe finito in prigione, sulla strada sbagliata col rischio di morire anche lui.

Akio aveva la bocca spalancata, era stretto con la schiena nell’angolo. Arretrato un passo alla volta, senza fermarsi se non quando era stato il muro a dare consistenza ai confini che aveva attorno.

Il cuore batteva così forte che forse si sarebbe fermato di colpo. Rotto o solo troppo stanco.

E se anche l’altro suo figlio fosse morto, che ne sarebbe stato di Yumeko?

Non avrebbe retto, sarebbe crollata; castello di sabbia.

E tutto per quel tempo che aveva dedicato troppo all’azienda, togliendolo al resto.

Tutto perché lui nel tempo ci si era perso da quando era venuto al mondo e non aveva mai trovato una vera direzione per uscirne.

«Morisaki-san? Morisaki-san, sta bene? Devo chiamare un’ambulanza?»

Akio sollevò la testa che aveva nascosto tra le ginocchia senza rendersene conto, e il viso preoccupato di Onoda, una delle guardie di vigilanza, comparve davanti ai suoi occhi. Era leggermente piegato sulle ginocchia e gli teneva una mano sopra la spalla.

«Non rispondeva, si sente male? Chiamo il soccorso?»

«No. No, sto… Dammi un momento. Mi sono appisolato, devo aver lavorato troppo.»

Il sopracciglio inarcato della guardia gli disse di non esser stato creduto, e non lo biasimò.

Akio cercò di prendere insieme le forze e far passare quel formicolio che aveva alle gambe e alle mani. la testa era vuota e leggera, non aveva un equilibrio stabile neppure da seduto e dalla vista attendeva il diradarsi del biancore che aveva mangiato tutto pochi – o quanti? – istanti prima.

Non si era accorto di venire scosso né di essere scivolato a terra. Negli occhi, nella testa, nel cuore schiacciato sotto una pressa, nel respiro strappato dai polmoni aveva visto nient’altro che la fine di ciò che ancora gli restava ed era minuscolo, una briciola, trattenuto con unghie e denti.

Si fece aiutare da Onoda e si tirò su. Il pavimento oscillò un momento, ma fu ben attento a non vacillare.

«È proprio certo di non volere che le chiami almeno un taxi per farla portare a casa?»

«No, no. È a posto.»

Lisciò il cappotto, sistemò la sciarpa e uscì dall’ascensore. Le suole in cuoio conferirono un suono netto ai suoi passi lungo l’atrio, che attraversò senza guardarsi indietro.

«Buonanotte.»

L’unico saluto che disperse nell’aria e nel gesto di una mano alzata. Poi riempì i polmoni col freddo della sera senza smettere di camminare. Il passo divenne più affrettato appena entrò nel parcheggio. Ultimi metri percorsi a cavallo di un ritmo svelto e una vera e propria corsa.

C’erano mostri invisibili nella notte, si muovevano anche loro e Akio doveva solo essere più veloce e lasciarseli indietro.

Armeggiò con le chiavi incastrate nella tasca del cappotto. Akio imprecò; una maledizione che trascinava un lamento nella coda delle ultime sillabe. Una supplica.

Le chiavi spuntarono in un tintinnare fastidioso e se le rigirò tutte tra le dita fino a trovare quella giusta come se non la si conoscesse da anni.

Scattare di antifurto, chiusure centralizzate, tra luci e suoni che gli fecero balzare il cuore nella gola.

 La maniglia scivolò dalla presa una volta e allora la strinse con entrambe le mani. Entrò, l’auto era fredda come la vita. Lanciò la ventiquattrore sul seggiolino accanto e si chiuse dentro, tirando lo sportello con talmente tanta forza da far vibrare il finestrino nello schianto.

Nel silenzio del parcheggio, rotto solo dal traffico in lontananza, il suo respiro era il rantolo della bestia agonizzante che nella morte vedeva la sola salvezza a una sofferenza troppo lunga. L’ultimo fiato, quello che avrebbe dato sollievo ai polmoni e poi la fine. Akio lo prese spalancando la bocca e poi espirando un soffio lungo. Eppure, non arrivò alcuna fine: era ancora lì, attraversato da brividi tra le spalle e fin nelle reni. Brividi di freddo e una paura che colava dallo stomaco – dove le fitte diedero un morso – lungo le cosce, nemmeno la sua vescica avesse ceduto e se la fosse fatta nei pantaloni.

Abbassò gli occhi; non era più certo che fosse solo una sensazione, ma i pantaloni risultarono asciutti dopo averne tastato il cavallo, e sulle mani fu dove i suoi occhi si fermarono.

Mani che tremavano, che erano ghiacciate e forse troppo vecchie per tenere saldo l’ordine della propria vita. Il controllo era andato perduto assieme a tutte le altre poche convinzioni che ancora si ostinava a trattenere con un orgoglio più vecchio di lui.

Perso nel tempo che scorreva sempre, consapevole di sé stesso, Akio fissò le uniche vere certezze che non aveva voluto vedere: si stava esaurendo e aveva appena avuto un attacco di panico.

 

“Ho perso la mia realtà.

Ho perso tutto ciò che avevo in me.”

 

Religion – Isak Danielson

 

 


 

 

Note finali: …Houston, qualcuno qui ha un problema. :3

Akio, fino adesso, è sempre stato quello che ‘pareva’ aver tenuto botta in maniera impeccabile. In ‘Malerba’, soprattutto. Ma già lì e poi in ‘Jikan’ aveva iniziato a mostrare dei segni di cedimento.

Perché i percorsi di Shuzo e suo padre sono uguali, ma opposti: Shuzo era a pezzi e si è dovuto ricostruire, Akio era integro e ora sta finendo a pezzi. I Morisaki sono tutti uguali, sotto sotto, e prima o poi devono fare i conti con ciò che hanno accantonato.

Stavolta tocca ad Akio ed è già partito malissimo! XD

 

 

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Capitolo 3
*** II: Figli di Marzo ***


Roots - Capitolo 2

 

 

 

- II: Figli di Marzo -

 

Akina odiava marzo e aveva programmato con attenzione la nascita di ciascuno dei suoi figli affinché non avvenisse nel mese considerato il più pazzo dell’anno. Instabile, corrotto da un freddo troppo testardo che per lo più pestava i piedi nell’acqua come un bambino e poi sorprendeva tutti scoperchiando un cielo così azzurro da sembrare dipinto. Attorno, la natura fremeva per rinascere, ma a volte abortiva e altre sbocciava precoce per poi gelare e morire.

Come poteva essere il mese della primavera, si era chiesta, e alla fine si era risposta che la Natura andava a caso esattamente come ognuno di loro, e faceva le cose senza una logica ma solo per capriccio. Se avesse avuto una data di nascita, era certa che sarebbe caduta proprio di marzo.

Akio, in un giorno di marzo, le aveva dato due nipoti bizzarri come il mese che li aveva visti venire al mondo; sfortunati allo stesso modo delle acacie precoci che fiorivano e poi disseminavano di giallo i marciapiedi in seguito alle piogge battenti. Di quei nipoti, ne era rimasto solo uno. Il più pazzo. Una natura instabile, guerriera e resistente, come le erbacce che nella pioggia non affogavano, ma tiravano dritto, tiravano in alto e si arrampicavano sui muri, spaccavano l’asfalto e sapevano incantare con fiori inaspettati che non elevavano la loro natura di gramigna.

E chi diceva che essere erbaccia fosse meno dignitoso? Chi lo aveva deciso che dalla pioggia battente non potesse nascere un fiore più nobile di una rosa?

Akina staccò lo sguardo dal libro che stava leggendo e dalla parola che l’aveva portata a pensare a quel mese, alla pioggia, ai suoi nipoti.

I vetri della sala di lettura, modernizzata dalle nuove tecnologie e arricchita da un caminetto che aiutasse le loro ossa ormai anziane ad asciugarsi prima, erano puntellati da gocce noiose. Si scorgeva una parte del giardino oltre l’engawa che correva tutt’attorno al retro della minka di famiglia, e uno sprazzo grigio di cielo dalle nuvole gonfie e alte.

Si diceva che una rondine non facesse primavera, ma quella aveva messo le basi per essere più in ritardo del solito. Le piogge frequenti e abbondanti avevano iniziato a minacciare la fioritura dei ciliegi e le previsioni per aprile erano incerte. Sembrava che quel mese non volesse finire con dei buoni propositi.

Primavera. Era stata quella parola a distrarla. Una parola che era speranza e vita insieme, che diceva di non disperare perché il freddo stava per finire, la terra si sarebbe risvegliata e dagli steli avvizziti sarebbero germogliate le prime foglie. Un ciclo infinito che dopo la pioggia avrebbe sempre portato il sereno. Sulla loro famiglia quel sereno sembrava niente più di un’utopia che da anni vedevano ferma all’orizzonte, senza mai raggiungerla per volontà precise; che fossero di vecchie radici o di nuove.

Keitaro era divenuto una figura curva e rugosa che scandiva le sue giornate con la precisione del secondo. Il tempo l’aveva visto invecchiare più in fretta negli ultimi anni, quelli che erano coincisi con il suo pensionamento. Lasciato il posto a Ryuusei, la vecchiaia aveva fatto il suo corso come non era riuscita fino a quel momento. Sembrava quasi che avesse voluto prendersi una rivincita su un osso troppo duro da spezzare, e allora aveva scelto di prosciugarlo un po’ alla volta, risucchiarlo come quelle radici ormai seccate che avevano dato tutto in passato, ma ora non servivano più a niente: le nuove erano divenute in grado di vivere da sole.

Ed era proprio questo che aveva fatto Ryuusei, un po’ alla volta: lo aveva messo da parte, e Keitaro, dopo i primi mesi di reticenza, glielo aveva permesso. La sua presenza negli affari aziendali si era affievolita, limitandosi solo a qualche consiglio al telefono o a tavola, in quei famosi pranzi di famiglia che il tempo aveva svuotato poco alla volta, come le chiome dei vecchi alberi che perdevano le foglie. I nipoti continuavano a crescere e prendevano la loro strada che non sempre portava alla minka. Avevano altri interessi, avevano le loro amicizie, le loro famiglie alcuni e i nonni rimanevano a Nankatsu, magari troppo lontani dai luoghi in cui avevano affondato le nuove radici.

Con la faccia immersa nel giornale, ma che a ben guardare era da almeno una mezz’ora ferma sulla stessa pagina – da un po’ non aveva sentito il fruscio della carta – Keitaro ciondolò il capo in avanti, socchiudendo gli occhi. Poi lo tirò su, aggrottando le sopracciglia e stringendo le palpebre.

Akina sorrise, perché solo i vecchi testardi si ostinavano a non voler ammettere di essere ormai divenuti anziani e concedersi quella mezz’oretta di sonno quando era arrivato il momento. I Morisaki, poi, di testardaggine erano campioni. Akina lo aveva imparato sulla propria pelle. Era stato difficile, ma ce l’aveva fatta e fino ad allora era sopravvissuta abbastanza da avere una famiglia, stabilità e discendenza. Non si era mai chiesta, però, se avesse avuto anche la felicità.

Il pannello scorrevole in carta di riso venne aperto e la domestica fece capolino avanzando di qualche passo. Un lieve inchino e le mani poggiate in grembo, l’una sopra l’altra.

«Akio-sama è qui», annunciò e con la stessa leggerezza e silenziosità con cui era arrivata, lasciò la stanza senza richiudere il pannello.

Akio entrò qualche istante dopo e lei gli rivolse un sorriso accogliente, ma prima che potesse salutarlo, il fruscio della carta di giornale divenne feroce e lei si girò solo per guardare un copione che si ripeteva sempre uguale da nove anni a quella parte.

Keitaro richiuse il quotidiano con gesti che palesavano un fastidio ormai radicato nelle abitudini. Lo lasciò sul tavolino con malagrazia e si alzò, afferrando il bastone dalla testa della poltrona contro cui lo lasciava sempre appoggiato. Si mosse per la stanza con passo meno stabile di quanto fosse stato in passato, meno fiero. La schiena era rimasta incurvata per il peso del tempo e non per sua volontà, ma la testa veniva tenuta alta il più possibile, anche con sforzo e dolore se necessario, ma chinata mai. Soprattutto, non davanti a quel figlio che, nelle convinzioni di suo marito, aveva fatto il torto più inaccettabile di tutti: averlo tradito. Non lo degnò di uno sguardo nel momento in cui gli passò accanto. Lasciò la sala senza dire una parola, che fosse anche di benvenuto. Come se in quella stanza non ci fosse nessuno a parte lei, come se in quella stanza non ci fosse suo figlio. Come se Akio non lo fosse più.

Da par suo, nemmeno Akio si volse, non lo seguì con lo sguardo né disse alcunché. Lo lasciò sfilare, in una parata di fantasmi. Come se suo padre fosse nient’altro che uno sconosciuto. Il rapporto di rispetto più solido della sua famiglia era stato spezzato nove anni prima, frantumato in migliaia di pezzi che erano divenuti polvere. Sapeva che nulla avrebbe potuto rimetterlo in piedi, le era bastato guardarli e guardare i loro occhi e le espressioni ogni volta che si trovavano faccia a faccia, nella stessa stanza, intenti a respirare la stessa aria. Quelle certezze ineluttabili come il sole che splende, la pioggia che bagna e marzo che è pazzo e avrebbe fatto diventare pazzi anche loro.

Una volta soli, Akio le rivolse un sorriso e lei si alzò adagio, appoggiando il libro nella poltrona. Si trovarono a metà stanza.

«Non c’era bisogno che ti scomodassi.» Akio le baciò la fronte.

«Non sono così anziana.»

Si indirizzarono al divano. Lei teneva Akio sottobraccio e studiandone il profilo si accorse che anche lui era invecchiato. Gli occhi erano appesantiti da rughe che si moltiplicavano a ogni espressione, segnati da occhiaie che non ricordava fossero state così profonde. Tutta l’aria che lo circondava appariva malandata; l’aria di chi faceva una gran fatica anche solo a respirare.

«Vedrai che gli passerà prima o poi.»

Akio sollevò le spalle e la fece accomodare per prima.

«Francamente, può anche non passargli, per quello che m’importa. Nemmeno io gli perdono le cose oscene che ha detto di mio figlio. Siamo pari.»

Akina sollevò il capo di scatto davanti alla normalità di quella condanna. Era come se avessero firmato un trattato di odio della durata vitale. Erano consapevoli che non avrebbero appianato i dissapori, e se suo marito preferiva proprio non toccare l’argomento, Akio, invece, aveva quella naturalezza nell’abbattere le proprie scuri da lasciarla piena di stupore.

Nove anni prima, Akio aveva levato per la prima volta gli scudi per difendere la sua famiglia e quel figlio nato di marzo, folle e selvatico. Era stato un momento che aveva desiderato avvenisse molto prima, quando avrebbe potuto non avere connotati tanto definitivi e la vita alla minka avrebbe potuto essere scandita da altri due nipoti. Ma quei rami dei Morisaki si erano persi in modi differenti, abbattuti troppo presto da mani sbagliate.

Akina era stata felice di vedere minare l’autorità di quel padre troppo egoista che non aveva mai fatto passare liscia a nessuno un torto nei suoi riguardi o un pensiero diverso. Ed era stata orgogliosa che fosse stato messo a tacere con così tanta ferocia, perché Keitaro non aveva mai assaggiato la vera sconfitta prima di quel momento. Momento che le aveva dato modo di potersi intromettere nell’atteggiamento dispotico di suo marito. Era stato messo un freno, ma il conto era stato salato e un altro rapporto tra padre e figlio s’era dovuto spezzare.

Tra le mille altre cose, i Morisaki non avevano mezze misure.

«E poi, ammettilo: vive bene anche senza avermi intorno. Gli siamo sempre stati utili, ma mai indispensabili.»

«Sei severo.»

«Chissà da chi ho preso.»

Akina alzò gli occhi sull’orologio appeso alla parete. «È un po’ presto per te, essere in giro a quest’ora. Non dovresti essere a lavoro? O sei passato da dei clienti? Chiedo a Yaya-san di preparare del tè.»

«No, lascia. Niente tè. Passavo da queste parti e ho deciso di fermarmi.»

«Non sei mai stato un tipo che ‘passava per caso’

Suo figlio era cambiato molto, l’aveva notato fin dall’inizio, dopo l’istante che aveva segnato la sua rivolta e la rottura con Keitaro.

In passato avrebbe detto subito come stavano le cose, quale fosse stato il motivo della sua visita; invece ora era diventato evasivo e più criptico nelle poche cose che diceva. Sembrava avesse perso le parole da qualche parte, perché aveva la testa tra le nuvole. Negli sporadici pranzi di famiglia cui aveva partecipato – ne avevano tenuti parecchi durante gli anni, ma Akio non era stato presente a tutti per evitare di creare atmosfere pesanti con Keitaro che potessero minare la tranquillità degli altri. A nessuno piaceva mettere su scenate con i nipoti ancora piccoli che correvano avanti e indietro, era bastata una sola grande esplosione e nessuno aveva dimenticato il gelo che scendeva quando Keitaro e Akio si trovavano nella stessa stanza e allo stesso tavolo. Una volta, Keitaro aveva tentato di cacciarlo perché, aveva detto, non meritava di mettere piede sotto al suo tetto. L’aveva fermato lei, quella volta, e Ryuusei aveva chiuso il discorso con autorità. Aveva già ereditato la testa del Morisaki Group, il padre non poteva più dargli ordini, ormai – si era accorta di come si distraesse in fretta e magari smettesse di seguire una conversazione per fermarsi a pensare chissà cosa, guardare altrove. L’aveva sorpreso nell’engawa a osservare i giardini con una sigaretta tra le mani, che per metà era un rotolino di cenere pronta a cedere la vittoria alla gravità o al primo colpo di vento più forte.

Akio si assentava, mentalmente spariva e lei non era mai riuscita a capire dove andasse a rifugiarsi, in quali pensieri, quali rimpianti e quali ricordi. Aveva avuto un senso di déjà-vu forte che l’aveva preoccupata, ma non aveva chiesto nulla, perché sapeva che non avrebbe ottenuto risposta: l’insicurezza rendeva evasivi, e lo sapeva perché in Akio aveva rivisto sé stessa, nei primi anni del matrimonio. Una figurina esile e spaventata da una responsabilità enorme: essere la moglie di un despota come Keitaro Morisaki. Non era stato facile perché non era stata forte come adesso; la vita non l’aveva inasprita abbastanza e non aveva ancora imparato che per sopravvivere a quella famiglia, bisognava radicarsi al terreno in profondità e con disperazione. Dimostrare di essere solida, di saper tenere la testa alta, di saper reagire, essere forte e andare avanti. Aveva imparato col sacrificio a sopravvivere ai Morisaki e a diventare una di loro.

Ma ora, forse il tempo per quelle domande era giunto. Nel sorriso di suo figlio c’era abbastanza consapevolezza da non aver più bisogno di nasconderla.

«Devi dirmi qualcosa di grave? Stai bene? E Yumeko?»

«No, no. È tutto a posto, mamma. Non è niente di così… Insomma, non sta morendo nessuno.»

«E di tuo figlio che mi dici?»

«Shuzo sta bene.» Akio si alzò di slancio e prese a camminare per la stanza, infilando le mani nelle tasche. «Chiamarlo per nome vi spaventa così tanto? O è solo superstizione e credete che evitando di nominarlo eviterete anche di attirare sciagure?»

«Non metterti sulla difensiva.»

«Non mi ci metto, infatti.»

«E allora perché cammini in tondo come chi vuole scavare una trincea per nascondercisi dentro?»

Akio fermò l’incedere nervoso e distolse lo sguardo. Cercò l’aria in un paio di respiri a distanza troppo ravvicinata che le fecero stringere gli occhi e riconoscere ancora una volta la vecchia e giovane sé stessa.

Dal tavolino, accanto al giornale spiegazzato e abbandonato, prese una campanella e l’agitò con vigore almeno sette volte. Il tintinnare metallico produsse il fischio d’una eco che si smorzò poco alla volta.

In un paio di minuti, Yaya era sulla porta con il suo passo silenzioso, le mani in grembo e il capo chino.

«Desidera, signora?»

«Preparaci del tè, mia cara.»

Ancora una volta, sparì nello stesso silenzio e richiuse la porta rimasta aperta anche dopo che Keitaro era andato via. Adesso erano isolati all’interno della minka.

«Ti avevo detto che non c’era bisogno del tè, sono di passaggio…»

«Invece credo di sì. Perché puoi essere di passaggio, come dici tu, ma sei venuto per dirmi cosa c’è che ti turba da mesi, se non anni, e per avere un consiglio. Non sono discorsi che si possono affrontare senza una tazza di tè. Immagino che tu non ne abbia parlato nemmeno con Yumeko.»

«No», capitolò suo figlio, girando il viso, ma tenendo lo sguardo verso il basso. «Non volevo darle un pensiero in più.»

«Vieni qui, siedi. E dimmi cosa ti sta succedendo, Akio. Le volte in cui sei venuto a cercare le mie parole sono state solo quelle in cui i precetti dei Morisaki e le direttive di tuo padre non sapevano arrivare.»

«Forse sono stati proprio quelli a rovinarmi.»

«Hanno rovinato un po’ tutti e allo stesso modo ci hanno salvato dai danni che hanno causato. Siamo diventati forti, no? Lo dobbiamo a quattro frasette ripetute come mantra quando tutto pareva remarci contro.»

Akio passò il dorso del pollice sulla linea dritta del naso, lisciandola ancora di più. Restava sporto in avanti con i gomiti sulle ginocchia.

«Dovrei sentirmi fortunato o grato? Non riesco a trovare consolazione. Fino a ieri mi bastava, era tutto quello di cui avevo bisogno; improvvisamente, non mi basta più.» Si tirò su e si volse. Nei suoi occhi, Akina lesse una rassegnazione alla vita che la scosse. «Una settimana fa ho avuto il mio primo attacco di panico. Mi è capitato anche ieri, ma non così forte; ero già preparato e quindi non mi sembrava più che stessi per morire», ironizzò con un sorriso che si limitava solo a storcere la bocca. «Da un po’, non so quanto di preciso, soffro d’ansia. La notte dormo poco, mi sveglio con la tachicardia o mi perdo qualche battito per strada. Lo stomaco mi fa male nemmeno me lo squarciassero con una mannaia, e sono diventato passivo con la gente che mi circonda. O meglio, disinteressato. Che facciano giusto o sbagliato a me non importa. Non mi frega niente di niente. Passo le giornate con la testa nel computer; il lavoro è l’unica cosa che mi tiene concentrato e perdo la cognizione del tempo; quando guardo l’orologio non è mai prima delle otto e mezza. A volte, a stare all’aperto mi prende l’angoscia e devo correre al chiuso. Va bene qualsiasi posto. L’altro ieri mi sono infilato in un ferramenta, pensa. Il primo negozio che ho avuto a tiro; ma stavo sudando e non potevo restare fuori. E così hanno visto entrare un uomo in Burberry e PiQuadro che si guardava intorno come stesse scappando dal suo peggior nemico e non ha saputo chiedere di meglio che una chiave a pappagallo. Io non ne ho nemmeno mai usata una.» Rideva, ma aveva gli occhi lucidi di lacrime trattenute per la vergogna. Akio girò il viso; le mani puntellavano le cosce con forza, stringendo il tessuto dei pantaloni fino ad arricciarlo sotto le dita e stropicciare la piega perfetta.

Prese un paio di respiri profondi, che espirò dalla bocca per rimettere insieme un’espressione presentabile, anche se lei non gliel’aveva chiesta. Andava bene, invece, che buttasse fuori tutto, ma Akio, tra tutti i suoi figli, era sempre stato quello più orgoglioso, quello più simile al padre, quello che l’aveva seguito come il cagnolino fedele e ubbidiente e che nei precetti dei Morisaki aveva tirato su tutta la sua vita. Ed ecco ciò che avevano lasciato, ecco le fondamenta marce, ecco le radici che non sapevano più tenersi alla terra.

Gli passò una mano sulla schiena cui Akio non si sottrasse, ma la guardò di nuovo.

«Non so più come tenere alta la testa, mamma. Io ci provo e… ogni volta l’abbasso. Provo a reagire, ma il problema si ripropone. Provo a essere forte, e finisco a terra preda del panico. E provo ad andare avanti, ma non c’è nessun avanti dove andare. In certi momenti della giornata io mi dimentico addirittura come si faccia a respirare.»

Yaya tornò con il tè. Akio si alzò e raggiunse la vetrata, per guardare l’esterno e calmare la smania che gli aveva fatto passare di continuo le mani sulle cosce e sfregare le dita lunghe che non avevano però la stessa eleganza delle proprie che invece aveva riconosciuto in quelle dei suoi nipoti, figli di marzo. Mani che non erano fatte per i lavori duri, ma che proprio nei lavori duri avevano scelto la strada da percorrere. Mani da sportivo, mani da artista.

Yaya appoggiò le tazze sul tavolino e lasciò la teiera fumante con dei mochi all’azuki nel vassoio. Sempre il capo chino con discrezione e passi che non facevano rumore per andare e venire. L’unico rumore che l’accompagnò all’uscita fu il trascinare del pannello che veniva richiuso.

«Ho avuto il mio primo attacco di panico il giorno del mio matrimonio.» Akina versò il tè per entrambi. Il matcha aveva un colore di smeraldo nella porcellana bianca; non la classica yunomi. «Non mi ero resa conto, in realtà, a cosa stessi andando incontro quando mi avevano detto che avrei sposato tuo padre. Sapevo chi fosse, sapevo l’importanza della sua famiglia e avevo avuto modo di sentirlo parlare con qualcuno dei miei fratelli più grandi. Autoritario, che sapeva cosa c’era da fare e da dire. Un ottimo partito. I tempi allora erano diversi, i matrimoni per amore erano belle favole che non spettavano a tutti. L’amore si poteva imparare, come la matematica. Mentre tua nonna mi stava preparando, continuava a ripetere quanto fossi fortunata, che avrei fatto una vita meravigliosa, avrei avuto ricchezza e potere, prestigio. In cambio non mi si chiedeva che devozione per il mio futuro marito e dei figli che potessero continuare la discendenza. Semplice e lineare. Normale. Non erano in molte ad aspirare a qualcosa di diverso, all’epoca, e neppure io. Fatto sta che durante il ricevimento una delle tue zie mi disse che avremmo dovuto mettere subito in cantiere il nostro primo figlio, era importante; dopotutto, i Morisaki sono una famiglia molto grande e noi, che avremmo preso il posto di tuo nonno, non avremmo potuto essere da meno. Io avrei voluto dirle che non c’era tutta questa fretta, avevamo vent’anni. Avrei voluto prendermi un po’ di tempo per conoscere meglio tuo padre, ma proprio lui non mi diede modo di rispondere perché lo fece al mio posto e con sicurezza disse che entro l’anno successivo sarebbero divenuti zii. Non lo disse scherzando, non cercò il mio parere. Ecco, in quel momento capii cosa davvero significasse aver sposato Keitaro Morisaki e quale avrebbe dovuto essere la mia vita da quell’istante in avanti. Così, andai in bagno, vomitai l’intero pranzo ed ebbi un attacco di panico.»

Akina allungò la tazza a suo figlio, tornato al divano sul quale si stava sedendo lentamente. L’espressione che aveva la fece sorridere, perché con gli occhi tanto sgranati l’aveva visto forse solo da bambino. Non pensava sarebbe stata capace di sconvolgerlo ora che aveva più di sessant’anni.

«Lo avevo raccontato solo a Kozue, tempo fa. Sei il secondo a conoscere questa storia.»

«Ha rovinato proprio tutti, vero?»

«Diciamo pure che gliel’abbiamo permesso. La colpa è reciproca. Tuo padre è cresciuto con determinate convinzioni, noi… io non gli ho mai fatto capire che erano in buona parte sbagliate. Mi sono adeguata a lui, era più semplice e io non ero forte.» Portò la tazza al viso, inspirò l’odore di matcha che le riscaldò i polmoni e poi ne bevve un piccolo sorso, ma abbastanza per dare calore alla gola. «Ci ho messo ventisei anni di sedute di psicoterapia e psicofarmaci per uscire dall’esaurimento nervoso in cui sono caduta poco dopo la nascita di Ryuusei.»

«Sei stata in terapia?»

«Ci sono ancora, se è per quello. Altrimenti come avrei fatto a sopravvivere a tuo padre? Ogni tanto ho il bisogno di fare una chiacchierata con qualcuno che non sia della famiglia. Ne ho cambiati due o tre.» Aggiunse, pensierosa. «Dopotutto, vanno in pensione anche loro.»

Akio appoggiò la tazza sul tavolo senza averne bevuta neppure una goccia. «Non ho alcuna intenzione di andare a parlare con chicchessia.»

«Hai paura che ti possa giudicare?»

«Giudicato da un estraneo? Per carità!»

«Allora resta così, peggiora poco alla volta e finisci imbottito di psicofarmaci, se preferisci. Ti sei scontrato con la realtà e fai ancora il testardo?»

Akio distolse lo sguardo ed espirò con forza. Lei fissò la sua espressione dura da sopra la tazza di porcellana e tra le volute del vapore caldo del tè. Lo sorseggiava adagio e non spostava lo sguardo, voleva vedere fino a che punto fosse cocciuto o se anche quell’aspetto negativo dei Morisaki stesse venendo via.

Akio si alzò, e i suoi occhi gli andarono dietro, nei movimenti che lo condussero di nuovo alla vetrata. Avevano tutti il vizio di lasciare alle spalle le conversazioni che davano fastidio e di guardare invece avanti, dove non avevano ostacoli.

«Non so come diavolo ho fatto a ridurmi così… Ed esaurirmi, mi sembra impensabile.»

«E te lo chiedi dopo tutto quello che hai passato? Pensavo avessi superato la fase negazionista.»

«Non so cosa fare…»

«Lo sai, invece. Il problema è che non vuoi. Cosa ti ha detto il medico?» Akina poggiò la tazza e scelse di alzarsi anche lei, di raggiungere quella schiena per guardare insieme la pioggia che cadeva. Era alto, Akio, il più alto tra i suoi figli e portava il suo stesso nome. A quanto pareva, portava più di quello.

«Ha detto che dovrei lavorare di meno.»

«Mi sembra un buon inizio.»

«E trovarmi un hobby…»

«Non ne hai già uno?»

Akio sbuffò l’ennesimo, ironico sorriso. «No. Ho scoperto di non avere altro, al di fuori del lavoro.»

«Oh, be’, direi che è arrivato il momento di provare che nella vita ci si può anche divertire, qualche volta. Perché non tenti con l’ikebana?»

«Cosa?!» Akio la guardò con occhi sgranati e la frase ‘sei impazzita?’ rimase solo sospesa tra loro, ma Akina era seria, serissima. Sorrideva, ma non lo stava prendendo in giro. Guardò la pioggia, quella di marzo secondo lei era sempre più fredda delle altre, perché era l’ultima prima della bella stagione.

«Certo, perché no? Tuo figlio è molto, molto bravo. Prova. Magari scopri che ti piace. Oh, sai che la piccola Hisa-chan va proprio alla KadouEnshu? Indovina chi è il suo sensei

«Kozue non me lo aveva detto.»

«Hisa-chan non vuole che si sappia, si vergogna, teme i favoritismi e la reazione di tuo figlio. Sa che non va d’accordo con la famiglia, e teme che prima o poi possa scoprire chi sia lei. Pensa che non vuole mai che la vada a prendere davanti alla scuola con la macchina, mi fa parcheggiare sempre un po’ più lontano.» Tornò a guardare la pioggia e nelle gocce che picchiettavano il piccolo laghetto delle carpe, creando cerchietti continui che si fondevano gli uni agli altri, fece affiorare un sorriso, così come le koi affioravano in superficie con la bocca. «Ne parla sempre molto bene; dice che è pazzo, ma in senso buono. Lo teme, è vero, ma lo rispetta e lo ammira. È il più grande dopo i gemelli di Ryuusei, il suo cuginone, ma non si sognerebbe mai di chiamarlo così. Però è curiosa, ed è capitato che qualche volta mi abbia chiesto di quello che è accaduto in passato, anche a sua madre.»

«Shuzo sa benissimo che gli Yamaguchi di Nankatsu sono nostri parenti, quindi immagino si sia fatto un’idea sulla piccola Hisako, ma non le darà noie, questo è certo.»

«Sì, lo so.» Sulla superficie, le carpe si erano affollate con le loro bocche strette; sembrava mangiassero la pioggia, e non gli insetti che si poggiavano sul pelo. Di quel mese aveva sempre odiato tutto: l’aria, il clima, le credenze popolari, l’instabilità che trascinava con sé, eppure ne aveva sempre adorato i fiori. I fiori di marzo avevano i colori più vividi e profumi intensi da riempire i polmoni. Erano i fiori della resistenza, quelli che avevano affrontato e vinto il freddo e portavano la bandiera della rinascita. Il primo passo della primavera che anche se in ritardo entrava a gamba tesa, spavalda e sfacciata come i ragazzini moderni. Era il verde che riprendeva colore, era il giallo delle acacie, e mille macchie nelle campagne di quelle piante che crescevano irriverenti e forti. Ed era per questo che, per quanto odiasse marzo, sotto sotto le piaceva anche e non riusciva a toglierselo dalla testa.

Sorrise.

«La malerba porta solo il nome che gli altri le hanno affibbiato.»

 

§

 

Fianchi in movimento in un dondolio che li spingeva avanti, indietro e poi di nuovo avanti. Braccia distese, le mani aggrappate alla testiera del letto. Il ventre contraeva i muscoli. Imperlato di sudore, il petto si alzava e abbassava in fretta, mentre l’aria usciva in ansimi a bocca aperta; lingua voluttuosa passata sulle labbra prima che vi affondassero i denti e si storcessero in un sorriso godurioso e provocatore. Glielo leggeva in quel nocciola che faceva capolino da sotto le ciglia degli occhi socchiusi per il piacere. Leggeva che voleva provocarlo di più, mandarlo in estasi. E per farlo si chinava su di lui, senza arrivare a baciarlo, ma abbastanza vicino da sentire il fiato infrangersi contro il proprio. La schiena creava un’onda al movimento continuo che lo portava sempre avanti e poi ancora indietro. I capelli erano serpenti selvaggi nella penombra della camera dalle persiane abbassate, le tende tirate, e le sue braccia erano mostri tatuati, dai bicipiti contratti per tenersi alla testiera e chinarsi; più vicino al viso, più vicino alle labbra. Le punte dei capelli gli sfioravano la fronte, il naso gli sfiorava il naso e la bocca era alla distanza di un ultimo respiro.

Ma ecco che poi si tirava su, il capo gettato all’indietro, il viso al soffitto e l’ansimo sfumava nel sonoro di un gemito. L’erezione dura, infuocata tra le mani che la sfregavano per farlo arrivare al limite, tanto da sentirgli gridare il suo nome per l’ennesima volta e fino alla prossima volta.

O magari, alla prossima sarebbe stato lui a gridarne il nome e l’altro a guardarlo godere.

Dal basso, mentre si faceva possedere, Shuzo era la visione più bella che Mamoru potesse avere della propria vita. Il riassunto perfetto, pari solo a quando lo aveva sotto e si inarcava, mostrava i denti e gli abbrancava le cosce infilzandoci dentro le unghie.

Dalla testiera, la mano di Shuzo lo afferrò dietro al collo e Mamoru si sollevò, tenendolo per i fianchi. Lingua e bocca tracciarono strade dal ventre al petto. Vi poggiò contro la fronte e lo tenne più stretto, aiutando le spinte e dando loro un ritmo deciso, quasi aggressivo. Era come impazzire dal piacere e ogni volta lo sconvolgeva realizzare che in tutti quegli anni il modo in cui gli batteva il cuore quando facevano l’amore continuasse a essere martellante come all’inizio della loro avventura.

Se qualcuno gli avesse chiesto di spiegarlo lui avrebbe potuto dire che ciò che provava era la stessa euforia dell’innamoramento.

Lui si innamorava di Shuzo tutte le volte che facevano l’amore.

Lo afferrò dietro la coscia, dove iniziava la piegatura del ginocchio, e ribaltò le loro posizioni. Adesso sopra c’era lui, Shuzo lo guardava dal basso con occhi sgranati per la sorpresa e l’ultimo rantolo tra le labbra. Anche il suo cuore batteva folle, glielo ascoltava, e forse era di questo che si innamorava: della vita che gli sentiva dentro e lo rassicurava, gli diceva che c’era, era proprio lì; sotto di lui, sopra di lui.

Lo aveva dentro in un modo che con la fisicità non aveva nulla a che spartire, perché erano le anime a entrare in gioco. Con le anime non si scherzava mai, non si scherzava con i sentimenti. I suoi erano forti come i mulini a vento che avevano affrontato mille pazzi decisi ad abbatterli, e gli vorticavano in un punto indefinito tra stomaco e petto.

Shuzo sorrise, si tirò sui gomiti arrivando a baciarlo più volte.

Mamoru chiuse gli occhi, accolse le labbra calde e umide, cercandole quando si allontanavano.

«Manie di dominazione, oggi?» sentì sospirare in un sorriso.

«E tu manie di sottomissione?»

«Aspetta a dirlo…»

Con un colpo di reni, Shuzo lo rotolò di fianco e di nuovo le posizioni tornarono come prima, con Malerba sopra di lui che lo guardava con mento sollevato e altezzoso, e le palpebre quasi chiuse. Sulle labbra, c’era la piega storta per cui aveva perso la testa negli ultimi nove anni.

«Non svegliare il cannibale che dorme.»

«E se lo volessi sveglio, invece?» stuzzicò.

Shuzo si chinò, gli sfiorò il naso lungo la gola come un cane selvatico e poi morse, all’altezza della giugulare.

Mamoru non controllò un sussulto che ne attraversò il corpo come una scossa elettrica. Il sesso pulsò per l’eccitazione. Non era stato dolore, ma il riflesso di un brivido che lo aveva sconquassato per un istante.

Nel punto in cui Shuzo aveva stretto appena i denti, si sommò il ruvido della lingua.

«Se lo volessi, dovresti essere pronto a pagarne le conseguenze.»

Avevano imparato a tenerlo sotto controllo, quel cannibale assassino che non si poteva cancellare, tanto da riuscire a scherzarci. Mamoru aveva cercato di conoscerne ogni sfumatura e Shuzo di gestirlo alla grande, assieme alla rabbia. Entrambi avevano diradato le rispettive sedute da Haruna e Kido, riprendendo a camminare con le proprie gambe in maniera sicura e definitiva. Avevano casa, un’attività che andava bene, un frutteto, i loro affezionati vecchietti sempre più vecchi, con qualcuno nuovo e qualcun altro che li aveva salutati per sempre, tre nipoti, amici. Potevano dire di essere una famiglia? Mamoru ci aveva pensato spesso, ma a Shuzo non lo aveva mai detto, preferendo osservarlo, intento nei suoi lavori quotidiani, e lasciando intatto il loro equilibrio. Una parte di sé temeva di spaventarlo perché, a dispetto di tutto, Shuzo rimaneva una selvatica malerba che ogni tanto faceva a cazzotti con le relazioni personali, e anche se il desiderio di famiglia era fortissimo in lui, l’ammissione di averne una lo mandava in panico: l’avere un qualcosa metteva sul piatto la paura di poterla perdere. Per questo bisognava sempre andarci con i piedi di piombo quando si trattava di cambiamenti importanti.

Mamoru sogghignò, lo tenne saldo con una mano sulla nuca e lo guardò negli occhi. «So prendermi le mie responsabilità, stronzo. E ora fammi vedere come vieni.»

Da bocca a bocca, il sogghigno si trasmise invidioso come gli sbadigli.

«Yes, boss.»

Dritto su di lui, i fianchi in movimento, gli occhi socchiusi e il viso stravolto dal piacere, Shuzo restava il più bello e inaspettato riassunto di tutta la sua vita.

 

«Non era così che sarebbe dovuta andare questa pausa pranzo, lo sai?»

«Oh, dai, vorrai rinfacciarmelo fino a stasera? E poi non mi sembrava proprio ti fosse dispiaciuto.» Shuzo venne fuori dal bagno dopo essersi fatto una doccia al volo. Chiuse la zip dei jeans e sistemò il maglioncino a collo alto, di cui tirò le maniche fino ai gomiti. Gli rivolse un’occhiata in tralice e un mezzo sorriso, mentre sollevava le sopracciglia.

«Non hai pranzato nulla», fece presente e quando gli passò accanto ne approfittò per spettinargli i capelli sopra la rasatura. «Sono ancora umidi, asciugali come si deve.»

«Non fare mia madre, non ho tempo.»

«D’accordo. Però poi non ti lamentare per la cervicale, intesi? Ricordati che sei sulla via degli ‘anta’

«Okay, okay, okay!» Shuzo alzò le mani. «Lo farò giù, li passerò un po’ sotto al getto dell’asciugatore per mani che abbiamo nel bagno del negozio.»

«Il solito scombinato.» Mamoru scosse il capo, ridendo. Lo seguì lungo il corridoio fino al salotto, dove lo vide indossare giacca e sciarpa. Il cappuccio tirato sulla testa per farlo contento e la borsa afferrata al volo dall’appendiabiti. Shuzo controllò che avesse tutto e poi si tastò addosso facendo mente locale tra cellulare, chiavi, portafogli e sigarette.

Fermo a un passo, braccia conserte, con addosso la camicia che aveva avuto in ordine fino all’ora di pranzo e ora restava abbottonata in maniera disordinata e il pantalone di una tuta, Mamoru lo osservava nei suoi gesti quotidiani, trovando una dolcezza inaspettata nello scoprirlo più abitudinario del previsto e che ripeteva sempre le stesse piccole cose che rendevano tutto rassicurante. Come il bacio di saluto sulla soglia di casa. Poteva sembrare una sciocchezza, ma Shuzo ne aveva sempre uno da prendere e dare quando usciva e non si sarebbero visti fino a sera.

«E comunque, per essere uno a un passo dai quaranta… scopo da Dio.» Malerba glielo sussurrò all’orecchio, lasciando un bacio tra lobo e mascella.

Mamoru ne sostenne lo sguardo provocatorio e il sogghigno. Fece spallucce. «Sì, non posso lamentarmi.»

«Grazie della concessione.»

Rise apertamente e lo agguantò per la vita, tirandoselo addosso per quegli ultimi istanti in cui erano soliti definire la propria giornata. Aveva addosso l’odore di pino del bagnoschiuma e il mentolo del dentifricio sulle labbra.

«Non avrei potuto passare pausa migliore di questa, ma tu mangia qualcosa al locale prima di riaprire, okay?»

«Anche tu.»

«Sarà fatto.» Intrecciò le mani dietro la schiena per tenerlo stretto e Shuzo lo lasciò fare. Il lato affettuoso e più vulnerabile, Mamoru l’aveva scoperto fin dall’inizio della loro relazione. Gli piaceva molto, l’aveva trovato insospettabile e allo stesso tempo illuminante. «Oggi hai lezione, vero? Diavolo è già mercoledì.»

«Tu fino a che ora ne avrai al frutteto?»

«Non ne ho idea. Siamo in ritardo con le prime potature tra pioggia e gelate», sospirò. «Dovremmo rivedere il planning fatto fino a luglio.» Appoggiò la fronte contro la sua, chiudendo gli occhi e rilassandosi del tutto in vista del lavoro che lo aspettava e che l’avrebbe voluto bello concentrato. A rendere tutto più facile, le mani di Shuzo gli attraversavano i capelli in maniera lenta. «Kumi ha detto che sarebbe passata?»

«No. La Matsuda Family ha la serata alla palestra di Yucchan. Sai, quella roba di mamme, figli e stronzate varie.»

«Non sono stronzate. Prima di uscire metto in funzione la slow cooker, allora. Ti va tajine di pollo e verdure per cena?»

Shuzo strozzò un respiro a metà per poi sbottare quel disperato: «Nooo! Oh, cazzo, no! Merda!» le mani affondate nel taglio undercut e il viso rivolto al soffitto. «La cena dei maestri! Fottuta socialità!»

«Per un attimo avevo creduto che il mio tajine non ti piacesse più.»

«No, ma scherzi?! Cazzo, me n’ero proprio dimenticato! Ma che bisogno c’è? Li vedo quasi tutti i giorni.»

«Serve a fare gruppo, e comunque vi potete scambiare idee e pareri sul vostro lavoro.»

Shuzo strinse le labbra e afflosciò le spalle. «Avevo voglia di tornare a casa subito dopo le lezioni, stasera. E poi amo il tuo tajine

«Lo farò un’altra volta, ma per incentivarti…» Con le labbra cercò l’angolino della bocca. «…non prendere il dolce. Mi terrò in caldo io.»

«Oooh! Questo sì, che è parlare, gioia. La prospettiva della serata è diventata di colpo più interessante.»

Shuzo si era piazzato il sorriso smagliante di chi si era già fatto tutto un kolossal da premio Oscar in testa per cui l’avrebbe voluto prendere a calci, e invece si limitò a scuotere il capo e afferrarlo per il bavero della giaccia. Gli scoccò un ultimo bacio e poi mise subito in chiaro le regole. «Vedi di non alzare troppo il gomito. Devi guidare.»

«Come passare da amante arrapato a mammina premurosa nel giro di due secondi. Sei un maestro, gioia.»

«Sparisci, cretino.»

Si salutarono lì, a qualche passo dalla soglia di casa. Shuzo infilò in fretta le scarpe da ginnastica senza nemmeno slacciarle e uscì, rivolgendogli un ultimo cenno della mano. Lui, invece, rimase dov’era, con una mano infilata nella tasca dei pantaloni e l’altra che ricambiava il saluto. La porta venne chiusa e la casa piombò in quello strano silenzio che un po’ gli ricordava le sue giornate solitarie, quando era solo del vuoto e dei ricordi che preferiva circondarsi e nient’altro. Ma ormai quel tempo era finito e presto – la mezz’oretta di una doccia veloce anche lui – il silenzio se lo sarebbe lasciato alle spalle come aveva imparato a fare. Tanto nella testa la voce di Shuzo rimbombava sempre.

«E allora, vecchio mio», sospirò, il capo inclinato per inquadrare lo spigolo del butsudan. «Dopo nove anni con tuo fratello, il titolo di Highlander me lo sono guadagnato?»

 

Il problema di Shuzo non era tanto uscire con i colleghi per andare a mangiare qualcosa o a bere. Le sue difficoltà giravano attorno al fatto che a volte non se ne sentiva all’altezza.

Con i suoi quasi trentasette anni era tra i più giovani insegnanti della scuola KadouEnshu di Nankatsu, se non addirittura il più giovane, ed era un anticonformista. Conosceva le regole e la sensei Saito – sorella della sua prima maestra – l’aveva preso sotto la sua ala proprio come aveva fatto la vecchia vicina di casa. Seguendola, Shuzo aveva imparato le regole per bene, facendo quadrare gli insegnamenti ricevuti da ragazzino; la sua forma mentis per approcciarsi alle opere aveva limato delle parti troppo spigolose ed estreme, ma l’idea di restare a lungo in binari rigidi lo infastidiva. Era come un prurito in mezzo alla schiena che non potevi grattare, la stessa sensazione di disagio e di ‘c’è qualcosa che non va, che non torna’.

La sensei diceva che la sua era una visione futuristica, forse troppo per i dettami della KadouEnshu di adesso che, pur nelle sue forme curve più di qualsiasi altra scuola, manteneva un rigore impeccabile. Quelle pieghe estreme l’avevano ammaliato in un attimo e si era dedicato completamente alla tecnica kusabi dame. Dall’altro lato, però, c’era il suo spirito che alzava la testa, che aveva imparato, certo, ma sentiva le regole strette e premeva per essere lasciato andare.

Quando la sensei gli aveva chiesto di accompagnare una delle proprie mostre con un suo lavoro erano arrivati i primi confronti. L’ambiente non era più quello familiare e popolare di una fiera di paese, si giocava a tutt’altro livello e se qualcuno gli aveva riconosciuto una certa audacia, c’era anche chi l’aveva criticato aspramente e a scena aperta.

Sensei Atsuzawa Kinryu di Kyoto non gliene faceva passare una.

Tra i più esperti e premiati, era famoso per la sua rigidità verso i dettami della scuola. Non ammetteva niente che non li seguisse alla lettera. L’ikebana è regole, è disciplina. Chi non la rispetta non fa che nascondere il proprio caos dietro un finto ordine. Era stata una delle dichiarazioni più forti che aveva rilasciato quando gli avevano chiesto cosa ne pensasse di questo giovane ikebanista spuntato dal nulla e neppure figlio d’arte, ma che pareva dotato di grande talento.

Shuzo l’aveva presa con una mezza risata e un ‘secondo me è la scopa che si è piazzato nel culo a dargli fastidio; dovrebbe cambiarla’. Però, anche se tendeva a mostrarsi molto divertito da una così accesa acredine, tanto da restare in attesa di ciò che avrebbe avuto da dire a ogni uscita pubblica attraverso mostre e attività scolastiche, le sue parole gli erano rimaste in testa, pur non volendo.

Il dubbio si era insinuato come una spina di Mammillaria sotto l’unghia. Una spina piccola, sottile che non riuscivi a vedere, ma che potevi sentire pungere con chiarezza. Non faceva male sempre, ma solo a certi movimenti, a certi tocchi.

Come quello dei suoi occhi che si prendevano del tempo a studiare i propri lavori, in tarde ore notturne, quando rubava il sonno a sé stesso per creare dentro un silenzioso e semioscuro Kokoro; Shuzo si era chiesto se Atsuzawa non avesse ragione. Rigirava il vaso, seguiva le volute dei rami e dei fiori e poi sottraeva, aggiustava. Ciò che non rispettava le regole in maniera pedissequa veniva omesso o modificato per tornare nei ranghi, per essere ciò che avrebbe dovuto. Il Paradiso, l’Uomo e la Terra venivano sottomessi a qualcosa che non era più onesto come il proprio spirito, ma dittatore come un dio. E quel dio era il Rigore, era l’Ordine, anche se non corrispondeva a quello che aveva dentro. Le composizioni apparivano quindi corrette, eppure non riusciva a spiegarsi perché ai suoi occhi continuassero a essere vuote. Non c’era lui, lì dentro, erano solo un bel compito a casa per cui prendere un buon voto. E se lui non c’era, cos’erano?

Chi era?

Chi sei?

Quella domanda era tornata dopo tanto, ricordandogli di non essersi mai risposto. E così come i suoi lavori, anch’egli rimaneva un incompiuto.

Per tale motivo, per questo suo non sentirsi ancora chiuso nel cerchio giusto, tendeva a evitare le serate con gli insegnanti. Era sensei anche lui, eppure non si sentiva al loro livello e, anzi, temeva che gli altri si risentissero di condividere la stessa qualifica con uno ancora troppo acerbo.

Quando la spina sotto l’unghia pungeva, Shuzo trincerava sé stesso dietro al muro sicuro del non dover dimostrare nulla a nessuno e chiudeva tutti gli scomparti possibili che l’avrebbero scoperto con degli sconosciuti. L’unica che riusciva ad aggirarli con una mezza occhiata rivolta con maggiore insistenza era la sensei.

La stessa che ora camminava tutta baldanzosa qualche passo davanti a lui, tenendosi al braccio della più giovane sensei Shinaya.

«E non me ne frega niente di quello che direte, io mi scolerò almeno quattro bicchieri di sakè, stasera. È quella giusta, me lo sento!»

«Saito-san, non ha più l’età per quattro bicchieri di vino.»

«E chi te lo dice? Pensa per te, Hiromu-kun! Sei uno sbarbatello!»

Gli altri ridacchiarono, mentre il signor Hachi scuoteva il capo e guardava verso di loro – lui e il signor Asamoto, che gli camminava accanto. Avevano lasciato alle donne della scuola il compito di guidare il gruppo visto che erano in superiorità numerica. Avrebbe dovuto unirsi anche il direttore Mizuno, ma all’ultimo aveva dovuto tirarsi indietro per sopraggiunti impegni.

«Hachi-san, la lasci fare, non ci sono problemi. Dovesse vomitare, le terrei io la fronte.»

«Senti, senti, che insolenza il moccioso disegnato!» La maestra Saito si girò guardandolo con occhi stretti da sopra gli occhialetti sottili che le scivolavano di continuo sulla punta del naso. «Mi stai sottovalutando, Shuzo-kun? Potrei sorprenderti! Hai conosciuto mia sorella, sai di cosa siamo capaci noi Saito.»

«E io dovrei ricordarle com’è finita l’ultima volta che ha voluto bere?» In una parola: tragica. A metà del secondo bicchierino, la vecchia insegnante aveva iniziato a ridere e ridere e ridere, ma così forte che aveva finito con lo sputare la dentiera. «Veda di non perdersi i denti nel piatto Kabuto-sensei questa volta.»

«Con tutto il rispetto, Eriko, ma non sarò io a sedermi davanti a te!»

Mise subito in chiaro l’interpellata, che aveva più o meno l’età della sua maestra, scatenando l’ilarità dell’intero gruppo. Quando si guardarono attorno, l’insegna dell’izakaya che avevano scelto era lì ad accoglierli.

I rami dei ciliegi oscillavano al vento di marzo che soffiava insidioso e pieno d’umidità. La pioggia dei giorni precedenti era stata senza tregua, ma le previsioni sembravano annunciare un netto miglioramento per il week-end, e Malerba ci sperava, così che Mamoru e Hamoto potessero pianificare al meglio le potature. Anche quella mezzasega di Kaede si stava dando parecchio da fare, tanto che non era andato a dargli supporto al locale quel pomeriggio, proprio per restare tra frutteto e grandi serre per controllare e organizzare i futuri mesi di lavoro.

Shuzo fece sfilare i colleghi più anziani, riservandosi di entrare per ultimo.

Ad ogni modo, però, a dispetto di tutte le sue fottute paranoie di quasi quarantenne, doveva ammettere che gli altri insegnanti non erano poi tanto male. Erano brave persone, di compagnia e non l’avevano mai ostracizzato per essere così diverso da loro: tutti per bene, tutti sposati con figli e nipoti, tutti con una vita regolare e un passato altrettanto regolare. Lì in mezzo era l’unico tatuato per esempio ed era l’unico omosessuale. Ed era incredibile quanto, pur seguendo le regole della scuola, conservassero tutti una visione molto personale dell’arte che avevano deciso di abbracciare. Forse anche per questo alla fine accettava sempre di partecipare a quelle serate di cibo e bevute.

Il locale si presentò comunque affollato nonostante fossero già le nove di un giorno feriale. I tavoli erano occupati a macchie e il bancone aveva ancora un paio di spazi vuoti. La maestra Katsuragi, sulla cinquantina, si occupò di spiegare al giovane che li aveva accolti che avevano un tavolo riservato. L’operatore di sala fece cenno di seguirlo con un inchino e loro si mossero tutti insieme come una serpentina tra i tavoli.

L’ambiente era caldo, accogliente, e lui si sentì già un po’ più rilassato senza il freddo di fuori a mordergli le guance. Non era più come quello di febbraio, ma si era rivelato persistente e poi il pensiero che a casa lo avrebbe aspettato Mamoru per un bel dolce diffuse un calore più intenso tra ossa e carne; favorì lo sciogliersi di un sorriso sulle labbra.

Nei pressi del bancone, rallentò nel riconoscere quella figurina minuta ed elegante con i capelli corti e un grazioso abito a fiori che tagliò la loro serpentina.

«Mamma?»

Yumeko si illuminò in un ampio sorriso appena lo vide. Allargò le braccia per accoglierlo. «Tesoro!»

«Che coincidenza.» A Shuzo bastò un solo braccio per circondarla tutta e stringerla in un breve contatto.

«Già! Sei con Mamoru?»

«No, sono con gli insegnanti della scuola. Relazioni sociali», aggiunse, in un’alzata d’occhi. Yumeko ridacchiò, gli diede un buffetto sul braccio.

«Come se ti facessero male. Avere rapporti sociali non significa contrarre una malattia mortale.»

«Ma a me bastano quelli che ho a Obuchi.»

«Smettila.»

«Sei anche tu in libera uscita con le amiche?» Shuzo si guardò attorno terrorizzato. «Non dirmi che sei con Rina-san e state confabulando chissà cosa. Voi due da sole mi spaventate, te l’ho sempre detto.»

«Non essere sciocco. Io e Rina ci scambiamo materni punti di vista.»

«Sì, certo. Come quella volta che volevate organizzare una vacanza in Hokkaido tutti insieme. Me e Akio sotto lo stesso tetto, per quasi una settimana.» Nello scandire una finta risata, Shuzo incrociò i due indici davanti al volto. «No.»

«Era una bella idea invece. Comunque, non sono con Rina, ma con tuo padre.»

«Eh?! Akio ti ha portata fuori a cena?! Quale miracolo! Cos’è, la vecchiaia inizia a rincoglionirlo?»

«Ora smettila.»

Yumeko infilò quell’inflessione di materno rimprovero che lo faceva sentire un adolescente anche se aveva superato la fase teen da circa vent’anni. Con lo sguardo seguì quello di sua madre e scorse Akio seduto a un tavolino, in una saletta più appartata e dalla luce soffusa che delle lampade triangolari, rivestite in carta di riso, direzionavano sui singoli tavoli per riscaldare l’atmosfera dei commensali. Un ambiente diverso da quello familiare e confusionario della sala principale o delle salette singole, isolate da porte scorrevoli, adatte a gruppi più numerosi. Allora qualcosa di romantico sapeva farla anche lui, dopotutto, quale scoperta.

«Sono già un paio di settimane che abbiamo deciso di prenderci un giorno per mangiare fuori.»

«E sottrarre tempo al lavoro? Sono sconvolto.»

«Un tempo lo facevamo spesso.»

«Ah, sì? Be’, devo essermelo perso.»

Mentre sua madre parlava, raccontando come da giovani stessero davvero poco in casa, divisi tra lavoro, impegni sociali e uscite più o meno mondane, Shuzo mantenne gli occhi su Akio, intento a studiare il menù. Con gli occhiali sul naso, lo teneva distante per riuscire a leggerlo e un sorrisetto sardonico approfondì appena solo l’angolo sinistro della bocca di Malerba: hello, presbiopia, my old friend; pensò. Non era il primo segno dell’età che avanzava che gli leggeva addosso, ma ne aveva avuta una visione più chiara l’anno precedente, quando la camera della morte aveva aperto le porte stagne per Tate Daidouji. In quell’occasione, gli aveva fatto una radiografia attenta scoprendo quanto il grigio avesse preso il sopravvento sul nero; poi le rughe attorno agli occhi, le spalle un po’ curve e una fisicità più magra di quanto ricordasse. Singoli elementi che insieme gli avevano detto a chiare lettere che il tempo stava passando in fretta per tutti, anche per i suoi genitori. Anche per Akio, che nella sua testa rimaneva altissimo e imponente, come le sequoie, e impossibile da abbattere per un ragazzino giovane e acerbo. Adesso, la sequoia centenaria stava avvizzendo e l’erbaccia era cresciuta senza controllo; a sua volta, inaspettatamente, era diventata sequoia e guardava quella che l’aveva generata alla stessa altezza, se non da un punto più alto.

Akio stava passando le dita sulla fronte corrucciata dall’indecisione, quando allungò la mano per prendere il bicchiere di vino riempito a metà. Senza guardare, lo urtò. Il vino ricadde sul tavolo e l’uomo ebbe uno scatto che lo portò in piedi, trascinando la sedia sul pavimento. Uno stridere che a Shuzo e sua madre arrivò attutito, mischiato assieme agli altri rumori di stoviglie e chiacchiere, ma che lì dovette farsi sentire parecchio, perché qualcuno si volse. Imprecazione nella bocca di Akio che Malerba tradusse dal labiale con ‘merda!’, e un secondo danno sfiorato quando, nell’istinto di alzarsi, urtò con la spalla un cameriere che stava passando lì accanto con il vassoio pieno di ordinazioni. Solo la grande abilità e prontezza di riflessi del ragazzo evitarono il disastro.

Scuse dalla sequoia al ragazzino.

Scuse dal ragazzino alla sequoia.

Un secondo cameriere accorse per aiutare suo padre a rimettere a posto il tavolo.

Altre scuse e inchini e teste che si piegavano più volte.

Akio tolse gli occhiali, prese un paio di profondi respiri e poi tornò a sedersi, mentre il giovane si affaccendava per tamponare il tavolo e portare delle stoviglie pulite e asciutte.

Malerba sgranò gli occhi, tirò indietro il mento e non riuscì a capire a cosa avesse appena assistito.

«Ma che diavolo…»

Yumeko interruppe ciò che stava dicendo e dopo qualche istante gli poggiò una mano sul braccio. «Tuo padre ultimamente è un po’ distratto, non farci caso.»

«Un po’?» ironizzò nel vederlo dritto sulla sedia, che cercava di darsi un tono o comunque non sembrare così a disagio, riuscendoci a malapena. «Ma sta bene?»

«È un po’ stressato. Il lavoro è sempre quello, ma lui non riesce più a starci dietro come un tempo, solo che non lo vuole ammettere. Non preoccuparti.»

«E chi si preoccupa? Per quello che mi frega», s’affrettò a dire, schiena dritta e mani infilate nelle tasche del giaccone che stavano arrivando a scavare il fondo con le nocche. Il viso gettato di lato in uno sbuffo, mentre pensava che quella domanda gli fosse scappata di bocca senza rendersene conto. L’accondiscendenza di sua madre, poi, lo infastidì ancora di più: insinuava che ci fosse un fondo di contrario in ciò che non si limitava solo a dire, ma a sbattere in faccia. Si domandava come potesse anche solo pensarlo, dopo tutto quello che lui gli aveva fatto. Sua madre a volte era troppo naif.

«Sì, certo. Allora ti lascio andare, ti staranno aspettando. Passa una buona serata, e salutami Mamoru.»

«’kay…» smozzicò. «E mamma: non c’è bisogno di dirgli che sono qui.»

Un cenno del capo che non era né un sì né un no e poi si allontanò, mentre lui rimase fermo, con le mani sempre nelle tasche a scavare quel fondo come un cane che scavava la buca per nasconderci l’osso. Lui chissà cosa voleva nasconderci, certe volte, nei propri fossi immaginari.

Yumeko raggiunse Akio, e l’uomo parve riacquistare in un istante tutta la sicurezza assente fino all’attimo prima. Altro che automobili, si sarebbero dovuti dare alle costruzioni come gli Izawa, perché come tiravano su facciate loro non c’era nessuno. Qualche parola, un gesto inequivocabile che lo indicava e sua madre che ovviamente aveva fatto il contrario di ciò che gli aveva chiesto.

Akio si volse e lo inquadrò subito. Si salutarono a distanza. Una mano sollevata dell’uomo, un semplice cenno del capo da parte sua. Sempre senza parlare, Akio lo invitò a unirsi a loro, ma lui scosse la testa e sua madre parlottò, probabilmente spiegandogli come mai si trovasse lì. Akio lo guardò di nuovo, annuì che aveva capito e sollevò ancora una volta la mano, senza staccarla dal tavolo. Un gesto di saluto discreto e ordinato. Lui fece altrettanto con il capo e così com’era nata, la conversazione morì in un insieme corretto e decodificato di cenni e sguardi che venivano strategicamente spostati per dire: ‘ehi. No, senza che ti alzi, salutiamoci da qui. Tutto okay, ma non posso fermarmi. Buona serata’, e via, ognuno per la propria strada.

Shuzo la intraprese voltando loro le spalle e trovandosi di faccia un disperato sensei Hachi.

«Mori, ma sei ancora qui? Non ti vedevamo più. La Saito ha già ordinato una bottiglia di sakè! Ti prego, vieni a tenerla a bada, sei l’unico che ci riesce!»

«Quella vecchia…» sospirò Malerba alzando il viso al soffitto. «Andiamo, sensei. Lasci fare a me. Mi faccia strada.»

Con Hachi davanti e lui dietro, Shuzo riprese la serpentina in versione ridotta, ma dopo aver svoltato l’angolo si fermò di nuovo. Vide il maestro infilarsi nella prima saletta sulla sinistra e nel momento in cui aprì la porta scorrevole, risate a voce alta filtrarono all’esterno; sopra tutte spiccava quella della sua maestra. E ti pareva. Ma prima di raggiungerli, si sporse indietro ancora una volta, facendo capolino oltre la parete.

C’era un cameriere con Akio e sua madre, prese le ordinazioni e portò via i menù. Sua madre parlava e Akio faceva scorrere le dita sul ventre panciuto del calice di vino ma niente sakè. L’uomo la ascoltava, e poi fece cadere gli occhi sul bicchiere e quel gesto ripetuto del pollice che saliva e scendeva lungo il vetro.

Anche se distante, Shuzo si accorse che era distratto, come incantato su qualcosa che non c’era ma che l’altro sembrava vedere comunque. Un tocco discreto di sua madre e Akio sollevò lo sguardo con un sussulto nelle spalle. Un sorriso, un cenno di scuse e fu di nuovo intento a dedicarle attenzioni.

In tutta la vita che avevano passato sotto lo stesso tetto, Akio non era mai stato tanto alienato in altri pensieri da non ascoltare chi aveva davanti, né era mai stato così impacciato da rovesciare del vino e quasi ribaltare un vassoio contemporaneamente. Sembrava che l’uomo seduto al tavolo non fosse neppure Akio Morisaki; il rigido, impeccabile, attento.

C’era qualcosa che stava cambiando già da un po’, Shuzo lo aveva notato in svariate occasioni, come fossero tante bricioline, ma non gli aveva dato importanza. Ora però era palese o solo troppo difficile da nascondere; qualcosa che riportava l’immagine della persona che aveva sempre associato a un ostacolo insormontabile a una dimensione più umana, meno invincibile. Forse addirittura fragile. Un’immagine che perdeva poco alla volta le distanze accumulate e che trovava chiusura nei fiori di Lycoris sulla tomba di suo fratello, nemmeno stesse tracciando il percorso di un cerchio.

Il disappunto del cannibale diede un morso allo stomaco e lui sparì di nuovo dietro al muro. Il suo mostro personale non era d’accordo che ci pensasse o lo osservasse, e Shuzo lo ascoltò, indurendo lo sguardo e ricordandosi che non bisognava mai abbassare la guardia con i Morisaki. Non era il momento, non ancora; forse non lo sarebbe stato mai. Quindi, che si rincoglionisse pure, Akio, meglio per lui, magari avrebbe smesso di ronzargli attorno di tanto in tanto con quel suo non volersene andare anche se veniva allontanato. Magari era la volta buona che si sarebbe arreso, poteva ben sperare.

A testa alta, Shuzo raggiunse la saletta privata dove c’erano i suoi colleghi; la mente attraversata dall’ultima domanda mentre faceva scorrere la porta in carta di riso: dopotutto, a lui cosa importava?

 

“È un po’ di malerba nella luce del mattino.

Sono le piogge di Marzo che chiudono l’estate.

È la promessa di vita nel tuo cuore.”

 

Águas de Março – Antonio Carlos Jobim & Elis Regina

 

 


 

 

Note Finali: …e ritroviamo anche il nostro scombinato :3

Uno scombinato che sembra finalmente vivere tranquillo, i suoi problemi attuali sono più di concetto che fisici e non hanno più nulla a che vedere con ciò che si è lasciato alle spalle e che abbiamo conosciuto in ‘Malerba’. Ora è tutto basato sulla ricostruzione personale, sulle aspirazioni, sull’ikebana, su Mamoru.

E mi sembra che loro se la stiano cavando mooooolto bene! *sogghigna*

Chi invece pare proprio che stia arrivando al capolinea è Akio.

Qui abbiamo anche modo di conoscere meglio sua madre Akina, che in ‘Malerba’ era stata solo nominata più volte e ha avuto una rapida comparsa verso il finale.

E continua anche un grande gioco di contrapposizioni, come i rapporti Akio/Keitaro e Akio/Shuzo; di padri e di figli.

Perché in fondo, ‘Malerba’ è sempre stata anche questo. :3 <3

 

 

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Capitolo 4
*** III: Rami di Melograno ***


Roots - Capitolo 3

 

 

 

- III: Rami di Melograno -

 

“E così qualche volta piango,

quando sono disteso nel letto, solo per tirare fuori tutto

quello che c’è nella mia testa.

E io… mi sento un po’ strano.”

 

Quel compleanno era arrivato con le nuvole.

La pioggia si era fermata da un paio di giorni, ma le nuvole erano rimaste lì. Stazionavano sui cieli di Nankatsu e del nord della prefettura. Una perturbazione che si muoveva, ma non sembrava volersene andare.

Akio aveva sperato che almeno per il compleanno di Yuzo potesse fare capolino un raggio di sole, anche se timido. Un raggio di sole per il compleanno di suo figlio. Però, nulla. Le nuvole avevano continuato a solcare i cieli, rendendo uggiose le giornate di quella primavera che sarebbe arrivata in nove giorni, ma che non accennava neppure a farsi vedere.

Marzo e le sue pazzie.

Lui era stato pazzo uguale, perché con il vento insidioso che riusciva a infilarsi tra le sciarpe e le maglie dei cappelli, e il cielo grigio come una cappa compatta era uscito lo stesso per andare al cimitero.

Sulla tomba, i Lycoris erano spiccati più di quando c’era il sole. Dovevano amare il grigio, forse, o comunque i colori che mettevano in risalto il dolore. Era riuscito a trovarli per puro miracolo, anche se non era periodo. Aveva girato tutti i fiorai della città, qualche serra. Li aveva ripescati in un negozio molto grande, fuori Nankatsu. E non gli era importato di aver macinato chilometri, lui desiderava mettere dei Lycoris sulla tomba. Quel giorno più che in ogni altro.

Proprio a causa dei lunghi giri che aveva compiuto, era riuscito ad andare al cimitero solo nel pomeriggio inoltrato, trovandolo semideserto. Si era preso addirittura l’intera giornata di ferie, perché quel 12 Marzo non era caduto di sabato.

Presso la tomba aveva trovato fiori freschi e bellissimi, dalle corolle grandi e i colori intensi. Forse primule? O magari anemoni… Non se ne intendeva ancora abbastanza per essere in grado di saperli riconoscere alla prima occhiata, ma non aveva avuto bisogno di un indovino per capire che quei fiori li aveva portati Shuzo.

Oggi era anche il suo compleanno.

Akio l’aveva realizzato quando si era chinato e aveva toccato i petali. Era stato come stabilire un contatto con entrambi i figli allo stesso tempo. Per un attimo gli era parso di sentire la voce di quello ubbidiente che lo ammoniva per non essersi ricordato subito che condividevano il compleanno. Ma in tutta la loro assenza e reciproca distanza, Shuzo aveva quasi assunto una forma mitologica. Una forma che non aveva età, sospesa nel rancore di entrambi, e si evolveva: passava dal bambino all’adulto, ma non invecchiava, come se dovesse vivere in eterno. E quindi che fosse il suo compleanno l’aveva messo da parte come un’informazione superflua, perché ciò che era immortale, non aveva nascita e non aveva fine.

Con Yuzo il discorso era diverso: nella sua mente, rappresentava la manifestazione più fisica e lineare del tempo: nasci, cresci, muori. Per questo dentro a ogni fibra aveva marchiati giorno e ora precisi di un preciso marzo e un altrettanto preciso novembre che non avrebbe dimenticato.

Aveva sistemato i fiori che aveva portato – dei Lycoris rossi e dei crisantemi bianchi – in un vaso più piccolo appoggiato ai piedi della lapide, sotto le scritte. In realtà, lo spazio per metterli assieme a quelli di Shuzo c’era stato, ma aveva pensato che avrebbe finito con lo spezzare l’armonia di quelle composizioni così delicate, piene d’amore fraterno e di mancanza – tanto simile alla sua – e allora non se l’era sentita, ritagliandosi uno spazio solitario e distante. Poi era rimasto per un po’ a guardare quel tripudio di corolle diverse che si scontravano con la solidità del marmo, qualcosa di immobile che non avrebbe potuto restituire nulla del calore che, invece, lui e Shuzo avevano riversato in un semplice bouquet. Quel marmo non era che un tramite a una sola direzione: da loro a Yuzo. Il contrario, invece, avveniva in modi completamente diversi e insospettabili.

O, almeno, ad Akio piaceva pensare che fosse così e che la mano di Yuzo continuasse a restare su di loro, anche se invisibile agli occhi. Un giorno sperava di poterla sentire col cuore.

Ora, Akio camminava con lo sguardo rivolto al marciapiede e le mani infilate nelle tasche. In una di queste continuava a rigirare il cellulare e la propria indecisione. Gli tornò alla mente la fermezza che aveva avuto, anni prima, di presentarsi al Kokoro e litigare con Shuzo. Si erano rivisti per la prima volta dopo anni e l’unica cosa che avevano saputo fare era stato darsi addosso. Ricordava quanto acerbo fosse stato il suo desiderio di riavvicinamento, quanto ancora chiuso nell’accettazione a senso unico verso sé stesso; allora aveva creduto di essere nel giusto, non era stato capace di ammettere i propri errori. Eppure, in quel momento, si domandava come avesse fatto a essere tanto sicuro delle proprie intenzioni, quando ora non sapeva neppure risolversi dall’estrarre il cellulare e fare una telefonata.

Stancamente, si fermò davanti alle sbarre chiuse del passaggio a livello che tagliava la città, e girò il capo. Attorno a lui, poche persone dai movimenti elettrici. Andavano di fretta, avevano uno scopo nella vita, fosse stato anche quello di raggiungere un amico al bar. I suoi, di scopi, sembravano aver perso tutta la loro importanza davanti a un’inettitudine estranea che stava guadagnando terreno sulla propria sicurezza. La mangiava come le tarme col legno, scavava buchini che l’avrebbero reso un colabrodo esistenziale, senza arte né parte e tantomeno una direzione.

Era quello un altro effetto del famoso esaurimento? O era un passo verso la depressione di cui aveva parlato Kurogane? Quando avrebbe potuto dire di essere depresso? Lui non lo era mai stato. I dettami della famiglia Morisaki non lo prevedevano, non lo concepivano neppure. Non facevano che predicare di stare su, di essere forti, di andare avanti. Ma che cosa bisognava fare quando ci si sentiva alla deriva e non c’erano un avanti né un indietro cui puntare?

Una donna in tailleur e borsa da braccio che non faceva che guardare l’orologio, un salary man con lo zaino sulle spalle e la tazza di cartone col caffè nell’altra, la scolaretta che messaggiava dallo smartphone e non alzava mai la testa, la madre col figlio che si tenevano per mano. Tutti loro avevano più scopi nella vita di quanti lui avrebbe mai potuto costruirne, avevano tutte le direzioni del mondo cui puntare. Lui girava in tondo come gli aghi delle bussole che avevano perduto il Nord.

L’ultima volta aveva visto il proprio disteso sul tavolo d’un obitorio.

Un fischio acuto, sferragliare su rotaie e il treno della JR che collegava Shizuoka City a Tokyo sfrecciò davanti al ricordo più brutto della sua vita. La luce dei vagoni che investì a intermittenza quel frammento sociale del Giappone gli riportò alla mente la stessa della stanza. Un neon freddo, come l’aria che lo circondava, cadeva dal soffitto, appeso a un filo. Anche lui era stato appeso a un filo, ma in quel momento non l’aveva ancora capito. L’aveva realizzato dopo, quando il filo si era spezzato. Sul tavolo, un lenzuolo bianco definiva un profilo che avrebbe saputo riconoscere anche senza vederlo, e lui non avrebbe voluto che glielo mostrassero, ma il mondo degli adulti era fatto di tutti i ‘non voglio’ che aveva evitato da bambino. Attorno al tavolo c’erano stati il medico legale e l’Ispettore Capo Himura.

Akio vide entrambi nel correre del treno; gli occhi fermi, le labbra dritte.

Luce, buio. Luce, buio.

Il lenzuolo sollevato con entrambe le mani e che veniva retto con solo la punta delle dita.

Luce, buio. Luce, buio.

Yuzo, i suoi occhi chiusi.

Luce, buio.

La bocca silenziosa.

Luce.

E il filo si era spezzato.

Buio.

«Signore… Signore, si sente bene?»

Akio ebbe un sussulto che lo fece allontanare di un passo e sottrarsi al tocco di quella mano sulla spalla che non aveva visto arrivare. Al suo fianco, un uomo di qualche anno più giovane lo guardava con serietà.

«Ha bisogno di sedersi? Vuole che chiami qualcuno?»

Solo in quel momento si accorse di avere il respiro affannato e di tenere la mano aggrappata al bavero del cappotto. La stretta spasmodica gli fece male alle dita quando l’allentò di colpo. Nelle gambe la sensazione di formicolio rendeva tutta la sua consistenza molle come pappa e che conosceva bene, sapeva cosa anticipasse.

«S-sì, cioè, no… Non serve chiamare nessuno. È tutto… tutto a posto.»

In bocca masticava saliva e colla che non era in grado di ingoiare. Accennò col capo e poi tornò indietro, abbandonando quel passaggio a livello senza attraversarlo. In fretta, concentrandosi sull’aria fredda di marzo, facendosi aiutare dal gelo che mordeva il viso per darsi una svegliata, far passare lo straniamento che falsava le percezioni di distanze e suoni. Dondolò, ma non si volse indietro. Scansò le persone quasi andando addosso alle altre e poi alla fine scomparve in una stradina più stretta che costeggiava il passaggio a livello. Aggrappato alle maglie della rete, Akio si accovacciò sui talloni e cercò di rallentare il respiro, anche se la sensazione di non avere aria restava chiusa nel petto. Allo stesso modo chiuse gli occhi, dondolandosi leggermente avanti e indietro.

«Niente panico… niente panico…»

Ma a dispetto di quanto provasse a convincersi, l’attacco fece il suo corso senza alcuno sconto. Lo attraversò, lo sconvolse come un terremoto e poi si allontanò lasciando indietro solo caos e freddo; un freddo tremendo che gli fece battere i denti. Eppure, anche quello, a poco a poco passò e Akio fu in grado di prendere una profonda e soddisfacente boccata d’ossigeno.

I ricordi avevano un potere terribile, si rese conto. Soprattutto quando arrivavi a comprenderli in ogni loro significato.

Akio si arrampicò alle maglie della rete per tirarsi in piedi un’altra volta e l’occhio finì nel vetro della macchina parcheggiata lì accanto. L’immagine restituì un omuncolo ingobbito e spaventato che non sapeva più come stare al mondo; se ne vergognò come un ladro.

Una scintilla d’orgoglio nascosta da qualche parte nelle radici del suo nome, gli fece tendere la schiena poco alla volta. Era tutta anchilosata, che si domandò per quanto tempo l’avesse tenuta così, ma l’importante era che l’immagine ora restituisse l’illusione dell’uomo che non era più facendogli credere di poterlo essere ancora per un po’.

Al secondo tentativo, Akio riuscì ad attraversare il passaggio al livello. Il trucco fu quello di tenere gli occhi ben piantati a terra e di non farsi suggestionare troppo dalle persone che lo circondavano e dallo stesso rincorrersi dei pensieri nella testa. Bastava tenere fuori i ricordi e dentro solo pensieri immediati: attraversa i binari, torna a casa, bevi un tè.

Camminò così per un po’, e quando si decise ad alzare la testa per capire dove la memoria del proprio corpo l’aveva portato – quanto, cioè, fosse vicino a casa – gli occhi trovarono la struttura scolastica della KadouEnshu. Lì, allora, si fermò.

Un’architettura lineare, squadrata a un solo piano. Nell’edificio si tenevano vari corsi, non ci si occupava solo di ikebana. Sapeva fossero nati come insegnanti di cerimonia del tè e poi di sumi-e. Solo più tardi avevano introdotto anche l’ikebana nell’insieme delle arti che insegnavano. La capostipite prendeva il nome di Enshu, ma il nuovo caposcuola ne aveva cambiato designazione rendendola uguale e diversa allo stesso tempo. Questo era ciò che aveva letto quando si era un po’ informato.

Davanti al cancelletto, accostato ma non chiuso, Akio riuscì a estrarre il telefono dalla tasca e a richiamare il numero di Shuzo dalla rubrica. Non era stato suo figlio a darglielo, però. Era stata Yumeko con la scusa del ‘per ogni evenienza’, ma lui non aveva mai avuto il coraggio di usarlo, limitandosi a sfruttare sempre sua moglie come tramite quando ce n’era bisogno, che fosse per auguri o altre comunicazioni.

Akio era certo che Shuzo si sarebbe arrabbiato e forse avrebbe fatto meglio a inventarsi qualche scusa che potesse giustificare Yumeko, ma il telefono era già all’orecchio e squillava libero da qualche secondo.

– Moshi moshi?

Akio si irrigidì e non rispose. Anche se in testa aveva avuto parole molto semplici: ‘ciao, Shuzo. Ti ho chiamato per farti gli auguri di compleanno’, dalla gola non uscì nulla, nessun suono, nemmeno quello del fiato. Dall’altra parte, invece, rumori di fondo che si accavallavano, risate, tintinnare di stoviglie e chi richiamava a gran voce: ‘lo scarabocchio festeggiato’.

In tutto quello sentì di non avere alcun diritto di entrare.

– Ohi! Moshi moshi?!

Seppure le parole ci fossero state e fossero state pronte, avevano deciso che non si sarebbero fatte sentire. Akio guardava la scuola, dalle finestre si vedevano le luci accese, e lui non sapeva che ore fossero né se suo figlio avrebbe avuto lezione quel giorno. Non gli avrebbe fatto piacere neppure sapere che lui a volte passava per di là quando tornava dal cimitero.

– E va be’. Se non sei pronto tu, perché dovrei esserlo io? Richiamami quando lo sarai.

Per un attimo, pensò che Shuzo sapesse ci fosse lui all’altro capo e aprì la bocca, ma la telefonata venne chiusa e Akio si trovò ad ascoltare il silenzio. La rassegnazione corse nel sospiro che gli sfuggì, mentre abbassava il braccio e guardava lo schermo del cellulare. Anche quell’occasione di dimostrare che sapeva ancora alzare la testa era sfumata. Con spalle flosce, guardò la scuola KadouEnshu.

«Buon compleanno, ragazzo.»

Poi decise che non avrebbe più percorso quella strada.

 

«E allora, scarabocchio? Porta quel sakè, dobbiamo festeggiare prima che arrivi qualche altro cliente!»

Il vecchio Kenzaburo Abe sollevò il bicchierino vuoto che Mamoru aveva appena servito a tutti i commensali del solito tavolo, quello della Banda Bassotti.

Tobi era appena arrivato e i bambini gli si erano precipitati addosso come missili non appena aveva varcato la soglia del florocafè. Per tutto il pomeriggio, non avevano fatto altro che dare il tormento ai poveri nonni, che però a dispetto della stanchezza – perché mocciosi di nove e sette anni risucchiavano ogni energia come fossero spugne – avevano ancora la forza sufficiente per brindare al compleanno del loro barista preferito.

Mamoru non avrebbe mai saputo dire quanto fosse grato ai nonni per l’affetto con cui avevano avvolto Shuzo quasi fin dal suo arrivo al locale. Prima le sfide, gli scherzi, gli sfottò e poi i buoni consigli, le preoccupazioni e lo schierarsi in prima linea. Una parte di lui era certa che se Shuzo si era legato a quel luogo era anche per merito loro. Quei quattro clienti affezionati che da poco erano divenuti tre; ma l’assenza del vecchio Ikeda era qualcosa cui i tre rimasti sapevano sopperire, anche grazie ai ricordi e alle storie che non si stancavano di raccontare e che facevano credere che il simpatico nonnino più burbero e taciturno di tutti fosse solo assente e presto sarebbe tornato. Senza contare che gironzolava un nuovo vecchietto al locale, e la Banda Bassotti lo aveva già puntato a distanza per reclutarlo nel loro mini-circolo di combinaguai.

«Gli dia tregua, Abe-san. È al telefono.»

«E che starà mai dicendo? Le confessioni? Allora possiamo stare fino a dopodomani, qui!»

Mamoru recuperò le stoviglie da un tavolo che si era appena liberato. Nel locale erano rimasti solo loro, e visto che i nonni a breve avrebbero iniziato a ritirarsi pigramente verso casa, sembrava essere il momento migliore per strappare un piccolo brindisi in compagnia. A cena, invece, i Matsuda sarebbero rimasti al gran completo per festeggiare con tanto di torta.

Nel tornare verso il bancone, vide che Shuzo era al cellulare. Gli occhi scrutavano il vuoto come avesse avuto un interlocutore reale davanti, ma non appariva seccato.

«Ohi! Moshi moshi?!»

I soliti call center che chiamano a vuoto, si trovò a pensare Mamoru, mentre riponeva le stoviglie nella lavapiatti. Ma la coda dell’occhio si posò sul compagno e su quel modo ironico e paziente che aveva sempre avuto di trattare venditori, giornalisti e quant’altro. Tanto che tutte le telefonate noiose se le faceva passare di proposito, per il solo gusto di prenderli per il culo.

«E va be’. Se non sei pronto tu, perché dovrei esserlo io? Richiamami quando lo sarai.» La telefonata venne chiusa, ma Shuzo rimase con il cellulare tra le mani a guardare il display.

Il giorno del suo compleanno gli faceva sempre quell’effetto un po’ estraniante e poco festoso, in cui perdersi spesso nei propri pensieri o starsene proprio da soli a pensare, magari ricordare, e cercare di fare pace con ciò che era rimasto, ovverosia sé stesso: la perfetta metà del tutto che erano stati lui e Yuzo.

Con l’arrivo dei bambini, però, il suo ruolo di ‘zio’ aveva un po’ cambiato le carte in tavola, facendolo scendere a patti con precisi compromessi. Uno era quello di festeggiare il compleanno; i bambini ci tenevano tanto a fare gli auguri al loro zietto, un po’ come capitava anche a lui. Ma mentre Mamoru non aveva problemi a far baldoria, anzi, bastava solo dargli il via, per Shuzo sapeva fosse molto più difficile lasciarsi andare.

Eppure, nello sguardo concentrato e meditativo che ancora teneva fisso sullo schermo del cellulare, Mamoru era convinto ci fosse altro. Qualcosa che esulava da quel giorno in particolare.

«Aspetti che ti richiami? Tranquillo che quando si tratta di vendere qualcosa non fanno passare neppure mezza giornata senza farsi di nuovo vivi.»

Mamoru si appoggiò con il fianco al bancone, e le braccia conserte. Shuzo si riscosse e gli sorrise, dopo un attimo di perplessità.

«No, non mi aspetto che richiami. Chissà chi diavolo era, non rispondeva nessuno. Magari avranno sbagliato.»

«Mi sembri troppo pensieroso per una telefonata muta.»

«Pensieroso? No, non mi pare.» Shuzo agitò una mano ed eclissò il cellulare nel taschino del grembiule. «Deve essere tutta la faccenda del compleanno. Sai che non sono mai in vena di festeggiamenti.»

«Non provarci a minimizzare, ti osservo già da qualche giorno. Sei un po’ strano. A cosa pensi?»

Malerba passò le dita nella rasatura dietro la nuca, aprì la bocca ma qualsiasi cosa stesse per dire scelse di tenerla per sé. Alla fine, quelle labbra presero la piega storta di uno dei suoi soliti sorrisi.

«Devi smetterla di accorgerti delle cose che non dico.»

«E tu dovresti dirle e basta prima che mi accorga che mi le stai tenendo nascoste.»

Il sorriso finì verso il basso. Shuzo sollevò la spalla sinistra per abbozzare. «Magari dovrei, sì.»

«Puoi farlo adesso o devo chiedertelo ancora?»

Shuzo annuì e nel sollevare di nuovo il viso respirò a fondo. «Credo che Akio non stia bene.»

Mamoru sciolse l’incrocio delle braccia e si allontanò dal ripiano. «Che dici? Ma ne sei sicuro?»

«Più o meno. È una mia impressione.»

«Spiegati.»

«Ricordi la cena con i colleghi? Ho incontrato mamma al ristorante, quella sera. Era a cena anche lei con Akio.»

«Yumeko ti ha detto qualcosa?»

«Mamma ha detto che è solo stress, ma mentre io e lei stavamo parlando, ho visto Akio rovesciare del vino e quasi mandare all’aria un cameriere, contemporaneamente.»

Mamoru aggrottò le sopracciglia. «…tutto qui? Non riesco a trovare il nesso con il fatto che non stia bene.»

«Akio non è mai stato sbadato, non faceva mai un movimento fuori posto, aveva sempre il controllo di tutto ciò che aveva attorno, persone comprese. A volte sembrava avesse anche gli occhi dietro la testa. Non faceva cadere le cose, non ribaltava persone. Lì invece sembrava essere da tutt’altra parte. Fissava un punto e pareva non ascoltare neppure mia madre mentre parlava. L’ho osservato per poco, è vero, ma mi è stato sufficiente.»

«E non pensi che sia davvero solo stress come ha detto Yumeko?»

«Stress da lavoro? Akio? Figurati.» Shuzo scrollò il capo, dalle labbra gli uscì un verso di puro sarcasmo. «Ha sempre vissuto per il lavoro, non c’era cosa più importante, la prima tra le priorità. Non avrebbe mai potuto uscirne stressato.»

«Pensi che tua madre ti stia nascondendo qualcosa?»

«Mah, non lo so.»

«Dovresti parlarle e chiedere.»

Shuzo si irrigidì d’un tratto, la bocca storta in maniera artificiosa, come se avesse voluto rimarcare sull’ironia. «E perché dovrei? Chi se ne frega di Akio. Lo dicevo più per la mamma, invece. Se quell’altro dovesse davvero avere qualcosa, allora sarebbe un problema e per lei sarebbe anche un duro colpo. Accidenti, una cosa doveva fare!» sbuffò al soffitto. «Che inutile essere umano.»

Senza dargli modo di ribattere e senza guardarlo negli occhi mentre lo diceva, Shuzo si allontanò dalla zona dalla cassa e raggiunse il ripiano dei liquori. Dal secondo scaffale prese una bottiglia di sakè ginjo-shu già aperto.

«Va bene, chi vuole annaffiarsi la gola?» domandò Malerba e dal tavolo della Banda Bassotti si levò un’entusiasta coro di assensi.

«Era ora che ti ricordassi di noi, qui! Andiamo che dobbiamo cantarti la canzone!»

«Per carità, no! O finisce che fai scappare i clienti ancor prima che entrino!»

Sempre dietro al bancone, Mamoru osservò Shuzo unirsi al gruppetto e iniziare a servire sakè per tutti tra risate vere e faziose, mentre i bambini gli giravano attorno e pregavano per poter cantare la canzoncina altrimenti non sarebbe stato un vero compleanno, a detta del piccolo Yuzo.

Con la sua solita spavalderia e quella vagonata di arrogante strafottenza, credeva forse che avrebbe potuto seppellire la verità? Soprattutto, credeva che avrebbe potuto seppellirla ai suoi occhi?

Era uno sciocco, a dispetto dei trentasette anni che battevano cassa. Shuzo lo restava in tutte quelle volte che fingeva di non sapere quanto lui fosse in grado di andare a fondo di certi comportamenti ed evitare quelli di facciata, che gli servivano per aggirare ostacoli, ma soprattutto domande. E ce n’era una che Malerba ancora si portava dietro e a cui non voleva rispondere. Una domanda che aveva il suo interrogativo in un pugno in faccia dato fuori da quel bar e in un senso di colpa che seguitava a farlo vergognare di sé, qualche volta. Perché potevano essere passati gli anni, le condanne a morte e le cene con i rispettivi genitori, ma in certi peccati ci si inciampava di continuo, soprattutto quando non si guardava dove si mettevano i piedi o si pretendeva che bastasse l’indifferenza per scansarli.

E Shuzo non voleva ammettere di essere preoccupato per quell’uomo che da troppo tempo non sapeva più chiamare ‘papà’.

 

«Sono quasi vicino casa. Ho incontrato dei conoscenti e ho perso un po’ di tempo. Metti pure a fare del tè; io sto portando qualcosa da spizzicare.»

Akio abbassò gli occhi sulla busta che aveva con sé. Dopo aver cambiato strada e aver scelto di allungare, passando per la parallela dell’isolato successivo, si era trovato nei pressi di una piccola pasticceria che non conosceva. L’odore del melonpan, però, gli era sembrato ottimo, così ne aveva presi un paio, assieme a dei dorayaki alla crema di azuki. Non sapeva perché avesse pensato che tornare a casa con dei dolci avesse potuto distrarre Yumeko dal fare domande, ma sperò che funzionasse.

Il sole stava calando in fretta e anche se aveva scoperto che le cinque erano passate solo da una mezz’ora faceva già freddo come fosse sera. C’era sempre quel vento che si infilava nel collo e ghiacciava la testa che non aveva coperto. Yumeko lo rimproverava, dicendogli che alla sua età avrebbe dovuto iniziare a portare più spesso dei cappelli.

Alla sua età, alla sua età.

Tutti lo trattavano come fosse già un vecchio decrepito ed era fastidioso. Rimarcavano il fatto che perdesse colpi più di prima e faticasse nello stare dietro a tutta la mole di lavoro che non diminuiva. Perché il lavoro non invecchiava per niente, per fortuna. Ad ogni modo, il mese che Kurogane gli aveva dato prima di tornare a farsi vedere nel suo studio stava passando e lui non aveva ancora trovato un hobby che potesse aiutare a rilassarlo e a farlo staccare dal lavoro almeno quando si trovava a casa. Ci aveva pensato, si era guardato attorno vagando tra le stanze e anche in giro per la città. Nulla di ciò che gli era passato sotto gli occhi era riuscito ad attirare la sua attenzione o quantomeno a incuriosirlo. Che fosse stato uno sport alla televisione o un oggetto qualsiasi o tantomeno un ricordo della propria infanzia. Akio aveva fatto una radiografia al proprio passato, solo per scoprire di non aver avuto alcun vero interesse. I suoi giochi di bambino non erano stati altro che quelli, un passatempo dimenticabile con l’età che aveva alimentato l’ambizione a essere il migliore, ad andare avanti, a essere forte e stare sempre a testa alta. Giocare con dei soldatini, cacciare lucertole con Ryuusei, collezionare dischi tutte passioni nate già morte o comunque destinate alla vita effimera delle farfalle. Nel suo presente così come nell’immediato passato, che era quello post-laurea, c’erano stati solo traguardi da raggiungere, uno dietro l’altro: lavoro, casa, famiglia. E poi di nuovo lavoro e poi figli e infine, aveva messo in conto, nipoti. Ma il nastro si era inceppato ai figli e non era più andato avanti.

Si era anche fermato a parlare con i dipendenti o durante le riunioni di affari, magari quando si era tutti a pranzo; era stato attento alle conversazioni altrui per tentare di captare qualcosa di interessante. Aveva scoperto che molti si dedicavano almeno a una passione al di fuori dell’azienda.

Cucina, auto, sport, palestra, pesca, shopping. E chi aveva figli piccoli o comunque in età scolare il loro passatempo era fare qualcosa insieme. Lui con Yuzo e Shuzo non aveva mai fatto nulla né aveva tentato di spendere tempo con loro cercando, magari, di costruire un rapporto più stretto. Aveva lasciato entrambi liberi di fare da soli ciò che più preferivano, mentre lui era troppo assorbito dal lavoro. E poi, una volta che avevano trovato qualcosa cui appassionarsi, li aveva lasciati proseguire sulle loro gambe, raccomandandosi di non mollare alle prime difficoltà e di tenere sempre la testa alta.

O, meglio, lo aveva fatto con Yuzo e la sua passione per il calcio, mentre con Shuzo era scattato una specie di puntiglio che gli aveva fatto dire ‘no’.

No, quest’hobby non va bene.

No, devi smetterla di star dietro alle piante.

No, trovati altro da fare.

Convinto che in quell’interesse non ci fosse nulla di adatto a un Morisaki.

Ma cosa c’era che davvero non andava nelle piante? Perché aveva detto ‘no’ per partito preso?

Pensandoci a distanza di tempo, in cui aveva capito l’entità dei propri errori, Akio se l’era domandato a lungo, senza trovare una risposta che lo soddisfacesse o che, quantomeno, non lo facesse passare solo per un egoista. Non voleva accettare d’esser stato solo quello, voleva trovare un perché reale, visto che doveva averlo dimenticato da qualche parte negli anni di piombo dei riformatori.

Le piante… le piante…

Perché aveva detto no?

E perché suo figlio ci si era intestardito tanto?

Per lui che non aveva mai avuto passioni risultava difficile comprendere la scintilla che scattava dentro; appariva sciocca, tempo sprecato. Eppure, se era Yuzo a sprecare il suo tempo dietro a un pallone non era un problema. Se era Yuzo a curare la serra, a studiare botanica, a portare una nuova pianta a ogni rientro da Shimizu-ku non era un problema.

Se era Shuzo, invece, diveniva una questione di stato, una lotta intestina. Diveniva guerra, sangue, grida, rifiuti. Diveniva paragoni.

Non si paragonano mai i figli, ma Akio lo aveva fatto mille volte e aveva lasciato che lo facessero gli altri.

Perché?

Perché le piante?

Tutte le volte che se lo domandava rivedeva il melograno nel giardino anteriore di casa. Quello solitario, dai fiori vermigli e resistente a tutto che Yuzo e Shuzo avevano piantato insieme. Quello dalle foglie smeraldo, che cresceva selvaggio e lo sfidava ogni anno divenendo più bello, più grande, con fiori così accesi che era impossibile non ammirare.

Un albero come quello che, dall’altra parte della strada che stava attraversando, dominava il cortile di un basso fabbricato.

Akio si fermò all’esterno del cancelletto che delimitava la proprietà e rimase a guardarlo. Lo aveva riconosciuto subito, anche se al momento le foglie non erano che gemme e i primi fiori avrebbero fatto capolino solo da giugno. I rami cadenti erano stati potati in maniera precisa e ordinata. Conferivano alla pianta una forma tondeggiante che, una volta riempita di foglie verdi, sarebbe stata bellissima da osservare. Anche il suo aspettava l’arrivo del giardiniere, che aveva rimandato di una settimana a causa del maltempo. Quello, invece, era perfetto; Punica granatum, uno dei pochi nomi scientifici che ricordava. Un arbusto allargato con tanti rami che nascevano quasi dalla stessa base e si infoltivano verso l’alto. Doveva essere sui tre metri, tre metri e mezzo; più del normale. Chi se ne prendeva cura doveva essere bravo e attento, magari alimentato dalla stessa passione che muoveva le mani di Shuzo quando aveva a che fare con le sue piante al Mori no Kokoro, alla serra, alla scuola di ikebana o al frutteto. Una passione inesauribile, che bruciava come un fuoco. Ma gli incendi avrebbero dovuto distruggere le foreste, invece che volerle curare a tutti i costi.

«Non mi dica che l’ho potato storto, la prego. Con questo vento è stata una faticaccia già così.»

Da dietro l’arbusto, un signore venne avanti, intabarrato in un giaccone pesante, sciarpa e cappello. Aveva delle lunghe cesoie da usare a due mani, e galosce alte fino a sotto al ginocchio. Vi aveva infilato dentro dei jeans scambiati, piuttosto vecchi. Si avvicinò al cancello, togliendo un guanto da giardinaggio per sfilare gli occhiali protettivi e potersi grattare un occhio.

«Ah! Non ne potevo più, mi prudeva da morire!»

Una cinquantina d’anni, a occhio e croce, e quei venti centimetri in meno rispetto a lui. Appoggiò il gomito alla sommità della cancellata che correva lungo tutto il perimetro e nasceva da un muretto molto basso, e si mise a guardare il risultato assieme a lui.

«Non mi sembra così male.»

«No, no. Anzi. È un bel lavoro, simmetrico. Verso giugno le darà delle belle soddisfazioni. Anche io ho un melograno in giardino.»

«Sono bellissimi, non trova?»

Lo aveva odiato come poche cose al mondo. «Molto.»

«Ha qualche buon consiglio da darmi sulla potatura? Spero di non averlo sfoltito troppo.»

«No, ecco… non me ne occupo io. Ci pensa il giardiniere. Io sono negato con le piante.»

«Ci ha mai provato?» sorrise lo sconosciuto. «Quante ne ha uccise?»

«Veramente, non ci ho mai provato.»

«E allora perché dice che è negato?»

Perché le aveva rifiutate con tutte le sue forze, perché aveva impedito a suo figlio di dedicarcisi, perché non gli era mai interessato. Con simili premesse, non avrebbe potuto essere bravo.

«Intuizione.» Akio fece spallucce.

«Anche io lo dicevo. Ed era vero: ero pessimo! Non so quante ne ho fatte morire, poverine, prima di rinunciarci.»

«Credevo fosse un giardiniere. Mi sembra che l’abbia potato davvero bene.»

«Quello l’ho imparato», sorrise ancora lo sconosciuto. Tirò su gli occhiali con l’indice. «A volte si deve fare di necessità virtù. Le piante sono un buon banco di prova per capire la nostra umanità: accettano i nostri errori, non si lamentano e quando le facciamo morire non ci sentiamo così in colpa, ma siamo pronti a ricominciare ancora.»

«Come un test di resistenza.»

«Più o meno, sì. Mettono alla prova la nostra volontà senza farci soffrire troppo quando falliamo.»

Ad Akio sfuggì un sorriso involontario. «Mio figlio non sarebbe tanto d’accordo», disse senza pensarci, per quanto non fosse una persona che parlava della propria famiglia con gli sconosciuti come invece faceva Yumeko. I Morisaki erano sempre stati abituati a condividere i successi, perché servivano a elevare il prestigio del nome che portavano, ma il resto andava gestito con parsimonia o tenuto chiuso nelle mura domestiche.

Quando si accorse della curiosità sul volto dell’uomo sentì di non poter evitare una giustificazione.

«Lui se ne occupa. È…» un ikebanista «…un vivaista. Ha delle serre, un frutteto…»

«Oh, che meraviglia! Ho sempre ammirato chi è in grado di far sopravvivere delle piante tanto a lungo. Come detto, io non sono capace neppure con un cactus che sono notoriamente a prova di negato.»

«Perdoni la domanda: come ha imparato a potare? Un errore finirebbe con l’uccidere una pianta. Così mi hanno detto, almeno.»

«Vero.» L’uomo annuì con calma, il viso rivolto al melograno e il capo leggermente inclinato. Sembrava guardare il proprio lavoro alla ricerca di errori. «Ma è con caducità della vita che ho più affinità, per questo ho imparato dove mettere le mani quando devo tagliare un ramo. È il mio lavoro.» Lo sconosciuto rise, si portò una mano dietro la nuca e poi si girò verso di lui. «Detto così suona davvero inquietante, ma giuro che non lo è! Insegno ikebana, e questi rami appena potati, be’, saranno ottimo materiale per la prossima lezione.» Sorrise ancora, avvolto in un’aria allegra e rassicurante.

«Ikebana?» Akio sgranò gli occhi. Spostò lo sguardo verso l’edificio che era un fabbricato a due piani, distribuito su una pianta rettangolare e regolare, diversa dalla KadouEnshu. Si accorse del cartello vicino al portone d’ingresso, tutto a vetri, ma era troppo lontano per riuscire a leggere. «Questa è una…»

«Scuola, sì. Siamo la sede di Nankatsu della Scuola Sogetsu.»

Aveva scansato la KadouEnshu, scoraggiato all’idea di incorrere nelle ire di suo figlio, per finire tra le braccia di un’altra scuola, così, senza neppure saperlo.

«Ne esistono diverse di-»

«Sì, lo so.» Akio tagliò la spiegazione in maniera decisa. Sentiva la bocca secca e pensava che quelle dannate piante fossero riuscite di nuovo a insinuarsi nei suoi percorsi quando non faceva che evitarle o scacciarle in ogni modo. Alla fine, erano gramigne come Shuzo, erano malerbe. Forse era per questo che suo figlio le amava tanto; nobili o meno erano tutte erbacce che una volta attecchite non andavano più via.

Guardò l’uomo negli occhi e questi lo sostenne senza timore, ma con una strana curiosità. Lo fece sentire in difetto anche se non aveva fatto nulla.

«Le interesserebbe qualche informazione?» si sentì proporre, d’un tratto con un nuovo sorriso.

Quello sconosciuto era così serafico, nonostante la sua palese scortesia.

«No. No, io-»

«Qui non si tratta di far sopravvivere delle piante, quanto di illudere che possano essere eterne anche se sono già morte.»

Morivano nel momento esatto in cui venivano recise, dopo non sarebbe rimasto che vederle seccare. Morivano e lasciavano dietro un’eternità cristallizzata in un solo minuscolo attimo. Morte, vita; nel mezzo, l’illusione.

Cosa ci trovava suo figlio in tutto quello?

Cosa?

E perché lui aveva detto no?

Perché?

Perché per quanto cercasse di liberarsene le piante non facevano che circondarlo da ogni lato e chiudere il suo spazio, invadendolo senza chiedergli il permesso?

«Non credo che possano-»

«Perché non entra a dare un’occhiata?»

«Veramente stavo andando a casa. Mia moglie-»

«Allora aspetti un attimo. Le vado a prendere una nostra brochure, così può darci un’occhiata. Non scappi, eh! Ci metterò un minuto.»

Senza neppure dargli modo di replicare, lo sconosciuto maestro si allontanò in fretta. Attraversò il cortile e rientrò nell’edificio.

Akio fissò la porta chiudersi alle sue spalle, spostò lo sguardo sui rami tagliati che solo ora si accorse essere stati messi da parte in maniera ordinata e poi fissò il melograno spoglio che aspettava di rinascere.

Lo fissò e si sentì mettere di nuovo alla gogna da quel vermiglio che non era ancora fiorito.

Strinse con forza il manico della busta della pasticceria e poi si allontanò in fretta senza aspettare nessuno.

 

Era scappato.

Ecco cosa aveva fatto.

Era proprio scappato. Aveva preso su l’ammasso sciocco delle proprie membra ed era fuggito a gambe levate, come il peggiore dei codardi.

Akio ne era consapevole e con quel passo marziale e una mano affondata nel cappotto fin quasi a bucarlo era arrivato nei pressi di casa, aveva aperto il cancello e se l’era sbattuto alle spalle come faceva suo figlio quando fuggiva dalle loro discussioni, spaccando i vetri delle porte e lasciando a loro i cocci dell’ennesima relazione in frantumi.

La sua vita era in una fase di regressione improvvisa, quando aveva invece creduto di aver compiuto passi in avanti, di essere diventato troppo vecchio per le discussioni e di aver afferrato uno spiraglio di possibilità con Shuzo. Ora si trovava a fare il gambero: uno avanti, tre all’indietro e la frustrazione per le proprie improvvise incapacità – che chissà dov’erano state, fino a quel momento, dove si erano raccolte per arrivare tutte insieme – innescava un effetto domino che lo rendeva irritabile e silenzioso.

Non era mai stato un gran chiacchierone di suo, ma nell’ultimo periodo era come se le parole si fossero prosciugate come nel letto d’un fiume.

Ed era scappato.

Da un mondo che aveva rifiutato nel passato e che nel presente non voleva comunque lasciarlo andare, tutt’altro: cercava di avvicinarsi e di fare ciò che la prima volta non gli era riuscito.

Akio era scappato, e considerando che non l’aveva mai fatto nella vita gli risultava tutto così nuovo e angosciante da lasciarlo intontito. Eppure, solo ora stava capendo anche quanto conforto ci fosse nel voltare le spalle e andarsene, dimenticarsi delle conseguenze, lasciarle agli altri. Capiva perché Shuzo avesse scelto ogni volta di allontanarsi: la fuga era rifugio, non importava dove si andasse a finire, mentre restare era paura che agguantava le gambe e le rendeva di piombo.

E lui, che non aveva più la forza di fronteggiare i propri ostacoli né la sicurezza di uscirne vincitore, aveva scelto di disobbedire sfacciatamente anche all’ultimo dei precetti base della sua famiglia.

Chinare la testa era stato il primo, rassegnarsi era stato il secondo, mostrarsi debole il terzo, e ora… ora anche tornare indietro e fuggire.

Le regole dei Morisaki erano state abbattute tutte, una dopo l’altra, in un arco temporale di soli nove anni, quando li aveva portati avanti per una vita intera con orgoglio. Ma l’orgoglio era per gli sciocchi e per i testardi; era per quei nonni che non si vergognavano di dire in faccia ai propri figli quale nipote sarebbe stato meglio che fosse morto. L’orgoglio, alla sua famiglia, l’aveva messa in ginocchio e aveva sollevato la scure, e nonostante sua madre dicesse che tutte queste privazioni li avevano però resi in grado di sopravvivere all’interno di quella stessa famiglia, lui sentiva che non c’era equità nel sacrificio e ciò che aveva perso fosse più di ciò che aveva guadagnato. Le radici con cui si teneva stretto alla terra iniziavano a mollare la presa, a essere fragili e a seccarsi. Poco alla volta.

Akio avanzò di qualche passo e il melograno ancora da potare lo guardava con la sua pioggia di rami cresciuti selvaggiamente e appesantiti tanto da piegarsi e quasi arrivare a terra. Si volse e tirò dritto fino a casa, fingendo che non fosse lì, fingendo che non stesse scappando anche da quell’arbusto ancora una volta, dopo averlo ignorato per anni in passato solo perché non aveva il coraggio di affrontarlo e affrontare i propri errori e suo figlio.

In casa lo accolse il calore e un odore familiare che sapeva di cucina, ma soprattutto di Yumeko. Anche il profumo di sua moglie aveva note floreali che non avrebbe saputo identificare, ma che invece di allontanarlo lo facevano sentire protetto, in un ambiente sicuro.

«Tadaima…» sospirò liberandosi il petto dal peso dell’aria.

Tolse le scarpe, riponendole nella scarpiera e poi si liberò del cappotto e della sciarpa. Con calma ciabattò fino in cucina dove sapeva avrebbe trovato Yumeko ed infatti era lì, seduta alla penisola a leggere notizie al cellulare.

«Non ho sentito la porta.» Il sorriso di sua moglie arrivò a illuminarle gli occhi nocciola in cui rivedeva tanto dei suoi figli, soprattutto di Yuzo. Era sempre stato lo specchio di sua madre nella gentilezza e nell’educazione, ma soprattutto nei sorrisi e in quegli occhi che erano accoglienti come un nido. «Okaeri. Ci hai messo più del solito, il tè è già pronto, lo riscaldo un po’.»

«Sì, te l’ho detto. Ho incontrato persone con cui ho fatto affari in passato e ho perso un po’ di tempo. Ti ho portato qualcosa, però. Ho scoperto una pasticceria che non conoscevo.»

Akio appoggiò la busta sulla penisola e ne tirò fuori un sacchetto di carta oleata dalla sommità accartocciata e una scatola impacchettata con cura in un involucro marrone e dorato.

«Ma è profumo di melonpan quello che sento?» Yumeko accorse a prendere il sacchetto e lo aprì per sbirciare, mentre lui scoperchiava la scatola mettendo in mostra dei dorayaki dalla doratura perfetta. «Oh, sono bellissimi.»

«Spero siano anche buoni.»

Akio lasciò tutto nelle mani di sua moglie e si allontanò di qualche passo.

«La tomba di Yuzo era in ordine? Stamattina che ci sono passata l’ho pulita da cima a fondo.»

«Era perfetta, non ti preoccupare. Shuzo ha lasciato dei bellissimi fiori, come ogni anno.»

«A proposito, gli ho fatto gli auguri da parte tua. Prima l’ho chiamato. Al locale avevano messo su una piccola festicciola.»

«Saresti potuta andare.»

«Nah.» Yumeko sollevò le spalle. «Shuzo preferirebbe che il compleanno passasse più in sordina, gli ricorda troppo Yuzo e lo intristisce. Sono i vecchietti che non gli danno tregua, e i bambini. Allora preferisco fargli una telefonata; lo andrò a trovare domani, magari.»

«D’accordo.»

Yumeko si fermò dal disporre i dolci su un unico piatto più piccolo.

«Quando sarai tu a chiamarlo? Il numero te l’ho dato, potresti farlo.»

Lui avanzò per la stanza arrivando fino al vetro del terrazzo, solo per darle le spalle. «Si arrabbierebbe, ne abbiamo già parlato.»

«E quindi non lo chiamerai mai? Se lui non lo fa, allora devi essere tu quello che prova a infrangere le barriere. Oppure ti sei già arreso?»

«Magari il prossimo anno.»

«Lo dici ogni volta… Aspettami in sala da pranzo, porterò lì tè e dolci.»

Akio non cercò di smentirla né di controbattere, ma le lasciò l’ultima parola raggiungendo la sala dove ormai neppure pranzavano più: non aveva senso apparecchiare quella lunga tavolata quando erano da soli e allora sceglievano l’intimità della cucina, con il tavolo allungabile per otto persone, ma che loro tenevano chiuso per quattro ed era più che sufficiente.

Un po’ alla volta la loro vita si stava restringendo a poche cose ordinarie e necessarie. Il superfluo tagliato via in modo da rendere ciò che rimaneva l’essenziale per la sopravvivenza e restare uniti, un po’ di più. Ma non era solo quella vicinanza fisica che avrebbe potuto rinsaldare il loro rapporto; sarebbero dovuti entrare in gioco i sentimenti, avvicinare quei cuori che avevano imparato a battere da soli. Akio pensava di non esserne più in grado, proprio come con suo figlio, e avrebbe dovuto accontentarsi di ciò che era rimasto, rallegrandosene addirittura perché qualcun’altra al posto di Yumeko lo avrebbe lasciato da tempo al proprio destino.

Ed ecco che tornava a piangersi addosso come i salici.

Buttò fuori l’aria e si stropicciò la faccia con entrambe le mani, passandosi i palmi sugli occhi e sulle guance mentre avanzava per la stanza. Accese la luce, anche se c’erano ancora un po’ di bagliori dall’esterno che permettevano di distinguere il giardino posteriore. Raggiunse la portafinestra e scansò la tenda per poterlo osservare. Anche lì, il prato era stato un po’ lasciato a sé stesso e aspettava con pazienza il solito giardiniere.

Distante, ma non tanto isolata, la serra spiccava fredda con i suoi vetri smerigliati e la porta chiusa. Silenziosa, che più che sembrare abbandonata pareva in attesa.

Chissà di chi, chissà di cosa.

Akio la guardava con insistenza, e anche quando spostava gli occhi sul resto del giardino finiva col tornare lì e sostarvi più che altrove.

Quando vi era entrato anni fa che era già vuota e suo figlio già morto, aveva sentito tutta la malinconia del passato e l’unione con cui i suoi ragazzi se n’erano presi cura. E poi le piante. Sempre loro, sempre. Ovunque. Quella volta si era stupito di ricordarle così bene e di non temerle, mentre ora non sapeva fare altro.

Fece scorrere la portafinestra e si lasciò investire dal freddo di marzo senza mettere nulla addosso, ma rimanendo sulla soglia a guardare l’emblema del suo strano nemico. Infine, uscì e gli occhi non vedevano che la serra farsi vicina poco alla volta.

Akio accese una sigaretta e il fumo venne mangiato dal vento in un attimo. Aveva rinunciato a tantissime cose a causa dello stress e dell’esaurimento, ma non a quel piccolo vizio, come il capriccio di un bambino. E dopotutto non si stava comportando da ragazzino con il mondo intero?

Scappava dalle persone, scappava dalle responsabilità paterne, scappava dai sensi di colpa e scappava da quel nemico decretato tale per partito preso e non per una reale motivazione.

Perché, perché, perché aveva impedito a suo figlio di dedicarsi alle piante da bambino?

Se lo chiese per la milionesima volta mentre afferrava la maniglia della serra. Dentro, per quanto non spirasse un alito, sembrava fare ancora più freddo e tutto era sempre come era stato lasciato da quando Yumeko aveva ceduto le piante di Yuzo a Mamoru.

Anche se l’aveva osteggiato, ricordava quanto bello fosse stato quel posto quando i suoi figli se ne prendevano cura.

Perché Yuzo sì e Shuzo no?

Ricordava di averle odiate, ma di non averne avuto paura.

Ricordava quali nomi lunghissimi e strani Shuzo sapesse ripetere e associare alla pianta giusta.

Ricordava che lui non sarebbe mai stato in grado di impararli e che erano troppo lontani dai suoi interessi e dalle sue ambizioni. Apparivano come una perdita di tempo, un hobby e nient’altro. E per Yuzo era lo stesso, lui aveva la testa nel pallone e una strada ben definita; la botanica era un interesse scientifico per suo figlio. Quel figlio che assomigliava a Yumeko.

Ma per Shuzo erano quella passione che Yuzo invece aveva messo nel calcio, non erano un semplice hobby: erano tutto. Quelle piante erano il futuro che aveva già scelto fin da bambino.

L’altro figlio.

Quello che non assomigliava a lui. Che, anzi, sembrava dovesse crescere come quanto di più distante avrebbe potuto esserci da Akio Morisaki. Un ragazzo sognatore, un po’ timido, per nulla ambizioso, che imparava i nomi in latino con facilità e che preferiva stare ore a guardare l’albero secolare nel giardino della minka di famiglia piuttosto che chiedergli qualcosa del suo lavoro, dire di voler diventare come lui da grande. Dire di volergli assomigliare.

Perché Yuzo sì e Shuzo no?

Ecco perché.

Perché le piante erano diventate un nemico?

Ecco perché.

Akio alzò il viso al soffitto vetrato della serra ed espirò l’ennesima boccata che gli oppresse i polmoni già affaticati, e poi lo crollò nella mano, scuotendo il capo.

Aveva desiderato così tanto che Shuzo somigliasse a lui da aver preferito fargli terra bruciata attorno, piuttosto che lasciarlo libero di essere la persona che voleva. E così, alla fine, in qualche modo si erano davvero assomigliati: nel rancore erano uguali.

Ma Shuzo da quelle piante aveva imparato comunque, aveva appreso come restare in piedi e vivo, come resistere ai suoi attacchi e a quelli del mondo che aveva attorno. Da quelle piante aveva imparato come avere radici profonde e forti, che alla terra ci si aggrappavano in mille raggiere e non l’avrebbero lasciata per alcun motivo, soprattutto, non per volontà degli altri. Non per volontà di suo padre.

Il pugno colpì il ripiano di pietra con un rumore attutito e senza alcuna vibrazione, ma con un dolore che si diramò fino a metà avambraccio.

Non aveva simili scatti di rabbia da molto tempo e Akio la sentì scuoterlo tutto. Rigurgito del vecchio sé stesso che però non si riversava contro gli altri. La persona con cui prendersela era la stessa che si faceva venire attacchi di panico a causa dei ricordi, era la stessa che scappava da un maestro di ikebana, scappava dalle piante e scappava da suo figlio.

La persona con cui prendersela si chiamava Akio e aveva mandato tutto a puttane, perché il desiderio di potersi rispecchiare in suo figlio era stato così forte da non essersi reso conto che non era importante che i figli fossero uguali ai genitori, ma solo che fossero felici. Allora sì, nella loro felicità avrebbe potuto specchiarci la propria e ritrovarsi.

«Ma sei qui? Sono arrivata in sala da pranzo e ho trovato tutto aperto, ma tu non c’eri.» Yumeko, sulla porta della serra, si stringeva in un grande scialle di lana con le frange che dondolavano in basso. Gli occhi dicevano quello che la bocca non aveva pronunciato nelle sopracciglia aggrottate. «Non ti sei messo nemmeno una giacca prima di uscire, fa freddo. E non dovresti fumare…»

«Tanto non fumo più come prima.» Akio lasciò cadere il mozzicone a terra e lo spense col piede, rendendosi conto solo in quel momento di non essersi neppure cambiato le ciabatte prima di uscire in giardino.

«Non importa se tanto o poco, non dovresti farlo affatto.» Yumeko si avvicinò. «Cosa fai qui? La serra è vuota, non c’è niente da vedere.»

«Sì, lo so.» Ma lui sapeva ancora immaginarla piena.

Avvertì un tocco sfregare lungo il braccio e sua moglie guardarlo ancora con quegli occhi che chiedevano prima delle parole. Da quando aveva iniziato a stare male, Yumeko era diventata apprensiva nei suoi confronti, ma ancora ignorava la faccenda degli attacchi di panico.

«Va tutto bene?»

«Sì. Certo.» Abbozzò la smorfia più simile a un sorriso che riuscì a fare e non aggiunse altro. Non pretese di venire creduto, perché a parti inverse nemmeno lui ci sarebbe cascato in una bugia così pessima, quindi non si stupì nel vedere che Yumeko non distese l’espressione. Ma non si aspettò la stretta in cui la donna lo avvolse. Attorno alla vita, le braccia di Yumeko fecero il giro e lui rimase preso all’interno, immobile; smise anche di respirare.

«Sei sempre stato un pessimo bugiardo. Adesso più di prima. E sei dimagrito, dovresti mangiare meglio e avere più cura di te.»

Nel momento in cui prese fiato, i polmoni gli si riempirono completamente. Dopo tanto sentiva di avere di nuovo tutta l’aria del mondo, ed era una sensazione meravigliosa. Si chiuse su Yumeko che sarebbe sempre stata la piccola margherita della sua giovinezza e le poggiò il viso sui capelli.

«E tu non dovresti preoccuparti. Sai che tempra hanno i Morisaki. È solo un periodo.»

«Che dura da tempo.»

«Passerà…» Rivolse lo sguardo alla serra con una convinzione nuova: l’avrebbe fatto passare. Perché il tempo del capo chinato doveva finire e non perché lo diceva la sua famiglia come dogma, ma perché lo diceva lui: a tenere la testa calata non si faceva che vedere i propri piedi, ma non chi gli stava attorno e se voleva specchiarsi negli occhi di suo figlio allora non avrebbe dovuto fare in modo che Shuzo gli assomigliasse, ma lui avrebbe dovuto cercare in Shuzo quella felicità che il ragazzo era riuscito a trovare.

«Rientriamo, stai prendendo troppo freddo. Non vorrai metterti a letto con l’influenza? Guarda che non hai più quarant’anni.» Yumeko si allontanò dal suo abbraccio, ma gli prese la mano come quando di anni ne avevano avuti venti e per le calli della penisola di Izu, nelle assolate estati della loro vita, giravano in sella a una bici o sulla vecchia motocicletta chiesta in prestito a Ryuusei.

Akio si lasciò trascinare all’uscita. Sulla porta, mentre la richiudeva, lanciò un’ultima occhiata a quella serra che per anni aveva aspettato qualcuno e qualcosa e ora aveva accolto lui e la sua forza malandata.

Se era una sfida o solo l’ultima grande prova della sua vita, aveva appena scelto di affrontarla.

 

“E così mi sveglio al mattino,

ed esco fuori

e prendo un profondo respiro e mi alzo davvero

e grido a squarciagola

‘Cosa sta succedendo?!’”

 

What’s up – 4 Non Blondes

 

 


 

 

Note Finali: …and I say, ehi! Ehi! Ehi! I said: Ehi! What’s going on?! <3

E cosa sta succedendo?

Più di quello che sembra, a ricordarci che anche quando di Marzo piove e fa freddo, e il cielo è sempre grigio, non significa che la primavera non stia arrivando lo stesso. Ha solo il passo delle vecchiette. :3

 

 

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Capitolo 5
*** IV: Le fondamenta nascoste negli occhi smarriti e in quelli severi ***


Roots - Capitolo 4

 

 

 

- IV: Le fondamenta nascoste negli occhi smarriti e in quelli severi -

 

Capitava che una volta al mese Shuzo facesse fare un piccolo test ai suoi allievi. Non importava di quale corso stesse portando avanti la classe, se principianti o avanzato. Li metteva davanti a una prova a sorpresa: diceva loro che tipo di composizione voleva e poi li lasciava lavorare da soli, senza farne prima una di esempio o senza lavorarci contemporaneamente – lui dalla cattedra e gli altri dai banchi. Inoltre, non erano ammesse domande, neppure suggerimenti e non potevano confrontarsi tra loro.

Voleva che fossero soli con loro stessi e vedere cosa fossero in grado di tirare fuori dal caos che ciascun essere vivente si portava dentro. Vedere se fossero in grado e quanto di metterlo in ordine, addomesticarlo, tradurlo in armonia e quanto distante sapesse essere l’Uomo tra la Terra e il Paradiso.

Per la durata della prova, Shuzo se ne restava con le spalle alla cattedra e le braccia conserte, oppure camminava tra i banchi e osservava da vicino i passaggi di quel processo personale di composizione. La lezione durava due ore, quindi avevano tutto il tempo di riflettere, scegliere e scavarsi fin nello stomaco per provare a tirare fuori chi erano… o chi credevano di essere, chi sceglievano, chi dovevano e, a volte, anche chi erano stati. Era in prove come queste che riusciva a capire la differenza tra chi eseguiva la composizione basandosi sulla riproduzione pedissequa delle regole, facendone nient’altro che un hobby rilassante, e chi, invece, ci metteva un pezzo d’anima. Quest’ultimi erano i suoi simili, erano quelli che sarebbero andati avanti e un giorno si sarebbero trovati al suo stesso posto, per insegnare a qualcun altro come ritrovarsi nel proprio buio.

Per quel giorno aveva scelto qualcosa di semplice e a lui più congeniale: Seika moderno, stile So, quello un po’ più rilassato e meno rigido; le composizioni avevano rami aperti, respiravano. Sembravano voler occupare la vita intera e dire: ‘ehi, sono qui! Prendo il mio posto, fatti in là!’. Gli pareva fosse uno stile congeniale per la sua classe serale di principianti. Avevano iniziato da pochi mesi e alle curve parossistiche della tecnica kusabi-dame ci sarebbero arrivati solo tra un bel po’.

Eppure, vedendoli che guardavano spaesati i rami a loro disposizione, si disse che forse sarebbe stato meglio partire con un test di Moribana. Tossicchiò una risata nel dorso delle dita e si sentì un bastardo, ma che gusto c’era a essere un maestro se non si mettevano in difficoltà i propri allievi? Potevano essere solo fiori o rami recisi, ma era anche in queste piccole cose che si imparava a tirare fuori il carattere e a sviluppare l’attitudine per affrontare tutte le altre difficoltà. E lì, di difficoltà, ce n’era anche una sua tutta personale; poteva quindi dire che fossero pari.

Appoggiato alla cattedra, posta su un leggero rialzo, Shuzo era a braccia conserte e caviglie incrociate. Sarebbe rimasto così anche per tutte e due le ore, non era un problema. La pazienza era un’arte che aveva imparato a sviluppare ben prima di conoscere l’ikebana, quest’ultima si era preoccupata di affinarla e disciplinarla, ma i giorni fermi all’angolo di uno dei tanti incroci di Shizuoka, sotto la pioggia così come sotto al sole, ci avevano messo del loro. E ce ne avevano messo anche la sua famiglia, il riformatorio, la galera. La sua vita era stata un continuo lavoro di pazienza, tanto che avrebbe dovuto esser la persona più calma dell’universo e invece c’erano scintille che nemmeno un anno di meditazione continua sarebbe riuscito a spegnere. La sua, Shuzo sapeva essere ancora lì, ma si manteneva bassa, assieme al cannibale, come quei fuochi girati al minimo; e il suo animo sobbolliva poco poco. Eppure, non la sentiva smaniare più come un tempo. Quello trascorso con Mamoru, la sua esistenza che aveva acquisito un andamento regolare, le responsabilità di un locale, delle serre, del frutteto, le responsabilità delle persone che aveva attorno e delle relazioni che aveva costruito avevano fatto tanto per il suo animo disordinato e inquieto. Glielo diceva spesso anche lo strizzacervelli nelle sue visite ormai divenute mensili. A volte pensava che sarebbero bastati ancora un annetto, massimo due e poi avrebbe potuto chiudere anche con quelle, non ne sentiva più la necessità come all’inizio perché ora le redini della vita – la catena del cannibale – erano salde nelle sue mani, se ne sentiva il padrone e non sarebbero più state loro a dominarlo, ma il contrario.

Di questa visione universale, che comprendeva soprattutto sé stesso, aveva iniziato a rendersene conto all’inizio di quell’anno. Quando, cioè, si era trovato una Yamaguchi come allieva. Considerando che gli Yamaguchi di Nankatsu erano tutti imparentati con i Morisaki, la certezza che quella ragazza fosse, chissà, una sua cugina magari?, era stata ovvia fin da quando aveva letto il nome sul foglio delle presenze. L’altra cosa lampante, a giudicare dal modo in cui si era sempre tenuta distante da lui e dal fatto che non gli avesse mai chiesto nulla, era che anche quella ragazza sapeva benissimo chi fosse il suo maestro.

Shuzo la cercò con lo sguardo mentre era intenta a lavorare o almeno a cercare di iniziare: valutava i rami più adatti tra quelli a disposizione, facendo le prove prima di cominciare a fissarli alla base del vaso dal collo lungo e stretto che aveva scelto, con la parte superiore circolare e piatta, larga almeno il doppio della base. Ne prendeva uno che rappresentava il Paradiso e poi ci affiancava quello che sarebbe stato l’Uomo, valutando a che altezza era meglio soffermarlo, facendo qualche calcolo arrangiato e poi sfogliando gli appunti da un quaderno che aveva aperto al suo fianco. Proprio per dar loro più libertà d’azione, Shuzo non aveva imposto una varietà stabilita di elementi, avrebbero potuto utilizzarne tre diversi, tre uguali o alternati. Hisako, perché era così che si chiamava – figlia di una sorella di suo padre? O magari di qualche cugino? Boh, aveva perso il conto della sua famiglia intorno ai tredici anni, nel frattempo potevano pure aver messo in piedi un paio di squadre di calcio – dei Morisaki aveva mantenuto i capelli scuri, ma non i tratti: i suoi erano meno lunghi e importanti, ma più tondi e graziosi, con degli occhi grandi che un po’ richiamavano quelli di sua madre.

Tra le dieci fila di banchi, cinque da un lato e cinque dall’altro di un corridoio centrale, lei si era scelta la quarta da sinistra, posizione esterna. Poggiato alla cattedra, Shuzo riusciva a vederla bene e anche Hisako poteva vedere lui, così entrambi si accorsero di starsi osservando a vicenda: lui con la solita strafottente insistenza e la cuginetta con sollevando solo di tanto in tanto gli occhi e poi abbassandoli subito.

In un’altra occasione, o forse solo tornando indietro di qualche anno, quella situazione l’avrebbe visto ostile senza possibilità di ragionare; non gli sarebbe importato chi avesse avuto davanti: fintanto che fosse stato un Morisaki o uno Yamaguchi sarebbe stato suo nemico; e non uno qualsiasi, ma uno da abbattere, radere al suolo, estirpare dal terreno per metterne in mostra le radici e farle seccare. Ora, invece, guardava quella ragazzina di neppure vent’anni con divertimento e un po’ di imprescindibile diffidenza.

Con una spinta, Shuzo si allontanò dal bordo della cattedra e scese dal rialzo iniziando a camminare lungo la corsia centrale che divideva le fila di banchi. Subito si accorse che Hisako si irrigidì, ma lui non aveva fretta e continuò a camminare, mani nelle tasche dei jeans, prendendosi tutto il tempo per studiare le altre opere con calma prima di arrivare a lei.

I materiali che aveva portato non erano gli stessi per tutti, ma si era arrangiato con quello che aveva trovato in giro. Acacie, salici, albizie e ciliegi. E poi camelie, primule e tulipani come punti floreali.

Ognuno dei suoi allievi, che andavano da ragazzine liceali a signore di mezz’età, era come se si fosse tuffato in sé stesso, alla ricerca di quella radice da cui partire per tirare le fila della propria vita nel lasso di un’ora e mezza, ormai, si rese conto dando una rapida occhiata all’orologio del cellulare sfilato dalla tasca e poi subito riposto. Aveva fatto partire un timer – come gli aveva insegnato il piccolo Yucchan di scarsi nove anni, facendolo vergognare in maniera indicibile una sera a cena – della durata complessiva del test, così poteva anche lui perdersi nel tempo senza temere di non ritrovarsi.

E poi ovviamente c’era chi si era trovato molto tempo prima che arrivasse lui e sapeva esattamente cosa volesse e cosa fare; anche se non aveva quasi nulla a che vedere con le regole di una composizione Seika in stile So, ma erano dettagli che gli fecero ingoiare una risata con sforzo sovrumano. La signora Gyoen era la sua allieva preferita. Il fatto era che sapeva riconoscere gli spiriti affini al suo, e la signora Gyoen era scombinata esattamente come lui, anche se aveva quei vent’anni in più, però quando si piazzava davanti a una composizione partiva subito, già sicura di dove mettere le mani. Aveva una visione tutta sua nella testa di ciò che era l’ikebana e di come approcciarsi che lo faceva ridere e allo stesso tempo gli piaceva: c’era a chi le regole stavano strette come un cappio, ma si facevano violenza per riuscire a rispettarle e chi, invece, era nato per essere libero. Come la signora Gyoen, che ora stava combinando il Paradiso con l’Uomo attraverso i rami ancora grezzi di un’acacia. Le piegature non rispettavano i gradi richiesti da una composizione di quel tipo, e quando vi unì anche la Terra con un ciliegio, alzò lo sguardo su di lui che si era fermato proprio davanti alla sua postazione per osservarla lavorare meglio. Si guardarono, da sopra le acacie, e a entrambi scappava da ridere perché tra loro c’era la cosa più imperfetta del mondo e ne erano consapevoli. Ma ciò che Shuzo trovava ancora più assurdo, però, era che a lui tutta quell’imperfezione piaceva tantissimo, perché diceva della sua allieva molto più di quanto avrebbero potuto fare un perfetto angolo a quarantacinque gradi dell’elemento Soe o l’altezza di un terzo preciso dell’elemento Tai. E più della perfezione, lui voleva che la persona si sentisse realizzata nel proprio ordine.

Alla fine, strozzarono una mezza risata ciascuno e si diedero il gomito.

«Deve sempre fare casino, Gyoen-san.»

«Non voglio mica diventare maestra, tesoro.»

Shuzo passò oltre, il brusio divertito scemò in fretta e tutti tornarono ad affondare tra foglie, legno e fiori.

Camminando accanto a Hisako, vide che a lei erano capitati dei rami di albizia e ciliegio, delle camelie e un ciuffetto ancora in boccio di primule. Notò che tese spalle e schiena nel momento in cui passò al suo fianco; gli occhi si aprirono di più e aveva smesso di ragionare sulla composizione, preoccupata solo dalla sua vicinanza. Era uscita dalla propria solitudine creativa, e visto che lui era un po’ infame due passi dopo si fermò e tornò indietro. Hisako divenne di pietra e con il viso calato in basso come se fosse bloccato e non potesse alzarlo. Prendeva i rami, poi li posava e le mani le tremavano un po’. Alla fine, lasciò tutto sul ripiano e si fermò. Aveva aggrottato le sopracciglia e tutto il suo corpo vibrava di un disagio che non aveva il coraggio di esprimere a parole. In tutta quella tensione, Shuzo si chiese chissà cosa le avevano raccontato di lui per farla sentire tanto in soggezione solo nello stare vicini, in quale modo mostruoso lo avevano dipinto ai suoi occhi. Magari era lo spauracchio preferito dalle zie che ‘se ti comporti male farai la fine di tuo cugino Shuzo!’. A suo modo era divertente credere d’essere stato trasformato nel surrogato di Nightmare; se lo avesse detto a Tasho quest’ultimo ci avrebbe riso per una settimana.

«È che dare sempre addosso all’Uomo Nero era diventato razzista, e allora…»

Sì, gli avrebbe risposto qualcosa del genere e allora gli venne da sorridere.

Rimase lì fermo ancora per un attimo, cogliendo i movimenti di sottecchi che la ragazzina gli lanciava di tanto in tanto.

«Se vi faccio fare questo test,» disse abbassandosi un po’ verso di lei, «è per insegnarvi come dimenticare chi vi sta intorno. Maestro compreso.»

Poi si allontanò per arrivare fino in fondo all’aula e lì rimase, a guardarli lavorare mentre gli davano le spalle e non potevano subire la soggezione dell’insegnante.

Con la schiena al muro e di nuovo le braccia conserte, Shuzo osservò come, dopo un momento ancora in cui era rimasta ferma, Hisako avesse rilassato le spalle pur mantenendo tesa la schiena, e avesse ripreso a lavorare. Nell’esserle così vicino gli era sembrato di rivedere qualcosa di sua cugina Mirel, la figlia di zia Kozue con cui si passava otto anni e che metteva sempre il broncio quando perdeva nei giochi da tavola.

E lui perché si ricordava di quello stupido particolare dopo tanto tempo?

Come se avesse ancora importanza quando l’aveva persa già negli anni delle medie. Dovevano essere quelle dannate radici di famiglia che a volte tornavano a ricordargli della loro esistenza, come vecchie ossa rotte che dolevano col cambiare del tempo.

Da quando le cose con Akio avevano raggiunto una situazione di stallo abbastanza stabile, erano tornate a farsi sentire con più insistenza, facendo riaffiorare memorie credute cancellate. Lo aveva trovato fastidioso e aveva cercato di non dar loro troppa importanza, poi si era trovato Hisako in classe. Ora che ci pensava lo stupiva che non avesse ancora cambiato corso, sapendo che c’era lui come insegnante. Un sorriso amaro accompagnò quel pensiero: dovevano averle già iniziato a inculcare la solita manfrina sui dogmi di famiglia.

Alza la testa, reagisci, sii forte, vai avanti.

Shuzo prese un profondo respiro, lasciò che il tempo scorresse e con lo sguardo si fermò sulle schiene di tutti cercando di carpire dai movimenti cosa stessero facendo. Di sottofondo, rumore di tronchesi, frusciare di foglie e sfregare di rami. Tinnire del metallo e affilare di coltellini. Il legno crepitava mentre veniva piegato, e sembrava essere sempre sul punto di spezzarsi, ma furono tutti bravi e non ci furono schiocchi inaspettati.

Quando mancava ancora poco più di mezz’ora alla fine del test, Shuzo abbandonò il fondo e riprese a camminare tra i banchi. Arrivò volutamente piano alle spalle di Hisako e lei non si accorse del rumore dei suoi passi, perché era presa da ciò che stava facendo. Ed era qualcosa di molto grazioso, pensò Shuzo, nell’osservare il ramo di ciliegio svettare verso il Paradiso. La parte centrale era stata incurvata di più rispetto a quanto fosse all’inizio e lui aveva visto che ci aveva lavorato molto per darle quella forma panciuta che poi saliva dritta. Non era perfettamente centrata, ma erano piccolezze che solo la pratica avrebbe migliorato. Le foglie erano state ben sfoltite, anche se lui ne avrebbe lasciata qualcuna in più, e i rametti secondari seguivano alla perfezione il corpo principale dal tronco spesso. Tra questi, vi era quello che rappresentava l’Uomo, più lungo degli altri, ma non quanto quello del Paradiso. Il colpo d’occhio catturato dalla raggiera che avevano creato e che si apriva come un ventaglio. Nella visione di Hisako, che si mostrava positiva in maniera fanciullesca, erano fatti della stessa sostanza, uno il continuo dell’altro. Dall’altra parte, la Terra aveva la morbidezza del ramo di albizia e le sue foglioline verdi che non riuscivano a sollevarsi allo stesso modo e, anzi, sembravano molto di più vittime della forza di gravità: la natura le costringeva a restare al suolo e a sottostare a leggi definite e definitive. Quello, forse, era meno ingenuo del resto, eppure conservava ancora la freschezza della propria semplicità – o forse era più speranza? – nei tre piccoli fiori rosa e bianchi che puntavano in alto come graziosi piumini ribelli. Infine, al centro, nel tronco, la scelta di usare le camelie in boccio e non quelle fiorite lo sorprese in maniera positiva: l’abbozzo di nascita dava dinamicità alla composizione, dava la sensazione di natura viva, di attesa che quei fiori si aprissero.

Tirò il labbro verso sinistra e avanzò di un altro passo, questa volta con l’intento di palesarsi, però non si limitò a guardare il lavoro restando di lato, ma si piazzò proprio di fronte a Hisako. La ragazzina si irrigidì e tolse le mani dalla composizione nemmeno si trattasse della prova di chissà quale esame.

Shuzo si spostò lungo le varie direttrici del lavoro, ne girò il vaso per guardarlo da davanti, poi osservò dall’alto la disposizione dei rami, infine la girò di nuovo verso sua cugina. Levò lo sguardo su di lei che alzava e abbassava il proprio così in fretta che si chiese come diavolo facesse a non venirle il mal di mare.

«Non male», concluse prima di riprendere a camminare tra i banchi, lasciandola con un’espressione così sorpresa che sarebbe stata da fotografare.

«G-grazie, sensei.» Hisako masticò quelle due parole in un borbottio, poi chinò di nuovo la testa, ma tra le labbra stringeva un sorriso felice che fece sentire anche a lui, dopo molto tempo, di avere ancora delle radici legate a quella famiglia che l’aveva rifiutato. Stavano lì, ben nascoste, anche se aveva creduto di averle abbandonate del tutto per radicarne di nuove e solo con le persone che aveva scelto: sua madre, suo fratello, Tasho e i 3Kitsu, Mamoru, Kumi, la gente di Obuchi. Nel sottosuolo immaginario su cui poggiava i piedi si apriva un mondo reticolare, fatto di diramazioni che erano diventate via via più solide, via via più numerose. Le radici nascevano ogni giorno dalle vecchie, si intrecciavano alle altre e lo tenevano vivo a dispetto di ogni colpo che prendeva e ogni spostamento che subiva. Ora, di quelle altre radici, quelle che aveva sradicato con le proprie mani fino a sanguinare, scopriva che qualcosa era sopravvissuto. Doveva essere partito da sua madre ma, soprattutto, da suo fratello e anche se ormai era morto da tempo, le radici nate da lui erano ancora vive e si stavano facendo forti, più di prima. Le radici che lo tenevano vicino agli Yamaguchi, le radici che lo tenevano vicino ai Morisaki. Sua madre, radice ritrovata che non aveva mai sradicato del tutto, poi zio Tomohisa che lo aveva aiutato nei momenti decisivi e primo a scusarsi per il comportamento della propria famiglia, primo a dirgli che erano loro a dovergli qualcosa. Ora la piccola Hisako, una radice debolissima, appena nata, ma che gli aveva sorriso e nonostante lo temesse restava lì e non se ne andava.

E poi quali altre sarebbero spuntate? A quali avrebbe accettato di legarsi ancora?

La più doppia e vecchia di tutte, quella che non aveva mia strappato fino in fondo, ma solo ferito per vederla morire poco alla volta in agonia era nascosta sotto alle altre che le erano cresciute attorno. Shuzo ne aveva sempre sentito la presenza, ma a dispetto di tutto quello che diceva, non aveva mai preso una decisione nei suoi confronti. L’aveva lasciata nascosta, soffocandola piano piano e faceva male, lo faceva da un tempo che lo aveva visto bambino e faceva male ora che era adulto. All’inizio, il dolore gli era sembrato insopportabile e vi aveva reagito con tutta la forza che aveva avuto, poi si era abituato, ma assuefarsi al dolore era pericoloso, come con le droghe: perché avresti capito che ti stava uccidendo solo quando sarebbe stato troppo tardi.

Shuzo però non riusciva a comprendere a che livello fosse il dolore per quella radice, perché era instabile. Negli ultimi anni sembrava si fosse affievolito tanto, fino a silenziarsi o ridursi a un brusio che non era nulla paragonato al passato. Me negli ultimi giorni il dolore si era svegliato in maniera costante. Eppure, non c’era un motivo, visto che non litigavano da tempo né avevano anche solo discusso o alzato la voce. Però doleva e nei momenti in cui non aveva la mente impegnata lo faceva anche di più. Momenti come quello, in cui si trovava a fare una panoramica di sé stesso senza averlo previsto per scoprire che non tutto ciò che veniva cancellato spariva. Qualcosa rimaneva, mantenendosi invisibile agli occhi.

A volte, si scopriva che proprio le radici credute più inutili, quelle di cui si era certi di poterne fare a meno, erano quelle che meno di tutte si volevano lasciare andare.

Il trillo della sveglia sul telefono sancì la fine del test e della lezione.

«Mani su, attrezzi giù, tempo scaduto. Riponete pure i vasi e i materiali sui mobili. Nel frattempo, sgomberate la mente da ogni pensiero e non pensate più al vostro lavoro fino a che non lo riavrete davanti. Ne parleremo. Grazie a tutti e buona serata.»

«Grazie della lezione, Mori-sensei», risposero in coro gli allievi accennando un inchino. E mentre di solito si sarebbe fermato per dare una mano a ripulire i banchi, il senso di inquietudine che lo attraversava da giorni gli fece scegliere di tornare a casa subito per stare con Mamoru e dargli un po’ di sollievo dal troppo lavoro e, allo stesso tempo, darne a sé stesso. Quello era il modo migliore per non pensare e dimenticarsi del dolore.

Si intabarrò nel cappotto, perché anche se marzo ormai era arrivato alla sua metà, fuori l’aria era ancora troppo frizzante e instabile. Aveva smesso di piovere da qualche giorno, ma il vento bizzoso portava le nuvole a spasso senza dare alcuna sicurezza.

Shuzo caricò la borsa sulla spalla e lasciò l’aula con passo sostenuto. Salutò un altro paio di insegnanti incrociati nei corridoi.

«Cos’è tutta ‘sta fretta oggi, sciagurato?»

Saito-sensei lo appellò mentre passava davanti alla segreteria. Shuzo si fermò, fece un passo indietro; l’insegnante faceva capolino dalla porta e aveva una tazza di tè tra le mani.

«Ho voglia di tornare a casa presto.» Fuori erano già le otto e mezza e per rientrare ci avrebbe messo un’altra mezz’ora, traffico permettendo.

«Non ti fermi per un bicchierino di tè? Hino-san lo ha appena fatto.»

«Sì, Mori-kun, fermati con noi.» Dall’interno provenne la voce allegra della segretaria della scuola, la stessa che aveva compilato i suoi moduli di iscrizione, anni prima.

«La ringrazio Hino-san, ma sarà per un’altra volta.»

«Chi vuole tornare così di fretta a casa può avere solo due motivi: o deve farsi perdonare qualcosa o deve perdonare.» La maestra gli strizzò l’occhio sulla seconda opzione, con fare malizioso.

«Non ho niente da farmi perdonare e non devo perdonare nulla al mio compagno.»

«Oh, che peccato…» ma non smise di fissarlo da sopra il bicchierino che riprese a sorseggiare.

«Saito-san, lei guarda troppe telenovelas. A domani.»

Scuotendo il capo, Shuzo se ne andò ma quella frase, quel ‘perdonare’, gli rimase in testa, annidato in un angolo come un’eco.

Nel momento in cui uscì nel cortile, il cielo si era già fatto scuro da un po’. Tirò su il colletto del cappotto per proteggersi la nuca, nonostante avesse anche la spessa sciarpa di lana attorno al collo, ma aveva dimenticato di portare un berretto e il vento gli scompigliò i capelli e gli fece stringere gli occhi. Il cortile scolastico aveva il viale illuminato da alcuni faretti che correvano lungo il perimetro, alternandosi ogni venti metri, e proprio davanti all’entrata c’era un lampione stradale. C’erano almeno cinque persone: chi si stava allontanando pigramente da lezioni già terminate, facendo conversazione con i propri compagni di corso, e chi era appena uscito e smanettava al cellulare camminando a tratti.

Shuzo superò tutti e uscì sulla strada. Non aveva trovato posto nel solito parcheggio antistante la scuola, così si era dovuto accontentare di metterla in uno più piccolo situato in una stradina laterale. Girò sulla sinistra e rallentò per prendere le chiavi nella borsa. Quando alzò lo sguardo, la sua attenzione venne catturata da un macchinone di gran lusso nero e lucido. Non era da tutti permettersi di andare in giro con una Toyota Century a meno che non fossi un diplomatico, un Wakabayashi o uno che aveva a che fare con l’industria automobilistica. E Nankatsu, realizzò, era una città molto, molto ricca.

Shuzo rallentò quando dalla vettura scese l’autista che si prodigò di aprire la portiera posteriore al passeggero. La donna che ne emerse sapeva ingannare con l’età, perché aveva più di ottant’anni sulle spalle, ma ne mostrava di meno. Cappotto elegante di colore chiaro, cappello cloche grigio. Indossava un kimono invernale, lo vedeva spuntare da sotto i lembi lunghi di cashmere, e non sembrava temere troppo il freddo. Forse per il collo di pelliccia che bordava il cappotto o per la tempra troppo dura che dominava quella famiglia. La sua.

La radice nascosta gli fece male, pungendo con insistenza in un punto preciso, perché non importava quanti anni fossero passati e se lui l’avesse vista per l’ultima volta che ne aveva avuti dodici, nonna Akina era facile da riconoscere. Una donna forte, aspra a volte, o solo abituata a quello stronzo del marito. Lo guardò fisso, dandogli l’idea che lo stesse aspettando e invece era certo fosse lì per Hisako. Veniva per caso a controllare che la nipote uscisse sana e salva dalla tana del mostro? O veniva a controllare direttamente che lui si comportasse bene?

Se la presenza di Hisako non lo aveva infastidito, quella di sua nonna sì. E parecchio.

Ma quella era Nankatsu, molto più piccola di quanto non apparisse; la possibilità di fare incontri spiacevoli l’aveva messa in conto dall’inizio.

Con la testa ben alta, Shuzo riprese a camminare. Passo deciso, spedito. Non rallentò quando le passò accanto, ma la guardò, questo sì e Akina guardò lui. Occhi negli occhi, mentre ricordava le parole che sua madre gli aveva ripetuto spesso, e anche a Yuzo: avevano le stesse mani della nonna paterna. Le mani con cui creava, che affondava nella terra e che passava sul corpo di Mamoru erano un’eredità di quella donna lunga e sottile come una canna di bambù. Quella era un’altra radice mai morta attaccata a quella nascosta. L’ennesima fu nel realizzare che entrambi avevano l’orgoglio duro dei Morisaki, talmente duro che nessuno accennò per primo a un gesto di saluto.

So che sei mio nipote, so che sei mia nonna.

Si guardarono, tacquero e poi le loro strade si separarono ancora con la stessa casualità di come si erano incrociate dopo tutti quegli anni. Non potevano negare l’uno la presenza dell’altro, ma potevano condividere lo spazio, questo era tutto ciò che Shuzo avrebbe concesso eppure, sempre in fondo, quella dannata radice non smetteva di fare male.

 

§

 

L’illusione creava una sensazione di benessere. Una sfumatura soddisfatta verso qualcosa che non si era fatto in prima persona o una situazione che non si sarebbe potuta risolvere, ma solo tamponare.

L’illusione di infinito metteva invece in pace lo spirito di chi aveva la consapevolezza della fine, ma aveva bisogno di dimenticarsene per alcuni istanti della giornata, brevi o lunghi che fossero stati.

Il maestro Gaho sapeva che nulla poteva durare in eterno e che anche alla morte sarebbe seguita una rinascita. Era solo una questione di tempo, che scandiva la presenza delle cose finite su quella terra. L’unico vero esempio di infinito non era materiale, ma percepibile come un’emozione.

Quella era l’illusione che voleva trasmettere attraverso le sue opere di ikebana: ricreare la natura nell’innaturale, ricreare la vita in una cosa già morta, ricreare l’eternità in un’essenza finita. Era stato un lavoro duro con soddisfazioni e delusioni in cui era riuscito a trovare il giusto compromesso e ora viveva l’equilibrio della sua esistenza determinata con molta più serenità, ma i mostri erano stati difficili da addomesticare e poi buttare fuori, soprattutto quando non si riuscivano a vedere ma solo percepire, proprio come l’idea del tempo. L’ikebana gli aveva dato l’illusione che stava cercando per sentirsi bene e poi la certezza di stare bene sul serio nell’ordine di un ramo piegato, nell’equilibrio di un colore, nella gestione di un vuoto.

Le battaglie si vincevano solo se si combatteva a lungo, per questo era rimasto molto colpito dall’uomo incrociato qualche giorno prima fuori al cortile. Gli aveva dato l’idea di uno che di battaglie ne aveva affrontate parecchie, gli aveva letto le cicatrici delle vittorie negli occhi smarriti che avevano fissato il melograno e le sconfitte in quelli severi che avevano tagliato la conversazione di punto in bianco. Aveva avuto una sensazione di déjà-vu molto forte, gli aveva ricordato qualcuno che aveva già visto, ma non era riuscito a focalizzare il viso o il nome, nonostante ci avesse pensato più volte. E dire che gli sembrava di avercelo avuto sulla punta della lingua.

Peccato fosse scappato via, gli avrebbe fatto piacere scambiarci qualche altra parola, conoscere il motivo delle sue battaglie. Allo stesso modo, si rendeva conto che ognuno doveva trovare un metodo per affrontarle che fosse proprio all’interno del tempo che gli spettava da vivere.

Prese le cesoie da uno degli armadi per gli attrezzi che avevano al piano terra della scuola e uscì nel cortile per terminare la potatura del melograno che aveva iniziato da una settimana. Ora che il tempo sembrava dare una tregua, era meglio approfittare.

«Gaho-sensei, lei è davvero un tuttofare», scherzò una delle allieve più anziane, addirittura più di lui, mentre lo superava nel corridoio reggendo un lungo tronco di bambù.

«E tu, Asahi-san, devi sempre fare le cose in grande.»

«Più grande è, più è divertente!» esclamò la donna senza riuscire a voltarsi.

Quando uscì, Gaho affondò la testa tra le spalle facendo sparire metà viso dentro la sciarpa che aveva avvolta attorno al collo. Nel guardare il cielo mangiucchiato dalle nuvole si chiese quando si sarebbe deciso a sistemarsi e a far intiepidire l’aria.

Poi abbassò il capo e la figura ferma fuori ai cancelli catturò subito la sua attenzione. Era quella di un uomo distinto, alto, con la mascella decisa, un profilo dritto come la lama di un coltello e negli occhi le cicatrici di poche vittorie e troppe sconfitte. D’un tratto, il déjà-vu ricordò il nome che stava cercando e si trovò a sgranare gli occhi con incredulità per non aver capito subito.

«Non mi aspettavo di rivederla, l’altro giorno andava proprio di fretta», disse, avvicinandosi senza urgenza, e con un sorriso non troppo aperto: con gli animali feriti e inferociti bisognava essere cauti o sarebbero scappati un’altra volta. Ma lo sconosciuto che restava dall’altra parte, ed esibiva un atteggiamento risoluto non molto convincente, sembrava essere ferito da troppo per poter essere ancora davvero feroce. Magari lo era stato un tempo, ora era solo stanco.

«Sono stato scortese, ma non potevo proprio restare.»

«E come mai è tornato? Avevo capito che le piante non fossero nelle sue corde.»

Lo sconosciuto girò il viso con fare distratto; sembrava stesse valutando che nessuno all’infuori di loro due potesse sentirlo.

«Forse lo sono più del previsto, e sono solo io quello che non ha prestato loro il dovuto ascolto.»

«Se davvero è così curioso, allora perché non entra?» Gaho aprì il cancelletto, il cui uscio era solo stato accostato, ma non chiuso. Anche quello, un movimento controllato di accoglienza contenuta che l’uomo valutò ancora per un istante. Poi, vincendo l’ennesima battaglia, entrò.

Poteva essere un inizio davvero interessante.

«Sono Joji Gaho, benvenuto alla Scuola Sogetsu.»

 

“Portami al tuo fiume,

voglio andare.

Oh, andare avanti.

Portami al tuo fiume,

voglio conoscerlo.”

 

River – Leon Bridges

 

 


 

 

Note finali: …e cosa abbiamo qui, cosa abbiamo? Cosa si muove, poco alla volta?

Massi, montagne intere.

Shuzo sembra venire circondato dal passato sia dentro che fuori dalla scuola.

Akio, invece, al passato ci si affida di sua volontà.

In un caso abbiamo quasi un’imposizione, che viene accettata (almeno con la cugina), mentre nel secondo caso abbiamo una scelta vera e propria. Tornare indietro ha i suoi effetti per ognuno di loro, bisogna solo vedere in che misura. :3  

 

 

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Capitolo 6
*** V: La perfezione non è la risposta ***


Roots - Capitolo 5

 

 

 

- V: La perfezione non è la risposta -

 

Alla quarta lezione aveva iniziato a farci l’occhio, e non era poco. Ma per Akio avere a che fare con i numeri era come giocare in casa, quindi si era sentito avvantaggiato. Certo, confrontarsi con gli angoli era un po’ diverso che lavorare su percentuali statistiche e fatturazioni, però sapeva di star muovendosi bene. In quella nuova esperienza in cui aveva scelto di ritagliarsi uno spazio stava iniziando a prendere le misure con tutto: dalla familiarità tattile di una foglia, un petalo o uno stelo, a quella visiva nel riconoscere a quali piante appartenessero senza che gli venisse detto dal maestro.

Con le lezioni successive l’occhio era divenuto confidenza verso le regole.

E a lui piacevano le regole, gli davano sicurezza. Senza si sentiva perduto, perché le regole tracciavano una strada, mentre se gli fosse stato chiesto di far da solo non avrebbe saputo fare altro se non guardarsi attorno spaesato.

Akio sapeva di non aver mai avuto molta fantasia né una mente elastica e l’ikebana sembrava proprio venire incontro alle sue difficoltà. Questo non l’avrebbe mai immaginato e la prima sensazione difronte a una simile epifania era stata di profondo stupore. In seguito, aveva pensato fosse complesso: tante regole, tanti nomi, tante forme, tanti stili e tante variazioni. Tanti numeri, tante proporzioni e tanti significati. Eppure, applicandocisi tre volte alla settimana – nonostante avesse iniziato in ritardo rispetto al corso annuale – si era riscoperto più ricettivo di quanto immaginato. Il maestro Gaho gli aveva passato degli appunti che aveva studiato a casa e l’avevano fatto sentire di nuovo come uno studente all’università, solo con molta più spensieratezza. Non c’era il peso delle aspettative di suo padre, il tempo scandito in tappe che dovevano essere centrate tutte al primo colpo, non c’erano le ombre dei fallimenti, anche se lui non le aveva mai sentite così opprimenti perché sapeva di essere uno che avrebbe vinto in qualunque situazione.

Quanta considerazione aveva avuto di sé stesso?

Paragonata a ciò che aveva ottenuto era stato proprio un presuntuoso.

Ora, a distanza di un mese e mezzo, l’idea di entrare in contatto con rami e foglie lo aveva riscoperto più rilassato. Lo sentiva già nella tensione delle spalle, perché la mente si era concentrata su altro, riuscendo a isolare quei pensieri negativi che poi tornavano gli altri giorni. Ma il peso sul petto, la sensazione di non avere fiato, avevano allentato la presa e quando entrava nell’edificio della Scuola Sogetsu sembravano addirittura sparire.

Però, in tutta questa positività, sentiva di non essersi avvicinato a Shuzo. Non come aveva sperato. Nella propria ignoranza, aveva creduto che imparare a mettere insieme fiori e rami sarebbe stato sufficiente per avere l’illuminazione che stava cercando, invece aveva scoperto che il tutto non poteva ridursi solo a un rilassante passatempo. Era più di quello, doveva essere così. Se solo fosse riuscito a vederlo…

«Sugoooi, Morisaki. Ma quanto è preciso? Sa che un po’ la invidio?»

Ecco, tra tutte le cose positive che la scelta di tentare con l’ikebana gli aveva dato, quella di sicuro era la più dolente.

«Risparmi sull’onorifico? Mica lo paghi a kanji

«Ah! Questa è ganza! Non la facevo un tipo da battute.»

«E pensa che in famiglia io sono quello meno portato.»

Akio lasciò cadere gli occhiali sul petto e lanciò un’occhiata al suo giovanissimo ‘compagno di banco’. Era arrivato un paio di settimane dopo di lui e il maestro non aveva avuto idea migliore che piazzarlo al suo fianco. Legge dell’ultimo arrivato, aveva supposto, o forse era solo una specie di test per temprare la sua pazienza – e con l’ikebana ce ne voleva molta.

Riko Arisugawa faceva la terza media, portava già l’orecchino, in testa doveva avere un’industria di colla per riuscire a tenere i capelli fermi in quei modi assurdi e non sputava mai a terra, nel senso che parlava troppo e a raffica. Inoltre, c’era da dire che dell’ikebana non gliene fregava niente e questo si vedeva ance nelle sue composizioni fatte solo per tenere buono il maestro e farlo contento. Per Riko quella era niente più di una punizione.

«E comunque gli onorifici sono superati ormai, sono da vecchi.»

«L’educazione sarebbe da vecchi, quindi?»

«Ehi, lo cedo il posto alle nonnine sull’autobus.»

«Buon per te.»

«E poi noi non ne avremmo neppure bisogno, siamo studenti allo stesso livello, mica kohai e senpai. Potrei anche chiamarla per nome!»

«Provaci.» Akio affilò sguardo e sorriso, fermando il lavorio delle mani sul ramo di pero, lo Shin della sua composizione. Riko aggrottò leggermente le sopracciglia e agitò una mano per togliersi d’impaccio.

«Nah, farebbe troppo strano. Però, ehi, è vero che è preciso. Cavolo, è perfetta. Io non ci riuscirei mai.»

«Se ti ci impegnassi un po’, invece di fare chiacchiere, magari inizieresti a ottenere degli ottimi risultati. Ci hai mai pensato?»

«Sì, ma i risultati in questa roba mica mi interessano. Io sono solo di passaggio.»

«Anche io lo sono.»

Akio avvertì lo sguardo di Riko che lo osservava, mentre teneva la mano sotto al mento, come supporto. La composizione del ragazzino non era neppure a metà, e probabilmente alla fine avrebbe infilato qualcosa a caso giusto per completarla.

«Lei perché è qui?»

«Per imparare.»

«Sì, ma perché. Insomma, detto tra noi,» Riko si avvicinò, smorzando il tono con una mano accanto alla bocca, «è chiaro che lei è di un livello superiore a tutti i presenti. Crede che non me ne sia accorto? Con la valigetta poi, ed è vestito troppo bene per essere solo un salary man

Akio buttò un occhio alla cartella che per un riflesso condizionato dimenticava sempre di lasciare in macchina. Le prime volte si era accorto della perplessità negli occhi dei suoi compagni di corso: un uomo sempre ben vestito che usciva da lavoro e andava a fare ikebana. Non aveva mai creduto di riuscire a passare inosservato, ma neppure pensava di poter attirare tanta curiosità negli altri. Era sempre stato abituato a frequentare solo un certo tipo di ambiente, che scendere dal suo piedistallo l’aveva fatto sentire più in difetto che padrone della propria superiorità.

«Un dirigente d’azienda non può fare ikebana?»

«No, non dico quello. Però, ehi, avrebbe potuto farlo a casa con insegnante privato, invece che mischiarsi alla plebaglia

Akio aprì la bocca, ma si perse la risposta nelle proprie perplessità: non era un’osservazione troppo sciocca, visto che molte persone di famiglie altolocate così facevano, solo che lui non ci aveva mai pensato. Aveva avuto la paranoia di incrociare suo figlio fuori dalla KadouEnshu e per questo era stato disposto a cambiare strada, ma non aveva pensato a prendere un insegnante personale.

«Giusta osservazione», concesse.

«Modestamente. Mica sono uno che parla a caso.» Riko si sbracò contro lo schienale dello sgabello, dimenticando fosse troppo piccolo e per poco non perse l’equilibrio. Ad Akio venne da ridere e l’attimo dopo sentì il peso dei propri anni, perché in passato non ci avrebbe trovato nulla di divertente; ora gli faceva una certa tenerezza. È un ragazzino, pensava, ma prima non l’avrebbe giustificato neppure sotto tortura.

«Quindi?» incalzò Riko.

«Quindi cosa?»

«Perché è qui e non a casa a contare i suoi milioni di yen

«A parte che i milioni li conta la banca, e poi… provo un certo gusto nello stare tra i proletari

«Ah! Lei è troppo un ganzo!» Riko si sbracò di nuovo, ma stavolta stando ben attento a non sporgersi troppo all’indietro, e fece schioccare le dita in un gesto così scoordinato che Akio non aveva mai visto fare. Le nuove generazioni ne avevano sempre una da inventare.

Eppure, sorrise ancora, guardando la sua composizione ormai conclusa, mancava giusto qualche particolare e forse sistemare qualche angolo di un filo.

«Tra tutti gli appellativi che mi hanno rivolto, ‘ganzo’ non lo aveva mai usato nessuno.»

«E perché? Lei è uno che spacca: ha avuto successo, può fare quello che vuole. Mio padre non ha un briciolo di spina dorsale.» Riko soffiò lo sbuffo verso l’alto, affondando il viso in entrambe le mani.

Akio si accorse delle unghie mangiate, degli sgraffi di penna sulle dita.

«Tuo padre lavora molto?»

«Fa lo schiavo in un magazzino.»

«Per schiavo intendi…»

«Scarica le merci.»

«È una nobile posizione.»

«Sì, ma lo pagano una miseria e lavora pure la notte. Chi lo vede mai?»

Genitori lavoratori che non avevano tempo da passare con il figlio per il quale era chiaro facessero molti sacrifici, bastava guardare il modello di cellulare che il ragazzino teneva abbandonato sul banco e a volte controllava, digitando velocissimi messaggini.

E poi c’era lui, che di tempo avrebbe potuto averne, ma lo aveva sacrificato al lavoro e alla propria ambizione, alla gloria di un nome.

«Anche io lavoravo fino a tardi e i miei figli li vedevo il necessario. Ho poco da essere ganzo.»

«Naaah! E non ce li ha quelli che lavorano per lei?»

«Ce li ho, ma non sono uno che delega. Se vuoi essere davvero qualcuno, devi assumerti le responsabilità. E crescere con il surrogato di un genitore non è detto che possa renderti meno arrabbiato.»

Lui non lo era stato verso suo padre per le assenze familiari, ne aveva già troppa ammirazione, vedeva il fine. Così non era stato per i suoi figli, invece.

Riko fece una smorfia che non si capiva se fosse stata accondiscendente con quella che era suonata come una ramanzina oppure no.

Akio inforcò di nuovo gli occhiali e tornò a guardare la composizione. Un Risshin kei, lo stile dritto, nella sua forma base, senza alcuna variazione. Il Paradiso e l’Uomo seguivano la stessa forma, che aveva scelto diritta. La linearità gli dava una certa sicurezza, ma non poteva negare d’essere affascinato dalle curve che Shuzo sapeva piegare fino allo stremo. Gli davano l’idea di una forza pantagruelica a tal punto che in alcune occasioni si era sentito in soggezione e aveva percepito come la pressione di una mano sulla testa che lo obbligava a piegarsi. Suo figlio era davvero diventato forte come aveva desiderato; da un lato se n’era sentito orgoglioso e dall’altro si era sentito in colpa.

«E ma allora? Non me lo dice perché?»

«Perché lo devo al figlio che ho perso, cui le piante piacevano molto.»

«Ah… m-mi dispiace, Morisaki-san. Non lo sapevo…»

Akio sorrise per quell’onorifico non proprio dimenticato. «Mi hai fatto una domanda e ti ho risposto. Non devi mica scusarti.»

Con la coda dell’occhio vide il ragazzino smaniare sulla sedia, dopo essere stato composto per scarsi cinque minuti.

«Perché dice che glielo deve?»

«Avrebbe sempre voluto che andassi d’accordo con suo fratello. E anche a lui piacciono le piante.» Si volse, sul viso di Riko lesse tutta la confusione dei suoi quindici anni e alla fine sorrise di nuovo. «È un po’ complicato. Diciamo che lo faccio per i miei ragazzi. Quale che sia il motivo non è rilevante.»

«La dedica a suo figlio quella composizione? È bella. Il bianco sta bene lì.»

Akio guardò la composizione che, alla base, aveva dei crisantemi margherita in posizione Hikae, quella della Terra, un bianco vivo che illuminava l’intera composizione, la rendeva leggera, eterea. Mentre il Paradiso e l’Uomo erano rami di pero cui aveva tolto tutte i fiori, a meno di un paio alla base, che si univano alla Terra; anche quelli, un punto bianco in cui la foglia di Megasea nascondeva il kenzan. L’essenza raccolta nel punto più basso, come se non esistesse altro.

A guardarla, aveva rispettato tutte le regole e si sentiva soddisfatto. L’avrebbe dedicata a Yuzo? Lui non capiva molto il senso di quel sentimentalismo. Il bianco, certo, poteva rappresentare suo figlio, ma c’era sempre qualcosa che continuava a sfuggirgli, perché se ripensava alla composizione che Yumeko aveva portato a casa quella sera della Festa dei Fiori di Obuchi di nove anni prima, lui sentiva ancora un laccio stringergli lo stomaco. Il significato gli era arrivato dritto come un pugno: nella disposizione dei rami, nella scelta dei fiori e dei vasi aveva riconosciuto subito i suoi figli, aveva capito il messaggio. Ed era stato così con tutte le altre che aveva visto, anche dopo che Shuzo aveva iniziato a prendere lezioni, si era diplomato ed era diventato maestro. Anzi, era stato come un crescendo: quel laccio si era serrato, gli aveva tolto il fiato e a volte fatto arrivare il cuore alla gola con un magone che non si era saputo spiegare.

Shuzo, attraverso l’ikebana, faceva magie, vedeva forse il suo intero universo, mentre lui non riusciva a capire cosa ci trovasse né riusciva a vedere neppure una piccola stella.

«Stai dando fastidio al signor Morisaki, Riko?» Il maestro Gaho era comparso dal nulla e stava rivolgendo un’occhiataccia al ragazzino. Teneva le mani dietro la schiena. «E dire che ti avevo messo accanto a lui proprio per riuscire a tenerti buono, e invece sei stato tu a contagiare Morisaki-san con la tua chiacchiera. Santo cielo, se da grande non diventerai un operatore di call-canter! E quella roba che hai davanti cosa dovrebbe essere? Ti avevo chiesto un Keishin kei base.»

«Perché non posso scegliere io cosa fare? Agli altri hai dato libertà di scelta!» S’impuntò il ragazzino, indicando gli altri allievi – quasi tutte donne che potevano fargli da zie o da nonne – che ogni tanto si giravano ai suoi mugugni e ridacchiavano, cercando di rabbonirlo.

«Loro non sono in punizione, tu sì. Se ti lasciassi in libertà diventerebbe un divertimento e non ti insegnerebbe nulla, invece devi imparare che non puoi fare sempre come vuoi. Si chiama disciplina. E ora che stai aspettando?»

«Be’, ci sto lavorando! Ho bisogno di tempo, io!»

«Certo, come no. Sai che succede se parlo con tua madre, vero? Impegnati.»

Riko sbuffò, ma si sedette composto lanciando un’ultima occhiata di sottecchi al maestro. «Sì, sensei…»

Gaho annuì con severità e poi spostò lo sguardo su di lui, sostituendo il piglio severo con uno più comprensivo. «Spero non ti stia distraendo troppo.»

«No, nessuna distrazione.»

«Non dirlo solo perché è mio nipote.»

«Non sono tipo da fare sconti o favoritismi.» Non ne aveva fatti neppure con i propri, di figli, figurarsi con quelli degli altri.

«Meglio così. Ma fammi vedere tu invece a che punto sei… oh! Direi che hai quasi finito. Posso?»

Akio lasciò spazio al maestro Gaho, con cui si era accordato per usare un tono meno formale visto che tra i due era lui il più vecchio, e allontanò le mani dalla composizione.

Il sensei ne girò il suiban – un bel pezzo di ceramica dalla lavorazione lasciata grezza di proposito e di forma rettangolare – e prese a osservarla da varie posizioni. Stringeva gli occhi scuri e le labbra, inarcava un sopracciglio e annuiva con severità.

«Be’ devo dire che tecnicamente è ottima.»

Senza volerlo, Akio tese un po’ la schiena in un gesto d’orgoglio che faceva quando gli veniva riconosciuto un traguardo. Raggiungere gli obiettivi lo appagava e caricava per passare a quelli successivi, per questo era sempre stato troppo sicuro di sé per poter contemplare la sconfitta.

Eppure, nonostante gli avesse appena detto di aver fatto un buon lavoro, il maestro manteneva un’espressione incerta.

Akio non capiva se la composizione gli fosse o meno piaciuta: dalla faccia avrebbe detto di no, e questo gli fece smorzare un po’ dell’orgoglio di poco prima.

«A te piace?»

Una domanda a bruciapelo che lo spaesò.

Akio spostò lo sguardo sull’opera che aveva davanti, sul bilanciamento dei colori e dei vuoti, sulle linee e i gradi e non riusciva a trovare la risposta, non sapeva dire ‘sì, mi piace’ oppure ‘no, posso fare di meglio’. Probabilmente perché a differenza dei lavori di Shuzo, il suo non gli diceva niente, quasi fosse muto.

«Mi sono accorto che il tuo modo di approcciarti all’ikebana è molto razionale, di testa», riprese il sensei. «Segui le regole, non esci fuori dal seminato. E, per carità, va benissimo, ma l’ikebana non si fa soltanto con la testa. È nello spirito che risiedono i mostri da mettere in ordine e a cui ridare l’armonia. E tu devi imparare a tirare fuori i tuoi, altrimenti tutto questo non ti servirà per quello che stai cercando e tra le mani ti ritroverai solo un passatempo e nulla di più. Se è l’emozione che cerchi, allora ce la devi mettere tu.»

Gaho tornò verso la scrivania lasciandolo lì al banco con la sua bella composizione muta, che non trasmetteva nessuna idea di immortalità, ma solo di rami, foglie e fiori messi in un vaso. Quello che aveva davanti era nient’altro che un oggetto e allora sì, lì si accorse che nella sua perfezione tecnica non gli piaceva.

«Non gli dia retta, Morisaki. Mio zio è troppo pesante», bisbigliò Riko, sporgendosi verso di lui. «La sua composizione è perfetta!»

Ed era quello il problema: era solo perfetta, come l’illusione di tutta la sua vita. Non stava che riproducendo gli stessi errori fatti in passato, quando aveva creduto di avere ogni cosa sotto controllo, ma la sua vita, la sua famiglia, il suo futuro erano tutt’altro che perfetti.

«La perfezione non è la risposta.»

Afferrò rami e fiori e li tolse d’un sol gesto. Smantellò la perfezione in un decimo del tempo che aveva impiegato per crearla.

«Nooo!» ululò Riko, le mani alle guance. «Ma… ma perché?!»

Perché la risposta era troppo complicata e personale per essere spiegata a un ragazzino così giovane che non aveva ancora la testa nelle tristi favole degli adulti. Ed era meglio così, gli augurò che ci arrivasse il più tardi possibile.

Akio tolse il kenzan e andò a posare il vaso suiban sulla cattedra, dove il maestro aveva disposto tutti i vasi che avrebbero potuto usare per l’opera di quella lezione. Osservò ciò che era rimasto e non era molto: un paio di vasi nageire, una coppa, un suiban ovale e un suiban rotondo – cui affiancò quello che aveva usato fino a quel momento – e poi il suo sguardo si fermò su un piatto romboidale. Il colore arancione lo colpì come uno schiaffo di rimprovero, perché avrebbe dovuto sceglierlo prima, avrebbe dovuto sceglierlo subito: lo stava chiamando, ma non lo aveva sentito perché non era la composizione a essere muta, ma le sue orecchie a essere sorde.

Lo prese con entrambe le mani e lo portò al banco, poi tornò alla cattedra dove erano stati poggiati anche gli elementi floristici. Aveva lavorato fino a quel momento con dei bei crisantemi margherita, ma quando gli occhi si poggiarono su dei ciuffetti di Lycoris riconobbe di essere stato anche cieco, perché non li aveva notati.

Si rese conto che erano dei prematuri, probabilmente di serra, perché non era il periodo giusto, che sarebbe arrivato verso l’estate e fino all’autunno. E questo lo portò a un’altra verità: aveva imparato a riconoscere una pianta fuori tempo. Quando i suoi figli erano stati bambini, gli erano sembrate tutte uguali; era già tanto se sapesse riconoscere una rosa da un iris o un’orchidea e solo perché erano fiori molto famosi. Poi la repulsione per quegli oggetti che avevano rubato l’attenzione di Shuzo e l’avevano allontanato da interessi che avrebbero potuto avere in comune aveva fatto il resto, rendendolo ancora più ignorante.

Ora, invece, quel minuscolo passo avanti lo esaltò.

Fu come se una scintilla gli si accendesse nel petto, divenisse fiamma.

Akio afferrò due Lycoris e tornò a posto. Poggiò tutto sul banco e si liberò della giacca, abbandonandola sulla spalliera dello sgabello. Le maniche della camicia bianca, stirata alla perfezione, vennero arrotolate fino al gomito, ed ebbe la sensazione che il resto della sala si silenziasse. La testa girò la manopola del volume al minimo, ma alzò al massimo quella che amplificava sé stesso, i propri pensieri, i sentimenti e i mostri. Soprattutto i mostri. E di quest’ultimi ne aveva uno enorme che gli stava seduto sul petto da anni infiniti, in cui si era scontrato con i suoi figli, con sua moglie, senza ascoltarne le voci ma solo la propria. Anni in cui l’unica cosa che aveva saputo fare era stata rifiutare: rifiutare Shuzo e le sue passioni, rifiutare di potergli dare un’opportunità per crescere come voleva, rifiutare le piante come fossero oggetti del demonio.

E poi, dal rifiuto era passato alla supplica silenziosa che non avrebbe mai ammesso.

La supplica di una possibilità, perché ora lo sapeva quanto faceva male perdere: che fosse qualcuno, qualcosa o entrambi. Lo sapeva ed era entrato nei panni di Shuzo.

Dèi erano stati così stretti, pungenti, soffocanti. Panni pieni di piombi, dai quali poteva vedere come fosse il mondo con un dolore continuo addosso: finiva per entrarti dentro e modificare tutto di te a partire dal carattere. Magari da una parte ti temprava, proprio come volevano i Morisaki, ma dall’altra ti privava della gioia insostituibile di vivere.

Anzi, quella vita te la faceva prendere a pugni e ti faceva prendere a pugni tuo padre, perché era troppo ottuso e tu troppo stanco di tenergli testa o troppo esasperato, chissà.

Aveva esasperato suo figlio, quei panni glieli aveva fatti indossare lui con la forza e l’aveva costretto a crescerci dentro.

Mentre lavorava rami e fiori, Akio vedeva tutto questo scorrere come un fiume, scoprendo ogni volta una prospettiva diversa da cui guardare le proprie responsabilità. Chissà quante ancora restavano, prima di arrivare alla fine di quel film che non voleva più vedere.

La campanella suonò per segnare il termine della lezione nel momento esatto in cui lui sollevò le mani dalla composizione e allora si rese conto che da quel fiume ci si era fatto trascinare anche lui, perché non ricordava il momento della creazione. Le mani agivano, la testa pensava e il cuore… il cuore dettava ogni passaggio.

Il cuore che era riuscito a entrare in armonia con quello che faceva suo figlio e ad averne un assaggio.

Akio si sentiva la gola secca nemmeno avesse gridato per un’ora intera e invece non aveva aperto bocca: a gridare erano stati i suoi mostri, e ora aveva il fiatone.

«Accidenti, sembra che tu abbia fatto una corsa per finire in tempo.» Gaho sorrideva e lui si alzò in tutta fretta. Aveva capito cos’era successo, ma addosso aveva ancora una sorta di adrenalina.

«Sì, non mi piace lasciare i lavori a metà», disse, sciogliendo le maniche senza richiudere i polsini e infilando la giacca. Da terra sollevò la cartella e caricò il manico sulla spalla. Il cappotto era appeso all’attaccapanni accanto alla porta dell’aula, lo avrebbe recuperato all’uscita. «Grazie della lezione.»

«Aspetta, e non vuoi un parere?»

Akio si fermò che era già arrivato alla cattedra; gli altri stavano ancora completando gli ultimi ritocchi, qualcuno cercava di finire. Non si era mosso nessuno tranne lui. Spostò lo sguardo sul piatto dove giaceva la composizione, poi guardò Gaho.

«No.»

Sorrise, afferrò il cappotto e se ne andò.

 

Oh, be’, non si poteva dire che Akio Morisaki non fosse un tipo particolare.

Gaho aprì un sorriso soddisfatto quando gli vide inforcare l’uscita e non voltarsi indietro. Sicuro, determinato. Fin dalla prima volta che l’aveva visto, fuori dai cancelli della scuola, aveva pensato che lo fosse o almeno lo fosse stato. Poi, come i vecchi leoni si era lasciato andare, dando agli altri il compito di agire, mentre lui restava a terra e si faceva passare addosso il tempo.

Negli occhi pieni di sconfitte però si era risvegliato qualcosa, glielo aveva letto, ma non l’aveva decifrato.

«Oh… È Ukibana, zio?»

Si volse a quella nota carica di sorpresa di suo nipote, che adesso era poggiato con entrambi i palmi sullo sgabello su cui Akio era rimasto seduto e si sporgeva per vedere meglio cosa ci fosse nel piatto.

Uno dei tre gruppi che componevano la settima variazione. L’Ukibana, i fiori galleggianti. E Akio, nel bel piatto arancione, al posto dei rami di pero, aveva posto due foglie di Lycoris, adagiate su un lato e mezzo della forma. Alla sommità di quella più lunga, che spuntava da sotto quasi che la foglia ne nascondesse lo stelo, c’era un fiore, bianco, tutto aperto. Sull’arancione, quel candore era accecante. Alla base, invece, un altro fiore solitario, ma rosso. Accecante allo stesso modo per motivi differenti. Tutto aperto, stesse dimensioni e stessa specie: radiata. Uguali, avrebbe detto, ma i colori sottolineavano la netta differenza. Vicino al rosso, l’ultimo fiore, un Lycoris sprengeri, dal calice più piccolo, pistilli corti. Non era ancora del tutto sbocciato, ma si capiva che aveva un ventre rosa intenso, tendente al rosso, e le punte dei petali bianchi.

Stessa famiglia, specie diversa, colore che era la mescolanza del Paradiso e della Terra.

In quella composizione, dove nulla si ergeva e tutto restava nel punto più basso del piano, Gaho vide la continuità del tempo che galleggiava sul velo d’acqua che riempiva il piatto.

«Che ne pensi, Riko?»

Il ragazzino inclinò il capo, fece smorfie con le labbra e poi si grattò la punta del naso.

«Non è precisa come quell’altra. Però mi piace di più… non so perché. È proprio bella.»

«Perché in questo piatto c’è una battaglia vinta.»

Riko tirò indietro il mento, sollevò le spalle e aggrottò le sopracciglia.

Lui sorrise e girò il vassoio.

«Padre e figlio, uh?» borbottò, ragionando con sé stesso.

Lo si vedeva nell’aspetto, lo si vedeva nel modo che avevano di approcciarsi a una composizione, all’arte: potevano aver studiato ed essere precisi nelle regole, ma i loro sentimenti erano così grezzi, come diamanti appena estratti dalla cava, che sfuggivano a qualsiasi controllo; al loro prima di tutto. E quando poi infossavano la testa in ciò che avevano dentro, dimenticandosi del resto, tiravano fuori un mondo di cui forse neppure erano a conoscenza. Padre e figlio, le radici che proseguivano nel tempo e si sdoppiavano. Di certo, Akio non sarebbe mai stato al livello del figlio, perché era chiaro non fosse ciò che stava cercando né lo scopo della sua vita nell’ordine universale, ma era la prova vivente di un legame incontrovertibile, tanto silenzioso quanto visibile a tutti.

«Non avrebbe potuto essere altrimenti.»

 

Era adrenalina, era accelerazione ma non tachicardia, era proiezione verso un punto indefinito.

Akio non sapeva spiegarlo, ma aveva tutto chiaro quando fino a un attimo prima ogni cosa era stata nebulosa. La sensazione di emergere dalla nebbia dopo averci vagato tanto da perdersi e perdere le speranze di uscirne. 

Il trucco non era attraversarla, ma scavare nel sottosuolo, a mani nude tanto da farsi saltare le unghie. Scavare, trovarsi la terra anche in bocca, trovare il sangue che ancora si possedeva e trovare le radici di sé stessi. E poi non fermarsi, perché quelle radici non erano deboli né superficiali, ma diramate come tentacoli e capelli di angelo o fata o Oni. Capelli di tutti i demoni che avevano creato e ucciso. Ci avevano costruito sopra, ne avevano fatto fondamenta di odio. Radici di malerbe, radici di famiglia.

E cosa fare, allora?

Cosa fare quando ci si ritrova dentro, impigliati come cervi nel filo spinato che si è cercato di saltare a tutti i costi ignorandone il pericolo?

Scavare, ancora. Scavare e uscire dall'altra parte, attraversare la terra stessa e tornare a respirare un'aria pulita, senza più nebbia ma con il cielo azzurro sopra la testa. Così limpido che si riesce a vedere perfino la luna.

Akio ce l’aveva sulla strada, la vedeva dal parabrezza della macchina: tonda, gialla e butterata. Le mani strette sul volante e il piede che spingeva un po’ troppo sull’acceleratore. Tutto andava più veloce dentro e fuori di lui.

Non si era mai accorto di quanto corresse il mondo?

Aveva creduto di averne tenuto il ritmo e invece si era solo lasciato trascinare dalla fiumana delle persone, come avveniva nella stazione di Shinjuku a Tokyo: la gente pareva quasi sollevarti e portarti sulle loro teste senza che te ne accorgessi ma obbligandoti ad andare dove volevano loro e non dove volevi tu.

La sua vita era stata un po’ così: un po’ obbligo, un po’ scelta. 

Ora invece correva da solo verso casa. Dentro era più leggero e allo stesso modo più determinato. Percepiva ritrovata solidità nelle ossa e nei pensieri che l’esaurimento aveva reso molli; ma sapeva che un’epifania non sarebbe bastata, però di quello ne avrebbe parlato con Kurogane. Ora voleva andare a casa per firmare un trattato di pace e passare al livello successivo, perché l’ikebana non era la fine, quanto l’inizio. I percorsi potevano avere stessi arrivi ma tracciare strade differenti, e il suo funzionava un po’ a ritroso.

Per Shuzo, l’ikebana era stato il traguardo, dopo essere partito dalle piante. Akio, invece, aveva avuto bisogno di fronteggiare la realizzazione finale di suo figlio, prima di poter risalire all’origine.

Pochi metri e casa gli apparve come un luogo nuovo. Più vuoto di quanto avesse sperato, ma non ancora popolato di spettri. Picchiettò con le dita sul volante, mentre il cancello automatico si apriva, obbedendo a una meccanica pigra. Parcheggiò in maniera imprecisa davanti alla serranda e per quella sera non avrebbe posato l’auto in garage. Scese al volo, abbandonando la cartella con tutte le sue vecchie priorità e non entrò dalla porta principale, ma si diresse subito sul retro, puntando spedito la serra. Ne afferrò la maniglia come fosse l’ultima speranza che gli era rimasta, e spalancò la porta.

Non era cambiato nulla rispetto l’ultima volta che vi era entrato: vuoto e abbandono aveva lasciato e ritrovato, eppure questa volta nel ripensare a come era stata e alle piante che aveva ospitato non si sentì più in competizione. Era risoluto, invece, rilassato. Sapeva di essere presente e non con la testa troppo immersa nelle proprie recriminazioni. Si sentiva bene. Il petto non era oppresso, il respiro entrava e usciva in maniera regolare, e da quando aveva iniziato il corso di ikebana non aveva più avuto un attacco di panico. Non era solo un hobby quello che aveva cercato, quanto uno scopo e delle risposte a domande rimandate a lungo. Adesso che gli interrogativi si erano dissipati, poteva iniziare a lavorare. Le risposte potevano essere la fine di qualcosa e la ripartenza per qualcos’altro.

Qualche anno prima, quando aveva affrontato suo figlio durante una cena a casa degli Izawa, e gli aveva detto di essere al corrente della sua omosessualità, aveva capito di aver afferrato un’opportunità. Negli anni l’aveva tenuta stretta, dandole la corda necessaria per non disperdere mai quel minuscolo barlume di rapporto che aveva iniziato a ricostruire con Shuzo. Allo stesso tempo non l’aveva alimentato come avrebbe dovuto, e quel fuocherello tale era rimasto, pari alla fiamma di una candela. Un po’ per paura di ottenere l’effetto contrario e un po’ perché non aveva saputo come fare per migliorare le cose.

Adesso sì. Adesso lo sapeva.

Le opportunità non si trasformavano in realizzazioni se non venivano coltivate; era come con le piante. Tutto era come con le piante. Ed era da quel nemico numero uno che bisognava ripartire.

«Sono pronto a ricominciare.»

 

§

 

Dal suo compleanno erano passati ormai due mesi e le volte che aveva visto sua nonna fuori della scuola erano state frequenti. Considerando che di lezioni a Hisako ne impartiva tre alla settimana, almeno due – quando gli orari erano serali – Akina si faceva trovare fuori.

Prima della metà di marzo, ricordò che gli era capitato di scorgere il macchinone della famiglia Morisaki, senza però soffermarsi su chi appartenesse. Dalla vettura non era mai sceso nessuno. Ora, sua nonna era una figura costante, in piedi all’esterno della portiera. Il cappotto che era cambiato appena nella pesantezza del tessuto dal cashmere al panno; il cappello, dalla tesa più larga e primaverile, aveva sostituito quello a forma di cloche e anche i colori nel complesso si erano schiariti e scaldati. La sola costante era rimasta il kimono che arrivava a coprire le caviglie ma non gli zoccoli. Mani ordinate davanti a sé a reggere una borsetta o sacchetto di stoffa, capelli sempre legati in maniera impeccabile, sguardo severo dei suoi ricordi e più rughe. Quest’ultime le aveva notate solo di volta in volta, assieme agli altri particolari che componevano la figura di sua nonna.

Era stato un continuo e involontario pescare nei ricordi quel gioco di presenze e sguardi e silenzi. Si fissavano, si passavano accanto, nessuno dei due accennava a un saluto e nessuno chinava la testa. Riflettevano la continuità generazionale del carattere di famiglia che restava marchiato addosso, e anche se in quella famiglia non c’eri dalla nascita, poi finivi per assorbirlo per osmosi.

Una sera, dopo aver superato Akina, aveva sentito la voce allarmata di Hisako alle sue spalle.

«Nonna! Ti avevo detto che non dovevi farti vedere! E se ti riconoscesse?! Si arrabbierebbe, non creargli problemi!»

«E quali problemi potrei mai creargli, bambina mia? Non essere sciocca. Sono solo una nonna che viene a prendere la nipote.»

«Ti ho anche detto che non c’è bisogno che tu venga, so tornare a casa a piedi.»

«Voi giovani non siete mai contenti delle gentilezze dei vecchi, però saltelli proprio come una bambina quando dico a Yaya di preparare i tuoi piatti preferiti.»

«Vuoi sempre avere ragione!»

Erano andate via, lui aveva dato a intendere di non averle sentite né di aver riconosciuto Akina, ma le parole della vecchia avevano provocato l’ennesima sensazione di fastidio verso l’indifferenza e l’insensibilità che seguitavano ad avere nei suoi confronti. Quindi, il meglio che poteva fare era continuare a opporre la stessa dispotica faccia di bronzo.

Dello strano dolore di quella vecchia radice, invece, preferiva non ragionare, neppure con sé stesso, perché ancora non sapeva accettarlo e ne voleva minimizzare la vastità che un po’ alla volta sembrava diramarsi a tutte le altre che componevano la sua vita e lo facevano sopravvivere. Era una malattia infettiva, una metastasi, un marciume. E quando il marciume colpiva la radice la possibilità che la pianta si salvasse si riduceva fin quasi a sparire; bisognava essere davvero bravi e fortunati per riprenderla.

Shuzo non sapeva quanto bravo e quanto fortunato fosse, ma non era uno che restava a guardare, quindi le sue armi per ignorare determinati pensieri erano quelle che sempre l’avevano fatto andare avanti: tenersi impegnato. Un tempo sarebbe stato con lo spaccio, le risse, un’uscita al Falabel, una scopata con Ike. Ora erano il lavoro, il bar, le chiacchiere con i nonni, le lezioni scolastiche, un’uscita con i Matsuda e l’amore con Mamoru.

Inoltre, sua madre non aveva accennato nulla riguardo Akio nelle volte che si erano sentiti, quindi lui perché continuava a pensarci? Doveva essere colpa di Yuzo, si disse in un sorriso colpevole mentre usciva dalla scuola.

La lezione pomeridiana era appena terminata, ma alcuni dei suoi allievi, tra cui Hisako, si erano intrattenuti per confrontarsi tra loro sulle ultime cose che avevano fatto. Aveva mostrato loro la tecnica di piegamento kusabi-dame e ne erano rimasti affascinati, ma avrebbero cominciato a metterla in pratica solo tra un mesetto; prima voleva che imparassero al meglio tutte le basi.

Dopo un marzo piovoso, grigio e instabile, la fine di aprile lo accolse con l’ennesimo sole quel pomeriggio.

Shuzo strinse un po’ gli occhi nel guardare verso la luce, e un sorriso pacificatore piegò le labbra. Le giornate si erano allungate, la sensazione di rinascita della natura che iniziava a preparare l’arrivo dell’estate lo faceva stare bene; come se anche lui stesse rinascendo. Magari, quel benessere sarebbe riuscito a lenire il malessere che lo pungolava con insistenza. Si sentiva più forte e propositivo, più sicuro e soddisfatto, anche senza un perché. Doveva essere la natura di lucertola che si ricaricava al sole.

Quando spostò lo sguardo, vide nonna Akina presso una delle aiuole fiorite del cortile. Era da sola, l’autista aspettava all’esterno, fermo presso la macchina, rigido nella livrea con tanto di cappello. Cazzo, facevano i baroni pur senza un titolo nobiliare sulle spalle. Erano proprio vecchi, infossati in qualcosa che non aveva il sapore affascinante dell’antico, ma solo del pacchiano ormai superato.

Shuzo si rese conto di aver perso la presa sul sorriso sereno e questa cosa lo infastidì, perché come al solito i Morisaki non si curavano mai delle cose che gli toglievano, lo facevano talmente in automatico che neppure se ne accorgevano, perché tanto le uniche priorità che contavano erano solo le loro.

E sua nonna, con la faccia di bronzo di tutti i Morisaki, aveva sconfinato nel suo territorio, cambiando orario a quella specie di incontro muto che avevano instaurato ed entrando nello spazio – il suo – che apparteneva alla scuola, quando si era sempre mantenuta all’esterno dei cancelli.

Aveva fatto il passo.

Quello era il saluto che non si erano concessi fino a quel momento.

Shuzo lo ignorò e tirò dritto, deciso a uscire e andarsene, ma dopo averla superata di due passi, si fermò e, prendendo un profondo respiro, tornò indietro.

«Se aspetta Yamaguchi Hisako, sappia che si è fermata con alcune delle sue compagne di corso. Ci metterà un po’», disse e si pentì d’averle parlato già l’istante dopo averlo fatto.

Akina gli rivolse un’occhiata che sapeva fingere benissimo la sorpresa di sentirsi rivolgere la parola.

«Oh, davvero? Quella ragazza,» sospirò, «sa sempre come perdere tempo.»

«Il tempo non si perde, siamo noi a perderci nel tempo.» Shuzo disse per istinto la frase che Mamoru aveva rivolto a lui. Aveva cambiato il suo modo di vedere gli eventi della vita e la propria posizione in mezzo a essi. «Inoltre, trattandosi di faccende scolastiche, il suo tempo è ben guadagnato. Se le scoccia aspettare, ci sono dei bar molto accoglienti qui attorno. Si prenda un caffè.»

«E mi dica, voi della scuola vi occupate anche delle aiuole di questo cortile? Sono molto ben curate.»

Akina lo fermò dopo che l’aveva superata solo di un passo. Shuzo le rivolse la trequarti, non si girò del tutto e poi spostò gli occhi sul recinto di terra rettangolare, che prendeva il perimetro scolastico, delimitato da pietre di foggia asimmetrica. I rododendri avevano formato, con i loro cespugli, una siepe fitta e bassa, carica di foglie verdi, tra le quali i boccioli si stavano caricando per prepararsi all’apertura. In basso, lungo la bordatura, ciuffi di campanule già fioriti e primule che stavano terminando il loro ciclo.

«Me ne occupo io, quindi grazie.»

«Ha una bella mano e un buon occhio per la scelta dei colori. Sono rododendri, questi, vero?»

«Rhododenron phoeniceum

«O Phoenicia azalea

«No. Sono specie diverse.»

«Sapevo fossero sinonimi della stessa pianta.»

Shuzo tornò indietro del passo che lo aveva allontanato. «Le azalee appartengono al genere Rododendro, ma non tutti i rododendri sono azalee.»

«Interessante… Un po’ come dire che per quanto appartenenti alla stessa famiglia, preservano delle differenze che li rendono unici, tanto da essersi guadagnati un nome a parte.»

Akina lo trapassò con i suoi occhi verde scuro. All’esterno dell’iride, avevano quel contorno blu particolare che nessuno dei suoi zii o anche tra i nipoti aveva ereditato. Un peccato, li aveva sempre trovati molto belli.

«Le azalee vendono molto bene, più dei rododendri. Il loro nome è diventato più famoso di quello da cui provengono. Un po’ come me: penso di aver ampiamente dimostrato che non c’è bisogno del nome ‘Morisaki’ per diventare qualcuno.»

«È vero. Sei venuto su da solo, con le tue forze. Hai combattuto il terreno, la pioggia, la siccità e sei germogliato lo stesso, come sotto il cielo di primavera. Potenza, perseveranza. Un vero figlio di marzo che non abbassa la testa e va avanti, che gli altri riescano a stargli dietro oppure no. E se coloro che si porta dietro lo appesantiscono, se ne libera con un colpo d’accetta.» Sentì gli occhi di Akina addosso, che lo guardavano per ciò che era davvero. Per chi era.

Akina l’aveva sempre rimproverato faccia a faccia per i suoi comportamenti sbagliati, prendendosene la responsabilità e senza mandare avanti suo figlio come vittima sacrificale. Lo metteva davanti agli errori, fossero stati i più sciocchi come la preparazione tradizionale del tè o quelli più seri come una cattiva risposta data con astio e sarcasmo e mancanza di rispetto. Lei aveva incarnato molto meglio di Keitaro, che in quella famiglia c’era nato, lo spirito dei Morisaki. Per tutto questo, perché lei era stata a suo modo onesta nei suoi confronti, accettò d’incontrare quello sguardo affilato.

«Non serve un nome per dimostrare di essere un Morisaki: ce l’hai dentro da che sei nato.»

«Io ho smesso di essere un Morisaki.»

«Potrai avere un altro nome, come le azalee, ma la radice è quella. Te la porti negli occhi, come tuo fratello.»

«Noi abbiamo gli occhi di mamma, e lei è una Yamaguchi.»

«La radice di cui parlo non è nel colore, ma nella luce che vi brucia dentro.»

La sua era sempre stata aggressiva, quella di Yuzo nascondeva la reale pericolosità dietro tutte le bugie che aveva costruito, e poi c’era quella di Akio che sembrava essersi spenta. Lui però ricordava com’era stata, e anche se non voleva, c’era più di qualcosa ad accomunarla alla sua e a quella di suo fratello. Tutti gli aspetti più negativi.

«N-nonna? Cosa fai qui di pomeriggio?»

La voce di Hisako s’intromise, titubante. Li guardava stringendosi i quaderni al petto, e spostava gli occhi dall’uno all’altra.

«Volevo scambiare due parole con tuo cugino. Aspettami pure in macchina, bambina mia.»

Hisako rivolse a lui un’occhiata di mortificazione e poi abbassò lo sguardo. «Sensei…» disse solo, e andò via in fretta.

«Se non lo avessi capito è l’ultima figlia di tua zia Kozue.»

«Non è troppo giovane?»

«È arrivata inaspettatamente, in tarda età.»

Shuzo sogghignò. «Rovinando i piani di famiglia? Che peccato.»

«Non c’è nessun piano nella tua famiglia.»

«Nella vostra. Non mischiarmi alla feccia, me ne sono chiamato fuori.»

«Non è mia intenzione farti cambiare idea nei nostri confronti. A odiarci hai tutte le ragioni, però… Yumeko mi ha detto che sai preparare il tè alla maniera tradizionale. Non ne eri mai capace quando ero io a insegnartelo.»

«Non sopportavo i tuoi metodi e sbagliavo di proposito.» La realtà era che i suoi metodi lo intimorivano e finiva col farsi prendere dal panico e sbagliare. Le aspettative che leggeva negli occhi delle persone avevano già iniziato a schiacciarlo come uno scarafaggio.

«Ora però non sei più un bambino. Potresti passare alla minka, una volta o l’altra, mi piacerebbe assaggiarlo.»

La risata di Shuzo acquisì un abbozzo di sonorità. «Il padrone di casa non approverebbe.» Si volse, convinto che fosse uno scherzo, ma Akina restava sempre compita nelle sue espressioni granitiche che ben poche volte avevano mostrato una chiara apertura emozionale. Lui credeva che anche le parole gentili come quell’affettuoso ‘bambina mia’ verso Hisako fossero solo menzogne. In quella serietà, però, più che inganni lesse una verità che non comprese, perché sommersa da non detti e dal tempo che era trascorso e si era depositato.

«Non esistono più padroni, Shuzo.»

Akina se ne andò, con i suoi passi stretti dal kimono. Dopo essere stata la prima a dirgli ‘ciao’ ora era la prima a dirgli ‘arrivederci’, lasciandolo indietro a pensare che in quella proposta ci fosse molto di più del desiderio di una chiacchiera frivola mentre si preparava del tè.

Era appena stato invitato ufficialmente a tornare nella casa di famiglia dopo esserne stato bandito all’età di dodici anni; nello stesso momento, il dolore della solita radice si era fatto ancora più acuto e incomprensibile.

 

“È un buon giorno per essere,

un buon giorno per me,

un buon giorno per vedere i miei colori preferiti.”

 

Colors – Black Pumas

 

 


 

 

Note finali: …un figlio che affronta i vecchi fantasmi cui non riesce a essere del tutto indifferente, e un padre che forse inizia a capire come vedere attraverso i suoi più vecchi nemici, che magari nemici non sono più.

Essere perfetti e impeccabili ha smesso di essere la priorità, e forse non ha mai davvero importato granché, perché pur nelle imperfezioni è l’onestà di sé stessi ciò che conta.

Tutto si risveglia, poco alla volta assieme alla primavera, e fa tremare le radici. <3

 

E noi, nel frattempo che questi due sciocchi si dannano, siamo giunti a metà storia. :3

 

 

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Capitolo 7
*** VI: A volte ritornano ***


Roots - Capitolo 6

 

 

 

- VI: A volte ritornano -

 

Nel dormiveglia allungò la mano in cerca di contatto, ma scivolò sulle lenzuola vuote.

Mamoru aprì un occhio alla volta perché intontito dal sonno, ma sentire il letto freddo dal lato di Shuzo aveva acceso un allarme, tra i mille che di solito restavano in stand by.

Quando riuscì a forzare la stanchezza di un riposo che era già stato incrinato e ora si era spezzato del tutto, ebbe la certezza di essere da solo.

Il pallore della notte filtrava appena e affettava le coperte in righe più chiare e più scure che restituivano forme facili da interpretare: gonfie dalla sua parte, piatte da quella di Shuzo.

Mamoru contrasse le sopracciglia e si alzò, sbadigliando così tanto da farsi spuntare le lacrime. Adagio si mosse dalla stanza al corridoio senza neppure infilare le ciabatte. Ma il bagno aveva la porta aperta e tutto spento e allora si affacciò nella zona living.

Ammantato dalla luce della luna che entrava dal balcone come un faro puntato sul divano, Shuzo restava seduto con la testa reclinata all’indietro e gli occhi chiusi. I piedi poggiati contro il bordo del tavolino basso su cui giacevano una ceneriera con un paio di mozziconi e l’odore del fumo ancora nell’aria, la bottiglia di Kuromori che avevano aperto a cena – e che ora era a meno di metà – e un calice in cui il vino sporcava solo il fondo, raccolto in tre gocce. Un altro calice era davanti al butsudan aperto.

Mamoru sospirò. Per quanto si fosse aperto agli altri e a lui, Shuzo manteneva sempre una parte ingombrante della propria riservatezza che funzionava come e meglio d’una cassaforte. Dentro vi chiudeva il peggio che poteva provare, quello che più delle altre cose lo destabilizzava e metteva in difficoltà. Lui ci combatteva da tempo per riuscire a forzare anche quella serratura, ma doveva essere sia a doppia mandata che a combinazione; non sarebbe bastato un semplice grimaldello né un ladro esperto. Ci volevano tempo e pazienza.

Raggiunse il divano in passi lenti e nel vedergli l’espressione tanto quieta, pensò di avere entrambi e che prima o poi lì dentro ci sarebbe entrato.

Allungò la mano con il desiderio di fargli una carezza e svegliarlo con calma, dirgli di tornare a letto, ma il polso venne afferrato con presa rapace che gli provocò una fitta di dolore. Gli occhi di Shuzo saettarono, vigili in un istante, illudendo che non si fosse appisolato per i momenti necessari a non riconoscerlo e a preparare tutto il corpo alla difesa.

Mamoru si augurò che gli dèi benedicessero sempre l’istinto di Malerba, la sua reattività aggressiva che a volte lo faceva sobbalzare con estrema teatralità e altre lo metteva sull’attenti come un soldato dei reparti d’assalto. Anche se era riuscito a tenere in ombra la parte agguerrita, quando era nervoso tornava alla carica.

E Shuzo era teso da giorni, settimane. Mamoru se n’era accorto, e si era accorto di come avesse sviluppato una certa simbiosi con il cellulare – che teneva accanto a sé, sul divano, anche in quel momento – quando prima era solito guardarlo un paio di volte al giorno o addirittura dimenticarselo. Adesso lo teneva sempre in tasca. Se all’inizio aveva addotto la cosa a qualche impegno di lavoro con la Scuola KadouEnshu per cui avrebbe dovuto essere reperibile, ora il reale motivo gli pareva chiaro.

Shuzo, però, restava un testardo che si confidava a metà e negava l’evidenza.

«Scusa, non ti avevo…» Malerba addolcì la presa, la trasformò in carezza che scivolò nel palmo e intrecciò le sue dita. Anche negli occhi e in viso si vide che l’animale feroce aveva ceduto il posto a un’espressione più mite.

Mamoru prese posto al suo fianco e non lasciò andare la mano, ma passò la punta delle dita tra i capelli e la tempia.

«Non dormi?»

«Avevo bisogno di bere un goccio con mio fratello.» Shuzo accennò al butsudan.

«Più di un goccio, direi. E poi in piena notte e a stomaco vuoto?»

«Dovevo scusarmi.»

«Di cosa?»

Shuzo abbassò il viso, si prese del tempo, e Mamoru glielo leggeva nei gesti che la risposta sarebbe stata articolata abbastanza da volerla evitare. Da parte sua avrebbe potuto dirgli che, se non avesse voluto, non avrebbe dovuto parlargliene per forza, ma i segreti erano amici che avevano scelto di non concedersi più. Si poteva omettere per un determinato limite di tempo, quello necessario a darsi il coraggio per affrontarlo, ma mentire e nascondere no.

«Tra i primini di quest’anno c’è una mia cugina.»

«Sei certo che sia-?»

«Una Yamaguchi di Nankatsu non è già una certezza di per sé?»

«Ti ha dato problemi?»

«Ma va. È una ragazzina, avrà sì e no appena finito il liceo. Semmai sono io a farla cacare sotto. Vedessi come va in panico quando le chiedo qualcosa o mi metto accanto a lei a osservare cosa fa. Lo ammetto: ne sono consapevole e lo faccio di proposito. Sono un maestro di merda.» Shuzo mostrò i denti in una sghignazzata maligna e sollevò le sopracciglia più volte. Scese i piedi dal tavolino e si allungò, il chiaro intento di versarsi un nuovo mezzo bicchiere, ma quando le dita toccarono il vetro, esitarono e non strinsero. Si limitò a spostare la bottiglia da un punto all’altro. Alle mani fece trovare una sorta di tregua solo intrecciandole tra le ginocchia.

«Il problema è che spesso è venuta a prenderla mia nonna. Akina.»

«Tua nonna paterna?» comprese Mamoru nella tensione con cui pronunciò il nome e poi nello sguardo affilato che gli rivolse.

«Non la vedevo da… occazzo, quanto? Più di vent’anni. Da quando mi hanno estromesso dalla famiglia e dalla minka non l’ho praticamente più incontrata.»

Mamoru serrò le labbra e prese un respiro profondo, cercò di nuovo la sua mano e la strinse con determinazione. «Qualsiasi cosa ti abbia detto non darle retta. I loro rancori non hanno importanza.»

Shuzo inclinò leggermente il capo.

«Aw, gioia. Quanto sei carino. Per il tuo compleanno ti regalerò una bella armatura scintillante. Vuoi anche un cavallo bianco?»

«Idiota.»

«Meglio un pony.»

Mamoru mollò la presa e gli diede una manata sulla spalla. Shuzo lo afferrò per il bavero della maglietta e lo tirò in avanti per rubargli dei baci affettuosi, distanti da quelli con cui erano soliti divorarsi a vicenda. Gli stava dicendo che aveva compreso le sue intenzioni, ma Shuzo era più bravo a fare il serio quando si trattava di incazzarsi che nel romanticismo. Anche se stizzito, Mamoru gli concesse di essere stupido e si prese quelle labbra che sapevano di vino.

Negli occhi, Shuzo aveva una luce stranamente quieta che non si sarebbe aspettato, visto che stavano parlando della sua famiglia. Avrebbe detto fosse malinconico, non arrabbiato.

«Nonna mi ha invitato a tornare alla minka

Mamoru drizzò la schiena, Shuzo appoggiò la nuca contro la testiera del divano e rilasciò un lungo respiro.

«Ha detto che non importa il nome che ho sulla carta, essere un Morisaki è una questione genetica, e io ho dimostrato di possederne tutte le qualità. Nemmeno fosse un quiz a premi o un test.»

«Si è scusata con te?»

«Se intendi una frase come ‘scusa, ci siamo comportati una merda’, no, non è mai stata il tipo da fare retromarcia sui propri errori, ma era tra le righe.» Girò la testa per guardarlo e negli occhi, illuminati dalla luna, c’era ancora quella tiepida malinconia che non arrivava a scaldarsi fino a diventare collera. «Sai da quanto tempo manco dalla minka? Venticinque anni. Yuzo avrebbe sempre voluto che un giorno potessimo riunirci tutti sotto quel vecchio tetto di legno. Avrebbe voluto che le cose potessero tornare a come erano state prima, quando eravamo bambini. Ed è per questo che dovevo scusarmi con lui… perché non ho la minima intenzione di rimettere piede in quel cesso. Gli anni che sono passati sono troppi perché un invito a caso possa cancellare ciò che è stato e che ho vissuto. E i ricordi di quando ero bambino non hanno poi tutto questo splendore. Per Yuzo era diverso, ma io lì non mi sono mai sentito a mio agio. Lui era abbastanza ingenuo da credere che ci fosse della bontà in quelle persone, dell’onestà. Io so che sono dei rancorosi di merda e non potrei mai fidarmi dei loro ripensamenti, adesso. In una parte della mia testa, ci sarebbe sempre quella fottuta vocina che direbbe ‘sono balle, stanno cercando di fotterti’. Lo penso anche di zio Tomohisa. È come se fossero degli estranei; nemmeno sapevo che zia Kozue avesse avuto un’altra figlia, pensa. Non so niente di quella famiglia, loro non sanno niente di me.» Shuzo prese un nuovo respiro profondo e si tirò a sedere stancamente. Questa volta, il vino se lo versò sul serio, scarse due dita. «Io non sono più un Morisaki né mi interessa tornare a esserlo, quella è una radice che si è seccata da tempo. Io sono Mori», aggiunse e negli occhi la malinconia era sparita, al suo posto c’era il cannibale con il suo sguardo feroce. «E la genetica può succhiarmi il cazzo.»

Buttò giù il vino in un solo sorso e alzò il bicchiere in direzione del butsudan.

«Scusa, fratello. Alla tua.» Appoggiò il calice, tappò la bottiglia e poi si alzò, barcollando leggermente da un lato. «E dopo questa bella dichiarazione d’amore, posso anche tornarmene a letto. Ah, che fenomeno… domani c’avrò un cerchio alla testa. Ma che cazzo mi dice il cervello? Che c’ho ancora vent’anni?»

Mamoru seguì con gli occhi i suoi movimenti instabili. Anche quando voleva scusarsi, la sua famiglia riusciva ferirlo e a lui dispiaceva che, per quanto seccata, quella radice continuasse a restare lì come una specie di monito, ricordandogli quanto certi legami facessero male anche da morti.

Si alzò e lo raggiunse. Si fece passare un braccio attorno al collo per sostenerlo e stringerlo al tempo stesso, dargli la sicurezza della propria vicinanza.

«Davvero non perdoneresti nessuno di loro?»

Aveva il naso di Shuzo che gli sfiorava il collo e le labbra che vi lasciavano dei baci umidi. Si era appoggiato a lui, accettando il sostegno senza rifuggirlo come avrebbe fatto un tempo. I passi avanti c’erano stati, parecchi, ma a tutti capitava di scivolare un po’ sulle vecchie ferite.

«Forse sarei disposto a fare un’eccezione, ma dovrebbe essere convincente», disse Malerba, separandosi dal suo abbraccio per avvicinarsi al bagno. «Molto convincente.»

Mamoru si appoggiò al muro, sospirò. «Perché non lo chiami per sapere come sta?»

«Chiamare chi?»

«Lo sai.»

«E chi stava parlando di lui? Ho un sacco di cugini e zii, io, mica ruota tutto attorno ad Akio. E poi chiamarlo perché? Non ho nemmeno il suo numero e quello sta meglio di me, te lo posso assicurare. Si starà solo rincoglionendo. Brutta bestia la vecchiaia. Spero di non fare la sua fine.»

Malerba si chiuse la porta alle spalle, sancendo la fine della loro conversazione e lasciandolo fuori a contemplare la sua testardaggine e le sue menzogne.

 

§

 

Yumeko e Rina si erano ritagliate un giorno alla settimana in cui si vedevano anche con le altre mamme della vecchia Nankatsu, proprio come quando i loro figli erano stati dei bambini che iniziavano a giocare e a costruire i primi legami importanti. Nessuno di loro – tra adulti e ragazzi – sapeva che se li sarebbero trascinati nel corso degli anni, facendoli divenire una parte solida della loro vita.

Era più corretto dire che Yumeko era stata reintrodotta in quei pomeriggi frivoli e di allegria dai quali si era allontanata dopo la morte di Yuzo. Affrontare persone che non facevano che ricordargli suo figlio era stato troppo doloroso, ma ora la sofferenza era stata compresa, superata, accettata. E tornare a parlare dei loro ragazzi, dei ricordi di quando erano stati bambini aveva lasciato solo il sapore della malinconia sotto i denti e un dolore che si poteva sopportare. Ai ricordi di Yuzo, aveva iniziato ad aggiungere quelli di Shuzo e poter parlare di entrambi i suoi figli era stata una liberazione.

Era da uno di questi pomeriggi passati a scambiarsi ricette e consigli che Yumeko stava rientrando. Il passo sostenuto ma non affrettato, lo spirito leggero e la testa piena di chiacchiere. Si sentiva rilassata. Una sensazione di cui era divenuta pienamente consapevole solo negli ultimi due anni, quando aveva realizzato che la notte dormiva bene e la mattina si svegliava riposata. Fin da quando erano iniziati i primi problemi con Shuzo, il suo riposo era stato frammentato. Di notte, soprattutto: Yumeko, anche se addormentata, restava vigile e le bastava un rumore più forte degli altri per farle spalancare gli occhi. Il timore che il telefono squillasse in piena notte. Il terrore.

Poi, un anno e mezzo prima, una mattina si era svegliata e si era sentita riposata. E dopo aveva realizzato che era accaduto anche il giorno precedente e quello prima ancora, e così a ritroso.

La serenità era tornata quando ormai si era rassegnata a dover convivere con quello stato di ansia perenne. L’unico neo era che la propria tensione fosse passata a suo marito: adesso, chi aveva smesso di dormire era Akio, chi persisteva in uno stato di ansia era Akio, chi accusava dolori di stomaco, era iperteso e con le palpitazioni era proprio Akio. Suo marito, la sequoia dei suoi ricordi, aveva dimostrato di possedere uno spirito logorato dal tempo, dalle acredini e dagli eventi. Era lui che non riusciva a trovare pace né serenità. Anche se forse l’ultimo periodo… questione di quanto? Due mesi circa o forse più? Ecco, in quegli ultimi mesi le cose sembrava stessero cambiando anche per Akio. Da che la sua mente sembrava sempre troppo lontana e distratta, a poco a poco qualcosa era cominciato a riemergere. Una maggiore concentrazione e presenza, positività, voglia di fare che non fosse legata al lavoro. Akio si era trovato un hobby, ed era stata la prima cosa che non avrebbe mai creduto possibile in uno come lui, che gli hobby li aveva sempre considerati solo dei riempitivi tra le pause lavorative o proprio una perdita di tempo. Ora, giusto quell’hobby che, a quanto pareva, il medico gli aveva imposto di trovarsi, lo stava tirando via dagli abissi di sé stesso in cui era sprofondato come fossero state sabbie mobili. Ma un tipo come lui, non poteva affidarsi a un hobby qualunque.

Quando le aveva detto di essersi iscritto a un corso di ikebana erano trascorse già tre settimane e nove lezioni. Non aveva saputo che rispondere a quella rivelazione straordinaria, aveva però guardato suo marito negli occhi e lo aveva visto diverso. Il suo cambiamento era iniziato da tempo, graduale e lento, misurato in ogni passo che a volte aveva dovuto ripercorrere più volte per farlo diventare parte del cammino. Aveva preso a parlare un pochino di più, ad aprirsi a rivelazioni impensabili ogni tanto, e poi a tornare a nascondersi nelle proprie frasi che dicevano il necessario, ma non tutta la verità. Poi d’un tratto, era cambiato ancora.

Yumeko aveva provato a immaginarlo con dei rami tra le mani, delle foglie, dei fiori; che chiamava le cose con il loro nome, che creava. E ad ogni pensiero, l’immagine di Akio si fondeva e sfumava con quella di suo figlio, l’artista. Ne aveva pianto senza farsi vedere, chiedendosi cosa avrebbe mai pensato Yuzo, quanto sarebbe stato felice di vedere suo padre cercare di andare incontro a suo fratello affrontando proprio lo scoglio più grande di tutti e scoprire che la radice rimaneva la stessa, a dispetto delle distanze o colpi di scure.

La radice che univa Shuzo a suo padre era lì, viva, forte, pulsante.

Ci stava pensando ancora quando il telefono le vibrò tra le mani, cogliendola di sorpresa. Lo aveva controllato fino a qualche istante prima per vedere gli orari dei bus e poi non l’aveva più posato. Si sorprese ancora di più quando lesse il nome di Mamoru sul display.

«Mamoru-kun?»

– Yumeko-san, la disturbo?

«No, affatto. Pensa, ho da poco salutato tua madre.»

Mamoru rise: – Non lo dica a suo figlio o penserà che stiate ‘complottando’ qualcosa.

«Avrebbe ragione. Lascia che ci tema un pochino», rise anche lei. «È tutto a posto?»

– Sì. In realtà la chiamo per sapere se domattina potesse dedicarmi qualche minuto. Passerò per Nankatsu, le andrebbe di bere qualcosa insieme? Avrei bisogno di parlarle…

«Certo. Di cosa si tratta?» per istinto, Yumeko aveva portato una mano al petto.

– Di Shuzo e suo padre.

Yumeko rilassò le spalle nel sentire tirare in causa anche Akio. Era certa che qualcosa si sarebbe smosso, prima o poi. Shuzo non era uno sciocco e anche se aveva infarcito di commenti più o meno pesanti le sue osservazioni si era accorto che qualcosa non andava. Qualche domanda vaga, presa alla larga, una battuta: si era informato con costanza e discrezione, credendo di poterle far credere che non gli importasse. Forse sì, pensare di ingannarla era stato da sciocchi, ma non era quello il punto. Yumeko aveva pensato spesso che il cambiamento che Akio stava affrontando non sarebbe potuto rimanere nascosto troppo a lungo. Alla prima cena insieme, al primo incontro tra suo marito e suo figlio qualcosa avrebbe finito con lo sfuggire di bocca. Parlarne con Mamoru, forse, le avrebbe permesso di condividere il peso e magari avere qualche buon consiglio.

«Ma certo. Va bene se ci vediamo per le undici alla Sala da tè ‘Umino’

– Perfetto. Grazie, Yumeko-san.

«A domani.»

Chiuse la chiamata con il sorriso sulle labbra. Era serena nonostante i nodi minacciassero di venire al pettine o forse proprio per quello. A differenza di suo marito non aveva paura che la bolla esplodesse; tante di molto più terribili le erano scoppiate tra le mani, ne avrebbe portato i segni per sempre. Quella, invece, doveva esplodere, era nata apposta, e qualcosa le diceva che non ci sarebbero state vittime. Era una sensazione forte, a dir poco una convinzione. Akio e Shuzo avrebbero fatto collidere i loro mondi e qualcosa sarebbe nato, dopo; nulla sarebbe morto.

Mise via il cellulare e nella borsa frugò alla ricerca delle chiavi. Ci mise un po’, non facevano che perdersi tra il portafogli, i fazzoletti, l’ombrellino, il portamonete e tutta quella serie di cose all’apparenza inutili, ma che finivano per trovare la necessità nei momenti impensabili – e sempre quando di solito non si portavano mai – come una spilletta da balia o un rotolino di filo con l’ago. Nonostante lei fosse sempre stata una donna abituata a fare affidamento su una governante, aveva sviluppato – grazie a quest’ultima – una praticità poco da ‘ricca’. Era certa che la sua borsa non aveva niente da invidiare al contenuto di quella di una mamma qualunque. Aveva anche i cerotti!

Quando sollevò lo sguardo, dopo essersi fermata davanti al cancello, la sagoma scura della macchina di Akio fu la prima cosa che i suoi occhi catturarono. Yumeko ne rimase sorpresa, guardò l’orologio: appena le sei del pomeriggio, era troppo presto perché suo marito fosse già rientrato dal lavoro.

Entrò nel cortile, richiudendo il cancello in tutta fretta. Come di fretta entrò in casa.

«Akio?» chiamò, appoggiando le chiavi nel portaoggetti accanto alla porta d’ingresso. Nessuno rispose.

Yumeko lasciò la borsa a terra, tolse le scarpe. Quelle di suo marito erano lì, segno che era tornato davvero.

«Sei rientrato presto. Akio?» Alzò la voce, chiamò ancora, magari era nello studio o nella sala da pranzo, ma ancora una volta le rispose solo il silenzio.

Il primo pensiero fu che non si fosse sentito bene al lavoro, anche se ultimamente aveva riposato meglio e i dolori che lo avevano assediato per mesi si erano attenuati in maniera drastica.

Yumeko andò spedita nello studio, ma era vuoto, e allora raggiunse la cucina, però non c’era nessuno neppure lì. Se si era sentito male, magari Akio si era messo a letto, così decise che si sarebbe affacciata prima alla sala da pranzo e poi sarebbe salita al piano superiore. Ma quando fece capolino e vide le tende della portafinestra oscillare a un lieve filo di corrente, si accorse che era aperta. A passo incerto la raggiunse; non si era neppure tolta il trench lungo al ginocchio, sotto cui si apriva la svasatura di una gonna plissettata che le sfiorava la caviglia. Appoggiò una mano allo stipite, con l’altra tenne la tenda. Fuori c’era ancora la luce della sera che si intratteneva un po’ di più nel cielo di maggio. L’aria aveva un odore buono, ed era insieme coda di primavera e presagio d’estate. Gli occhi trovarono quasi subito la porta della serra aperta e ombre che si muovevano dall’altra parte dei vetri smerigliati. Luci accese, poi spente, poi accese di nuovo. L’eco di qualche rumore e musica soul indietro con gli anni; la valigetta degli attrezzi era aperta e abbandonata come fermaporta.

Aveva colto più volte Akio nella serra. Ci andava attirato da una forza invisibile come non era mai accaduto da che l’aveva comprata per i suoi figli. Quando Yuzo era stato ancora vivo e Shuzo faceva già dentro e fuori dal riformatorio, Akio c’era stato sì e no due volte, dimostrandosene per lo più disinteressato, poi infastidito e infine come se neppure esistesse nel cortile. Non sapeva quando fosse accaduto che il richiamo verso quel dimenticato passato fosse diventato tanto forte da attirarlo a sé una, due, tre volte. Poi quattro, cinque e chissà quante ancora si era chiuso lì a pensare, domandare, capire.

Yumeko indossò le ciabatte da esterno e camminò per l’erba sistemata di fresco dal giardiniere; era passato da un paio di settimane, aveva anche sistemato il melograno nonostante fossero in ritardo – di cui Akio aveva tenuto alcuni rami. Vederlo gironzolare attorno al signor Oishi, mani dietro la schiena e poi nelle tasche cercando di dissimulare il reale interesse, salvo poi spulciare tra i rami tagliati, era stato buffo. Forse il signor Oishi, tra le occhiate perplesse che gli aveva lanciato, aveva pensato fosse impazzito di colpo; lei aveva ridacchiato a ridosso dei vetri, ma non aveva detto nulla. In passato, Akio si sarebbe mosso con tutta la sicurezza di un carrarmato prendendo ciò di cui aveva bisogno, incurante del resto, ora cercava di fare poco rumore, essere discreto, mentre tentava di acquistare confidenza anche con quel nuovo mondo che aveva accettato nella propria vita. Un mondo che forse nessuno dei due pensava potesse travolgerlo con così tanta energia. Yumeko se ne rese conto quando si affacciò nella serra e si trovò a sgranare gli occhi, restare a bocca aperta.

Via la polvere, via la terra, via resti sbeccati di vasi spezzati o attrezzi arrugginiti dal tempo.

Nella serra c’era luce calda che pioveva da tre grandi lampadine appese in maniera alternata dalla trave principale che collegava le due parti della struttura. Il filo elettrico girava attorno alla trave di legno e poi scendeva lungo la facciata, ma non era ancora stato sistemato a dovere. Alla trave erano stati appesi dei vasi dalle felci rigogliose, le cui fronde, lunghe e pesanti, ricadevano verso il basso. Altre, in vasi di terracotta, riempivano le scaffalature attorno. Una Caesalpinia che ricordava dal giardino della minka dei Morisaki – e anche quella che suo marito aveva regalato a Kumi e Mamoru per la riapertura del locale – era stata messa nella posizione più centrale, quasi le fosse stato conferito un posto d’onore sulla parete principale della serra. Poi bocche di leone lilla, delle roselline chiuse in boccioli gialli, fiori di cosmo arancioni come il tramonto, crisantemi in attesa dell’autunno, gerbere abbaglianti. E più lontano, sulla parete di fondo, piante grasse di cui non conosceva i nomi, ma dalle spine spesse e altre senza. Potevano essere una trentina di piante in tutto, quindi gli spazi vuoti erano ben più della maggior parte, ma avevano ridato colore e vita a un ambiente lasciato morire per anni interi. Era bastato poco e Akio l’aveva fatto risorgere.

Lo cercò con gli occhi e lo trovò in piedi sulla pietra del piano da lavoro al centro della serra. Gli era stato tolto il grosso dello sporco e del tempo, ma doveva ricevere ancora la passata finale. Suo marito era allungato verso la trave, stava sistemando il filo elettrico di un’altra serie di lampadine più piccole di un dito e destinate a essere decorative. Sembrava stesse ricercando quanta più luce possibile, dopo aver vissuto nel buio per anni. Ai suoi piedi il cellulare disperdeva musica, e a terra vasi da ikebana freschi d’acquisto, sacchetti vari di terriccio, attrezzi da giardinaggio, cocci per i rinvasi e i rami recuperati dalla potatura del melograno.

«Dove sono appena entrata?» chiese, avanzando di un paio di passi. Si fermò accanto alla lunga scala aperta poco distante dall’ingresso.

Akio trasalì, abbassando lo sguardo. «Sei già qui?»

«Lo chiedi a me? Sei tu quello che è ‘già’ rientrato.»

Akio passò le mani sul paio di jeans e poi le puntellò ai fianchi; Yumeko glieli aveva visti sempre di rado addosso, troppo moderni e poco giapponesi per il lavoro che faceva; troppo casual. Alzò lo sguardo al lavoro incompleto.

«Speravo di terminare prima del tuo arrivo. Ma immagino ci voglia un po’ più del previsto. Non sono mai stato molto bravo con queste cose; Ryuusei era più pratico di me.»

«Tu hai una manualità diversa.»

«Dici?»

Yumeko accennò col mento verso i vasi da ikebana. «Chiedilo a loro.»

Akio sbuffò un sorriso a labbra chiuse e poi scese adagio dal ripiano. Si avvicinò e Yumeko poté vedere da più vicino i capelli spettinati che avevano bisogno di una spuntata, la camicia bianca dalle maniche tirate fino ai gomiti macchiata dalla polvere e dalla terra. Ma, soprattutto, osservò la noncuranza con cui Akio si mostrava in disordine, anche se era solo ai suoi occhi.

«Da quanto sei qui?» domandò infilando le mani nelle tasche del trench.

«Ho staccato per pranzo e sono andato a fare un po’ di shopping. Si dice così?» Akio guardò alle proprie spalle. «Sono passato dal solito fioraio, mi sono fatto dare qualche consiglio.»

«E lo hai svaligiato.»

«Ho esagerato? Non ti ho nemmeno chiesto se potessi usarla. La serra, dico.»

«Perché avresti dovuto chiedermelo? È tutta tua. Yuzo sarebbe stato felicissimo di vederti qui dentro.»

«Shuzo no, immagino.» Akio abbassò lo sguardo e poi lo spostò alla scala; vi poggiò contro la mano. «Shuzo non credo che ne sarà contento.»

«Shuzo si arrabbierà qualunque cosa tu farai, lo sai questo.» Yumeko tolse l’impermeabile e lo appese alla maniglia della porta della serra. «Quindi fai quello che senti sia giusto, non pensare a cosa dirà lui. Sulle prime, ti risponderà sempre male, perché stai andando contro le sue aspettative e visto che non sa come reagire, si arrabbia.»

«No, sì, questo lo so, ma-… ehi, che fai? Attenta, così ti sporchi!» Akio strinse le mani attorno alla scala, mentre lei saliva piano i primi pioli. Abbandonata sulla sommità c’era un’altra felce.

«Ti do una mano, non vedi? Completiamo la fila.»

Imperterrita salì ancora. Sporcare un vestito non era importante, quando si trattava della sua famiglia. Si era sporcata tante volte con Yuzo e Shuzo quando erano piccoli, tra parole, fatti e piante, ma mai con Akio. Le loro parole erano sempre state troppo pulite, asettiche, e l’unica volta che avevano vomitato fango era finita a minacce e fedi lanciate addosso. Avrebbero potuto sporcarsi un po’ senza tirare fuori il peggio, ma il meglio che ancora avevano in riservo l’uno per l’altro. L’amore sporcava dappertutto, come una tela impiastricciata con le tempere, era così che parlava: a rimanere bianco e puro significava che non aveva avuto nulla da dire, nulla da creare.

«Attenta.»

«Ma sì, ma sì. Pensi che non sappia salire su una scala?»

Yumeko si allungò, da tempo non aveva più paura né del vuoto né di cadere, con tante volte che si era schiantata; appese la felce e osservò il risultato con un sorriso soddisfatto. Scese di qualche scalino e si fermò alla stessa altezza di Akio; ora poteva guardarlo negli occhi senza alzare la testa. Si addossò ai pioli; una mano a sostenere il viso.

«Verrà bella come in passato, stai facendo un buon lavoro.»

«Ma non è detto che serva a qualcosa.»

«Magari no se ti distrai a pensare troppo.»

«Perché credi abbia messo su della musica, altrimenti?» Akio guardò verso il cellulare e lei fece lo stesso, abbozzando un tono di sottile presa in giro.

«Hai imparato a usare YouTube

«Me lo ha insegnato Miyoko-chan. Io non sapevo nemmeno a cosa servisse; lei ha scaricato la applicazione sul mio cellulare, per fare questo e quello. Boh.» Agitò una mano e si massaggiò il centro della fronte.

Yumeko assottigliò lo sguardo e il sorriso.

«Miyoko la nuova segretaria?»

«Sì.»

«Quella giovane e carina.»

«E troppo ficcanaso. Non sono abituato a tutta questa tecnologia non necessaria. Odio avere il telefono ingolfato di inutilità.»

Akio non diede segno d’aver colto il tono che lei aveva usato. Yumeko scandagliò con attenzione tra le rughe che gli tagliavano i lati degli occhi in solchi profondi; non ricordava quando fossero comparse, mentre aveva memoria di quella che affondava al lato della bocca: nata fin da giovane per il vizio del fumo, era diventata ora una specie di ferita di guerra in cui leggere il tempo che era passato, e le vicissitudini, le distanze troppo nette e i riavvicinamenti silenziosi e discreti, i dolori. Attorno a loro, il pianoforte di Ray Charles.

«Hai mai pensato come sarebbe stato rifarsi una vita con un’altra persona?»

Akio sgranò gli occhi. «Che dici?»

«Magari con una ragazza così giovane. L’occasione di ricominciare da capo.»

«No.»

«Sei sicuro?»

«Sono sposato con te. Perché dovrei voler ricominciare da capo? Con una bambina che potrebbe essere mia figlia, per giunta.»

«Il fatto che tu sia sposato con me, non significa che sia ancora quello che vuoi.»

Vedere il panico guizzare nelle sue iridi la lusingò, ma durò un attimo e fu sostituito da una consapevolezza antica.

«Cosa vuoi dirmi?»

«C’è stato un periodo in cui io l’ho pensato. È stato tanto tempo fa, queste rughe qui ancora non c’erano.» Yumeko sfiorò la tempia, vicino la coda dell’occhio. «Ero così arrabbiata con te, così amareggiata. Non ti riconoscevo nella persona di cui mi ero innamorata. Quando hai picchiato Shuzo avrei voluto distruggerti con le mie stesse mani. E tutte le altre volte in cui l’hai lasciato andare, avrei voluto fare lo stesso con te: abbandonarti come se non me ne importasse niente. Ho tenuto duro solo per Yuzo, per non dargli anche questo dispiacere, però credo che l’amore non dovrebbe perdonare tutto. Eppure, ho continuato a perdonare te, chissà poi perché…»

Yumeko era convinta che la risposta fosse nel bacio che gli diede subito dopo. Un gesto che in passato – quando lei era stata una margherita e lui una sequoia – aveva ripetuto tante volte con naturalezza ed emozione. Avevano perso tanto nelle incomprensioni, nei sentimenti sbagliati, ma quelli che avevano radicati nel petto erano sopravvissuti lo stesso. Tutti i cuori erano nodi di radici. I nodi a volte facevano male e quel dolore poteva trasformare l’amore in odio. Altre volte rendevano sicuri e si desideravano come l’aria per non trovarsi persi nel mondo. E l’odio tornava a essere amore, e con esso quei piccoli gesti animati dai sentimenti giusti.

«Queste rughe ti donano», sorrise. «Non le ricordavo.»

«Non ci siamo più guardati in faccia da tanto…»

«Anche se l’avessimo fatto dubito che ci saremmo visti davvero.»

Nascosti dietro ciò per cui strenuamente combattevano: il proprio orgoglio, i figli. Ma ora non avevano più nulla da difendere: l’orgoglio era stato abbandonato e i figli erano cresciuti, morti e risorti. Restava solo l’amore, e quello aveva già perdonato da tempo.

Yumeko accolse Akio nel calore del proprio abbraccio, stringendo quel nodo che non si era mai voluto lasciare andare, nella gioia come nel dolore. Lei, ancora ferma sulla scala, Akio in piedi con la testa sul suo cuore; ne sentiva il respiro incerto che abbandonava ogni positività vera o presunta, per mostrare le ombre delle insonnie notturne. Mentre accarezzava l’argento sempre più presente nei suoi capelli, attorno alla vita avvertiva la stretta forte che non voleva solo abbracciare, quanto serrare allo stesso identico modo quel nodo, per paura che potesse rischiare di sciogliersi ancora. Quell’abbraccio le ricordò il tempo di una gonna a ruota, di vecchie biciclette e spruzzi di mare contro i frangiflutti delle spiagge di Fuji City.

«Mi sto solo illudendo, non è così? L’ikebana, la serra…» Il sussurro di Akio parlò direttamente al suo cuore. «Non mi perdonerà. Lui non mi perdonerà. Qualsiasi cosa faccia, sarà sempre troppo tardi e sempre troppo poco. Ho perso il tempo in cui avrebbe potuto valere qualcosa… O il tempo ha perso me troppo a lungo. Credevo di essere il migliore, ma non ero nessuno. E ho ferito i miei figli. Ho fallito, deiji. Che devo fare, ora?»

Akio chiuse l’insieme nascosto dei suoi pensieri con un lungo rifiato. Il respiro inquieto di un uomo che non riusciva a trovare pace né sapeva darla a sé stesso.

Yumeko poggiò la guancia sulla sua testa, lo tenne più stretto. «Tentare ancora.»

 

§

 

Mamoru era arrivato in anticipo sull’orario accordato e si era già fatto portare un tè matcha. Glielo avevano servito con tre piccoli mochi di gusti diversi. Ma Mamoru non aveva fame e neppure molta sete. Passava l’attesa a guardarsi le mani e poi la gente attorno che beveva silenziosa, conversava, gustava il proprio dolce o stava al cellulare. Il cellulare era la stessa cosa che faceva girare nella mano, senza guardarlo né riuscire a rilassarsi.

L’ansia che qualcosa di spiacevole potesse profilarsi all’orizzonte lo lasciava pensieroso.

Poco prima di metà mattinata, e con una scusa riguardo al frutteto, aveva lasciato il Kokoro ed era arrivato a Nankatsu. Shuzo non aveva più pensato alle questioni della sua famiglia o, almeno, questa era stata l’impressione che ne aveva avuto, ma considerando la bravura di Malerba nel tenersi dentro le cose, Mamoru non ci avrebbe messo una mano sul fuoco.

Parlando con Yumeko, sperava di trovare risposte a quelle domande che Shuzo si ostinava a non voler porre perché doveva fare l’orgoglioso e l’arrabbiato. Doveva far vedere di essere il più forte, quello che ne sarebbe uscito vincitore, mentre l’uomo aveva deposto le armi e restava a guardare senza fermare la sassaiola della vendetta.

Quando scorse la figura della madre di Shuzo, Mamoru si alzò in piedi per farsi vedere. Yumeko ordinò qualcosa parlando con la cameriera che l’aveva accolta, poi lo raggiunse rivolgendogli un sorriso che a volte gli dava un senso di déjà-vu tanto forte da stringergli il cuore. Ma era questione d’un attimo e la stretta virava in malinconia, diluita e accettata. In quel momento fu lo stesso: ricordò Yuzo nel sorriso della donna e il petto punse in maniera intensa.

«Scusi se sono arrivato in anticipo e mi sono permesso di ordinare, Yumeko-san.»

«Di che ti scusi, caro? Piuttosto, deve essere qualcosa che ti agita parecchio se sei arrivato tanto in anticipo. Aspetti da molto?»

«Cinque minuti.» Ma sarebbe bastata un’occhiata attenta al tè che aveva smesso di fumare per capire che i minuti erano stati minimo dieci.

«E cos’è che ti preoccupa? Shuzo sta bene? Immagino non sappia di questo nostro piccolo incontro.» Yumeko lo guardò da sopra la carta dei dolci. Lui abbassò lo sguardo e si fregava le mani.

«Sta bene, ma immagina giusto. Se glielo avessi detto sa che sarebbe successo.»

«Sì, lo so. Dei chinsuko, grazie», disse infine, rivolta alla cameriera che si era approcciata silenziosa come una farfalla. Un inchino e volò via di nuovo. «Questa sala da tè è molto buona, ma preferisco i dolci di Kumi», aggiunse Yumeko, nascondendo quella piccola confessione dietro le dita e un tono più basso.

Mamoru si rilassò e tornò a girare il tè ormai freddo per smuovere quel po’ di polvere matcha che si era depositata sul fondo.

«In verità sono varie le cose di cui vorrei parlarle, ma prima di tutto, vorrei la sua totale sincerità su quanto sto per chiederle: c’è qualche problema con Akio-san?»

Mamoru tentò di interpretare il lungo sguardo della signora Yumeko. Sperava di capire la risposta ancor prima che lei ammettesse, in modo da prepararsi al colpo. Ma la signora Morisaki alla fine sorrise.

«Shuzo ti ha detto della sera in cui ci ha incontrato all’izakaya

«Sì, e anche se non lo ammetterebbe mai per orgoglio, testa dura o solo stupido infantilismo, è preoccupato per suo padre. Molto. Crede che lei stia nascondendo qualcosa sulla salute di Akio. È così?»

Yumeko nascose le labbra dietro l’intreccio delle mani; gli occhi, adesso, le brillavano di aspettative. «Davvero è preoccupato? Avevo notato che chiedesse più spesso di lui, anche in maniera trasversale, diciamo. Si è convinto che non me ne sia accorta; lo fa sempre.»

«Da che lo abbandonava al mattino per riprenderlo solo la sera, ora porta il cellulare ovunque. Lo ha sempre in tasca e mi è capitato più volte, durante la giornata, di sorprenderlo a guardare lo schermo. Credo si aspetti una sua telefonata in cui gli dica di andare con urgenza in ospedale.» Mamoru si passò le mani nei capelli. «Dobbiamo aspettarcela sul serio?»

La cameriera-farfalla tornò di nuovo ed entrambi si allontanarono dal tavolino, su cui avevano finito per appoggiarsi e avvicinarsi, attirati da ciò che volevano sentire l’uno dall’altro. A dividerli una teiera fumante di vetro, dove le foglie galleggiavano in infusione, era moderna dal manico in metallo, e un piattino con i biscotti richiesti dalla signora Yumeko.

Seguirono ogni suo movimento con gli occhi e quando la farfalla volò via un’altra volta, non tornarono ad avvicinarsi.

Yumeko aveva le mani sulle gambe e lo sguardo sul tè; sulle labbra aleggiava un sorriso che cambiava forma di continuo: più leggero, più profondo. Mamoru non sapeva come interpretarlo ed era nervoso, ma prima che potesse incalzarla ancora, la piega delle labbra assunse un’espressione definitiva e il suo sguardo familiare tornò a parlare con lui.

«No, nessuna tragica telefonata in arrivo. State tranquilli.»

Mamoru non trattenne il sospiro di sollievo, tanto da socchiudere gli occhi. Quando li riaprì sentiva che il macigno avuto sullo stomaco era sparito. «E allora che sta succedendo?»

«La vita è venuta a chiedere il conto. Ce n’è sempre uno più o meno salato che ci aspetta. Akio credeva di aver già pagato il proprio, ma non era così e ha cercato di tenere tutto per sé. Lo sai, che non è un tipo molto loquace.»

Mamoru annuì.

«La morte di Yuzo e il ritorno di Shuzo sono stati un po’ i colpi di scure che lo hanno abbattuto: uno da un lato e uno dall’altro. Credeva di poterli affrontare, ma anche una sequoia come lui cade se le accettate sono così profonde.» Yumeko aprì la teiera, inspirò l’aroma che saliva con il vapore e poi riempì la propria tazza. «Non me lo ha mai detto apertamente, ma credo abbia un esaurimento.»

Mamoru non nascose la sorpresa riflessa nella schiena tesa. Un’altra maschera cadeva, rivelando tutta la fragilità nascosta. Dopotutto, se i suoi figli erano bugiardi cronici, da qualcuno dovevano pur aver dovuto prendere.

«Ha cercato di far fronte alla cosa in maniera piuttosto rozza e imbranata, con i risultati di cui sai già. Mio marito sta cercando un modo per riuscire a sistemare i propri errori, però sa di non poter riavvolgere il tempo. Vedere che Shuzo respinge ogni tentativo lo abbatte, e quando cerca di rimettersi in piedi, lui lo abbatte ancora. Sembra un po’ un gioco al massacro, non ti pare? Si massacrano a vicenda: per ogni passo avanti, lasciano un pezzo alle spalle; un braccio, una gamba, una mano. I propri nervi.»

«Credevo che avrebbero risolto. Si ricorda? Alla prima cena tutti insieme a casa dei miei, qualche anno fa… Credevo fosse il punto di partenza definitivo, e invece, in tutti questi anni…» Allargò le braccia, cadde a peso morto contro lo schienale della sedia. Era stata una delusione vederli restare sempre allo stesso punto, quando era chiaro cosa volessero l’uno dall’altro. Aveva creduto fosse tutta colpa del rancore di Shuzo, del cannibale. E invece era la paura: non avanzava più di così perché aveva paura di ciò che avrebbe ottenuto.

«Anch’io l’avevo creduto, ma sono così spaventati…» Sulla fronte di Yumeko comparvero delle rughe. Teneva la tazza con entrambe le mani senza decidersi di portarla alla bocca. «Si sono fatti del male tante volte, da non sapere come riuscire a farsi del bene. Lo vorrebbero, ma temono di rovinare tutto.»

«Sono uguali.» Stizzito, Mamoru aprì e chiuse il pugno. Padre e figlio sfoggiavano quella cocciutaggine come fosse stata un trofeo. E lui aveva solo insulti, lì, sulla punta della lingua. «Quei due sono davvero… In maniera imbarazzante! Due enormi…»

«…cretini.»

«Grazie per averlo detto.»

Mamoru perse un po’ d’acredine con la risata divertita di Yumeko. Gli tornò anche l’appetito, e allora afferrò un mochi. «Gliel’ho detto più volte di chiamarlo, ma Shuzo fa come al solito: nicchia, si arrabbia, impreca e dice che non gli importa niente. E si aspetta anche che io ci creda.» Mangiò il dolce in un solo boccone; sollevò un sopracciglio. «Ha ragione. Kumi è più brava.»

«Non sai quanto mi renda felice sapere che si preoccupa per suo padre…»

«Io vorrei che lo ammettesse una buona volta, invece di fare l’idiota orgoglioso! E poi…» Scosse il capo. «Sua nonna paterna lo ha fermato.»

Yumeko fermò a mezz’aria il gesto di portare la tazza alla bocca. La sorpresa disse che non ne era al corrente. «Dove?»

«Fuori della scuola di ikebana. Pare che una delle sue allieve sia la figlia di una sorella di Morisaki-san.»

«Di Kozue, sicuro. Cosa ha detto sua nonna?»

Mamoru prese un respiro profondo. «Lo ha invitato a tornare alla casa di famiglia.»

Ora, se possibile, la signora Yumeko era sconcertata. Appoggiò la tazza nel piatto senza averla neppure toccata.

«Ha detto questo?»

«Sì.»

«E Shuzo cosa…»

«Che i Morisaki non sono la sua famiglia. Non tornerà.» Che era un po’ il riassunto edulcorato del discorso che avevano avuto. Mamoru pensò fosse sufficiente il concetto, senza tutti i folklorismi.

«Non me lo sarei aspettato. Akina, sua nonna, è una donna molto dura. Più Morisaki di un Morisaki, mi verrebbe da dire. È una sorpresa.»

«Tra la situazione con Akio e quella inaspettata con sua nonna, Shuzo ne è uscito un po’… frastornato, ecco.» Per non dire smarrito.

«Oh, non deve preoccuparsi per suo padre. Le cose stanno andando meglio, e immagino possano solo migliorare. Forse, il tempo che stavamo aspettando non è più così lontano.» Yumeko aveva ripreso la tazza con decisione, questa volta bevendo un sorso di tè. Sorrideva più a sé stessa che a lui, e Mamoru non capì.

«Sta prendendo qualcosa?»

«Credo, anche. Ma, soprattutto, ha trovato un hobby.»

«Un hobby?» fece eco, inarcando un sopracciglio.

«Sì», sorrise ancora Yumeko, ed era tanto smagliante da non aver timore di snudare i denti. Se i figli avevano ereditato tutte le ombre del loro carattere dal padre, da lei avevano ereditato tutte le luci. «Un hobby.»

 

§

 

Intorno alle cinque di un pomeriggio di giugno, Shuzo si sentì abbastanza sicuro da passare per casa dei suoi senza che la minaccia di trovare Akio lo fermasse. L’insieme dei ‘no’ che lo animava era piuttosto aggrovigliato e si era ingrandito da quando aveva parlato con sua nonna.

No, non voleva incontrarlo.

No, non voleva che Akio lo vedesse a casa.

No, non voleva assistere a un’altra scena come quella dell’izakaya.

No… non voleva scoprire in che modo stavano davvero le cose.

Forse a tutti quei no, la risposta più semplice sarebbe stata non passare per casa, eppure, trovandosi a Nankatsu per recarsi alla scuola, Shuzo aveva scelto di fare quella deviazione.

E lì, invece, entravano in gioco i . Molti di meno e meno complicati, ma allo stesso modo forti.

, voleva vedere sua madre.

, voleva vedere la casa in cui era cresciuto.

… voleva chiedere come stavano le cose senza sbilanciarsi troppo.

La richiesta di tornare alla minka di famiglia gli aveva messo addosso un desiderio bislacco che era andato avanti per giorni.

Tornare a casa.

Vedere cosa ne ricordasse.

Vedere quanto fosse cambiata nel frattempo.

E al solito affrontò quella questione con troppa leggerezza e sicurezza di sé stesso, tanto da guidare sciolto fino alla città e parcheggiare, addirittura, sapendo esattamente dove avrebbe potuto lasciare l’auto. Con la stessa disinvoltura scese dalla macchina e si incamminò.

Poi mise piede nel quartiere e qualcosa cambiò all’istante. Alle caviglie trovò due blocchi di pietra e nella mente una pioggia di déjà-vu che non gli dava tregua, lo bombardava da tutti i lati con suoni, odori, immagini.

I ricordi.

I ricordi lo crivellarono come un condannato a morte e lui rimase immobile, tra le villette dai giardini ampi e parcheggi personali da due o anche tre macchine, tra le abitazioni a doppio piano e i tetti spioventi, il legno, i cancelletti. Qualche cane che correva ai recinti per abbaiare allo sconosciuto di passaggio e poi quiete. Un silenzio composto che era diverso da quello di Obuchi quando calava la sera. Questo era pervaso di buon’educazione, scuole prestigiose e aziende da centinaia di milioni di fatturato. Un silenzio che non doveva farsi notare e stare attento a quello che gli altri avrebbero detto. Il silenzio del vicino è sempre più silenzioso.

Shuzo prese una lunga occhiata del posto, girando la testa da destra a sinistra, e i suoi occhi erano cinepresa della vita: giravano la panoramica della scena prima dell’ingresso del protagonista.

Entrò in quel vecchio mondo di cui era sempre stato disturbatore seriale e, assieme al silenzio, iniziarono ad arrivare i nomi.

I Sugawara che avevano il Pitbull, ma ora c’era un pigro Akita Inu che sonnecchiava e non alzava neppure la testa. I Manojirou e i Todashi; si erano poi sposati i figli? All’epoca della sua fuga dal quartiere si frequentavano già. I Sakurazuka in fondo alla strada con il grande cancello di legno dove non si riusciva a vedere niente di niente dell’interno, e poi… la casa della vecchia Saito, due abitazioni più in là rispetto quella dei suoi. Chissà chi ci viveva adesso. Shuzo si fermò, e nel momento in cui se lo chiese vide proprio quel cancelletto aprirsi e una signora con due bambini uscire, chiudere l’uscio alle proprie spalle e poi prendere la direzione opposta alla sua.

Si era forse aspettato che il tempo non sarebbe passato? O forse aveva sperato che potesse stravolgere tutto tanto da cancellare ogni residuo di ricordo per sovrascriverlo con altri nuovi di pacca?

Shuzo sospirò e quando guardò alla propria destra la sua casa era lì, dopo ventidue anni, con la sua struttura sempre uguale, con i suoi colori sempre uguali e l’aura al contempo accogliente e spaventosa. Sempre uguale, anche quella. Uguale alle volte che aveva avuto paura di tornarci, uguale alle volte che vi sgattaiolava dentro di nascosto a notte fonda per andare a trovare Yuzo. Anche le piante, più o meno, avrebbe detto fossero uguali. Di sicuro, lo era quel melograno che spiccava florido e spuntato ad arte.

«È ancora lì, tu pensa…» abbozzò un sorriso e un po’ non ci credeva. Era passato troppo da quando lui e Yuzo l’avevano piantato, era stato convinto che Akio se ne fosse sbarazzato, avesse cambiato le cose. Invece il tempo era solo shiftato, lasciando una patina sottile del suo passaggio, mettendo qualche ruga qua e là. Casa si portava bene i suoi anni e, purtroppo o per fortuna, portava bene anche i ricordi.

Togliendo le mani dalle tasche del chiodo, prese coraggio e orgoglio e suonò il citofono. D’improvviso lo colse il dubbio che sua madre non fosse in casa; non le aveva telefonato per avvertirla, sempre preda di quella sciocca sicurezza che l’aveva portato lì tronfio tronfio. Adesso sembrava più un palloncino sgonfio che Malerba, il mezzo teppista, mezzo maestro, tutto idiota.

Chi è? – gracchiò una voce, interrompendo le solite paranoie.

Shuzo sorrise. «L’Uomo Nero, mamma.»

Ci fu un momento di silenzio e poi il clangore della porta che veniva aperta. Yumeko comparve sull’uscio in tutta fretta e con ancora addosso le ciabatte di casa avanzò per il vialetto di due, tre passi.

«Shuzo…?» Masticò una sorpresa che lo intenerì. Si strinse nelle spalle e si fece vedere bene.

«A volte ritornano.»

 

“Una volta ho voluto essere il più grande.

Né vento né cascate avrebbero potuto bloccarmi.

E poi venne la scarica del diluvio,

le stelle della notte si trasformarono in polvere.

Mi sciolsero in una grande armatura nera.”

 

The Greatest – Cat Power

 

 


 

 

Note Finali: …è tornato a casa <3

Penso non ci sia niente di più forte come la sensazione di tornare a casa propria. ‘Casa’ per me è sempre stato un luogo fondamentale; nel bene e nel male lo è anche per Shuzo. Quella sensazione di ritrovare il vecchio che si era lasciato alle spalle, un po’ timore, un po’ eccitazione. Tantissima malinconia.

Shuzo rimette piede a casa Morisaki dopo ventidue anni di assenza (l’ha lasciata definitivamente che di anni ne aveva 15 e ora sono 37 T^T).

È tornato in quella casa di cui Akio si sta finalmente prendendo cura, soprattutto di quell’angolo dimenticato che era la serra. Ha sfondato il muro del distacco, dell’odio. Lo ha preso a picconate e ci ha aperto un buco abbastanza grande per passarci in mezzo e iniziare a scoprire quel mondo che non aveva mai voluto conoscere.

E intanto, Shuzo è casa… sapete che cosa vuol dire? :3

Scopritelo la prossima settimana! :D  

 

 

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Capitolo 8
*** VII: Così vicini... ***


Roots - Capitolo 7

 

 

 

- VII: Così vicini... -

 

Se arrivare fino al cancello gli era sembrato difficile, riuscire a mettere piede in casa si rivelò un’impresa titanica.

Sua madre, dopo essersi sincerata che fosse davvero lui lì fuori, era rientrata per aprire e poi era corsa di nuovo all’esterno per accoglierlo, nemmeno fosse stato l’Imperatore in persona.

Shuzo si era trovato in difficoltà anche solo per fare i pochi metri del vialetto che univa il cancello alla porta. La berlina scura di Akio non c’era stata, quindi aveva calcolato bene i tempi. Dopotutto, nelle poche memorie domestiche che aveva, non ricordava mai che lui fosse tornato a casa prima delle otto di sera. Aveva poi guardato il melograno: ricco di foglie ed esplosioni vermiglie era apparso meraviglioso e se n’era compiaciuto, ma doveva essere tutta opera del giardiniere. Si era chiesto se fosse stato ancora il signor Inoue o magari suo figlio. Chissà.

«Che bella sorpresa mi hai fatto! Non ti aspettavo!» sua madre era euforica e lo precedette in fretta di qualche passo. In un attimo era di nuovo già sulla soglia. «Vieni, entra. Ti preparo del tè? Ho quello del Kokoro. Gyokuro o matcha

«No, ma’. Non ce n’è bisogno. Sono davvero di fretta, un saluto.»

In realtà, la sua idea era stata quella di prendersela con calma e fermarsi di più, ma una volta lì il desiderio di fuggire – come già accaduto in passato infinite volte – era tornato. Lo fece sentire di nuovo adolescente e intrappolato.

Shuzo si fermò fuori della soglia, sua madre già dentro.

«Stavi andando alla KadouEnshu?»

«Ho lezione e dopo c’è la cena annuale con i sensei delle altre scuole della zona.»

«Oh, capisco. Una serata impegnata e all’insegna della socializzazione, proprio come piace a te.»

«Ah, ah. Divertente. Tra te e Mamoru non so chi si sia sprecato di più in battutine a riguardo.»

Yumeko gli fece un altro cenno. «Dai, vieni. Almeno il tempo di un dolce ce l’hai, no? Ho anche del succo di frutta in frigo.»

«Ma quanti anni credi che abbia?»

«Abbastanza per continuare a bere del succo di frutta. Ti fa bene, l’ho fatto io con l’estrattore, mica è roba commerciale. E allora, vuoi entrare o te lo devo portare qui?»

Shuzo, le mani di nuovo affondate nel chiodo nero, prese un profondo respiro ed entrò.

L’odore di casa lo stilettò con un colpo dal basso verso l’alto. Lo sentì tutto e si fermò di nuovo al centro dell’ingresso dopo aver chiuso la porta.

Nei suoi ricordi, quell’odore era stato carico di miso; la signora Sonoko preparava la zuppa ogni giorno, a tavola non mancava mai, né a pranzo né a cena, se non in rare occasioni in cui magari mangiavano western food. A volte aveva avuto l’impressione che quell’odore avesse finito con l’impregnare le pareti, e magari aveva avuto ragione, perché anche se non dominante come un tempo, Shuzo fu in grado di sentirlo ancora. Odore di zuppa calda, tofu, alga wakame e brodo dashi. Forse lo stava solo immaginando.

«Sei ancora lì? Togli le scarpe e vieni in cucina!» Dal fondo del corridoio su cui si apriva casa, Yumeko si affacciò sorridente. «Ti ricordi, vero, come ci si arriva?»

«Non sono mica scemo, ma’», sbuffò Shuzo.

Scemo ci si sentiva, però, mentre era ancora fermo, con le mani nelle tasche, e ritto. Davanti agli occhi l’ingresso che si allargava, il corridoio che indicava le strade da prendere e le eventualità. Dove volevi andare? Cucina, salotto, studio, sala da pranzo, bagno? Oppure salire al piano superiore?

Dove vuoi andare?

Gli occhi di Shuzo puntarono la scalinata che portava alla zona notte. La guardò dal basso con insistenza, la stessa di quando fissi qualcosa che non dovresti vedere né desiderare, tanto non vi potrai accedere più. Eppure, dopo un attimo era lì, che saliva i gradini e le dita scivolavano sul corrimano. La sensazione del legno gli ricordò di quando lui e suo fratello andavano sempre di corsa, tra i rimproveri di Akio e quelli della governante. Ma loro sembravano sordi e nelle gare a chi arrivava primo non ascoltavano nessuno. Gli scalini li mangiavano due alla volta. Le scivolate che avevano preso quando scendevano e non guardavano le ricordò subito tutte; la ciabatta appoggiata male, il calzino che non faceva grip e le loro chiappe che imparavano a memoria lo stesso tragitto, costellandolo di lividi.

Sul piano, la luce entrava dalla finestra sul fondo e poi erano solo porte chiuse.

Camera dei suoi, la prima a destra.

Camera degli ospiti e degli armadi con i futon, i kimono di sua madre, quelli di suo padre e i loro, la prima a sinistra.

Camera della signora Sonoko la seconda a sinistra. Chissà ora per cosa veniva usata?

Camera sua e di suo fratello, la seconda a destra.

Shuzo la raggiunse con un passo che non faceva neppure rumore; il suo sguardo ipnotizzato dalla maniglia d’ottone, accompagnata poche volte e sbattuta tante. Yuzo spuntò dalla sua pancia, correndo con le gambe di bambino che già erano veloci e allenate, e lui dietro, sempre troppo lento.

Arrivò alla maniglia, la toccò.

Primo!

Non vale!

Sì, che vale! Sei tu che non fai sport! Perché non corri con me?

Sarebbero passati anni prima che fossero davvero riusciti a correre insieme e Yuzo sarebbe sempre stato troppo veloce.

Gli venne la nausea e serrò gli occhi. Era da tanto che non sentiva la mancanza fargli così male. Era stato capace di affrontare la sua tomba, di stare con Mamoru davanti a lui, di baciarlo davanti al butsudan e ora quell’assenza che era stato convinto d’aver digerito era tornata prepotente.

Prese un respiro profondo e quando riaprì gli occhi i ricordi non c’erano più e lui era fermo davanti alla porta. Girò la maniglia ed entrò in camera.

L’odore di Yuzo lo travolse. Fu uno shock.

Un’emozione che non avrebbe saputo chiamare per nome, la forza di un pugno dritto allo stomaco o un colpo di catena.

Shuzo si ritrovò schiacciato contro la porta chiusa e gli occhi gonfi delle lacrime che erano risalite troppo in fretta. Scivolò a terra, la mano premuta contro la bocca e respiri presi fino in fondo per sentirlo ancora, ubriacarsi di quell’odore familiare che gli mancava da una vita e ricordarsi com’era quando l’aveva avuto vicino dandolo per scontato o quando Yuzo lo abbracciava o cercava di provocarlo per fare la lotta. Dal letto finivano sempre a terra in un attimo. In quello, non era mai suo fratello a vincere, ma aveva sempre pensato che perdesse di proposito. Almeno quando erano bambini.

Shuzo affondò la testa nelle mani, le dita strinsero i capelli.

«L’avevamo superato o no? Cazzo, l’avevamo superato!»

E sapere che avrebbe dovuto fare una telefonata a Kido non lo riempì di gioia, ma quel pensiero lo aiutò a realizzare che lo era, anche se sul momento la prima reazione provata era stata di puro dolore. Ora invece sentiva meglio, se si fosse concentrato senza farsi prendere dal panico e dalla sorpresa, che tutto quel tracimare di emozioni era felicità.

Felice di sentire di nuovo l’odore di Yuzo, felice di aver ritrovato l’angolo di mondo in cui erano cresciuti insieme e poi si erano incontrati a singhiozzo. Fratelli con lo stesso cognome, sotto lo stesso tetto.

Dalla testa, le mani scivolarono di nuovo sulla faccia, massaggiarono le guance dove adesso c’era una barba scura e un po’ selvaggia. Il suo non era più il viso di un bambino e non lo erano gli occhi, che piangevano silenziosi nel focalizzare le scrivanie, i letti, i battenti chiusi del terrazzo.

Yuzo era ovunque, lì, nella stessa sensazione che aveva provato quando era arrivato al Mori no Kokoro la prima volta e i ricordi di suo fratello, la sua presenza, l’avevano circondato. Allora il suo era stato un benvenuto, questo invece era un caloroso ‘bentornato’.

«Ciao, fratello.» Sorrise e prese fiato.

La porta divenne un valido sostegno per tirarsi su e guardare dalla prospettiva dell’adulto il mondo che aveva abbandonato a quindici anni per tornarvi solo come sporadico clandestino. Era stato un mondo bello e problematico allo stesso tempo, che conservava l’eco delle grida ma anche quello delle risate. Nella stanza, soprattutto, riecheggiavano le loro voci ancora, tra le cose di Yuzo che non erano state toccate né messe via e gli scatoloni che contenevano quelle che aveva a Shimizu-ku. Sulla scrivania il portatile era chiuso, ma qualcosa gli diceva che fosse la postazione preferita di sua madre. La propria era sempre stata il balcone; l’aveva fatta diventare una backdoor di comodo: ad arrampicarsi ci metteva un attimo, a scendere anche. Nessuno se ne accorgeva, nessuno lo vedeva.

Lo raggiunse e guardò quello che era stato il suo letto, lì accanto, e poi di Yuzo.

«Stava aspettando che tornassi.» Yumeko era sulla porta.

«Non ti ho chiesto se potessi salire, scusa.» Si asciugò gli occhi e le guance con un gesto distratto e poi si volse, puntellando le mani suoi fianchi per darsi un tono.

«Puoi non considerarla più così, ma questa rimane casa tua. Che permessi dovresti chiedere?»

Shuzo abbassò lo sguardo ai piedi scalzi, si masticò l’interno della bocca.

«Non è stato toccato nulla. Te l’avevo detto che tutto ciò che era suo è tuo adesso.»

«Sta bene qui. Ho già preso abbastanza da mio fratello.» Guardò fuori, mentre sua madre lo raggiungeva e si fermava al lato opposto della vetrata del terrazzo.

«Da dov’è che ti arrampicavi?» chiese, scrutando fuori.

«Ti diceva anche questo?»

«Sapevo tutto delle tue visite notturne. Ti avevo anche fatto spostare il vaso di pietra più vicino, in modo che potessi sfruttarlo come appoggio e non dover fare un salto troppo alto.»

Shuzo annuì, sbuffando un sorriso. «Ti diceva proprio tutto. Era una cavolo di rana dalla bocca larga.»

«Io dovevo sapere cosa facevi, anche se non potevo vederti. Dovevo sapere che stessi bene, che fossi al sicuro.»

«Al sicuro non ci sono mai stato.»

«Ma c’era Yuzo e questo mi tranquillizzava, almeno un pochino.» La carezza di sua madre sulla guancia aveva il sapore degli anni passati e lo stesso odore di suo fratello. Lui la scrollò via con un po’ di imbarazzo.

«Dai, non sono un cane.»

«No, ma sei testardo e antipatico, come i Chihuahua!» Yumeko fece per aprire l’anta del balcone, ma lui la fermò.

«Non c’è bisogno, torniamo giù.»

«Non vuoi affacciarti? Lo facevate sempre. Quante estati avete passato seduti qui.»

«Te l’ho detto, non serve. E poi non voglio contaminare l’odore di Yuzo col mio. Dai, scendiamo.»

«Invece lo voglio io. Ci ho passato giorni interi in questa stanza, a ricordare come fosse la vostra presenza. Ed è ormai da tempo che non sento più l’odore di tuo fratello, perché adesso fa parte di me. Tu, invece, lo hai sentito subito, non è così? Ti ha aspettato per tutti questi anni, affinché questa stanza tornasse ad avere l’odore di entrambi.» Yumeko fece scorrere l’anta e l’aria di inizio giugno invase l’ambiente con la sua potente primavera che già stava cambiando aspetto, presto sarebbe stata estate. Una nuova stagione, nuove piante, nuova vita. «E per quanto io possa aprire questo balcone, non scapperà mai via.»

Dal braccio, la mano di sua madre scivolò nella sua, la strinse e lo tirò con sé, senza forzarlo. Insieme uscirono sulla terrazza dei suoi ricordi. L’aria era tiepida, profumata. C’era una brezza che smuoveva appena i capelli e non era invadente. La veduta del retro di casa era ancora bella come la ricordava: tutto il giardino sottostante, il verde curato, l’angolo dove la sua famiglia faceva le grigliate. Shuzo aveva vissuto solo quelle con i parenti e gli amici delle elementari di suo fratello, alle altre era stato assente ingiustificato, fino a scomparire dalle carte.

Il sole al tramonto brillò sull’acciaio e lui si girò con un guizzo di sorpresa negli occhi e un sorriso che gli apriva le labbra.

«La serra è ancora lì?»

«Sì. Non avrebbe dovuto?» Yumeko aveva i gomiti sulla balaustra e il viso poggiato nelle mani.

«Credevo che Akio l’avesse fatta smantellare subito. L’ha sempre odiata.» Abbozzò un sogghigno. «Certo che è tenuta proprio bene, sembra nuova. Se n’è occupato il vecchio giardiniere, di’ la verità.» Inquadrò sua madre con la coda dell’occhio e sollevò furbescamente le sopracciglia. «Posso sbirciare?»

Nel sole, anche il sorriso di sua madre brillò, l’iride era una nocciola dorata. «Te l’ho detto, non devi chiedermi alcun permesso.»

E allora Shuzo sgattaiolò via, con tutta la sua furbizia e quel desiderio improvviso di correre giù nel giardino, affacciarsi alla serra che da bambino aveva adorato, anche se aveva potuto goderne pochissimo, perché sempre in riformatorio o in fuga da casa. L’aveva vissuta più attraverso suo fratello, cui diceva cosa fare, come disporre le piante. Nelle sue piccole incursioni da clandestino, ci era entrato spesso, invece, sistemando qua e là e facendo trovare a Yuzo qualche pianta nuova ogni volta. Ora aveva lo stesso entusiasmo del bambino che era stato, e attraversò casa dimenticando l’angoscia di sentirsi estraneo. Entrò nella sala da pranzo, aprì la portafinestra e infilò un paio di ciabatte da esterno. Davanti alla serra si sentì il piccolo Shuzo del passato, quello troppo sognatore per i concreti Morisaki. Quello troppo silenzioso e timido, e poi violento e irascibile, con una lingua che tagliava cose e persone. Entrò e si lasciò meravigliare dalle felci appese alla trave, dalle luci calde che accompagnavano il tramonto, dall’ordine del ripiano da lavoro e sul bordo del lavandino, dove erano stati lasciati guanti e zappette pulite, vasi capovolti. Borbottò versi di ironico stupore nel girare attorno al ripiano, sfiorando la superficie con la mano mentre guardava le piante che erano disposte sulle scaffalature perimetrali. Le dita non erano troppo sporche, segno che lì dentro qualcuno ci stava e anche spesso. Si fermò presso la Caesalpinia, ne toccò le foglie felciformi e poi i fiori già aperti, dai petali gialli e gli stami lunghissimi e cremisi.

«Che te ne pare?»

«Non male!» esclamò, guardando sua madre che l’aveva seguito anche lì. «Certo, hai ancora un sacco di spazio da riempire e se vuoi posso anche consigliarti qualcosa, ma, ehi!, potevi dirlo che volevi diventare una killer seriale di piante! E poi perché non ne hai comprata qualcuna da noi?! Sono offeso!» Indicò la Caesalpinia. «Questa comunque ti consiglio di tenerla fuori per tutta l’estate. Diventerà ancora più bella.»

«Non è opera mia», disse Yumeko.

Shuzo era passato alle grasse, giocava con la durezza delle spine di un Ferocactus.

«Allora è vero che se ne occupa Itoue? Ma non è troppo vecchio per fare ancora il mestiere?»

«No, non è neppure opera sua.»

«Suo figlio? Il nipote?»

«Tuo padre.»

Si girò di scatto, la schiena dritta e il sorriso entusiasta del bambino era sparito. Al suo posto, un’espressione dura; di sorpresa, ma dura: quella del bambino costretto a tutti i costi a tenersi alla larga dai propri sogni e desideri.

«È stato tuo padre.»

«Cazzo dici.»

«Saranno state due, tre settimane fa. Si è messo e l’ha ripulita tutta, da cima a fondo. Ha sistemato le luci, comprato le piante, comprato libri. Sta studiando e l’ha rimessa a nuovo.» Parlando, Yumeko lo aveva raggiunto un passo alla volta, con calma. Non era perturbata dalla sua reazione, quasi se l’aspettasse, e lo guardava senza provocarlo né mentirgli. Tutto vero. In quella serra, nei suoi occhi… era tutto vero. Come vere erano state le litigate passate e le parole di disprezzo che gli aveva rivolto per il tempo che trascorreva dietro le piante.

Anche l’odio di suo padre per le piante era vero.

«Mi prende per il culo?»

«No.»

«Sì, invece. Mi prende per il culo. Che cazzo si è messo in testa?!»

«Non chiederlo a me, chiedilo a lui.»

«Col cazzo! Non ho niente a che spartirci! Lo chiedo a te!» Shuzo gettò le braccia in aria, disegnò un mezzo cerchio, girando su sé stesso e d’improvviso stare in quella serra lo fece soffocare. Il cannibale era risalito in un rigurgito: aveva sbarrato gli occhi e con uno strattone si era liberato dalla catena che aveva tenuto tra le mani. Un attimo. Velocissimo e letale; sembrava non aspettasse altro. «Lo sapevo che me ne sarei pentito! Gli stavo dando troppa corda! Cazzo, lo sapevo! Gli ho dato modo di respirare la mia stessa aria e si è montato la fottuta testa!»

«Non sta facendo niente di male.»

«Ah no?! Davvero?! Lo decido io, se permetti! Perché questo, tutto questo», disse brandendo una delle zappette e poi lanciandola in malo modo nel lavello, «riguarda me! È il mio mondo, okay?! Il mio! E lui non ha fatto altro che denigrarlo una vita intera! Per poco non ci avevo rinunciato per sempre, grazie a lui, e ora si improvvisa appassionato?! Non farmi ridere!»

«Sta provando ad avvicinarsi a te, a capire ciò che tu ami tanto.»

«Non gliel’ho chiesto! Non voglio che si avvicini! Anzi, da adesso in poi mi stesse alla larga! Quell’unica concessione che gli avevo fatto può anche scordarsela! Tanto era chiaro che avesse in mente qualcosa! Idiota io a dargli il fottuto beneficio del dubbio! Idiota! Tutti i cazzo di Morisaki hanno sempre un secondo fine! Lui, sua madre! Mi hanno dimenticato per anni e adesso non sanno fare a meno di me?!»

L’espressione di Yumeko si fece dura. «Tuo padre non ha nessun secondo fine, sta solo cercando di fare la cosa giusta dopo averne fatte sempre di sbagliate e neppure questo va bene? Non ha più interferito con nulla che ti riguardasse, ha accettato ogni cosa da te anche quelle che a qualsiasi genitore avrebbero fatto saltare la mosca al naso, come l’acquisto del frutteto per cui si è fatto bastare le tue non-risposte. Ha appoggiato la tua relazione con Mamoru, nonostante la famiglia da cui proviene. Non ti ha mai imposto la sua presenza e ogni volta che lo ‘inviti’ per pura cortesia rifiuta perché sa bene che non lo vuoi intorno. Sono quasi dieci anni che tuo padre cammina sulle uova, con te. Arrabbiarti per questo è ingiusto.»

«Ora quello ingiusto sarei io?! Dopo che mi ha reso trent’anni d’inferno gli dovrei concedere la corona di padre dell’anno?! Dieci anni di purgatorio non sono un cazzo, e tu sei tornata a difenderlo come ai cari, vecchi tempi. Be’, dopotutto ero io a dirti di farlo.» Shuzo le rivolse un mezzo sorriso ironico, mentre allargava le braccia e poi le faceva ricadere lungo i fianchi.

«Non difendo né lui né te. Difendo la mia famiglia e ne fate parte entrambi. A te cerco di mostrare le cose che sai, ma che dimentichi in fretta.»

«Le cose che so?» fece eco, portandosi teatralmente una mano al petto. «Perché ce ne sono altre che ignoro?»

«Certo che sì.»

«Oh, ti prego, fammi ridere. Sono tutt’orecchi.»

«Chiedile a tuo padre. Perché è facile chiederlo a me, arrabbiarti con me, sfogarti con me. Ma è con lui che devi farlo. Affrontalo!»

«L’ho già fatto!»

«E quando? Sei rimasto a dieci anni fa. Fallo ora e ascolta le sue risposte!»

«Non me ne frega di quello che risponderà! Ha avuto la sua occasione e l’ha mandata a puttane ergendosi sul suo solito piedistallo del cazzo!»

«E quindi non ha diritto a una seconda chance? Non ha diritto a imparare e a correggersi?!»

Shuzo girò il viso e guardò verso tutto ciò che Akio aveva costruito. Appariva perfetto, tanto che aveva rischiato di caderci, e invece… invece era un inganno, come tutto. Tutto studiato, tutto una tattica. Certo! A partire dalla sua visita in prigione, quella volta, l’unica. Con le sue parole a effetto, dette al momento giusto e la discrezione, la sua figura che si chiudeva nell’ombra, che non superava mai la linea, che accettava, sì. Accettava. Accettava il pugno, accettava il frutteto senza risposte, accettava di rifiutare gli inviti, accettava la sua omosessualità.

Era sembrato in ogni particolare così dannatamente vero.

Stronzo come tutti i Morisaki.

«No. Non con me» disse infine, guardando sua madre.

Per un attimo l’immagine imbranata dell’izakaya fece capolino.

Anche lì era stato tutto studiato?

Abbozzò un sorriso. Quanto aveva abbassato la guardia per colpa della fottuta felicità?

«E dire che per un attimo mi ero quasi… Che idiota.»

«Cosa? Preoccupato per lui perché ti sembra ‘strano’

Shuzo la guardò negli occhi e vi rivide la stessa fermezza di Yuzo quando si arrabbiava e lui era nel torto. Era sempre stato l’unico a saperglielo far pesare come un macigno. In quel momento, ci era riuscita anche sua madre.

«Chiedigli cos’ha che non va. Poni le domande giuste e non solo quelle che soddisfano il tuo senso di vendetta nei suoi confronti. Affronta tuo padre come farebbe qualsiasi figlio.»

Ma lui, anche quando sapeva di stare nel torto, era sempre stato troppo orgoglioso per mollare.

Affiancò Yumeko, con i pugni stretti lungo i fianchi. Nessun Morisaki meritava le sue eccezioni.

«Ma io non lo sono più da anni, lo hai dimenticato?»

In pochi minuti, con il passo marziale del boia, era già rientrato in casa, l’attraversò facendosi sordo ai ricordi, belli o brutti. Infilò le scarpe, si sbatté la porta alle spalle e dopo anche il cancello. Lungo la strada che portava alla macchina non si guardò mai indietro.

 

«Un’altra bottiglia, qui! Oste! Siamo rimasti a secco!»

«Saito-san, abbassi la voce! Non le sembra di aver bevuto abbastanza? E poi nessuno li chiama più ‘oste’

«Pensa ai fatti tuoi! Devi ancora berne di sakè prima di potermi fare la parte! Oste!»

La sensei si alzò in piedi sulla panca, poggiandone uno contro il tavolinetto. Nella mano brandiva una vuota bottiglia di vino stringendola per il collo, mentre il giovane Ayukawa cercava di tenerla seduta e si beccava tutte le invettive possibili e immaginabili.

E poi aveva pure il coraggio di dire che sua sorella era l’arpia.

Shuzo sbuffò un sorriso nel palmo della mano con cui sosteneva il viso e abbassò di nuovo lo sguardo sul proprio bicchiere; era a metà della seconda birra, ma non era in vena né di bere né di fare chiacchiere. Difatti si era scelto l’angolo più defilato della seconda tavolata che avevano prenotato all’izakaya dove di solito organizzavano quelle cene annuali. Ormai li conoscevano bene, tanto che il cameriere che arrivò con la bottiglia di sakè richiesta dalla sua insegnante non fece una piega, ma gliela servì zitto e muto, e poi si dileguò dopo aver preso qualche ordinazione aggiuntiva.

Lui era troppo immerso nei propri pensieri, non aveva voglia di fare da babysitter anche agli altri. Guardò il giallo dell’Asahi che riempiva metà bicchiere e aveva perso la schiuma di superficie. Dondolò il vetro, e il liquido al suo interno e le parole di sua madre erano tutte a galla.

Se si fosse fermato a pensarci razionalmente, lo avrebbe saputo anche lui che non c’era niente di male: Akio si stava interessando alle piante, e allora? A lui non aveva chiesto nulla né aveva rotto l’anima in alcun modo. E poi alla Festa dei Fiori di Obuchi non ci era neppure andato. Se il suo interesse fosse stato onesto, vi avrebbe fatto un salto come minimo. Lui ce lo aveva pure invitato che volevano di più?

Ogni volta che lo inviti per pura ‘cortesia’ rifiuta perché sa bene che non lo vuoi intorno.

Strinse gli occhi pensando con quanta facilità tutte le sue azioni gli si rivoltassero contro in un attimo se guardate da una prospettiva che, per ovvie ragioni, non poteva essere la sua. I problemi venivano a galla, le convinzioni traballavano come sedie dalle gambe di lunghezze differenti. E lui finiva in un niente dalla parte del torto.

Cazzo, non voleva stare nel torto!

Aveva il diritto di essere arrabbiato, di non volere quell’invasione territoriale, di reputare l’interesse di suo padre una intromissione fastidiosa.

Che diavolo voleva dimostrare Akio? Che sapeva essere bravo e buono?

A lui non importava niente, nemmeno che fosse più vecchio e disorientato. Disarmato.

Shuzo si accorse di non averlo più incontrato da quella volta al ristorante.

L’espressione perse la presa sulla stretta degli occhi e sentì i tratti distendersi di nuovo. Sollevò il bicchiere e bevve.

«Oggi è più lanciata del solito.»

A capotavola, dal lato verso la parete che era rimasto libero perché il più chiuso e scomodo, prese posto il maestro Joji Gaho della Scuola Sogetsu. Bicchierino alla mano e fondo di sakè nella bottiglia. Se ne versò un goccio e lo bevve, mentre lui lanciava una nuova occhiata alla sua maestra, ora intenta ad agitare un ventaglio di carta e a cantare qualche canzone vecchia almeno quanto lei.

«Sì, sta mettendo su un discreto show.»

«Di solito sei tu quello che le tiene testa.»

«Nah, stasera sono in ferie. E poi, è Ayukawa-kun il più giovane maestro della combriccola, ora. Lasci che si faccia le ossa.»

«A prescindere dalla Saito, non mi sei sembrato molto di compagnia durante la cena, sensei

Shuzo raddrizzò la schiena, assumendo una posa meno chiusa a riccio. «Lasci stare l’onorifico; tra noi sono io quello che dovrebbe chiamarla ‘sensei’, Gaho-san.» Lo additò con l’indice. «Volevo farle i complimenti per la mostra a Iwata della scorsa settimana; il suo lavoro col bambù era molto bello.»

«Grazie, Mori-kun. Si è sentita la mancanza delle tue stravaganze, invece.»

«Non ne dubito, credo che Atsuzawa-san si sia un po’ annoiato senza me da attaccare alla prima occasione. Ma conto di rifarmi per la Biennale di Kyoto, ho delle idee su cui volevo lavorare.»

«Ora che me lo fai notare, è vero.» Con fare pensieroso, il maestro picchiettò il bordo del choko in ceramica contro il mento. «Atsuzawa-sensei era più fiacco del solito. Ma ha avuto comunque modo di nominarti, anche se non eri presente.»

«Si figuri. Gli devo essere proprio mancato.» Shuzo sollevò le sopracciglia, prima di vuotare il bicchiere. «Sotto sotto, ha un debole per me. Mi adora.»

«Quindi ci sarai per la Biennale, hai detto?»

«Sì. Devo solo riuscire a conciliare con il resto del lavoro. Non voglio lasciare sempre i miei soci a occuparsi di tutto…»

«A volte dimentico che molti di voi siete così giovani da avere anche un altro mestiere, al di fuori dell’ikebana. Il bar e i terreni non ti rubano troppo tempo?»

«Ho abbastanza energia per occuparmi di tutto!» replicò, con una punta d’orgoglio.

«Siete impegnati con la raccolta del tè, ora. Dovrebbe essere il periodo giusto.»

«Tra una settimana o due faremo la seconda. Nel frattempo, ci stiamo preparando con le susine.»

«Sì, me lo ha detto tuo padre.»

«Ah, se lo è ricord-… Aspetti! Cosa?! Mio padre

Shuzo ebbe un sussulto improvviso e la birra che stava versando si rovesciò in parte sul tavolo. Rivolse al maestro Gaho gli occhi spalancati.

«Sì. Akio Morisaki. È tuo padre, no?»

«S-sì, lo è. Come lo-»

«Che domande. Frequenta la Sogetsu. È mio allievo.»

Il vetro della bottiglia riprodusse un suono cupo e secco quando gli cadde da mano, ma non si rovesciò. Un rumore che non riuscì a sopraffare quello del chiacchiericcio e dei canti della maestra Saito, ma che ebbe l’effetto di farla cantare ancora più forte.

«Ti dirò, sono stato davvero sorpreso che non si sia iscritto alla KadouEnshu, considerando che sei uno dei maestri. Per caso non si fidava dei tuoi metodi?» Gaho lo pungolò col gomito, rise, ammiccò divertito. Lui stava per gridare e ribaltare il tavolo con tutta la roba sopra, ma non lo fece, perché anche il cannibale era rimasto scioccato.

«Akio… fa ikebana?»

«Non lo sapevi? Sono mesi ormai, si è iscritto a marzo. E devo dire che è portato. All’inizio era un po’ rigido, ma poi ha iniziato a capire il discorso che gli ho fatto sul ‘mettere ordine nel caos’. E niente, vi somigliate tanto, non solo nell’aspetto; il vostro modo di approcciarvi alle composizioni è di puro trasporto e non importa quanto risulterà imprecisa nel particolare, il suo insieme sarà sempre emozionante e interessante. Sembra quasi che ce l’abbiate nel sangue!» Gaho si strinse nelle spalle con semplicità, sollevò il bicchierino verso di lui riconoscendogli un brindisi silenzioso e poi si alzò, richiamato da un altro maestro dall’altra parte della stanza.

Lo lasciò frastornato, nell’angolo in cui si era ritirato come eremita volontario e di colpo ancora più estraneo alla baldoria che gli si agitava attorno.

Shuzo non vedeva, non sentiva. Aveva il respiro di piombo che non gli riempiva il petto e gli occhi sulla birra rovesciata che seguiva il profilo della base del bicchiere e della bottiglia. La sua mente era fuggita da quella stanza lasciandovi solo il corpo che frantumava, nella stretta dei denti, le domande che lo avevano preso d’assalto. Lui si era asserragliato nella fortezza, il cannibale guaiva e si turava le orecchie. Non sapevano che fare, nessuno dei due, e non sapevano che pensare se non che tutto quello fosse impossibile.

 

Sprofondato nel divano a fare zapping nervoso, ma controllando l’ora ogni cinque minuti, Mamoru stava aspettando.

La telefonata di Yumeko, arrivata nel momento esatto in cui stava abbassando la serranda del negozio, gli aveva preannunciato che quella sarebbe stata una lunga attesa e una lunga notte. Per quanto la scoperta che Akio si fosse non solo interessato alle piante, ma addirittura iscritto a un corso di ikebana, l’avesse reso così felice quasi da commuoverlo davanti alla madre di Shuzo, dall’altra gli aveva presagito in misura matematica che non sarebbe finita bene.

Ci aveva sperato; aveva auspicato che gli anni di terapia, i tentativi di farsi spazio a vicenda l’uno nella vita dell’altro potessero portare a una riconciliazione definitiva e che, nel momento cruciale come quello, avessero potuto mitigare la reazione forte del suo ottuso compagno.

Invece niente, il cannibale – per quanto ci si provasse ad addomesticarlo e sedarlo – continuava ad averla vinta a un passo dal traguardo. Mandava a rotoli anni di lavoro, di concessioni e possibilità per far riemergere quei rancori che non si riuscivano a soffocare né perdonare. Come vecchie braci restavano latenti, e alla prima smossa, ecco riattizzarsi. E bruciare tutto, bruciare chiunque.

Nessuna pietà.

Mamoru si alzò in piedi, abbandonando il telecomando sul divano e il canale su un crime qualunque, che aveva visto e rivisto in repliche continue, per raggiungere il terrazzo. Uscì all’esterno, la sera era tiepida e dolce; l’estate quasi pronta a uscire dal forno come una torta e Obuchi che aveva qualche occhio ancora aperto, ma tutti gli altri già ben chiusi e sprofondati nel sonno. Si sentiva il suono lontano di una macchina distante, poi più nulla. Lui guardò le piante, sfiorando le foglie con affetto, ma si soffermò sul pruno.

Il piccolo bonsai era ancora lì, con il suo carico verdissimo di foglie e la forma perfetta; l’aveva spuntata da poco. A quelle lamelle piene di vita affidò una piccola preghiera: che il danno non fosse così grande da riparare, questa volta. Silenziosamente si affidò a Yuzo perché era l’unico capace di fare miracoli con suo fratello, ma poi tese bene la schiena e le spalle, dicendosi che anche lui era stato capace di fare miracoli, quando era servito. E, anche ora, era pronto a raccogliere i possibili cocci.

Con la stessa impazienza rientrò in casa e tornò al divano. L’orologio sul cellulare segnava la mezzanotte passata da una quarantina di minuti. Mamoru però sapeva come andavano quelle cene, in cui spesso si perdevano in chiacchiere. La maggior parte di loro erano insegnanti che si dedicavano solo all’ikebana; Shuzo e altri due o tre rappresentavano l’eccezione, quindi non si sarebbe sorpreso se avesse tardato ancora, però il girare della chiave nella toppa gli annunciò il rientro in patria del suo Ulisse.

Mamoru si alzò e gli andò in contro, quando la porta venne spalancata con un sol gesto, tanto da sbattere una volta che i cardini ebbero raggiunto il massimo della torsione.

Lui si bloccò e Shuzo fece la sua entrata trionfale cantando a squarciagola, con un braccio levato al cielo e tutto addossato allo stipite per reggersi in piedi, mentre con l’altro si aiutava a entrare nell’appartamento, il palmo aperto sul battente della porta.

«Here we aaare! Booorn to be kiiings! We’re the princes of the Uuuniveeerse!»

Mamoru serrò le labbra e osservò l’intero spettacolino restando in piedi accanto al divano. Shuzo riuscì a entrare, andando da una parte e dall’altra. Riuscì anche a chiudere la porta schiantandoci contro la schiena.

«Here we belooong, fighting to surviiive in a wooorld with the daaarkest poweeer! Yeah!»

«Sei ubriaco?!» La sua voce si levò più alta di quella di Shuzo che solo allora parve accorgersi di lui. Alzò la testa e allargò le braccia, esibendo un sorriso smagliante.

«Gioia! Vieni qui, gioia! Come sono felice di vederti!»

Ma come provò ad avvicinarsi, Mamoru lo spinse indietro.

«Sei ubriaco, Shuzo!»

«Naaah! Brioso! Che vuoi, quando la vecchia si attacca alla bottiglia, cazzo perché non unirsi a lei?» sghignazzò, mentre Mamoru restava immobile come una sfinge.

«Come sei tornato?»

«Che domande fai? In macchina! Non mi sono ancora spuntate le ali.»

«Hai guidato così?! Ma che diavolo ti dice il cervello, sei impazzito?!»

«Aaah! Piantala, non sei mia madre. Non sono ubriaco, queste non sono tre», aggiunse sollevando due dita, «e sono perfettamente in grado di infilare una chiave in un buco. E non solo quello, ti assicuro.»

Mamoru provò il desiderio di strappargli il sogghigno idiota con una manata.

«Sei un cazzo di irresponsabile, avresti potuto fare un incidente! Dovevi farti accompagnare o prendere un fottuto taxi!»

«Ma sì, ma sì. Dovevo festeggiare! Oggi graaande festa!» Shuzo iniziò a ridere così forte da piegarsi sulle ginocchia. «Se te lo dico, manco ci credi!» aggiunse, oscillando fino al tavolo in cerca di un sostegno per reggersi in piedi. «Senti questa, senti! Akio…» e giù l’ennesima risatina. «Akio ha scoperto il pollice verde! E si è messo a fare ikebana! E per giunta in una scuola che non è la mia!» Stridulò le ultime parole, strozzandole nelle risate isteriche; con una mano batteva sulla superficie del tavolo e sembrava avesse dovuto morirne, mentre faticosamente si tirava su, per stare dritto. «Oh, boy. Oh, boy. Tra un poco piscio a terra, giuro.»

Si guardarono, mentre gli ultimi singhiozzi di quella manifestazione sguaiata si spegnevano. Shuzo aveva la smorfia minacciosa e familiare che gli storceva le labbra e ne sollevava in alto solo un lato; la barba non era troppo folta da nasconderla. Lo fissava, dritto negli occhi, e quando lui cercò di avvicinarsi disse: «E tu da quanto cazzo lo sapevi, uh? Aggiungiti alle comiche, forza.»

Mamoru incamerò e rilasciò un respiro profondo.

«È stata mia madre?»

«L’avevo vista per parlare di tutt’altro.»

«Quando?»

«Un paio di settimane fa, circa.»

«Avresti dovuto dirmelo subito, avremmo festeggiato insieme.»

«Shuzo…»

«No, non mi toccare.» Malerba indietreggiò di un passo. Sorrideva, ma l’ironia colava dappertutto.

«Almeno fammi-»

«Cazzo, non toccarmi!»

Con una sola spinta, Mamoru si trovò schiena contro la parete che divideva la cucina dal salotto. Una mano che stracciava il collo della t-shirt e l’altra che lo bloccava al polso con una presa che faceva male.

Gli occhi di Shuzo lo trapassarono di rabbia; poteva vedere il cannibale ringhiare nel fondo delle pupille e quasi sentirlo nel respiro pesante che gli sbatteva sul viso. Puzzava di birra e sakè.

Era tanto che non gli vedeva quello sguardo, pareva una vita fa in cui Shuzo lo chiudeva contro le pareti della piccola serra. Per un attimo, credette che quel ricordo l’avesse inventato, ma tutto ciò che più faceva male era sempre vero.

«Non. Toccarmi.»

«Datti. Una. Calmata!» Mamoru allontanò la mano di Shuzo dalla propria maglietta con un gesto brusco. L’altro gli lasciò andare anche il polso che lui massaggiò, piegandolo da un lato e dall’altro. La stretta di una tenaglia che aveva stritolato la carne per arrivare a sentire il duro dell’osso; la sensazione era stata quella.

Shuzo fece due passi indietro e non distolse lo sguardo da serpente, minaccioso e guardingo. La bocca aveva gli angoli piegati in basso dal disprezzo.

«Calmarmi? Io? Sì, certo. Tocca sempre a me, vero? Io devo calmarmi, io devo accettare, io sono l’ingiusto. Io. Gli sbagli sono sempre i miei, non è così?»

«Adesso stai facendo la vittima.»

«E ne ho tutto il fottuto diritto!» gli urlò contro. «Per l’ennesima volta si è intromesso nella mia vita senza neppure chiedermelo! E dovrei accoglierlo con gioia come fosse un regalo di Natale in anticipo?! Puttanate!»

«Nessuno ha detto neppure questo, ma la tua reazione è esagerata. Cazzo, guardati! Sei ubriaco, mi hai appena messo al muro, ti pare normale?!»

«E voi vi siete fermati anche solo un attimo a mettervi nei miei panni?! A capire cosa significhi per me?!»

«No! Perché tu non dai tempo a nessuno di fare nulla!» gridò Mamoru allargando le braccia. «Tu parti e spari a raffica senza fare prigionieri!»

«È questo che pensi?!»

«Non è quello che penso, è quello che vedo! L’hai fatto con tua madre oggi pomeriggio, l’hai fatto con me adesso!»

«Dovevo immaginarlo che ti avesse telefonato subito.»

«Era preoccupata per te! Sei andato via come una furia, cosa doveva fare?! Sperava che io riuscissi a calmarti e farti ragionare.»

«Se aveste voluto davvero calmarmi, avreste dovuto dirmi fin da subito come stavano le cose. Ma se non lo riesci a capire neppure tu, allora non abbiamo niente da dirci.»

Mamoru lo vide tornare verso la porta con passo di carica e la schiena un po’ curva che lo proiettava in avanti come un missile.

«Invece abbiamo un sacco di cui parlare! Pensi che ti lasci andare così?!» Tentò di frapporsi fra lui e l’uscita, ma una nuova manata in pieno petto lo spinse via e poi lo tenne a distanza, con quell’indice di monito e minaccia al tempo stesso dritto contro la faccia.

«Fottiti, cazzo! Se davvero avessi voluto parlarmi, avresti dovuto farlo prima invece di nascondere le cose. Da mia madre potevo aspettarmelo, ma non da te!» spalancò la porta con tutta la sua amarezza. «Non da te.»

Scese le scale in fretta e furia, senza voltarsi. Da sopra il pianerottolo, Mamoru lo vide arrivare al cancello in un attimo, strattonarlo più volte fino ad aprirlo e poi sbatterlo alle spalle con un rumore metallico che riverberò nella notte di Obuchi. Con la sua andatura storta, Shuzo raggiunse l’auto parcheggiata proprio là fuori. Mise in moto, sgommò e sparì lungo la strada deserta.

 

Akio appoggiò il manuale di potatura sulla scrivania dopo averlo richiuso. Il segnalibro spuntava a una cinquantina di pagine dall’inizio, era arrivato al capitolo sulla cimatura. Su un quaderno segnò degli appunti per alcune ricerche che avrebbe dovuto fare su YouTube – forse avrebbe dovuto ringraziare la signorina Miyoko per aver fatto aggiornare anche un vecchio matusa come lui – e poi si lasciò sprofondare nello schienale imbottito della poltrona. Lo studio era illuminato solo dalla luce di una Emeralite originale del 1916, con il suo paralume verde autentico. L’orologio Ottaviani era una sfera di cristallo su base di legno massiccio che segnava ormai l’una della notte. Sarebbe dovuto andare a letto, perché la sveglia il giorno dopo l’avrebbe atteso al solito orario.

Akio sfilò lentamente gli occhiali e se li lasciò scivolare in grembo dove le dita intrappolarono anche una stanghetta nel loro intreccio.

In quella personale solitudine silenziosa – la porta chiusa lo isolava anche dai rumori della cucina o del salotto – pensò alla strada percorsa e se ciò che stava facendo avesse davvero un’utilità. Fino a quel momento aveva dato ascolto alla parte più debole di sé stesso, quella che voleva credere a Yumeko e al suo ‘tentare ancora’. Quella che era più entusiasta e che si stringeva ancora attorno a Yuzo e all’ultimo ricordo che aveva di lui. Il ricordo dell’addio.

Se avesse scavato a fondo, sarebbe stato proprio quel ricordo a dirgli che doveva provare il tutto per tutto, perché mollare avrebbe significato abbracciare solo il fallimento e il rimorso. E allora sospirò e abbandonò gli occhiali sulla scrivania, certo che il giorno dopo avrebbe ripreso il suo studio. Ignorò di avere anche la certezza del fallimento infilata in tasca.

«Hai visto che ore sono? Dovresti andare a letto.» Yumeko fece capolino sulla porta e lui venne fuori dal proprio rimuginare così assorto e contorto.

Diede una spinta alla testa dei braccioli, appoggiandovi entrambe le mani, e si alzò.

«Sì, ho visto. Infatti stavo andando. Volevo prima fare un salto nella serra.»

Era stata una giornata molto impegnativa in azienda; le riunioni lo avevano tenuto in sede fino alle otto di sera e quando era tornato non aveva avuto tempo per fare un giro tra le piante. Pensarle come qualcosa che apparteneva a lui lo faceva ancora sorridere.

Yumeko annuì. «Ti faccio compagnia.»

Akio si lasciò precedere. Uscirono entrambi dalla portafinestra della sala da pranzo, ma con gli occhi cercò sua moglie più volte. Aveva notato fosse pensierosa, ma non le aveva chiesto nulla e lei non aveva fatto nessun primo passo.

Le luci del giardino li accompagnarono per quella breve distanza, rispettando il silenzio con cui erano usciti di casa. Almeno fino a che non si fermarono davanti alla porta della serra.

«È successo qualcosa?» chiese proprio lui, a un tratto, nel vedere come teneva la testa calata per guardare l’erba scura.

Yumeko si volse ritirando in fretta la mano dalla maniglia. «No!» rispose in maniera brusca. Poi lo ripeté in maniera più pacata, accennando un sorriso. «No. Tutto a posto.»

«Mi sembri turbata da qualcosa.»

Yumeko scosse il capo e nascose il sorriso nel gesto di tirare i capelli dietro l’orecchio. «In salotto mi è preso sonno, e allora…»

«Do solo un controllo e poi ce ne andiamo a letto.»

Akio la superò e fece gli onori di casa per primo, accendendo le luci interne. Le tre lampade si accesero insieme e poi fu la volta di quelle piccoline e decorative. Di sera, con il buio all’esterno, l’effetto era molto suggestivo e romantico: perfetto per l’estate che stava arrivando, e un po’ anche per l’inverno quando sarebbe stato il suo turno.

Akio si sentì soddisfatto del lavoro che aveva fatto; in tutta onestà, non pensava ci sarebbe riuscito e invece gli era bastato solo mettersi lì e provare. Di quante cose si era creduto incapace senza nemmeno fare un tentativo…

Avanzò di qualche passo verso le scaffalature e controllò sommariamente i vasi, ripromettendosi di tornare il giorno dopo con maggiore calma. Si fermò con un sorriso più ampio, ma sempre a labbra chiuse, davanti alla Caesalpinia. Era particolarmente affezionato a quella pianta, perché ricordava quanto ne fossero affascinati entrambi i suoi figli e allora quella loro meraviglia era come se si fosse proiettata anche dentro di lui, fino a fargli sviluppare un legame particolare con quella specie. Ne toccò le foglie e avvertì un odore estraneo ma non sconosciuto aleggiarle attorno che lo disorientò. Durò un attimo, svanì quello dopo. Un odore maschile, di quei profumi pungenti. Avvertì il ripetersi di un déjà-vu che non ricordava di aver vissuto. Esser stato lì e aver compiuto quel gesto, ma non lui.

Si volse. Yumeko era entrata di un solo passo oltre la porta. Fece per dirle qualcosa, ma poi ci ripensò.

«Akio?» Yumeko lo aspettava, perplessa, e lui alla fine, scosse il capo. Agitò una mano e sorrise.

«No, niente. Anche io devo essere più stanco di quanto credessi. Forza, andiamo a dormire. Controllerò domani con calma.»

Mentre si fermava sulla soglia per chiudere la porta della serra diede un’ultima occhiata all’interno senza riuscire a spiegarsi quella convinzione così insistente, quanto impossibile, che Shuzo fosse stato lì.

 

Aveva provato a chiamarlo fino alle due di notte, ma il cellulare era sempre stato spento. Gli aveva anche lasciato dei vocali su WhatsApp, pur sapendo che non avrebbe ricevuto risposta e difatti non si era stupito nel non vedere le spunte. La preoccupazione era subentrata in fretta, ma con essa anche la consapevolezza che non fosse andato lontano o da nessuna parte di cui si sarebbe pentito. A dispetto di quanto forti sarebbero mai state le sue reazioni, Mamoru poteva dire di conoscerlo, ormai, e se non fosse andato a sfogarsi in palestra perché quell’ora era troppo tarda e lui troppo sfalsato dall’alcool, allora c’era solo un altro posto dove avrebbe potuto rifugiarsi per stare da solo con tutti i suoi dolori. Quando intorno alle due e mezza si era messo a letto, aveva solo sperato che non avesse finito con l’addormentarsi lì: per quanto fosse giugno, dormire in macchina o all’aperto nelle grandi serre non era proprio la scelta migliore del secolo.

Eppure, nemmeno con quelle certezze riusciva a stare tranquillo il giusto per provare a prendere sonno.

Mamoru non faceva che rigirarsi nel letto da un tempo quantificabile nel range che intercorreva tra venti minuti e l’ora.

Era sicuro che Shuzo non si sarebbe cacciato nei guai, ma non gli piaceva l’idea che fosse in giro con tutti quei pensieri per la testa e il cannibale che lo manovrava come un burattino pazzo. E sapere di avere una parte della colpa in quello scatto di collera era l’ennesimo motivo per cui il sonno non voleva farsi vedere e lui si dannava tra le coperte cambiando posizione di continuo.

Aveva una responsabilità, ma anche la certezza che non avrebbe potuto fare diversamente.

C’erano cose che per quanto si conoscessero non spettava a lui rivelare, piccole o grandi che fossero. Non ne aveva il diritto, anche se questo significava nascondere la verità alla persona che amava. Era certo che anche Shuzo lo avrebbe capito dopo che avesse sbollito la rabbia.

Lui, però, non riusciva a darsi pace o a tranquillizzarsi abbastanza per chiudere occhio, tanto che per un po’ li tenne aperti nel buio, abituandosi alla penombra che entrava dalle lamelle delle persiane. Riconobbe ogni forma della stanza a partire dall’armadio, poi le tende, la sedia e la porta socchiusa. La metà vuota del letto.

Era sempre stato così silenzioso quando viveva da solo?

Gli aveva anche allora messo addosso la stessa ansia?

Mamoru non ricordava più come fosse essere immersi nella solitudine, quando la vita veniva vissuta in tempi che appartenevano a lui soltanto e gli spazi avevano solo i suoi ricordi, i suoi odori, i suoi gusti. Ora che ne stava assaggiando solo un bocconcino, il sapore gli parve così amaro da non volerci credere.

Si costrinse a chiudere gli occhi e poi subito dopo li riaprì, perché il rumore della chiave nella porta d’ingresso lo allertò e allo stesso tempo gli diede sollievo: Shuzo era tornato.

A occhi spalancati e immobile restò in attesa, ascoltando i rumori per decifrare i suoi movimenti: il sibilo di qualcosa che veniva strisciato sul pavimento, il silenzio interrotto da qualche tintinnio metallico, passi e la porta che veniva chiusa piano. Più niente per dei lunghi minuti e poi il fragore ovattato dello sciacquone. Di nuovo la porta, di nuovo passi e tornò il silenzio.

Mamoru rimase in attesa nella propria posizione immobile per altri dieci minuti, alzandosi solo quando ebbe la certezza che Shuzo non sarebbe andato in camera; dallo spiraglio aperto della poltra non filtrava alcuna luce.

Scansò le coperte con un moto di stizza e camminò scalzo, abituato al buio. Il salotto apparve nitido in ogni forma grazie ai bagliori della strada che entravano dai vetri della terrazza, dalle tende aperte. E quella di Shuzo spiccava subito, sdraiata sul divano, che dava le spalle al tavolino, ma soprattutto al butsudan. Le braccia incrociate al petto, le gambe piegate verso l’interno e le ginocchia che toccavano lo schienale.

Prese un profondo respiro, senza togliersi l’espressione stizzita e lo raggiunse, sedendosi sul tavolo basso. Poi aspettò. Questione di pochi minuti, in realtà, forse due; l’orologio al muro scandiva un costante ‘tac’ dei secondi e tanto durò anche la pazienza del suo compagno – sempre troppo poca.

«Vorrai restare a fissarmi la schiena ancora per molto?»

«Tutto il tempo che sarà necessario. Sai che ore sono?»

«L’ora che dormi.»

«Se non te ne fossi andato sbattendo la porta come un bambino scemo, magari a quest’ora staremmo dormendo, sì.»

«Non sono tornato per litigare. Che vuoi?»

«Voglio parlare.»

«Io no.»

«Allora resteremo così anche tutta la notte.»

Da Shuzo si levò uno sbuffo lungo e seccato. «Cristo, quanto sei pedante.»

«E tu sei ottuso.»

«Senti, lasciami in pace o finisce davvero male, okay?»

«Ah, ‘finisce male’? Prima invece com’è finita? Vuoi che ti rinfreschi la memoria?»

Le spalle di Shuzo si alzarono e abbassarono più in fretta nell’accelerarsi del respiro. Aveva toccato di proposito un tasto che sapeva dolere e anticipò anche la possibile conseguenza, per questo si mosse all’improvviso e gli fu addosso prima che lui cercasse di alzarsi. Gli infilò un braccio sotto al suo e con l’altro premette sulla spalla, per non farlo muovere. Shuzo ringhiò come una bestia.

«Fanculo, mollami!»

«Perché così puoi andartene un’altra volta? Scordatelo! Resti qui e parliamo!»

«Cazzo, me l’ero fatta passare, imbecille! Allora vuoi davvero il resto!»

«Fatta passare? Un cazzo! Ce l’hai ancora tutta qua, guarda che la sento! La tua rabbia è qui!»

Shuzo strattonò nel tentativo di ribaltarlo e sollevarsi, ma non ci riuscì e allora ringhiò, più frustrato di prima.

«La terapia di questi anni non è servita a niente? Il tuo percorso con Kido, quello che abbiamo fatto insieme, tutto il lavoro… Per che cosa lo abbiamo fatto se reagisci ancora in questo modo? Spiegamelo!»

«Lasciami, Mamoru!»

«No!»

«Lasciami o ti faccio male!»

«Lo faresti? Avanti, minacciami ancora! Avanti!»

Il respiro di Shuzo era un sibilo, affondato nell’imbottitura del divano, che si ingrossava e poi soffocava. Era denti digrignati e sfiato tra le fessure che veniva risucchiato al rifiato successivo. Stava cercando di trattenersi e di trattenere il cannibale così come lui stava trattenendo entrambi.

«Se non lo tiri fuori non te ne liberi. Non lo ricordi più? Tira fuori quello che pensi, io sono qui.» Si chiuse di più su Malerba, tanto da sfiorargli l’orecchio con la bocca. «Parla con me.»

Avvertì il suo respiro calmarsi, poco alla volta, e dall’essere veloce e ringhiato divenne lento e profondo. Rimasero così per alcuni istanti, poi Mamoru iniziò ad allentare la presa, poco alla volta. Shuzo lo sorprese con un movimento veloce che non riuscì a bloccare né schivare. La sua mano aperta lo prese al lato della testa e lo ribaltò con forza sul divano.

Le loro posizioni furono invertite in un attimo e a sovrastarlo in una posizione dominante fu Shuzo: ginocchio piantato tra le sue cosce, braccia con cui teneva le sue incrociate sul petto. Lo guardava con occhi spalancati e lucidi ai bagliori della strada. Stava facendo il possibile per non digrignare i denti e tenerli nascosti a ridosso delle labbra tese, ma le apriva di tanto in tanto per respirare e contestualmente far evaporare la collera.

«Per favore, parla con me…»

Shuzo lo guardò fisso e poi abbassò il viso, tanto da nasconderglielo. Le mani lasciarono la presa, scivolando in basso poco alla volta, e con la testa si insinuò sotto l’incrocio delle braccia. Tutto il suo corpo gli crollò addosso, esausto, e Mamoru emise un lungo sospiro, accogliendolo nel proprio abbraccio. Intrecciò le gambe alle sue, gli fece tutto lo spazio possibile per tenerlo vicino o impedirgli di scappare ancora, anche se era certo che non sarebbe accaduto.

Il respiro diventava davvero regolare, ora, e non per ingannarlo. Ed era caldo, arrivò in fretta a passare il cotone della t-shirt. Caldo, calmo, poco alla volta. Mamoru gli affondò le mani nei capelli, se li fece scorrere tra le dita; gli carezzò la guancia coperta dalla barba irregolare e morbida.

«Non importa quante terapie potrai fare, rimarrai testardo», disse abbozzando un sorriso.

«Scusami. Scusami per oggi, per prima, per… Scusa.»

«Mh-h…»

«Tutta questa storia mi ha mandato nel panico…»

«Perché? Non è successo niente di male.»

«Non mi fido di lui! Non-» Si interruppe e scosse il capo; pareva gli stesse scavando nel petto per nascondersi dentro la sua carne e tra le ossa. «Non lo capisco…»

«Credo che neppure lui riesca a capire te.»

«Si è avvicinato troppo. Non voglio…»

«Perché?»

«È un bugiardo, Mamoru.»

«Le persone cambiano. Sei cambiato anche tu, e lui mi sembra abbia fatto passi enormi in questi anni. Ricordi la nostra prima cena tutti insieme?»

Shuzo si sollevò con decisione, lo guardò dritto negli occhi. «E allora perché non dirmelo?! Perché fare tutto questo e tenerlo nascosto come il più grande segreto del mondo?! Nemmeno mezza parola! Ti rendi conto? Sono mesi che fa ikebana e io non lo sapevo.»

Mamoru sollevò la schiena e gli prese il viso tra le mani per guardare meglio in quegli occhi smarriti. «Forse perché, come te, anche lui ha paura.»

«Io non ho paura!» Shuzo fece per ritrarsi, ma lui non mollò la presa.

«È la tua balla preferita, devi sempre dirla.»

Al secondo tentativo, Shuzo riuscì a divincolarsi o, meglio, Mamoru gli concesse di andare. Erano entrambi seduti sul divano.

«Così come io non potevo dirti come stavano le cose, perché non spettava a me.»

«Tanto l’ho saputo lo stesso.»

«Un caso. Ora cosa conti di fare?»

Shuzo fece scrocchiare le dita, continuò a guardare da un’altra parte, ma non gli sfuggì la mezza occhiata che rivolse al butsudan. Durò solo qualche secondo.

«Gli ho dato tante possibilità in passato, era allora che avrebbe dovuto fare qualcosa, non adesso. Allora. Quando ancora ci speravo e m’importava qualcosa, ogni volta mandava tutto a puttane.»

«Siete tutti e due cresciuti. Tu non sei più-»

«No. Non sono disposto a rischiare ancora, non ne vale la pena né m’interessa.»

«Shuzo-»

«Lui resta fuori.» Lo disse con l’indice puntato e un tono duro come la pietra. «È la mia scelta e ve la dovrete fare andare bene, sia tu che mamma. Sono io quello che si è visto togliere il cognome, sono io quello che voleva rinchiudere in una scuola militare, sono io quello a cui non ha permesso di vedere suo fratello, a cui ha detto di non essere più suo figlio. Non m’importa quello che sta cercando di fare o quanto nobile possa essere, per me non è abbastanza. E forse non lo sarà mai. Vi sto solo chiedendo di accettarlo.»

Akio aveva troppi punti di svantaggio, se elencati in maniera tanto precisa, e non erano neppure tutti. Mamoru, questo, lo dovette riconoscere. Nemmeno lui sapeva se, trovandosi al posto di Shuzo, avrebbe mai preso una decisione diversa. Dove finiva la fiducia quando te ne privavano da bambino? Quasi di certo non ritornava più.

«Okay», disse, annuendo più volte e con convinzione crescente. «Okay, va bene. Se questa è la tua scelta a me va bene.» Gli passò una mano nei capelli, li smosse massaggiando la nuca e scivolò sull’osso che sporgeva solo per sfiorarlo con affetto. Infine, si alzò. «Domattina ci aspetta un’altra lunga giornata, e noi abbiamo solo… mh, temo solo quattro ore di sonno. Ti odio per questo.»

Nel tentativo di superarlo si sentì afferrare per la vita e trattenere. Le braccia lo avvolsero e strinsero; una mano aperta alla base della schiena, l’altra a circondare il fianco. La testa di Shuzo trovò appoggio contro il ventre. Lo cercava ancora, lo cercava sempre, quel calore e rifugio che poteva offrirgli il suo corpo. Un gesto piccolo che lo faceva sentire indispensabile e ‘casa’, per lui.

«Non sono giustificabile per oggi. Per averti minacciato e aver alzato le mani. Domani chiamo Kido, fisso un appuntamento. Scusami…»

«Se lo rifai ti accoppo.»

«Sei stato scemo a non avermi accoppato anche prima.»

«Nah, eri ubriaco, non volevo mica la vittoria facile.»

Le spalle di Shuzo sussultarono, poi si alzò e Mamoru poté avere la certezza che sulle sue labbra ci fosse – anche se piccolo e sbilenco – un sorriso. Nella penombra i suoi occhi lo guardavano, colpevoli, tanto da sfumare anche quella smorfia divertita.

Gli poggiò due dita sulle labbra prima che il fiato che aveva preso diventasse suono.

«Qualsiasi cosa stai per dire, non dirla. Ti sei giustificato e pianto addosso abbastanza, oggi. Abbracciami e basta.»

Shuzo non se lo fece ripetere e il suo volto sparì subito tra la spalla e il collo. Nella stretta delle braccia, Mamoru avvertì la paura; perché ne aveva avuta e ne aveva ancora, anche se non faceva che negare.

Anche lui lo strinse forte.

«Ma la prossima volta parlami, invece di fuggire, e non smettere mai di fidarti di me.»

 

“Forti piogge mi cadono addosso,

mentre dico il mio ultimo desiderio.

Le cose che mio padre ha fatto davanti a me,

mi stanno ancora suonando in testa.

Tale padre, tale padre…

…tale figlio.”

 

Like Father, Like Son – Struggle Jennings ft. Joshua Hedley

 

 


 

 

Note Finali: …sembra che il perdono non abiti qui.

Di certo, non a casa Malerba.

Shuzo non l’ha presa un granché, Akio ancora non lo sa e Mamoru si trova nel mezzo di quella situazione che è pronta a esplodere in un nuovo casino che non finirà bene.

La paura rende gli uomini facili a commettere degli errori, a cadere e a reagire con forza in decisioni affrettate o solo estreme.

Se poi uno dentro c’ha il cannibale come Shuzo… *nods*

Ci rileggiamo lunedì :* <3

 

 

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Capitolo 9
*** VIII: ...e alla distanza del sole ***


Roots - Capitolo 8

 

 

 

- VIII: ...e alla distanza del sole -

 

 Akio non si era mai affidato alle sensazioni, costruendo tutta la vita sulla concretezza. Le sensazioni erano astratte, difficili da affrontare in maniera pratica, difficili da inquadrare. Per lo più superflue e ininfluenti. Ma da quando Shuzo era tornato o, meglio, da quando lui aveva cercato di avvicinarsi a suo figlio, aveva iniziato a fare più spesso affidamento sull’istinto e quelle intuizioni che un tempo avrebbe catalogato come inutili.

L’ultima quella mattina, mentre faceva colazione. Yumeko aveva continuato ad apparirgli tesa nel girare distrattamente il cucchiaino nel tè senza neppure guardarlo. Il suo istinto aveva riconosciuto l’allarme, glielo aveva comunicato, ma non aveva posto domande. La tensione però era strisciata fino a lui, l’aveva contagiato, così aveva terminato quello che restava del caffè ed era andato al lavoro.

Per un po’, preso com’era stato dalla solita routine, ci aveva pensato solo distrattamente, scegliendo di ignorare il formicolio di disagio che sentiva addosso come una giacca cucita male.

Poi la porta dello studio si era aperta, proprio mentre era concentrato su un rapporto di uno stabilimento che gli aveva mandato Ryuusei, e Yumeko era scivolata all’interno portando con sé tutta la tensione di quella mattina, come la ventata d’un profumo.

Akio sgranò gli occhi e tolse gli occhiali, guardò l’orologio da polso. «Non sei un po’ in anticipo per il nostro pranzo? Non sono neppure le dieci e mezza.»

Yumeko tolse i grandi occhiali da sole rotondi e sciolse il foulard di seta che aveva al collo. Infilò tutto nella borsa che le pendeva al braccio.

«Non sono venuta per il nostro pranzo. Volevo parlarti di una cosa e non volevo farlo per telefono.»

Akio si alzò. Girò attorno alla scrivania e spostò la poltrona per sua moglie. Un gesto che a volte gli dicevano fosse troppo demodé, ma che aveva sempre ripetuto per lei, fin da quando si erano conosciuti. Lui prese posto nella poltrona di fronte.

Se la mattina Yumeko gli era sembrata tesa, ora nei gesti e nelle espressioni leggeva chiara preoccupazione. Di nuovo, l’assorbì, e il disagio che aveva vestito si strinse attorno al petto, dentro.

«Ieri non sono stata del tutto sincera quando mi hai chiesto se fosse tutto a posto…»

«Lo avevo capito. Che è successo?»

Yumeko gli prese una mano. Akio sentì che era fredda.

«Shuzo è venuto a casa.»

Akio tese l’intera schiena come vi avessero piazzato un ferro rovente, lo riportò ai tempi in cui era stato imponente e fiero. I tempi in cui era stato sequoia. Eppure, dentro, non avvertiva la vecchia durezza, quanto un calore che si allargava inaspettatamente dal petto verso la pancia.

«Davvero?»

Da quanto tempo era mancato? L’ultima volta che lo aveva visto in quella casa risaliva ai tempi dell’ultima, grande fuga. Lui era andato a prenderlo all’uscita del riformatorio e lo aveva riportato a casa. Quella sera stessa si erano incontrati a cena. Shuzo era scappato il giorno dopo, e non si erano incrociati.

Suo figlio aveva avuto quindici anni.

«E… come mai? Com’è andata? Ricordava dove fosse e come… È salito in camera?»

La camera di entrambi, che poi era diventata solo di Yuzo. La tensione nella schiena si perse un po’ quando ricordò che da quella stanza aveva tolto tutto ciò fosse appartenuto al figlio scapestrato. Seppure Shuzo vi fosse entrato, ci sarebbe stato poco o nulla dei suoi ricordi.

«Sì, ma non è per quello che sono qui. Lui era contento. Ha rivisto le cose di suo fratello. Era contento davvero», ripeté Yumeko, poi ingoiò il piccolo sorriso che aveva accennato. «Ha visto la serra.»

Akio ricordò quella assurda sensazione di déjà-vu avuta la sera prima. Shuzo c’era stato davvero, allora, e l’istinto… l’istinto aveva cercato di avvertirlo, ma lui era ancora neofita di quel modo di vivere e non aveva capito.

La schiena crollò del tutto e, più che sequoia, appariva come un pezzo di burro ammollato. Ora le sensazioni che gli parlavano, riusciva a comprendere bene cosa stessero dicendo e non s’incupì per questo. Chissà come gli sfuggì un sorriso; gli prendeva solo metà della bocca, però.

«Non l’ha presa bene, vero?»

Yumeko abbassò lo sguardo come ne fosse colpevole, ma la colpa in tutto era sempre stata solo di una persona. E quella persona era lui.

«È andato su tutte le furie. Quando ha chiesto di volerla vedere era così entusiasta che ero convinta ne sarebbe stato solo molto sorpreso, magari avrebbe borbottato qualcosa, ostentato indifferenza e nulla di più.»

«Invece ne ha dette di tutti i colori», anticipò Akio e magari, se si fosse sforzato facendo del male a sé stesso, avrebbe anche potuto immaginare quali parole fossero volate.

Yumeko gli strinse la mano. «Era così in collera quando è andato via…»

«Non gli avrai anche detto della Sogetsu?»

«No…»

Akio tirò un mezzo sospiro sollevato.

«…ma Mamoru mi ha telefonato questa mattina, dopo che tu eri già uscito. Ieri sera, Shuzo aveva una cena con altri maestri d’ikebana della città. C’era anche il tuo… Shuzo lo sa.»

«No, no, no!»

«Mi dispiace…»

«Avrei dovuto essere io a dirglielo!»

«Hai aspettato troppo. Credevi che non sarebbe venuto fuori? Sono mesi che vai alla Sogetsu.»

«E quando avrei potuto farlo?! Come?! Credi che non ci abbia mai pensato? Non è facile!»

Akio si alzò di scatto e camminò a vuoto per lo studio con falcate ampie. Si massaggiò il viso e poi guardò Yumeko rimasta seduta e che lo fissava con espressione crucciata. Allora si fermò, le mani puntellate sui fianchi, sotto la giacca aperta. Espirò a fondo e abbassò il viso per guardarsi le scarpe.

«Scusa, hai ragione tu», disse tornando verso di lei. «Avrei dovuto farlo prima. Non sarebbe comunque cambiato niente, ma forse non sarebbe finita così.»

Crollò a peso morto sulla poltrona, mentre tutte le conquiste raggiunte in quei mesi cadevano in pezzi, una dietro l’altra: vetrate messe in fila e attraversate da uno stesso sasso scagliato con tutta la forza possibile. Era stato a un passo dal capire ogni cosa, non si era mai sentito così vicino a suo figlio come in quei mesi, ma ormai il danno, seppur involontario, era stato fatto.

Yumeko tornò a prendergli la mano. «Lasciamo passare qualche giorno. Diamo tempo a Shuzo di metabolizzare queste notizie inaspettate. Era davvero sconvolto, non avrebbe mai pensato che tu…»

«Perché non gli ho mai dato modo di potersi aspettare qualcosa da me. Ho sempre preteso e basta. Ero io quello che si aspettava che lui rispondesse a tutte le mie aspettative, e non gli ho mai dimostrato nulla. Ma nessuno di noi due, ora, può aspettare.»

Akio si alzò, si allungò sulla scrivania, recuperò il cellulare e le chiavi della macchina.

«Che vuoi fare?»

«Devo parlarci.»

«Non è una buona idea… Non adesso. Aspetta un paio di-»

«Giorni? Che diventano settimane? E dopo cosa, mesi? E senza accorgercene saranno passati anni. Non voglio, Yumeko. Non un’altra volta in cui torniamo a ignorarci come non esistessimo più l’uno per l’altro. Ho sempre rimandato e aspettato che le cose si sistemassero da sole o che il tempo ci mettesse una pezza, ma se non sono io a provarci, non risolveremo mai niente.»

Furono le ultime parole cui Yumeko non rispose, limitandosi a guardarlo mentre inforcava l’uscita in tutta fretta, senza aspettarla né chiederle di andare con lui, perché era da soli che avrebbero dovuto affrontarsi.

Come padre e come figlio.

 

Da quando si era trasferito a Obuchi, le uniche notti in cui Shuzo aveva dormito male erano state quelle in cui non aveva avuto Mamoru al suo fianco. Eppure, quando al mattino si era svegliato non c’era stata la sensazione di riposo che solitamente lo accompagnava. Forse perché aveva dormito solo quattro ore, ma era una di quelle giustificazioni annoiate di chi era troppo stanco anche solo per inventarsene di migliori. L’unica cosa certa, era stata che la magia che Mamoru aveva sempre avuto su di lui stranamente non aveva funzionato. La sua arma – perché Mamoru continuava a esserlo – aveva fatto cilecca, si era inceppata come i migliori Kalashnikov e lui aveva continuato ad agitarsi nel letto. A sentire un fastidio continuo dentro di sé, un dolore che non era riuscito a localizzare perché sembrava venire dappertutto. Ossa, muscoli. Forse dalle caviglie? Boh. Forse dalle spalle? Boh. Forse dal petto? Boooh.

Shuzo si era tenuto stretto alla sua ancora, la testa nascosta nel petto e sotto alle lenzuola. Le braccia erano state salde attorno a Mamoru, il calore era stato continuo, il battito… il respiro…

Eppure, quando alla mattina la sveglia era suonata alle sette, lui aveva avuto già gli occhi aperti e asciutti. Si era alzato, dicendo a Mamoru di prendersi un altro paio d’ore di riposo, perché avrebbe pensato lui al resto e il suo compagno aveva solo mugugnato, troppo stanco per capire cosa-dove-come-quando.

Shuzo ne aveva sorriso, gli aveva baciato la testa dai capelli arruffati e si era trascinato fino al salotto. Aveva acceso una sigaretta senza nemmeno mettere su il caffè. Si era seduto al divano e tra il salire delle volute di fumo e lo scendere nel petto del catrame e della nicotina aveva disaminato i propri comportamenti trovandoli così puerili da chiedersi se avesse davvero trentasette anni o solo sette. In faccia aveva la barba o quella era peluria prepuberale?

La rabbia, il cannibale avevano preso il sopravvento e lui li aveva lasciati fare, perché la cosa che si era trovato davanti era stata troppo grande affinché potesse affrontarla da solo e uscirne indenne.

Non aveva neppure saputo spiegarsi bene cosa avesse provato davvero: le emozioni si erano aggrovigliate strette, nodo di radici indistricabile. Quando gli capitava di trovarne mentre ripuliva una pianta, quei nodi potevano fare solo una fine. Forse era quello a fargli male, senza che ne trovasse il punto preciso. Era quel nodo tirato, smosso per cercare di scioglierlo a tutti i costi quando era palese non ci sarebbe riuscito. Che importava se quelle annodate sarebbero morte? Le altre radici avrebbero sopperito.

E lui quante radici aveva, dentro?

E quante Akio?

E fino a quanto potevano permettersi di strapparle via senza uccidere tutto?

Shuzo non era riuscito a rispondersi con chiarezza: uccidere tutto, chiudere ogni possibilità. Il giorno prima ne era stato certissimo e adesso? Una mezza nottata, degli scatti di collera e tutto era tornato a finire nel calderone del ‘forse’ in cui aveva gettato il suo rapporto con Akio da quando aveva scelto di metterne su uno.

Comunque, il problema peggiore di quella mattina era stato pensare di aver quasi aggredito Mamoru.

Quando lasciava libero il cannibale, poi non poteva certo sperare di non pagarne le conseguenze.

La sua era stata, dopo la sigaretta, iniziare la mattinata con una telefonata.

– Mori, questo è un record! Ti sei ricordato di me dopo due mesi? Per un attimo pensavo avessi perso il mio numero.

«Ah, no, dottore. Lo sa che io ritorno sempre, come ogni buona malerba.»

Kido aveva riso e lui, con tutti i suoi sensi di colpa, gli aveva spiegato cos’era accaduto.

– Era da parecchio che non ti prendeva così… – aveva sospirato lo psicologo, in tono accigliato.

«Lo so… Ma Akio mi ha spiazzato di brutto quando proprio non me l’aspettavo.»

– I genitori lo fanno, a volte. È come un marchio di fabbrica. Che ne dici se ne parliamo il prossimo lunedì? Sarò a Numazu per l’intera giornata; ti va di pranzare insieme? Così non ti faccio venire fino a Tokyo.

«Mi sembra un buon compromesso. Il pranzo glielo offro io.»

– Sarebbe poco professionale da parte mia, accettare.

«Non rompa, dottore. Ci vediamo lunedì.»

Si era quindi preparato in fretta e aveva iniziato la sua giornata con un leggero mal di testa da sbronza e l’espressione cupa.

«Se non fai un sorriso, temo che i nonni finiranno col chiamare l’ambulanza per farti portare all’ospedale più vicino.»

Shuzo si riscosse dai propri pensieri, distogliendo lo sguardo dal bicchiere che aveva tirato fuori dalla lavastoviglie e non aveva fatto altro che rigirare tra le dita senza decidersi a riporlo.

Kumi dava la schiena al locale e al bancone, tra le mani girava dei rocchetti di spago colorati per preparare i nuovi kokedama.

Shuzo guardò lei e poi oltre la sua spalla, dove il tre rimasti della Banda Bassotti lo studiavano da sopra una tazza di tè, un giornale spiegazzato e occhialetti calati sul naso.

«Ci fosse stato ancora Ikeda-san, buon’anima, gli avrebbe detto di farsi i fatti loro.»

«Che succede?» Kumi non mollò. «Sei silenzioso, oggi. E il fatto che ‘Mamoru dorme un po’ di più perché è stanco’ non me lo sono bevuto del tutto, sappilo. Che avete combinato? Se sono porcate non le voglio sapere!»

Shuzo snudò il sorriso smagliante, strinse gli occhi e sollevò più volte le sopracciglia. «Sei sicura che non vuoi saperlo? Potrei suggerirti spunti interessanti per ravvivare il tuo rapporto di coppi-ahiahi! La pianto, la pianto!»

Kumi smise di colpirlo solo quando si arrese alzando le mani. «Cretino! Sputa fuori cos’hai combinato e possibilmente senza battutacce!»

Shuzo si tirò più indietro, fino ad appoggiarsi al bancone di fondo, dove c’era la Cimbali. Cincischiò con il bric del latte, finse di voler sistemare una postazione che era già a posto.

«Ho reagito male per una cosa che ho saputo ieri, e me la sono presa un po’ con chi capitava a tiro…»

«Mamoru?»

«Anche.»

«Ti sei arrabbiato per un motivo valido?»

«Sì. Ma avrei dovuto prendermela con chi lo meritava, non con gli altri.»

«Capita di perdere le staffe e diventare intrattabile. Ma l’importante è ammetterlo e scusarsi, senza aspettare che siano gli altri a fare la prima mossa. Se sbagli, devi farla tu.»

«L’ho fatta.»

«E Mamoru ti ha perdonato?»

Annuì, Kumi si strinse nelle spalle.

«Allora smettila di stare col muso e rimuginare. Se Mamoru ci ha messo una pietra sopra, sai che è così. Non è un tipo che porta rancori. A meno che…» Kumi si avvicinò, alzò la testa per guardarlo meglio negli occhi. I suoi, due belle castagne lucide appena uscite dal guscio, avevano quel modo di scrutarlo, quando era così vicina, che aveva un po’ del paranormale. Gli aveva raccontato, una volta, di discendere da una famiglia di veggenti e Shuzo non aveva mai pensato che fosse matta per questo. «Chi ti ha fatto arrabbiare?»

Quella precisione chirurgica di saper fare le domande giuste, ad esempio, richiedeva o una mira da cecchino o, in alternativa, un sesto senso da fattucchiera.

«Quando le cose vanno male la risposta è solo una, Spydey

«Che ha fatto tuo padre?» sospirò Kumi.

«Non saprei: esiste?»

«Bene, perché a questo c’è rimedio: puoi mandarlo al diavolo ogni volta che se lo merita. Ma se non esistesse, Shuzo…» gli poggiò una mano sulle braccia che aveva incrociato al petto, e in quei begli occhi che tutto sembravano vedere, compreso l’invisibile, calò una leggera malinconia. «…allora non potresti fare niente per rimediare alla mancanza. Questo dovresti saperlo.»

«E tu dovresti sapere come si è comportato con me. Perché ne parlate tutti come se dovessi giustificare quello che ho passato a causa sua?! Mi sembra di essere tornato indietro di vent’anni, cazzo!»

Con un gesto stizzito si gettò lo straccio sulla spalla. Il vecchio livore risaliva, lo stesso che il giorno prima credeva d’esser riuscito ad acquietare stringendosi a Mamoru, ma che la notte lo aveva tenuto agitato. Era sempre lì, non voleva andarsene. Lui era in bilico per intero tra un’accettazione che non riusciva a digerire e un rifiuto totale che aveva ben chiaro ma non riusciva ad applicare. Li sentiva dibattersi prepotenti in egual misura e lo confondevano, lo arrabbiavano. Tutto era alimento per la rabbia: i silenzi di suo padre, la propria indecisione, l’invasione dello spazio personale, la paura che non fossero le ennesime bugie.

Sull’ultima si irrigidì.

Non aveva mai pensato alla paura in maniera così consapevole. E non gli piacque.

Kumi continuava a parlare, ma lui aveva perso già il filo del discorso tra i pensieri che si rincorrevano. Sentiva le orecchie calde all’improvviso; l’agitazione che si manifestava nel suo corpo con piccoli segnali.

«…con calma. Questo soprattutto. Non c’è bisogno di aggredirvi ogni volta, le stesse cose si possono dire anche senza scannarsi.»

«E qualcosa che non so la potresti aggiungere, Spydey

«Non fingere di rispondere come se avessi sentito tutto quello che ho detto. Se ne hai capito un quarto è già oro!»

Shuzo tenne il mento sollevato per un istante, ma una sghignazzata gli esplose letteralmente in bocca.

«E io che provo anche a parlarti seriamente. Perché spreco il mio tempo?»

La ragazza raggiunse di nuovo la postazione di confezionamento lasciandolo a ridacchiare come un cretino. Shuzo sapeva di esserlo, perché non aveva alcun motivo per comportarsi in quella maniera sciocca, ma il suo sistema di difesa si era azionato ed era ironico fino al ridicolo.

«Hai appena detto qualcosa di stupido che non vorrò sapere?»

Mamoru fece capolino in quel momento uscendo dalla porta a spinta che separava il locale dal retro. Aveva un’aria più riposata e Shuzo si tranquillizzò un pochino.

«Il nostro socio è idiota», rimbeccò Kumi dalla postazione di confezionamento.

«Grazie per la notizia dell’ultim’ora, piccoletta.» Mamoru guardò verso di lui e il suo primo istinto fu quello di distogliere lo sguardo. Ora non era più brillo come la sera precedente, e la vergogna per come si era comportato era più forte di ogni stupidità.

«Avresti potuto svegliarmi, non c’era bisogno che aprissi tutto da solo.»

«L’ho già fatto altre volte, non è un problema. Tu eri a pezzi, avevi bisogno di dormire ancora un po’.» Rimase a rigirare lo straccio per qualche minuto, lanciando occhiate disinvolte alla sala e ai clienti che, pacifici, continuavano a consumare le loro ordinazioni della mattina. Non era neppure mezzogiorno, per la pausa pranzo c’era ancora tempo. Lo sguardo ricadde sui nonni che continuavano a fissarlo con insistenza. Lui assottigliò le palpebre e si portò indice e medio agli occhi per dire ‘vi osservo mentre mi osservate’.

«Puoi venire un momento in cucina con me?»

La voce di Mamoru gli si appoggiò contro l’orecchio e lui girò appena il viso, inquadrando solo una parte del suo corpo, ma non il viso.

«Che c’è?»

«Vieni e basta.»

Mamoru chiese a Kumi di occuparsi del locale mentre loro sparivano oltre la porta a spinta.

Dall’altra parte, la veranda era aperta e l’aria calda di giugno era quel soffio piacevole che ti faceva stare in pace col mondo, pieno di profumi.

Shuzo si sentì afferrare alla vita dalle braccia di Mamoru, e l’attimo dopo era chiuso nel cerchio protettivo del suo abbraccio.

«Che succede?»

«Dimmelo tu. Credevo che ieri avessimo chiarito.»

«Infatti.»

«E allora perché non mi hai neppure guardato in faccia quando sono arrivato?»

Shuzo sospirò. Gli affondò la mano destra nei capelli; la sua testa poggiata sulla medesima spalla. Mamoru aveva il profilo che gli sfiorava il collo, il naso lo accarezzava con dolcezza e le labbra lasciavano baci sotto l’orecchio e nella parte d’incavo vicino alla clavicola. Piccoli brividi li seguivano appena ne lasciava uno, e il calore arrabbiato sfumava in uno che lo faceva sentire amato e protetto.

In quel momento, realizzò che invece era stato lui a non riuscire a proteggere chi amava da sé stesso.

«In passato hai fatto di peggio.»

«Questo non mi consola, gioia.»

«Ma non voglio nemmeno che ti abbatta.» Mamoru lo convinse a voltarsi. Dai fianchi, le mani gli presero il viso, glielo tennero alto. Tuffarsi nell’oscurità accogliente dei suoi occhi lo fece sentire a casa subito. Non era mai esistito, per lui, un buio così familiare in cui non si sentisse minacciato. «Col tuo carattere ci sono venuto a patti fin da subito. Lo conosco, so affrontarlo. E ti amo per quello che-»

Shuzo gli rubò le ultime parole. Le mangiò, per tenerle sempre con sé. Prendere acqua, restituire fiato, toccargli il collo con una mano e con l’altra la schiena. Vicino, sotto le dita, e poi guardarlo di nuovo negli occhi e continuare a sentirsi a casa.

«Credevo di essere io quello masochista, ma sotto sotto anche tu…»

«Il masochismo ha tante facce.» Mamoru sollevò un sopracciglio e lui sorrise. Lo abbracciò come non aveva fatto quando si era svegliato.

«Non ti ho salutato come si deve questa mattina», sussurrò nei suoi capelli. «Buongiorno.»

«Nh, per questo dovrai impegnarti di più se vuoi essere perdonato.»

«Non credo che quell’impicciona della Spydey approverebbe se cercassi di farmi perdonare sbattendoti sul tavolo della cucina… Ha borbottato qualcosa sul fatto di non voler sapere le nostre porcate, quindi…»

Sghignazzò nel momento in cui la porta a spinta veniva aperta con un colpo secco. Malerba si girò e proprio Kumi fece capolino sulla soglia, tenendo il battente con la mano.

«Shuzo, devi venire subito di là», disse con urgenza. «C’è tuo padre.»

Il corpo ebbe un moto involontario, un sussulto che lo irrigidì e lo fece staccare bruscamente da Mamoru. Lo sguardo fisso sul battente che smorzava l’oscillazione poco alla volta fino a fermarsi. Il calore della collera era tornato a salire, ricordandogli che la tregua, nella battaglia contro Akio, era esistita solo quando era scappato di casa, ma ora non era più disposto a essere lui quello che si allontanava, che abbandonava il campo e firmava la resa. Lui era lì per restare. Ci aveva messo così tanto a riguadagnare un posto in cui potesse sentirsi accolto, che se c’era qualcuno che doveva togliersi di mezzo, quello era Akio.

Mamoru lo afferrò per un braccio appena partì a passo di carica.

«Sei ancora convinto di quello che vuoi fare?»

«Ieri per colpa sua ho perso la testa, sono tornato indietro a quasi dieci anni fa, ho litigato con te, ho litigato con mamma. Sì, certo che sono convinto. Non ho bisogno di un padre.»

Ma nel dirlo, tra il ridestarsi del cannibale che scrocchiava le dita e sgranchiva le gambe, avvertì l’eco di un’altra sensazione. Aveva una dolenza vecchia che per tutto questo tempo si era annidata nei ricordi del bambino che era stato. Sembrava impossibile che facesse male come allora, eppure, nello spingere la porta avvertì distintamente qualcosa stirarsi dentro, fino al limite. E poi strapparsi, come quando saltava un bottone o il punto di una camicia. Uno strappo piccolo quanto la capocchia di uno spillo, ma dentro al quale, se ci avesse messo l’occhio, forse avrebbe potuto vedere il buco nero che celava dall’altra parte.

Vide subito suo padre che parlava con Kumi tra il banco del confezionamento e l’ingresso. Quando Akio lo notò, smise di parlare con la Spydey e si tese ancora di più di quanto già non fosse di suo. Aveva sempre la solita presenza rigida, dalla schiena dritta che lo faceva sembrare un ostacolo impossibile da abbattere. O, almeno, quando era stato bambino a lui era sembrato così. Ma poi l’immagine di quanto accaduto nell’izakaya si sovrappose alla figura che aveva davanti e vide quanto quell’imponenza fosse meno spaventosa e rigida, più curva.

La prima volta che aveva capito che suo padre era invecchiato era stato durante l’esecuzione di Daidouji. Se l’era trovato accanto, con i suoi colori ingrigiti, con le sue rughe profonde. Anche adesso erano così, e si era aggiunta qualche macchia sulle mani la cui pelle sembrava più sottile, attorno alle ossa; raggrinzita.

Akio era vecchio, lo scoglio spaventoso era una roccia sbeccata dalle erosioni del vento e delle acque, le sue, sempre in burrasca contro di lui, sempre desiderose di abbatterlo. Ebbene, ormai gli mancava solo un colpo e l’avrebbe visto finalmente colare a picco.

Si fermò accanto a loro, incrociando le braccia al petto. Adesso era lui a ergersi dritto e solido. Si augurò anche spaventoso.

«Sto lavorando», esordì guardandolo fisso. Kumi si dileguò in un attimo.

«Sì, lo so. Forse avrei dovuto avvisarti.»

«E quando mai lo fai?»

«Volevo solo scambiare due parole con te. Puoi concedermi dieci minuti?»

Lui sbuffò sarcasmo; tra le mani sentiva il manico del coltello, era suo e l’avrebbe stretto forte per affondare meglio il colpo. «Sono anche troppi. Te ne concedo cinque, ma non qui. Esci e aspettami nel vicolo dove c’è il retro del Kokoro. Ti raggiungo.»

Non gli importava che avesse o meno capito, Shuzo gli volse le spalle e tornò sui propri passi. Non cercò lo sguardo di Mamoru quando rientrò dietro al bancone. Anzi, a dirla tutta, non cercò lo sguardo di nessuno, perché quando si trattava di lui e Akio lo scontro era sempre a due: non esistevano alleati, ma solo loro. Però sentì i passi di Mamoru seguire i suoi quando andò nel retro e uscì in veranda.

«Avreste potuto parlare qui fuori. Non c’era bisogno di mandarlo nel retro.»

Shuzo saltò giù dall’engawa e infilò le scarpe da ginnastica, senza neppure allacciarle, ma facendo sparire le stringhe ai lati della scarpa.

«No. In casa mia non ci deve entrare. Non è più il benvenuto.»

«Shuzo, pensaci bene…»

«Avevi detto di essere dalla mia parte e di aver accettato la mia scelta, ieri. Hai cambiato idea?»

Mamoru, in piedi accanto alla colonna, emise un lungo respiro a labbra strette, affondando entrambe le mani nei capelli. Poi si accoccolò sui talloni e lo guardò accigliato.

«No. Sono sempre dalla tua parte, ed è proprio per questo che vorrei che ci pensassi ancora un po’, prima. Rischiate di non tornare più indietro.»

«E quando mai noi siamo andati avanti? A conti fatti, siamo sempre rimasti allo stesso punto, solo che ora sono io quello che rifiuta e lui quello che verrà rifiutato.» Sollevò le spalle, dentro non voleva sentire niente. «Vediamo se finalmente capisce cosa ho provato per tutti questi anni.»

Raggiunse il cancelletto, lo aprì. Akio era già fuori che lo aspettava, con le mani infossate nelle tasche dei pantaloni del completo grigio scuro. L’aveva sorpreso a compiere un circoletto su sé stesso che interruppe subito quando lo vide.

Fai quello che devi fare, quello che hai sempre voluto. Fallo e basta.

Il cannibale si leccò le labbra, frugò con precisione nel suo petto fino ad afferrare il nodo di radici tutto aggrovigliato. Lo studiò, lo soppesò e infine, con un gesto secco, lo strappò via.

 

Si era precipitato al Kokoro con la fretta di doversi spiegare, ma quando si era trovato davanti suo figlio, per un attimo aveva pensato che fosse meglio fare dietro front e andarsene. Shuzo, la sua figura per intero, lo aveva iniziato a respingere dal momento in cui si erano trovati insieme nel locale. Aveva avuto un ricordo spiacevole, di quando si era presentato lì e suo figlio era appena uscito di prigione. Era stato così sicuro di sé, così confidente nei propri mezzi e nelle proprie convinzioni. Era stato il vecchio Akio, quello che non voleva capire né vedere e pensava di essere dalla parte del giusto.

Ora sapeva quanto fosse stato nel torto e aveva perso tutta la sicurezza. Shuzo gliel’aveva rubata fino all’ultima goccia per usarla contro di lui.

Akio aveva le mani che gli sudavano nelle tasche e la quasi certezza che non sarebbe riuscito a spiegarsi né farsi capire come sperava, ma era disposto a rischiare lo stesso. Arrivato a quel punto, che senso avrebbe avuto tirarsi ancora indietro?

Avrebbe avuto davanti suo figlio, non un mostro.

E dire che una volta, quando l’aggressività di Shuzo era iniziata a emergere con tutta la forza, aveva pensato davvero che suo figlio lo fosse. Un mostro terrificante dai denti aguzzi che avrebbe divorato tutta la loro famiglia. Li avrebbe azzannati alla gola, squarciato le pance, mangiato le viscere. Come un cannibale insaziabile che distruggeva non per fame, quanto per il puro desiderio di fare terra bruciata. Aveva avuto paura di suo figlio, della sua diversità e allora aveva iniziato a combatterlo con tutti i mezzi a disposizione per non farsi sopraffare, perché quel figlio giorno dopo giorno si allontanava dalla somiglianza con sé stesso che aveva desiderato. Si allontanava e trasfigurava in qualcosa di incomprensibile e violento. Davvero, un mostro.

Solo ora aveva capito di averlo creato lui e che il mostro che vedeva in Shuzo era solo quello che era stato in prima persona. Anche per questo motivo non se ne sarebbe andato. Akio di suo figlio non ne aveva più paura. Però quando lo vide uscire dal cancello sul retro si sentì chiuso con le spalle al muro, con tutte le colpe messe in fila da un lato e dall’altro.

Strinse con forza le chiavi della macchina che aveva nella tasca. La seghettatura dell’acciaio iniziò a incidere il segno nella carne.

Shuzo era ben dritto e con le braccia conserte. Una struttura fisica ampia messa in risalto dalla postura. Anche in quello Akio si rivedeva, nell’usare la propria fisicità per imporsi sugli altri, ben prima dei gesti, degli sguardi o delle parole. E gli occhi di suo figlio erano di pietra. Il colore e la forma che richiamavano la mitezza di quelli di Yumeko e Yuzo erano piegati alla volontà di chi li portava, una volontà forte e spietata. Il cannibale-bambino che aveva ricordato era diventato uomo da molto tempo e aveva imparato a usare tutte le armi di cui egli stesso lo aveva dotato.

Akio non si mosse da dov’era, anche se avrebbe voluto fare un passo in avanti, ma la forza con cui Shuzo gli si opponeva lo teneva a distanza; era il loro muro dalle pareti trasparenti. Lo aveva scoperto alla famosa prima cena con i genitori di Mamoru, tutti insieme allo stesso tavolo non capitava da così tanti anni che ne aveva perso il conto. Era stato emozionante, era stato sfiancante ed era tornato a casa con una speranza che non avrebbe mai creduto di poter afferrare, un’opportunità. Ma ora, quel muro gli diceva di essere così spesso che per quanto potesse vedere attraverso, non c’erano più spiragli per passare. Quello che aveva trovato e custodito si era richiuso e lui aveva peccato di prudenza e paura.

«So che hai visto la serra e che hai saputo del-»

«Di quello che ti sei messo in testa o di quello che vuoi dimostrare non me ne fotte un cazzo, ma tutto quello che fai distrugge quello che sto costruendo. E non te lo permetto.» Shuzo calò il primo colpo d’ascia alla base delle sue gambe senza neppure dargli modo di prepararsi a riceverlo. «Ieri ho litigato con Mamoru per colpa tua, ci arrivi? Per la tua stronzata di voler… cosa? Dedicarti alle piante? Fare ikebana? Non te n’è mai fregato un cazzo.»

«Non c’era motivo per cui litigaste, stavo solo cercando di-»

«Qualunque cosa fosse cercavi male.»

«Ascolta. Capisco che tu possa essere arrabbiato.»

«No, tu non capisci un cazzo, papà! Non hai mai capito un cazzo di niente di me da che sono venuto al mondo!»

«Lo so che in passato ho-» Akio si fermò da solo e vide anche Shuzo storcere una smorfia di disappunto verso il pavimento. Entrambi lo avevano sentito. «Mi hai appena…»

«È stata solo una fottuta abitudine del cazzo! Lo vedi? Capisci solo quello che ti fa comodo!» s’arroccò Shuzo, indietro di un passo e lui venne avanti.

«Mi hai sempre accusato di non aver fatto nulla per te e ora sto cercando di fare del mio meglio. Se solo provassi a fidarti, per una volta.»

«Nessuno te lo ha chiesto, perché quel tempo è passato! Che ti interessi alle piante adesso non cambia niente! Era allora che avresti dovuto farlo! Era allora che ti saresti dovuto esporre per me! Che avresti dovuto difendermi! Ora non ne ho più bisogno.»

«Lo so, io volevo solo-»

«Cazzo, non è quello che vuoi tu, ci arrivi?!» Shuzo allargò le braccia nel vento e il passo indietro che aveva compiuto per un istante divennero altri tre in avanti.

Così vicini…

«È quello che voglio io! Per una volta, è quello che voglio io! E io non ti voglio nella mia vita, come te lo devo dire?! C’ho provato, ho cercato di digerire la tua presenza in qualsiasi modo. L’ho fatto per la mamma e l’ho fatto per Yuzo, ma, ehi!, non funziona. Perché mi urti. E mi urta quello che fai, quello che pensi e quello che dici perché è falso! Tu sei falso dalla testa ai piedi e pretendi pure la mia fiducia?! Tu?! Merda, sei completamente fuori di testa!»

…e alla distanza del sole.

Akio si sentì mancare ogni concretezza da sotto ai piedi, a partire dalla terra. E dov’era finito il fiato? Era così corto, adesso, come lo stoppino d’una candela consumata. Si era consumato anche lui, in poche parole e in quegli occhi di pietra che dicevano che non c’era spazio per venire perdonato, non c’erano possibilità. Forse non c’erano mai state dal principio.

«Almeno… ascoltami…»

«Perché dovrei? Per anni ho sperato che fossi tu ad ascoltare me, a chiedermelo almeno una volta. Perché dovrei renderti il favore, adesso? Piuttosto, se davvero vuoi fare qualcosa per il sottoscritto: vattene e non tornare. Per davvero però. Qui non ti ci voglio. C’abbiamo provato, non è andata. Così è la vita, Akio, non si può vincere sempre. Accettalo e basta.»

La semplicità di un’alzata di spalle, la noncuranza nel tono di voce, gli occhi freddi come la terra profonda che non era baciata dal sole. Di rovente c’era solo la rabbia di suo figlio covata a lungo, di rovente c’era il sogghigno del mostro che aveva fatto crescere, dentro di lui, e poi aveva abbandonato a sé stesso. Si era preso la vendetta che si era meritato e a lui non era rimasto più niente.

Akio sentì il calore fluire via dal corpo con la velocità di un velo che scivolava a terra. Dalla testa verso i piedi sentì freddo, e il cuore accelerare, accelerare, accelerare. Stava arrivando e ormai aveva imparato a riconoscerlo.

In bocca aveva la colla, le frasi restavano parte di un amalgama che non riusciva a ingoiare. Era bloccata nella gola, diventava di piombo. Fece un passo indietro e l’appoggio del piede era incerto.

L’attacco di panico stava arrivando come lo ricordava e quando vide suo figlio stringere appena gli occhi decise che non si sarebbe fatto sorprendere davanti a lui da tutte le proprie debolezze accumulate.

Shuzo avanzò di mezzo passo, lui si tirò dritto con la volontà che gli era rimasta, rigido e severo come un tempo. L’ultimo equilibrismo della sequoia prima di cadere.

«Akio…?»

«Sì, hai ragione. Non è andata, non funzioniamo. Non funzioniamo affatto. Abbiamo solo perso tempo», disse in fretta, anche se nella testa continuava a ripetersi una tiritera che aveva una voce sconosciuta.

Non è il tempo a perdersi…

Erano loro.

Si erano persi da troppo e forse ne sarebbero venuti fuori, ma non era detto che dovessero farlo insieme. Shuzo, di sicuro, aveva già trovato la sua strada. Akio, invece, sarebbe rimasto lì a cercarla ancora.

Sentì la faccia contrarsi in un’espressione che riconobbe innaturale. Aveva un sorriso a tirargli la bocca, ma non uno qualunque. Doveva far valere la presunzione della propria recita, doveva crederci egli stesso almeno un po’ per sperare che ci credesse anche suo figlio. Quindi si tese tutto, perché il corpo era il primo mezzo dell’attore per trasmettere un’emozione e lui doveva dire a Shuzo che non importava se l’aveva rifiutato e che, anzi, gli aveva fatto un favore così poteva smetterla con la pantomima del provare a cercare un punto d’incontro. Tanto, sotto sotto, neppure lui l’aveva mai voluto davvero, lo stava facendo per sua moglie e per Yuzo; proprio come Shuzo.

Il gioco infantile di uno specchio riflesso.

Shuzo strizzò gli occhi assieme al disprezzo sprigionato dallo sguardo e Akio non rimase a fare da bersaglio. Gli volse le spalle e aveva le budella ritorte e i brividi nella schiena, sotto ai denti. Sudore freddo nei palmi delle mani, sulla fronte, attorno al collo. Si allontanò dal vicolo a passo sostenuto e ogni sforzo era proiettato a camminare, mettere un piede dietro l’altro e mantenere l’apparenza della propria rigidità e sicurezza. Non importava se sentisse le gambe sgretolarsi come fossero di sabbia asciutta. Tolse le mani dalle tasche per darsi spinta e bilanciamento. Le apriva e chiudeva, erano intorpidite. Tutte le sue appendici erano un formicolio di non detti, quelli taciuti con Shuzo erano precipitati nelle mani e nelle gambe, assieme alle ultime speranze che lo avevano spronato negli ultimi mesi, anni.

La macchina era parcheggiata all’altro lato della strada, vi salì senza mai guardarsi indietro. Le chiavi già tra le mani che iniziavano a tremare vistosamente, ma non da chi era fuori dal suo spazio chiuso e protetto.

Akio si disse di tenere duro, sarebbero bastati pochi metri, anche solo arrivare alla fine della strada. Eppure, riuscì per miracolo ad andare anche oltre, guidando grazie alla meccanica dei propri ricordi che lo facevano muovere anche senza ragionare. Nel percorso allentò la cravatta, spuntò la camicia, respirò a bocca aperta. Poi, nella prima stradina isolata, costeggiata solo dai cipressi e che neppure sapeva dove portava, accostò e spense il motore, lasciandosi andare contro il seggiolino. Il viso al tettuccio, gli occhi chiusi, la bocca spalancata.

La lunga guerra con Shuzo si poteva dire finita, ma nessuna pace era stata siglata, solo una resa, la sua, incondizionatissima.

Ora poteva lasciare al panico tutto lo spazio di cui aveva bisogno.

Aprì gli occhi a mezz’asta e si riversò in avanti, senza più un briciolo di forza. La testa appoggiata al clacson che suonò a lungo la sua unica nota, perdendola nel nulla.

 

Gaho l’aveva guardato per tutta la durata della lezione. Gli occhi fissi su di lui e nessun altro. Non aveva neppure gironzolato tra i banchi per mettere mano alle composizioni degli altri allievi. Aveva fissato Akio Morisaki e non aveva capito cosa fosse accaduto.

Perché che fosse successo qualcosa era palese.

Quell’uomo l’aveva colpito fin da subito e non l’aveva mai visto così soffocato dai propri pensieri come in quel momento. Il caos che aveva cercato di addomesticare – anche con ottimi risultati – gli era esploso tra le mani e non sembrava più in grado di rimetterne i pezzi in fila. Il suo sguardo era vuoto di tutto. Il caos poteva fare anche questo; la confusione e il suo contrario sapevano essere figlie di uno stesso padre.

«Riko!» Joji riprese lo zelante nipote che aveva cercato di parlare al signor Morisaki e gli fece intendere di non disturbarlo con una rapida sgrullata di capo. Tutti sembravano essersi accorti della differenza, mentre Akio continuava a fissare, come in trance, il vaso che aveva davanti. Non lo aveva neppure toccato e Gaho pensò che non lo vedesse affatto: lo fissava, si passava una mano sul mento e poi sulle labbra e non faceva nulla che non fosse guardare. Come non avesse avuto altra scelta, come avesse esaurito le idee e sé stesso.

Attorno, il chiacchiericcio era animato e un po’ perplesso, ma solo il trillo penetrante della campanella riuscì a forare la barriera che Morisaki aveva eretto. Quasi saltò dalla sedia e si guardò attorno, confuso dal posto, dal momento, dalle persone. Infine, fissò ciò che aveva davanti e sprofondò il viso in entrambe le mani, sfregandolo in fretta.

Sia Morisaki che Gaho attesero che gli altri fossero usciti per fare le rispettive mosse.

Akio afferrò la giacca abbandonata allo schienale della sedia e poi la cartella del lavoro che non scordava mai di portare.

«Ci sono giorni in cui creare non è una buona idea», disse Joji, fermandolo tra i banchi.

«Sì, ho… Mi sono distratto.»

«Potrai lavorarci la prossima volta.»

«Non credo ce ne sarà una.»

Gaho si accigliò; Akio aveva di nuovo la rigidità del primo giorno o, almeno, cercava di imitarla ma era un qualcosa di stridente e artificioso.

«Ho parlato con tuo figlio l’altro giorno.»

«L’ho saputo.»

«Perché non gli hai detto che sei mio allievo?»

«È una lunga storia.» Akio accennò un sorriso, mentre guardava lo spigolo del tavolo su cui aveva poggiato la mano. «Il succo è che non sapevo come fare. Non sono mai stato capace di parlare con lui, e così ne pago le conseguenze, cercando da solo le risposte.»

«Non sempre le cose si debbono fare da soli.»

«A volte è necessario.» Akio alzò lo sguardo. «Comunque non mi sembrava di averti detto che Shuzo Mori fosse mio figlio.»

Joji si strinse nelle spalle e sorrise. «Non ce n’era bisogno. Si vede.»

«Davvero?» Gli occhi di Akio ebbero un guizzo di orgoglio, ma poi ricomparve l’accenno di sorriso nelle labbra. Anche in quello si assomigliavano, era una smorfia particolare che Gaho aveva visto spesso sul volto del sensei Mori, solo più storta e sicura di sé. «Non dirglielo, non gli farebbe piacere.»

Morisaki lo superò accennando un saluto col capo, che chinò subito dopo. La sua altezza piegata sulla sommità delle spalle da un peso che non si vedeva, ma che doveva essere pesante. Joji era stato convinto di averlo aiutato ad alleggerirlo e ora era tornato.

Quanto poco conosceva di Shuzo Mori come persona e quanto invece poteva capire del suo spirito attraverso i suoi lavori era incredibile; tra le due realtà c’era un abisso che solo la comparsa di Akio Morisaki gli aveva fatto scoprire. Del sensei della KadouEnshu sapeva briciole del passato – l’aspetto più chiacchierato di tutti, quello della galera – ma solo ora stava scoprendo che c’era moltissimo altro rimasto sepolto. Un diverso cognome, vecchi rancori sospesi tra padri e figli.

«Che è successo, Akio?»

Sulla porta, Morisaki si volse e guardò verso i rami e i fiori abbandonati sulla cattedra, inspirò a fondo e Gaho lo imitò. L’odore delle foglie e dell’acqua era forte, l’odore dei fiori. Per lui era familiare come quello del caffè, ma per Akio cos’era diventato?

«Credevo che dopo averle detestate così tanto, le piante potessero darmi le risposte che stavo cercando. Potessero unirci, anche se ci avevano diviso. Invece hanno solo terminato il lavoro iniziato anni fa o, forse, mi hanno aperto gli occhi su quella verità scomoda che non volevo vedere: per quanto profonde, tutte le radici possono spezzarsi, se si colpisce il punto giusto.» Morisaki si volse, poggiò una mano sullo stipite. «Ti ringrazio del tempo che mi hai dedicato e delle cose che mi hai insegnato, sensei. Penso che da ora in avanti continuerò da solo.»

Akio Morisaki se ne andò così, vestendo la stessa sconfitta con cui era arrivato. Era come un cappotto vecchio, ma confortevole, che cadeva bene nei punti giusti però aveva il fondo delle tasche bucato. Ti ci affezionavi, si instaurava del sentimento, dei ricordi e anche se sapevi di doverlo buttare, lo tenevi con te, perché avevi provato a cambiare ma non ne avevi guadagnato nulla.

Vecchio cappotto, vecchi rami. Una composizione ormai sfiorita.

La morte che moriva una seconda volta.

Gaho raggiunse la porta dopo che Akio fu uscito, guardò verso la sua figura di spalle che si allontanava solitaria per i corridoi silenziosi della scuola. Avrebbe voluto dirgli qualcosa che potesse lenire la delusione che gli aveva letto negli occhi, ma non sarebbe servito, perché non l’avrebbe accettato; era un tipo orgoglioso, proprio come il figlio. Come aveva detto, le risposte doveva trovarle da solo e magari dopo lo sconforto o nel mezzo dello stesso, sarebbe riuscito a capire.

«Le piante rinascono anche nei deserti, Akio Morisaki. Ma solo se sanno aspettare la pioggia.»

 

“Combattiamo, tutto il tempo,

tu e io, va bene.

Siamo la stessa anima.

Non ho bisogno… non ho bisogno di sentirti dire

che se non fossimo così simili

ti piacerei molto di più.

 

Ascoltami adesso,

ho bisogno di farti sapere

che non devi andare da solo.

 

E sei tu quando guardo nello specchio.

E sei tu quando non rispondo al telefono.

A volte non puoi farcela da solo.”

 

Sometimes you can’t make it on your own – U2

 

 


 

 

Note Finali: …e boom. Il cannibale ha dato fondo al rancore represso, si è preso la rivincita e Akio non può far altro che raccogliere tutti i cocci che ha disseminato negli anni. Ha provato a fare le cose giuste, ha provato a trovare un modo per farsi perdonare ben sapendo che avrebbe ricevuto un rifiuto… ma alla fine non è stato preparato lo stesso.

Shuzo lo ha messo alla porta.

Lui ha potuto solo andarsene.

E i ruoli si sono invertiti per una volta e fanno malissimo. Ora anche Akio sa cosa si prova a stare dall’altra parte.

Ma c’è rimasto ancora un capitolo.

Ci vediamo alla fine :*

 

 

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Capitolo 10
*** IX: Radici ***


Roots - Capitolo 9

 

Note Iniziali: Perdonatemi, capitolo molto lungo che non mi andava di dividere, visto che è l'ultimo.

Prendetevi tutto il tempo e ci rileggiamo alla fine :*

 

Buona lettura.

 

 

 

- IX: Radici -

 

 Avere avuto l’ultima parola, aver visto il suo spettro più grande andarsene senza averla spuntata.

Il cannibale sorrideva della vittoria, lui sbatteva il cancello alle proprie spalle marciando con passo marziale. Aveva la direzione nella testa, i gesti da compiere in fila per essere eseguiti e nient’altro contava, nient’altro. Neppure gli occhi di Mamoru che lo seguivano.

“È finita qui”, anticipò ogni domanda con una risposta. Dalla tasca anteriore del grembiule da lavoro cavò il cellulare che aveva sempre portato con sé, costantemente, per giorni. Non aveva mai voluto ammettere il motivo di quell’attaccamento, sperando che nessun altro se ne fosse accorto. Lo lanciò sul tavolo della cucina.

Averlo vicino non gli serviva più.

Quello che doveva fare era stato fatto.

Non c’erano più radici.

 

Chiuse il rubinetto e sgrullò le mani nel lavandino con due gesti secchi, per togliere il grosso dell’acqua. Sfilò lo strofinaccio appeso al manico del forno e dopo essersi asciugato se lo caricò sulla spalla, appoggiandosi con i palmi al bordo del lavello.

Sul fondo della vaschetta si raggomitolava il residuo dell’acqua: una decina di gocce in tutto che scivolavano dalle pareti e lasciavano scie che si spezzavano in gocce più piccole. Tutto ciò che veniva lasciato indietro sedimentava unità, come semi.

Attorno, il soffuso della televisione accesa, in alto il ticchettare dell’orologio da parete; suoni distanti dalla dimensione in cui c’erano solo i suoi occhi sull’acqua. Rimaneva sempre una traccia se non passavi un reale colpo di straccio che l’asciugasse.

Shuzo non faceva che pensarci, rivedendo quei pochi momenti come finale d’un film costantemente rimandato indietro e poi avanti. Ci sarebbe dovuta essere una colonna sonora fatta di soddisfazione ad accompagnarlo, un The Eye of the Tiger che desse la carica e invece non c’era niente. Il cannibale aveva avuto ciò che aveva voluto e ora stava zitto.

Ecco, era quello il problema: c’era troppo silenzio, dentro. Non parlava l’inquietudine con il suo sussurro continuo, non sbuffava il cannibale costretto alla catena, non borbottava il sarcasmo. Era tutto spento e lui non ricordava d’aver sentito il cuore abbassare alcuna saracinesca. Sapeva solo che non era calma quella che stava provando, quanto attesa. Di cosa non lo aveva capito, ma tutti i suoi sensi stavano aspettando e ancora non era successo nulla. Poteva tradurre come ‘angoscia’ quella sensazione di quiete sottile come sfoglia di ghiaccio sul pelo di una pozzanghera? La staticità destinata a spezzarsi da un momento all’altro, questione di istanti che non arrivavano mai e Shuzo non sapeva in che modo liberarsi di quel fastidio che restava sotto la pelle, costante.

Avrebbe dovuto essere felice o quanto meno sereno, rilassato.

Invece si sentiva come se gli avessero dovuto sparare alle spalle da un momento all’altro e la mente non faceva che andare a un attimo preciso della conversazione avuta con Akio. Rimandava indietro il film mentale e si fermava lì, quasi sul finale, nel momento di climax in cui si toglieva il sasso dalla scarpa e gli diceva il più elegante ‘levati dal cazzo una volta per tutte’ cui avesse mai pensato. In quel punto preciso, nel pieno del trionfo, ecco che i suoi occhi coglievano il guizzo in quelli di Akio e la sensazione di aver non solo affondato il colpo, ma aver mandato in pezzi ogni cosa a un livello così profondo cui non pensava sarebbe riuscito a penetrare.

Il viso che perdeva colore in un attimo, lo sguardo che saettava come pallina da flipper.

Shuzo era stato certo di dover afferrare suo padre al volo. Certissimo. Ma il sorriso beffardo lo aveva fermato e ricordato chi erano entrambi e dove, e soprattutto cosa si stavano dicendo.

A quel sorriso, comunque, non aveva creduto: non era una smorfia che apparteneva ad Akio, quanto una ridicola pantomima per cavarsi d’impaccio.

E lui, quel fermoimmagine ce lo aveva stampato nella mente più di ogni altro, senza che riuscisse a capire perché.

C’era solo l’attesa, ma neppure di quella aveva risposta.

«Non c’era bisogno che lavassi i piatti a quest’ora, potevi infilarli in lavastoviglie.»

Un bacio sulla nuca, le braccia attorno alla vita e poi quel mormorio all’orecchio.

Shuzo sorrise, rilassò le spalle e piegò appena la testa all’indietro, contro Mamoru.

«Erano solo due cose.»

«Si può sapere dove hai messo il coglione che c’è in te? Sei silenzioso. Troppo. Al negozio hai fatto il duro, ma quando siamo tornati a casa hai ciondolato come un’anima in pena.»

«Premesso che io sono un duro, non sei contento di non sentirmi sparare cazzate? Di solito è di quello che ti lamenti.»

«Shuzo-»

«È tutto a posto, okay? Ho parlato a sufficienza, per oggi.»

«Ma non hai parlato con me.»

Con un gesto deciso si girò nell’abbraccio di Mamoru per poterlo guardare negli occhi. Lasciò lo straccio sui fuochi spenti e si riempì le mani con le sue spalle.

«E cosa ti devo dire, gioia?»

«Perché non stai lì a gongolare della tua vittoria, perché lavi i piatti a mezzanotte, perché non mi hai ancora chiesto di fare sesso.»

«Oh, be’, per l’ultima si può sempre rimediare…» sogghignò, mellifluo, ma il tentativo di avvicinarsi venne bloccato da una mano sul petto che lo spinse indietro.

«Sai cosa voglio dire.»

Shuzo sbuffò, poggiandosi contro il mobile alle proprie spalle. «Non gongolo perché magari sono diventato più maturo. E lavo i piatti perché magari sono un perfetto donnino di casa. C’è altro?»

«Perché non mi dici a cosa stai pensando?»

«Perché sono stronzate», disse sollevando le spalle.

«Se ti tengono così impegnato forse non lo sono abbastanza.»

Shuzo distolse lo sguardo verso un punto indefinito dell’appartamento. Tanto per quanto cercasse di focalizzarsi su ciò che aveva intorno la sua mente riproponeva solo quello scambio a senso unico nel vicolo dietro al Kokoro. Non aveva lasciato alcun margine ad Akio per ribattere a dovere, lo sapeva. Gli aveva chiuso tutti gli spazi in maniera impeccabile, costringendo suo padre ad arrancare per provare a tenere il suo passo, ma aveva preso una distanza troppo lunga e gli occhi di Akio avevano parlato chiaro.

«Sai quando desideri una cosa fino a farla diventare l’obiettivo della vita da rimirare e lucidare come un trofeo? Immagini, un giorno, di averlo sulla mensola principale del salotto. Ci pensi costantemente, tanto da usarlo come augurio della buonanotte, poi… una volta che lo hai raggiunto, ti rendi conto che non era l’obiettivo che ti alimentava, quando l’attesa che ti separava da esso.» Levò lo sguardo sul suo compagno. “L’ho ferito. Per la prima volta, l’ho ferito. Lo so, l’ho visto. Non era mai successo nonostante ci avessi provato per anni, lui aveva sempre opposto quella durezza che non lasciava alcuno spiraglio. Ogni volta aveva il disprezzo calato sulla faccia, il rimprovero.» Accennò un sorriso. «Oggi non gli ho lasciato neppure le parole. Sono andato a fondo, l’ho colpito e gli ho fatto il male che non ero mai riuscito a fargli in passato. Impeccabile.»

«Non era quello che volevi?»

«Sì, e non so perché non mi soddisfa. Avrei dovuto sentire il fuoco della rivalsa!» disse, serrando la presa attorno alle braccia di Mamoru. «Avrei dovuto andarmene in giro petto in fuori, portandomi l’orgoglio a spasso come fosse stato un cane da mostra e invece… non sento niente.»

Il vuoto più totale dopo che aveva avvertito il forarsi nello stomaco, lo spiraglio microscopico del buco nero che si affacciava ancora sulla sua vita. In quel buco nero era così assordante il silenzio da fargli credere che in realtà fosse solo vuoto.

«Forse le terapie hanno davvero sortito l’effetto sperato e non me ne importa più nulla di lui. Oppure…» Shuzo sollevò le spalle e abbandonò l’abbraccio di Mamoru con un gesto fluido solo per non guardarlo negli occhi e permettergli di leggere verità scomode che avrebbero potuto mandare tutto all’aria.

«Oppure?»

«Oppure non lo vedo più come l’ostacolo insormontabile che mi sembrava quando ero piccolo, ma solo come un vecchio. Che razza di soddisfazione potrei mai provare nel vincere contro un vecchio che non riesce a tenere il passo del mio odio? È debole!» sancì con amarezza. «Così debole che per un attimo ho creduto che…»

Fermò la circumnavigazione del tavolo solo per aggrapparsi con le mani alla sommità della spalliera di una sedia. Sopracciglio inarcato con fastidio e qualcos’altro, e poi lo sguardo che sfuggiva per l’ennesima volta alle proprie responsabilità.

«Cosa?»

«Niente.»

«Shuzo, avanti.»

Scrollò il capo e sollevò le mani con noncuranza. Era solo una sciocchezza, dopotutto. Solo un’impressione. «Ma niente, per un attimo ho creduto che si sentisse male.»

«Prego?!»

«Sì, pensavo addirittura di doverlo sostenere.»

«E lo hai lasciato andare via pur sapendo che non stava bene?!»

Spesso, Mamoru funzionava un po’ come la sua coscienza, quella che teneva a volume bassissimo e che gli urlava tutti i ‘che cazzo fai?!’ della sua vita. Il volume di Mamoru però era molto più alto, e lo chiudeva all’angolo in fretta. Un angolo dal quale si cavava fuori con uno scudo di faccia di bronzo e lancia di disinteresse.

«Massì, stava benissimo! Tanto che poi ha mostrato la sua solita faccia di merda per dire che avevamo solo perso tempo!»

«Shuzo!»

«Cosa?!»

Mamoru si portò una mano alla fronte. Anche le coscienze si esasperavano, forse prima di tutti gli altri. «Cazzo, perché devi fare così? È tuo padre, okay? Con tutti i suoi sbagli, ma è tuo padre che ti piaccia o no! E forse, ma forse eh!, nel ferire lui hai ferito anche te stesso. Ci hai pensato?»

«Non dire stronzate. Ti sembro ferito?! Sono solo… sorpreso. Mi aspettavo una reazione da me e ne ho avuta un’altra, tutto qua.»

«Detesto quando sei così testardo…» sospirò l’altro raggiungendolo con rassegnazione. Gli passò una mano dietro la nuca e se lo tirò addosso.

Shuzo, lo lasciò fare, appoggiando un sorriso nel collo e poi un bacio.

«Però sotto sotto mi ami anche per questo.»

«Anche quella è una cosa che detesto!»

Sorrise, assottigliò lo sguardo stringendo appena le palpebre e lo agganciò alla vita, per rendere quel contatto più stretto e caldo. Ne aveva bisogno, di quel calore Shuzo ne aveva disperato bisogno, ma lo mostrava solo quando arrivava al limite.

«E cos’altro detesti di me, uh?»

«Quando mi guardi in quel modo. Si capisce subito cosa vuoi…»

«E cos’è che voglio?»

Sulle sue labbra, un bacio leggero. Solo per sentirne la consistenza, far vibrare il tatto.

Mamoru aveva lo sguardo di chi avrebbe voluto prenderlo a morsi, ma infine sospirò, rassegnato a lui e alla sua testa di mulo.

«Farmi diventare matto», disse accennando un sorriso che trovò subito il suo con cui fare comunella. Si scambiarono una risata, sapori e sensazioni. E acqua. Il rivolo sottile della sorgente che non si esauriva mai.

Per Shuzo, perdersi in Mamoru era sempre stata la soluzione migliore per non pensare al resto e l’avrebbe sfruttata anche in quell’occasione, certo che al mattino tutto avrebbe avuto un altro aspetto e il tarlo di Akio affievolito da ricordi migliori e che riuscivano a farlo sentire vivo e non in colpa.

Il suo cellulare, però, spezzò ogni buona intenzione. Sia lui che Mamoru si girarono a guardarlo, lì sul tavolo.

«Mamma?» Shuzo era perplesso. «A quest’ora?»

L’orologio appeso alla parete segnava la mezzanotte passata già da mezz’ora. Un orario che sembrava uscito dritto dalla sua vecchia vita. L’ultima volta che avevano ricevuto una telefonata così tardi, però, era stato per la nascita della piccola di casa Matsuda.

Controvoglia, lasciò l’abbraccio rassicurante di Mamoru e afferrò il cellulare.

«Ehi, è tutto a posto?» La sua prima domanda. «Non hai visto che ore-»

– Non è tornato.

«Chi?»

– Tuo padre. Non è rientrato a casa.

Shuzo trattenne un’imprecazione, ma non l’acrimonia. «E mi hai chiamato per questo? Sarà andato a bere con i colleghi, non sapevo avesse il coprifuoco. Quanti anni credi che abbia? Fidati, sono già più di venti.»

– Sono mesi che tuo padre non beve più come prima, per ordine del medico.

«E quando mai i Morisaki ascoltano qualcuno che non siano loro stessi? Senti, magari ha incontrato una sua conoscenza ed è andato a-»

– Conosco tuo padre, Shuzo. – Il tono di sua madre vibrava tra due sentimenti contrastanti che filtrarono nitidi lungo la linea telefonica, e il rimprovero era forse più forte della preoccupazione. – Non sarebbe uscito senza avvisarmi che sarebbe rincasato tardi. Inoltre, ho già chiamato in ufficio, ma mi hanno detto che se n’è andato nel pomeriggio. Aveva lezione alla Sogetsu, che oramai è finita da un pezzo. E il suo cellulare non prende. Si può sapere cosa vi siete detti? Lo so che è venuto al Kokoro!

«Oh, e quindi di chi sarebbe la responsabilità se lui si dà alla macchia? Mori Shuzo, presente. Volete darmi anche la colpa del buco dell’ozono?»

All’altro capo, Yumeko prese un profondo respiro concedendogli un silenzio più lungo in cui, non riusciva a capire perché, finì col sentirsi in colpa.

– Tuo padre sta affrontando un momento particolare, negli ultimi mesi non è stato molto bene.

«Effinalmente ti decidi a dirmelo! Come se non l’avessi capito.»

– Non è niente di grave, ma gli scossoni troppo forti come questo, non…

«Di che stiamo parlando? Lo stai dipingendo come un emo depresso. Sarà mica esaurito?» sghignazzò.

– Credi che tuo padre sia fatto di ferro, Shuzo? Magari lo è stato un tempo, ma ora quel ferro si è arrugginito.

Lui abbandonò il sostegno del tavolo contro cui era rimasto appoggiato per drizzare la schiena.

«…è esaurito?» chiese di nuovo e senza ironia. Alzò gli occhi su Mamoru e non vederlo sorpreso fu illuminante.

Cazzo, sapevi anche questo?! Mimò solo con le labbra.

Mamoru si indicò le orecchie. Tu non volevi ascoltare.

Shuzo ingoiò una rispostaccia e prese un profondo respiro. L’immagine di Akio che sbiancava, quel non riuscire a stare al passo dei suoi attacchi… adesso capiva. Massaggiò la fronte e poi affondò le dita nella barba, passandole lungo la mascella.

«Mi sembrava fosse stato troppo facile metterlo alla porta senza che replicasse.»

– Era nel tuo diritto farlo, lo so. E so quanto possa essere difficile riuscire anche solo ad ascoltare chi ti ha deluso e ferito per tutta la vita… ma io sono davvero preoccupata. Ho chiamato gli ospedali di Nankatsu e dintorni, senza successo. Ho chiamato anche i koban di zona e mi hanno detto di aspettare, ma loro non conoscono tuo padre come lo conosco io. Per favore, tesoro, potresti-…

«Sì. Sì, vado a vedere dove cazzo si è andato a cacciare quel deficiente. E che sia chiaro, glielo dirò che è un coglione, okay? E non potrai farmi la parte! Ora mandami il suo numero, proverò a chiamarlo anch’io.»

– Grazie.

Si era fatto mettere nel sacco da quei fottuti legami che non volevano morire. Aveva strappato un intero nodo di radici, quel giorno, e non era cambiato niente. Quanti altri ce n’erano a tenerlo legato ad Akio?

Shuzo sospirò, si accordò con sua madre per sentirsi più tardi e si raccomandò di stare tranquilla, ché Akio non era tipo da colpi di testa, esaurito o meno che fosse stato. Poi rimase a fissare il display dopo aver chiuso la chiamata.

«Che è successo?»

«Che io e te abbiamo un cazzo di problema di incomunicabilità, a quanto sembra.»

Mamoru incrociò le braccia al petto. «Ero anch’io preoccupato per Morisaki-san, e ho fatto quello che tu non ti decidevi a fare: ho chiesto a tua madre.»

«E dirmelo ti costava tanto?!»

«Sì, perché devi smetterla di pretendere che siano gli altri a darti le risposte! Se davvero volevi sapere come stava tuo padre, avresti dovuto chiedere. Te lo sto dicendo da settimane, e tu niente.»

Shuzo agitò un braccio nell’aria e gli volse le spalle. «Ma quale preoccupato! Quell’altro imbecille si comporta come un bambino che fa i capricci e adesso devo pure corrergli dietro! Una cosa doveva fare, una! Ed era non creare altri problemi alla mamma! Invece che cazzo fa?! Si dà alla macchia. Così!» schioccò le dita. «Sessant’anni buttati nel cesso, quello lì!»

Ma camminava avanti e indietro davanti ai lavandini e ai fuochi, ripensando a quel dannato fermoimmagine di Akio che impallidiva. Solo quello. Non se lo riusciva a togliere dalla testa in nessun modo. Un campanello d’allarme che non era stato in grado di cogliere.

«Prendiamo entrambe le macchine, in due faremo-»

«No, vado io. Tu resta qui, è già tardi. Akio è un problema mio e lo risolvo da solo.»

«Oh, e siamo tornati ai bei vecchi ‘faccio da solo’? La mettiamo così?» ironizzò Mamoru.

«Tu non dovresti proprio parlare, Giuda», lo additò, mentre raggiungeva la porta con l’intento di infilarsi le scarpe da ginnastica. Le mani del suo compagno lo trovarono prima potesse voltargli le spalle; si chiusero attorno al viso, lo costrinsero a fermarsi, guardarlo, e lui non era davvero arrabbiato per le omissioni come era accaduto per la faccenda dell’ikebana, dato che ora era consapevole delle proprie responsabilità.

Era vero, Mamoru glielo stava dicendo da settimane di fare quella fottuta telefonata e anche se lui aveva urlato ai quattro venti che non gli importava, la verità era che non voleva sapere la risposta. Non voleva sentirsi dire ‘sì, sta male’ e trovarsi a fronteggiare qualcosa contro cui non avrebbe potuto vincere. Le loro battaglie erano sempre state più o meno ad armi pari, affilate di volta in volta sulla pelle dell’altro. Non era pronto a sentirsi dire che non avrebbero più potuto combatterle, quando avevano sempre fatto parte del loro modo di interagire.

«Sai perché non te l’ho detto.»

«Sì», ammise in un sospiro e la presa di Mamoru virò in carezza che scivolò dalle guance per fermarsi sul collo.

«Davvero non vuoi che venga?»

«Non ce n’è bisogno. Vedrai, si sarà fermato in qualche bar a fare l’emo, manco avesse quindici anni.» Gli sfuggì un sorriso. «Ci sarà da ridere.»

«Lo troverai, sta’ tranquillo.»

«Ma io sono tranquillissimo! È solo esaurito, mica sta morendo. C’è di peggio nella vita.»

Nella mano, il cellulare vibrò per il messaggio di sua madre. Shuzo armeggiò con il numero che lei gli aveva girato su WhatsApp, ma si fermò quando il registro delle chiamate lo avvisò di averlo in lista.

Tirò indietro il mento.

«Che significa?»

«Cosa?»

«Questo numero mi ha già chiamato una volta…»

Mamoru lo affiancò per guardare insieme il display dove il numero era riportato con sotto data e ora. «Il 12 marzo?»

«Impossibile. Io quel giorno ho ricevuto solo-…» Shuzo la ricordò, era durata pochissimo e aveva parlato solo lui, perché nessuno aveva risposto dall’altra parte.

Se tu non sei pronto, perché dovrei esserlo io?

«Il call center…»

Il cellulare iniziò a vibrare di nuovo, ma non era un messaggio. Shuzo sussultò nel vedere in entrata proprio il numero di Akio.

«Ti sta chiamando! Ah, meno male», esclamò Mamoru.

«E perché proprio me? Non poteva chiamare la mamma?! Sai quanti messaggi gli avrà lasciato!»

«Non rompere e rispondi.»

«Seh, seh.» Shuzo arricciò le labbra e prese la chiamata. «Si può sapere dove cazzo stai, pezzo d’idiota?!»

Mamoru lo colpì con una manata alla spalla, e per tutta risposta lui si allontanò di un paio di passi, guardandolo storto. Si aspettava che gli riservasse anche un tono di comprensione? Nessuna pietà per gli imbecilli era un motto di vita che portava avanti fin da quando era entrato nei 3Kitsu.

Dall’altra parte, però, non udì il chiacchiericcio da bar in sottofondo come si era aspettato e nemmeno quello delle auto in passaggio sulla strada. Sentiva, invece, rumore di dita che battevano su una tastiera.

A rispondergli fu una voce che non conosceva, dal tono incerto.

– Parlo con il figlio di Morisaki Akio?

«E lei chi è?»

– Sono l’agente Hasakusa del koban di Fuji City. Abbiamo suo padre in custodia.

«Cosa avete?»

– Sì, in custodia.

«E perché?!»

Il poliziotto fece un borbottio con la bocca, accompagnato da un frusciare di fogli.

– Mah, scelga lei: ubriachezza molesta, oltraggio a pubblico ufficiale, disturbo della quiete pubblica… devo continuare?

«Aspetti, aspetti! Mi sta dicendo… che ha arrestato mio padre?»

Shuzo vide Mamoru sgranare gli occhi e poi nascondere il viso nella mano, mentre scuoteva il capo. Lui, invece, si sentiva come sotto a una campana cui avevano appena battuto le pareti di ottone.

– Esatto. Lo stiamo tenendo in cella perché è piuttosto… agitato, al momento. Preferisce che lo tratteniamo noi questa notte, così che gli passi la sbornia e formalizziamo le accuse, o viene a prenderlo?

Due secondi fu il tempo che fece passare tra le parole dello stellato e la risata che gli esplose con così tanta forza da allontanare il cellulare dal viso. Una risata che gli nacque dal fondo di quel buco nero che aveva creduto vuoto e che lo riempì fino agli occhi. Si ritrovò a battere un piede a terra come i bambini.

– …signor Morisaki, è tutto a posto? Pronto?

«Sì! Sì, è a posto. A postissimo! Mai stato meglio in vita mia, glielo posso garantire! Oddio, sì, il karma! Che cosa meravigliosa è il karma?! Sto arrivando! Vengo da Obuchi, mi dia… mi dia il tempo, okay? Sono qui vicino, faccio in un attimo. Ossignore di tutti i cieli e quando mi ricapita?! La prego, non lo faccia uscire, eh? Mi raccomando, lo tenga lì! Lì, dietro le sbarre! Io sto arrivando!» Infilò il cellulare in tasca senza smettere di ridere e si precipitò verso la porta dove indossò le scarpe da ginnastica alla velocità della luce e saltellando su un piede solo. «Non ci credo! Ma non ci credo! Questa sarà la sera più bella della mia vita! Ti rendi conto?!»

«Che diavolo è successo?»

«L’hanno arrestato! Hanno arrestato Akio! E io, io!, ascolta: io lo vado a tirare fuori! Io! Capisci?!» Aveva un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro, le mani che battevano il petto. Il suo umore nero dissolto in un attimo, mentre Mamoru continuava a guardarlo con le labbra arricciate e le braccia conserte. Lui alzò le proprie al cielo, viso compreso. «Grazie! Grazie! Grazie! Ovunque voi siate, grazie! Giuro che bestemmierò di meno e vi pregherò di più, ma grazie di questo dono! Veramente!»

«Shuzo…»

«Ti manderò qualche foto! Anzi, lo riprendo proprio in video e lo giro anche lui, perché dovrà avere memoria storica di questo evento megagalattico in cui io, Shuzo Mori, pluricondannato, vado a tirare fuori di galera quel coglione di mio padre, che si è fatto arrestare per ubriachezza molesta! Minimo avrà sfasciato qualcosa, oddèi, sì, sì e sì», esalò con i pugni al petto. «Non senti l’eco degli angeli che cantano quel soave ‘figura di merda’? Io sì!»

«Quindi tuo padre si è andato a ubriacare?»

«Non lo trovi meravigliosamente ipocrita? Oh, ha anche un’accusa di oltraggio a pubblico ufficiale», sospirò. «Quanta tenerezza.»

Mamoru lo guardò fisso per qualche istante, poi riprese a scuotere il capo. «Avrei dovuto immaginarlo che l’avrebbe fatto…»

«Da cosa?»

«Be’, mi sembra ovvio…» iniziò Mamoru, prima di urlargli in faccia: «dal fatto che siete uguali, cazzo! Uguali! Addirittura le stesse fottute reazioni!»

«Uguali cosa?! Non è vero!»

«Ah, te lo devo ricordare? Cos’è che hai fatto tu quando hai scoperto che tuo padre faceva ikebana?»

«Non ero ubriaco…»

«Certo, e magari ci credi pure.»

«Ero solo alticcio!»

«Non è importante se fossi ridotto o meno a uno scendiletto! Entrambi vi siete buttati a bere, entrambi vi siete isolati senza uno straccio di messaggio per me o tua madre! Merda, se non è essere l’uno la fotocopia dell’altro questo, non so cosa potrebbe mai esserlo! E se viene fuori che tuo padre ha attaccato briga con qualcuno, abbiamo fatto en-plein

Shuzo cambiò piede d’appoggio e si masticò l’interno della guancia, mentre Mamoru si metteva a ridere.

«Uguali, ti dico. Uguali. Ecco perché non riuscite ad andare d’accordo: insieme fate scemo e più scemo!»

«Vuoi dirmi che mi sto sul cazzo da solo?»

«Ti stupisce, per caso? Yuzo! Tuo padre e tuo fratello sono due deficienti!»

«Come se non lo sapesse già!» Shuzo sbuffò, afferrando una scolorita giacca da jeans dall’appendiabiti. «Non rovinarmi il mood. Non ora che ho l’umore a mille e sto per prendermi la rivalsa del secolo.» Chiavi in una mano, borsa con i documenti caricata sulla spalla ed era già con un piede sulla soglia, quando tornò indietro. Attirò Mamoru a sé, poggiandogli la mano sulla nuca, e si prese un ultimo bacio. «Penso che farò un po’ tardi, okay? È già quasi l’una, e dovrò riportare quell’idiota a Nankatsu. Non aspettarmi e vai a dormire. Ti scrivo appena lo prendo in consegna.»

«Senti…» Mamoru giocherellò con il colletto di jeans della giacca. «Perché non resti a casa dei tuoi, stanotte? Anche tu sarai stanco, non metterti al volante per tornare qui.»

Shuzo s’affrettò a scuotere il capo. «Non ce n’è bisogno, e domani c’è da lavorare.»

«Vieni più tardi, direttamente da Nankatsu. Non ha senso che torni all’alba, e dopo poche ore devi essere già in piedi. Fermati lì, raggiungici con calma domattina. Tanto ci siamo io, Kumi e Kaede. Ce la caveremo alla grande.»

«Non lo so… Non credo sia il caso.»

«Sì, che lo è», insistette Mamoru, guardandolo dritto negli occhi con quella fermezza che lui non riusciva ad avere al pensiero di rimanere nella sua vecchia casa. C’erano troppi ricordi, dietro, e troppi significati che per quanto fosse una scelta a dir poco normale, lui non era certo di volerla prendere così a cuor leggero.

«Vediamo.»

Mamoru lo baciò ancora e poi lo strinse a sé. «Vai a tirare il tuo vecchio fuori da lì», sorrise e lui ricambiò con la sua smorfia abituale che gli tirava le labbra da un lato.

«Non l’avrei mai creduto, ma questa si prospetta come la migliore serata che avremo da che sono nato.» In realtà, lui non riusciva a credere che ne avrebbero mai avuta una da poter considerare tale. La serata del secolo, dove sembrava che l’ordine costituito dovesse ribaltarsi come uno scarafaggio, e sarebbe toccato a lui godersi lo spettacolo.

Si allontanò da Mamoru e raggiunse la porta.

«Vedi di non esagerare», si raccomandò il compagno appena lui aprì l’uscio.

«Non ti assicuro nulla, è comunque il mio momento e voglio godermelo.»

«Shuzo?» Mamoru lo fermò ancora con lui che era ormai fuori con l’aria tiepida della sera di giugno a non fargli sentire troppo la differenza tra l’interno e l’esterno dell’appartamento. Aveva un bell’odore di estate. «Hai capito che ti ha chiamato il giorno del tuo compleanno?»

L’unico, tra l’altro, in cui aveva scelto di restare muto, mostrandosi coraggioso e codardo insieme. Il messaggio, comunque, anche se in ritardo, era arrivato.

«Sì, lo so.» E senza voltarsi chiuse la porta alle proprie spalle.

 

Aveva percorso la tratta Obuchi-Fuji a tempo di multa, parcheggiando proprio davanti al koban. Considerando anche l’ora tarda gli risultò facile e, vista la situazione, non si premurò di essere troppo fiscale con le aree di sosta.

Davanti alla piccola stazione di polizia, Shuzo sistemò la giacca di jeans e ravviò i capelli con una manata, nemmeno stesse per presentarsi a un appuntamento di lavoro con un pezzo grosso. In bocca aveva quel sorriso esplosivo che non vedeva l’ora di sbattere in faccia ad Akio appena l’avesse visto chiuso dietro le sbarre.

Oh, sì. Oh, dèi.

Era meglio d’un orgasmo e lui… lui si sentiva felice come un bambino.

Attraversò in tre lunghi passi il marciapiede ed entrò spalancando la porta di slancio.

«Agenti! Che la notte sia con voi!» Elargì sorrisi a destra e a manca.

Gli stellati presenti erano due: uno seduto dietro al bancone di cui vide solo la testa e un altro in piedi, accanto a un uomo con grembiule attorno alla vita e l’atteggiamento pieno di animosità. I tre lo guardarono, non capirono.

«Sono il figlio di Morisaki Akio. Sono venuto a godermi lo show. Dov’è?»

«Ah! Quindi è a lei che devo chiedere per i danni di quell’indemoniato?!»

«Hayashi-san, la prego-» Lo stellato cercò invano di trattenere l’omino basso e con pochissimi capelli, perché quest’ultimo se lo scrollò di dosso con uno strattone e raggiunse lui di gran carriera, agitandogli il cellulare sotto al naso.

«Guardi! Guardi cosa ha combinato al mio povero bar! Sono dovuti intervenire ben due dei miei ragazzi per tenerlo fermo, e nonostante tutto, guardi qui!»

Sul display, le immagini parlavano di almeno quattro sgabelli sfasciati, di cui uno era stato lanciato dall’altra parte del bancone, centrando in pieno la scaffalatura con tutti gli alcolici in mostra. Non era rimasto niente che non fossero macerie di vetri e liquore. Anche uno dei bassi lampadari dalla luce fioca e bluastra era stato travolto dalla furia di Akio e il cadavere semi-divelto oscillava in maniera innaturale, appeso all’ultimo filo elettrico.

Shuzo si portò una mano al petto. «Eh, ma allora vuole proprio rendermi fiero! Ha fatto le cose in grande stile, guarda lì! Adoro! Doveva pur aver imparato qualcosa con tutti gli anni di riformatorio che mi sono fatto… È anche vero che c’ha più di sessant’anni, insomma, uno non è che può pretendere. Sa, l’età… io avrei fatto di peggio, ma io c’ho anche vent’anni di meno, voglio dire.»

L’omino strabuzzò gli occhi. Aveva il labbro superiore arricciato sotto al naso, scopriva i denti comprese le gengive.

«…cosa?! Ma di che diavolo sta parlando?! Qua si tratta dei danni! Mi toccherà tenere chiuso il negozio per almeno quattro giorni! Parliamo di almeno un milione di yen!»

«Hayashi-san, queste sono cose che vedrete con i rispettivi avvocati.»

«Nah! Ma quali avvocati, lasci stare.» Shuzo smosse l’aria con la mano e poi raggiunse il bancone, dove l’altro stellato restava ancora seduto e lo guardava da sopra sottili occhiali rettangolari. Ravanò nella borsa che aveva con sé ed estrasse il blocchetto degli assegni. «Permette?» Shuzo sorrise e poi si servì della penna lasciata sul banco per compilarne uno in meno di un minuto che staccò con un gesto deciso. «È compreso un extra per il disturbo», disse, offrendolo tra indice e medio al proprietario del locale.

L’uomo lo accettò, non senza una certa titubanza di fronte a tanta sicurezza. Abbassò gli occhi sull’assegno e li sgranò, tirando indietro la testa. Lo guardò come se fosse impazzito, ma per Shuzo quelli erano stati i due milioni di yen più ben spesi da che aveva acquistato il frutteto.

Il sorriso gli prese tutta la faccia.

«Grazie per aver chiamato la polizia.»

Risolto il problema del vecchietto, si rivolse al poliziotto che restava in piedi e lo guardava come fosse stato un alieno.

Shuzo batté le mani, le sfregò e non smise di sorridere neppure per un secondo.

«Allora? Dov’è il fenomeno?»

«Eeeehi! Voglio chiamare il mio avvocato, voi non avete alcun fottuto diritto di tenermi chiuso qui dentro senza farmi fare la mia telefonata! Giuro che vi farò spedire a dirigere il traffico alle Isole Izu!»

«E ci risiamo…» sbuffò lo stellato, mentre lui sbottava a ridere.

«È proprio il mio vecchio. Riconoscerei quello starnazzare anche tra mille galline.»

Si accomiatarono dal proprietario del bar, che l’altro poliziotto trattenne per fargli firmare dei documenti, e si diressero alla stanzetta posta sul fondo della struttura. I koban non erano solitamente preposti agli arresti; non i più piccoli, almeno. Ma quello, che era un po’ più grande, aveva un’unica cella in cui i delinquenti venivano tenuti in stallo per qualche ora, in attesa di essere ceduti a una pattuglia che li avrebbe portati in una più consona centrale di polizia.

Shuzo mise mano al cellulare con l’aspettativa che gli vibrava nel sangue. Per anni aveva atteso un simile momento ed era stato convinto di aver raggiunto la propria rivalsa definitiva quella mattina, durante il litigio; invece, la vera rivincita era lì, lo aspettava dall’altra pare della porta.

«Posso scattare delle foto, vero?» Shuzo venne assalito dal dubbio quando il poliziotto aveva già la mano sulla maniglia. Non poter avere una traccia di quel momento meraviglioso sarebbe stato ingiusto, e anche se lo stellato lo guardava, confuso da tutto quell’entusiasmo, accennò un sorriso ironico.

«Può fargli un intero servizio, se vuole.»

«Ah! Gli dèi gliene renderanno merito!»

«Mi basta riuscire ad arrivare alla pensione.»

Il poliziotto aprì la porta e il berciare di Akio li raggiunse ancor prima che entrassero.

«Era ora, dannazione! Vatti a fidare della polizia! Voi non fate il vostro dovere! Perché trattenete me e non quell’idiota d’un vecchio pelato?! Ha cominciato lui!»

Una stanza rettangolare, lunga e stretta. Sulla destra, l’intero ambiente era tagliato da una inferriata verniciata di bianco: delimitava lo spazio della cella.

Lì dentro, Akio camminava avanti e indietro, trascinando sul pavimento la giacca spiegazzata e dai bordi sporchi di polvere, asfalto e qualcosa di bagnato; forse il liquore che aveva rovesciato sfasciando il locale. Aveva la cravatta mezza sciolta e il primo bottone della camicia spuntato. Due grosse chiazze – una chiara e l’altra rossa di vino – spiccavano rispettivamente sul davanti della camicia e sulla coscia del pantalone. La rigidità della pettinatura con cui solitamente teneva sistemati i capelli era stata mandata a puttane, restituendo una chioma mista argento e scarmigliata.

Era incazzato. Oh, se era incazzato.

Shuzo glielo lesse in faccia, ma la prima reazione fu di portarsi un pugno alla bocca soffocandoci quell’esilarato: ‘ommioddio!’ mentre scattava a raffica con il cellulare.

«Adesso si calmi, Morisaki-san, c’è qui suo figlio.»

La prima cosa che offrì a suo padre fu il più smagliante e storto dei suoi sorrisi.

«Ed eccolo qui, il nostro one man show. Ho saputo che ci hai dato dentro, uh?»

Akio lo mise a fuoco con fatica e occhi stretti. Il disappunto e anche una chiara sorpresa gli attraversarono le smorfie del viso.

«Tu…? Cos-… come… chi ti ha chiamato? Come ti hanno-»

«Be’, pare che sul tuo cellulare ci sia il mio numero.»

«Ah… ecco perché non me lo restituivano.»

Akio afflosciò le spalle guardandosi le mani e poi tastandosi distrattamente le tasche dei pantaloni. Shuzo avanzò con passo calmo e pieno di enfasi.

«Come ci si sente? Non la trovi un po’ ironica, questa cosa? Non pensi che sia uno spasso? Io sì. E mi sto divertendo da matti.»

«Lo sapevo. Sei venuto per prendermi per il culo, non è così? Be’, potevi startene a casa!»

«E perdermi lo spettacolo?! Ma neanche per sogno! Anzi, sorridi, perché ti sto facendo un video fenomenale. Lo condividerò con mamma!»

«Toglimi subito quell’affare dalla faccia!» ringhiò Akio puntandogli l’indice contro.

«Tranquillo, lo condividerò anche con te.»

«Vuoi pensare a farmi uscire, invece di stare lì a comportarti come un bambino?!»

«Cosa cosa?» Shuzo portò due dita all’orecchio, girando appena la testa. «Cosa mi hai chiesto? Di farti uscire? Aw, chiedimelo ancora, magari ti rispondo di no. Sai, stavo pensando che una notte in cella non sarebbe male, così poi schedano anche a te e ce le possiamo confrontare, la mia e la tua. Non eri tu quello che voleva fare delle cose insieme, questa mi sembra decisamente alla portata di entrambi.»

Akio si trascinò come uno zombie fino alle sbarre, ci si aggrappò con entrambe le mani e lo fulminò con un’occhiata truce, di quelle che Shuzo conosceva da una vita e che da bambino l’avevano fatto sentire sempre troppo piccolo e sbagliato. Nonostante gli anni passati sulla pelle di entrambi, qualcosa di vecchio rimaneva, per tornare come un’eco. Ma Shuzo non avvertì la minaccia di un tempo, da quegli occhi, non provò la sensazione di essere un fallimento o di essere indesiderato.

Akio aveva iridi lucide per l’alcol e l’età, la sua fierezza era sbeccata come una vecchia porcellana e nel tono che voleva passare per aggressivo ci lesse solo un magro tentativo di difesa, che un po’ somigliava ai suoi, ma meno mordace.

L’uomo distolse lo sguardo in una sgrullata di capo. «Che bastardo d’un figlio stronzo…» biascicò, tirando via un mezzo sorriso.

«Be’, sai come si dice in questi casi, no? Tutto suo padre.»

Finalmente, come non era accaduto quella mattina, si sentì soddisfatto. Sul serio. Riconobbe la sensazione: una leggerezza nell’animo che fa stare con la schiena dritta e la testa… la testa alta, perché il nemico va guardato negli occhi, così come le sconfitte e le vittorie. Il mantra dei Morisaki tornò con un’eco diversa, non impositiva. Erano consigli, adesso, erano incoraggiamenti, mentre realizzava che forse – più dei lividi e del sangue – era solo questo che avrebbe sempre voluto: vedere le parti che si invertivano, vedere che anche il perfetto e ligio Akio Morisaki altro non fosse che una malerba come lui. Vederlo con i propri occhi, concretamente, affinché anch’egli ne fosse consapevole senza potersi più nascondere.

Ammettilo.

Ammettilo che sei marcio anche tu, come me. Che l’ho preso da te, sotto sotto.

Ammettilo; la taratura parte dai geni e me l’hai trasmessa, in mezzo a tutte quelle radici dove ci sono anche le mie. Ammettilo che la vera malerba sei tu.

«Lo faccia uscire.»

Lo sbirro nicchiò. «È proprio sicuro di non volerlo tenere qui? Ci siamo messi in contatto con lei perché suo padre è incensurato e pensavamo fosse stato solo un colpo di testa…»

«Fatti i cazzi tuoi, stellato

Shuzo strabuzzò gli occhi. «Ehi! Ma allora ti ho davvero insegnato tutto?! I’m so proud of you!»

«Fanculo pure tu!»

«Lo scusi, agente. Si dice che lo stress sia il male del ventunesimo secolo, ma nel suo caso è solo scemo. Ma prima di lasciarlo libero: selfie!» sogghignò scattandosi una foto in cui mostrava la lingua e due dita in segno di vittoria e suo padre, dall’altra parte della gabbia, con i denti digrignati e che cercava di afferrarlo con un braccio tra le sbarre.

«Giuro che come t’ho fatto ti disfo!»

«So che ti piacerebbe, ma l’alcol ti ha schioppato il cervello, quindi cala la cresta, Jackie Chan

Il poliziotto aprì la cella. «Io mi domando se invece non debba rinchiudere entrambi.»

«Sarei tentato, mi creda. Una notte in cella noi due e ci faremmo le migliori risate della nostra vita, ma non voglio far venire una crisi isterica al mio avvocato, ne ha già passate parecchie con me.» Shuzo sollevò le spalle, pensando al povero Tobi che gli tirava dietro l’intero pantheon della religione shintoista se si fosse fatto venire in mente di farsi rinchiudere un’altra volta.

Così, da bravo boy-scout, affondò le mani nelle tasche dei jeans e rimase a osservare come Akio si trascinasse fuori dalla cella, assieme ai suoi panni. Aveva il passo malfermo che non riusciva a mantenere un percorso dritto e pendeva ora da un lato e ora dall’altro. Era la prima volta che lo vedeva così scomposto, normale tutto in un colpo quando era sempre stato ritto sul proprio scalino di intoccabilità. Qualcosa che nulla aveva a che vedere con lui, sempre sul fondo della scala sociale e che in più occasioni si era ubriacato così tanto da perdere conoscenza e addormentarsi sul divano di chissà chi, chissà dove. Adesso, invece, scopriva che non era mai esistito nessuno scalino e che Akio, in fin dei conti, aveva solo imbrogliato mettendosi ritto sulle punte. Uno sforzo enorme che non potevi compiere per sempre; neppure le étoile del balletto potevano. E ora eccoli lì, entrambi allo stesso livello, a guardare da vicino l’uno gli sbagli dell’altro, le debolezze, i crolli che Akio, come aveva sempre fatto lui fino a qualche anno fa, non voleva condividere con nessuno. Non voleva neppure un semplice aiuto a camminare diritto. Shuzo si vide allontanare con una manata quando cercò di afferrarlo prima che si abboccasse troppo sulla sinistra.

«So camminare da solo», fu il borbottio testardo che ottenne.

Lui si fece da parte, alzò le mani e lasciò che suo padre uscisse per primo dalla stanza, assieme alla propria fierezza malconcia e trascinata a terra con la giacca.

L’omino del bar non c’era più, in compenso l’altro poliziotto aspettava dietro al bancone con una cartelletta da firmare.

Akio gli ringhiò contro, lanciandogli un’occhiata truce e lui lo allontanò deviandolo con le mani su entrambe le spalle in un trenino improvvisato.

«Cuccia, tigre.» Lo spinse in avanti e si fermò al banco. Sorrise al poliziotto che continuava a tenere sott’occhio suo padre. Diede una lettura sommaria al documento di rilascio in cui venivano scaricate su di lui tutte le responsabilità future.

«Allora, ci muoviamo? Devo tornare da tua madre.»

«Ti ricordi di lei a scoppio ritardato?»

«Io non mi dimentico mai della mia deiji, e non mancarmi di rispetto!»

«Deiji? Kawaii ne.» Shuzo gli fece il verso, mentre scarabocchiava una firma sul documento. «Il problema non è la senilità, ma la demenza», concluse con un’alzata di spalle mentre s’apprestava a raggiungere suo padre che continuava a litigare con la porta d’ingresso del koban. Non faceva che borbottare perché non si apriva, senza essersi accorto che non era automatica.

«Ma magari se tirassi…»

«Tirare?! Siamo rimasti al Giurassico, qui?!»

«Ti ricordo che non è l’Hilton, e attento allo scal-»

Nemmeno il tempo di avvisarlo che Akio, nello slancio di uscire, inciampò nei propri piedi e finì a terra sulle ginocchia con un’imprecazione tonante.

«Cristo.» Shuzo stava masticando la stessa risata come un chewing-gum da che aveva messo piede lì dentro. La ciancicò anche adesso che vedeva suo padre tirarsi su non senza una certa fatica. Si volse e i due stellati erano ancora più stralunati. Un po’ guardavano Akio, un po’ guardavano lui. «Gentili agenti delle forze dell’ordine, ringraziandovi per il meraviglioso spettacolo che mi avete offerto, vi auguro un piacevole proseguimento di nottata. È stato uno dei momenti più belli della mia vita. Viva la polizia!» esclamò e poi uscì in fretta per recuperare Akio prima che se ne andasse troppo per i fatti suoi e finisse per travolgere qualcos’altro.

Alle sue spalle, gli sbirri rimasero ancora fermi nelle stesse posizioni con le facce perplesse, mentre li osservavano litigare anche fuori dal koban.

«Io continuo a credere che avremmo dovuto arrestare entrambi», disse il più anziano, all’esterno del bancone. L’altro agitò una mano.

«Nah, lascia che ci pensino quelli di Nankatsu.»

 

«Ehi, ehi! Frena la giostra! Dove diavolo stai andando?» Shuzo afferrò suo padre per un braccio.

Akio tentò di divincolarsi, ma stavolta lui non lo lasciò andare.

«Devo andare a prendere la macchina!» e indicò una direzione imprecisata.

«E vorresti guidare così? Ma certo, così abbracci il primo palo.»

«Ma la mia macchina mi serve!»

«Domattina la veniamo a prendere. Non fare i capricci, non hai due anni.» Shuzo lo tirò indietro, fino ad arrivare al SUV. Fecero il giro e gli aprì la portiera.

Anche se riluttante, Akio salì. O, meglio, ci si arrampicò, con i suoi movimenti scoordinati dall’alcol che aveva in corpo.

«Domani devo lavorare…»

«Lavorare? Tu domani non ricorderai neppure come ti chiami. E allacciati la cintura.»

«Vuoi insegnarmi come si sta in una macchina? A me che le costruisco?! Non fare il saccente del cazzo.»

«A-ah. Vedo che l’alcol ti scioglie bene quella lingua di serpe che ti ritrovi. Perfetto, tanto avremo modo, la strada per Nankatsu è ancora lunga.» Con uno schianto richiuse lo sportello e tornò dall’altra parte. «E sappi che mi devi dei soldi,» riprese non appena si mise al volante, «perché ho appena pagato per te. Ommioddio, senti come suona bene?!» Shuzo portò i pugni al petto, si agitò sul seggiolino. «Ho pagato per te! Io! Io ho pagato per i tuoi danni! Non è meraviglioso?»

«Con tutti i soldi che ho sborsato io per te, questi sono spiccioli!» Akio agitò una mano e stette almeno due minuti buoni a cercare di far combaciare le estremità della cintura di sicurezza.

Shuzo sogghignò e mise in moto. «Spiccioli dici? Forse sì, erano solo due milioni di yen, dopotutto.»

«Due milioni di-?! Per un paio di sgabelli rotti?! Dannazione, ragazzo, non hai il senso degli affari!»

«Probabile, è per questo che lascio sempre fare a Mamoru, però ho il senso per le botte.» Guardò Akio con le sopracciglia che disegnavano due archetti. «E tu hai ancora molto da imparare.»

Si immise sulla strada deserta con una manovra poco ortodossa e lasciandosi il koban alle spalle che diveniva sempre più piccolo nello specchietto retrovisore, mentre il SUV imboccava la direzione che l’avrebbe condotto a Nankatsu.

Dal piccolo vano portaoggetti, dietro al cambio e al freno a mano, recuperò il cellulare. Shuzo guardò suo padre, tenendo un gomito sul bracciolo alla sua sinistra. Akio restava addossato allo sportello, con la testa poggiata contro il vetro del finestrino e parte del viso nascosto nella mano che gli sosteneva la fronte. Una bella sbornia da manuale, quella che un po’ tutti dovrebbero prendersi almeno una volta nella vita. Lui ne sapeva più di qualcosa, e non riusciva a togliersi il sogghigno dalle labbra nel guardare Akio che ora tutto era tranne l’esempio vivente del mantra dei Morisaki.

Alza la testa. Sì, sì.

Reagisci. Eh, certo.

Sii forte. Come no.

Vai avanti. Quando mi sarà passata la sbronza.

Espirò dal naso quella risatina che non voleva concedere e poi infilò l’auricolare. Richiamò in fretta il numero di Mamoru e abbandonò il telefono tra le gambe, mentre guidava.

– Ehi, hai recuperato il Giustiziere della Notte?

Alla voce divertita di Mamoru non si trattenne e rise. «Sì, è qui. Abbiamo appena lasciato il koban

– Tutto a posto?

«Massì, ci siamo fatti due risate con gli sbirri. Adesso ti giro un video, così ridi pure tu.»

«Hai finito di umiliarmi? Ce n’è proprio bisogno?» berciò Akio senza muoversi.

«Rode il culo quando marciano sui tuoi errori, uh?»

L’altro grugnì e non rispose.

– …okay, direi che è tutto in ordine, – ironizzò Mamoru.

«Alla grande, gioia.»

– Hai già avvisato tua madre?

«La chiamo adesso.»

– Vuoi che ci pensi io?

Shuzo lanciò un’altra occhiata a suo padre, poi sospirò. «Se non ti secca, mi faresti un favore.»

– Scherzi? Faccio io, tu pensa a guidare e non correre.

«Okay, ma, ripeto, non c’è bisogno che mi aspetti, d’accordo? Vai a dormire.»

– Va bene.

Si salutarono e Shuzo sfilò l’auricolare, appoggiandolo nel piccolo vano assieme al telefono. L’abitacolo, ora, era pervaso solo dal rumore soffuso del motore e dell’asfalto macinato sotto le ruote, mentre fuori le luci cittadine sfumavano, fino a che non rimasero che quelle dei lampioni lungo la strada. Il mare si allontanava, ma non troppo, e presto sarebbe sparito, sostituito da filari di cedri, lasciando però la certezza di sapere dove poterlo trovare se si fosse si fosse saliti su di un punto più alto e che avesse superato tutte le teste oscillanti degli alberi.

Tra loro, invece, vinceva il silenzio.

Shuzo lanciava a suo padre delle occhiate fugaci e lo vedeva sempre immobile nella stessa posizione. Non stava dormendo e di certo non gliel’avrebbe concesso così facilmente, perché quella era la serata buona per togliersi qualche altro sassolino dalle scarpe. Era nel mood perfetto per pungolarlo e beccarsi qualsiasi cattiveria di rimando senza incazzarsi.

Già, che strano: era andato a prenderlo fino alla centrale, ce lo aveva accanto da prima e gli stava facendo praticamente da baby-sitter, eppure… eppure non era arrabbiato né infastidito né altro. Quella mattina gli aveva detto che la sua presenza lo urtava, che non voleva averlo intorno e che doveva uscire dalla sua vita, perché era quello che il cannibale gli aveva sussurrato per anni. Era quello che aveva desiderato per anni.

Ora invece, nel silenzio profondo che avevano attorno, Shuzo non sentiva niente.

Il cannibale non ringhiava come faceva di solito quando aveva Akio accanto, il fastidio non gli borbottava alla bocca dello stomaco come un vulcano in attività, non c’era la repulsione sotto la pelle, dentro la testa. Tutte le radici avviluppate attorno a cuore respiravano con calma e non dolevano né stringevano.

Il cannibale non ringhiava. Dormiva.

«E allora,» esordì per spezzare quel silenzio che lo faceva pensare in maniera strana, «siamo esauriti, vecchio?»

Akio emerse dall’immobilità girando il capo verso di lui, gli occhi stretti. «Non dire idiozie, sto benissimo.»

«Non lo dico io, l’ha detto mamma.»

L’altro crollò di nuovo nella mano. Esalò un respiro stanco. «Ah, deiji… Credevo non se ne fosse accorta…»

«E sei fesso due volte, allora. Da quanto la conosci? Mamma si accorge di tutto.»

«Già…»

«Be’? Che hai fatto per finire attaccato alla boccia? Troppo lavoro? Paparino non è più fiero di te? Spero in qualcosa di meno banale.»

«Che ho fatto, mi chiedi?» l’eco nella voce di Akio era aspra. Si volse di scatto e la mano con cui si era retto la fronte fino a quel momento venne serrata in pugno. «Ho fatto che magari mi hanno ammazzato un figlio!»

«La vita è piena di cose brutte. Se ti fai spezzare dalla prima che ti capita, allora faresti meglio a spararti un colpo in testa. Risparmi tempo e fatica.»

«Non mi faccio insegnare la vita da te!»

«Dovresti, perché ne so a pacchi.»

«Certo e questo cosa sarebbe? Un consiglio pro-bono?» ironizzò Akio, tornando a guardare fuori. Agitò la mano in maniera scoordinata, sembrava stesse scacciando una mosca. «Ma non mi hai detto giusto oggi che non vuoi più avere niente a che fare con me? Che diavolo sei venuto a fare a Fuji?»

«Prima di tutto, perché non volevo perdermi lo show. Poi perché, sai, mi hanno chiamato gli sbirri. E tre: me lo ha chiesto mamma.»

«E allora dovevi rifiutare! Se c’è una cosa che non ti manca è la faccia tosta.»

Shuzo gli lanciò un’occhiata veloce, distogliendo lo sguardo dall’asfalto liscio e sgombro.

«Rispondi a questa, piuttosto: perché avevi il mio numero?»

«Che domanda è? L’ho chiesto a tua madre, per ogni evenienza», concluse Akio in tono basso e masticato: «…perché sei mio figlio.»

«Oh, ma non mi avevi urlato di non esserlo più? Quando hai cambiato idea?»

«Quando sei tornato a creare casino nella mia vita?!» ironizzò, ma durò un attimo. «Puoi non credermi, ma non l’ho mai dimenticato.»

«Certo, come no. Facciamo che invece te lo sei ricordato quando è morto il figlio perfetto e i tuoi piani di gloria sono andati a gambe all’ar-… ehi!»

Shuzo venne strattonato per il bavero della giacca. Akio lo guardava con occhi spiritati e il viso arricciato in un ringhio. Quella smorfia un po’ gli ricordava il suo cannibale, che seguitava a dormire della grossa, nonostante tutto. Dormiva, e Shuzo non capiva perché.

«Non ti azzardare! Questo non te lo permetto! Per chi diavolo mi hai preso, eh? Sono tuo padre!»

«Anche quella è una cosa che ti ricordi quando ti fa comodo, e fammi guidare!» Si liberò della presa con uno strattone e Akio tornò ad accasciarsi nell’angolo opposto del seggiolino, tutto addossato allo sportello.

«Pensi sempre di sapere tutto, vero? Invece non sai niente! E ora ferma questa macchina, non ho bisogno del tuo aiuto né di quello di nessun altro!»

«Ma che cazzo dici, siamo nel mezzo del nulla! Oh! Sta’ fermo!» Si allungò su Akio che cercava di liberarsi della cintura e di aprire la portiera. Gli colpì le mani e fece scattare le chiusure di sicurezza. «Guarda, abbandonarti qui non mi spezzerebbe il cuore!»

«Fallo allora! Fermati!»

«Piantala di fare i capricci da vecchio ubriacone!»

«E io ti ho detto che ti devi fermare, dannazione! Con chi pensi di-» Akio ebbe un sussulto che lo bloccò. Portò una mano alla bocca. «…no, sul serio, fermati.»

«Perché?!»

«…perché devo vomitare.»

«Oh, merda! Non vomitarmi in macchina, cazzo!» Per fortuna che sulla strada non c’era un cane, quindi nessuno si lamentò per la sua sterzata brusca né per l’inchiodata.

Sbloccò le chiusure centralizzate e Akio si precipitò fuori come poté. Tempo due secondi e Shuzo venne raggiunto dall’eco dei conati. Alzò gli occhi al tettuccio e prese un profondo respiro. Con calma scese e fece il giro della macchina passando dal davanti; vide Akio con i piedi nell’erba che cresceva lungo il ciglio della strada, le mani sulle ginocchia e che respirava con affanno tra un conato e l’altro.

Nonostante tutto gli scappò un sorriso.

«Che seratona. Ecco un’altra cosa che non mi sarei mai aspettato di fare: io che ti reggo la testa mentre vomiti. Ci vuole un selfie!» si avvicinò, scalpicciando nell’erba accanto ad Akio con molta attenzione. Con una mano lo aiutò a svuotarsi, tenendogli la fronte, e con l’altra scattò una foto che avrebbe girato a Mamoru per fargli fare quattro risate. Aveva già il titolo: ‘ricordi di famiglia’. Ridacchiò, diede un paio di pacche sulla schiena di suo padre. «Coraggio, Akio. Butta fuori il piccione, è tutta salute. Vedrai che dopo ti sentirai-… ehi! Non vomitarmi sulle scarpe, però!»

«Oddio… non berrò mai più così tanto, lo giuro…»

«È quello che diciamo tutti. Poi ci ricaschiamo perché siamo degli stronzi.»

Adagio, Akio si tirò su; la bocca ripulita con la manica della camicia. Shuzo valutò che si reggesse in piedi e poi si allontanò. «Forza, prendi aria. Fai due passi attorno alla macchina.» Si fermò davanti al muso della vettura, i fari accesi proiettavano l’ombra delle sue gambe nel cono di luce che illuminava l’asfalto. Dal taschino della giacca di jeans recuperò il pacchetto di bionde; lo allungò verso Akio. «Ora ci fumiamo una sigaretta e dopo ripartiamo per Nankatsu.»

«Ora come ora non ne sopporterei neppure l’odore», rifiutò l’altro, agitando piano una mano. Lo aveva seguito con passo malfermo e si teneva puntellati i fianchi, prendendo boccate ampie e profonde.

«Io ne ho bisogno, invece.» Shuzo ne sfilò una con i denti. Inspirò a lungo il primo tiro e poi lo soffiò in alto. Osservò Akio addossarsi quasi a peso morto contro la vettura, al suo fianco. Ne scrutò il profilo dall’espressione contrita e gli occhi ancora stretti. Emicrania grossa come una casa, ci avrebbe scommesso; chissà la faccia quando avrebbe scoperto come fosse la sbornia del giorno dopo. «Meglio?»

«Nh…»

Tenne la cicca all’angolo della bocca ed estrasse il cellulare, scrollando le foto della serata. Tra un Akio che voleva afferrarlo tra le sbarre a mo’ di zombie e lui che faceva delle smorfie atroci aveva messo su un bell’album.

«Guarda che spasso!»

«Bah…»

«Credo che questa sia la prima cosa che facciamo insieme da che ho memoria.»

«Ma che dici? Certo che abbiamo fatto cose, noi.»

«E quando se ho iniziato a undici anni con il riformatorio?»

«Allora speravo in qualcosa di meglio.»

«Non si può avere tutto dalla vita.»

«L’ho imparato.»

Nel mettere di nuovo via il cellulare, Shuzo sogghignò nel pallino di un’idea subdola, solo per il gusto di mettere Akio ancora più in difficoltà, magari vederlo schiumare; era così divertente quando si avevano i mezzi per poter ricattare le persone.

«Pensa se facessi arrivare queste foto a quella faccia di merda di Keitaro. Oh, oh, oh. Ci resterebbe secco.»

«Fallo. Poco ma sicuro che a lui non fregherebbe un cazzo, e neppure a me. Sono ormai, quanti? Nove anni che io e tuo nonno non ci rivolgiamo più la parola? Qualcosa di simile.»

Shuzo sgranò gli occhi e drizzò la schiena. «Ehi! Woh! Cosa?! E questa da dove salta fuori? Cioè, voi vi divertite e a me non dite niente?»

«Da morir dal ridere, come no.» Akio massaggiò la fronte e lui rimase a fissarne il profilo.

«Sul serio, adesso voglio saperlo. Cosa hai fatto per non essere più il suo cocchino? Buuuh, so saaad.» Fece scorrere l’indice sulla guancia nel simulare una lacrimuccia.

Akio lo fissò e alla fine sorrise, bruciando ancora le sue certezze e aspettative.

«L’ho mandato a fanculo.»

«Cos-?!» Shuzo stava per scoppiargli a ridere in faccia, ma quando vide che Akio non stava scherzando smise anche lui. «…davvero?»

Akio barcollò avanti di due passi, ma non cadde.

«Avrei dovuto farlo molto tempo prima. Invece lo seguivo come un cane fedele, perché era mio padre, ne sapeva più di me, era forte, era… severo. Ma tu dimmi quale imbecille avrebbe appoggiato l’idea di togliere il cognome al proprio figlio solo perché era stato il padre a dirglielo?» Dandogli ancora le spalle alzò la mano. «Eccolo qua. Ma sai, anche un idiota come me arriva a un punto in cui non può più accettare certe stronzate.» Akio tornò indietro. I fari proiettarono ombre dal basso su tutto il suo viso; ne aggravarono le labbra piegate in una smorfia iraconda dagli occhi spalancati. Shuzo lo guardò fermarsi davanti a lui, fissarlo dritto negli occhi che aveva visto un po’ lucidi per l’alcol e per qualcosa che stava venendo rigurgitato fuori in maniera imprevista; come il suo cannibale che si svegliava di colpo e strattonava la catena, prendendosi la libertà di azzannare chiunque.

Chi avrebbe azzannato la rabbia di suo padre? Perché, stringendo gli occhi, Shuzo capì che quell’acrimonia non era rivolta a lui; lo percepì anche il cannibale che dormiva come un sasso, in letargo nel suo nido di radici.

«Sai cosa ha detto? A me.» Akio si batté il petto con l’indice. «Guardandomi negli occhi, proprio a me. Davanti ai tuoi zii e cugini, davanti a tua madre che piangeva perché stavano per portarti di nuovo in prigione. Sai cosa ha detto, senza un minimo di rimorso o vergogna? Che saresti dovuto morire tu, che magari era la volta buona e saresti sparito per sempre dalla storia dei Morisaki.»

Shuzo non ne fu sorpreso, fin da bambino non aveva percepito affetto provenire da quell'uomo. Da piccolo non aveva capito, crescendo aveva pensato fosse solo stronzo, infine aveva compreso che era un arido che non amava niente e nessuno. Ma per i suoi figli… Quello che aveva detto ad Akio era qualcosa per cui chiunque lo avrebbe appeso al muro per i pollici.

«Si fottano i Morisaki», sibilò Akio, distendendo il braccio in un gesto ampio che tracciò un semicerchio. «Nessuno viene a dire a me, che sarebbe stato meglio se fosse morto un figlio invece dell’altro! Nessuno! Io non ho mai, mai neppure per un secondo pensato che saresti dovuto morire tu. Mai! Perché possiamo avere tutti i problemi di questo mondo, dirci le cose più atroci e non parlarci per anni, ma sei mio figlio, hai capito? Anche se l’ho negato ogni volta che potevo, addirittura guardandoti in faccia! L’ho negato perché ero solo uno stronzo pieno d’orgoglio! Ma la verità è che sarai sempre mio figlio! Sempre!»

La disperazione gridata alla notte, nella luce di fari che proiettavano entrambi sull’asfalto; le loro ombre fuse: tra quella di suo padre che tracciava percorsi scoordinati che si avvicinavano e poi allontanavano, e la sua che restava immobile, celando alla luce il colpo ricevuto da quelle parole.

Nel suo nido, il cannibale non aprì neppure gli occhi, ma abbozzò un sorriso e continuò a dormire, pacifico come non era mai stato.

Akio si fermò dopo aver fatto avanti e indietro per una linea storta e aver sbuffato come un toro.

«Mentre lui… ma cosa ne sa?! Cosa ne sa di quello che si prova quando invece un figlio muore? Cosa ne sa?! Non c’era lui all’obitorio, quando me l’hanno fatto vedere! Non c’era tua madre, non c’eri tu! C’ero solo io! L’ultimo a vedere Yuzo sono stato io! Era lì con quel… buco nella pancia. E tu che mi hai sempre rinfacciato di non averti permesso di vederlo, be’ dovresti ringraziarmi invece! Perché ti ho evitato l’esperienza più orribile della tua vita!» sbraitò, additandolo ancora, ma ora non era arrabbiato, e non era la sequoia dei suoi ricordi, l’ostacolo delle sue ribellioni, il nemico delle sue battaglie. Akio era un uomo come lui, ferito come lui, che si era perso da qualche parte in un punto preciso del loro tempo. Un uomo che si trascinò di nuovo al suo fianco, addossandosi al paraurti del SUV e che a fatica riusciva a tenere in piedi le sue stesse ossa. La testa ciondolava da un lato e dall’altro, mentre la scuoteva.

«Non sai quanto tu sia fortunato, perché i tuoi ricordi sono fermi a quando lui poteva ancora sorridere, i miei invece… non importa quante foto io possa guardare o quanto possa cercare di ricordare… la sola immagine che vedo quando penso a Yuzo non mi sorride più, i suoi occhi sono chiusi e lui è freddo… Solo freddo.»

Shuzo distolse lo sguardo. «Smettila di pensarci, è passato tanto tempo.»

«Un giorno o dieci anni non fa differenza. Io vorrei… ma sono momenti che non puoi dimenticare. E quell’imbecille di tuo nonno che mi dice che…» Akio schioccò la lingua per il disappunto.

Shuzo fece per portare la cicca – o ciò che ne restava – alle labbra, prendersi l’ultimo tiro, ma si trovò a girare il viso di scatto quando sentì la mano di suo padre poggiarsi tra nuca e orecchio e restare lì, tiepida, ruvida, accennare una carezza. E lui sconvolto, con gli occhi sbarrati, mentre Akio abbozzava un sorriso pieno di tutta la cognizione di non essere l’infallibile che aveva sempre creduto.

«L’unico ‘meglio’ sarebbe stato sapervi al sicuro tutti e due. Ma io non sono mai stato capace di proteggere neppure te…» La mano lasciò due leggeri buffetti e poi venne ritratta. Akio rotolò di lato e sfruttò il sostegno del SUV per raggiungere la portiera. «Devo tornare da tua madre, sarà in pensiero. È tardi.»

La portiera aperta in un clack e richiusa in un colpo ovattato.

Lui ancora immobile, nella stessa posizione e quel punto sul collo che era più caldo di qualsiasi altro; l’orecchio andava a fuoco. Shuzo vi portò distrattamente la mano, non sapendo cosa pensare e incapace di dare un nome a ciò che aveva dentro.

«Smetti di sorridere…» sibilò nei confronti del cannibale che non ringhiava più, non si agitava più. Afferrò i capelli corti sulla nuca, strinse la carne.

Suo padre non lo toccava da quando lo aveva picchiato a sangue all’età di tredici anni. Se ne era tenuto alla larga, le mani sempre in tasca quando erano nei paraggi l’uno dell’altro e non gli aveva concesso neppure lo schiaffo che si era aspettato di ricevere all’uscita del riformatorio, l’ultima volta che vi era entrato. Nessun tocco, buono o brutto che fosse stato. Aveva creduto fosse perché lo considerasse al pari di un appestato.

Ma dopo ventiquattro anni, Akio l’aveva toccato di nuovo e nel palmo aveva percepito la consapevolezza di tutti i suoi sbagli. 

 

Per il resto del tragitto non parlarono più.

Quando era risalito in macchina, Shuzo aveva trovato suo padre stretto contro lo sportello con le braccia conserte e il viso nascosto nel finestrino, senza neppure indossare la cintura. La testa abbandonata sulla spalla, mezzo addormentato.

Lo aveva lasciato stare e aveva guidato piano.

Le strade di Nankatsu l’accolsero con qualche recidivo che tornava da una serata allegra o erano solo i folli che staccavano dagli straordinari. Magari, amanti silenziosi che, dopo aver consumato le briciole, tornavano alle proprie case.

Un pensiero, quello di ‘tornare a casa’, che formulò quando si fermò davanti alla villa ricca e spaziosa di una vita fa, ma che improvvisamente era tornata a occupare spazio in quella attuale.

La via di casa era silenziosa, tutti dormivano. Non vide luci accese nella parte anteriore, che non fossero i crepuscolari nel cortile; forse sua madre era in cucina, e quest’ultima affacciava sul retro. Parcheggiò proprio davanti al cancello automatico della villa, certo che nessuno avrebbe protestato per uscire.

Nel momento in cui spense il motore, suo padre continuò a non dare segni di essersene accorto; proveniva solo un respiro pesante che lo collocava direttamente nel primo sonno. Lo scrollò per una spalla.

«Sveglia, siamo arrivati.»

Akio ebbe un mezzo sussultò, mugugnò un biascicato: «Dove?»

«Al Grand Hotel”, ironizzò, non riuscendo a farne a meno. «Siamo a casa. Forza, scendi.»

Shuzo scese per primo. Fece il giro e Akio era rimasto al suo posto. Era proprio cotto, pensò Malerba alzando gli occhi al cielo. «Ah, questi vecchi che non reggono l’alcol, ma in che mondo vivono?» aprì la portiera e Akio continuò a mugugnare contrariato. Cercò quasi di cambiare posizione per trovarne una più comoda quando lui lo afferrò per un braccio, invitandolo a scendere.

«Ancora cinque minuti e potrai crollare tra le braccia di Morfeo. Ce la fai a reggere?»

«Ma chi sei? Che vuoi? Lasciami in pace!»

«Sei troppo vecchio per farti venire i capricci di sonno! Non farmi diventare cattivo!» Lo tirò con forza e solo allora suo padre aprì gli occhi di una linea che strizzò per metterlo a fuoco. Shuzo aveva già affrontato una situazione del genere in passato, al posto di suo padre c’era stato Mamoru, ubriaco allo stesso modo, e per un momento s’aspettò il colpo di grazia da quel déjà-vu, invece, suo padre sospirò.

«Io… davvero non capisco perché tu sia qui, Shuzo…»

«Per il motivo più banale che c’è», rispose dopo un istante.

«Perché ti faccio pena, non è così? Per pietà», disse Akio aprendo un sogghigno come scudo senza rendersi conto, nei fumi dell’alcol, che non c’erano più attacchi da cui difendersi.

«Sì. Pensala così», sospirò Malerba poi lo aiutò a scendere e lo accompagnò al cancello. «Dove hai le chiavi?»

«In macchina.»

«E potevi dirlo prima?» Shuzo guardò verso il SUV.

«Io te l’avevo detto che volevo andarla a prendere, ma tu hai detto di no.»

«No, aspetta… ma stai parlando della tua macchina?!»

«Certo. Di quale se no?»

«Hai lasciato le chiavi dentro la tua macchina?!»

«Sì.»

Shuzo esalò un’imprecazione silenziosa al cielo. «Ma quale idiota lascerebbe in macchina le chiavi di casa?!»

Akio ci pensò un secondo, poi sollevò una spalla. «…io?»

La genuinità conferita dall’alcol lo fece sbottare a ridere, mentre premeva sul pulsante del citofono – con la speranza che sua madre non si fosse addormentata nel frattempo.

«Lo hai detto da solo, eh! Ricordalo, non sono io che ti manco di rispetto!»

Lo scatto del meccanismo elettronico del cancello e Yumeko che comparve sulla sogna di casa. «Shuzo? Akio?!»

«Deiji!» Suo padre si buttò con troppa foga contro il cancello che si aprì di colpo, rischiando di farlo cadere. Shuzo lo prese al volo, con un’imprecazione.

«Ma dove cazzo vai?!»

Yumeko accorse dall’altro lato, per sostenere Akio. Quest’ultimo cercò subito il contatto con lei, poggiando la testa sulla sua.

«Deiji, mia… Scusami…»

«Ne parliamo domani, va bene?» Yumeko si sporse per guardare lui. Bisbigliò un ‘grazie’ in mezzo a un sorriso.

«Di niente, ma’. Aiutami a portare a letto questo sacco di patate sdolcinato! Ma senti le cose che dice? Dèi!»

Shuzo arricciò il naso in una smorfia schifata mentre Akio continuava a salmodiare scuse e nomignoli e dichiarazioni d’amore.

«Se avessi saputo che tuo padre diveniva così affettuoso quando alza il gomito, lo avrei fatto bere più spesso in passato.»

«Mamma! Non vorrete bloccarmi la crescita a trentasette anni, vero?!»

Yumeko ridacchiò. Arrancando riuscirono a entrare in casa; la porta d’ingresso richiusa con la spinta del tacco. Shuzo scalciò al volo le scarpe e alla bene e meglio tolse quelle di suo padre, su cui spiccava una biancastra chiazza di vomito. Ma tanto Akio era talmente fuori fase da non reagire se non stando ancora più stretto a Yumeko. Borbottava qualcosa, adesso, ma non era chiaro perché seguitava a masticare le parole. Salirono uno scalino alla volta, stando attenti a non inciampare e per fortuna la camera dei suoi era la prima della lista al piano superiore, quindi vi entrarono subito.

«Ancora un passo, ci siamo… ancora uno… eeeggiù!» Shuzo riversò Akio sul letto con una spinta. Il materasso lo accolse con un ‘puff’, mentre lui indietreggiava di un paio di passi e portava le mani ai fianchi, nel pensare ‘e anche questa è fatta’.

«Nnnh…» fu tutto quello che disse suo padre, prima di sprofondare la faccia nel cuscino e crollare nel giro di un attimo.

«Vuoi una mano?» Shuzo guardò Yumeko che cercava di svestire suo padre, ma lei sorrise.

«Hai già fatto abbastanza, tesoro. Ci penso io. Tu rimani…?»

Ebbe l’impressione che quella domanda fosse venata di attesa, quasi speranza. Smanacciò i capelli, tirandoli indietro e poi lasciando la mano appoggiata sulla nuca. «Io… volevo scambiare due parole, se ti va e non sei stanca.»

Gli parve che, nella penombra dell’abat-jour, il sorriso le si illuminasse.

«Allora aspettami in cucina. C’è del tè caldo, appena fatto. Bevi qualcosa, prendi dei biscotti.»

«È giugno, ma’.»

«Il tè caldo non ha stagione, dovresti saperlo. Ti raggiungo subito.»

Shuzo accennò col capo e lasciò la stanza, accostando la porta. Con passo pesante ed espirando un profondo rifiato, tornò al piano di sotto ciondolando fino alla cucina, l’unica ad avere la luce accesa. Il resto della casa era spento, ma il corridoio era in penombra. Sul tavolo, tazza e teiera erano abbandonati dove era stata seduta sua madre. Poggiò il dorso delle dita e la porcellana era ancora tiepida, ma non si versò nulla, scegliendo di raggiungere la portafinestra che conduceva al retro. Il giardino era buio a meno dei piccoli crepuscolari che illuminavano il portico e ciò che avevano intorno nel raggio di scarso mezzo metro, ma poteva individuare la sagoma silenziosa e buia della serra, più in fondo.

Era stata una giornata lunga e piena. Tra passato, ricordi, segreti e presente. Tra cannibali che si arrabbiavano a turno e poi sprofondavano in un letargo soddisfatto, pieno di consapevolezze che erano sempre state lì, bisognava solo accettarle e farla finita.

E accettare ciò che aveva rifiutato non era mai stato semplice, per lui. Si doveva opporre alle imposizioni, era un atteggiamento radicato nelle abitudini, ma dopo tutto questo tempo e dopo anni passati a parlare dei mille perché della sua rabbia, questi gli apparvero di colpo troppo deboli per reggersi ancora in piedi sulle loro gambe e dominarlo come era avvenuto in passato. Le guerre logorano entrambe le fazioni, e la sua, anche se con lentezza, si era consumata alla stessa maniera di quella contro cui aveva dato fondo alla propria artiglieria.

Da quando aveva ordinato l’embargo alla rabbia?

Doveva essere anche colpa di Mamoru e della stabilità che era riuscito a costruirgli attorno come un’armatura o un palazzo in cui sentirsi al sicuro. La felicità, la guardia abbassata e le armi che venivano deposte, chiuse in una stanza sottochiave. Non sentiva più la necessità costante di guardarsi le spalle, accertarsi di essere protetto da colpi vigliacchi che avrebbero potuto ucciderlo, nel peggiore dei casi. Era questo che succedeva quando la percezione del pericolo si affievoliva tanto da mischiarsi col rumore di fondo della vita. Le spalle si rilassavano. Non era male, non lo era per niente o lui non si sarebbe mai trovato lì, adesso, in quella casa, davanti a quel balcone a scrutare nel buio.

Prese il cellulare, armeggiò con i file dei video e delle foto e li girò a Mamoru, senza risparmiare un sorriso divertito che gli tirava la bocca solo da un lato. Gli avrebbe fatto fare due risate, ne era certo, ma quando lo status del suo compagno passò a essere online si sorprese.

Tutto okay? Sei a Nankatsu?

Il messaggio immediato che ricevette. Shuzo soffocò un grugnito.

Perché sei ancora sveglio? Ti avevo detto di andare a dormire. Digitò in fretta. Comunque, sì, sono là.

Posso chiamarti?

E la smorfia di disappunto si addolcì in una più calorosa, nel portare il cellulare all’orecchio.

Ehi.

«Sei testardo, lo sai?»

– E tu lo sai che ti amo?

«Scusa ruffiana, gioia.» Ma lo amava anche lui, per questo erano al telefono alle tre di notte.

– Come va?

«A posto. Mamma è di sopra, sta mettendo a letto l’ubriacone. Ti ho girato dei video esilaranti.»

– Che ha combinato?

«A parte questionare con gli sbirri, sfasciare un locale e vomitarsi sulle scarpe… direi un po’ di cose.»

– Accidenti. Si direbbe una serata da ricordare.

«Sì…» Shuzo affondò la mano nei capelli e li tirò indietro, fermandosi a grattare la sommità della testa. «Senti, volevo parlare con mamma di alcune cose. Ti dispiacerebbe se…»

– No, per niente. – Diretto, sicuro e morbido. Immaginò anche il sorriso che gli aleggiava sulle labbra, mentre lui si masticava l’interno della guancia e teneva il viso rivolto ai propri piedi. – Stai lì, non metterti in viaggio a notte fonda.

«Sicuro che poi non ti senti solo senza di me?»

– Solo? Ma se sono già pronto a occupare tutto il letto! Potrò allungarmi come voglio in ricordo dei bei vecchi tempi da single incallito!

«Che stronzo», ridacchiò, poi la voce di Mamoru lo raggiunse con un tono avvolgente che gli diede la stessa sensazione di quando restava con la fronte poggiata contro il suo petto e le braccia che lo circondavano.

– Resta a casa, Shuzo. E domattina non c’è bisogno che arrivi presto, prenditela comoda, tanto qui ce la sapremo cavare. Stai con i tuoi, fai quello che devi.

«E che altro devo fare ancora?»

– Sai cosa voglio dire. E quando torni, mi racconterai di come hai fatto pace con tuo padre.

«Ah! Pace! E poi cosa? Ci daremo il mignolo? Che stronzate.»

– Shuzo…

«Non è giusto, okay? Una parte di me sa benissimo che non lo è! Che non dovrei concedergli niente!»

– Quella è la parte orgogliosa. Ma l’altra che dice?

«…che siamo stanchi. Tutti e due. Troppo stanchi per continuare, non ha alcun senso.» Shuzo sospirò, abbassando la voce. Il gomito appoggiato al vetro e la mano a reggere la fronte, massaggiandola adagio. «Ah, e adesso l’infantile sono io perché vorrei tornare a casa…»

– Ci sei già,– disse Mamoru, – e qualunque scelta farai, sarò dalla tua parte. Okay?

«Okay.»

– Ti aspetto domani. Notte, piccolo.

Sorrise del nomignolo affettuoso che Mamoru tirava fuori di tanto in tanto, assieme al più frequente ‘amore mio’. Dopo tutti quegli anni, gli davano ancora un pizzicorino strano alla nuca, sull’osso che il suo compagno toccava spesso. «Notte, gioia.»

Chiuse la chiamata e appoggiò la sommità del cellulare contro il mento, seguitando a fissare il buio oltre i crepuscolari e pensando che il momento di decidere sul serio era arrivato, in mezzo al baccano fasullo e a quello comico. Le decisioni urlate erano solo rapide vie di fuga; era nella calma che si prendevano quelle definitive.

«Sì, buonanotte...»

Un augurio sussurrato alle ombre, alla sagoma della serra e anche a sé stesso, ma prima c’era ancora qualcosa che doveva sapere per bene.

«Non hai bevuto ancora nulla, tesoro?»

Shuzo si volse, sua madre era appena entrata in cucina.

«No, stavo per prendere del tè.»

«Ci penso io. Vuoi mangiare qualcosa?»

«Alle tre di notte?» ironizzò Malerba a braccia conserte e schiena alla vetrata.

«Un biscotto non ti ucciderà.» Yumeko si mise a trafficare con le tazze e ne riempì una che infilò nel microonde. Il ronzio del vassoio era un fracasso assordante nella sonnolenza della casa.

«Lascia stare i biscotti,» disse a un tratto scuotendo il capo. Si allontanò dalla portafinestra e infilò le mani nelle tasche, stringendosi nelle spalle. «Ascolta, prima che iniziamo e dato che si è fatto un po’ tardi, volevo-»

«Fermati qui.» Lei lo anticipò, mostrandogli quell’entusiasmo che aveva solo creduto di immaginare. «Non mi piace saperti in macchina a quest’ora.»

«Stavo per chiedertelo… Se non è un disturbo, posso dormire sul divano e-»

«Ma quale disturbo e quale divano! C’è la tua stanza di sopra.»

Shuzo passò una mano dietro al collo mentre annuiva. La semplicità con cui sua madre lo stava accogliendo lo fece sentire un po’ in difetto per come si era comportato nei suoi confronti. Come se non meritasse quella possibilità dopo essere andato via come una furia. Poi cercò di rilassare le spalle e non farsi vedere in imbarazzo. Prese posto al tavolo al suono del forno a microonde che aveva terminato il programma di quel minuto. Guardò la tazza fumante per un momento quando l’ebbe davanti.

«Ha fatto ancora storie?»

«Macché. È crollato come un sasso, sta russando della grossa. Stanotte non mi farà chiudere occhio, ma so che domattina avrò la rivincita grazie al mal di testa con cui si sveglierà. Piccole soddisfazioni», sghignazzò Yumeko prima di bere un breve sorso del proprio tè ormai freddo. «Grazie per averlo riportato a casa. Mamoru mi ha raccontato un po’ per sommi capi. Sa che rimani qui?»

«Sì, l’ho avvisato.»

Lei annuì. Tirò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Non li aveva più fatti ricrescere da quando aveva iniziato a tagliarli. «Tuo padre si è comportato bene con te?»

«Cazzone come al solito, ma con più senso dell’umorismo. L’alcol fa miracoli.» Sollevò un paio di volte le sopracciglia con complicità e anche lei rise. Poi girò la tazza da un lato e dall’altro senza prendere in considerazione la reale possibilità di berne un sorso. «È vero che lui e Keitaro non si parlano?»

«Allora te lo ha detto?» Yumeko era sorpresa. «L’alcol fa davvero miracoli, dopotutto.»

«Era questa la cosa che ignoravo, non è così? Lo avevi accennato l’altra volta.»

«Non voleva che lo sapessi.»

«E perché?! Per una volta che mi-…» esitò a farlo uscire dalla propria bocca; già solo pensarlo lo straniva, perché faceva crollare numerosi primati che si portava dietro dall’infanzia. Shuzo abbassò lo sguardo e la voce. «…per una volta che mi difende. Avrebbe potuto approfittarne.»

«Non voleva fare colpo su di te e sapeva che non lo avresti accettato, magari non gli avresti neppure creduto. Così come non avresti accettato l’aiuto di zio Tomohisa.»

«È stato lui a chiederglielo, non tu.» Shuzo ne fu certo prima ancora che sua madre annuisse.

«Io ero troppo sconvolta per essere lucida e rispondere alle cose terribili dette da tuo nonno, ma tuo padre… lo avevo visto così solo quando eravamo fuori dal konbini la notte che è morto tuo fratello.»

L’effetto boomerang del dolore di Akio sfiorò il proprio. La perdita era stata terribile per entrambi, in maniere diverse, ma che per una volta non riuscivano a separarli. Tutt’altro. Quella sofferenza l’aveva sentita vicina e familiare come non mai, ci si era riconosciuto e si era reso conto di come entrambi avessero sofferto e di quanto fossero contemporaneamente arrabbiati, fin quasi a scoppiare. Ancora una volta simili, specchio l’uno dell’altro con le stesse azioni e stesse reazioni che poteva sforzarsi in tutti i modi di non vedere, ma restavano sotto i suoi occhi.

«Cos’è che ha detto di preciso?»

Yumeko accennò un sorriso e gli raccontò ogni cosa. Chi c’era alla minka, la telefonata di Mamoru, le parole di Keitaro e quelle inaspettate di Akio, arrivate nello stesso momento in cui lui, in tutt’altra città, si era considerato una causa persa ed era stato convinto di essere un incapace che non sapeva neppure vendicare il proprio fratello.

Mentre lui pensava fosse finita, Akio aveva alzato gli scudi prendendo le sue parti e spezzando il legame più importante che aveva con i Morisaki: quello con suo padre.

«Non si parlano più da allora, tuo nonno fa come se papà non esistesse. E lui uguale. Abbiamo smesso di andare alla minka quando ci sono i pranzi o le cene di famiglia; se vogliono fare due chiacchiere sono i tuoi zii a venire qui. Papà va giusto qualche volta a trovare tua nonna.»

Che significava rinunciare praticamente ai principi di una vita intera, alle convinzioni e agli insegnamenti ora scoperti sbagliati.

Akio aveva rinunciato a sé stesso per difenderlo.

«Zia Kozue mi ha detto che tuo nonno ha anche tentato di ribattere quando ce ne siamo andati, ma tua nonna lo ha azzittito una volta per tutte.» A Yumeko sfuggì una risatina. «Dopotutto, è sempre stata più Morisaki di lui.»

Anche quella si rivelò una sorpresa, ma gli rese chiaro il comportamento della nonna; le sue parole.

«So che ti ha avvicinato.»

Shuzo alzò lo sguardo perplesso.

«Tua nonna. So che ci hai parlato.»

«Tu e Mamoru dovreste smetterla di fare così tanto comunella tenendomi fuori, eh.» Affondò il viso nel palmo, con uno sbuffo. «Comunque, sì, mi ha invitato a ritornare alla minka

«E tu non ci andrai.»

«Sono degli estranei, mamma.»

«Lo capisco.» Yumeko gli sfiorò il viso in una carezza. «Così come capisco che hai due begli occhi rossi. Sei stanco anche tu, dovremmo andare a dormire. Potremmo parlare meglio domattina… ma prima girami le foto che hai fatto, stanotte. Perché sono certa che non ti sei lasciato sfuggire l’occasione.»

«E lo chiedi? Ho anche video se è per quello.»

Si scambiarono un’occhiata d’intesa, ridacchiarono. Shuzo si allungò, le baciò la fronte e poi insieme si alzarono, abbandonando le tazze nel lavello. Anche quelle avrebbero aspettato il nuovo giorno per essere lavate, tanto non c’era fretta.

Camminando adagio e spegnendo tutte le luci al loro passaggio, salirono al piano di sopra senza fare rumore. Akio era un bassotuba.

«Concerto d’ottoni, stasera.»

Ennesima sghignazzata solo per loro, poi uno schiaffetto sul braccio mentre si allontanava per raggiungere il fondo del corridoio e la sua vecchia stanza.

«È bello saperti qui.» Lo fermò Yumeko un’ultima volta. «Un po’ ci ho sempre sperato che tornassi, con la certezza che non saresti sparito il giorno dopo.»

«È solo un caso», minimizzò in un’alzata di spalle.

«Magari potrebbe non essere isolato.»

«Non farci troppo affidamento.»

«E tu non essere categorico.»

Shuzo accennò col capo e arrivò fino davanti alla vecchia camera, mentre sua madre spariva oltre la porta che separava l’orchestra dal dietro le quinte. Un russare più forte, e poi di nuovo attutito.

Guardò la porta chiudersi e poi si ritrovò da solo, di nuovo, con i suoi vecchi ricordi come era accaduto pochi giorni prima. L’impatto con l’odore di Yuzo era stato forte, ma ormai doveva averlo assorbito e non l’avrebbe sentito più. Shuzo non seppe decidersi se sperarlo oppure no.

Buttando fuori l’aria in uno sbuffo e tendendo bene spalle e schiena – perché non poteva presentarsi come un rammollito – aprì la porta e l’oscurità era appena rischiarata dal raggio luminoso dei crepuscolari.

E l’odore lì, ancora, che gli entrò nel petto quando inspirò. Lo accolse come avesse dovuto aspettarsi di vedere suo fratello steso nel letto, ma entrambi avevano superfici lisce e piane. Fu ancora una bella vertigine, ma meno forte e dolorosa della prima volta.

Chiuse la porta, rimase al buio contro l’uscio e si limitò a respirare. Di continuo, lentamente e senza panico. I ricordi erano caldi come giugno, profumavano dell’estate che stava arrivando e di suo fratello. Usava sempre quel deodorante maschile e pungente che piaceva anche a lui, ma non gli rubava mai. Per sé ne sceglieva uno diverso. Distinguersi, anche sulle sciocchezze, perché i confronti pesavano e le uguaglianze pure; era sulle differenze che sperava di emergere ed essere riconosciuto, ma ora avrebbe dato qualsiasi cosa per sentirsi dire ‘mettetevi vicini? Oh, ma siete uguali, cazzo!’. Chissà se uguali lo sarebbero stati anche adesso con il loro argento nei capelli e le prime rughe. Forse sarebbero comparse in punti diversi del viso, avrebbero modificato le espressioni. Il tempo avrebbe valorizzato le differenze fisiche come loro avevano esaltato quelle caratteriali.

Eppure, anche in quei principi di maturità era tornato a essere uguale a qualcuno, di aspetto e carattere. Un mix letale, soprattutto per la pazienza di Mamoru – e anche di chiunque gli stava attorno, tipo la Banda Bassotti, le Mezzeseghe e Spydey&Family.

Shuzo si decise ad abbandonare la porta con una leggera spinta. Avanzò un passo alla volta, senza fretta e guardò il letto che era stato di suo fratello, all’inizio, quello accanto alla porta. Lo superò e raggiunse il proprio, quello accanto al balcone, poi passato a Yuzo.

«Ed eccoci di nuovo qui…» Si fermò in quell’angolino tra balcone e letto, dove molte volte si erano trovati seduti, loro due, nelle sue visite notturne. O entrambi schiena al letto o lui fuori al terrazzo e Yuzo dentro. Fece scorrere appena il battente e l’aria aveva lo stesso odore dei suoi ricordi, lo stesso tepore, nel duetto di un paio di grilli.

Scivolò giù, le spalle alla branda, questa volta lui dentro e fuori poteva immaginare un fantasma che lo stava ascoltando per tutte le volte che il fantasma era stato lui.

Shuzo allungò le gambe, piegò la testa contro il materasso.

«Sì, eccoci qui…»

…A pensare se sia la cosa giusta o meno, se questa somiglianza debba significare qualcosa, se il rancore debba durare per sempre o semplicemente è il momento di passare sopra ai cadaveri per tornare a costruire. Ci sono macerie da togliere, e quanta polvere, quanto livore. Fino a stamattina gridava a gran voce, e tu lo sai come. Poi ha smesso, per questo non so se il momento è arrivato o sto prendendo per chissà cosa uno stallo di calma perfetta. A valutare le situazioni faccio cacare tanto quanto eravamo ragazzini, fratello, e non dovrei farmi convincere da una sola parola o un solo gesto. Tanto tu dirai che non è uno solo e si guarda la somma per vedere il totale, e magari c’hai pure ragione, cazzo, o magari questo è solo un enorme sbaglio e io dovrei tornare da Mamoru e smetterla di pensarci. Tanto non funzioneremmo mai a lungo andare, è sicuro. Eppure, perché non mi sento in colpa per questo errore? Perché quella bestia fottuta che ho dentro non si agita e non ringhia e non dice che sto sbagliando, cazzo, e mi sto mettendo nella solita situazione di merda per cui alla fine resterò l’unico deluso?

Per anni ho desiderato di poter entrare qui dalla porta principale e non dal balcone, manco fossi un ladro. Lo desideravi anche tu. Io sarei corso in stanza, e ti avrei trovato tra le tue riviste di calcio e i libri di studio.

Sarei entrato e avrei detto…

«…sono tornato, fratello.»

Il sapore che ha è più forte di qualsiasi senso di colpa, Yuzo.

 

Aprì gli occhi, ma li richiuse subito.

Dietro le palpebre aveva quest’immagine chiara di quando era stato bambino e suo padre l’aveva portato in azienda, quella che ormai era sede storica lì a Nankatsu, e si era fermato davanti a quest’ufficio pieno di dattilografe al lavoro. Tre colonne di banchi per quattro o cinque file. E queste signorine vestite tutte uguali, che gli davano le spalle così da non distrarsi e che battevano velocissime le dita sui tasti di vecchie macchine da scrivere. Ricopiavano rapporti, lettere da spedire, pagine di bollettini da condividere con le altre sedi, l’almanacco interno dell’azienda.

Il tic-tic-tic era continuo, ritmico, affascinante.

Solo che adesso ce lo aveva nella testa e provò il desiderio di spaccarsela contro il primo spigolo vivo che avesse avuto accanto. Lo stomaco era un concerto di bruciori e acidità che avrebbe dovuto andare a tè e riso bianco per almeno due giorni. Oh, e i crampi! Non capiva se fosse fame o solo voglia di morire subito.

Akio si sforzò di aprire gli occhi una seconda volta e la luce filtrava soffusa dalle tende tirate, però era chiaro fosse giorno. La sveglia sul comodino segnava le otto e mezza. Era in ritardo. Merda.

La seconda cosa cui pensò fu il cellulare; doveva avvertire la signorina Miyoko che sarebbe arrivato più tardi, il tempo di riprendersi da quella sbornia atroce. Si tirò a sedere e addosso aveva ancora la camicia, anche se era stata sbottonata in buona parte, ma non indossava i pantaloni, che neppure vide in giro. La stanza sembrava il carillon di una vecchia giostra e lui affondò il viso nella mano.

C’era però da dire che non sentiva il solito affanno dettato dall’ansia né gli acciacchi cui si era abituato: altri più invadenti stavano rubando l’attenzione ai soliti malanni.

Buttò giù i piedi dal letto e si alzò. Non al primo tentativo, però, che lo riportò di nuovo con le chiappe sul letto. Al secondo andò meglio, almeno riusciva a stare in piedi senza riversarsi in avanti né vomitare. Addirittura gli parve che il mal di testa picchiasse meno.

Ad ogni modo, era una giusta punizione per essersi comportato come uno stupido irresponsabile. Alla sua età quell’atteggiamento era inqualificabile. Chissà Yumeko, poverina, quanto doveva averla messa in imbarazzo con la polizia. Akio non aveva alcun ricordo chiaro di ciò che era avvenuto, nessuno lucido. La maggior parte si mescolavano a sogni strani in cui c’era stato Shuzo che lo andava a recuperare. Proprio una bella ironia considerando quello che gli aveva detto l’ultima volta che si erano visti. Di certo, quindi, dovevano essere stati i poliziotti a caricarlo e portarlo fino a casa.

Recuperò degli abiti puliti, si diede una sistemata nel bagno che avevano al piano superiore, ma guardandosi allo specchio vide che aveva delle occhiaie orribili e un aspetto da morto di sonno che davvero non aveva idea di come si sarebbe presentato a lavoro. Allo stesso modo, sfumò l’idea di rendersi decente almeno davanti a Yumeko, si accontentò di sembrare quantomeno ordinato e non uno zombie.

Raggiunse il piano inferiore e strascicò i piedi fino a poco prima di entrare nella sala da pranzo. Era da lì che sentiva provenire un brusio e la risatina di sua moglie. Be’, più di una risatina: stava proprio ridendo di gusto e la vide che reggeva il cellulare e si copriva la bocca con la mano.

…che bastardo d’un figlio stronzo…

…be’, sai come si dice in questi casi, no? Tutto suo padre…

Uno scambio di battute che gli risuonò di colpo familiare e giù l’ennesima risata.

«Yumeko…»

La sua margherita si volse di scatto: gli occhi erano lucidi d’ilarità e aveva un’espressione raggiante. «Oh, ben svegliato», lo canzonò. «Scommetto che ti senti come se ti fosse passato addosso un camion a rimorchio.»

«E a me sembra che l’idea ti diverta.»

«Puoi dirlo forte.»

Akio distolse lo sguardo; di replicare non gli sembrava il caso né si trovava nella posizione per poterlo fare.

«Mi dispiace per averti creato delle preoccupazioni.»

«Lo spero bene, e comunque sono stata già ripagata per questo.» Yumeko strinse al petto il cellulare, esibendo un sorrisetto furbo. Non gli risparmiava nulla, non lo aveva mai fatto neppure in passato quando si era trovato in simili posizioni di svantaggio. Aveva una carta forte da giocare dalla sua, di sicuro la stringeva tra le mani come faceva con quel cellulare e aspettava solo di calarla.

Akio massaggiò la fronte e venne avanti, con l’intenzione di raggiungere il tavolo.

«E cosa stavi guardando di così divertente?» chiese con fare distratto, ma il sorriso di Yumeko lo convinse a fermarsi a un passo da lei.

«Oh, dei meravigliosi video di te ubriaco. Sappi che li ho girati anche alle tue sorelle, abbiamo riso fino adesso. Non dubito che a breve arriveranno anche Ryuusei e Tomohisa.»

Akio si irrigidì; l’imbarazzo gli arrivò alle guance e fino alle orecchie. «Era… era proprio necessario mostrarli anche a loro?»

«Certo, naturale. Credevi che la tua stupidità sarebbe stata gratuita e senza conseguenze?» Nonostante negli occhi le brillasse sempre gentilezza e il sorriso le incurvasse le labbra, Yumeko sapeva affondare colpi così precisi da lasciare spaesati. Era sempre stato lui quello severo e che si faceva rispettare, mentre sua moglie si era ritagliata un ruolo sottomesso alle sue volontà. A volte si faceva sentire quando davvero superava il limite, e le sue sferzate lo rimettevano in carreggiata, gli facevano abbassare i toni. Ma da quando Yuzo era morto, lei era divenuta affilata come un coltello da macellaio. Una mannaia. Che calava netta per tranciare l’osso e non spuntarsi.

«Non immagini quanto io sia stata in ansia per te, ieri. Tu non tornavi, il tuo telefono non prendeva e io non avevo idea di dove fossi.» Il sorriso si era affievolito fino a lasciare delle labbra dritte, ma non tese. «Sai cosa ha significato per me? Sai cosa ho provato? Mi hai fatto male, ma immagino che questa sarà la prima e ultima volta. Una piccola umiliazione è un giusto prezzo in confronto alla paura che mi sono presa. Shuzo è venuto fino da-»

«Sh-Shuzo?!» Akio sgranò gli occhi.

«Sì. Li ha girati lui questi video, si è divertito da morire.» Yumeko tornò ad accennare un leggero sorriso. «Non ricordi cosa è successo?»

«Sì e no… diciamo che ho le idee un po’ confuse. Credevo mi avesse portato qui la polizia.»

«No. Ci ha pensato lui. Ti è venuto a prendere al koban di Fuji e ti ha riportato a casa. Dovrai chiedergli scusa per le noie che gli hai causato.»

Akio scrollò il capo, un gesto di cui si pentì all’istante visto che gli girò tutto. La smorfia per la vertigine si trasmise alle labbra, conferendogli quasi disappunto. «Non era tenuto a farlo…»

“E invece lo ha fatto lo stesso. Ma chissà che forse da uno stupido colpo di testa, non venga qualcosa di buono e insperato.»

Yumeko sorrideva ancora e lui non capì il senso di quelle parole così criptiche. Non capì neppure quell’espressione che avrebbe definito contenta se non fosse che era certo che ormai lei sapesse quale fosse la situazione con Shuzo, il suo rifiuto ad averlo attorno. Magari era perché non conosceva le parole esatte che si erano detti, altrimenti non sarebbe stata così serena. Solo che ripensandoci… aveva echi della notte precedente che…

Lo sguardo superò la figura di Yumeko, si poggiò sulla tavola e sulla disposizione delle tazze per la colazione. Akio irrigidì la schiena.

«È apparecchiato per tre…»

Yumeko guardò alle proprie spalle per un attimo, poi tornò a guardare lui. Il sorriso era una curva dolce come il miele. «Shuzo ha dormito qui, stanotte.»

«Qui?! Intendi, qui a casa? In camera sua?»

Lei annuì, inclinò leggermente il capo e strinse gli occhi per studiarlo più a fondo, provare a leggergli dentro. Si sarebbe accorta del suono forte che il cuore aveva battuto nel petto? Sperò di no, altrimenti come avrebbe fatto a mantenere il controllo della situazione e dei nervi?

«Non ne sei contento?»

«Be’, certo è… Non me l’aspettavo.»

«Adesso non fare il passo del gambero.»

Yumeko lo superò, al solito senza pietà come quando Yuzo mentiva con il sorriso. Tale madre, tale figlio a modo loro. I due sciocchi che invece avevano sempre creduto di avere il coltello dalla parte manico, trovandosi invece a tagliarsi i palmi con la lama nella loro stoica stupidità, erano sempre stati lui e Shuzo. Tale padre, tale figlio.

«Io vado a preparare la colazione per tutti; Shuzo è nella serra e quello che devi fare lo sai già. Simili possibilità potrebbero non ritornare. Vedi di non sprecarla. E scusati per avergli rotto le scatole.»

L’ultimo avvertimento o consiglio, stava a lui scegliere come avrebbe dovuto considerarlo.

Gli avvertimenti implicavano un’obbedienza di fondo; i consigli potevano essere ignorati.

Akio si ritrovò solo con sé stesso, quel tavolo apparecchiato per tre e la scelta. Poteva lasciare vincere l’orgoglio come aveva sempre fatto o fare vincere la paura o poteva combattere sia l’uno che l’altra e affrontare tutto con ordine, quello che il maestro Gaho gli aveva insegnato a rispettare in una composizione. Ogni cosa trovava il suo posto nello schema se si procedeva in avanti un passo alla volta. In quel modo, lui era stato capace di districare le radici ammassate che aveva avuto nel petto.

Prese fiato e uscì in giardino passando dalla portafinestra. Infilò le ciabatte da esterno e si incamminò per il vialetto che portava alla zona barbecue, lastricato di mattonelle. Poi deviò, passando nell’erba e arrivando alla serra dalla porta aperta, quando di solito Shuzo la teneva sempre chiusa. Chiudeva fuori chiunque, il messaggio era quello. Adesso il messaggio era di accoglienza. Entra pure se vuoi. E Akio non entrò subito, ma rimase sulla soglia a osservare suo figlio seduto sullo sgabello che guardava la composizione Nageire che aveva abbandonato a metà, due giorni prima. Avrebbe dovuto terminarla ieri, ma con quello che era successo aveva finito per dimenticarla. Come faceva con le cose a cui teneva, a volte le lasciava a loro stesse, quasi che dovessero trovare da sole una strada per risolversi.

Shuzo la guardava, inclinava il capo da un lato e dall’altro; adagio girava il vaso con entrambe le mani stando attendo a non far muovere gli elementi che aveva infilato, quali shin e hikae. Il Paradiso e la Terra. I due poli opposti. Nel mezzo, mancava l’Uomo. Dove si sarebbero potuti allocare loro? Era stato indeciso, per questo non aveva terminato la composizione sul momento ma aveva rimandato. Non era riuscito a trovarsi un posto nell’ordine, ma ora che vedeva suo figlio valutare il proprio lavoro con occhio critico ed esperto al tempo stesso, Akio pensò che non stesse più a lui decidere. L’ultimo elemento, quello dell’Uomo, era nelle mani di Shuzo.

 

«Non è completa.»

Shuzo fece scattare la testa come quella di un automa che si aspettava d’essere attaccato alle spalle, un leggero sussulto e gli occhi stretti, affilati per istinto.

Aveva messo a fuoco Akio con un attimo di ritardo e subito aveva rilassato la tensione, tra occhi e spalle. Tornò a guardare la composizione e ammiccò.

«Non è male. Non conosco tutte per bene le regole della Sogetsu, ma non è male. Mi piacciono le ortensie, ma avrei scelto un colore più tenue o, in alternativa, uno più vivace; questo blu è molto scuro e le foglie del Philodendron sono scure anch’esse. C’è poco contrasto.» Poi si ritrasse, sollevando le mani. «Ah. Sia chiaro, non voglio dirti quello che devi fare, eh. Non sono il tuo maestro e facciamo capo a scuole diverse.»

«Sì, sì. Lo so.»

«Non voglio scatenare un incidente diplomatico con Gaho-sensei, mi è simpatico.» E non era in vena neppure di scatenarlo con Akio, anche se non dava l’impressione di essersi risentito per le sue osservazioni. Sulle labbra, invece, aveva abbozzata rassegnazione nel mezzo sorriso che gli concesse.

«Non lo scatenerai. Ho lasciato la scuola.»

«Cosa? E per-…» domanda sciocca, si disse Shuzo, perché ne conosceva già la risposta. Emise uno sbuffo e distolse lo sguardo sugli steli d’ortensia in acqua. «Ecco, e quindi il sensei se la prenderà comunque con me.»

«Avevi detto che ti dava fastidio, e così…»

«E tu da quanto mi dai retta? Andiamo! Io non ho mai ascoltato te, tu non hai mai ascoltato me, ora improvvisamente sei il Genio della Lampada: esprimi un desiderio e te lo avvero! Ma che stronzata è?!»

«Non volevo crearti problemi.»

«E tanto me li avevi già creati! Ora il sensei dirà che sono sempre io che faccio scappare la gente.»

«No, non lo farà.» Akio scrollò il capo. «Preferivo comunque occuparmi di piante vive, piuttosto che di composizioni pseudo-viventi… Con la morte ci ho avuto troppo a che fare.»

Shuzo seguì lo sguardo di suo padre che vagava per la serra. Non lo aveva detto per darsi un tono o fingere davvero che non gli importasse: Akio sentiva il peso della morte che era rimasta ad aleggiargli attorno fin dalla scomparsa di suo fratello. Non era riuscito a liberarsene, perdendola nei meandri del tempo, ma l’aveva portata con sé, come un passeggero silenzioso e invisibile che d’improvviso si era svegliato e aveva deciso di dargli il tormento.

Invece, mentre guardava il lavoro che aveva fatto, i vasi e le piante rigogliose, pareva trovare una chiara consolazione; serenità. E Shuzo sapeva quanto difficile fosse riuscire a raggiungere quel particolare stato d’animo. La serenità, più di ogni altra, era difficile da trattenere a lungo. Di Akio aveva sempre visto solo la facciata che egli stesso aveva voluto mostrare, ma non si era mai chiesto neppure una volta se fosse davvero sereno e soddisfatto di sé stesso, se fosse felice. Aveva preso a farlo da qualche tempo, e ora sapeva la risposta. Suonava con un ‘no’, secco.

Suo padre non era felice, forse non lo era mai stato per davvero.

Suo padre non era sereno, non a lungo. Si accontentava di strappare qualche briciolina grazie a quel posto che, molto tempo prima, aveva donato serenità sia a lui che a Yuzo.

Magari era arrivato il momento di portare Akio alle grandi serre, aveva la predisposizione giusta per riceverne la magia. Poi però scrollò il capo e scacciò quella che sembrava una decisione.

«Sono carine. Le ho guardate e stanno bene», disse invece. Akio accennò un sorriso e annuì.

«Grazie per aver detto a tua madre della Caesalpinia. Da quando sta fuori è diventata ancora più rigogliosa; vedrò di ricordarmelo per gli anni futuri.»

Si scambiarono un’ultima occhiata e poi persero le parole. O, meglio, era Shuzo che se le aspettava e Akio che le centellinava a una a una. Restava lì, fermo due passi dopo la porta d’ingresso della serra, con le mani nelle tasche e la schiena bella dritta, la testa alta. Portava la sua sicurezza sulle spalle dimenticandosi che poteva risparmiarsi di cercare di darsi un tono, quando solo la sera prima gli aveva retto la fronte mentre vomitava. Però lesse, attraverso l’apparenza, il modo in cui rimestava i pugni nelle tasche. Gli venne da sorridere, ma lo ingoiò.

«Senti, riguardo a-»

«Mamma dice sempre che io faccio le domande sbagliate, con te. E in un certo senso forse è vero, forse ti chiedo solo cose di cui ho già la certezza della risposta e quindi so come ribattere. Magari io le tue risposte non le voglio sapere.» Shuzo lo interruppe, prima che potesse profondersi in qualche scusa bislacca sulla serata trascorsa. Non era quello che gli interessava. «Ma stavolta ho deciso che voglio ascoltarla e quindi ti farò una sola domanda. Una. Nient’altro. Rispondi solo a quella.»

Akio sembrava perplesso, ma annuì, tenendo la mascella serrata e la schiena dritta.

Avrebbe voluto dirgli di smetterla di voler apparire sempre perfetto e intoccabile e invece chiese, senza esitare, ma con briciole di livore: «Perché? Perché l’ikebana, perché le piante? È per questo che mi hai cacciato di casa, te lo ricordi? È per questo che io non ho avuto una cazzo di famiglia né una vita normali. Per questo!» Shuzo indicò la composizione lì accanto quasi con disprezzo. «E ora che fai? Prendi lezioni? Perché. Dammi una sola risposta valida, non chiedo nient’altro, non voglio sapere nient’altro.»

Per quante occasioni avesse avuto, aveva evitato per anni quel tipo di domande; le risposte l’avevano sempre spaventato. Sentirsi dire ‘perché di te non me ne frega niente’ o ‘perché voglio distruggerti’ era un dolore che aveva scelto di risparmiarsi, dopo essersi sentito gridare ‘non sei più mio figlio’. Per questo sua madre lo aveva rimproverato: Shuzo aveva scelto bene cosa sentirsi dire, per farsi trovare preparato e con già la risposta ironica sulla punta della lingua.

Ma ora era grande abbastanza per qualsiasi verità; i segreti dovevano prosciugarsi da quell’unico ramo di famiglia di cui gli importava qualcosa. Dovevano sparire, smetterla di infettare le loro radici con i dubbi e le incomprensioni.

Tenne gli occhi fissi su Akio, ancora in piedi e distante, ma doveva spicciarsi a rispondere perché lui non avrebbe atteso in eterno. Ogni esitazione era una risposta negativa e quella domanda non l’avrebbe posta mai più, se avesse tardato di un altro secondo.

Poi suo padre si mosse; le spalle non più rigide sotto l’imposizione che aveva dato a sé stesso. Senza che lui l’avesse invitato, si avvicinò e trascinò un secondo sgabellino che aveva attorno alla postazione di lavoro. Lo fermò proprio davanti a lui e prese posto. Le mani abbandonate tra le ginocchia, la schiena un po’ curva.

«Sai cosa dicevano di Yuzo quando era piccolo? Che era uguale a tua madre. Gli somigliava nei modi, negli occhi. E io ero molto orgoglioso e molto… molto egoista. Volevo che tu assomigliassi a me. Volevo che la gente dicesse: ‘è tale e quale a suo padre’. Volevo sfoggiarti come un trofeo. Ma tu non ne volevi sapere. Più cercavo di avvicinarti, più ti allontanavi. I tuoi modi sempre schivi, timidi, i tuoi interessi fantasiosi e sopra le righe. Allora divenivo severo, esigente. Cercavo di bloccarti tutte le strade per farti andare dove volevo. Ma più io insistevo, più tu ti ostinavi, più mi odiavi e più io odiavo te.»

Un’analisi in cui fu facile riconoscersi, sembrava il riassunto perfetto della sua infanzia, ma non aveva mai pensato che nei gesti di suo padre ci fosse il desiderio di renderlo a sua immagine e somiglianza. Per Shuzo fu una vera novità, qualcosa che non aveva capito, perché quando stava diventando grande abbastanza era stato troppo tardi e le strade avevano preso direzioni così diverse che a dominare era stato solo l’odio e l’insoddisfazione.

Ma, sì, alle volontà di Akio lui aveva combattuto strenuamente come un guerriero, con lo stesso istinto.

«Pensavo d’essere io quello bravo e tu quello che sbagliava. L’ultima volta che sei scappato di casa ero così arrabbiato con te, deluso. Non ti ho cercato perché troppo orgoglioso della mia collera per pensare: Cristo, mio figlio di quindici anni è fuori chissà dove a fare chissà cosa. Per i modi in cui ti comportavi con me io ti vedevo già come un adulto dimenticando che eri solo un ragazzino, e ti dicevo cose che…» Akio distolse di nuovo lo sguardo, abbassandolo sulle mani che teneva intrecciate. «Per quanto arrabbiato, un padre non dovrebbe mai pronunciarle e far passare tutto questo tempo prima di…»

…cosa?

Dillo!

Shuzo si riscoprì impaziente. L’attesa per quelle parole vibrava dentro i mille nodi di radici che non erano morti, non volevano saperne. Come li strappava, ne spuntavano altri in un continuo infinito, e lui lì, ad attendere quell’ultima ammissione, quell’ultima concessione. Non sapeva quanta differenza avrebbe fatto, ma voleva sentirselo dire. Più di ogni altra cosa, voleva quello. Due parole, nient’altro. Solo due.

Akio deglutì con fatica, lui fece altrettanto, ma aveva la bocca secchissima.

«La morte di tuo fratello è stata… il brivido che rompe il coccio dopo la caduta. Credevo di averlo superato quasi indenne; c’era solo questa frattura sottile, ma non mi rendevo conto di quanto in profondità fosse arrivata. Poi sei tornato, sono successe le cose che sappiamo e quella che era una semplice fenditura… ha spaccato il vaso a metà. Volevi sapere il perché? Be’, il perché è che anch’io volevo risposte ai miei perché. Perché proprio le piante, cosa avevano di così speciale ai tuoi occhi e perché io le odiassi. L’ho fatto perché volevo conoscere te e magari capirti. A qualcosa ci sono arrivato, a qualcos’altro no.»

«Per sapere una cosa tanto semplice, sarebbe bastato chiedermelo», masticò con fastidio, ma Akio si lasciò sfuggire il sorriso consapevole, di chi quella strada l’aveva percorsa tutta e aveva studiato ogni deviazione possibile, senza trovare scorciatoie ma solo vicoli ciechi.

«Magari quando eri un bambino, all’inizio… ma dopo no, non funziona così. Dovevo arrivarci io e non dovevo essere aiutato per la legge del contrappasso: non avevo aiutato te quando eri un ragazzo. La pappa pronta, la strada spianata non servono a niente, non ti fanno capire l’errore. E io dovevo arrivarci da solo, altrimenti ora non mi troverei qui a dirti…»

…a dirmi?

È davvero così difficile, uh?

Ma cos’è davvero che ti fotte: l’orgoglio o il fastidio di dover ammettere qualcosa che non vuoi?

Shuzo lo pensava rodendo l’interno della guancia, e dal suo sguardo era certo stesse trapelando tutto, meno che l’intenzione di mettere Akio a suo agio. Se davvero gli costava come appariva, allora non gli avrebbe reso facile nulla, non c’era spazio per nessun cambio d’idea, la decisione sarebbe rimasta la stessa che già aveva preso; Mamoru ne sarebbe stato deluso, ma non tutti cambiano davvero: qualcosa di marcio, in fondo al cuore, resta sempre.

Akio aggrottò le sopracciglia. «Temo che qualsiasi parola userò sarà troppo banale…»

«Intanto tu comincia e fallo valutare a me se è banale o no. Poi si vedrà.»

«Non l’ho mai fatto prima, l’avevo sempre considerata un’umiliazione, qualcosa per deboli. Io ero convinto delle mie ragioni, io… io tenevo alta la testa, reagivo, ero forte-»

«E andavi avanti.»

«No.» Accompagnato da una lenta scrollata di capo. «Mi sono reso conto che non andavo proprio da nessuna parte. Andare avanti era un’illusione, un’idea, ma in realtà io ero fermo al punto di partenza, indietro di anni. Io ero rimasto a due bambini che disegnavano un pallone da calcio e un Rhododendrum phoenicium

Shuzo si addolcì, l’espressione dura stemperata da un ricordo che sapeva di normalità. Abbozzò un sorriso storto, lo sguardo distolto e perso dietro a quelle vecchie memorie e a un bambino innocente che del mondo non sapeva ancora nulla. «Ho sempre avuto le idee chiare.»

«Le avevate entrambi. Yuzo col suo pallone e tu… tu con tutto questo. E io quelle idee ho cercato di manipolarle, modellarle e quando non ci sono riuscito ho fatto di tutto per distruggerle. Ho distrutto anche te, ho costretto tuo fratello a mentire con il sorriso. Era questo che dovevo capire. Ci sono arrivato con i miei tempi. E mi dispiace, mi dispiace tanto, ragazzo.»

Shuzo serrò il pugno, e i nodi di radici gli serrarono il petto; strinsero così forte da fare male e calore insieme.

«Avevi ragione sono stato un pessimo padre per te, non sono mai stato dalla tua parte, non ho mai provato a capire quello che volevi, mentre non facevo altro che importi quello che volevo io. Mi dispiace di non essere mai venuto a cercarti quando scappavi, mi dispiace di averti picchiato e di averti costretto a crescere senza la tua famiglia. Senza tuo fratello. Ma più di tutto… mi dispiace di averti reso come me nella maniera peggiore possibile. Non era quello che volevo, non era quello che meritavi. Mi dispiace, non immagini quanto, ma so che dopo un simile danno le scuse non servono a niente. Stanno a zero, come le chiacchiere. E visto che anche questo lo hai preso da me, non posso fare altro che scusarmi per averti insegnato solo il peggio del mio stringato repertorio. Quando ieri mi hai cacciato è stato duro, ma me lo sono meritato. È la tua scelta, ne hai tutto il diritto e l’accetterò. Anzi, scusa se sei stato costretto a venire a recuperarmi ieri e a portarmi a casa. Non era un tuo dovere farlo, ma… l’ho apprezzato.» Akio si alzò di slancio, prese un paio di passi, mentre lui guardava a terra, a quel ginocchio che si alzava e abbassava veloce, manifestazione di tutta la tensione che aveva accumulato fino a quel momento… per quel momento.

Lo aveva aspettato per anni, credeva non sarebbe mai arrivato e Akio lo aveva stupito, prendendosi le responsabilità che non aveva mai neppure voluto ascoltare.

Si era scusato.

E gli stava dando la libertà di metterlo alla porta per sempre e senza protestare, se era quello che voleva. Una scelta. Akio non gliene aveva mai offerta nessuna che non fosse manipolata dai suoi interessi, ma ora era tutto nelle sue mani. Shuzo le fece cadere sulle gambe, le guardò, guardò i palmi vuoti e aveva deciso. L’aveva detto. Non avrebbe cambiato idea, non… lui non…

«Rientriamo, tua madre sta preparando la colazione, avrà-»

«Che ti hanno detto le piante?»

«Cosa?»

«Volevi conoscermi attraverso di esse, no? Che ti hanno detto, che ne hai capito?»

Anche se non lo guardava, sentì che sorrideva; era una sfumatura lieve nel tono di voce, ma la interpretò facile, perché anche lui ne aveva spesso.

«Che hai un grande talento. Io non l’ho saputo vedere o magari l’ho voluto ignorare perché era qualcosa che mi faceva sentire tagliato fuori. Ma tu sei forte quando serve e sai reagire quando ti viene chiesto. Hai tenuto alta la testa dopo che ti ho costretto per anni a tenerla calata. Sei andato avanti… meglio di me e di chiunque altro. Anche se ormai saperlo non ti cambierà la vita, volevo dirti che sono molto orgoglioso di te, dei traguardi che hai raggiunto, di ciò che hai costruito. Per anni ho voluto che fossi come me… e invece sei molto meglio.»

Scrollò il capo e strinse i denti in un sorriso di scherno. «E adesso ti ricordi di tirare fuori tutte le stronzate che avrei voluto sentirmi dire quando ero piccolo?»

«Ho sempre fatto le cose a scoppio ritardato.»

Shuzo aveva una vertigine che risaliva la nuca fino al centro della testa, e un covo nel petto, di tutti i loro nodi, di tutte le radici. Era caldo ed era accogliente, nel mezzo scoprirono la figura del bambino che era stato e che imparava nomi assurdi di alberi e fiori senza saperne il significato. Quel bambino sorrise, scomparve ma i nodi rimasero e il calore pure.

Le radici reali si potevano recidere e distruggere, ma quelle famigliari non si potevano spezzare e lui non avrebbe potuto cambiare idea… perché l’aveva già cambiata.

«Scordati i pranzi della domenica, le gite in barca e tutte quelle stronzate. Hai detto che qualcosa cercavi e qualcosa hai trovato, ma non è il bambino dei tuoi ricordi. Quello l’abbiamo perso, non potrai averlo più. C’è solo quello che è diventato.» Shuzo alzò la testa, Akio era a metà tra lo sgabello e la porta della serra. «Se ti sta bene, prendere o lasciare, papà.»

Un guizzo negli occhi, nelle espressioni.

«È… di nuovo una maledetta abitudine del cazzo?»

«No», disse, dopo aver preso un piccolo respiro, e Akio non esitò a rispondere.

«Prendere. Assolutamente prendere.»

L’armistizio, la firma, la fine della guerra iniziata con molti anni di meno sulle spalle di entrambi. Non era resa, non era vittoria, era solo pace.

Shuzo annuì, alzandosi adagio e facendo qualche passo avanti verso un Akio sorpreso e visibilmente emozionato. Non doveva esserselo aspettato quel colpo di scena tra loro, così come non se l’era aspettato egli stesso, ma qualcuno doveva portare alta la bandiera dell’ironia. Per emozionarsi, ci sarebbe stato Mamoru a cui raccontare ogni cosa.

«L’ultima volta che mi hai chiamato papà avevi dodici anni…»

«Diavolo come passa il tempo quando ci si diverte.» Fece spallucce, infilando le mani nelle tasche dei jeans e fermandosi accanto al suo vecchio. Lo vide più basso, più grigio, più magro. Più umano.

«Quanto tempo abbiamo dovuto aspettare, prima di venirci incontro?»

«Quello necessario, direi. Yuzo ne sarebbe contento.»

«E tu lo sei?» Akio sorrideva con un’incertezza che lo stranì un po’, a cavallo dal prendersi una piccola confidenza in più e restare ancora nel proprio spazio per non sembrare invadente. A quel diverso equilibrio avrebbero dovuto abituarsi un po’ alla volta; era una dimensione che non avevano avuto neppure quando era stato un bambino.

«Una domanda alla volta, intanto prendiamoci le misure. E cominciamo col dire che cazzo di figura di merda mi hai fatto fare con gli altri ikebanisti! Eddai! Ma ti pare che vai in un’altra scuola quando tuo figlio insegna alla KadouEnshu?!»

«Se fossi venuto da te, mi avresti cacciato.»

«Certo che l’avrei fatto! Adesso sarò bollato come quello che fa scappare il suo stesso padre!»

«E da quando ascolti gli sfottò?»

«Da quando state cercando di trasformarmi in una persona per bene!» borbottò a braccia conserte. «Tra parentesi: è difficile!»

La risata che Akio si e gli concesse fu molto più aperta e naturale. Fece sentire meno sulle spine anche lui.

«Andiamo ormai la colazione sarà pronta. E con il mal di testa che ho, ho proprio bisogno di un buon-»

«Caffè!»

«…decaffeinato.»

«Eh?!» Shuzo arricciò la faccia nella sua espressione sconvolta da Oni. «Le eresie di prima mattina, anche no!»

«Dillo a me. Sto pure smettendo di fumare.»

«Ma che è, il regime dei carcerati?!»

«Prima o poi dovrai venirci a patti anche tu», sorrise Akio. Gli poggiò la mano sulla spalla, vi diede una pacca di incoraggiamento. Avrebbe potuto dire… paterna? «La chiamano vecchiaia e sono certo che non ti piacerà.»

Suo padre uscì per primo dalla serra, camminando per il sentiero di mattonelle che si snodava per il giardino in fantasiosi percorsi curvilinei, immersi nel giugno di quell’estate che ancora non era iniziata, ma si preannunciava speciale più delle altre.

Shuzo gli lasciò il vantaggio, fermandosi sulla soglia della serra. Piccole o grandi, chiuse o all’aperto: serre e piante facevano sempre le loro magie, almeno per lui, ovunque fosse ne riservavano una nuova e inaspettata. Erano le sue protettrici, assieme a Yuzo. Le piante, che avevano diviso e poi unito e lasciato che i suoi legami col mondo non si spezzassero del tutto.

Toccò la spalla, nello stesso punto in cui era rimasta poggiata per un attimo la mano di suo padre. Un gesto semplice in cui era racchiuso quel lungo e tortuoso quarto di secolo scarso che li aveva visti separati e distanti, come i rami di uno stesso albero, cresciuti uno a ponente e uno a levante. Sotto lo strato degli abiti e della pelle, a contatto con le ossa, batteva la sensazione che aveva provato la sera prima, il calore che si irradiava in diramazioni così sottili da tracciare anche nel suo spirito il disegno di quei rami. Erano migliaia, che si moltiplicavano e separavano proprio come lui e suo padre. Ma Shuzo aveva imparato che per quanto distanti, all’interno della chioma di un albero, sottoterra nascevano tutti dalla stessa radice.

 

“Dobbiamo parlare nel silenzio.

Non abbiamo mai voluto la violenza.

Dobbiamo restare uniti,

nessuno lasciato fuori.

Per superare le cose che abbiamo fatto.

Voglio vedere il cambiamento prima ch’io muoia e perda la voce.

 

Voglio vivere fino a 95 anni,

voglio i miei figli, lì al mio fianco,

voglio neve nel sole invernale.

Abbiamo bisogno di realizzare cosa è iniziato.”

 

Silence – Isak Danielson

 

 

 

Fine

- Roots: Le radici di famiglia -

 

 

 


 

 

Note Finali: …v’ho fatto pijà ‘npo’ de strizza, ve’? XD E pensare che davvero avrebbe dovuto essere un capitolo pienissimo di angst peso, con grida, cose lanciate e incazzi… E poi loro hanno deciso che dovevano fare i cazzari.
Oh. Tale padre e tale figlio fino alla fine.

Quanto gli voglio bene. <3

Ad ogni modo, the end. :3

Akio, Shuzo e il loro lunghissimo percorso di riconciliazione durato quasi un decennio. Si sono fatti del male a vicenda per una vita, a causa delle incomprensioni reciproche, delle aspettative che gravavano sulle spalle dell’uno e dell’altro e sono dovuti passare in mezzo a una perdita enorme per riuscire a trovare un modo per trovare anche loro stessi. Non è stato facile, se lo sono trascinato, Akio è lento e Shuzo intransigente, se le sono comunque dette di peste e corna, ci hanno sofferto, ma alla fine… alla fine certe radici non le spezzi e loro si somigliano tanto, troppo. Hanno capito dell’uno e dell’altro, hanno accettato gli errori da entrambe le parti, i torti e le parole grosse e irripetibili. Le hanno sotterrate, perché ci sono cose che non si possono riparare, ma solo mettere via e sperare di trovare il modo giusto per buttarle col tempo. Quello che resta, ciò da cui si deve ripartire, è ciò che entrambi sono ora, in questo momento in cui è stato messo l’ultimo punto. Ecco, la storia di Akio e Shuzo ricomincia da quel punto messo dopo la parola ‘radice’.

 

Vorrei potervi dire ‘li ritroverete presto’, ma lo avevo già accennato su FB: ‘Malerba’ e ciò che le ruota intorno per come la conoscete si ferma qui, al momento. Il mio desiderio è di poterla rendere qualcosa di completamente originale nel suo contesto e potervi raccontare tutto tutto, compresa l’infanzia strana dei fratelli Morisaki e i circa tre/quattro anni di vita di Shuzo che si snodano dalla fine di ‘Roots’ alla fine dei due sequel che ho in programma.

Non so se riuscirò nel mio intento, perché ho un enorme lavoro di ricerca da portare avanti.

Se ce la farò, giuro che lo saprete (e spero vorrete [ri]conoscere tutti nella loro versione nuova di pacca); ma se non ci dovessi riuscire, be’… allora li ritroverete qui, questo è certo, perché non vi priverò mai della fine di tutta la storia, soprattutto dopo gli anni in cui l’avete seguita (ben TRE! \O/).

 

Al momento, però, io ringrazio di cuore tutti voi.

Ringrazio la vostra pazienza, l’amore che avete donato a questa serie di storie e a questi personaggi che non pensavo potessero divenire così importanti per me, tanto da voler dar loro una possibilità fuori dalle fic.

Vi ringrazio delle vostre bellissime recensioni, dell’aver infilato le storie qua e là, dei trattori sempre pronti a partire contro il cretino di turno e dei timori del fatto che potessi mandare tutto a gambe all’aria, as usual XD

Grazie, signori miei, io vado in pausa.

Ci rileggeremo, non so quando, ma di certo con le storie della ‘Soulmate Series’ (anche quella non ho voglia di lasciarla appesa).

Nel frattempo, buone vacanze a tutti e… casomai non vi rivedessi, buon pomeriggio, buonasera e buonanotte. (cit.) <3

 

Il Re è morto.

Lunga vita al Re.

 

 

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