Faccende in sospeso

di MissRosalie42
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Amici non vivi ***
Capitolo 2: *** La nuova casa ***
Capitolo 3: *** Dialogo sulla morte ***
Capitolo 4: *** I nuovi vicini ***
Capitolo 5: *** Max, Aidan, Sarah ***
Capitolo 6: *** Il nuovo Sam ***
Capitolo 7: *** Finalmente la verità ***
Capitolo 8: *** Altalena di emozioni ***
Capitolo 9: *** Una cena particolare ***
Capitolo 10: *** Inviti al ballo ***
Capitolo 11: *** Confessioni e malintesi ***
Capitolo 12: *** Correre dei rischi ***
Capitolo 13: *** Lo sanno tutti ***
Capitolo 14: *** Inizio e fine ***
Capitolo 15: *** Epilogo. Tre anni dopo ***



Capitolo 1
*** Amici non vivi ***


Amici non vivi

Primo giorno di scuola dopo le vacanze natalizie.
Sam se ne stava seduto su una panca da solo, fissandosi le scarpe, nel largo corridoio del James E. Walker, l’istituto superiore privato più costoso e competitivo dell’intera regione. La retta annuale pagata dai suoi genitori, entrambi medici, avrebbe potuto coprire le spese annuali di vita di un’intera famiglia. Tutto, in quel luogo, trasmetteva ricchezza. L’edificio era molto antico, e da quando era diventato una scuola per snob veniva ristrutturato tutte le estati. C’erano aule grandi, in condizioni perfette, con il parquet a terra e neppure una crepa sul muro; corridoi spaziosi con armadietti grandi e panche di legno intarsiate sotto ogni finestra; un cortile che era un vero e proprio parco, con campi da tennis e da calcio, e una mensa che sembrava un ristorante.
Solo il meglio per Samuel Clark Robertson, futuro medico che avrebbe provveduto alla sua futura famiglia esattamente nello stesso modo in cui i signori Robertson stavano provvedendo al loro unico figlio.
Sam, ovviamente, aveva ben altro a cui pensare. Ad esempio al fatto che aveva buoni voti ma che erano comunque i peggiori della sua classe in quasi tutte le materie, che la divisa color grigio sbiadito con inserti verde smeraldo faceva a pugni con la sua carnagione chiara e con i suoi occhi azzurri, oppure che si sentiva male alla vista del sangue, persino quando si faceva un piccolo taglio sul dito con un foglio di carta. Per non parlare del fatto che non aveva amici. Amici vivi, quantomeno.
“Bentornato, Samuel. Mi siete mancato” disse all’improvviso una voce femminile molto dolce.
E poi c’era quel piccolissimo dettaglio che lo accompagnava da tutta la vita: vedeva i fantasmi. E parlava con loro, anche.
Sam alzò la testa dai propri piedi e sorrise alla figura eterea che gli stava davanti. “Anche voi, Rose.”
Ormai non si preoccupava neanche più del fatto che i suoi compagni lo vedessero parlare da solo.
Rose era una giovane donna con i capelli scuri e non dimostrava più di venticinque anni. Viveva al Walker da sempre. Sam l’aveva incontrata il terzo giorno del suo primo anno in quella scuola, quattro anni prima, ed erano subito andati d’accordo.
La donna indossava un abito ottocentesco blu molto sfarzoso, con una gigantesca macchia di sangue sul corsetto, e aveva un pugnale che le spuntava dal petto all’altezza del cuore. Era stato un po’ traumatico il primo incontro tra di loro. Sam aveva solo tredici anni e non aveva mai visto il fantasma di qualcuno ucciso in maniera così brutale, prima d’allora. Ma Rose si era dimostrata così gentile e pacata che lo aveva messo a suo agio in un batter d’occhio.
“Posso?” la giovane indicò il posto accanto a lui sulla panca.
“Certo” le sorrise Sam.
Rose si accomodò con tutta l’eleganza possibile vista la sua condizione di morta accoltellata. In realtà non si sedeva davvero, perché non passare attraverso la panca avrebbe richiesto uno sforzo enorme che la povera Rose non era in grado di compiere, ma fingere di sedersi le dava un senso di normalità, e lo faceva spesso. In realtà, quello che faceva davvero era svolazzare a mezz’aria piegando il corpo come se fosse seduta e restare sospesa a filo con la superficie di legno della panca. A volte però si distraeva e vi sprofondava un po’ dentro.
La prima cosa che Sam aveva imparato sui fantasmi era quanto sembrassero vivi, nonostante tutto. Rose, ai suoi occhi, era perfettamente visibile. Non poteva vedere attraverso di lei, nonostante fosse pallidissima: morendo aveva perso molto sangue. Poche cose la distinguevano da un altro essere umano. La prima era un alone che la circondava, come un’aura, una tenue luce di cui era la fonte e che a volte era talmente forte da dare l’impressione che la giovane donna fosse fatta solo di quello, di luce. Succedeva a tutti i fantasmi quando provavano emozioni molto forti. L’altra era la leggerezza, la grazia con cui si muoveva, letteralmente fluttuando a pochi centimetri dal pavimento quando si scocciava di imitare una camminata come quella dei vivi. I fantasmi potevano volare, ma stranamente non amavano allontanarsi troppo dal terreno. Però potevano anche attraversare i muri, e quello lo facevano con piacere, perché, al contrario di ciò che suggeriva il loro aspetto, erano inconsistenti. O meglio, quasi inconsistenti, ma era difficile da capire e da spiegare, persino per Sam.
C’era anche un altro fantasma, lì al Walker, morto un paio di secoli prima di Rose, ma né lei né Sam sapevano il suo nome o come fosse morto. Pareva un uomo di circa quarantacinque anni, non aveva ferite visibili e il suo aspetto era perfettamente sano. Sam ipotizzava fosse morto d’infarto o qualcosa di simile. Comunque, non parlava mai con nessuno, se ne stava immobile seduto in un angolo della classe di storia dell’arte e dava le spalle a Sam ogni volta che lo vedeva. Rose e il ragazzo lo avevano soprannominato ‘il Professore’, perché non lasciava mai l’aula, anche se quell’edificio era una scuola soltanto da pochi decenni. Prima era stato un ospedale, e Rose non riusciva a ricordare per cosa fosse utilizzato quando lei era in vita.
I fantasmi perdono la memoria, ecco un’altra cosa che Sam aveva imparato nel corso degli anni trascorsi a parlare con i morti.
Rose non riusciva a ricordare neppure chi l’avesse uccisa e per quale ragione.
“Come avete trascorso il Natale, milady?” chiese Sam gentilmente, sussurrando per non attirare l’attenzione degli altri studenti che facevano avanti e indietro nel corridoio.
“Come sempre, caro. Annoiandomi!” rise la ragazza.
“Non siete riuscita a convincere il Professore a rivolgervi la parola?”
“Tristemente, no. Mi ha tirato un gessetto in testa!”
Sam strabuzzò gli occhi. “Davvero?! Ti sei fatta ma- voglio dire, vi ha ferito, milady?”
Rose sorrise bonariamente. “Certo che no, Samuel. Si è infranto contro la porta, però mi ha attraversata proprio in mezzo alla fronte. Ha una gran bella mira, quell’uomo. Voi, invece? Vi siete già trasferito con la vostra famiglia nella nuova dimora?”
“No. Non l’ho neppure vista. Stasera i miei genitori finiranno il trascolo e ci trasferiremo ufficialmente domani.”
“Cosa?” domandò una voce maschile.
Sam si pietrificò. Strinse gli occhi e le labbra, maledicendosi, e spostò lo sguardo da Rose, ovvero dal muro, sul ragazzo che aveva parlato.
Si trattava di Thomas. Non lo conosceva benissimo, avevano in comune solo la classe di letteratura, però qualche volta si erano scambiati gli appunti. Il poverino sembrava molto confuso. Passando doveva aver creduto che Sam stesse parlando con lui.
“Nulla, canticchiavo tra me e me” rispose Sam, con le guance in fiamme. Era la risposta standard per tutte le volte che veniva sorpreso a parlare con un fantasma, ed era sicuro non fosse la prima volta che la propinava a Thomas stesso.
“Sei sicuro?” domandò il ragazzo, dubbioso. Si sedette al posto di Rose, anzi, sopra di lei!
La ragazza fantasma si alzò con espressione indignata e si mise in piedi davanti al nuovo arrivato.
“Dovreste vergognarvi! Chi vi ha insegnato le buone maniere?!”
Sam trattenne a stento una risata. Rose si voltò verso di lui e gli rivolse un sorriso complice.
Thomas posò in grembo i libri che aveva con sé e poi si strofinò le braccia con le mani, con una smorfia di fastidio, come se fosse stato attraversato da un improvviso brivido di freddo.
I fantasmi avevano una consistenza molto simile a quella dell’acqua. Un vivo poteva passare attraverso di loro, ma non senza rendersi conto di star attraversando qualcosa.
 “Sì, sono sicuro. È tutto a posto” disse finalmente Sam al compagno, evitando di guardarlo negli occhi.
“Questa settimana ti trasferisci, giusto?” insistette l’altro, senza abbassare lo sguardo neppure una volta.
Ok, forse aveva sentito più del dovuto e aveva capito che non stava affatto canticchiando.
“Sì, nella villa degli Hendricks, sono andati via prima di Natale.”
“Avevo sentito. Però non sapevo chi l’avesse comprata. Figo, avrai anche una piscina.”
“E tu come lo sai?” domandò Sam, incuriosito.
“La figlia maggiore degli Hendricks è amica di mia sorella, sono stato ad un paio delle sue feste di compleanno” rispose Thomas, con un sorriso sghembo. “Non sono entrato dalla finestra per rubare il televisore, se è questo che pensavi.”
“No, assolutamente no!” si affrettò a chiarire il ragazzo. “Lo so ch-”
Ma Thomas stava già ridendo.
“Ti prendevo in giro.” Abbassò lo sguardò e si mise a sfogliare un quaderno, da cui estrasse alcuni fogli. “I tuoi appunti.” Glieli sventolò davanti finché l’altro non li afferrò. “Grazie ancora, mi hanno salvato durante queste vacanze.”
“Di nulla…” mormorò Sam, ancora imbarazzato.
“Ci si vede” lo salutò Thomas, alzandosi.
Rose si spostò per non venire attraversata di nuovo. Non era piacevole neppure per lei.
Sam si limitò a fare un cenno con la testa e lo fissò per un po’ mentre si allontanava lungo il corridoio.
“Quel giovane è un vero bugiardo professionista” disse Rose, fingendo di stendere alcune pieghe dell’abito intriso di sangue e sedendosi nuovamente al suo posto.
“Cosa intendete?” sussurrò Sam, cercando di non guardarla e posando gli appunti nello zainetto.
“Messer Thomas non ha affatto bisogno dei vostri appunti, ne prende più che in abbondanza da sé, e sempre molto precisi.”
“È questo che fate quando vagate in aula durante le mie lezioni? Spiate me e i miei compagni?” chiese il ragazzo, cercando di infilare una nota d’indignazione nella voce.
“Mi annoio molto, lo sapete.”
“Bè, se mi chiede gli appunti evidentemente gli servono.”
“Giovanotto, siete molto ingenuo. Vi voglio bene, non intendo recarvi offesa, ma siete consapevole che i vostri voti sono molto deludenti. Non c’è un insegnante in questa scuola che sia completamente soddisfatto del vostro rendimento. Messer Thomas d’altra parte brilla in ogni materia! Non ha bisogno dei vostri appunti.”
Sam cominciò a fissarsi i piedi. Rose non aveva tutti i torti. Thomas era stato trasferito all’inizio dell’anno dalla scuola pubblica alla Walker con una borsa di studio per meriti accademici, ed era entrato subito in competizione con i migliori alunni dell’istituto.
In realtà, per questa ragione lo detestavano quasi tutti, e quel disgusto da parte dei loro compagni era una cosa che i due ragazzi avevano in comune. Thomas era la feccia venuta dalla strada che non meritava di indossare la stessa divisa degli illustri figli dell’alta classe della città, anche se era molto più bravo di loro. E Samuel, seppur dello status sociale giusto, era uno sfigato che preferiva parlare da solo piuttosto che con gli altri studenti e si portava dietro quell’aria così malinconica che lo rendeva facile bersaglio di ogni tipo di presa in giro.
“Mi dispiace, Samuel. Non volevo incupirvi” mormorò dolcemente Rose, posando una mano su quella del ragazzo, per stringergliela.
Sam avvertì il tocco. Quando volevano, i fantasmi potevano concentrare della solidità in alcune parti del loro corpo. Era così che il Professore si era reso abbastanza robusto da poter scagliare un gessetto contro la testa della povera dama. Ed era così che una volta, un paio d’anni prima, una donna fantasma era riuscita a dare uno schiaffo a un uomo che stava importunando una ragazza in un parco. Per fortuna quello schiaffo venuto dal nulla, seppur molto debole, era stato abbastanza spaventoso da costringere il seccatore a ritirarsi, visto che le intimazioni di Sam non erano servite a molto. Proprio come ora, anche a quindici anni era un ragazzo mingherlino e per nulla minaccioso.
“Non è colpa vostra, Rose. Sono incupito per varie ragioni in questi giorni.”
Si passò una mano tra i capelli biondo cenere con fare nervoso e poi cercò di ripettinarseli con le dita.
“Qualcosa non va con la vostra famiglia?”
Sam sospirò. “C’è sempre qualcosa che non va con la mia famiglia” rispose.
In quel momento suonò la campanella e il ragazzo dovette tornare a lezione.

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Capitolo 2
*** La nuova casa ***


La nuova casa

Il giorno del trasferimento Samuel decise di uscire di casa con un po’ d’anticipo per andare a scuola.
“Come mai così di fretta?” domandò la madre in cucina, mentre lo osservava fare colazione con foga.
“Ho delle cose da ripassare in biblioteca” mentì il figlio, con una scioltezza invidiabile. Mentire era perfettamente naturale per lui, lo faceva da sempre. Era molto più semplice così.
“Spero per te che i tuoi voti stiano migliorando.”
“Sto facendo del mio meglio.”
“Se il tuo meglio fino ad ora è stato questo, abbiamo un problema” intervenne il padre, entrando in cucina proprio in quel momento.
Sam lasciò a metà il pancake che stava mangiando e si alzò.
“A dopo” mormorò senza guardare in faccia nessuno dei genitori, e si trascinò nell’ingresso per recuperare la giacca della divisa scolastica e lo zaino.
“Buona giornata, Sam” lo salutò Mindy, la loro governante.
“Grazie, Min. Anche a te. I pancake erano ottimi” disse con un sorriso.
“La mia ricetta segreta colpisce ancora!” rise la donna, che aveva circa trentacinque anni e viveva con loro da prima che Sam iniziasse ad andare al Walker. “Ieri sera ho contato e segnato gli scatoloni con le tue cose, mi assicurerò che arrivino tutti. Hai decisamente troppi libri!” si avvicinò per aggiustargli la sciarpa e fare in modo che gli coprisse anche le orecchie. “Ci vediamo nella casa nuova” e gli strizzò l’occhio.
“Già” sospirò Sam, ma le rivolse un sorriso prima di uscire dalla porta di quell’abitazione per l’ultima volta. Non era particolarmente affezionato alla casa, non si poteva dire che ne conservasse molti ricordi felici, però non amava i cambiamenti.
Percorse quasi di corsa il tratto di strada che lo separava da un grande parco pubblico, anche se erano solo cinque minuti di cammino. Non voleva perdere tempo, l’ultima cosa che gli serviva era una nota per il ritardo in classe.
Attraversò il cancello di ferro battuto, che era come sempre aperto, e cominciò a guardarsi intorno.
Era molto presto, non c’erano ancora bambini nell’area giochi o coppie che passeggiavano mano nella mano, tutto sembrava immobile, fermo del tempo. Un dipinto, se non fosse stato per il vento che muoveva le foglie degli alberi.
Sam proseguì lungo il sentiero principale e solo quando arrivò quasi al centro del parco incontrò un uomo e una donna che stavano facendo jogging.
“Non so proprio dove trovino la voglia” disse a voce molto alta una seconda donna, che se ne stava seduta sul bordo di un’imponente fontana e muoveva il dito in cerchio sullo specchio d’acqua come a voler infastidire i pesci all’interno.
“Anche io dovrei rimettermi in forma” rispose Sam, ma solo quando fu sicuro che la coppia non fosse più a portata d’orecchio.
“Non sei mai stato in forma, tesoro” replicò la donna, rivolgendo finalmente la sua attenzione al ragazzo.
Sam le sorrise. “Come stai, Patricia?”
“Non sei venuto a trovarmi neppure una volta durante le vacanze” rispose lei senza preamboli e senza nascondere il rimprovero nel tono di voce.
“Mi dispiace” disse sinceramente Sam. L’ultima volta che si erano visti era stata poco prima del giorno di Natale, poi i suoi genitori avevano sganciato la bomba del trasloco e il ragazzo aveva dovuto cominciare a smantellare la sua camera. Era tipico dei suoi genitori non coinvolgerlo in nessuna decisione e metterlo davanti ai fatti compiuti il più tardi possibile.
“Faceva freddo e sono stato impegnato. Mi trasferisco in una nuova casa.”
“Ah, davvero?” fece Patricia, fingendo noncuranza.
Pat aveva circa una cinquantina d’anni ed era morta in quel parco, di freddo e di stenti, a metà degli anni sessanta. Non era stata una senzatetto per tutta la vita, ma era così che aveva vissuto i suoi ultimi anni, e anche ora nella sua forma di fantasma ne conservava l’aspetto. Era magrissima, con i capelli visibilmente sporchi e strati di vestiti sudici e strappati in più punti. Non era un bel modo per trascorrere la vita, figuriamoci l’eternità dopo la morte.
“Sì” replicò il giovane, sentendosi in colpa come sempre, come se fosse personalmente responsabile di quello che era accaduto all’amica. “È dall’altra parte della città, quindi non potrò più venire qui molto spesso.”
“Bè, ormai mi ci sono abituata” disse sprezzante la donna, incrociando le braccia.
“Daiii” Samuel le si avvicinò. “Mi dispiace, davvero.”
“Lo so, scemo” disse Patricia, allargando le braccia per stringerlo brevemente. La spalla di lei attraversò per un istante quella di lui e il ragazzo rabbrividì, ma le mani erano ferme e gli accarezzarono la schiena.
Ogni fantasma aveva un tocco diverso.
Non che Sam ne avesse sperimentati molti, visto che la maggior parte di loro non amava avvicinarsi troppo agli esseri viventi, neppure a quelli che potevano vederli. Rose, quando decideva di farsi sentire, aveva un tocco poco caloroso, ai limiti del freddo. Patricia invece era sempre stata tiepida, quasi calda, ma la sensazione di essere oltrepassati era uguale con tutti, ed era come immergersi in acqua fresca.
“Novità sul Passaggio?” domandò Sam.
“Nessuna” rispose Pat, stringendosi nelle spalle. Era morta da poco, quindi ricordava ancora tutto del periodo in cui era stata in vita e di quello che era successo dopo la sua morte, ma nonostante questo non era ancora riuscita a capire perché mai avesse deciso di restare indietro, di non passare dall’Altra Parte. Qual era la sua ‘faccenda in sospeso’?
“Vedrai che lo capirai presto” cercò di tirarla su di morale Sam.
“Certo. E adesso vai a scuola, che sei già in ritardo. Non costringermi a schiaffeggiarti!”
Samuel le sorrise e la salutò, prima di avviarsi di corsa sul sentiero da cui era arrivato e rendendosi conto, col fiatone, che aveva davvero bisogno di mettersi in forma.

Le lezioni furono noiose come al solito, ma dopo la conversazione del giorno prima avuta con Rose, durante l’ora di letteratura Sam non poté fare a meno di sbirciare Thomas, seduto una fila dietro di lui, dall’altra parte dell’aula. Era molto concentrato su quello che il professore stava spiegando e prendeva appunti senza sosta.
Ad un certo punto dovette sentirsi osservato, perché spostò lo sguardo verso di lui e nel momento in cui si fissarono negli occhi gli sorrise brevemente.
Sam girò subito la testa d’istinto, diventando rosso per essere stato colto sul fatto.
Quando suonò la campanella per la fine della lezione, raccolse le sue cose in fretta e furia per precipitarsi fuori dall’aula, ma Thomas fu comunque più veloce.
“Ciao” lo salutò, parandosi davanti al suo banco e impedendogli di passare.
“Ciao” rispose Sam, evitando accuratamente di guardarlo in faccia e fingendo di cercare qualcosa nello zaino.
Tre dei loro compagni si avvicinarono.
“Bravo, Robertson, mischiati con questa gentaglia, tanto tu non sei meglio di loro” disse il più alto, Sean, l’unico dei tre con cui Sam aveva praticamente tutte le lezioni in comune e che gli dava addosso dal primo giorno di scuola del primo anno.
I tre ragazzi scoppiarono a ridere.
“Idioti” alzò gli occhi al cielo Thomas, che era ormai abituato a quel tipo di commenti esattamente come Sam.
Sean stava per rispondere a tono, quando intervenne una ragazza.
“State bloccando il passaggio. Muoversi, prego!” esclamò con aria scocciata, e quell’impazienza gliela si leggeva anche sul volto. Si trattava di Amy Beth, una ragazza con occhi e capelli neri come la pece, perfettamente in tono con la sua pelle scura. Sam non l’aveva mai vista con i capelli sciolti, ma sempre acconciati in mille treccine. Al secondo anno aveva svolto un progetto di gruppo con lei, e aveva scoperto che aveva un fratello che andava a scuola con loro ma aveva un anno in meno. Non era stato male studiare insieme a lei.
“Certo, regina” la apostrofò Sean, e lui e i suoi scagnozzi proseguirono con il resto dei loro compagni fuori dall’aula. Seguendoli, Amy Beth lanciò un’occhiata talmente insistente a Sam che lo costrinse ad abbassare lo sguardo.
Sam e Thomas rimasero da soli in aula, in silenzio, perché persino l’insegnante era uscito per una pausa caffè.
“Bè, ci vediamo in giro” disse infine Thomas, stringendosi al petto il libro di letteratura.
“Sì, ci vediamo…” mormorò il ragazzo, senza neppure essere sicuro che l’altro lo avesse sentito.

La villa degli Hendricks, che forse era il caso di cominciar a chiamare villa dei Robertson, si trovava più o meno alla stessa distanza dal Walker della vecchia casa, però dall’altra parte della città. Sam non conosceva bene la strada, non era mai stato in quel quartiere, però riuscì con facilità ad individuare il viale giusto.
Rallentò il passo e cominciò a guardarsi intorno con interesse, tenendo d’occhio i numeri civici. Le ville erano tutte molto simili, con poche eccezioni.
Non fu difficile neppure trovare l’abitazione giusta, era la più grande. Un’enorme casa bianca con le imposte e la porta di legno scuro, preceduta da un grande giardino perfettamente curato. Da un lato della casa c’era una strada stretta che collegava ad un viale parallelo, mentre dall’altro lato c’era un’altra villa simile, leggermente più piccola e che sembrava più vissuta. In entrambe le abitazioni le luci del piano inferiore erano accese, e Sam riuscì a sbirciare il profilo di un vicino in controluce alla finestra.
Con un sospiro, il ragazzo strinse forte gli spallacci dello zaino che indossava e spinse con il piede il cancello semi aperto, percorrendo un vialetto di ghiaia che attraversava il giardino fino alla porta d’ingresso.
Quando suonò il battente, fu ovviamente Mindy ad aprire.
“Ciao, Sam” lo fece entrare in fretta, per non fargli prendere ulteriore freddo.
“Bentornato, tesoro” lo salutò la madre, per la prima volta in vita sua andandogli incontro nell’ingresso. La donna allargò le braccia. “Che te ne pare?” domandò con un sorriso, indicando la sala nella sua interezza.
“Bella” rispose meccanicamente Sam, che non aveva avuto neppure il tempo di guardarsi intorno.
“C’è ancora tanto da sistemare” dissi Mindy, riferendosi agli scatoloni ai piedi delle scale e probabilmente anche al fatto che i mobili vuoti facevano apparire la stanza completamente abbandonata.
“Infatti” commentò il padre, spuntando fuori dal nulla. Era proprio un vizio, il suo: arrivare all’improvviso in una stanza per abbassare l’umore generale. “Cerchiamo di darci tutti una mossa, eh?” lanciò un’occhiata a Mindy, facendole intendere perfettamente che intendeva dire che lei doveva darsi una mossa, e poi si diresse nella stanza di fronte senza neppure guardare in faccia il figlio.
La madre di Sam sorrise. “La tua roba è già in camera tua, insieme alla tua copia delle chiavi. Puoi farti aiutare da Mindy a mettere a posto, se vuoi.”
“Posso farlo da solo” rispose Sam. Ricambiò debolmente il sorriso, che poi spostò su Mindy, e si avviò al piano di sopra.
Ne approfittò per esplorare la sua nuova dimora, come la chiamava Rose.
Non era poi tanto diversa dalla precedente. Le stanze e la divisione degli spazi erano pressoché le stesse, però adesso era tutto più spazioso, c’era una camera per gli ospiti in più, c’era finalmente uno studio, zona agognata dal signor Robertson, ed erano aumentati anche i bagni.
La sua camera era l’unica con la porta aperta. Sam si avvicinò e si preparò ad entrare, ma si bloccò sull’uscio.
C’era un ragazzo seduto sulla sua scrivania.
Non alla scrivania, proprio sopra, con i piedi sulla sedia. Ovviamente non era proprio seduto, stava semplicemente fluttuando a quell’altezza, proprio come faceva Rose quando si sedeva sulla panca di fianco a lui in corridoio o come Pat sul bordo della fontana. Probabilmente era una cosa che faceva spesso da vivo, i fantasmi sanno essere molto nostalgici.
Lo sconosciuto stava semplicemente guardando fuori dalla finestra, non il cielo ma dritto nella casa di fronte, non quella attigua ma quella dall'altra parte della strada.
Sam restò immobile a fissare il fantasma senza proferire parola.
Era giovanissimo, doveva avere la sua età, diciassette anni, o forse un anno in meno. Aveva i capelli rossi e una spruzzata di lentiggini molto evidenti sul volto pallido ed emaciato, chiaro segno di una malattia. Indossava solo i pantaloni della tuta e una t-shirt, entrambi neri. La sua luce splendeva fiocamente e quasi non si notava, cosa che lo faceva apparire ancora più triste.
Il fantasma dovette accorgersi che Sam si era fermato, perché alzò lo sguardo. Sulle prime si limitò ad osservarlo, ma subito si accorse che qualcosa non andava. Corrugò la fronte e fissò Samuel con più intensità.
“Ciao” gli disse allora Sam.
“Cazzo!” esclamò il ragazzo, saltando in piedi. “Puoi vedermi?!”

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Capitolo 3
*** Dialogo sulla morte ***


Dialogo sulla morte

Sam entrò finalmente in camera sua e si richiuse la porta alle spalle, per non far sentire ai suoi genitori e a Mindy che aveva già iniziato a parlare da solo anche nella nuova casa. Si tolse lo zaino dalle spalle e aggirò alcuni scatoloni per avvicinarsi al fantasma, che di tutta risposta indietreggiò e per sbaglio attraversò le ante dell’armadio e ci finì dentro.
“Bè, adesso non posso più vederti” rispose Sam alla domanda che l’altro gli aveva rivolto con così tanto shock. Riuscì persino a suonare divertito.
Con tutta calma si tolse il giubbotto e iniziò a sbottonarsi la giacca della divisa proprio mentre la testa dello sconosciuto si affacciava dall’armadio chiuso.
“Com’è possibile?” domandò, con voce un po’ roca.
“Non lo so” rispose candidamente Sam, che ormai si stava mettendo comodo. Mentre lui era a scuola Mindy doveva aver sgobbato come una matta, perché la stanza era immacolata e in ordine, tranne che per gli scatoloni, e persino il letto era stato preparato con lenzuola pulite. E aveva persino un bagno privato, con l’ingresso proprio lì nella sua camera. Forse non sarebbe stato così abitare lì.
“Non mi sembri particolarmente sconvolto dalla cosa” commentò l’usurpatore, attraversando di nuovo l’armadio per uscire completamente fuori e osservare il ragazzo vivo con molta attenzione.
Sam gli fece cenno di accomodarsi sul letto.
“Non sei il primo che vedo. Vi vedo tutti” disse tranquillamente.
“Davvero?” chiese l’altro, con espressione dubbiosa. Si mosse molto lentamente per sedersi, sembrava affaticato, anche se i fantasmi non potevano esserlo. Rimase fluttuante a pochi centimetri dal piumone, senza toccarlo veramente.
“Sì, davvero” Sam tentò di sorridere in maniera rassicurante. “Non hai mai parlato con nessuno prima di me?”
“Certo che no” rispose l’altro.
Sam immaginò che nella famiglia Hendricks non ci fossero persone in grado di vedere i fantasmi.
“Da quanto tempo sei…” non sapeva come continuare. Con l’esperienza aveva imparato che alcuni morti erano molto suscettibili sull’argomento.
“Non… non ne sono sicuro” ripeté l’altro. “Ho perso un po’ il senso del tempo. In che anno siamo?”
Anche questa era una cosa comune a molti fantasmi.
“Nel 1993” rispose Sam.
“Oh, allora… allora sono dieci anni esatti, credo” disse il ragazzo, distogliendo lo sguardo da Sam e facendolo vagare tra soffitto e pavimento.
Dieci anni. Gli Hendricks avevano vissuto in quella villa negli ultimi otto anni. Erano arrivati da Londra e adesso se n’erano tornati là, ma Sam non era sicuro di chi ci avesse abitato prima.
“Io sono Samuel, ma puoi chiamarmi Sam.” Si sporse al di sopra di uno scatolone e allungò la mano verso il fantasma.
Lui non gliela strinse, anzi, si ritirò leggermente all’indietro. “Maxwell” rispose semplicemente. Poi notò lo sguardo un po’ ferito del nuovo inquilino. “Ma puoi chiamarmi Max” aggiunse, con un piccolo sorriso.
Sam gli sorrise a sua volta.
“Ti dispiace?” domandò, accennando con la testa verso la porta della camera.
“Cosa?” domandò Maxwell.
“Ti dispiace andare via?” chiarì Sam, cercando di reprimere una risata.
“Non posso lasciare la casa” rispose l’altro, con una piccola nota di panico nella voce già roca di suo.
“Lo so, ma puoi lasciare la stanza. Vorrei farmi una doccia e cambiarmi.”
A differenza della credenza comune secondo la quale i fantasmi aleggiassero lì dov’erano stati sepolti, in realtà i fantasmi non potevano lasciare il luogo in cui avevano esalato l’ultimo respiro. Sam in vita sua aveva controllato tantissimi cimiteri, e non aveva mai trovato nessun’anima morta.
“Giusto.” Max si morse le labbra, imbarazzato. Si alzò molto lentamente e fluttuò verso l’uscita passando attraverso il letto, uno scatolone e il comodino, senza rivolgere ulteriormente lo sguardo a Sam, e uscì dalla stanza senza aprire la porta.
Samuel non riuscì a trattenersi, e si affacciò leggermente per sbirciare.
Maxwell aveva raggiunto l’altro lato del corridoio e stava guardando fuori della finestra, dandogli le spalle.
Rientrando in camera sua, Sam si sedette sul letto facendo un respiro profondo.
Era la prima volta che abitava con un ospite non vivo. Quando era bambino, tra i quattro e i sette anni, aveva vissuto in una villetta che aveva accanto una casa infestata. C’erano tre fantasmi, due ragazze e un ragazzo, che erano morti in quella zona qualche decennio prima a causa di una fuga di gas. Trascorrevano la maggior parte del tempo in cortile e Sam li poteva osservare dalla finestra della sua camera. Però nessun fantasma poteva mai allontanarsi molto dalla zona in cui era morto, e i tre della casa accanto non avevano mai varcato il confine per andare da lui.
Come sarebbe stato vivere con un fantasma nello stesso edificio?
Meno male che almeno era una casa grande.
Si fece una doccia veloce e iniziò a cercare lo scatolone con qualcosa da mettere addosso prima di rendersi conto che Mindy aveva già sistemato i pantaloni e le t-shirt che lui di solito usava per dormire nella cassettiera vicino al letto. Li infilò in tutta fretta, con la paura che Maxwell potesse entrare in stanza da un momento all’altro e trovarlo in boxer.
Ma non lo fece, e quando Sam uscì non lo vide da nessuna parte, perché non era più affacciato alla finestra. Lo chiamò sottovoce, ma non ottenne risposta, così scese in cucina, dove trovò Mindy intenta a sfornare una torta.
“Ho pensato che sarebbe stato carino avere un dolce per festeggiare il trasloco” disse per giustificarsi.
“È sempre carino avere un tuo dolce dopo cena, non me ne lamenterò di certo” replicò lui. “Grazie per aver sistemato la mia stanza. Ti aiuto ad apparecchiare?”
“Ho già fatto. Puoi portare l’acqua, se vuoi” disse Mindy, posando la torta sul bancone della cucina e facendo aria con la mano per disperdere il fumo. Era cotta alla perfezione, Mindy era una cuoca provetta, e probabilmente quello era uno dei motivi per cui non era stata ancora licenziata. I suoi genitori non ne andavano pazzi, ma avevano obiettivamente avuto governanti ben peggiori, dal loro punto di vista. Dal punto di vista del ragazzo, invece, Mindy era la sorella maggiore che non aveva mai avuto.
Sam prese una bottiglia d’acqua dal frigo e raggiunse la sala da pranzo.
Appariva un po’ triste, così immensa, con il caminetto spento, senza quadri alle pareti e con le cristalliere vuote, però la tavola era riccamente apparecchiata e faceva la sua bella figura.
I signori Robertson erano già seduti, e stavano discutendo sottovoce. Il figlio cercò di non attirare l’attenzione, ma non ci riuscì.
“Ti stavamo aspettando” disse subito il padre.
“Non sono in ritardo. Non è ancora pronto.”
“Figurarsi”. L’uomo fece qualcosa che era a metà tra uno sbuffo e un sospiro. “Comunque, dobbiamo parlare.”
“Di cosa?”
“Del tuo futuro. Dell’università. Oggi ha chiamato il Preside, ha detto che non hai inviato nessuna applicazione.”
“Non ho ancora deciso cosa voglio fare” disse in fretta Samuel.
“Mi pare evidente.” Se gli sguardi potessero uccidere, Sam sarebbe crollato a terra senza vita in quel momento. “Per tua fortuna, c’è poco da decidere, tu devi solo eseguire.”
Calò il silenzio.
Sam avrebbe voluto ribellarsi, ma la verità era che ormai si era rassegnato. Lottava da tutta la vita contro i sui genitori, e adesso era stanco. Sapeva che sarebbe andata a finire così, tanto valeva assecondarli ancora per qualche tempo e poi un giorno, finalmente, dopo gli studi, con la maggiore età e un lavoro, sarebbe stato libero.
Siccome il figlio non diceva nulla, il padre continuò.
“Studierai medicina ad Oxford. Abbiamo già parlato con il Preside e lui parlerà con il Consulente. C’è solo un problema.”
“E cioè?” replicò Sam, con una punta di sarcasmo che non sfuggì a nessuno.
Il signor Robertson sbatté una mano sul tavolo. “Modera i toni!” urlò.
La signora Robertson sussultò e si portò una mano al petto. “Richard, per favore…”
Sam rimase in silenzio, senza guardarlo negli occhi. Era la tattica migliore.
“I tuoi pessimi voti” disse il padre, cercando di mantenere la voce bassa, ma lo fece comunque con un tono così minaccioso che Samuel temette potesse alzarsi per prenderlo a schiaffi.
Fortunatamente, la signora Robertson decise di intervenire. Cominciò ad accarezzare il braccio del marito per calmarlo e si rivolse al figlio.
“Tesoro, non capiamo. Frequenti la scuola migliore, ti abbiamo affiancato i tutor migliori, sei molto intelligente. Come mai dobbiamo ascoltare i tuoi insegnanti lamentarsi ogni giorno?”
“Nessuno dei miei insegnanti si lamenta” bofonchiò Samuel. Ed era vero. I suoi voti non erano altissimi, certo, ma non erano così preoccupanti, se non li si paragonavano a quelli degli altri o a quelli di chi aspirava a studiare medicina ad Oxford.
“Mi lamento io” quasi ringhiò il padre.
“Tesoro…” cominciò la moglie.
“Taci, Barbara!”
“Dico solo che forse questo non è il momento adatto. Abbiamo avuto una giornata intensa, siamo tutti stanchi…” e si bloccò per due ragioni. La prima era che il marito l’aveva afferrata per il polso in malo modo, la seconda era che alle spalle di Sam era comparsa Mindy, con la zuppiera in mano.
Il ragazzo si voltò e la vide sulla porta, con aria perplessa e senza sapere cosa fare, perché si era accorta di aver interrotto una conversazione. Era talmente tesa che nessuno sarebbe rimasto stupito del vederla tornare indietro senza proferire parola.
Ma non era sola. Accanto a lei c’era Maxwell, appoggiato allo stipite della porta con le braccia incrociate.
Sam incrociò il suo sguardo, me nessuno dei due disse niente.
“È pronta la cena, se avete fame” disse infine Mindy, debolmente.
“Sì, sì, certo” disse la madre di Sam, liberandosi dalla stretta del marito e indicando il sottopentola al centro del tavolo. “Tesoro, siediti” disse poi al figlio.
“Non ho fame” rispose lui. “Scusa, Mindy” e uscì dalla stanza, passando tra Mindy e Maxwell a testa bassa.
“Torna immediatamente qui!” gridò il padre, ma Sam non ci badò. Sapeva per esperienza che il signor Robertson si indignava abbastanza da urlargli contro ma mai così tanto da scomodarsi ad abbandonare la tavola a ora di cena.
Pensava che il fantasma lo avrebbe seguito, e invece non fu così. Fuori era calato il buio, ormai, e le luci in casa erano spente. L’aura di Max, seppure debole, sarebbe stata evidente agli occhi di Samuel.
Si sentì più solo che mai. Proseguì fino alla sua camera e richiuse la porta senza guardarsi indietro, e poi vi si abbandonò contro, chiudendo gli occhi.
Nei minuti successivi nessuno lo raggiunse, né vivo né morto, così tirò fuori il blocco da disegno e il carboncino dallo zaino e si sedette alla scrivania.
 
Fece un ritratto di Patricia, e uno di Rose, e nel bel mezzo di una bozza della facciata principale del Walker, che era un edificio storico di tutto rispetto, il suo stomaco cominciò a brontolare.
Controllò l’orologio da polso e scoprì che ormai era notte inoltrata. Il giorno dopo a scuola sarebbe stato uno zombie, altro che fantasma.
Si alzò cercando di non far rumore con la sedia e uscì cautamente in corridoio.
Era tutto buio e silenzioso, sia i suoi genitori che Mindy dovevano essersi chiusi in camera loro da un pezzo. Per fortuna la stanza dei suoi genitori era dall’altra parte della casa, mentre la piccola camera dove dormiva Mindy era al piano di sotto, vicino la cucina, quindi avrebbe dovuto fare attenzione a non disturbarla.
Affacciandosi sulle scale, si accorse improvvisamente di un leggero chiarore alle sue spalle. Maxwell.
All’inizio non disse nulla e proseguì in silenzio.
“Hai fame anche tu?” gli chiese infine, per scherzare, entrando in cucina e chiudendo la porta il più silenziosamente possibile.
“Dipende. Cosa propone lo chef?” replicò Max, scandendo le parole molto lentamente, come se non fosse davvero sicuro che potesse comunicare così facilmente con l’altro.
“Zuppa fredda, a quanto pare.” Sam, con il viso immerso nel frigorifero, fece una smorfia. “Mi sa che ci tocca passare direttamente al dessert.”
Tirò fuori la torta, che Mindy aveva farcito con panna e cioccolato, come piaceva a lui. Era ancora perfettamente integra, segno che i suoi genitori non avevano voluto assaggiarla e che probabilmente anche a Mindy era passata la voglia.
Ne tagliò una grossa fetta.
“Mi dispiace che tu non possa…” Sam indicò vagamente la torta.
“Tranquillo. Non mi piace la panna” rispose Max, sorridendo debolmente con l’angolo della bocca.
Calò di nuovo il silenzio tra loro.
Sam non capiva perché Maxwell lo avesse seguito per poi limitarsi a gironzolare intorno a lui in quel modo.
Il fantasma dovette intuire i pensieri dell’altro, perché provò a suo modo a dare una spiegazione.
“È strano essere in una stanza con qualcuno che è consapevole della mia presenza.” Si strinse nelle spalle, come se quella considerazione dovesse bastare.
E in realtà Samuel non aveva bisogno di troppe parole per capire quanto quella situazione dovesse essere nuova e affascinante per Max. Sia Rose che Patricia avevano già incontrato altre persone vive in grado di vederli, prima di conoscere lui. Per Pat c’era stata soltanto una donna, in realtà, ma Rose aveva perso il conto, e per lei poter parlare con Sam non era affatto strano.
“Non è un problema” gli disse. “Per il momento” aggiunse in fretta, sempre preoccupato che l’altro potesse prendersi troppe libertà, tipo restare in camera sua la notte, mentre dormiva. “Però ecco, magari, quando mi cambio i vestiti, o durante la notte…”
“Non sono uno stalker” replicò Max, con un sorriso un po’ più aperto. “Hai paura di svegliarti all’improvviso e trovarmi lì a fissarti mentre dormi?” accennò addirittura una risata. “Non succederà.”
“Grazie” rispose Sam, a bocca piena. Mandò giù il boccone di torta. “Grazie” ripeté. “La situazione è strana anche per me. Non ho mai vissuto… insomma, ne ho conosciuti, c’è persino una ragazza nella mia scuola, ma mai nessuno nella mia stessa casa.”
“Non ti darò fastidio” lo rassicurò Max.
“Grazie” disse per l’ennesima volta Sam. E poi aggiunse: “Anche io cercherò di non darti fastidio.”
“Ok.”
Rimasero a fissarsi negli occhi senza dire più nulla per un tempo che a Sam parve lunghissimo.
Essere in compagnia di Maxwell era diverso dall’essere in compagnia di qualsiasi altro fantasma, anche se Sam non sapeva spiegarsi per quale motivo. Forse perché Max era diverso da tutti gli altri, aveva gli occhi pieni di malinconia e sembrava stanco, spezzato.
Continuò a mangiare la torta, cercando di non guardarlo, anche se era difficile non pensare al fatto che un fantasma lo stesse fissando.
“Simpatico, tuo padre.”
Sam sollevò di nuovo lo sguardo su Maxwell.
“Molto” fu l’unica cosa che riuscì a replicare.
Altro silenzio.
“Anche io sarei dovuto andare ad Oxford” disse Max.
“Mi dispiace…” Sam iniziò a fissarsi i piedi. “Come…” non aveva il coraggio di chiederglielo, ma sapeva che prima o poi avrebbe dovuto farlo. “Come sei morto?”
Max non rispose subito. Si prese il suo tempo per riflettere, guardando in ogni punto della cucina che non fosse quello in cui si trovava Sam.
“È complicato” disse infine.
“Capisco” replicò Sam, anche se non capiva.
“Faresti una cosa per me?” chiese all’improvviso il fantasma.
“Cosa?” domandò Sam. Le richieste dei morti potevano rivelarsi molto particolari, aveva imparato a sue spese a non promettere subito qualunque favore solo perché mosso dalla pietà.
“C’era un ragazzo che abitava nella grande villa di mattoni che si trova all’inizio del viale. Sai qual è?”
Samuel ricordava vagamente di averla vista, erano poche le costruzioni in mattoni in quella strada.
“Quella all’angolo?”
“Sì, quella. Da qui non si vede.”
 “No, è lontana” confermò Sam. Era per questo che Maxwell guardava sempre fuori dalla finestra? Cercava di vedere quella casa?
“Ci abitava un mio amico. Aidan Ellis. Controlleresti per me se è ancora vivo?”
Sam stava per rispondere ‘certo che sarà ancora vivo, se aveva la tua età non avrà neppure trent’anni, adesso!’, però l’espressione sul volto del fantasma lo fermò. Era così profondamente triste. Sam non aveva mai incontrato qualcuno così scoraggiato, nonostante ne avesse incontrati a bizzeffe di fantasmi che non erano propriamente contenti dello status di morti.
“Sì, certo” rispose quindi.
“E… i miei genitori?” aggiunse Max. “Hanna e Frederick Davis. Hanno vissuto qui un paio d’anni dopo la mia morte, poi però si sono trasferiti in Scozia e non ho più avuto loro notizie.”
Era la prima volta che Sam conosceva qualcuno che voleva informazioni sulle persone care.
“Farò il possibile” promise. Forse quella era la faccenda in sospeso di Max. Se poteva aiutarlo, lo avrebbe fatto volentieri.
“Grazie.”

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Capitolo 4
*** I nuovi vicini ***


4. I nuovi vicini

Dopo aver mangiato la fetta di torta, Sam se n’era tornato in camera sua, da solo. Max era rimasto in cucina. E solo si svegliò il mattino dopo, con sollievo ma anche con un po’ di delusione.
C’era qualcosa in Maxwell che lo intrigava. Voleva parlare con lui e passare del tempo con lui per scoprire cosa fosse.
Si lavò, si vestì, si mise lo zaino in spalla e tirò dritto fino alla porta, saltando la colazione. Era tardi, era stanco per aver dormito poco, non aveva voglia di parlare con nessuno, men che meno con i suoi genitori. Per fortuna neppure Mindy era nei dintorni.
Fuori dal cancello, però, la situazione cambiò.
Passando davanti la villa dei vicini, si sentì chiamare.
“Ehy!”
Sam si fermò e si voltò di scatto.
Un ragazzo se ne stava davanti la porta d’ingresso, guardando verso di lui. Aveva uno zaino gettato ai piedi e si stava sistemando la sciarpa sopra un cappotto aperto che lasciava intravedere la divisa della Walker.
Aveva i capelli scurissimi quasi rasati, la pelle nera, era alto e slanciato, ma il viso tradiva la giovane età.
A Sam non sembrò di averlo già visto prima, ma non ci si poteva proprio fidare delle sue capacità d’osservazione, visto che a scuola evitava di guardare in faccia chiunque.
Lo sconosciuto finì di sistemarsi e poi attraversò il proprio vialetto per raggiungerlo in strada.
“Ciao!” esclamò, allungando la mano per presentarsi. “Sono Brandon.”
Sam gliela strinse. “Samuel”.
“Sei il nuovo vicino, giusto?”
Sam annuì.
“Bella casa, vero?” domandò con entusiasmo Brandon, che era tutto un sorriso.
“Sì” si limitò a rispondere Sam, che non era abituato ad agitarsi troppo.
Brandon si morse le labbra e annuì, temporeggiando, cercando qualcosa da dire, mentre entrambi se ne stavano lì fermi immobili sul marciapiede.
“Aspettiamo mia sorella e andiamo a scuola insieme?” chiese infine il ragazzo.
Sam avrebbe voluto rifiutare. Conoscere anche un’altra persona nuova quella mattina? Non era dell’umore. Però non voleva offendere quel ragazzo che era stato così gentile.
“Certo” sentì la propria voce rispondere.
“Grande!” esclamò Brandon, con un entusiasmo che era proprio fuori luogo a quell’ora del giorno.
In quel momento si sentì sbattere la porta d’ingresso della casa, e Sam sbirciò, con fatica, oltre il ragazzo.
E gli si gelò il sangue nelle vene.
Amy Beth.
Amy Beth era la sua nuova vicina di casa.
La ragazza si avvicinò con calma e senza lasciar trasparire alcuna emozione.
“Buongiorno” salutò.
“Buongiorno” ricambiò Sam.
Amy Beth si fermò e li guardò entrambi in viso, uno per volta. “E allora? Andiamo? È tardi.”
“Stavamo aspettando te, eh!” si lamentò Brandon.
“Ma davvero?” chiese Amy Beth con un pizzico di ironia, guardando Sam.
Il ragazzo annuì e tutti e tre si misero in cammino, a passo svelto.
Brandon tirò fuori un lettore CD dallo zaino e inforcò le cuffie.
Proseguirono così per un po’, Brandon davanti che camminava muovendo le spalle a ritmo di musica e gli altri due dietro, schiene dritte e sguardo alto. Amy Beth, almeno, perché Sam guardava per terra come sempre.
“Non sapevo abitassi qui” disse all’improvviso, a voce bassa, perché quel silenzio lo stava torturando.
“Immagino” fu il secco commento della ragazza.
“Tu lo sapevi?”
“Che abito qui? Oh sì, negli ultimi quindici anni ho notato qualcosa.”
Sam ignorò la provocazione. “Che mi sarei trasferito qui.”
Amy Beth sospirò. “Non ci sono molti dottor Robertson con un figlio alla Walker, in città. Dovevi per forza essere tu.”
“Capisco” mormorò Sam.
Brandon davanti a loro iniziò a canticchiare, senza smettere di muoversi a tempo mentre avanzava.
Arrivarono alla fine del viale e Sam sollevò lo sguardo sulla villa di mattoni dove probabilmente ancora abitava Aidan Ellis. Non c’erano segni di vita, ma forse era solo presto, perché si intravedeva un giardino curato e le tende alle finestre sembravano abbastanza nuove.
 
Nessuno fece molto caso al fatto che i fratelli King fossero arrivati a scuola con Samuel Robertson, e la mattinata proseguì in maniera piuttosto noiosa per Sam.
Le lezioni non lo interessavano particolarmente, tranne quella di storia dell’arte, in parte anche per la presenza del Professore in un angolo dell’aula, seduto per terra e in silenzio come al solito. Il fantasma, ovviamente, non il vero professore. Il vero insegnante non era molto bravo nel suo lavoro e spesso riusciva ad annoiare Sam persino su argomenti che avrebbero dovuto essere tra i più interessanti.
Per fortuna non aveva avuto nessuna lezione di letteratura, così almeno non aveva dovuto preoccuparsi di essere avvicinato da Thomas. Sean non si curò di lui, Amy Beth lo trattò come sempre.
Durante la pausa pranzo, però, Brandon lo salutò da lontano mentre andava a sedersi con i suoi amici, e Sam agitò a sua volta la mano nella sua direzione.
Lui invece in mensa sedeva sempre per fatti propri, anche se a volte gruppi di ragazzi che non conosceva si sedevano vicino a lui. D’altra parte non poteva occupare un intero tavolo da solo. Nessuno lo coinvolgeva in una conversazione, però. Le uniche volte che aveva mangiato in compagnia negli ultimi quattro anni si potevano contare sulle dita di una mano. Una volta Thomas, un paio di mesi prima, si era seduto vicino a lui per parlare della lezione di letteratura, e l’anno precedente aveva pranzato un paio di volte con Amy Beth mentre lavoravano insieme al progetto scolastico. Persino Rose non amava quella zona dell’edificio e ne stava alla larga.
La consapevolezza di questa solitudine colpì Sam come un pugno in piena faccia.
Tutti avevano un gruppetto di amici alla Walker. Tutti. Tranne lui. Persino Thomas sedeva sempre con tre amiche. Forse una di loro era la sua ragazza. Non le conosceva bene, comunque sembravano tra le poche persone a non fregarsene del fatto che Thomas venisse dalla scuola pubblica.
Anche Amy Beth aveva il suo gruppo di amici, era molto popolare a scuola, un po’ come Sean, tutti sapevano il suo nome.
 
Le lezioni del pomeriggio trascorsero senza colpi di scena e subito dopo il suono della campanella Sam si precipitò nella biblioteca centrale della città, quella con gli archivi più grandi.
Chiese al bibliotecario di avere accesso a tutti i quotidiani del 1983 e iniziò la sua ricerca, seduto ad un tavolo in un angolo, lontano da occhi indiscreti.
Ci mise una vita a trovare il nome ‘Maxwell Davis’ negli annunci di morte, perché aveva iniziato da gennaio e invece Max era morto d’estate.
Si era aspettato di trovare qualcosa di lungo e strappalacrime, vista la giovane età, e invece il minuscolo paragrafo diceva solo: DAVIS, Maxwell Martin, 2 luglio 1983. Si è spento alla giovane età di 18 anni appena compiuti. Ne danno il triste annuncio i genitori Hanna e Frederick Davis.
Tutto qui. Nessun dettaglio sui funerali, né su come era morto. Molto strano, considerando che gli altri annunci era più prolissi.
Chiese al bibliotecario se c’era un modo rapido per scoprire qualcosa sui signori Davis.
“Se non hai intenzione di spulciarti ogni giornale, annuncio e comunicazione in archivio, temo che l’unico modo sia domandare a chi potrebbe averli conosciuti. Se sai dove abitavano, potresti provare con i vicini di casa. Comunque fra un’ora chiudiamo, quindi per qualunque cosa dovrai rimandare a domani” fu la risposta.
Mentre tornava alla sua postazione ripensò alla conversazione avvenuta con Max. La ricerca sui genitori doveva essere sospesa, ma quella su Aidan Ellis? Perché Max era convinto che potesse essere morto?
Forse era molto malato. Possibile che fosse morto non troppo tempo dopo?
Iniziò la sua ricerca da agosto del 1983, pensando che probabilmente avrebbe passato le sue giornate a spulciare annunci di morte per almeno una settimana, arrivando al 1985 e oltre, e invece non dovette aspettare molto per incontrare il nome che cercava: ELLIS, Aidan, 14 settembre 1983. 20 anni. Lascia i suoi genitori, un fratello e due sorelle, che lo ricordano con molto affetto.
Anche stavolta, tutto molto vago.
Strano, davvero strano.
Il bibliotecario arrivò per comunicargli la chiusura, e Samuel raccolse le sue cose.
Come avrebbe fatto a dire a Max che il suo amico era morto solo due mesi dopo di lui?
 
Quella sera ebbe modo di prepararsi psicologicamente, perché non lo incontrò né al ritorno a casa, né durante la silenziosa cena, né nelle ore successive mentre studiava per il test di storia dell’arte.
Finché non sentì un leggero bussare alla porta.
Era seduto alla scrivania, con il libro aperto e una matita tra le dita con cui si picchiettava una tempia.
“Avanti…” mormorò sovrappensiero, credendo che fosse Mindy, senza alzare gli occhi dal paragrafo.
“Posso?” domandò una voce roca che, nonostante avesse sentito molto poco, era diventata in qualche modo familiare.
Sam lasciò cadere la matita sul libro e si voltò con il busto verso la porta.
Maxwell era solo per metà all’interno della stanza, e l’altra metà di sé spariva all’interno del legno bianco.
“Entra pure” ripeté l’invito Sam, e il fantasma eseguì.
Si stava massaggiando le nocche della mano destra, quelle con cui probabilmente aveva bussato.
Era esattamente come Samuel lo ricordava: magrissimo, emaciato, stanco, con gli occhi spenti.
“Come stai?”
Sam deglutì. “Bene” rispose. Non poteva dirglielo. Si era preparato mentalmente un discorso, ma adesso che lo aveva davanti, non sapeva nemmeno da dove cominciare. “E tu?”
“Come al solito”.
Il ragazzo accennò un sorriso e Sam si ritrovò a ricambiarlo con una facilità inaspettata. Lo osservò mentre fluttuava più o meno al livello del pavimento, fino ad arrivare alla finestra e sbirciare fuori.
“So che devi studiare, ma… posso restare?”
Che avesse chiesto il permesso era un buon segno, a maggior ragione se avrebbero dovuto convivere a lungo, quindi Sam non se la sentì di dire di no, anche se un po’ lo innervosiva l’idea di un fantasma in camera sua intento a fissarlo mentre studiava, soprattutto perché il peso di ciò che aveva scoperto su Aidan Ellis lo tormentava.
“D’accordo” rispose, sfregandosi le mani nervosamente.
Max si allontanò dalla finestra e si avvicinò a uno degli scatoloni che Sam non aveva ancora svuotato, ed estrasse un libro. La fatica di quel gesto era ben visibile suo volto già di norma in pessima forma. Era un romanzo, Ventimila leghe sotto i mari, e pesava parecchio per una persona che non aveva mani abbastanza solide. Chiese il permesso di leggerlo e Sam glielo concesse.
Max fece cadere il libro sul letto e si distese fluttuando a qualche centimetro dal materasso.
Lottando contro se stesso per distogliere lo sguardo da quella visione così inusuale, Sam gli voltò le spalle e si sistemò alla scrivania, cercando di concentrarsi sul manuale di storia dell’arte.
Cercò di non voltarsi mai per tutto il tempo che trascorse a studiare, e quando finalmente chiuse il libro e spense la lampada sulla scrivania, col cuore che batteva forte, prese coraggio. Avrebbe raccontato cos’aveva scoperto.
E invece si voltò, e Max era sparito.
Il libro era ancora aperto sul letto. Samuel si avvicinò e notò che il ragazzo aveva letto una cinquantina di pagine circa. Piegò un angolo della pagina per tenere il segno, chiuse il volume e lo ripose sul comodino.
Si guardò bene intorno, sbirciò addirittura in bagno e nell’armadio, ma del fantasma non c’era traccia, e d’altra parte sarebbe stato difficile non notare la sua luce.
Deluso e sollevato al tempo stesso, si preparò per andare a dormire.

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Capitolo 5
*** Max, Aidan, Sarah ***


5. Max, Aidan, Sarah

Il mattino dopo, Sam cercò di alzarsi presto, per poter fare colazione in santa pace, prima che i genitori scendessero in cucina.
Si lavò e vestì a tempo di record e, prima di afferrare lo zaino e uscire da camera sua, decise di prendere Ventimila leghe sotto i mari e di lasciarlo aperto sul letto nel punto e nella posizione esatti in cui li aveva lasciati Maxwell, così se avesse voluto continuare a leggere avrebbe potuto farlo senza sforzarsi di spostare il libro.
Fu fortunato, e in cucina incontrò solo Mindy, che gli aveva preparato pancakes, uova e bacon, infatti c’era un profumo delizioso.
“Non so cosa farei senza di te” le disse, parlando mentre masticava con la bocca piena.
“Forse impareresti finalmente le buone maniere” rise Mindy, che stava facendo colazione insieme a lui.
I genitori di Sam non volevano che Mindy consumasse i pasti con loro tre, ma lei e Samuel avevano sempre fatto di testa loro, cercando di non essere scoperti. Apprezzavano la compagnia l’uno dell’altra e la colazione era uno dei pochi momenti che potevano godersi in tranquillità.
“Che lezioni hai oggi?” domandò la giovane donna, lottando con una fetta di bacon particolarmente bollente.
“Ho un test di storia dell’arte.”
“Sei preparato?”
“Penso di sì.”
“Bravo. E poi?”
“Matematica” rispose il ragazzo con una smorfia di disappunto.
“Come mai hai smesso di vedere quella ragazza… com’è che si chiamava? Georgina? La tua tutor.”
“Perché non era in grado di spiegarmi come si deve nemmeno le addizioni” disse Sam, alzando gli occhi al cielo. Georgina era una vicina di casa nel vecchio quartiere che frequentava ormai il secondo anno di college, ma nonostante gli ottimi voti non era per niente in grado di insegnare.
“Tuo padre ha chiesto al tuo preside di trovarti un tutor” disse infine Mindy in un sussurro, abbassando lo sguardo sui suoi pancake. “L’ho sentito ieri sera mentre parlava al telefono” aggiunse, a voce ancora più bassa.
“Ottimo” bofonchiò Sam. Proprio la notizia che gli serviva per iniziare bene la giornata.
 
“Ehy!”
Davanti al cancello dei King, per la seconda volta in due giorni, la voce di Brandon lo fermò.
Stavolta era già quasi in strada, con Amy Beth accanto.
“Come va, fra’?” chiese Brandon, allungando la mano per salutarlo.
Sam, perplesso, gliela strinse e poi si fece trascinare verso di lui per colpirgli la spalla con la propria mentre riceveva una pacca sulla schiena.
“Bene” rispose Sam, disorientato.
Amy Beth raccolse tutta la sua forza di volontà per non ridere.
“Sei preparato per il test?” gli domandò, mentre tutti e tre si mettevano in cammino.
“Abbastanza” rispose Sam.
“Che test?” chiese Brandon, ma non aspettò la risposta. Estrasse il lettore CD e si isolò come il mattino precedente.
“Tu?” chiese Samuel alla ragazza, ignorando il fratello.
Era così che si ‘faceva conversazione’, no? Non era molto pratico.
“Abbastanza” rispose a sua volta lei, sorridendo.
In quel momento Sam fu colpito dal pensiero che Amy Beth era davvero bellissima. La sua pelle scura era liscia, senza imperfezioni, cosa rara in una ragazza di quell’età, e gli occhi erano grandi, nocciola, luminosi. Sembrava una modella. Per non parlare di quanto fosse sveglia e brava a scuola. Faceva parte di un sacco di club e aveva tantissimi amici.
E adesso stava lì a parlare con lui. Perché?
“Non dobbiamo per forza fare la strada insieme la mattina” gli scappò, in tono di leggera autocommiserazione.
“Lo so” rispose lei, calcandosi meglio il cappello sopra la fronte. “Domani non ti aspettiamo, se non ti va.”
“Cosa?” Sam aggrottò le sopracciglia.
“Cosa?” ripeté Amy Beth.
“Adesso…” e il ragazzo si fermò per un attimo, voltandosi per indicare vagamente le loro case in fondo alla strada. “…mi stavate aspettando?”
“Sì” rispose lei, senza smettere di camminare dietro il fratello.
Samuel fece un breve corsetta per raggiungerla di nuovo, mentre lo zaino veniva sballottato sulle sue spalle.
“Anche ieri” aggiunse la ragazza.
Sam, nonostante il freddo, si sentì il volto andare in fiamme.
“Come mai?” chiese, evitando accuratamente di guardarla, e fissandosi come sempre i piedi.
“È stata un’idea di Brandon.”
“Perché?”
Amy Beth sospirò, leggermente irritata da tutte quelle domande. “Perché abbiamo saputo che vi sareste trasferiti, ma lui non aveva idea di chi tu fossi…” niente di strano, in questo, pensò Sam. “…e ha creduto fosse una buona idea conoscere il nuovo vicino di casa che viene a scuola con noi.” E poi, visto che Sam non diceva nulla, concluse: “Anche Caroline e Francine Hendricks ogni tanto facevano il tragitto con noi fino a scuola. Ma di solito le accompagnava il padre in automobile. Bè, l’autista del padre.” E si strinse nelle spalle.
“Eravate amiche?” domandò il ragazzo. Improvvisamente si rese conto che non ricordava di aver mai visto Amy Beth interagire con le sorelle Hendricks. Non ci aveva mai dato peso, ma adesso, sapendo che erano vicine di casa, gli pareva strano.
“Non saprei” rispose la ragazza. “Andavamo d’accordo, io e Brandon eravamo sempre invitati alle loro feste, e loro alle nostre, ma non frequentavano davvero nessuno della Walker. All’uscita da scuola andavano sempre a casa degli zii. I cugini frequentano la scuola pubblica, e loro due stavano sempre con loro e i loro amici. Hai presente Thomas Carter?”
Certo che Sam lo aveva presente, e la ragazza lo sapeva benissimo. Comunque, annuì.
“La sorella era la migliore amica di Caroline. Veniva sempre a trovarla alla villa. In fondo mi dispiace che si siano trasferite.”
Tanti pezzetti di puzzle andavano al loro posto. Amy Beth sembrava particolarmente in vena di chiacchiere. Forse…
“Da quanto hai detto che abitate qui?” domandò Sam.
“Una vita” rispose Brandon, che stava armeggiando con il lettore CD cercando di cambiare disco senza smettere di camminare.
“Conoscevate chi abitava da me, prima delle sorelle Hendricks?”
“Mi ricordo due vecchi” rispose il ragazzo, riposizionando le cuffie e accennando uno dei suoi soliti passi di danza muovendo solo le spalle. Era perso di nuovo.
“Non erano vecchi” Amy Beth scosse la testa, rassegnata. “Avranno avuto l’età dei nostri genitori. Il marito sembrava sempre schifato di tutto, e la moglie non usciva mai di casa. Era depressa. Avevano perso un figlio giovane e lei non si è mai ripresa dal dolore. Io non me lo ricordo molto, eravamo piccoli quando è morto. Non siamo nemmeno andati al funerale, credo sia stata una cosa molto privata. Però io ci rimasi malissimo, più o meno un anno prima di morire mi aveva addirittura insegnato ad andare in bicicletta.”
Stava parlando di Max. Amy Beth aveva conosciuto Max!
“Mi dispiace” disse Sam. E non era un commento di circostanza, era la verità, e persino la ragazza se ne accorse.
“Grazie” rispose.
“Com’è morto? Un incidente?”
La ragazza si morse il labbro superiore, pensierosa. “Non lo so” disse infine, come se se ne fosse resa conto solo in quel momento, e infatti era così.
“Non lo sai?”
“No.” Amy Beth sospirò. “Ero solo una bambina, non credo che siano scesi nei dettagli quando mi hanno dato la notizia.”
“Capisco.”
Doveva esagerare? Si trattava già di una conversazione insolitamente lunga, per lui. Non parlava mai così tanto con i compagni di scuola.
“E come mai i genitori si sono trasferiti? Dove sono andati?” Ci provò.
“Non ne ho idea.”
Missione fallita.
 
Sam non riuscì a concentrarsi sul test di storia dell’arte e nemmeno sulle lezioni successive.
Continuava a ripensare a quello che gli aveva raccontato Amy Beth. Aveva sperato di scoprire qualcosa in più su Maxwell, e invece era ancor più confuso di prima.
E la confusione cambiò di natura nel momento in cui, a pranzo, vide da lontano Brandon che, vassoio alla mano, puntava nella sua direzione.
“Ehy!” lo salutò, sedendosi accanto a lui al tavolo altrimenti vuoto.
“Ehy a te…” replicò Sam, senza molta convinzione.
Lanciò un’occhiata al tavolo dove di solito si sedevano gli amici di Brandon, ma nessuno guardava verso di loro.
Il ragazzo seguì lo sguardo di Samuel, ma non disse nulla e si concentrò sul proprio pranzo.
Sam non era bravo nelle interazioni sociali, ma in una situazione del genere proprio non poteva far finta di nulla.
“Come mai sei qui?” gli chiese, sospettoso.
“Ho visto che pranzi sempre da solo” fu la risposta semplice e cristallina dell’altro.
“Magari mi piace pranzare da solo” replicò Sam, piccato. “Non ho bisogno d-”
“Lo so” lo interruppe Brandon. Mandò giù un sorso di coca-cola e posò la lattina sul vassoio con molta calma. “Non sono qui per pietà o cose simili… anche se è strano che tu abbia pensato subito a questo. Hai la coda di paglia?” Lo chiese con un sorrisetto divertito e strafottente che avrebbe dovuto irritare Sam ancora di più, invece in qualche modo la sua espressione non trasmetteva nessun senso di superiorità.
“Come mai sei qui?” ripeté Sam, più duramente della prima volta, ma comunque cercando di contenere la rabbia e l’umiliazione che stava controvoglia provando.
“Perché mi sei simpatico. Mi piaci. Mi sembrava che per te fosse lo stesso e ho pensato che potevamo pranzare insieme. Tutto qua.”
“Ah, così all’improvviso ti sono simpatico?”
Era più forte di lui, non riusciva a mettere da parte la diffidenza. Succede, quando vieni bullizzato da tutta la vita.
“Fino a due giorni fa non sapevo nemmeno della tua esistenza” gli fece notare Brandon.
Touché.
Sam non disse niente.
“Comunque, faccio sempre in tempo ad andarmene.”
Si guardarono negli occhi. Brandon non sembrava ferito dalla diffidenza di Sam, ma sembrava sincero.
“Non sono proprio il preferito della gente, qui. Non so se ti conviene essere mio amico.”
Brandon appoggiò entrambi i gomiti sul tavolo, e poi appoggiò il mento sulle mani a mezz’aria.
“Senti ma… onestamente? Non capisco. Perché ti trattano tutti come se avessi la peste?”
Sembrava genuinamente curioso.
“Non hai mai parlato con Sean?” replicò Sam, con una smorfia di disgusto.
“Ma chi? Sean McDonald?”
Entrambi si voltarono verso il tavolo centrale della mensa, quello dove Sean e i suoi amici, ovvero i suoi scagnozzi, stavano ridendo e scherzando in compagnia di alcune ragazze.
“No, mai parlato con lui. Mia sorella è sua amica, credo…?” Si morse il labbro superiore, proprio come faceva Amy Beth mentre rifletteva.
“Frequentiamo tutti le stesse lezioni” chiarì Samuel.
“E insomma” Brandon si concentrò di nuovo su di lui. “Qual è il problema di Sean e degli altri?”
Sam non rispose subito, e l’altro sospirò.
“Senti” disse, guardandolo dritto negli occhi. “Questo lo capisco. Anche alcuni miei amici venerano McDonald come se fosse un dio. È all’ultimo anno, è il migliore della scuola, il più ricco, il più carismat-”
“No” lo interruppe Sam. “Thomas.” Si schiarì la voce. “Thomas Carter ha i punteggi più alti, quest’anno.”
Brandon sorrise. “Okay. Il punto è: non me ne frega niente. Capisco che se un tipo del genere ti prende di mira, tutti gli altri come degli idioti gli vanno dietro, ma io non sono un idiota. Posso decidere da solo se tu sei uno dal quale stare alla larga oppure no. Per il momento mi sembri a posto. Tutto qui.”
Sam sapeva che prima o poi anche Brandon avrebbe iniziato a comportarsi come tutti gli altri. Sembri a posto, dicono all’inizio. Poi lo conoscono meglio, si accorgono che parla da solo, che spesso si assenta totalmente da un discorso come se fosse distratto da altro, si rendono conto che non è un animale da festa e vorrebbe solo starsene a disegnare tutto il giorno… e diventano come Sean.
Era uno dei motivi per cui cercava di non entrare troppo in confidenza con Thomas, non voleva rischiare che smettesse del tutto di rivolgergli la parola.
E adesso si trovava nella stessa situazione con Brandon.
Con la differenza che essere amico di Brandon avrebbe potuto aiutarlo a parlare con i signori King, che sicuramente ricordavano e sapevano di più sulla situazione di Maxwell e dei suoi genitori.
Avrebbe lasciato che Brandon diventasse suo amico, avrebbe scoperto il possibile sul passato di Max, e poi avrebbe sopportato di vedere quel sorriso contagioso tramutato in disprezzo. Gli si sarebbe spezzato il cuore, perché Brandon gli piaceva davvero, ma era l’unico modo per aiutare il fantasma.
“D’accordo” disse infine. “Mi dispiace per aver…” aver tentato di scoraggiarti, pensò, ma non lo disse a voce alta.
“Nessun problema” Brandon sorrise, e di conseguenza Sam sorrise a sua volta.
 
Tornarono a casa insieme dopo le lezioni, Sam e i King.
Amy Beth confrontò ogni risposta che aveva dato al test di storia dell’arte con quelle di Samuel, consultando il manuale di tanto in tanto. Come facesse a camminare dritta con la testa immersa nelle pagine era un mistero.
Sam non aveva particolarmente voglia di parlare del test, visto che era sicuro di aver fatto un casino nell’unica materia in cui di solito andava molto bene. Brandon, come al solito, era isolato nella sua musica. Sam a pranzo aveva scoperto che aveva una chitarra e che voleva fare il musicista.
Quando arrivarono all’inizio del loro viale, il ragazzo lanciò un’occhiata alla villa di mattoni, come faceva sempre, e fu sorpreso stavolta di intravedere una donna in giardino. Era abbastanza giovane. Indossava degli abiti da lavoro, aveva i capelli legati e stava potando una siepe con delle enormi cesoie.
“Chi è?” domandò Sam.
“Cosa?” borbottò Amy Beth, che era ancora concentrata su un dipinto di Monet su cui era sicura d’aver sbagliato un paio di domande.
“Quella donna… chi vive in quella casa?”
“Gli Ellis” rispose Amy Beth, sempre sovrappensiero.
I tre ragazzi proseguirono e si lasciarono la villa alle spalle.
“E chi sono?”
“Gente” rispose vaga la ragazza, che adesso stava cercando freneticamente un’altra opera tra le pagine del volume.
“Tutto qui?”
Amy Beth sollevò finalmente gli occhi per guardarlo in faccia. “Cioè?”
Sam arrossì. “Non conosco nessuno qui a parte voi. Sono solo curioso sui vicini” mentì. Più o meno. Era vero che era curioso sui vicini, peccato che non potesse spiegare per quale ragione.
La ragazza infatti non sembrava troppo convinta, ma rispose lo stesso.
“Non so molto della famiglia Ellis, sono tipi piuttosto riservati, non partecipano mai agli eventi organizzati nel quartiere, nemmeno a quelli per beneficienza. So che al momento in quella casa vivono i due genitori e una figlia, ma credo abbiano altri figli sparsi per l’Inghilterra.”
“Ok.” Purtroppo neppure queste informazioni erano di qualche aiuto al ragazzo. “E in quella casa?”
Erano ormai arrivati davanti all’abitazione dei King, Brandon stava togliendo le cuffie.
Sam aveva indicato l’imponente villa bianca dall’altra parte della strada rispetto alle loro case, quella che si vedeva dalla finestra di camera sua e verso la quale aveva sorpreso Maxwell rivolgere spesso lo sguardo.
“Lì ci abita Sarah Burke” rispose Amy Beth con un sorriso, contenta di poter finalmente parlare di qualcosa che le interessava.
“Adoro Sarah” commentò Brandon.
Sam sorrise, guardandoli in viso uno per volta. “Ok, e chi è Sarah Burke?”
“La mia babysitter” rispose Brandon. “Lo era, ovviamente. Adesso è solo un’amica di famiglia.”
“Fa il medico” aggiunse Amy Beth. “Ma è giovanissima, ha una trentina d’anni, come la figlia degli Ellis. Quando la conoscerai sono sicura che ti piacerà.”
 
“Ciao.”
“Gesù!” esclamò Sam, portandosi una mano al petto.
“Scusami” disse subito Max, con espressione allarmata.
“Mi hai fatto prendere un colpo” disse Sam, chiudendosi la porta di camera sua alle spalle. Fece un respiro profondo nella speranza che il battito del suo cuore rallentasse.
Era così abituato alla poca presenza di Maxwell che l’ultima cosa che si aspettava era ritrovarselo in camera all’improvviso.
Il fantasma, neanche a farlo apposta, era alla finestra.
“Non volevo spaventarti. Mi dispiace.”
“Ti credo” rispose Sam, con un sorriso tendente ad una risatina isterica.
Anche Max sorrise.
Era così raro vederlo sorridere che lo sguardo di Samuel si incantò per qualche istante.
“Ho visto che hai conosciuto i King” disse l’altro, facendo un cenno con la testa verso l’esterno.
“Mi spii?” chiese Sam, gettando lo zaino per terra e spingendolo con un calcio sotto al letto.
“No, te lo giuro. È solo che stav-”
“Scherzavo, scherzavo” lo rassicurò, sorridendogli di nuovo. “Sì, li conoscevo già. Frequentano la mia scuola.”
“La James Walker High” mormorò Max. “Ho visto la tua divisa.”
“Sì. Andavi anche tu alla Walker?”
“Mi sono diplomato lì, poco prima di…”
Lasciò la frase in sospeso, ma Sam capì comunque.
“Mi stavano parlando di Sarah Burke” disse, sperando di suscitare una qualche reazione, e fu così.
Anche se non respirava più per davvero, Max trattenne il fiato, e la sua espressione si intristì nuovamente.
“La conosci?”
Max annuì. “Era la mia migliore amica” disse, con una voce così profonda e piena d’affetto che Sam si sentì a disagio, in imbarazzo.
“Grazie per il libro” aggiunse.
Sam lanciò un’occhiata al letto. Il libro era ancora lì, ma era aperto in un altro punto, molto più avanti della sera prima.
“Di niente” rispose. Lo guardò negli occhi. Doveva dirglielo.
“Max… riguardo il tuo amico. Aidan.”
“È morto” disse Max. Non sembrava sorpreso, solo rassegnato.
Sam annuì.
“Sai come?” domandò l’altro, cautamente, quasi sussurrando, trattenendo di nuovo il fiato in quel gesto che era solo un riflesso del ragazzo vivo che era stato.
Sam scosse la testa. Poi, improvvisamente, capì.
Negli occhi di Max adesso si leggeva consapevolezza, e sollievo.
“Ma tu lo sai” disse in un sussurro, quasi a se stesso. “Tu lo sai” ripeté Sam a voce a più alta, come se fosse un ordine. Max sapeva come era morto Aidan, però non voleva che lo scoprisse Sam!
“Grazie per avermi aiutato” disse Max, distogliendo lo sguardo e cominciando a fluttuare verso la parete più vicina, per uscire dalla stanza il più in fretta possibile, e al diavolo le abitudini umane.
“Aspetta!” Samuel allungò un braccio per fermarlo ma non ci riuscì, la sua mano passò attraverso il polso di Maxwell e quest’ultimo scomparve.
Aveva una marea di domande, ma avrebbe dovuto aspettare.

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Capitolo 6
*** Il nuovo Sam ***


6. Il nuovo Sam

Maxwell sparì per il resto della serata e non si fece vedere neppure il mattino dopo.
Sam era arrabbiato, confuso, curioso, preoccupato. Voleva delle risposte, pensava di meritarle.
Ma ogni volta che si diceva che aveva tutto il diritto di pretenderle e che la sua irritazione era più che giustificata, si ricordava che Max non era un ragazzo qualunque.
Max era un ragazzo che aveva perso la vita a diciotto anni e aveva dovuto sopportare di vedere la vita dei suoi cari andare avanti senza di lui. Per due anni aveva assistito impotente alla depressione della madre, sapendo di esserne la causa ma senza poter alleviare la sua sofferenza né scappare via. E poi i suoi genitori si erano trasferiti e li aveva persi di nuovo. E adesso trascorreva il tempo affacciato alla finestra di Sam nella speranza di vedere Sarah uscire di casa.
Se non aveva voglia di parlare della sua morte e di quella di Aidan, Sam avrebbe dovuto rispettare questo desiderio e lasciarlo in pace.
Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente.
 
“Cosa state facendo?” domandò la voce calma di Rose.
Samuel alzò la testa dalle pagine del volume che stava sfogliando. Era sorpreso di vederla nella biblioteca della scuola, non era un posto che amava. Aveva imparato a leggere solo da morta, grazie ad una ragazza con le stesse capacità di Sam che aveva frequentato la Walker parecchi anni prima.
“È un annuario del 1983. Cerco alcune persone.”
Rose si sedette accanto a lui.
“Vi serve per un progetto scolastico?”
Sam scosse la testa. “No. Non vi ho ancora raccontat-”
In quel momento gli passarono davanti un ragazzo e una ragazza che lo guardarono sbigottiti.
Appena si furono allontanati, Sam riprese, parlando a voce un po’ più bassa.
“C’è un fantasma che vive nella mia nuova casa. Ha frequentato questa scuola, sto cercando il suo profilo.”
“Oh” esclamò la ragazza, sorpresa. “Interessante.”
“Volete aiutarmi?”
“Non penso proprio” sorrise Rose.
“Immaginavo” Sam le sorrise a sua volta.
Trovò Sarah per prima. Era molto bella. Aveva i capelli biondi legati in una coda e un sorriso un po’ forzato. Forse non le piaceva posare. Sarah Jessica Burke. Club: Scienze, Scacchi, Astronomia, Politica, Spagnolo, Letteratura. Ambizioni: diventare astronauta.
Sam sorrise. Non poteva esistere persona più diversa da lui, che non faceva parte di nessun club, anche se sarebbe stato utile per la sua domanda al college. Ma d’altra parte non aveva nemmeno ambizioni.
Tre pagine dopo incontrò Max. Era esattamente come il suo fantasma, solo che il viso era pieno e gli occhi meno malinconici. Non sorrideva in foto, ma un angolo della bocca era leggermente piegato. Quello, e i capelli rossi spettinati, gli davano un’aria molto affascinante. Maxwell Martin Davis. Club: Letteratura. Ambizioni: insegnare letteratura ad Oxford.
In qualche modo il fatto che il desiderio di Max fosse così semplice rispetto a quelli dei suoi compagni lo intristì ancora di più all’idea che non si sarebbe mai realizzato.
“Arriva il vostro amico” disse improvvisamente Rose, mentre Sam era ancora immerso nella contemplazione della foto di Max.
“Chi?” domandò, alzando la testa. E lo vide subito. Thomas.
“Ciao” lo salutò, avvicinandosi.
“Ciao” ricambiò Sam, che non fece nemmeno in tempo a rendersi conto di averlo di fronte che quello si era già seduto al suo tavolo. Di fronte a lui, per fortuna, e non accanto, così stavolta non aveva dato motivo a Rose di indignarsi.
“Come va?” chiese Thomas, in un pessimo tentativo di fare conversazione in maniera naturale.
“Bene” rispose il ragazzo, senza rigirargli la domanda.
Un po’ imbarazzato, Thomas fece correre lo sguardo sui volumi che Samuel aveva davanti. Ne tirò uno a sé e lo fissò stupito.
“Che fai?”
Non aveva molto senso mentire. “Stavo cercando uno studente” rispose infatti.
“Chi?”
“Il figlio di un’amica di mia madre” mentì prontamente, stavolta.
“Posso aiutarti?”
Sam lo guardò negli occhi. Perché era venuto da lui a parlargli? Voleva degli appunti? Perché non li chiedeva e basta?
“Se ti va” rispose, vago.
“Chi cerchiamo?” chiese l’altro, aprendo l’annuario che aveva avvicinato a sé poco prima. Era quello del 1981.
“Aidan Ellis” disse. “Non sono sicurissimo dell’anno in cui si è diplomato qui.” E neppure se si è davvero diplomato qui, aggiunse tra sé.
Oltre a quello del 1983 in cui aveva cercato Max e Sarah, c’erano sul tavolo gli annuari dei tre anni precedenti. Sam prese quello del 1980 e iniziò a sfogliarlo.
Thomas lo imitò, e fu proprio lui a trovare Aidan, dopo alcuni minuti di ricerca che trascorsero nel più assoluto silenzio.
“Eccolo qua” disse, girando il volume e facendolo scivolare verso l’altro.
Sam lanciò un’occhiata veloce al ragazzo e poi spostò lo sguardo sul libro.
Beh, la foto era perfetta. Sam non aveva mai visto qualcuno così fotogenico. Il ragazzo era bellissimo, con gli zigomi scolpiti e i capelli ricci e scuri. Sembrava un attore di Hollywood. Aidan Ellis. Club: Scacchi, Teatro, Giornale scolastico. Ambizioni: vivere a New York.
Forse se non fosse morto sarebbe davvero diventato un attore di Hollywood, dopotutto.
Era ancora concentrato sul profilo di Aidan, quando Thomas si schiarì la voce.
“Sam, ascolta…”
Il ragazzo lo guardò di nuovo. Quel tono non prevedeva nulla di buono.
“Sono appena uscito dall’ufficio del Preside. Mi ha detto che hai fatto richiesta per un tutor, e mi ha chiesto se io fossi interessato.”
A Sam si gelò il sangue nelle vene. Cos’era? Uno scherzo? Poteva mai essere così sfortunato?
Lo sgomento e il terrore dovevano leggerglisi in faccia.
“Non ho ancora accettato” disse in fretta Thomas.
Sam chiuse gli occhi e si morse le labbra.
“In realtà è stato mio padre ad insistere con il Preside” disse.
“Avevo immaginato. Per questo sono venuto a chiederti se la cosa ti sta bene. Se non vuoi, posso sempre rifiutare.” Distolse lo sguardo pronunciando quelle parole.
Fare da tutor procurava un sacco di punti per la domanda di borsa di studio per i college, e Sam sapeva che Thomas ne aveva bisogno perché la sua famiglia non sarebbe mai riuscita a pagare nessuna retta.
In più, se lui avesse rifiutato, il Preside avrebbe parlato con qualcun altro. E chi, a questo punto? Sean McDonald? Sam rabbrividì al solo pensiero.
“No, tranquillo” disse a voce alta. “Mi dispiace solo per te che dovrai sopportarmi” tentò un sorriso.
Thomas lo ricambiò, sollevato.
“Io sono sicuro che mi divertirò” disse, guardandolo dritto negli occhi.
Sam distolse lo sguardo, arrossendo leggermente. C’era qualcosa nel modo in cui aveva pronunciato quella frase che lo aveva messo in imbarazzo.
“Ok, allora… ci vediamo presto” disse Thomas, alzandosi. Si aggiustò la giacca, e si allontanò.
“Mi piace quel ragazzo” commentò Rose.
“Anche a me” mormorò Sam, chiudendo tutti gli annuari che aveva davanti.
 
Trascorsero alcuni giorni, durante i quali Sam tentò di adattarsi a nuove abitudini.
Thomas si fermava a chiacchierare con lui almeno una volta al giorno, anche se ancora non era stato deciso nulla in merito alle ripetizioni. Nessuno dei due ne faceva cenno, ma Sam non era sicuro di poter temporeggiare ancora per molto.
Pranzava con Brandon tutti i giorni e una volta si erano uniti a loro anche tre amici del ragazzo. Oltre ogni previsione, era stato piuttosto piacevole e nessuno lo aveva fatto sentire a disagio, anche se lui personalmente non aveva parlato molto.
E poi, all’andata e al ritorno da scuola, faceva sempre la strada con i King. O meglio, con Amy Beth, dato che Brandon continuava ad isolarsi con la sua musica. Le conversazioni con la ragazza, comunque, erano sempre più lunghe e naturali, e Sam aveva scoperto che ultimamente anche la ragazza aveva qualche problema con lo studio.
Così, un sabato pomeriggio, raccolse tutto il coraggio che sperava di avere ma su cui non aveva mai fatto troppo affidamento, e si decise a bussare alla porta dei suoi vicini.
Lo accolse una governante con i capelli bianchi e l’aria allegra, che probabilmente aveva quasi il doppio degli anni di Mindy. Sembrava sapere perfettamente chi fosse e lo fece entrare senza problemi.
Quando fu scortato in salotto, gli si gelò il sangue nelle vene, perché si ritrovò davanti entrambi i genitori di Amy Beth e Brandon.
Certo, era proprio con loro che voleva parlare, ma sperava di essere presentato in maniera meno improvvisa.
“Oh! Sam! È un piacere conoscerti finalmente!” esclamò la signora King, alzandosi dal divano e raggiungendolo per stringergli la mano. “Brandon ci ha parlato un sacco di te!”
“Piacere mio, signora King” replicò imbarazzato Sam.
“Chiamami Gina” rispose la donna, sorridendo. Era molto bella e assomigliava tantissimo ad Amy Beth. Come la figlia aveva persino l’acconciatura, con quelle innumerevoli treccine, ma la personalità solare ricordava di più il figlio maschio.
Nel frattempo anche il marito si era alzato. “Anthony” si presentò brevemente, ma con un sorriso caldo.
Sam strinse la mano anche a lui.
“Posso portare qualcosa?” domandò la governante.
“Io sono a posto, grazie” disse Sam.
“Ma no, non fare complimenti! Ti va un tè caldo?” chiese la signora King.
“Io veramente, sono qui per… per chiedere ad Amy Beth se voleva studiare…” sollevò lo zaino pieno di libri e quaderni che aveva portato.
“Non vedo perché non possiate studiare sorseggiando un tè caldo” sorrise la donna, poi spostò quel sorriso sulla governante, che capì al volo e scomparve.
“Siediti, giovanotto” disse il signor King, indicando la poltrona davanti al divano sul quale lui e la moglie si stavano sedendo nuovamente.
Sam obbedì, col viso completamente rosso.
Si sentirono passi scendere di corsa dal piano di sopra e improvvisamente spuntò la faccia di Brandon.
“Sam!” esclamò. “Mi era sembrato di sentire la tua voce! Pensavo di avere le allucinazioni.” Rise e si sedette sul bracciolo del divano, accanto alla madre. “Che ci fai qua?”
Samuel non aveva mai visto l’amico senza la divisa scolastica, e non fu affatto sorpreso di scoprire che era un amante delle felpe. D’altra parte, lui stesso ne stava indossando una, come sempre quando non andava a scuola.
“Volevo chiedere ad Amy Beth se voleva studiare insieme. Abbiamo un test tra qualche giorn-”
Ma non fece in tempo a finire la frase, perché Brandon stava già urlando a gran voce il nome della sorella.
“ARRIVO!” si sentì da piano di sopra.
“Ragazzi, per favore…” Gina King scosse la testa rassegnata, chiedendo scusa a Sam con lo sguardo, ma Sam le sorrise divertito.
Amy Beth li raggiunse in salotto alla velocità della luce. Con sorpresa di Sam, anche lei indossava una felpa e i pantaloni della tuta. Da quando aveva imparato a conoscerla si era reso conto che aveva avuto tantissimi pregiudizi su di lei, assumendo un’intera personalità solo dalle persone che frequentava a scuola e dai modi che utilizzava in quell’ambiente. Ma in fondo anche lui stesso sentiva che il Sam studente non era il vero Sam.
“Ehy, ma’” disse la ragazza rivolgendosi alla madre, senza salutare nessuno, sedendosi sull’altro bracciolo del divano. “Era lui che mi chiedeva dei Davis.”
Samuel quasi sussultò. Nella sua testa aveva organizzato un piano molto più lento e articolato per arrivare all’argomento. Aveva pensato di impiegare giorni, adesso non sapeva se era psicologicamente pronto.
“Una bella famiglia” annuì la signora King, spostando l’attenzione su Sam.
“La signora Davis e il figlio” specificò il marito. “Il signor Davis non lo conoscevamo molto” aggiunse.
“No, infatti…” mormorò la donna.
“Amy Beth mi ha detto che il figlio è morto molto giovane” disse lentamente Sam, sperando di incoraggiare la conversazione, che si era bloccata per qualche istante.
“Sì. Povero ragazzo” disse il signor King.
La signora annuì, mentre gli occhi le diventavano lucidi. “Aveva l’età vostra, più o meno. Una tragedia. Era un così bravo ragazzo. Lo so che si dice di tutti i morti, ma lui lo era davvero.”
“È morto di cancro, a quanto pare” disse Amy Beth.
“Non ne siamo sicuri” specificò subito il padre. “Il signor Davis ci disse solo che si era ammalato ed era morto, ma avevamo notato che ultimamente non era molto in forma.”
“Non abbiamo mai chiesto i dettagli” chiarì la signora King. “Quella povera madre… aver perso il figlio l’ha distrutta. Ha smesso di uscire di casa. All’inizio permetteva alla figlia dei Burke di andare a trovarla, lei ci raccontò che la donna era depressa, ma poi impedì persino alla ragazza di entrare in casa.”
“Perché non avete chiesto al padre, allora?” domandò Brandon, e Sam lo ringraziò mentalmente, perché era proprio ciò che voleva chiedere anche lui.
I signori King si guardarono titubanti.
“Ci sembrava indelicato. O forse avevamo solo paura di avere quella conversazione” disse il signor King, scambiando uno sguardo grave con la moglie. “So che probabilmente era un’impressione sbagliata, ma Frederick… sembrava sollevato che il figlio fosse morto. Un giorno, poco prima che traslocassero… ormai erano passati… quanti anni?”
“Un paio d’anni? Forse no. Ma almeno un anno di sicuro” lo aiutò la moglie.
“Sì” annuì il signor King, guardando di nuovo Sam. “Era passato un bel po’ dalla morte del figlio. Io e lui ci fermammo a parlare qui fuori, non so bene come saltò fuori il discorso, ma era morto il proprietario della casa accanto a quella dei Burke, una morte terribile, accoltellato in mezzo alla strada… comunque, disse qualcosa come ‘ognuno ha la morte che si merita’.”
“Gentile…” bofonchiò Amy Beth, sarcastica.
“Il morto in questione non era Mister Simpatia, effettivamente” commentò la signora King.
Il marito continuava a guardare Sam. “Però il signor Davis me lo disse con un tono… Ragazzo, credimi, mi diede l’impressione stesse parlando del figlio.”
“Che stronzo” disse Brandon.
Linguaggio!” esclamò la madre, dandogli uno schiaffetto sul ginocchio.
Sam non sapeva cosa dire. Non aveva conosciuto il padre di Max, ma non era difficile per lui immaginare un padre fare un pensiero del genere sul proprio figlio. Era sicuro che suo padre avrebbe reagito allo stesso modo.
Si schiarì la voce. Visto che i signori King sembravano in vena di chiacchiere e di gossip, tanto valeva provarci fino in fondo. “Dove sono andati quando si sono trasferiti?”
“In Scozia” rispose Gina. “La signora Davis era scozzese. Credo che lei sia ancora lì, lui non so. Un’amica in comune mi disse che un anno dopo il trasferimento avevano iniziato le pratiche per la separazione, ma non so com’è finita la faccenda.”
Ah. Questa non sarebbe stata una bella notizia da dare a Max. Non lo vedeva o parlava con lui dalla sera in cui avevano discusso di Aidan Ellis, lo stava chiaramente evitando.
“C’è un modo per contattare la signora Davis?” domandò.
“Posso provare ad ottenere un numero di telefono. Come mai?” si interessò la signora King.
Sam si era preparato la risposta quando aveva ideato il famoso piano d’azione che ormai era andato a monte.
“Perché abbiamo ritrovato delle lettere e dei documenti in soffitta” rispose. “Vorremmo restituirglieli.”
“Davvero? Dopo così tanto tempo?” chiese il signor King.
“Strano che gli Hendricks non li abbiano trovati” aggiunse la moglie.
“Forse li hanno trovati ma non gliene fregava niente di restituirli e li hanno lasciati lì” venne in soccorso Brandon, e meno male, perché Sam non aveva pensato a cosa rispondere.
In quel momento fece il suo ingresso in salotto la governante, con un vassoio enorme. C’era una teiera, cinque tazze, zucchero, latte, e tre tipologie di biscotti.
“Oh, Claire, ti sei superata! Grazie!” esclamò Gina.
“Sono deliziosi” disse il signor King a Sam, indicando i biscotti, mentre il vassoio veniva posato tra il divano e la poltrona. “Li prepara Claire tutte le settimane.”
“Forse dovremmo lasciarvi studiare in pace, però” disse la moglie.
“Studiare?” domandò Amy Beth.
“Volevo chiederti di studiare insieme” disse Sam.
“Bontà divina” bofonchiò la ragazza. “Prima mangiamo i biscotti, almeno.”
 
Sam e Amy Beth studiarono per un paio d’ore in camera di quest’ultima, con Brandon che ogni tanto entrava senza ragione giusto per dar fastidio alla sorella.
La camera era molto grande e piena zeppa di roba. Ogni parete era dipinta di un colore diverso (nero, grigio scuro, grigio chiaro, bianco), il soffitto si intravedeva a malapena sotto gli innumerevoli poster e le stelle di plastica che si illuminano al buio, e sul pavimento c’erano almeno tre tappeti tutti con fantasie differenti. C’erano il letto, una libreria, una cassettiera, un armadio, uno specchio e una scrivania. Ogni superficie era ricoperta di oggetti. Vestiti, trucchi, libri, borse, scarpe: la camera più disordinata che Sam avesse mai visto. Infatti l’unico posto per sedersi in due a studiare era il letto.
Era quasi buio quando Brandon bussò sulla porta aperta per l’ennesima volta.
“Che diavolo vuoi?” lo guardò storto la sorella.
“C’è Archer al telefono. Lui e gli altri stanno andando al pub, io li raggiungo. Volete venire?”
Amy Beth guardò Sam.
“Anche io?” chiese il ragazzo, per essere sicuro.
“Gli dico che ci vediamo lì tra mezz’ora” alzò gli occhi al cielo Brandon, e corse al piano di sotto per raggiungere di nuovo il telefono nell’ingresso.
Amy Beth chiuse il libro con uno scatto. “Devo cambiarmi. Ti consiglio di fare lo stesso” disse a Sam, alzandosi dal letto.
“Ok” rispose lui, ancora un po’ confuso. Raccolse i suoi libri e li infilò nello zaino.
“Ci vediamo qui fuori tra venti minuti. Puntuale” si raccomandò la ragazza.
Samuel uscì dalla camera e tornò al piano di sotto. Brandon era di nuovo sparito dalla circolazione, ma fu intercettato dalla signora King.
“Ho saputo che state andando al pub” disse sorridendo. “Non fate tardi.” Gli allungò un biglietto. “Questo dovrebbe essere il numero della signora Davis, ma non ne sono sicura. Buona fortuna.”
 
Venti minuti dopo, Sam era davanti al cancello dei King, con le mani immerse nelle tasche del cappotto, e stava congelando. Era una sera di gennaio particolarmente fredda e stava persino cominciando a nevicare. Avrebbe dovuto mettere un cappello.
In realtà non aveva tutta questa voglia di uscire. Non conosceva bene gli amici di Brandon, e il biglietto nascosto in camera sua gli pesava sulla coscienza come un omicidio. Lo aveva nascosto sotto una gamba della scrivania perché sapeva che anche se Max lo avesse visto non avrebbe avuto abbastanza forza per sollevare il mobile e prenderlo, leggendovi il nome della madre. Prima di fargli sapere che aveva vagamente rintracciato i suoi genitori, voleva delle informazioni più consistenti.
Però, quando Amy Beth e Brandon finalmente si degnarono di raggiungerlo, riuscirono a fargli tornare il buon umore.
Per una volta Brandon non si isolò nella musica e chiacchierarono tutti e tre insieme con una naturalezza a cui Sam faceva ancora fatica a credere.
“Dov’è che andiamo?” chiese.
“Da Pete’s” rispose l’amico. “Per fortuna. È il più vicino” e si strinse nel cappotto, rabbrividendo.
Sam non era mai stato da Pete’s. Non era mai stato in un pub, punto. Non si arrischiò a dirlo, ovviamente.
 
Comunque, Pete’s non era un granché. Non che avesse un luogo reale con cui paragonarlo, ma i pub nei film sembravano molto più belli. Guardandosi intorno un po’ deluso, Sam cominciò a sbottonarsi il cappotto.
“È una camicia, quella?” esclamò Amy Beth, che a sua volta stava togliendo il cappello e lasciando libere le treccine.
“Hai detto che dovevo cambiarmi!” rispose Sam, allarmato.
Amy Beth scosse la testa, sorridendo con aria divertita. “Spero che almeno non ci sia anche una giacca” disse.
Sam scosse la testa.
Tutti e tre raggiunsero uno dei tavoli in legno massiccio in fondo alla sala, che era illuminata fiocamente.
I soliti amici di Brandon, ovvero Archer, Nathan e Vinnie erano tutti seduti lì, insieme a Diana, un’amica di Amy Beth. Sam non aveva idea che Diana conoscesse gli amici di Brandon, poi però si rese conto che anche se faceva parte del gruppo di Amy Beth, Diana aveva un anno in meno di lei e probabilmente frequentava le lezioni con Brandon e i suoi amici. Avvicinandosi, però, si accorse che lei e Vinnie si tenevano per mano.
“Che ti prende?” gli sussurrò Brandon.
“Eh?” Sam cadde dalle nuvole.
“Hai un’aria strana.”
“Non è niente. Stavo solo pensando che il mio spirito d’osservazione fa davvero schifo.”
“Concordo” rispose Brandon, poi gli sorrise e gli diede una pacca sulla spalla, prima di fiondarsi a prendere posto su uno sgabello, avvicinandone un altro per Sam.
La serata trascorse in maniera tranquilla. Nessuno gli rivolse particolare attenzione, ma non lo ignorarono neppure. Si vedeva che Archer, Nathan e Vinnie erano un po’ sorpresi di vederlo persino al pub lì con Brandon, ma nessuno dei tre sembrava disturbato dalla cosa.
Era la prima volta che usciva con gli amici, che cenava in un pub, che rideva e scherzava in gruppo senza venire giudicato. Era la prima volta che aveva degli amici.
Il nuovo Sam iniziava a piacergli, così tanto che forse avrebbe potuto liberarsi definitivamente del vecchio.

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Capitolo 7
*** Finalmente la verità ***


7. Finalmente la verità

Il giorno dopo Sam era ancora su di giri per la cena al pub. Non era successo nulla di particolare, ma per lui era stata una serata memorabile. In casa, solo Mindy notò il suo buon umore e si fece raccontare tutto.
Erano entrambi in cucina e stavano giusto parlando di Pete’s, un posto che a quanto pare Mindy frequentava con il suo fidanzato durante le sue serate libere, quando giunse la voce del padre di Sam, che lo chiamava dal salotto.
Con un sospiro sconsolato, Sam lo raggiunse.
Il signor Robertson era seduto in poltrona e stava guardando la televisione e leggendo il giornale contemporaneamente. Era una cosa che faceva spesso, e Sam si chiedeva sempre come fosse possibile capire qualcosa di quello che si stava guardando o leggendo in quella maniera.
Si schiarì la voce. “Eccomi.”
Il padre non alzò neppure la testa. “Il preside ti ha trovato un tutor” disse.
“Ah, sì?” fece Sam, fingendo di non sapere.
“Non ricordo il nome. È lo studente migliore della tua scuola, e a quanto pare ha deciso di abbracciare questa causa persa. Iniziate domani.”
Sam attese, ma l’uomo non aggiunse altro e continuò a leggere il giornale con la televisione in sottofondo. Chissà che cosa avrebbe detto se avesse saputo che il tutor in questione era alla Walker con una borsa di studio e che veniva dalla scuola pubblica.
Uscì dalla stanza senza dire nulla, ma con il cuore che batteva un po’ più veloce per l’ansia di dover iniziare le ripetizioni con Thomas il giorno dopo. Si affacciò in cucina. “Vado a prendere un po’ d’aria” disse a Mindy, poi salì in camera sua.
Come sempre negli ultimi giorni, si guardò intorno per tutta la casa, ma di Maxwell nemmeno l’ombra. O meglio, nemmeno un luccichio.
Sospirò, entrando in camera sua e recuperando da sotto la scrivania il bigliettino che gli aveva dato la signora King.
Fuori, in strada, camminò a lungo prima di fermarsi ad un telefono pubblico. Non voleva che qualcuno da casa sua o da casa dei King lo vedesse, poi compose il numero.
Uno squillo. Due squilli. Tre squilli.
“Pronto?” rispose una voce di donna dall’accento fortemente scozzese.
Sam trattenne il fiato per un momento, poi chiuse gli occhi e si fece forza. “Buon pomeriggio! Chiamo per un sondaggio. Parlo con la proprietaria di casa?”
“Sì, sono io. Heidi Scott. Che sondaggio?”
Nome sbagliato. Sam deglutì. “Si tratta di un sondaggio sui trasferimenti da una zona all’altra dell’Inghilterra. È lei che è rientrata a vivere in Scozia da meno di dieci anni?”
Stava tremando per il nervosismo.
“No, è mia sorella. Gliela passo. Certo che adesso vi mettete a chiamare anche la domenica, avete una bella faccia tosta.”
“Grazie. E mi scusi!” rispose Sam, sollevato, ma la donna si era già allontanata dalla cornetta.
Si sentì un rumore di passi, poi un brusio, poi un’altra voce di donna. “Qui è Hanna Scott. Chi parla?”
Anche lei aveva l’accento scozzese, come la sorella.
“Salve signora, scusi il disturbo. Chiamo per un sondaggio sui trasferimenti da una zona all’altra dell’Inghilterra. Posso farle qualche domanda?”
“Sì.”
Evidentemente la signora non era di molte parole.
“Lei è tornata in Scozia da meno di dieci anni. È esatto?”
“Otto anni” rispose.
“Bene. È sposata? Ha figli?”
“Divorziata.”
Non aggiunse altro. Se si fosse trattato di un vero sondaggio, probabilmente Sam avrebbe ripetuto la domanda sui figli, ma sapeva la verità, e non voleva insistere. Se avesse messo al mondo un altro figlio dopo la morte di Thomas, lo avrebbe detto. Per sicurezza, comunque, fece un’altra domanda che poteva aiutarlo ad esserne certo.
“Bene. Vive da sola?”
“Con mia sorella e la sua famiglia.”
Ancora niente accenni a figli con meno di otto anni, dunque.
“Bene. Come mai ha deciso di tornare in Scozia? Per lavoro?”
“Motivi personali.”
“Bene. Si è pentita di essere tornata in Scozia?”
“No.”
Queste risposte lapidarie non giocavano molto a favore di Sam.
“Ha in programma di lasciare la Scozia a breve?”
“No.”
“Ok, penso di avere tutto. Grazie per la disponibilità.” E rimise a posto la cornetta alla velocità della luce.
Rilasciò il respiro che senza rendersene conto aveva trattenuto, e uscì dalla cabina.
 
Quando rientrò in casa scoprì di essere solo. Mindy gli aveva lasciato un biglietto: lei era uscita con Hugh, il suo fidanzato (aveva il pomeriggio e la serata liberi) e anche i suoi genitori era andati a trovare degli amici di famiglia. Non fu molto sorpreso di non essere stato invitato, non lo portavano mai con loro quando andavano a trovare gli amici. Che si vergognassero del figlio non era un segreto, e non conoscevano neppure la metà delle cose per cui avrebbero dovuto vergognarsi.
Sam sospirò, chiuse gli occhi, sospirò ancora.
Non aveva più senso rimandare, soprattutto ora che era da solo in casa.
“Max?” chiamò, a voce alta.
Nessuna risposta, e il fantasma non si fece vedere.
“Max?” stavolta a voce più alta. “Ho notizie dei tuoi genitori!”
Attese, ma niente.
Scoraggiato, rientrò in camera sua, e lo trovò lì.
Il ragazzo era seduto sul pavimento, sotto la sua finestra, e si teneva le ginocchia tra le braccia.
Sam gli sorrise. “Ciao.”
Maxwell ricambiò il sorriso, ma non disse nulla.
Sam lo osservò. Il suo corpo, seduto, fluttuava a circa un centimetro, ma uno dei suoi piedi era sprofondato nel pavimento. Evidentemente Max non se n’era accorto, perché continuava a fissarlo senza parlare.
“Non sono arrabbiato” disse allora Sam. “Cioè, non so se eri preoccupato di questo, comunque non sono arrabbiato. Hai ragione, sono fatti tuoi. E non voglio insistere. Mi dispiace per l’altro giorno.”
Max distolse lo sguardo e si accorse del piede. Lo sollevò.
“Dispiace anche a me. È difficile parlarne.”
Sam annuì. Si avvicinò e si sedette accanto a lui sul pavimento, nella stessa posizione. Max lo seguì con gli occhi per tutto il tempo, ma non si mosse.
“Tua madre è ancora viva. Tuo padre non lo so” disse senza preamboli. Mentre tornava a casa, dopo la telefonata, aveva pensato a lungo su come affrontare quella conversazione, e aveva deciso che il modo migliore era fare un discorso diretto. “Hanno divorziato poco dopo aver lasciato questa casa. Tua madre vive in Scozia con la sorella. Non si è risposata, non ha avuto altri figli. Credo che stia bene.”
Max annuì. “Speravo si separassero. Le cose non andavano bene neppure quando ero in vita, e quando mia madre è caduta in depressione l’unica cosa che desideravo era che mio padre si allontanasse da lei.”
“Posso capirlo…” mormorò Sam.
“Grazie per avermi aiutato. E per avermi lasciato il libro aperto anche in questi giorni in cui sono sparito. L’ho finito.” Max gli sorrise debolmente.
“Di nulla.” Anche Samuel gli sorrise.
Rimasero in silenzio per qualche minuto, seduti uno accanto all’altro, senza toccarsi, senza guardarsi. Sam guardava dritto davanti a sé, Max fissava le proprie mani.
Il fantasma strinse i pugni, poi disse: “AIDS.”
Pronunciò la parola a voce alta e ferma.
Sam impiegò un secondo per assorbire l’informazione, poi si voltò lentamente a guardarlo, ma il ragazzo si stava ancora fissando le mani con insistenza.
“È così che sono morto” aggiunse, anche se Sam lo aveva capito.
Conosceva l’argomento, anche perché un paio d’anni prima, quando era morto Freddie Mercury, se n’era parlato molto ovunque in televisione, e persino a scuola. In particolare, la prima cosa che Sam associava all’AIDS era il fatto che suo padre la chiamasse “malattia dei gay”. E forse proprio per questo motivo un pezzo del puzzle andò al suo posto.
“Per questo sapevi che Aidan Ellis era morto?” chiese, cercando di farlo nella maniera più delicata possibile. “Perché era il tuo…” sentì le proprie guance andare in fiamme. “Ce l’aveva anche lui?”
E pensare che fino a dieci secondi prima aveva pensato che Max fosse innamorato di Sarah.
Max annuì, ma continuò a non guardarlo in viso.
“Mi dispiace” disse Sam, sentendosi ridicolo. Ma cosa mai avrebbe potuto dire? “Deve essere stato terribile” aggiunse. La fiera delle banalità.
“Per questo non volevo dirtelo” disse Max, che per fortuna non poteva leggergli nel pensiero. “Secondo mio padre è stata la giusta punizione per ciò che sono. Come puoi immaginare, non mi fa impazzire sentirmelo dire.”
L’espressione di Sam si indurì. “Non ti avrei mai detto una cosa del genere! Non sono tutti stronzi come tuo padre” disse. “Nessuno merita una punizione del genere, soprattutto non per il fatto di essere…” si interruppe, perché non pronunciava mai quella parola a voce alta. Mai.
Solo allora Max finalmente alzò la testa per guardarlo negli occhi.
Un lampo di comprensione passò tra loro, ma nessuno dei due disse qualcosa a riguardo.
In compenso, Maxwell si sentì più libero, e decise di raccontare la sua storia.
“Noi ragazzi del quartiere uscivamo spesso tutti insieme” iniziò, distogliendo di nuovo lo sguardo da Sam. “Ci piaceva andare per locali a bere, ogni sera in un posto diverso. Ma non eravamo degli alcolizzati, lo giuro” aggiunse, sorridendo e lanciando un’occhiata a Samuel con la coda dell’occhio. L’altro ragazzo sorrise e incrociò le gambe, mettendosi comodo per l’ascolto.
“Eravamo un bel gruppo” proseguì Max. “Alcuni di noi, come me e Sarah, frequentavano ancora la Walker, mentre altri erano già al college, ma tornavano a casa abbastanza spesso.” Fece una pausa e prese fiato, proprio come fanno i vivi per infondersi coraggio. “Non ho mai avuto un ragazzo, ma mi era sempre piaciuto Aidan.”
Attese qualche istante, adesso che aveva parlato senza filtri e che non c’era spazio per i malintesi aveva paura di aver frainteso Sam, e invece il ragazzo non disse nulla, si limitò a guardarlo con espressione rilassata, in attesa che continuasse.
“Quando ho capito che anche Aidan era gay ci ho provato con lui, e alla fine abbiamo fatto sesso. Solo una volta.” Fece un’altra pausa, per raccogliere i pensieri. “Lui voleva divertirsi, non gli interessava una relazione. A me si spezzò un po’ il cuore” concluse a voce bassa e con un sorriso amaro.
“Mi dispiace” disse di nuovo Sam.
“Grazie” rispose Max. “Comunque, non è che fossi innamorato perso o cose del genere. Andai avanti con la mia vita.”
“È così che ti sei ammalato?” Era servito tutto il coraggio di Samuel per riuscire a porre quella domanda.
Max annuì. “È stata la mia prima e unica volta, e non usammo protezioni. Sono stato un idiota. Sarebbe bastato così poco per…”
Per non morire. Lo pensarono entrambi, ma nessuno dei due lo disse a voce alta.
“Lui sapeva già di essere malato?”
“No, non credo” rispose Max. “Però qualche mese dopo smise di uscire di casa e i genitori non ci permisero di fargli visita. Nessuno ci disse ufficialmente che era malato, ma lo ipotizzammo subito, anche se non avremmo mai indovinato di cosa soffriva.”
Sollevò la testa per fissare il soffitto, come si fa quando vuoi trattenere le lacrime. “Poche settimane dopo anche io iniziai ad avvertire i primi sintomi. Fu Sarah a capire per prima che cosa avevo. Lei sapeva di… bè, di me, di ciò che ero, di quello che c’era stato tra me e Aidan.”
Max stava parlando molto lentamente. La sua voce roca era stranamente melodiosa alle orecchie di Sam. “Solo grazie a lei trovai la forza di dirlo ai miei genitori.”
“Come hanno reagito?” domandò Sam, a cui la sola idea di affrontare un argomento del genere con suo padre terrorizzava quasi più dell’idea di morire.
“Non bene” disse prevedibilmente Max. “Mio padre voleva buttarmi fuori di casa.”
“Mi ricorda mio padre…” mormorò l’altro.
Max gli sorrise tristemente.
“Mia madre era disperata” continuò. “Non so come avrebbe reagito all’idea di avere un figlio gay in altre circostanze, ma in quel momento il fatto che con tutta probabilità sarei morto a breve aveva preso il sopravvento. Convinse mio padre a tenermi e farmi visitare dai migliori medici in circolazione, ma solo quelli fidati, ovviamente. Non si poteva sapere cosa mi era capitato.”
“Immagino sia stato così anche per Aidan e la sua famiglia” commentò Sam, ricordandosi gli annunci di morte così vaghi.
“Gli Ellis accettavano l’omosessualità del figlio, però non volevano sbandierarla ai quattro venti, e soprattutto non volevano che si sapesse perché stava male. Era così per tutti, era una cosa di cui doversi vergognare.”
“Vorrei poterti dire che le cose sono migliorate” disse Sam. “Ma in realtà… insomma, non più di tanto.”
Max fece un sospiro rassegnato. “Comunque, io sono stato fortunato. Le macchie mi hanno risparmiato il viso e le mani, e ho potuto fare la vita di sempre più a lungo di Aidan.” Si sfregò le braccia coperte dalla maglia, sotto la quale probabilmente c’erano stati i segni della malattia. “Penso che con il tempo sarei diventato irriconoscibile, ma sono morto prima che accadesse. È successo all’improvviso. Ho avuto una crisi, e semplicemente non mi sono ripreso. I medici mi avevano già condannato a mesi, forse anni, di sofferenza. Sono stato fortunato anche in questo, ho sofferto meno di tanti altri” concluse.
Sam non sapeva cosa dire. Adesso capiva perché Max era stato così sfuggente. Tutto quello che voleva fare era abbracciarlo e consolarlo, dirgli che sarebbe andato tutto bene… ma la verità era diversa. Max era morto. Non c’era niente che potesse farlo sentire meglio, niente che potesse dargli speranza.
Quei pensieri gli si leggevano in viso.
“Forse non avrei dovuto raccontarti queste cose” disse Maxwell.
“Cosa?” Sam fu colto alla sprovvista. “Cos- No! Io… sono contento che tu me le abbia raccontate. Sono solo…”
“Impietosito?” rise amaramente Max.
“Un po’” rispose sinceramente Samuel. “Sono solo dispiaciuto. Vorrei poter fare qualcosa per farti sentire meglio.”
“Hai fatto già moltissimo” gli disse il fantasma. “Non ti ringrazierò mai abbastanza.” Poi, siccome si accorse che l’espressione dell’altro continuava ad essere così triste, aggiunse: “In realtà c’è una cosa che potresti fare. Potresti prestarmi un altro libro.”
Si sorrisero.
“Affare fatto” disse Sam, che sciolse l’incrocio di gambe e si risedette nella stessa posizione di Max, appoggiando la schiena al muro sotto la finestra.
Rimasero in silenzio, guardando dritti davanti a loro, proprio dove si trovava la libreria di Sam, dall’altra parte della stanza.
Sam addirittura chiuse gli occhi, riflettendo su tutto quello che Max gli aveva raccontato.
Poi, improvvisamente, qualcosa gli bruciò la mano.
“Ah!” esclamò per il dolore e la sorpresa, tirando il braccio bruscamente, ma senza sollevare la mano dal pavimento su cui era poggiata. Si fissò le dita, ma non c’era fuoco, ovviamente, e neppure escoriazioni o rossore.
“Scusa” sussurrò la voce roca di Max.
Confuso, Sam lo guardò. Il fantasma aveva girato il viso per non rivolgergli lo sguardo, ma il ragazzo si accorse che accanto alla propria mano c’era quella di Max, più luminosa rispetto al resto del corpo.
Era stato il suo tocco a bruciare.
Senza dire una parola, preparandosi psicologicamente al dolore, Sam avvicinò di nuovo la mano a quella di Max, e gliela strinse.
Non faceva così male. Il fattore sorpresa, prima, doveva aver peggiorato la sensazione, ma adesso era sopportabile, anche se si trattava comunque del tocco più caldo che Sam avesse mai sentito su un fantasma.
Max ricambiò la stretta, e poi fece scivolare le proprie dita tra quelle dell’altro.
Con il cuore che gli batteva forte, Sam osservò le loro mani intrecciate.
Era la cosa più strana e spaventosa che gli fosse mai capitata, tenere per mano un ragazzo in quel modo, senza tralasciare il fatto che si trattava di un ragazzo morto dieci anni prima. Eppure, allo stesso tempo, non c’era niente di strano o di sbagliato, aveva la sensazione di aver compiuto quel gesto centinaia di altre volte.
Si chiese se anche per Max era la stessa cosa, e quando sollevò lo sguardo per guardarlo in viso, si accorse che Max lo stava già osservando.
Quando i loro occhi si incontrarono la magia di quel momento si spezzò. Max ritirò la mano bruscamente, perse ogni solidità, fluttuò lontano dal pavimento, in alto, quasi fino al soffitto, fino al lato opposto della camera, il tutto nel giro di pochissimi secondi.
E poi sparì attraverso la parete.
 

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Capitolo 8
*** Altalena di emozioni ***


8. Altalena di emozioni

Sam trascorse il resto della giornata a cercare Max in tutte le stanze della casa, ma il fantasma riuscì ad evitarlo senza problemi.
Non sapeva neppure cosa gli avrebbe detto se lo avesse finalmente trovato, sapeva soltanto che voleva assicurarsi che stesse bene e che le cose tra loro non fossero cambiate. A giudicare dalla reazione di Max, comunque, era chiaro che le cose non sarebbero più state le stesse.
Trascorse una notte insonne, il povero Sam. Non riusciva ad addormentarsi e continuava ad accendere la luce e guardarsi intorno nella stanza nella speranza di vedere che Max era tornato da lui, cosa che ovviamente non successe.
La mattina successiva stava malissimo. Si lavò, si vestì e infilò le cose della scuola nello zaino come un automa, senza rendersi neppure conto di quello che faceva. Poco prima di uscire provò di nuovo a chiamare il fantasma, sussurrando il suo nome, ma non servì a nulla.
Con un sospiro e l’aria di un condannato, Sam si avvicinò alla libreria e diede un’occhiata ai suoi romanzi. Aveva altri libri di Jules Verne, ma forse Max li aveva già letti. Poi il suo occhio cadde su Jurassic Park. Era stato pubblicato parecchi anni dopo la sua morte, quindi era impossibile che lo avesse letto, a meno che non lo avesse ‘preso in prestito’ alla famiglia Hendricks. Valutando che avrebbe potuto piacergli, lo posizionò sul letto come aveva sempre fatto con Ventimila leghe sotto i mari.
Saltò la colazione, e Mindy lo trovò in uno stato talmente pietoso che credette si fosse ammalato.
Persino Amy Beth e Brandon si accorsero che qualcosa non andava, però Sam disse che semplicemente non voleva parlarne e i due amici non insistettero.
 
Fu una mattinata terribile. Sam non riuscì a concentrarsi su nessuna lezione e per la prima volta in vita sua desiderò di pranzare da solo.
Ovviamente aveva sempre pranzato da solo prima di conoscere Brandon, ma non era stata di certo una scelta. Adesso invece voleva solo essere lasciato in pace.
Max era arrabbiato? Con chi? Con se stesso oppure con Sam? E in entrambi i casi, perché?!
E se non era arrabbiato, era… imbarazzato?
Sam si sentiva esattamente così, imbarazzato. Ma anche emozionato e preoccupato, perché temeva di aver fatto qualcosa per allontanare Max.
Ma non aveva fatto niente di sbagliato, no?
Per altri versi, invece, quello che era successo tra loro era quasi spaventoso.
“Stai bene?” domandò una voce familiare.
Sam si riscosse dai suoi pensieri, e si ritrovò davanti quattro ragazzi che lo fissavano perplessi.
Era stato Archer a parlare.
“Sì, sto bene” rispose, abbassando lo sguardo sul suo vassoio e rendendosi conto di non aver neppure iniziato a mangiare. I piatti degli altri erano praticamente vuoti.
“Ne sei sicuro?” chiese Nathan.
“Non sembra proprio” gli fece eco Vinnie.
“Stai fissando il vuoto senza ascoltarci” concluse Brandon.
“No, scusate, sono solo distratto.”
“Beh, concentrati” continuò l’amico.
“Sì. Che stavate dicendo?”
“Che c’è quel ragazzo…” Archer guardò di lato, verso uno dei tavoli in fondo alla sala mensa. “…che cerca di attirare la tua attenzione da cinque minuti buoni. Forse dovresti rispondergli.”
Quel ragazzo era ovviamente Thomas. Dannazione.
Sam sollevò lentamente la mano e la mosse in segno di saluto.
Thomas, che era seduto come al solito con le sue amiche, prese il gesto come un invito ad avvicinarsi e si alzò. Si mise lo zaino in spalla e raggiunse il tavolo di Samuel e degli altri.
“Ciao, ragazzi” salutò, un po’ impacciato.
Gli altri cinque mormorarono dei saluti.
Brandon gettò un’occhiata a Sam e, visto che l’amico non si decideva a fare le presentazioni, ci pensò da solo.
“Brandon” disse, allungando il braccio per stringergli la mano.
“Thomas” rispose l’altro, con un sorriso.
Archer, Nathan e Vinnie fecero lo stesso.
In quel momento si avvicinò come al solito Diana, per una volta accompagnata da Amy Beth.
“Ciao, ragazzi” esordì Diana. Amy Beth accennò un saluto con la testa. Oggi le treccine non erano sciolte, ma legate in una coda di cavallo che la faceva sembrare ancora di più una modella. Archer la fissò ipnotizzato per qualche secondo.
Diana guardò Vinnie. “Andiamo?”
“Yep” Vinnie sgusciò via dalla panca e prese la mano della ragazza. “Ci vediamo più tardi” salutò gli altri. Tutti i giorni andavano ad appartarsi in cortile prima che ricominciassero le lezioni. Si dileguarono in fretta.
Amy Beth si sedette al posto di Vinnie e Thomas rimase fermo e imbarazzato, in piedi, a fissare Sam.
Brandon indicò il posto accanto a sé. “Non ti siedi?”
“Oh” Thomas sembrò sorpreso dell’invito. “No, in realtà volevo solo dire a Sam…” e lasciò la frase in sospeso.
Sam impiegò un istante tremendamente lungo a capire che Thomas voleva parlargli delle ripetizioni e che stava temporeggiando perché non sapeva se voleva discuterne davanti agli amici.
Sam non si era mai preoccupato che qualcuno sapesse delle sue difficoltà a scuola, ma d’altra parte non aveva mai avuto amici prima d’allora. Un po’ gli importava che non lo considerassero uno stupido, ma come avrebbe spiegato ai King che non sarebbe tornato più a casa con loro tutti i giorni? Non gli andava di mentire.
“Thomas è il mio tutor” disse infine, guardando Brandon. Poi alzò gli occhi sul diretto interessato. “In biblioteca appena finiscono le lezioni?”
Thomas sorrise. “Perfetto. A dopo.” Fece un cenno di saluto anche a tutti gli altri, e si incamminò fuori dalla sala.
Nessuno commentò la notizia e la conversazione al tavolo riprese come se niente fosse, e per Sam fu un sollievo.
 
Aveva passato l’ultima ora di lezione a prepararsi psicologicamente all’inizio delle ripetizioni con Thomas. Il che era un bene, perché almeno aveva smesso di rimuginare su Maxwell e sulle loro mani intrecciati.
Quando suonò la campanella fu quasi tentato di darsela a gambe e tornare a casa, invece si fece forza e andò al suo armadietto a prendere i libri.
Avrebbe scelto un tavolo della biblioteca isolato, avrebbe tirato subito fuori i libri e avrebbe addirittura iniziato a studiare da solo, poi Thomas lo avrebbe raggiunto, non avrebbero perso tempo in chiacchiere e sarebbe stato come studiare con Amy Beth, si disse Sam.
Invece, come sempre, i suoi piani furono rovinati.
Chiuse l’armadietto e si ritrovò il viso sorridente di Thomas a mezzo metro dalla sua faccia.
“Pronto?” domandò il ragazzo.
Sam fu preso in contropiede e la sua espressione mostrava tutta la sua sorpresa.
“Ti ho visto e ho pensato che potevamo andare in biblioteca insieme” disse subito Thomas, con un sorriso di scuse. “Ma magari hai altro da fare prima. Ci vediamo là.”
E in men che non si dica sparì alla vista.
“Dannazione” borbottò Sam tra sé, sbattendo la porta dell’armadietto e cominciando a corrergli dietro con i libri tra le braccia.
“Ehi!” strillò, e per fortuna Thomas lo sentì subito.
Il tutor si girò, lo vide e si fermò ad aspettarlo.
“Possiamo andare insieme” gli disse Sam, riprendendo fiato per un attimo, una volta che l’ebbe raggiunto. “Non ho niente da fare” aggiunse con il tono di chi constatava l’ovvio.
“Pensavo dovessi salutare i tuoi amici” rispose Thomas.
Ah, già, adesso aveva degli amici.
“Nah” disse solo, perché li aveva salutati a pranzo, visto che erano tutti più piccoli di lui di un anno, e quindi non avevano lezioni in comune.
Proseguirono in silenzio lungo il corridoio pieno zeppo di studenti. La maggior parte di loro andava a casa, altri si dirigevano nelle sedi dei loro club, altri ancora, pochi, puntavano come loro alla biblioteca.
Ogni tanto Thomas osservava Sam con la coda dell’occhio, con la voglia di dire qualcosa, ma alla fine si arrendeva sempre e non proferiva parola.
Sam, che non aveva fatto in tempo a infilare i libri nello zaino quando aveva letteralmente inseguito Thomas, stringeva i volumi tra le braccia come se potessero dargli forza.
Quando misero piede in biblioteca, senza neppure consultarsi tra di loro entrambi puntarono il tavolo più appartato dell’intera sala, nascosto dietro tre alti scaffali di libri. Era il posto migliore per studiare in tranquillità ed era raro trovarlo libero, con disappunto di Sam.
Quando finalmente riuscirono a sbirciare dietro uno degli scaffali e si accorse che non era occupato, a Sam scappò un sospiro di sollievo che fece ridacchiare Thomas.
“Bene” disse quest’ultimo, posando platealmente il proprio zaino sul tavolo. “Nascosti a occhi indiscreti. Non dovrai preoccuparti di rovinare la tua reputazione.”
“Ah ah ah. Divertente” finse di ridere Sam, però gli sorrise con sincerità.
“Da quale materia vuoi iniziare?” chiese Thomas, tornando serio e prendendo posto.
Sam si sedette di fronte a lui. “Da quella che vuoi.”
“Letteratura? Abbiamo un test tra due giorni.”
“Perfetto.”
 
Fu straordinariamente piacevole e addirittura rilassante studiare con Thomas. Era un ottimo tutor, anzi, era persino più bravo di alcuni insegnanti. Nonostante in due ore non fecero altro che studiare, senza la minima distrazione, trascorsero senza che a Sam venisse voglia di gettarsi dalla finestra. Cosa rara, quando studiava.
“Direi che per oggi possiamo darci un taglio, che ne dici?” domandò Thomas appena finì di correggergli le risposte ad un test di prova.
“Ci vediamo anche domani?” chiese Sam, guardando qualsiasi cosa tranne il viso del ragazzo.
“Non posso. Ho il club di Politica.”
“Oh. Non lo sapevo” disse Samuel, spostando lentamente gli occhi su di lui.
“Tranquillo” disse Thomas. Sfogliò uno dei suoi quaderni finché non trovò una pagina vuota e poi prese in mano una matita. “Se mi dici quando sei impegnato con i tuoi club, possiamo organizzarci.”
“Non sono iscritto a nessun club” disse Sam.
Thomas aggrottò le sopracciglia. “Davvero?”
Sam si strinse nelle spalle.
“Non voglio offenderti, ma… posso essere brutale?” chiese Thomas, giocherellando nervosamente con la matita.
“Spara” sospirò rassegnato l’altro.
“Con i tuoi voti… ti farebbe bene iscriverti almeno a un paio di club. La tua domanda per il college ne ha davvero bisogno.”
Sam distolse lo sguardo, imbarazzato. Thomas aveva ragione, ovviamente.
“Beh, ormai è troppo tardi. Bisogna iscriversi a settembre.”
“Ce ne sono alcuni che bloccano le iscrizioni solo da febbraio, quindi saresti ancora in tempo. Il club di Storia, ad esempio. Sono iscritto anche io lì.”
Sam lo guardò di nuovo negli occhi. “Non sono convinto.”
“E il club di Arte?”
“Mmm…”
“Dai, Sam!” Adesso Thomas aveva perso tutta la delicatezza che aveva cercato di infondere ai propri modi. “Lo so che disegni. Ti ho visto. E sei anche bravo, per la miseria!” Incrociò le braccia. “Che cosa ti costa farlo in una classe insieme ad altre persone invece che in corridoio, in mensa o in cortile?”
“Che fai? Mi spii?” replicò Sam, punto sul vivo.
“No, Sam, non ti spio. Non puoi spiare qualcuno che non si nasconde. Semplicemente osservo.”
Un punto per Thomas. Sam era talmente abituato ad essere invisibile come uno dei suoi amici fantasmi che non si sforzava di nascondersi.
“Che te ne frega, comunque?” sbottò allora, punto sul vivo, incapace di difendersi con argomentazioni valide. E funzionò.
Thomas stava per rispondere, ma si bloccò. Sospirò, poi cominciò a raccogliere le sue cose e ad infilarle nel suo zaino.
“Hai ragione” disse, senza guardare Sam in faccia. “Non me ne frega niente di te.” Si bloccò per un secondo, con un libro a mezz’aria, e si corresse alla velocità della luce: “Non me niente di quello che fai. Non sono affari miei. Ci vediamo qui mercoledì dopo le lezioni. Continuiamo con letteratura, il test è il giorno dopo.”
Si gettò lo zaino sulla schiena e gli voltò le spalle, senza neppure salutarlo.
 
“Avete un vero talento per mandare nel pallone quel ragazzo, Samuel” commentò una voce familiare. “Mandare. Nel. Pallone” ripeté lentamente Rose. “Che espressione buffa. Da cosa deriva? L’ho imparata ieri in cortile” aggiunse.
Sam si voltò verso destra e vide il fantasma della ragazza farsi sempre più vicino. La biblioteca era bene illuminata quindi il chiarore emanato da lei quasi non si notava, e dato che l’abito lungo le copriva i piedi nascondendo il suo fluttuare a filo con il pavimento, sembrava proprio una persona viva. Se si ignorava il pugnale che le spuntava dal petto, ovviamente.
“Non ne ho idea” rispose Sam, strofinandosi gli occhi.
“Posso?” domandò ancora Rose, e senza aspettare il permesso si sedette nel posto lasciato libero da Thomas. “Sembrate molto stanco.”
“Lo sono” disse Sam, affondando la testa tra le braccia appoggiate sul tavolo.
“È per questo che vi siete arrabbiato senza ragione?”
“Mi stavate spiando anche voi!?” borbottò il ragazzo, senza riemergere dalla sua posizione.
“Come sempre, mio caro.”
Sam sospirò e finalmente sollevò la testa. “Non è stato senza ragione” disse, ma non sembrava troppo convinto.
“Sir Thomas voleva solo aiutarvi, era evidente. Dunque, qual è la ragione?”
Non sembrava che volesse fare polemica, era genuinamente curiosa.
“La ragione è che non mi piace che mi si ricordi che sono un fallito” rispose Sam, abbassando la voce il più possibile.
“Ma questo è un problema vostro, non di Sir Thomas. Dovreste arrabbiarvi con voi stesso, non con lui.”
Samuel le lanciò un’occhiataccia, ma l’espressione tranquilla e affettuosa di Rose sciolse il suo orgoglio.
“Avete ragione. Infatti in realtà sono arrabbiato con me, non con lui.”
“Dovreste dirglielo” fece notare la ragazza, posando la propria mano su quella di lui, come faceva spesso per confortarlo.
Sam rabbrividì per il tocco ghiacciato e si ricordò di quello ben diverso di Max.
Possibile che avessero condiviso quel momento soltanto la sera prima? Gli sembrava fossero passate settimane.
 
Quando tornò finalmente a casa e salì in camera sua, Sam si accorse che Maxwell aveva iniziato a leggere il libro, e notò una matita per terra, vicino alla scrivania. Si avvicinò. Sul suo blocco da disegno, qualcuno aveva scritto un Grazie in maniera piuttosto irregolare.
Sorrise. “Max?” chiamò, con la voce carica di speranza.
Nessuna risposta.
Riprovò un altro paio di volte, poi finalmente si arrese.
Anche quella notte non dormì bene, e il giorno dopo le cose si fecero ancora più frustranti. Adesso non c’era solo Max ad evitarlo, ma anche Thomas, che si tenne alla larga da lui persino quando Sam tentò di avvicinarlo a pranzo.
Così chiese a Brandon e Amy Beth di aspettarlo una decina di minuti per tornare a casa insieme, e dopo le lezioni corse ad appostarsi davanti all’aula dove si riuniva il club di Politica, come un bravissimo stalker.
Non dovette aspettare molto.
Thomas, che stava parlando con una ragazza, si accorse di lui soltanto quando gli fu davanti.
“Che ci fai qui?” domandò, senza neanche salutarlo.
“Ci vediamo dentro” gli disse l’amica, facendo solo un cenno con la testa a Sam e proseguendo oltre la porta.
Sam lo guardò in silenzio finché tutti gli studenti raggruppati lì vicino non si dispersero.
“Allora?” sbottò ancora Thomas, che però non si era mosso.
“Ciao” esordì Sam. Sollevò un angolo della bocca in un sorriso un po’ imbarazzato.
Thomas distolse lo sguardo, inspirando profondamente. “Allora?” chiese di nuovo, ma questa volta il tono era decisamente meno ostile.
“Mi dispiace per ieri” disse Sam. “Scusami.”
Thomas lo osservò per qualche istante. “Scusami anche tu. Sono affari tuoi quello fai oppure no, non dovevo insistere.”
“No, hai…” Sam si strofinò il naso. Non aveva davvero pensato a cosa dirgli, non si era preparato un discorso nella sua testa come al suo solito. Grave errore. “Hai fatto bene. Avevi ragione. Penso che potrei… potrei iscrivermi al club di Arte.” Non ci aveva pensato davvero, ma adesso, dicendolo a voce alta, si rese conto che lo avrebbe fatto sul serio. Non per poterlo mettere sulla domanda per il college, ma per se stesso.
Thomas gli sorrise e Sam fece lo stesso.
“Niente club di Storia?” domandò scherzosamente.
Il sorriso di Sam si allargò. “Non penso proprio. Abbiamo già un sacco di ore di lezioni, cosa ci può essere di interessante in un club di Storia?” chiese, cercando di mantenere un tono scherzoso.
Thomas aprì la bocca per rispondere ma poi si morse le labbra, ripensandoci. Però qualcosa nell’espressione di Sam gli diede il coraggio di parlare lo stesso. “Ci sono io nel club di Storia” disse.
Distolse subito lo sguardo da Sam e si spostò di lato per entrare in aula.
“Ci vediamo domani in biblioteca” disse a voce un po’ più alta, lasciando Sam confuso, sbigottito e senza parole.
 
Inutile dire che dieci secondi dopo si precipitò nella segreteria degli studenti per iscriversi al club di Arte e a quello di Storia. Sopportò senza fiatare la doverosa battuta sul ‘meglio tardi che mai’ della segretaria e poi raggiunse di corsa Brandon e Amy Beth che per fortuna lo stavano ancora aspettando.
“Era ora” commentò Amy Beth. Cominciarono ad incamminarsi verso il cancello della scuola, mentre Brandon inforcava le cuffie limitandosi a gettargli solo un’occhiata curiosa.
“Scusate” disse Sam, parlando al plurale ma ovviamente rivolgendosi solo alla ragazza.
“Che succede?” domandò lei.
Sam in quelle ultime settimane stava imparando che avere degli amici era più impegnativo del previsto, dato che a quanto pare bisognava tener conto con loro di un sacco di cose, ad esempio le motivazioni per cui erano costretti ad aspettarti all’uscita da scuola.
“Mi sono iscritto ad un paio di club” rispose.
“Perché?” Amy Beth aggrottò le sopracciglia, sorpresa e diffidente al tempo stesso. Lei era iscritta al club di Letteratura, mentre Brandon aveva detto che si sarebbe iscritto a quello di Musica l’anno successivo.
“Faranno bella figura sulla mia domanda per il college, a quanto pare.”
“Oh, ok” commentò la ragazza, ma non sembrava convintissima, forse anche a causa del rossore sulle guance di Sam, dato che la vera ragione per cui si era iscritto al club di Storia era che Thomas aveva appena flirtato con lui!
Ma era successo davvero?
Insomma, Samuel non aveva la più pallida idea di come funzionassero le interazioni sociali tra i ragazzi della sua età. Aveva letto libri e visto qualcosa alla televisione, ma quella non era la vita vera. Nella realtà non aveva mai flirtato con nessuno ed era abbastanza certo che prima di Thomas nessuno avesse mai flirtato con lui, quindi come faceva ad essere sicuro di non aver frainteso?
Non si era mai sentito così emozionato e agitato. Con quale faccia si sarebbe presentato al club? Con quale faccia si sarebbe presentato in biblioteca il giorno dopo?!
“Stai bene?” chiese Amy Beth, perplessa.
“Potrei vomitare” rispose Sam, fermandosi all’improvviso sul marciapiede. All’improvviso aveva perso il sorriso e anche il rossore, anzi, era diventato pallidissimo. Strinse forte gli spallacci dello zaino con entrambe le mani, guardando fisso per terra.
Anche la ragazza si fermò, e così fece il fratello, togliendosi le cuffie e lasciandole appoggiate sulle spalle.
“Sam?” domandò Brandon.
“Ha detto che gli viene da vomitare” lo aggiornò la sorella.
Entrambi lo fissarono preoccupati.
“Sto bene” disse Sam, facendo un respiro profondo.
Ma i suoi amici non si lasciarono ingannare. Lo tennero d’occhio per tutto il tragitto, Brandon rinunciò addirittura alla musica, e insistettero per entrare con lui in casa e assicurarsi che qualcun altro si prendesse cura di lui.
Per fortuna entrambi i genitori di Sam erano ancora al lavoro, ma Mindy era entusiasta di conoscere finalmente di persona i famosi ragazzi dei King. A quanto pareva, la governante dei Robertson aveva stretto amicizia con i vicini di casa, durante le ore scolastiche.
“Non credo tu abbia la febbre” disse Mindy, con il palmo della mano appoggiato sulla fronte di Sam, mentre quest’ultimo si sfilava zaino, giubbotto e giacca della divisa. “Ti fa male lo stomaco?”
“No” rispose frettolosamente, un po’ in imbarazzo.
Mindy guardò Amy Beth e Brandon. “Perché non salite tutti e tre in camera di Sam? Vi porto qualcosa per fare merenda. Preferenze?”
Sam si sentì ancora peggio. Guidò i suoi amici al piano di sopra come se stesse andando al patibolo, e quando aprì la porta della sua stanza quasi cacciò un urlo.
“Sam?!” Brandon lo prese per una spalla e lo fece girare verso di lui senza sforzo. Nonostante fosse un anno più piccolo, Brandon era più alto e più forte di lui, poteva manovrarlo come un burattino.
C’era Maxwell seduto sul suo letto.
“Sto bene” disse Sam, senza togliere gli occhi dal fantasma, che lo stava guardando a sua volta.
“Scusa” sussurrò Max, anche se non ce n’era bisogno, perché i King non potevano sentirlo. “Volevo…” gesticolò proprio nella direzione di quei due, alzandosi in piedi. “Wow…” sorrise. “Sono… sono cresciuti.”
L’espressione dolce di Max fece dimenticare per un attimo a Sam di essere arrabbiato con lui, ma se ne ricordò subito. Gettò lo zaino ai piedi del letto in modo che attraversasse brutalmente le gambe del fantasma.
“Fate come se foste a casa vostra” disse agli altri.
Brandon si guardò intorno. La stanza di Sam era completamente diversa da quelle dei King, sembrava molto impersonale. Le uniche cose che non la facevano sembrare una camera d’albergo erano la libreria piena di volumi colorati e la scrivania disordinata.
Amy Beth diede un’occhiata al libro sul letto, sotto lo sguardo incantato di Max.
Jurassic Park” lesse la ragazza. “Quest’estate uscirà un film. È di Spielberg” disse.
“Lo hai letto?” chiese Sam.
“No, ma guarderò il film” sorrise Amy Beth. “Preferisco la letteratura russa ai dinosauri.”
“Assurdo” la prese in giro Brandon.
Max seguì la ragazza con lo sguardo mentre si avvicinava alla scrivania. E Sam, che era completamente preso da lui, si rese conto in questo modo di quello che stava facendo Amy Beth.
“Ah! Frena!” esclamò, chiudendo di scatto il blocco da disegno.
“Mi hai promesso che prima o poi mi farai vedere qualcosa” disse Brandon.
“Anche a me” aggiunse Amy Beth.
“Io non ho promesso niente a nessuno” specificò Sam, anche se non era vero, perché a Brandon lo aveva promesso sul serio. Ma in quel momento non aveva nessuna intenzione di mostrare i suoi schizzi, dato che tra gli ultimi figurava un ritratto di Amy Beth che lo avrebbe messo in una posizione ancor più imbarazzante di quella in cui già si trovava.
“Hanno la tua età anche loro, giusto?” domandò Max, sempre a voce bassa.
Sam annuì, lanciando un’occhiata a Amy Beth. Poi spostò lo sguardo su Brandon e, muovendo solo le labbra senza proferire alcun suono, disse: “Meno uno.”
“Sì, giusto” commentò Max, aggrottando le sopracciglia, confuso dall’aver dimenticato che non erano gemelli.
Si sentì bussare alla porta e Sam si precipitò ad aprire.
Mindy fece il suo ingresso con un vassoio su cui c’erano tre tazze, una teiera e tre fette della sua famosa torta al cioccolato, che aveva rifatto proprio quella mattina.
Mentre gli ospiti ringraziavano calorosamente, Sam si guardò intorno e si accorse che Max era sparito.
“Torno subito” mormorò, a tutti e a nessuno, e uscì dalla stanza, tenendosi stretto al petto il blocco da disegno, perché era sicuro che se lo avesse lasciato incustodito Brandon avrebbe sbirciato senza pietà.
Trovò Maxwell in giardino, intento a fissare la casa di fronte, anche se di Sarah non c’era traccia.
Sam rabbrividì avvicinandosi a lui, perché quando lo aveva visto dalla finestra si era precipitato fuori senza neppure mettere la sciarpa.
“Possiamo parlare?” chiese, fissando la schiena del fantasma, cercando di tenere la voce bassa.
Se i suoi amici si fosse affacciati lo avrebbero visto in giardino a parlare da solo, e ci mancava soltanto questa.
“Di cosa vuoi parlare?” domandò Max, girandosi finalmente a guardarlo. La voce sembrava ancora più roca del solito e anche l’espressione tradiva la malinconia con la quale lo aveva conosciuto.
Sam distolse lo sguardo.
Di cosa avrebbero dovuto parlare? Del fatto che ad entrambi non piacevano le ragazze? Del fatto che si erano tenuti per mano? Del fatto che uno di loro era vivo, e l’altro morto?
“Non lo so” disse infine.
Max fece un passo indietro.
“Sam!” urlò Mindy, spalancando la porta d’ingresso. “Cosa diamine stai facendo?!”
Sam si voltò di scatto. Vide Mindy sulla soglia e si accorse che Brandon e Amy Beth stavano sbirciando dalla finestra della sua camera.
Ripercorse il vialetto tornando indietro tremando di freddo e stringendosi sempre più forte al petto il blocco da disegno.
C’era ancora troppa luce fuori per percepire il fioco bagliore di Max alle sue spalle, ma Sam sapeva che lo stava seguendo, per un momento lo percepì vicinissimo.
“Cosa succede?!” chiese Mindy, chiudendo bruscamente la porta appena il ragazzo fu entrato.
“Ti è caduta una matita” disse velocemente Max.
“Mi è caduta una matita” ripeté in fretta Sam.
“Una matita?” domandò perplessa la donna.
Sam fece un breve ma profondo respiro. “Ho visto dalla finestra che quando siamo arrivati mi è caduta una matita in giardino.”
“E non potevi aspettare domani mattina per recuperarla?! Vuoi prenderti un malanno?!”
Mindy incrociò le braccia, e lo guardò con aspettativa. Era chiaro che volesse una prova di quello che il ragazzo aveva appena detto. Lo faceva spesso, quando fiutava una stronzata, e le fiutava spesso, perché era brava. Sam sapeva che lo faceva per il suo bene, perché voleva capire cosa gli passasse per la testa, ma la cosa lo infastidiva parecchio.
“È nella tua tasca posteriore dei jeans” mormorò a voce bassa Max, anche se avrebbe potuto urlare e comunque soltanto Samuel lo avrebbe sentito.
Sam cercò la matita e straordinariamente era proprio lì dove aveva detto il fantasma. “È una di quelle che uso per disegnare. È l’ultima e mi sono dimenticato di comprarle. Mi serve stasera.”
“Ah, buon Dio” borbottò Mindy. “Aspettami qui, così porti di sopra l’acqua per i tuoi amici. Sai se prendono il tè con il latte?” e sparì in cucina.
Sam guardò Max, inarcando le sopracciglia.
Il ragazzo gli sorrise. “Ti era caduta davvero.” Poi attraversò la parete che conduceva al salotto, e sparì.
 
“Sam?”
Sam si rigirò nel letto, non completamente sveglio.
“Sam?”
Sbadigliò e si strofinò gli occhi, perché la luce gli stava dando fastidio.
Ma fuori era ancora completamente buio.
Con un secondo sbadiglio si mise a sedere, abbracciato al piumone. “Che ore sono?” domandò.
“Quasi le due di notte” rispose Max, sedendosi fluttuante sulla scrivania del ragazzo. “Ti sei addormentato da poco, credo.”
“Che cosa succede?” chiese Sam, allo stesso tempo preoccupato ma anche emozionato che Maxwell volesse parlare con lui così tanto da svegliarlo.
“Volevo dirti che mi dispiace per come mi sono comportato” disse il fantasma. “Mi sono… spaventato.”
Non c’era bisogno che Sam chiedesse cosa fosse stato a spaventarlo, perché lo capiva benissimo.
“Anche io” confessò infatti.
Passarono alcuni istanti in silenzio, senza guardarsi, solo tremendamente consapevoli della presenza l’uno dell’altro, poi finalmente Max parlò.
“Sei stato male oggi?” chiese, dato che evidentemente aveva ascoltato il trambusto del rientro da scuola.
“Niente di che” rispose brevemente Sam, arrossendo fino alla punta dei capelli biondi.
“Sei sicuro?” insistette Max, che si era incuriosito a causa della reazione imbarazzata.
“Solo un attacco di ansia” rispose Samuel, cominciando a giocherellare con un angolo del piumone.
“Mi dispiace. C’è qualcosa che non va?”
“Niente di che” rispose di nuovo il ragazzo.
“Non dovresti minimizzare. Un attacco d’ansia non è ‘niente di che’” lo rimproverò Max.
“Lo so, lo so” si affrettò a chiarire l’altro. “Però il motivo è stupido.”
“Se ti provoca ansia, non lo è.”
“Fidati” assicurò Sam, arrossendo ancora di più.
Max cercò di trattenersi dal sorridere, ma non ci riuscì. “Mettimi alla prova.”
Poteva davvero mettersi a parlare di Thomas con Max?
Sembrava assurdo, eppure il fantasma era l’unico a cui Sam potesse davvero raccontare una cosa del genere.
“Credo che una persona abbia flirtato con me a scuola, oggi” disse, evitando accuratamente di guardarlo in faccia.
“Ok…” mormorò Max. “E questa persona… ti piace?”
“Penso di sì” rispose.
“E non dovresti essere contento, allora?”
“Lo sono” disse Sam, guardandolo finalmente di nuovo negli occhi. “Credo. Però non sono sicuro che… insomma, è complicato.”
“Lo so” disse semplicemente Max. “Basta che non sia un professore” aggiunse, con un largo sorriso.
Anche Sam gli sorrise. “Non lo è” disse.
“Allora va bene. Buttati!”
“Certo, come no” scosse la testa Sam.
“Dico sul serio.”
“Sei pazzo.”
“Può essere.” Max si alzò e fluttuò fino al letto, mentre Sam tratteneva il fiato senza neppure accorgersene.
Una delle mani del fantasma cominciò a brillare di più rispetto al resto del corpo e, passando accanto a Sam, gli scompigliò debolmente i capelli.
“Buonanotte” disse Maxwell, sparendo oltre la porta chiusa.
“Notte” mormorò Sam, da solo e al buio, portandosi le dita alla fronte, dove il tocco di Max aveva lasciato un leggero bruciore.

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Capitolo 9
*** Una cena particolare ***


9. Una cena particolare

Max non si fece trovare in giro il mattino successivo, e la giornata scolastica proseguì come al solito.
Nonostante il nervosismo di Sam per le ripetizioni con Thomas, anche quelle filarono lisce. Entrambi si comportarono nel modo più naturale possibile.
Thomas con più successo di Sam.
“Quindi…” disse il tutor a fine lezione, prendendo in mano penna e quaderno. “…club di Arte?” domandò. “Se non sbaglio è domani, prima del club di Storia.”
“Sì” rispose Sam nervosamente, senza sapere come confessargli che si era iscritto anche a quello.
“Quindi domani pomeriggio non riusciamo proprio a vederci, né prima né dopo” tirò una linea sul quaderno, poi alzò lo sguardo e fissò Sam negli occhi. “Peccato” disse. Poi tornò in fretta a guardare il quaderno. “Quindi riprendiamo venerdì dopo le lezioni. Giusto?”
“In realtà… ci vediamo comunque anche domani pomeriggio” disse Sam.
Thomas lo guardò di nuovo. Il ragazzo era rosso in viso e questo tradì esattamente quello che voleva dire.
“Storia?” chiese Thomas, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Sam annuì, e anche lui sorrideva.
“Ti tengo il posto, allora.”
“Perfetto” mormorò Sam, andando a fuoco.
 
Il giorno dopo i due ragazzi riuscirono a scambiarsi solo un saluto veloce prima e dopo il test di Letteratura, e dopo le lezioni finalmente Sam andò per la prima volta al club di Arte, che gli piacque moltissimo. Non era frequentato da tanti studenti, e non ne conosceva bene nessuno, quindi si sentì abbastanza a proprio agio. Addirittura chiacchierò con un paio di ragazze. Una di loro voleva fare la fumettista e gli mostrò alcune tavole davvero pazzesche.
Quando raggiunse l’aula del club di Storia la trovò ancor più deserta della precedente, ma non si stupì. Non potevano essere in molti i pazzi a decidere di frequentarlo.
I posti liberi, dunque, erano a decine, ma Thomas gli fece cenno di raggiungerlo appena lo vide, e Sam andò a sedersi accanto a lui.
Si annoiò a morte.
Un’ora sembrò durare un secolo, che riuscì a superare solo grazie alle occhiate e alle poche parole che Thomas scambiava con lui ogni tanto.
Poi, quando la tortura era quasi finita, finalmente arrivò qualcosa a risollevargli il morale.
“Ehy” sussurrò Thomas, scivolando verso di lui per avvicinarsi al suo orecchio.
Sam si irrigidì mentre lo ascoltava.
“Che fai dopo? Vai a casa?”
Panico.
“Sì” rispose Sam, senza sbilanciarsi.
“Anche io. Facciamo un pezzo di strada insieme?” Thomas abbassò ancora di più il tono della voce. “Magari possiamo fermarci da qualche parte a man-”
“Tom!” vennero brutalmente interrotti da una ragazza che si era avvicinata senza che nessuno dei due la notasse. “Grazie per il libro.” Porse a Thomas un manuale scolastico e iniziò a chiacchierare con lui, lasciando Sam a chiedersi se avrebbe mai scoperto come il suo tutor avrebbe voluto finire quella frase.
Purtroppo non fu così, perché la ragazza e Thomas chiacchierarono lungo tutto il percorso fin fuori dalla scuola e quando finalmente li salutò davanti al cancello per lasciarli da soli, i due ragazzi si avviarono verso casa in silenzio.
“Non mi hai raccontato com’è andata al club di Arte, prima” disse Thomas all’improvviso.
“È stato pazzesco!” esclamò Sam, poi decise di moderare il tono. “Cioè, è stato piacevole. Sono contento di esserci andato. Grazie.”
Thomas sorrise. “E questo di Storia?” domandò maliziosamente.
“Interessante” rispose Sam, scandendo le sillabe.
“Mio Dio, ti sei annoiato a morte!” Thomas scoppiò a ridere. “Avevi la faccia di uno che si voleva lanciare dalla finestra.”
“Non è vero!” Ma stava ridendo anche lui. Persino Rose evitava quel club come la peste, e quella mattina gli aveva detto che non aveva alcuna intenzione di presentarsi in aula per distrarlo.
“Mi dispiace. Puoi cancellare l’iscrizione, se vuoi.”
“Certo che posso” disse Sam, mentre entrambi si riprendevano dalle risate. “Però penso che sopporterò.”
Thomas sorrise e distolse lo sguardo. “Ne sono contento.”
Proseguirono per un po’ in silenzio, camminando lentamente, come se entrambi volessero allontanare il più possibile il momento in cui si sarebbero divisi.
E poi, un’altra interruzione. Stavolta la peggiore, almeno per Sam.
Un’auto suonò il clacson alle loro spalle e si accostò al marciapiede.
“Sam!” strillò la voce cristallina della madre del ragazzo.
“Oddio” mormorò Sam, stringendo gli occhi.
Tutti e due si voltarono verso la macchina e avvicinarono le teste al finestrino abbassato.
“Mà? Che ci fai qui?” chiese Sam, iniziando ad allarmarsi.
“Sono appena uscita dall’ospedale, no?” si indicò il camice. “Chi è il tuo amichetto?”
Sam voleva sotterrarsi.
“Buonasera, signora Robertson. Sono Thomas.”
“Ah! Il tutor!” esclamò la donna. “Grazie per tutto quello che stai facendo per Samuel, ne ha molto bisogno” disse con tono compassionevole. “Beh, Sam, salta su! Ti do un passaggio. Vorresti venire a cena da noi, Thomas?”
Oddio, pensò Sam. Cosa sta succedendo?!
“Non voglio disturbare, signora. Grazie lo stesso per l’invito.”
“Oh, non dire sciocchezze! È un piacere! Non farti pregare.”
Thomas guardò Sam con aria interrogativa. Non avrebbe accettato senza il suo permesso.
Ma come poteva non darglielo senza offenderlo?
Sam forzò un sorriso e annuì.
Thomas invece sorrise senza sforzo e si voltò di nuovo verso la madre dell’amico.
“Accetto volentieri allora. Grazie.”
Gettarono gli zaini nel cofano e salirono in macchina.
Per fortuna alla signora Robertson piaceva guidare con la radio accesa, così non ci fu molta conversazione in auto, ma una volta a casa le cose diventarono complicate. Thomas chiese di usare il telefono per avvisare i genitori che avrebbe fatto tardi e mentre era impegnato Mindy si avvicinò a Sam.
“Tutto bene?” gli sussurrò. Sapeva che doveva essere stata una situazione improvvisa, o Samuel l’avrebbe avvisata quella mattina.
“Sì, tranquilla. Mio padre?”
“Mi dispiace. È di sopra.”
Questo sarebbe stato un problema. Sperava avesse un turno in ospedale. Una cena con Thomas e la madre poteva gestirla, ma con anche il padre?
 
Mindy diede il via libera per sedersi a tavola quasi subito. Il signor Robertson a capotavola, la moglie da un lato, e il figlio dall’altro, con Thomas seduto accanto a Sam.
All’inizio le cose non andarono tanto male, soprattutto perché entrambi i genitori di Sam mantennero la conversazione sulle ripetizioni del figlio e su quanto ne avesse bisogno.
Thomas cercava di metterlo in buona luce, ma ogni volta che tentava di dire che il suo allievo non era così irrecuperabile come veniva descritto, i signori Robertson rincaravano la dose.
Sam voleva sprofondare. Non sapeva se si sentiva più umiliato dagli attacchi dei genitori o dalle difese di Thomas.
“E in più…” aggiunse il capofamiglia, a un certo punto. “…non hai voluto neppure farti pagare! Cosa sei, un Santo?” e rise.
Sam si voltò verso Thomas, inarcando le sopracciglia. Questo non lo sapeva. Tutti i tutor a scuola venivano pagati, e aveva dato per scontato che anche Thomas si fosse accordato con il preside, che a sua volta avrebbe dovuto accordarsi con suo padre.
“No, signor Robertson, non sono un Santo. Mi bastano i punti per il college.”
“Non è quello che mi ha detto il preside” replicò il padre, tra una forchettata di lasagna e l’altra. “Era sicuro che avresti chiesto la stessa cifra che hai scelto per i due studenti precedenti, anzi era sicuro che avresti chiesto qualcosa in più, visto che Sam è del tuo stesso anno.” Adesso il suo tono era più serio. “Insisto.”
“Insisto anche io.” La voce di Thomas si indurì, però lui divenne rosso in viso.
“Non hai bisogno di soldi, eh?” disse allora il signor Robertson in tono quasi sprezzante. “Scommetto che sei il figlio di Joshua Carter.”
“Il banchiere?” intervenne la madre di Sam.
“No, signora. Non credo conosciate la mia famiglia.”
Sam iniziò a innervosirsi. O meglio, ad innervosirsi ancora di più, siccome fino a quel momento non era stata di certo una cena rilassante.
Con la coda dell’occhio colse un bagliore sulla soglia della sala da pranzo.
Max gli fece un sorriso e sparì di nuovo oltre la porta, così Sam riportò l’attenzione sulla conversazione.
I suoi genitori stavano chiaramente aspettando i dettagli da parte di Thomas, ma il ragazzo sembrava quasi più nervoso di Sam. E questo era un po’ inusuale, considerando che a scuola Thomas aveva sempre parlato con fierezza della sua famiglia, tenendo testa a Sean e agli altri bulli.
“I miei genitori lavorano entrambi nello stesso ristorante, in centro città. Mio padre fa il cameriere, e mia madre la cuoca.”
Il signor Robertson impallidì, ma a parte questo, cercò di mantenere un certo contegno. La moglie, invece, cominciò subito a parlare di ristoranti e di quanto amasse mangiare fuori, come se in casa invece cucinasse lei e non Mindy.
Sam a volte la odiava. Quella donna era un medico affermato, una delle persone più intelligenti che conoscesse, eppure quando si trovava nella stessa stanza con il marito sembrava un’idiota incapace di ragionare.
Thomas si lasciò trasportare dalle chiacchiere sulla ristorazione, ma lui e la signora Robertson erano ormai gli unici a parlare.
Sam e suo padre restarono in silenzio a lungo, quest’ultimo con un completo cambio di atteggiamento nei confronti dell’ospite. Non fu mai scortese, non avrebbe mai osato. Con gli estranei si comportava sempre in maniera impeccabile, anche quando non li rispettava, però perse la leggerezza con cui aveva iniziato la serata.
L’atmosfera si era fatta più pesante e, dopo aver mandato giù l’ultimo boccone di lasagna, evidentemente Thomas decise che era arrivato il momento di andarsene.
“Oh, ma no! C’è ancora il secondo!” esclamò la signora Robertson, proprio mentre Mindy entrava in sala per prendere i piatti vuoti.
“La ringrazio, signora Robertson, ma si è fatto davvero troppo tardi. Domani c’è scuola.”
“Che ragazzo responsabile” commentò il padre di Sam, come se fosse un insulto.
“Già” si lasciò sfuggire Thomas con un tono altrettanto duro.
Il signor Robertson valutò per un attimo l’espressione fiera di Thomas. “Prendi le tue cose, ti riaccompagno in macchina” disse infine, alzandosi dalla sedia.
“Vengo anche io” si intromise immediatamente Sam. Non aveva detto mezza parola per aiutare il suo amico durante la cena, ma non lo avrebbe lasciato da solo in balia del padre.
“Posso pensarci io” disse a sorpresa Mindy. “Così non dovrà interrompere la cena” aggiunse, rivolta solo al padrone di casa.
Il signor Robertson si risedette. “E sia. Ma Sam rimane a tavola. Non è buona educazione lasciare i tuoi genitori da soli a cena.”
Sam dovette trattenersi davvero molto per non sbuffare, e quando Thomas si alzò, lo seguì a ruota.
“Li accompagno fuori.”
Il padre aprì bocca per parlare, ma la madre gli mise una mano sul braccio e lui non disse niente.
Sam, Thomas e Mindy, con le braccia piene di piatti vuoti e sporchi, uscirono in fretta dalla sala da pranzo, ma non prima che Thomas ebbe ringraziato ancora una volta per la cena, in maniera fin troppo educata.
“Avviatevi alla macchina” disse Mindy quando furono in corridoio. “Poso i piatti, prendo le chiavi, e vi raggiungo.”
Mindy aveva una propria auto che di solito parcheggiava in strada, perché il signor Robertson non le permetteva di fermare il suo ‘ferro vecchio’ sul viale di casa, anche se c’era tranquillamente spazio.
I due ragazzi infilarono i giubbotti, Thomas prese anche lo zaino ed entrambi si precipitarono fuori dall’edificio.
Percorsero metà del vialetto in silenzio e si fermarono nel mezzo del giardino quando Sam si schiarì la voce.
“Mi dispiace” disse, guardandosi i piedi.
Era già buio fuori, ma i lampioni illuminavano i loro volti senza fatica.
“Non preoccuparti. Sai meglio di me che ci sono abituato.”
“Scommetto che gli Hendricks non si comportavano così.”
“In effetti no.”
Rimasero in silenzio per un altro po’ e fu di nuovo Sam a romperlo.
“Perché hai chiesto di non essere pagato per farmi da tutor?” domandò.
Thomas lo guardò negli occhi. “Non mi sembrava corretto, perché…” si schiarì la gola. “Perché siamo amici, no?”
Sam sorrise. “Sì” rispose. “Ma non c’entra niente questo. Avresti dov-”
“È solo che non mi piaceva l’idea che qualcuno mi pagasse per passare del tempo con te” lo interruppe Thomas, parlando molto velocemente.
Sam non poté fare altro che sorridergli, mordendosi le labbra e col cuore a mille, incredulo della situazione.
Gli occhi nocciola di Thomas lo fissavano con così tanta intensità che era come se l’altro lo stesse toccando.
Poi la porta d’ingresso si aprì ed entrambi si voltarono di nuovo verso la casa.
Mindy stava uscendo. Sulla panca di legno accanto alla porta era seduto Maxwell, con le ginocchia sollevate e strette al petto, troppo lontano affinché Sam notasse il suo fioco bagliore, e alla finestra c’era il signor Robertson, che li guardava tenendo la tenda scostata con una mano.
“Ci vediamo domani” sorrise dolcemente Thomas.
“A domani” ricambiò Sam.
 
Tornato in casa, Sam riprese la cena con i suoi genitori senza che nessuno dei tre fiatasse, e tristemente non era una situazione inusuale. Sparecchiò al posto di Mindy e poi salì in camera sua.
Aveva appena iniziato a sfilarsi la divisa scolastica quando sentì bussare, e il rumore proveniva da dentro l’armadio.
“Puoi entrare. O uscire. Insomma, hai capito” borbottò Sam.
Maxwell attraversò le ante senza battere ciglio.
“È lui, vero?”
“Chi?” Sam finse di non capire.
“Il ragazzo di cui mi hai accennato l’altra sera.”
Guardando ovunque tranne che verso il fantasma, Sam fece un verso di assenso.
“Non ti va di parlarne” disse Thomas, ed era più una constatazione che una domanda.
“Non so se hai notato, ma ho avuto una serata piuttosto stressante.”
Sam si gettò sul letto, scalciando via le scarpe e stendendosi con la testa sul cuscino a fissare il soffitto.
Thomas andò a sedersi sulla scrivania, come faceva spesso.
“Appena vi ho visti arrivare con tua madre non avevo idea di chi fosse, e mi sono reso conto che non so niente di te.”
“Praticamente viviamo insieme da più di due settimane. Sai tutto di me, ormai” sospirò il ragazzo.
“Non è vero” replicò il fantasma. “Probabilmente sai più tu di me che io di te.”
“Ho una vita piuttosto noiosa.”
“E stressante.”
Sam sorrise al soffitto. “E stressante” concordò.
“Tu e i figli dei King siete amici da molti anni?”
Con un altro sospiro, Sam si mise a sedere sul letto.
Si ritrovò a raccontare a Thomas di come avesse legato con loro soltanto da pochi giorni, di quanto fosse stata dura per lui a scuola negli anni passati, e raccontò nei dettagli tutto quello che sapeva di Rose e di Patricia, che non vedeva da un bel po’ e che aveva intenzione di andare a trovare il prima possibile.
Raccontò di tutti i problemi con i suoi genitori, specialmente suo padre, e di come vivesse nel terrore che licenziassero Mindy.
Utilizzò un tono di voce talmente basso per non farsi sentire nel resto della casa che ad un certo punto Thomas si ritrovò costretto a fluttuare verso di lui. Si sedette sul letto accanto a Sam a gambe incrociate, imitandolo, e rimase in ascolto.
Sam si sfogò come non aveva mai fatto con nessuno, raccontando ogni minima paura e preoccupazione della sua vita. D’altra parte, il fantasma era già la persona che lo conosceva meglio al mondo, escludendo forse Mindy. E comunque Mindy non sapeva che Sam non era attratto dalle ragazze.
Thomas non lo interruppe mai, lo lasciò parlare senza commenti fino a quando non ebbe finito.
Quando Sam finalmente smise di vomitare fiumi di parole, si asciugò una lacrima sulla guancia.
Thomas allungò un braccio e, raccogliendo le forze, posò una mano sul ginocchio di Sam.
Il tocco del fantasma era talmente caldo che Sam poteva sentire la pelle scottare leggermente anche attraverso il tessuto del pantalone, ma non si allontanò.
“Giuro che per stasera ho smesso di lamentarmi” disse, con un sorriso imbarazzato.
“Lo sai che non è un problema per me. Puoi parlarmi di quello che vuoi, sempre.”
Lo so? In realtà nemmeno io so molto di te.”
Si guardarono negli occhi per qualche istante, poi Thomas ritirò la mano.
“Ho finito Jurassic Park. Hai qualcos’altro per me?”
Sam indicò la libreria. “Stavolta scegli tu.”

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Capitolo 10
*** Inviti al ballo ***


10. Inviti al ballo

Il giorno successivo fu terribile.
Sam si sentiva tremendamente imbarazzato per la sera precedente e Brandon e Amy Beth si preoccuparono di nuovo per la sua salute, anche se capirono presto che il problema non era fisico, ma mentale. Brandon non si isolò nella sua musica e camminarono tutti e tre in silenzio verso la scuola.
Sam sembrava sul punto di vomitare se avesse aperto bocca quindi i due amici decisero di non insistere.
Anche a pranzo, Archer, Nathan e Vinnie si accorsero che qualcosa non andava ma non fecero commenti e chiacchierarono tra di loro come al solito. Brandon invece si isolò dalla conversazione come Sam e non mancò di accorgersi che Thomas, il tutor di Sam, a tre tavoli di distanza, non faceva altro che lanciare occhiate nella loro direzione.
Sam, invece, fissava il suo piatto con insistenza anche se non aveva mangiato quasi niente, ed evitava di incrociare lo sguardo con chiunque non fosse Brandon, Archer, Nathan o Vinnie.
Infatti fu Brandon ad accorgersi per primo che Thomas si stava avvicinando al loro tavolo.
“Sam…” mormorò, dandogli un colpetto sul ginocchio.
L’amico rispose con un grugnito.
“Carter sta venendo qui.”
Sam alzò la testa allarmato, proprio nell’istante in cui Thomas si schiariva la voce e salutava tutti.
Gli altri tre ragazzi risposero brevemente al saluto e ricominciarono a parlare della partita di calcio su cui si erano concentrati per tutto il pranzo, ma Brandon e Sam continuarono a guardarlo.
“Sam… volevo solo confermare… oggi in biblioteca dopo le lezioni, giusto? Matematica?”
Sam aveva trascorso le ultime ore cercando di decidere se annullare le ripetizioni di quel pomeriggio oppure no, e non aveva ancora deciso. Pensava di avere più tempo…
“Sì” rispose Brandon al posto suo. “Ma ci sono anche io. È un problema?”
Thomas spostò lo sguardo da Sam a Brandon, confuso, ma a parte questo non fece una piega. “Nessun problema per me” rispose, accennando un sorriso. “A dopo, allora” fece un gesto di saluto con la testa e si allontanò di nuovo verso il proprio tavolo.
“Stai bene?” sussurrò Brandon a Sam, talmente vicino che le sue labbra gli sfiorarono l’orecchio.
“Sì” rispose Sam. “Ho dormito male. Tutto qui.”
“Certo, come no” sbuffò Brandon, cominciando a raccogliere sul vassoio i resti del pranzo. “Che è successo col tutor?”
“Niente.”
“Senti, se non ti va di parlarne va bene, ma fammi almeno sapere entro la fine delle lezioni se vuoi davvero che resti con te ad aspettare Amy Beth.”
“Perché te ne sei uscito fuori con questa cosa?” domandò Sam, sollevando finalmente lo sguardo su di lui.
“Perché non mi sembravi molto contento di vederlo. Ho pensato che magari non ti va di restare da solo con lui. Insomma, non ti lascerei mai da solo con Sean McDonald, per dire…”
Da quando avevano iniziato a frequentarsi, Brandon aveva avuto modo di assistere alle prese di mira da parte di Sean in prima persona. Persino quando semplicemente incrociava Sam nei corridoi della scuola, il bullo non mancava mai di rivolgergli una parola sgarbata.
“Thomas non è come Sean” replicò subito Sam.
“Mi sembra uno a posto, infatti.”
In quel momento gli altri tre amici uscirono dalla loro bolla calcistica e coinvolsero Brandon nella conversazione.
Sam si prese un minuto per riflettere, prima di unirsi agli altri. Forse, per una volta che aveva un amico, avrebbe potuto evitare di affrontare tutto da solo.
Quando suonò la campanella, Sam lo afferrò per un gomito prima che si alzasse. “Ehy… ti scoccerebbe molto restare con me, dopo?”
Brandon gli sorrise. “Ci vediamo al tuo armadietto dopo l’ultima ora.”
 
Più tardi, quel giorno, Sam e Brandon trovarono Thomas già in biblioteca ad aspettarli, con tre manuali di matematica sparsi sul tavolo.
“Scusa l’intrusione” disse Brandon, gettando lo zaino ai piedi di una sedia, a mo di saluto. “È che mia sorella sta seguendo un club adesso, devo aspettarla per tornare a casa con lei” spiegò a Thomas.
Ovviamente era una bugia. Le due settimane precedenti, il venerdì, mentre Amy Beth era immersa nella Letteratura, i due ragazzi erano andati via subito dopo le lezioni e Amy Beth era tornata tranquillamente a casa da sola.
“Nessun problema” ripeté Thomas. Poi guardò Sam negli occhi. “Tutto bene?”
Lo sguardo e il tono con cui lo aveva chiesto fecero capire a Sam che non era una frase di circostanza, ma gli stava chiedendo se tra loro due fosse tutto ok.
A parte l’imbarazzo e l’umiliazione bruciante che provo, pensò Sam, certo, tutto ok.
“Sì, sono solo un po’ stanco” rispose a voce alta.
“Allora iniziamo con qualcosa di facile” disse Thomas, tirando a sé un libro di esercizi.
“Perfetto.”
“Io me ne starò qui in silenzio” disse Brandon, tirando fuori il lettore CD. “Non disturberò la lezione, giuro.”
E fu davvero così. Brandon passò un’ora abbondante ad ascoltare musica sforzandosi di non accennare passi di danza, e le ripetizioni si svolsero in maniera tranquilla.
Anche se la presenza di Brandon fu passiva, in qualche modo aiutò Sam ad alleviare l’imbarazzo. Quando furono raggiunti da Amy Beth, che arrivò per portarsi via Brandon, il ragazzo era già molto più tranquillo.
“Possiamo finire qui anche noi” disse Thomas, ma non aspettò neanche che Sam replicasse, e cominciò a mettere via le sue cose.
“Ok…” disse allora Sam, facendo lo stesso. In realtà adesso non gli sarebbe dispiaciuto trascorrere un’altra ora o due con Thomas da solo, ma ovviamente non poteva dirlo.
Uscirono tutti e quattro insieme.
Thomas e Amy Beth cominciarono a parlare di alcune lezioni che avevano in comune, Sam invece fissava per terra e ogni tanto lanciava un’occhiata di sottecchi a Thomas, e Brandon faceva lo stesso con Sam senza che lui se ne accorgesse.
Quando i tre amici si separarono dal tutor, finalmente Amy Beth si rivolse al fratello. “E allora? Che succede oggi?”
“Niente, mi scocciavo di tornare a casa da solo” rispose lui, e Sam gliene fu grato, perché non aveva voglia di dare spiegazioni anche alla ragazza.
Amy Beth non se la bevve completamente, ma non indagò oltre in quel momento.
Prima di inforcare le cuffie, Brandon lanciò un’occhiata interrogativa a Sam, che significava: tutto bene?
Sam annuì e lo ringraziò con un sorriso.
 
Una volta in casa, fu subito preso da parte da Mindy. Anche se non c’era nessuno oltre a loro due, la donna iniziò a sussurrare in maniera concitata.
“Devo raccontarti un po’ di cose che sono successe oggi” disse, trascinandolo in un angolo della cucina, senza neppure dargli il tempo di liberarsi di zaino e giubbotto.
In poche parole, suo padre quella mattina aveva discusso con la madre e aveva chiamato il preside per fargli cambiare tutor. Il preside era stato irremovibile. Non avrebbe tolto uno studente ad un tutor senza una ragione valida. Sam avrebbe continuato con Thomas Carter, oppure avrebbe dovuto trovarsi un tutor esterno all’istituto. Ed era proprio ciò che aveva intenzione di fare il signor Robertson, ma in qualche modo la moglie era riuscita a dissuaderlo.
“Però non sembrava molto convinto” concluse Mindy.
“Pensi che richiamerà il preside?”
“Non lo so” rispose lei, che voleva rassicurarlo ma non voleva mentire. Poi, vedendo la faccia abbattuta del ragazzo, lo avvolse in un abbraccio. “Qual è il problema?” domandò.
“Thomas è alla Walker con una borsa di studio, lu-”
“No” lo interruppe Mindy, liberandolo dall’abbraccio per allontanarsi di un passo e guardarlo in viso. “Perché è un problema cambiare tutor?”
“Thomas è bravo” rispose Sam, distogliendo lo sguardo.
“Sam…”
“È un mio amico.”
“Beh, puoi frequentarlo anche senza le ripetizioni allora, no?”
Certo, in teoria. Ma ovviamente la situazione tra lui e Thomas era più complicata di così.
“Ha bisogno dei punti per la domanda per il college.”
Quella era una ragione valida, e non era neppure una bugia. Nonostante questo, Mindy rimase dubbiosa, anche se decise di non insistere oltre.
 
Il giorno dopo era sabato, e non c’era scuola, per fortuna. Sam aveva bisogno di una pausa. Brandon lo aveva invitato a casa sua, ma prima decise di coprirsi bene e uscire sotto la neve di fine gennaio per raggiungere il suo vecchio quartiere. Il parco dove viveva Patricia, per la precisione.
Dopo i soliti finti rimproveri per essere stata abbandonata per settimane, Pat si fece raccontare tutte le novità.
Sam si lasciò andare e la aggiornò sui King, sulle lezioni e persino sulle ripetizioni e sulla cena disastrosa dell’altra sera (Patricia era già al corrente di che tipo di persona fosse il padre del ragazzo), ma descrisse Thomas solo come un amico ed evitò accuratamente di parlare dei suoi sentimenti. Ovviamente, però, le parlò di Max, ma anche lì decise di non entrare nei dettagli, perché non gli sembrava giusto. Già così si sentiva come se stesse facendo del gossip.
“Ti concedo che sono stati giorni impegnativi” disse il fantasma, quando finalmente Sam ebbe concluso. “Ma non dimenticarti di me nelle prossime settimane.”
Erano seduti entrambi su una panchina e al ragazzo si stavano gelando il sedere e le cosce.
“Stai tranquilla. E poi sicuramente quando il tempo migliorerà riuscirò a venire fin qui molto più spesso. Da queste parti, invece? Niente di nuovo?”
“No. Tutto estremamente noioso, come al solito.”
Chiacchierarono per più di un’ora, poi Sam finalmente si alzò da quella panchina di ghiaccio e si avviò verso casa.
Si fermò direttamente dai King.
Fu Gina, la madre di Brandon, ad aprire la porta e a ritrovarsi davanti un Sam infreddolito fin nelle ossa, nonostante il cappello ben calcato sulla testa e la sciarpa che lo avvolgeva.
Lo fece entrare in casa in tutta fretta e lo spedì direttamente in camera del figlio mentre lei preparava il tè.
La porta era chiusa, così Sam bussò, con forti pugni sulla porta di legno, perché lo aveva sentito strimpellare persino dal piano di sotto.
“AVANTI” urlò la voce familiare.
Brandon era seduto su una poltrona sistemata sotto la finestra e stava suonando la chitarra, canticchiando un motivetto sottovoce.
Anche la stanza di Brandon, come quella di Amy Beth, era piuttosto disordinata, però in giro c’era decisamente meno roba. Le pareti erano bianche ma ricoperte di poster di band e cantanti, accanto alla scrivania c’era una tastiera, da un lato del letto c’era un comodino e dall’altro l’appoggio per la chitarra. Un’intera sezione della libreria era dedicata a raccolte di spartiti.
Sam era già stato in camera di Brandon più volte da quando erano diventati amici, e andò tranquillamente a sedersi sul letto sfatto, aspettando e ascoltando.
Un minuto dopo Brandon mise da parte la chitarra e appuntò qualcosa su un quaderno.
“Stai scrivendo una nuova canzone?” chiese Sam.
“Sto sempre scrivendo una nuova canzone” rispose Brandon.
“Vero” sorrise Sam.
Brandon lasciò cadere la matita per terra accanto al quaderno e si sistemò comodo in poltrona, con le mani dietro la testa. “Tutto bene? Non hai una bella faccia.”
“Sono andato a fare una passeggiata. Si gela.” E così dicendo si strofinò il naso, che sentiva ancora intorpidito.
L’amico lo guardò in silenzio per un po’. “Lo sai che puoi raccontarmi qualsiasi cosa, vero?” domandò infine.
“Non ho niente da raccontare” mentì Sam, evitando di guardarlo negli occhi.
“Lo so che non ci conosciamo da molto e che hai problemi di fiducia, quindi lo capisco se non ti va di parlare con me di quello che succede nella tua vita, però non mentirmi, non me lo merito” replicò Brandon. “Lo so che c’è qualcosa che non va, lo capirebbe anche un bambino.”
Sam non rispose subito. Non avrebbe mai potuto raccontargli di Patricia, di Max, o dei fantasmi in generale, lo avrebbe creduto fuori di testa. E non poteva neppure raccontargli di quello che provava per Thomas. La sua miglior prospettiva di vita, al momento, era quella di morire a ottant’anni in solitudine portandosi quel segreto nella tomba. Per quanto riguardava la sua situazione familiare… prima ancora di insegnargli a parlare, i suoi genitori gli avevano insegnato a stare zitto: i panni sporchi si lavano in famiglia. È così che si dice, no?
Ma Brandon aveva qualcosa in sé che a Sam era piaciuto subito, a pelle. Aveva uno sguardo buono, un sorriso sincero, e un atteggiamento che non aveva mai visto in nessun altro, nemmeno nella sorella. Gli ispirava fiducia senza bisogno di dire o fare nulla di particolare, e l’istinto di Sam a volte gli diceva che poteva aprirsi con lui su tutta la linea. Però le vecchie abitudini sono dure a morire.
“Ho un po’ di problemi a casa” rispose infine, un po’ nervoso. “Con mio padre, soprattutto. Ma niente di cui vale la pena parlare.”
Brandon, che non si aspettava davvero una risposta, si sporse verso di lui, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. “C’è qualcosa che posso fare per aiutarti?”
Sam sorrise e scosse la testa, guardandolo finalmente di nuovo negli occhi. “Solo… se qualche volta chiedo asilo politico, non sbattermi la porta in faccia.”
Brandon gli regalò uno dei suoi soliti sorrisi luminosi. “Mai.” Prese di nuovo in mano la chitarra e strofinò il pollice in un angolo dello strumento, come se stesse pulendo dello sporco invisibile. “Che ti va di fare ora?”
“Fa troppo freddo per uscire, e tua madre ci sta preparando il tè” rispose Sam, lasciandosi cadere all’indietro sul materasso. “Hai qualcosa che non ho ancora ascoltato?”
“Tre nuovi pezzi” disse Brandon, inforcando di nuovo la chitarra con entusiasmo.
“Ma dove lo trovi il tempo?!” Sam lo guardò, a metà tra l’incredulo e il divertito.
Brandon rise e cominciò a suonare.
 
Più tardi quella sera raggiunsero Amy Beth, Diana, Vinnie e gli altri da Pete’s, il solito pub, e il giorno dopo, invece di recuperare con lo studio, Sam si dedicò interamente al disegno.
Ormai non faceva altro che ritratti, soprattutto dei suoi nuovi amici. Di solito, a parte Mindy, Rose e Patricia, tendeva a ritrarre sconosciuti incontrati per strada, cercando di ricordare il più possibile i dettagli dei loro volti. Adesso, invece, il suo album da disegno era pieno di Amy Beth, le cui treccine erano molto più difficili da disegnare di quanto avrebbe creduto, e di Brandon, anche se non era ancora riuscito a catturare l’essenza dello sguardo e del sorriso dell’amico come avrebbe voluto. C’era anche Thomas, tra i suoi schizzi, ma mai un ritratto completo. A volte iniziava con i capelli, a volte con il profilo, a volte con gli occhi, o con la bocca, e poi a un certo punto si fermava, e non completava mai il disegno. Però non gettava via nulla di quei ritratti appena abbozzati. Gli era capitato di disegnare anche Archer, Nathan e Vinnie.
E Maxwell, naturalmente, anche se di lui non aveva un ritratto ben fatto, perché non lo aveva mai disegnato a casa, ma sempre a scuola, tra una lezione e l’altra, quando riusciva a ritagliarsi cinque minuti di tempo.
Di solito, infatti, quando apriva il blocco da disegno a casa, il fantasma era sempre lì a guardare.
Alcune volte se ne stava disteso sopra l’armadio, con la testa che si affacciava sulla scrivania, e seguiva con lo sguardo ogni movimento della matita sul foglio, mentre altre volte faceva compagnia a Sam semplicemente leggendo a letto e fluttuando intorno a lui ogni tanto per dare un’occhiata.
“Non colori mai?” gli domandò quella domenica pomeriggio, con la sua solita voce leggermente afona.
“No. Faccio delle ombreggiature con i colori alcune volte, ma ho sempre l’impressione di rovinare i disegni” rispose Sam.
“Non disegni mai un paesaggio, o qualche altra cosa?”
“A volte, ma preferisco i ritratti.”
“Non lo avrei mai detto…” commentò ironico Max, che in quel preciso momento lo stava osservando all’opera da oltre la sua spalla.
“Vuoi provare?” chiese Sam, sollevandogli la matita davanti la faccia.
“Mmm” mugugnò il fantasma.
Sam indietreggiò con la sedia per fargli spazio (non che ne avesse bisogno, ma non voleva essere ‘attraversato’) e continuò a porgergli la matita.
La luce fioca proveniente da Maxwell si intensificò mentre il ragazzo sollevava un braccio per afferrare la matita, che era la stessa che aveva raccolto in giardino e infilato nella tasca posteriore dei pantaloni di Sam qualche giorno prima.
Sul blocco da disegno c’era un ritratto di Rose. Sam stava ombreggiando i capelli e Max provò a continuare l’opera. Non gli fu difficile, perché la matita era leggera e non aveva bisogno di molta forza per utilizzarla.
Sam si morse le labbra e strinse gli occhi, osservando in silenzio.
Max se ne accorse.
“Sto rovinando tutto, vero?” chiese, fermandosi.
“No” rispose Sam, cercando di non ridere. “Solo…”
Alzò il braccio e posò la propria mano su quella di Max. Per la sorpresa, il fantasma quasi perse la presa sulla matita.
Sam aspettò che il proprio palmo si adattasse alla temperatura infuocata di Max, poi cominciò a muovere la mano dell’altro mostrandogli come proseguire. Max si lasciò guidare e in pochi movimenti capì come correggere il tratto.
Continuarono a disegnare insieme finché non terminarono tutta la capigliatura di Rose, poi Sam si fermò, senza però lasciare la mano di Max.
Il fantasma non smaterializzò la mano ma si voltò lentamente a guardare il ragazzo.
“Grazie” gli disse, quasi in un sussurro.
“Di cosa?” chiese Sam, schiarendosi la voce.
“Per questo” rispose l’altro, spostando per un secondo lo sguardo sulle loro mani e quindi sul ritratto. “Per avermi fatto sentire di nuovo… normale… per qualche minuto.”
Sam raccolse tutto il coraggio che aveva per porre la domanda successiva.
“Ti riferisci a… al disegnare, giusto?”
Max sorrise. Il bagliore si affievolì, la matita cadde sul foglio, il fantasma si allontanò e Sam sentì un brivido lungo la schiena quando la mano dello spettro attraversò la sua, lasciandogli la solita sensazione bizzarra di fresco, completamente opposta al tocco precedente.
Senza dire nulla, Maxwell continuò ad allontanarsi fluttuando di spalle verso la parete opposta della stanza, continuando quindi a guardarlo in viso, fino a sparire oltre il muro.
 
La settimana seguente trascorse in maniera piuttosto tranquilla.
Le ripetizioni con Thomas filarono lisce. Né lui né Sam parlarono mai della cena in casa Robertson, si limitarono a studiare. Thomas in particolare sembrava sforzarsi di essere il più distaccato possibile, cosa che spezzò un po’ il cuore di Sam, ma non lo sorprese. Succedeva con tutti quelli che in qualche modo si avvicinavano a lui. Per un motivo o per l’altro, dopo averlo conosciuto meglio, capivano che era troppo difficile aver a che fare con lui, e si arrendevano. Anzi, Sam era incredulo che Brandon e Amy Beth stessero resistendo così tanto.
Addirittura il giovedì, quando arrivò nell’aula di Storia, Thomas era già seduto tra altre due persone, così Sam andò a sistemarsi dall’altro lato della stanza.
Thomas gli sorrise e lo salutò con la mano, ma non si avvicinò mai a lui per parlargli, e a fine riunione del club scambiò con lui giusto un paio di frasi di circostanza, senza chiedergli di fare un pezzo di strada insieme. Anche dopo le ripetizioni, restava sempre in biblioteca dopo di lui.
Da un lato Sam ne era contento, perché si sentiva in imbarazzo ogni volta che erano da soli anche se stavano solo studiando, così come si sentiva in imbarazzo ogni volta che parlavano di qualsiasi altra cosa anche se erano in compagnia.
Però, dall’altro lato, nonostante si vedessero tutti i giorni, sentiva la sua mancanza, gli mancava come andavano le cose prima, gli mancava poter pensare che Thomas tenesse a lui in qualche modo. In più, viveva nel terrore che il padre decidesse di trovargli un altro tutor.
Quel venerdì, ultimo giorno di gennaio, Sam era particolarmente scoraggiato, ma almeno ci sarebbe stata Amy Beth ad alleggerire la tensione in biblioteca.
Dopo un’ora di noiosissima chimica, la sentirono bussare con le nocche su uno scaffale per annunciare il suo arrivo.
“Ehy!” esclamò, avvicinandosi al loro tavolo. “Posso?” e senza aspettare risposta tirò via una sedia per accomodarsi.
“Che ci fai qui?” domandò brusco Thomas.
Amy Beth si limitò a sollevare un sopracciglio.
“Scusa” disse in fretta il ragazzo, chiudendo gli occhi e facendo un respiro profondo.
“È colpa mia” intervenne Sam. “È frustrato per colpa mia.”
“Non è vero.”
“Sì, è vero. Siamo da un’ora sullo stesso esercizio, e continuo a sbagliarlo.”
Thomas non disse niente, perché effettivamente era la verità.
“Ah.” La ragazza sbirciò sul quaderno aperto davanti a Sam. Avrebbe potuto aiutarli, ma era un esercizio complicato e lei aveva appena parlato di classicismo per un’ora di fila, non aveva voglia di rimettere in moto il cervello. “Me ne vado allora, altrimenti vi distraggo.”
Fece per alzarsi ma Sam le bloccò gentilmente il polso sul tavolo.
“Non ti preoccupare” le disse. “Resta.”
Almeno con la presenza di un’altra persona l’atmosfera non sarebbe stata così tesa.
Amy Beth guardò Thomas con aria interrogativa.
“Tranquilla. Non penso che farebbe alcuna differenza.” Afferrò il quaderno davanti a Sam e se lo portò sotto il naso.
Sam lasciò andare il polso della ragazza. “Che ci fai qui, comunque?” le chiese, perché non la stava aspettando.
“Brandon è ancora bloccato alla riunione del comitato del ballo, ho pensato che a questo punto potevamo tornare a casa tutti insieme.”
“Che ballo?” domandò Thomas distrattamente, senza alzare lo sguardo dagli esercizi.
“Ah, già, tu sei nuovo” disse Amy Beth. “Ogni anno si organizza un ballo per San Valentino qui a scuola, da lunedì dovrebbero iniziare a tappezzare i corridoi con i manifesti e a vendere i biglietti. Brandon aiuta con la musica, quindi fa parte del comitato organizzativo.”
“Ci sono un po’ troppi balli, in questa scuola” commentò Thomas, scuotendo la testa e sorridendo.
Sam era perfettamente d’accordo. C’erano il ballo di inizio anno, il ballo natalizio, il ballo di San Valentino e il ballo di fine anno. Ad Halloween si organizzava una serata stregata che era una vera e propria festa e a Pasqua metà delle lezioni saltavano per una caccia alle uova.
Sam, ovviamente, non partecipava mai a nessuna di queste attività.
“Nessuno ti obbliga” sorrise Amy Beth.
“Ah, ma non ho intenzione di perdermi un grande evento del genere. Succede sempre qualcosa di interessante” rise Thomas, che ormai si era rilassato e aveva deciso di arrendersi con la chimica.
“Inviterai Suze?”
Sam guardò Amy Beth con la coda dell’occhio. Chi era questa Suze? Forse si riferiva a Suzanne Brown? Era una delle ragazze con cui Thomas pranzava solitamente, ma ogni tanto l’aveva vista con il gruppo di amiche di Amy Beth.
“No, siamo solo amici” rispose il ragazzo.
“Però siete andati insieme al ballo di Natale, no?”
Sam spostava lo sguardo dall’amica al tutor. Erano tutte informazioni nuove per lui, che ovviamente non era andato a nessun ballo e non sapeva nulla.
“Sì, ma un ballo per San Valentino è un po’ diverso, no?” Thomas fece spallucce.
“Non so.” La ragazza si abbandonò allo schienale della sedia. “È una festa stupida, e alla fine è un ballo come un altro, una serata come un’altra. Non c’è niente di male ad andarci con un amico.”
“E quindi non c’è niente di male ad andarci da soli, no?” Thomas la guardò dritto negli occhi e sorrise.
“Giusto” concesse la ragazza, con una risata leggera.
“Oppure a non andarci proprio” bofonchiò Sam, infastidito da quello scambio, che per i suoi gusti somigliava un po’ troppo a un leggero flirt.
“Il solito guastafeste!” Amy Beth gli diede un colpetto sulla spalla. “Sei un povero illuso se pensi che Brandon ti permetterà di saltare il suo debutto da DJ.”
A questo in effetti non aveva pensato. Brandon stava lavorando con il comitato del ballo già qualche giorno e parlava in maniera super entusiasta di tutte le canzoni che stava selezionando. E si lamentava del secondo DJ, ovviamente, che era un ‘buono a nulla che non capisce niente di musica’ e faceva parte della gang di Sean.
Thomas si sporse verso Sam. “Suppongo che abbiamo finito qui, noi due.”
“Mi dispiace” replicò Samuel, indicando i libri sul tavolo. “Proprio non mi entra in testa.”
“Non c’è problema. È il fine settimana, siamo tutti stanchi.” Cominciò a raccogliere le sue cose nello zaino. “Ci vediamo lunedì.” Salutò entrambi e se ne andò.
“Andiamo ad imbucarci alla riunione del comitato?” propose Amy Beth, con un sorriso complice.
Sam ricambiò il sorriso. “Perché no.”
 
Saltò fuori che avevano quasi finito e la presidentessa del comitato li fece entrare in aula senza obiezioni.
Oltre allo scagnozzo DJ di Sean c’era anche il resto della sua gang, e Sean stesso.
“Interessato al ballo, Robertson?” esclamò subito, vedendolo entrare. “Chi ci porti, tua madre?” e cominciò a sghignazzare esattamente come il triste villain di un film da quattro soldi. Peccato che metà delle persone presenti nella stanza rise insieme a lui.
“Vai a cagare, McDonald!” gli gridò dietro Brandon.
“Che razza di idiota, ma che problemi ha?!” aggiunse Archer. Anche lui era un membro del comitato, e si era reso conto di quanto Sean fosse un bullo soltanto nel momento in cui aveva conosciuto una delle persone prese di mira. Meglio tardi che mai, comunque, soprattutto per Sam.
Brandon fece cenno a Sam, ad Archer e alla sorella di avvicinarsi a lui, con fare cospiratorio, e li raggruppò in un angolo dell’aula.
“Ok ragazzi. Voglio chiedere a Christine di venire al ballo con me” sussurrò, visibilmente su di giri.
Adesso?!” esclamò Amy Beth.
“Sì, adesso!” rispose lui, saltellando da un piede all’altro.
“Sono con te, amico” Archer gli diede una pacca sulla spalla.
Christine era una ragazza del secondo anno per cui Brandon aveva una cotta immensa da ben prima che Sam lo conoscesse, e faceva anche lei parte del comitato.
“Avevi detto che volevi aspettare la prossima settimana” gli ricordò Samuel.
“Ma potrebbe essere troppo tardi. Insomma, guardatela, è bellissima.”
Tutti e quattro si girarono lentamente verso di lei. In effetti era una delle ragazze più belle della scuola, con la pelle che sembrava porcellana bianca e i capelli biondi e fluenti da star del cinema.
“Se aspetto, qualcun altro la inviterà prima di me e io resterò fregato!”
“Punto primo” disse Amy Beth con tono di voce duro. “Non dovresti invitare una ragazza al ballo solo perché ‘è bellissima’” scimmiottò la voce del fratello. “E punto secondo, non c’è nessuna legge che la obbliga ad accettare il primo invito che riceve.”
“Non voglio invitarla solo perché è bella” replicò Brandon, punto sul vivo.
“Buttati” disse Archer. “Appena metteremo in vendita i biglietti, si formerà la fila per invitarla.”
Amy Beth alzò gli occhi al cielo.
“Sembra sempre contenta di vederti e di parlare con te” aggiunse Sam. “È un buon segno. Io sto con Archer: buttati.”
Brandon e Christine erano vicini di armadietto, quindi capitava che si incontrassero spesso e scambiassero qualche parola, e lei sembrava sempre genuinamente gentile e felice di chiacchierare con lui. E Brandon era proprio stracotto, sarebbe impazzito se avesse chiesto a Christine di andare al ballo con lui e lei avesse dovuto rifiutarlo perché aveva già accettato un altro invito. Se lo avesse rifiutato perché non voleva andarci con lui e basta, almeno il ragazzo avrebbe potuto mettersi l’anima in pace.
Brandon si strofinò le mani. “Vado” disse, tutto agitato. Si voltò e si diresse a passo sicuro verso la ragazza, anche se chi lo conosceva bene come la sorella e i due amici poteva notare tutti i segni di nervosismo che tradivano il suo vero stato d’animo. Christine era da sola seduta ad un banco e stava annotando qualcosa su un foglio, probabilmente appunti relativi all’organizzazione del ballo.
Iniziarono a chiacchierare, poi un’altra ragazza fece per avvicinarsi a loro.
“Ci penso io” sussurrò in fretta Archer, e si precipitò ad intercettarla.
“Come la vedi?” domandò Amy Beth a voce bassa, fissando il fratello che parlava con Christine.
“Cosa?” domandò scioccamente Sam, che invece stava guardando Archer e l’altra ragazza.
“La situazione” rispose lei, facendo un gesto eloquente verso Brandon.
“Onestamente non lo so” disse Sam. “Non la conosco, non so nemmeno se ha già un fidanzato.”
“Non ce l’ha.”
“Non so se Brandon possa essere il suo tipo.”
“Ammetterai però che mio fratello è un tipo irresistibile.”
La ragazza aveva usato un tono scherzoso, e Sam rise, però disse: “Se l’ho notato? Già il fatto che io sia qui in questo momento la dice lunga.”
Amy Beth lo guardò e sorrise.
“Tu inviterai qualcuna al ballo?”
“Io non voglio andarci, al ballo.”
“Ma ci andrai.”
“Probabilmente non riuscirò a resistere a Brandon, no?”
“Quindi ci andrai.”
“Non lo so.”
Non lo entusiasmava l’idea di andare al ballo, nemmeno adesso che aveva degli amici. Sarebbero stati tutti accoppiati, tra l’altro. Se Christine avesse detto di no, Brandon avrebbe invitato sicuramente un’altra ragazza. Vinnie aveva Diana. Archer e Nathan erano piuttosto popolari tra le ragazze del loro anno e quelle del primo e del secondo, non avrebbero faticato a trovare un’accompagnatrice.
“Tu con chi andrai?” domandò a Amy Beth.
“Nessuno mi ha ancora invitata.”
“Soltanto perché i biglietti non sono ancora in vendita. Ti inviteranno tutti i ragazzi del terzo e del quarto anno, e solo perché gli altri sono troppo giovani e intimoriti per provarci.”
“Al ballo di Natale ho ricevuto un invito da ben due ragazzini del primo anno” rispose ridendo Amy Beth.
“Visto? Brandon sarà praticamente l’unico a non invitarti.”
“L’unico? E tu?”
“Io non conto” rise Sam.
“Perché no?”
Sam la guardò confuso. “Perché mai dovresti voler venire al ballo di San Valentino con me?”
La ragazza distolse lo sguardo. “Non c’è nessun altro con cui vorrei davvero andare. Non sopporto l’idea di accettare un invito qualsiasi e ritrovarmi con un ragazzo che non farebbe altro che provarci pesantemente con me tutta la sera. Succede sempre così, e non mi godo mai la serata.”
Amy Beth non era abituata alla falsa modestia. Sapeva di essere una delle più brave della scuola così come sapeva di essere una delle più belle e desiderate.
Samuel rimase in silenzio, perché non sapeva cosa dire, e lei continuò.
“Se davvero tu non vuoi invitare nessun’altra… magari potremmo andare insieme?”
Per un folle istante Sam pensò alla faccia di Sean McDonald se davvero si fosse presentato al ballo di San Valentino mano nella mano con Amy Beth King.
“Puoi andare da sola” rispose invece, come un cretino, pensando a quello che aveva detto Thomas.
“Ma voglio andarci con te. Ti sto… ti sto invitando. Formalmente.”
Era la prima volta che la vedeva arrossire.
Con me?” ripeté Sam.
“Come amici” aggiunse in fretta Amy Beth. “Ovviamente. Che senso ha andare da soli, ma insieme? Tanto vale andarci… insieme.” Si strofinò la fronte. “Insomma, hai capito cosa voglio dire.”
“Ho capito…” mormorò Samuel. “Sei sicura?”
“Sì. Se andassi da sola verrei sommersa da inviti a ballare. Per una volta voglio godermi la serata e divertirmi senza avere a che fare con maschi stupidi.”
“D’accordo, allora” le sorrise Sam. “Accetto formalmente il tuo invito.”
“Scemo!” esclamò Amy Beth, e gli diede uno dei soliti colpetti sul braccio.
 
Sì!” sentirono esclamare Brandon, a voce fin troppo alta, e videro Christine scoppiare a ridere.
Brandon si voltò verso Sam e Amy Beth, poi indicò Christine, mentre lei rideva di fronte a quello spettacolo.
“Ha detto di sì!”
“Non farmi cambiare idea!” esclamò la ragazza, che rideva così tanto da avere gli occhi ridotti a fessure e il naso completamente arricciato.
Anche Sam e Amy Beth scoppiarono a ridere, mentre Brandon li raggiungeva camminando all’indietro per soffiare un bacio verso Christine mentre si allontanava da lei.

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Capitolo 11
*** Confessioni e malintesi ***


11. Confessioni e malintesi

Com’era prevedibile, la settimana seguente Amy Beth fu presa d’assalto da tutti i ragazzi single della scuola. Lei rifiutava garbatamente tutti prima ancora che potessero finire di formulare l’invito, spiegando subito che aveva già un accompagnatore, nella speranza di evitare insistenze.
Ovviamente, circolarono un sacco di voci su chi potesse essere il ragazzo misterioso.
Brandon fu sorpreso di sapere che Sam e la sorella avevano deciso di andare al ballo insieme, come amici, ma la ritenne una buona idea. Odiava tutte le attenzioni maschili che riceveva la sorella. ‘Come se ce ne fosse anche solo uno degno di lei, in questa scuola’, diceva sempre.
Cosa ne pensassero le amiche della ragazza, Sam non lo sapeva.
Archer, Nathan e Vinnie avevano fatto un paio di battute riguardanti il ‘colpaccio’ di Sam, e lui aveva provato a chiarire che sarebbero andati insieme solo come amici.
“Certo, come no.”
“Se lo dici tu…”
“Sei matto!”
Il giovedì di quella settimana la riunione del club di Arte durò più del previsto, quindi Sam si ritrovò a precipitarsi nell’aula di Storia con l’album da disegno ancora stretto tra le braccia, irrompendo nella stanza con il fiatone.
“Scusate” disse, arrossendo. Si guardò intorno per decidere dove sedersi e si accorse che, per una volta, Thomas era completamente isolato dagli altri.
Lo raggiunse.
“Posso?” chiese, indicando la sedia accanto a lui.
Thomas gli rivolse un sorriso un po’… stanco. “Certo che puoi” mormorò.
Trascorsero la prima mezz’ora senza parlare tra di loro, ma quando ci furono cinque minuti di pausa, Thomas indicò i fogli che sfuggivano dall’album di Samuel, che era stato malamente gettato ai piedi del banco.
“Il club di Arte procede bene?” domandò.
“Molto” sorrise Sam. “Grazie per avermi spinto a iscrivermi.”
Thomas lo guardò in silenzio. Sembrava sul punto di voler dire qualcosa, per poi cambiare idea all’ultimo secondo. Infine fece un sospiro. “Posso vedere?” chiese, indicando l’album.
Sam rifletté velocemente. Era abbastanza sicuro di aver lasciato quasi tutti i suoi ritratti personali a casa.
“Ok…” mormorò in risposta. Raccolse l’album da terra e glielo porse.
Thomas aprì lentamente la copertina e sorrise immediatamente appena vide il primo disegno.
Era il disegno di un cuore. Un cuore umano, reale, con tanto di vene, arterie e valvole.
“Wow…” sussurrò Thomas. “È… meraviglioso.”
E lo era davvero, preciso e realistico fin nei minimi dettagli. Samuel aveva un vero e proprio talento.
“Grazie” rispose imbarazzato.
L’altro passò una mano sul foglio, sfiorando il disegno con le dita, in maniera leggera, per non rovinare l’opera.
Poi sollevò delicatamente il foglio e rivelò un altro disegno. Stavolta si trattava di un castello medievale appena accennato.
“Non è finito” chiarì in fretta Sam.
“Ci ero arrivato” rise Thomas. “Sta venendo bene, però.”
“Grazie” rispose Sam. “È un castello irlandese. Uno dei posti che Amy Beth vorrebbe visitare in un viaggio dopo il diploma, ci è già stata da bambina e se n’è innamorata. A fine mese è il suo compleanno e stavo pensando di farglielo incorniciare. Forse però è un’idea stupida…”
“No” disse con fermezza Thomas. “Sono sicuro che lo adorerà.”
“Lo spero. Ne parla sempre, come se fosse il posto più favoloso del mondo.”
Thomas spostò il castello, e…
Merda, pensò Sam.
Quel ritratto non avrebbe dovuto essere lì.
Era incompiuto. Lo schizzo mostrava solo il profilo di un ragazzo, la sua bocca, e i capelli mossi che scendevano a coprire l’orecchio. Tutto il resto, come gli occhi e il collo, erano appena accennati. Era solo una bozza, forse neanche il proprietario di quel profilo avrebbe potuto riconoscersi in quegli schizzi. O forse sì.
Sam strinse le labbra, in tensione. Fissava Thomas col cuore che andava a mille e nel frattempo la sua testa cercava di ragionare.
Era meglio stare zitto e sperare che non se ne accorgesse? Oppure era meglio dire subito che si trattava di un’altra persona, per sviarlo?
“Anche questo è molto bello” mormorò Thomas, che non aveva spostato gli occhi dal proprio ritratto neppure per un momento.
“G-Grazie” rispose Sam. “È… è Hugh” improvvisò. “Il fidanzato di Mindy. Ti ricordi di Mindy?”
Bene, così adesso gli aveva pure ricordato quella terribile cena.
“Sì…” rispose Thomas, senza alzare lo sguardo dal foglio. Si passò una mano sul mento, seguendo con le dita la linea della mascella, come se inconsapevolmente stesse paragonando la realtà al disegno.
Sam voleva sotterrarsi.
Quando Thomas finalmente lo guardò di nuovo negli occhi non disse niente. Chiuse l’album e glielo porse di nuovo, senza perdere il contatto visivo.
“Il cuore è il mio preferito” disse, sorridendo.
Sam ricambiò. “Anche il mio.”
 
Da quel weekend e per tutta la settimana seguente, Amy Beth fece ben pentire Sam di aver accettato il suo invito al ballo.
L’unica cosa che il ragazzo avrebbe voluto fare era crogiolarsi nella consapevolezza che Thomas non lo odiava più così tanto, perché aveva ricominciato a comportarsi con lui come faceva prima della fatidica cena. Invece di continuare ad evitarlo, adesso Thomas lo salutava nei corridoi e in mensa, si fermava a chiacchierare con lui prima e dopo le lezioni di letteratura, e le ripetizioni erano tornate ad essere un momento leggero per entrambi, anche se Thomas continuava a restare in biblioteca fino a tardi per non fare la strada con lui.
E invece il povero Sam doveva star dietro ad Amy Beth.
Sam le aveva chiesto di non dire a nessuno che sarebbero andati al ballo insieme. Già avrebbe dovuto sopportare i commenti durante quella serata e nei giorni successivi, voleva almeno risparmiarsi quelli anticipati. Però tutti continuavano a chiederle chi fosse il cavaliere misterioso e a farle pressioni, e lei stava uscendo pazza.
“Metà dei ragazzi del nostro anno continua ad invitarmi al ballo ogni giorno. Pensano tutti che io stia mentendo per metterli alla prova e ricevere più attenzioni” si lamentava.
“Sono davvero tutti così cretini?” domandò Brandon un giorno.
“Sì!” risposero contemporaneamente lei e Sam.
Ed era davvero così.
Sam non aveva ceduto alle suppliche della ragazza, e lei aveva rispettato la sua richiesta nonostante le rimostranze.
Quando arrivò il venerdì del ballo, esattamente il 14 febbraio, Sam poté dunque tirare finalmente un sospiro di sollievo. La tortura era finita. Ok, quella sera tutti li avrebbero visti al ballo insieme e sarebbero iniziati i commenti malevoli, ma almeno era già preparato a tutto quello che gli avrebbero sputato addosso, ci era abituato.
Quello che non si aspettava era di venire raggiunto da Thomas a pranzo.
Brandon e Archer non c’erano, perché erano ad una delle ultime riunioni del comitato del ballo. Vinnie era stato già rapito da Diana e lui e Nathan stavano parlando di Londra. C’era il concerto di una delle band preferite di Brandon, in estate, e i ragazzi pensavano di regalargli i biglietti e fare un piccolo viaggio tutti insieme. Gli sembrava ancora surreale fare piani con degli amici, eppure eccolo qui.
“Sam” si sentì chiamare, prima ancora di notare che l’altro si era avvicinato.
Sia lui che Nathan sollevarono la testa.
“Ehy” lo salutò Sam, con un sorriso, che si spense appena vide la sua espressione.
“Possiamo parlare un attimo?”
“Sì…” fece per alzarsi, ma Nathan lo fermò con un gesto.
“Vado via io, tanto devo ripassare per un test.”
Lui e Thomas si scambiarono un cenno di saluto, e il tutor si sedette di fronte a Sam, con un atteggiamento piuttosto rigido.
“Che succede?”
“Sono appena uscito dall’ufficio del preside” rispose Thomas, aggrottando leggermente le sopracciglia.
“Non capisco.” Talmente inebriato da come stessero andando bene le cose ultimamente, in quel momento Sam davvero non riuscì a capire di cosa stesse parlando l’altro.
“Pare che da oggi io non sia più il tuo tutor” disse Thomas con voce dura.
Ma l’espressione di Sam non era quella che si aspettava.
“Non… non lo sapevi?” domandò ancora Thomas, i tratti del suo viso improvvisamente molto meno arcigni.
Sam scosse la testa lentamente.
“Non lo hai chiesto tu?”
Sam era esterrefatto. “Pensavi che avessi chiesto di non averti più come tutor senza neanche dirtelo?!”
“Sì” rispose Thomas, che adesso stava diventando rosso. “Mi sono un po’ incazzato, e offeso.”
“Sei matto!” esclamò Sam. Si strofinò gli occhi con pollice e indice. “Dev’essere stato mio padre.”
“Ah.” Era evidente che Thomas non ci aveva pensato. “Scusami allora, non volevo arrabbiarmi con te. Mi sono sentito un po’… tradito.”
“Mi dispiace… So quanto sono importanti i punti per te. Proverò a parlare con mio pa-”
“No” rispose in fretta Thomas. “Non discutere con tuo padre. Non mi importa dei punti, troverò qualcun altro a cui fare da tutor.”
Gli sorrise e Sam si sforzò di ricambiare il gesto, ma in quel momento aveva l’umore sotto le scarpe.
Trascorse il resto della pausa pranzo nell’unica aula vuota che era riuscito a trovare, quella di storia dell’arte. Beh, non era proprio vuota, c’era il Professore, il fantasma che non parlava mai con nessuno.
Entrò, si richiuse la porta alle spalle, poi diede un calcio al primo banco.
“Dannazione!” esclamò, un po’ per il dolore al piede, ma soprattutto per la frustrazione.
Era mai possibile che ogni volta che iniziava a sentirsi un ragazzo normale, ogni volta che la sua vita gli piaceva almeno un pochino, qualcuno doveva mandare tutto all’aria?!
Si ritirò in un angolo dell’aula per spazzare via le lacrime che gli rigavano il viso, e si accorse che il Professore lo stava fissando. Era la prima volta, di solito gli dava sempre le spalle ed evitava ogni contatto visivo.
“Che hai da guardare?” gli ringhiò contro.
Il fantasma non fece una piega. Non disse nulla e continuò a fissarlo.
Sam raccolse lo zaino che aveva gettato per terra e uscì fumante dall’aula.
 
Quel giorno, per via del ballo, tutte le attività dopo la fine delle lezioni erano state sospese, perciò Amy Beth e Brandon non trovarono strano che Sam non avesse le ripetizioni, e nessuno dei due riuscì a notare il suo umore. Erano entrambi troppo presi dal ballo. Per Brandon era la prima vera serata da DJ ed era tremendamente emozionato, la ragazza invece non vedeva l’ora di indossare un abito che aveva confezionato da sola con l’aiuto della madre nelle ultime settimane.
I due King non smisero di parlare della serata imminente neppure per un momento, e quando arrivarono a casa loro si fermarono tutti e tre davanti al cancello.
“Ci vediamo dopo, allora?” chiese Amy Beth a Sam, con gli occhi che le brillavano.
“Senti… mi sa che io non vengo.”
“Cosa?” fece Brandon, aggrottando le sopracciglia.
Amy Beth avanzò di un passo verso di lui. “Che vuoi dire?”
“Non sono dell’umore.”
“Sei il mio cavaliere.”
“Sono sicuro che puoi trovarne altri cento entro le otto di questa sera.”
Amy Beth non disse nulla, ma la sua espressione divenne di ghiaccio.
Brandon chiuse gli occhi. “Lo sapevo… cazzo, lo sapevo” imprecò sottovoce.
“Sapevi cosa?” domandò Sam.
La ragazza si morse le labbra e Sam fu sorpreso di vedere che aveva gli occhi lucidi.
Il fratello le posò una mano sulla spalla, ma guardò l’amico.
“È successo qualcosa?”
“Niente di importante” rispose Sam, distogliendo lo sguardo.
“Non te ne frega proprio niente di me, vero?” chiese duramente Amy Beth, che stava lottando con tutta se stessa contro le lacrime.
“Stai esagerando” disse Sam, sulla difensiva. “Lo sai meglio di me che puoi trovare un altro accompagnatore senza problemi nei prossimi cinque minuti. Probabilmente ti basta fare una telefonata.”
“Ma io volevo andarci con te, a questo dannatissimo ballo.”
Samuel portò di nuovo lo sguardo su di lei. Non tanto per quello che aveva appena detto, ma per come lo aveva detto.
Ormai la ragazza aveva lacrime silenziose che le rigavano il viso, e Sam non l’aveva mai vista così vulnerabile e ferita.
“Sam…” disse Brandon, a voce bassa, e lo guardò come a dire: mi aspetto che tu sia in grado di fare 2+2.
Il ragazzo spostò lo sguardo da Brandon a Amy Beth. Non poteva credere a quello che stava succedendo.
“Sei uno stronzo” disse infine la ragazza, raccogliendo tutta la dignità che possedeva. “Un vero stronzo. Io… pensavo davvero di piacerti.”
“Amy Beth, ma tu mi piaci!” esclamò Sam, facendo un passo avanti. “Solo non… non in quel senso. Te lo giuro, non avevo idea che tu…” era tutto così surreale che non riusciva neppure a formulare una frase di senso compiuto. “Non voglio ferirti, te lo giuro.”
“Non vuoi ferirmi, però non vuoi neanche concedermi una serata ad un ballo a cui avevi promesso di accompagnarmi. Mi hai trattata come se di me ti importasse qualcosa, mi hai fatto credere che di me ti importasse qualcosa… per poi sbattermi in faccia che non te frega niente, senza neanche darmi una possibilità.”
Quelle parole furono come uno schiaffo per Sam.
Ripensò al suo rapporto con la ragazza. Davvero le aveva fatto credere di essere interessato a lei?
In tutta onestà, doveva rispondere di sì. Non sempre, ma a volte… a volte, quando erano in compagnia, era più facile fingersi attratto da lei che trattarla semplicemente come un’amica. Tutti erano completamente affascinati da Amy Beth… tutti. Archer e Nathan, nonostante fossero consapevoli di non avere alcuna chance, non perdevano occasione per flirtare con lei. Per Sam era stato più facile adattarsi a quei comportamenti che dissociarsene completamente. Era ben allenato, da tutta la vita fingeva che gli interessassero le ragazze.
Sapeva che era sbagliato, ma mai avrebbe pensato che per Amy Beth quelle attenzioni e quei comportamenti avrebbero potuto significare qualcosa.
Tutto, nello sguardo ferito di Amy Beth, sembrava supplicarlo di darle una possibilità.
Ma Sam era stanco di mentire.
“Non potrà mai succedere niente tra me e te, Amy Beth” le disse, senza il coraggio di guardarla negli occhi.
“Perché?” chiese la ragazza, con la rabbia nella voce. “Perché sei uno sfigato? Perché ti detestano tutti a scuola? Perché sei un tipo strano? Perché sei stupido?” Stava elencando tutte le cose che Sam, almeno una volta, aveva detto di se stesso parlando con lei e Brandon.
“Amy Beth…” mormorò il fratello della ragazza, che stava assistendo allo scambio di battute con aria mortificata.
“No” disse Sam, con voce ferma. “Perché sono gay.”
Era la prima volta che pronunciava quella parola a voce alta, e fu stranamente liberatorio.
E spaventoso.
“Cosa?” sussurrò la ragazza, facendo un passo indietro.
Brandon non disse nulla.
“Sono gay” ripeté. Era più facile dirlo, adesso. “Ecco perché.”
Amy Beth distolse lentamente lo sguardo, si strinse nel cappotto e si voltò velocemente, dando le spalle ai due ragazzi, dirigendosi a passo svelto oltre il cancello di casa sua, iniziando quasi a correre verso la porta d’ingresso.
Sam desiderava solo essere inghiottito dal terreno sotto i suoi piedi, si sentiva malissimo.
Brandon seguì la ragazza con lo sguardo, poi si girò di nuovo verso Sam.
“Mettiamo in chiaro una cosa” disse, con tono deciso. “Me ne sto andando perché hai appena spezzato il cuore a mia sorella, quindi sono arrabbiato con te, e lei ha bisogno di me. Per questo. Capito? Non perché sei gay.”
Sam si limitò a guardarlo a bocca aperta.
“Hai capito?” insistette il ragazzo.
Sam annuì.
Brandon fece per voltarsi e iniziare a camminare verso casa sua, ma ci ripensò all’ultimo momento. Coprì invece la distanza che lo separava da Sam e lo avvolse in un abbraccio veloce.
“Siamo sempre amici, vero?” domandò.
Sam, incredulo, annuì di nuovo. Pensava che sarebbe dovuto toccare a lui fare quella domanda.
“Bene.” Brandon gli sorrise e finalmente si precipitò a seguire la sorella.
 
Due ore più tardi, Sam bussò alla porta d’ingresso dei King.
Indossava un completo grigio scuro con una cravatta blu. Lo aveva scelto all’ultimo momento, ma non si era mai preoccupato di cosa mettere per quella serata, perché il suo armadio era pieno di abiti come quello. I suoi genitori non gli permettevano di sfigurare alle cene o agli eventi con i loro colleghi.
Per non rovinare l’outfit, da sopra indossava soltanto un cappotto, e gli si stavano gelando le orecchie. In strada li aspettava la limousine che Amy Beth gli aveva detto di prenotare qualche giorno prima.
Si accorse di un movimento alla finestra, ma chiunque si fosse affacciato era già sparito di nuovo dietro le tende.
Fu Amy Beth ad aprire la porta.
Era splendida. Il vestito che aveva disegnato e cucito insieme alla madre era un abito semplice, lungo e lucido, color acquamarina, decorato con minuscoli diamanti che avrebbero brillato perfettamente sotto le luci della pista da ballo. Si era anche truccata con eyeliner e un rossetto scuro, cosa che non faceva mai a scuola. I capelli, invece, le ricadevano sulle spalle raccolti nelle solite mille treccine.
Non disse niente, cosa di cui Sam fu grato, perché voleva essere il primo a parlare.
“Ho sbagliato, lo so” disse, senza neanche salutarla. “Ti chiedo scusa. Ma ti giuro, te lo giuro, Amy Beth, non pensavo ti importasse. Mai, neppure in un milione di anni, avrei mai immaginato che potesse importarti di me in quel modo. Altrimenti non mi sarei mai comportato così, come un idiota. Scusami.”
La ragazza sospirò. “Ti credo” disse.
“Puoi perdonarmi?”
Amy Beth accennò un sorriso. “Sei venuto per accompagnarmi al ballo?”
“Se vuoi.” Incoraggiato da quella reazione, ricambiò il sorriso.
“Sei fortunato, pare che io sia senza cavaliere per stasera.”
“Non… non hai trovato nessun altro?” Sam si sentì male al pensiero.
“Non ho cercato nessuno” rispose lei, prendendo il cappotto appeso lì nell’ingresso insieme alla sua borsetta. “Non perché aspettavo te” ci tenne a precisare. “Brandon!” chiamò il fratello a voce alta, voltandosi verso le scale, poi si girò di nuovo a guardare Sam. “Sarei andata da sola.”
Dobbiamo passare a prendere Christine!” strillò Brandon, mentre scendeva le scale di corsa. Si affacciò sulla porta da sopra la spalla della sorella. “Ah! Sapevo che saresti rinsavito” disse, guardando Sam.
“Sapevo che saresti stato in ritardo” commentò il ragazzo, visto che Brandon aveva la camicia sbottonata, una scarpa sola, e non c’era ombra della sua giacca e della cravatta.
“Nessuno è perfetto” replicò con un sospiro. “Comunque… ho perso una scarpa. Mi aiutate a cercarla?”
 
Molte teste si voltarono incredule, quando Amy Beth fece il suo ingresso in sala con Samuel Robertson.
Sean gridò qualcosa, e la gente attorno a lui rise, ma la musica era troppo forte perché Sam capisse, e decise di ignorarlo.
La sala non era altro che la gigantesca palestra della scuola, addobbata con grande gusto e senza badare a spese, tanto che sembrava la sala di un albergo durante un matrimonio. Il bianco, infatti, era il colore predominante. Tavoli con tovaglie bianche, petali bianchi sparsi un po’ ovunque, fiori freschi bianchi come centrotavola e che pendevano dal soffitto. Lucine bianche alle pareti modellate per formare cuori e parole chiave come ‘amore’ e ‘felicità’.
Tutto un po’ troppo sopra le righe, a parere di Sam. Però adesso un po’ si dispiacque di aver perso l’ultima possibilità di partecipare al ballo natalizio.
In fondo alla palestra/sala da ballo c’era un palco con la postazione da DJ e gli strumenti musicali della band che avrebbe suonato i lenti.
Al momento, l’amico DJ di Sean stava adempiendo ai suoi doveri.
Sam, Amy Beth, Brandon e Christine vennero intercettati subito dai loro amici.
“Siete in ritardo” urlò Archer, per sovrastare la musica.
“Brandon” dissero in coro Sam e Amy Beth.
Il colpevole alzò gli occhi al cielo.
Diana lasciò andare il braccio di Vinnie e prese la mano sia a Amy Beth che a Christine e le trascinò a ballare con le altre ragazze che facevano parte del gruppo di amiche di Amy Beth.
Anche Archer e Nathan, con le loro accompagnatrici, si persero tra la folla sulla pista.
“E tu?” domandò Sam a Brandon, a voce alta.
“Il mio turno alla consolle inizia tra un po’” rispose l’altro. “Vieni con me!” gridò. Lo afferrò per un gomito e lo trascinò in un angolo della sala, quasi vicino alla porta, dove la musica non arrivava così forte e potevano parlare ad un tono di voce normale.
“Che c’è?” chiese Sam, che non era rimasto solo con Brandon dalla confessione di quel pomeriggio e si sentiva ancora un po’ in imbarazzo.
“Tutto bene?” si informò l’amico.
“Non lo so” rispose Sam. Non aveva senso fingere di non sapere a cosa si riferiva Brandon. “Non l’avevo mai detto a nessuno.”
L’altro sorrise. “Penso tu sappia già che di me e mia sorella puoi fidarti.”
“Sì, questo lo so.” Sam ricambiò il sorriso.
Rimasero in disparte per un po’, osservando le ragazze ballare insieme. Amy Beth rideva e ballava e sembrava felice. Prima o poi avrebbero dovuto parlare di quello che era successo, ma non era questo il momento giusto. Ad un certo punto Brandon attirò l’attenzione di Sam con una leggera gomitata.
“Dovresti andare a parlare con Carter” gli disse, chinandosi verso di lui per parlargli nell’orecchio.
“Perché?!”
Brandon rise. “Perché è da quando siamo arrivati che non fa altro che fissarti” rispose.
“Davvero?” Sam passò in rassegna la sala con lo sguardo e individuò Thomas vicino ad un tavolo. Era da solo, in piedi, appoggiato allo schienale di una sedia, con un bicchiere in mano. Si accorse che Sam adesso lo stava guardando, perché effettivamente era rivolto verso di lui, e lo salutò con un cenno della testa.
Non riuscì a evitare di squadrarlo dalla testa ai piedi. Era sempre bellissimo, ma in giacca e cravatta ancora di più. Indossava un completo nero, con una camicia nera, e una cravatta verde smeraldo.
“E allora?” Brandon gli diede un’altra gomitata. “Che aspetti? Vai!” borbottò.
“Non so…”
Vai!”
Sam iniziò a massaggiarsi le mani nervosamente.
“Perché fai questo?”
“Questo cosa?” sbottò Brandon, esasperato.
Questo.” Sam si spostò per dare le spalle a Thomas e guardare Brandon dritto in faccia. Alzando la testa, ovviamente, visto che l’amico era altissimo. “Perché ti comporti come…”
“Come se fossimo amici?” Brandon alzò gli occhi al cielo. “Per amor di Dio, Sam. Perché siamo amici.”
Anche Sam alzò gli occhi al cielo. “No” disse, sbuffando perché non riusciva a trovare le parole per spiegarsi. “Ti comporti come se questa situazione fosse… normale. Come se te ne andassi tutti i giorni in giro a spingermi tra le braccia di qualche ragazzo.”
Si morse le labbra. Non aveva mai parlato così liberamente con qualcuno, mai. Forse soltanto con Max.
L’amico valutò bene cosa dire prima di rispondere. “Sam, onestamente… non posso dirti di essere sorpreso. Non ne ero sicuro al cento per cento, però… Non so. Era una sensazione. Ho provato a dire a mia sorella che secondo me la vedevi solo come un’amica, però lei era così sicura, e speranzosa… ho pensato che magari ero io a sbagliarmi.” Si strinse nelle spalle. “Quindi non cado proprio dalle nuvole.”
“Quando lo hai capito?”
“La prima volta che ti ho visto interagire con Carter.” Si portò una mano davanti alla bocca per coprire una risata. “Dannazione, Sam! Uno spettacolo penoso. Peggio di me con Christine.”
Ormai Sam si sentiva il volto in fiamme.
“Allora?! Che ci fai ancora qui?”
“Ti sbagli” disse Sam, evitando accuratamente di guardare nella direzione di Thomas. “Non su di me. Ma su di lui. Non esiste proprio che ci sia la minima possibilità che mi veda in quel sens-”
“Ehy!” esclamò Brandon, fissando un punto oltre le spalle di Sam.
“’sera” rispose la voce di Thomas.
Il cuore di Sam saltò un battito. Si girò lentamente e si ritrovò il ragazzo a un metro di distanza. Aveva ancora il bicchiere mezzo pieno in una mano e sorrideva.
“Mi sembra il momento di permettere alle ragazze di ballare su musica decente, vado a reclamare il mio turno da DJ” disse Brandon. “Se Christine chiede di me, le dici che la aspetto alla consolle?”
Sam annuì.
Brandon salutò Thomas con una pacca sulla spalla e poi si allontanò attraversando la pista da ballo a passo di danza, strappando un sorriso sia a Thomas che a Sam.
“Quindi sei tu il famoso cavaliere di Amy Beth King” commentò Thomas, appena rimasero soli.
“Già…” Aveva ormai perso il conto delle occhiatacce schifate che si era beccato negli ultimi minuti.
“Non sapevo che fosse la tua ragazza.”
“Non lo è!” esclamò Sam, forse un po’ troppo in fretta e a voce un po’ troppo alta. “Siamo qui come amici.”
“Deve essere difficile venire al ballo più romantico dell’anno con una ragazza come Amy Beth ed essere solo suo amico” commentò l’altro.
Sam, per una volta in vita sua, non distolse lo sguardo da quello di lui. “Non è difficile per me” disse.
Thomas non replicò subito, ma rimase a guardarlo negli occhi in silenzio. C’erano tante di quelle cose che avrebbero voluto dirsi, ma nessuno dei due riusciva a trovare il coraggio.
“Come stai?” gli domandò poi.
Era una cosa che Thomas faceva spesso. Lui non chiedeva mai a Sam come stava appena lo vedeva, giusto per iniziare una conversazione. Glielo chiedeva all’improvviso, e sembrava sempre genuinamente interessato alla risposta.
“Bene” rispose Sam. “Tu?” si schiarì la voce. “Ti chiedo ancora scusa per mio padre. Mi dispiace per i punti…”
“Sam.” Thomas fece un passo verso di lui e gli si piazzò davanti, con il viso a pochi centimetri da quello del ragazzo. “Non mi è mai importato niente dei punti, del college, delle ripetizioni, del club di Storia o degli appunti di letteratura.”
Lo stava fissando negli occhi con un’intensità tale che fece sentire Sam completamente esposto e allo stesso tempo inebriato di coraggio. Erano circondati da musica a tutto volume, da persone che ballavano, da luci stroboscopiche, ma nella testa di Sam c’erano solo lui e Thomas, nel loro angolo preferito della biblioteca, soli, immersi nel silenzio.
“Mi importava solo di passare del tempo te” concluse Thomas, arrossendo.
Sam distolse lo sguardo, sopprimendo l’istinto di portarsi una mano al petto a causa della tachicardia. “Non mi stai prendendo in giro, vero?”
Thomas sorrise e aspettò che l’altro lo guardasse di nuovo negli occhi. “No. E non voglio che tu sparisca solo perché adesso non abbiamo più scuse per vederci.”
Anche Sam sorrise. “Dimentichi il club di Storia.”
Thomas scoppiò a ridere, e quel suono sciolse la tensione di Sam, che si unì alla risata.
Pian piano tutti i suoni e i colori ripresero il loro posto, così come la consapevolezza di essere circondati da altre persone.
Thomas fece un passo indietro e si portò il bicchiere alle labbra per mandare giù qualche sorso, proprio mentre Archer e Vinnie si avvicinavano alla coppia.
“Ehy!” urlò Archer, per farsi sentire. Mise una mano sulla spalla di Sam per avvicinarlo a sé. “Vogliamo andare sotto al palco a ballare e dare fastidio a Brandon!”
Vinnie stava annuendo con enfasi.
“Ci sto!” rispose Sam.
“Ottimo!” replicò Archer.
“Vado a cercare Diana allora” disse Vinnie, incamminandosi verso il gruppo di ragazze. Stavano ancora ballando tutte insieme al centro della pista.
“Vieni anche tu?” strillò Archer a Thomas.
Thomas lanciò un’occhiata a Sam, che gli sorrise.
“Certo” rispose il ragazzo. Posò il bicchiere sul tavolo più vicino e poi si avviò verso il palco con Archer, mentre Sam si inoltrava tra i ballerini in mezzo alla pista.
Raggiunse Amy Beth e le porse la mano.
“Pare che stiamo andando a dare fastidio a Brandon” le strillò nell’orecchio.
La ragazza gli strinse forte le dita. “Il mio passatempo preferito” replicò con un sorriso.
 
Fu una delle serate più divertenti della vita di Sam. Degli ultimi anni, almeno.
Brandon era un DJ strepitoso e Sam era riuscito a sciogliersi sulla pista, forse perché per la prima volta in vita sua era circondato da gente che non lo aggrediva, o giudicava, o bullizzava in alcun modo.
Lui e Thomas non si erano più isolati dal gruppo, ma si erano scambiati sguardi e sorrisi per tutta la sera, anche quando l’altro si era allontanato per andare a ballare con Suze e le altre sue amiche.
Sam aveva ballato con Amy Beth tutti i lenti che la band aveva proposto. Era un pessimo ballerino, ma lei era bravissima e lo aveva guidato in ogni passo. Si erano divertiti ed erano anche riusciti a parlare della discussione di quel pomeriggio senza che nascessero altri drammi.
“Mi dispiace di averti chiamato stronzo” gli aveva detto Amy Beth.
“Avevi tutto il diritto di farlo. Avevi ragione.”
“Sì, è vero.”
Entrambi avevano riso.
“Comunque… hai pessimi gusti in fatto di uomini” aveva commentato Sam.
“Così pare. Ma non preoccuparti, mi passerà.”
“Va tutto bene tra noi, vero?” Il ragazzo voleva esserne sicuro, voleva sentirglielo dire.
“Adesso sì.”
Amy Beth aveva appoggiato di nuovo la testa sulla sua spalla e avevano continuato a ballare.
Il vero vincitore di quel San Valentino, comunque, fu Brandon. Era stato il DJ più apprezzato, si era divertito da matti, e a fine serata Christine lo aveva tirato a sé per la cravatta e lo aveva baciato in mezzo alla pista, davanti a tutti, scatenando un giro di applausi.
Sam era felice.
Per la prima volta nella sua vita, non si limitava a non essere infelice. Era felice per davvero.
Così tanto, che quando il mattino dopo suo padre si lamentò di quanto avesse fatto tardi la sera precedente e gli comunicò che lunedì avrebbe iniziato a fare ripetizioni con una tutor che abitava nel loro nuovo quartiere, Sam fu addirittura in grado di rispondergli con un sorriso.

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Capitolo 12
*** Correre dei rischi ***


12. Correre dei rischi

Sam trascorse metà del weekend buttato sul letto di Brandon ad ascoltarlo suonare, con la compagnia saltuaria di Amy Beth.
Nell’esatto momento in cui rimasero da soli per la prima volta dopo il ballo, il musicista entrò in modalità gossip.
Dalla sua solita poltrona, guardò Sam dritto in faccia con occhi carichi di aspettativa.
“E allora?” domandò.
“Cosa?” chiese Sam, genuinamente all’oscuro.
“Tu e Carter.”
“Puoi chiamarlo Thomas?”
“Non sono abituato.”
“Abituati.”
“Oh, significa che parleremo di lui più spesso?”
Ci mancava poco che cominciasse ad ammiccare.
“No” rise Sam. “Anche perché non c’è nessun ‘me e Carter’.”
“Cosa ti ha detto ieri sera?”
Sam lo aggiornò sull’intromissione del padre con la faccenda del tutoring. “E ha solo detto che…” arrossì. “Ha detto che vuole che continuiamo a vederci, anche se non abbiamo più la scusa delle ripetizioni.” Poi, di fronte al sorriso radioso di Brandon, si sentì in dovere di aggiungere: “Ma non credo significhi chissà cosa. Non in quel senso, almeno.”
“Ma sei scemo?!” esclamò l’altro, esasperato.
“Magari vuole solo essere mio amico. Anche tu volevi solo essere mio amico.”
“Sì, ed è per questo che ti ho detto che volevo essere tuo amico, senza inventare scuse per vederti, senza guardarti come se volessi mangiarti, senza sciogliermi come un gelato al sole ogni volta che sono in tua presenza, senza passare l’intera serata di San Valentino a fissarti e sorriderti come un pesce lesso.”
“Thomas non ha mai fatto nessuna di queste cose!” esclamò Sam.
“Ecco perché tu e mia sorella andate così d’accordo. Siete entrambi ciechi di fronte alla realtà” scosse la testa e si abbandonò allo schienale della poltrona.
“Dai…” Sam si strofinò il naso con una mano, coprendosi la faccia, ancora imbarazzato (e sconvolto) da quel malinteso tra lui e Amy Beth.
“Anzi, a ben pensarci, siete completamente diversi. Lei vedeva solo quello che voleva vedere, e tu fingi di non vedere quello che ti spaventa.”
“Non sono spaventato da Thomas.” Sam si sentì punto sul vivo.
“Ah, no?” Brandon incrociò le braccia.
Ok, forse un po’ sì. Anzi, forse più di ‘un po’’.
La verità era che Sam era terrorizzato a morte.
E se a Thomas fossero piaciuti davvero i ragazzi? E se fosse stato davvero interessato proprio a lui?
Sam non aveva idea di come ci si comportasse in una situazione del genere. Non sapeva neppure flirtare! Bastava vedere che casino aveva combinato con Amy Beth.
“È solo che… Brandon, io non so come ci si comporta in questi casi.”
“Quali casi?!”
“Quando ti piace qualcuno… e quando forse quel qualcuno ricambia.” Distolse lo sguardo. “Non so se hai notato, ma sono piuttosto indietro rispetto a tutti i ragazzi del mio anno.”
“Non dire stronzate” replicò l’amico.
“Non capisci.”
“Capisco che ti sottovaluti.”
“Non ho mai neanche… non ho mai neanche baciato nessuno.” Sam si sentì arrossire fino alla punta delle orecchie.
“E quindi? Neanche io, prima di ieri sera.”
Sam sollevò lo sguardo. “Davvero?”
“Già” rise Brandon.
“Beh, comunque è diverso. Non si tratta solo di baciare qualcuno. Se tu provi a baciare una ragazza, o la inviti a uscire, e lei ti rifiuta… è umiliante, certo, ma non è… pericoloso.”
“Che vuoi dire?” Adesso l’espressione di Brandon era tornata seria.
“Per me non si tratta solo di rischiare un rifiuto, per me c’è in ballo molto di più. Non rischio di esporre solo i miei sentimenti e di vederli calpestati. Cosa succede se abbiamo completamente frainteso l’atteggiamento di Thomas, e lui racconta in giro che io ci ho provato con lui? Riesci a immaginare cosa succederebbe se tutta la scuola scoprisse…” abbassò la voce. “…che sono gay? E quanto in fretta lo scoprirebbero anche gli insegnanti e i miei genitori? Prima di ieri non ero neppure mai riuscito a dirlo a voce alta ad anima viva.”
Ma ad anima morta sì.
Brandon si morse le labbra.
“Hai ragione” rispose.
“Ho paura” confessò Sam.
“Questo lo capisco” disse Brandon. “Ma non mi piace pensare che magari stai rinunciando a qualcosa di bello solo perché non puoi rischiare.”
“Già. Il mondo va così.”
“Il mondo fa schifo” commentò Brandon.
E su quelle parole la signora King bussò alla porta per chiedere ai due ragazzi se volevano tè e biscotti.
 
L’altra metà del weekend, invece, Sam la trascorse chiuso in camera sua.
Perlopiù disegnò e chiacchierò con Maxwell.
Il fantasma si fece raccontare tutto sul ballo. Era seduto a mezz’aria sul letto, Sam invece era alla scrivania.
“Mi dispiace per quello che è successo con Amy Beth” disse Max. “Non riesco neppure a immaginare come dev’essere. Se Sarah si fosse innamorata di me penso che sarei impazzito.”
“Oddio, no. ‘Amore’ mi sembra una parola grossa.” Sam si strinse nelle spalle. “Lei dice che va tutto bene tra noi, ma secondo me è ancora un po’ risentita. Non solo con me, ma anche con se stessa.”
“Si rimprovera di essersi illusa. Credo sia normale.”
“Anche io. Ma sono sicuro che le cose si aggiusteranno e torneranno come prima.”
Sam era davvero fiducioso su questo. Era già abbastanza incredibile che una ragazza come Amy Beth avesse una cotta per lui, non sarebbe stato difficile dimenticarlo e continuare a considerarlo solo un amico.
“E come ti senti adesso che lei e suo fratello sanno la verità?”
Questa era una domanda difficile alla quale rispondere.
“Da un lato sono contento, mi sento libero, sollevato. L’idea di non dover più soppesare ogni parola quando parlo con loro è la miglior sensazione del mondo.” Lui e Max si sorrisero. “Però mi spaventa l’idea che ci sia qualcuno che lo sa e che prima o poi potrebbe usarlo contro di me.”
“Ma non puoi vivere la vita senza rischiare mai, neppure una volta” replicò Max. “Hai delle buone ragioni per fidarti dei tuoi amici, e se loro dovessero tradirti, non sarà colpa tua.”
“Però ne pagherò io le conseguenze.”
Max non disse nulla, perché effettivamente non c’era niente da dire, il ragazzo aveva ragione.
“Sono comunque contento di poter essere me stesso almeno con loro. Soprattutto con Brandon” continuò Sam.
“Brandon è la tua Sarah” disse Max, sorridendo.
Anche Sam sorrise per quel paragone, e pensò che a Brandon sarebbe piaciuto.
 
Lunedì pomeriggio, dopo aver salutato Brandon e Amy Beth all’angolo della strada, Sam si ritrovò a bussare alla porta della casa accanto a quella in cui aveva vissuto Aidan Ellis.
Guardava in continuazione in quella direzione, come se stesse facendo qualcosa di male e temesse di essere scoperto. Come se qualcuno da quella casa potesse affacciarsi e urlargli ‘io so che tu sai cosa è successo ad Aidan!’.
Pensieri ridicoli, eppure non vedeva l’ora che gli aprissero la porta per nascondersi a possibili sguardi dei vicini.
Fu accontentato in fretta.
“Ciao!” esclamò una ragazza, aprendo la porta con un sorriso. “Tu devi essere Samuel.” E gli porse la mano.
Il ragazzo gliela strinse. “Sam” precisò subito. “Isabella?”
“Sì, sono io. Entra pure.” Si fece da parte, e Sam avanzò nell’ingresso della villetta.
Isabella non doveva avere più di vent’anni, aveva i capelli neri legati in una coda di cavallo e indossava una tuta sportiva dall’aria molto costosa.
Lo condusse in un salotto arredato in uno stile che ricordava gli anni settanta.
“Accomodati” gli disse, precedendolo.
Sam la seguì docilmente e si fermò di colpo quando vide che, sul divano, era seduta Sarah Burke. In carne e ossa.
L’aveva vista abbastanza spesso nelle ultime settimane. La ragazza abitava proprio di fronte casa Robertson e usciva tutti i giorni per andare a lavorare, quindi era impossibile non vederla. Tra l’altro, camera di Sam affacciava sulla strada principale, ed era proprio la ragione per cui era la stanza preferita di Maxwell.
“Scusa l’intrusione” disse Sarah, guardando il ragazzo. “Sono passata solo per lasciare dei documenti, vado via subito.” Si alzò e porse la mano a Sam, che la strinse debolmente. “Sarah Burke. Sono la tua dirimpettaia, ma non credo siamo mai stati presentati ufficialmente.”
“Sam Robertson.”
Sarah risedette sul divano e si dedicò di nuovo alla cartellina medica che aveva momentaneamente abbandonato sul tavolino.
“Dovrebbe esserci tutto.” Alzò lo sguardo su Isabella. “Di’ a tua madre che se ha bisogno di qualche delucidazione può telefonarmi o fare un salto direttamente. Domani ho il giorno libero.”
“Perfetto, grazie!” rispose la padrona di casa.
Ci furono i saluti, poi finalmente Sam e la sua nuova tutor iniziarono a studiare, anche se la concentrazione del ragazzo scivolava via ogni cinque minuti.
Isabella frequentava il college a Londra e si era diplomata con il massimo dei voti alla Walker un paio di anni prima. Era una brava insegnante, paziente, chiara e precisa. Ma Sam non riusciva a non pensare a quanto avrebbe preferito essere con Thomas in quel momento, e non riusciva neppure a smettere di rimuginare sul breve incontro con Sarah.
Aveva raccolto su di lei quante più informazioni possibili senza sembrare uno stalker maniaco, e le aveva già riferite tutte a Maxwell.
Viveva da sola perché i suoi genitori si erano trasferiti in campagna, era laureata in medicina e lavorava nell’ospedale in centro città, lo stesso dove lavoravano i genitori di Sam. Non era sposata, non aveva neppure un fidanzato (a meno che non lo tenesse nascosto) e ogni tanto capitava che andasse a pranzo dai King.
Gli sarebbe piaciuto conoscerla meglio, ma non era riuscito ancora a trovare l’occasione giusta.
 
Quando finalmente arrivò il giovedì, Sam stentò a crederci. Aveva appena trascorso i tre giorni più lunghi della sua vita.
A scuola aveva dovuto sopportare fin troppe battute sul ballo. Quanto aveva pagato per convincere Amy Beth a essere la sua dama? O magari si era messo a piangere davanti a lei per farle compassione? L’aveva drogata? Doveva essere stata roba pesante, neppure un filtro d’amore poteva essere sufficiente.
Amy Beth aveva cercato di prendere le sue difese, ma ovviamente nessuno era interessato ad ascoltare la verità.
“Mi dispiace” gli aveva detto la ragazza. “Non avevo idea che sarebbe stato così.”
Sam non aveva risposto. Per lui non era stata una sorpresa, subiva quel tipo di trattamento da tre anni e mezzo, ormai. Prima o poi si sarebbero stancati. La cosa più brutta era vedere quando fosse dispiaciuta lei di essere l’involontaria causa di quelle battute.
Come se non bastasse, Sam era riuscito a incontrare Thomas solo di sfuggita, quindi non vedeva l’ora di sedersi accanto a lui durante il club di Storia.
Come al solito non parlarono molto nell’ora di attività, ma a fine giornata si incamminarono insieme.
Thomas respirava molto lentamente e profondamente, forse per il freddo, mentre Sam stringeva al petto l’album da disegno. Non lo aveva infilato nello zaino perché sperava che Thomas gli chiedesse di nuovo di dare un’occhiata ai suoi disegni, e stavolta lo aveva riempito di alcune delle illustrazioni più belle che aveva realizzato nelle ultime settimane, facendo ben attenzione a evitare ritratti.
“Quindi… hai un nuovo tutor?” gli chiese Thomas, con un leggero sorriso, appena varcarono il cancello scolastico.
“Sì. È una ragazza che abita dalle mie parti. Frequenta il college” rispose Sam, spostando l’album da un braccio all’altro, cercando di attirare l’attenzione su di esso.
“Ti trovi bene?”
“Direi di sì.”
“Sono contento.”
“Preferivo studiare con te, però” gli sfuggì. Fissò con insistenza il marciapiede mentre entrambi continuavano a camminare in silenzio per un po’.
“Ho sentito che sabato sera inaugurano un nuovo pub in centro” disse infine Thomas. Sembrava nervoso.
“Sì, lo so. Brandon non sta nella pelle, pare che sia a tema rockband, o una cosa del genere.”
L’altro rise. “Rockband o una cosa del genere” lo scimmiottò.
“Ehy, che vuoi? La musica non è il mio elemento. Mai che aprissero un pub a tema cubismo o puntinismo.”
“Quindi non vuoi proprio metterci piede? Io pensavo di fare un salto per vedere com’è” commentò Thomas, senza cogliere l’ennesimo tentativo di Sam di spostare l’argomento sul suo album.
“Parli come se avessi scelta. Brandon ci trascinerà tutti a quest’inaugurazione.” Dopo un attimo di pausa aggiunse: “Ti va di venire con noi?”
Thomas gli sorrise, e si fermò. In parte perché erano giunti all’incrocio di strade in cui avrebbero dovuto separarsi, in parte perché voleva guardarlo negli occhi.
“In realtà… speravo che tu volessi venire con me. Volevo chiederti… se ti andava di andarci insieme. Tu e io. Non in gruppo.”
Sam rimase pietrificato. Thomas gli aveva appena chiesto apertamente di uscire.
Non aveva più scuse, non c’erano più dubbi. In quel momento, adesso, doveva decidere.
Nascondere la testa sotto la sabbia, o rischiare?
“Do-dovremmo fingere di non… di non vederli?” tentò. “Brandon e gli altri, intendo.”
“Giusto, idea stupida” disse Thomas, distogliendo lo sguardo. “Scusa. Diment-”
“No!” esclamò Sam, e quasi gli scivolò l’album dalle mani. “Non… non è un’idea stupida.” Non riusciva a guardarlo negli occhi. Rischiare non era il suo forte, avrebbe avuto bisogno di tempo per iniziare a farlo a testa alta. “Solo che… non penso si possa fare questo sabato. Ma-magari, il prossimo?”
Thomas rimase a guardarlo in silenzio per un po’. Sam era un fascio di nervi, rosso di imbarazzo dalla testa ai piedi.
“Non voglio aspettare un’intera settimana per uscire con te” rispose allora, usando tutto il coraggio che aveva, perché ormai le maschere erano cadute. Mise in moto il cervello, e Sam quasi poté vedere la lampadina che si accendeva accanto alla sua tempia. “Domani. Dopo le lezioni. Mi piacerebbe portarti in un posto. Ti prometto che ti piacerà.”
Sam si strinse l’album al petto come uno scudo. Non poteva credere a quello che stava succedendo.
“D’accordo” gli disse.
Si salutarono semplicemente sorridendosi, e Sam quasi percorse di corsa la strada che lo separava da casa sua.
 
Il giorno dopo, durante la pausa prima dell’ultima lezione, Brandon si precipitò all’armadietto di Sam.
“Nervoso?”
“Sto impazzendo.”
“Ottimo!” esclamò l’amico, su di giri.
“Me ne torno a casa, non ci vado.”
“Dovrai passare sul mio cadavere.”
“Lo farò!”
“Ma per favore, in uno scontro con me non resisteresti nemmeno dieci secondi.”
Sam richiuse di scatto l’armadietto.
“Brandon, sono serio. Non sono mai stato così nervoso in vita mia. Mi viene da vomitare.”
“Lo dici tutte le volte che succede qualsiasi cosa.” Gli mise un braccio intorno alle spalle e iniziarono a camminare lungo il corridoio. “Non sei più credibile. Che dico ai tuoi se li incrocio e mi chiedono dove sei?”
“Che mi sono fermato da Isabella come al solito. A lei ho detto che restavo a scuola, sono riuscito a chiamarla stamattina prima di uscire. Spero solo che non faremo tardi.”
“Io spero di sì” ammiccò Brandon.
“Oddio. Oddio. Cosa sto facendo?!”
“Stai andando a un appuntamento.”
“Non è un appuntamento. È un’uscita.”
“Sam. Sarà la serata più bella della tua vita. Fidati di me.”
Il ragazzo annuì. Maxwell gli aveva detto la stessa cosa, anche se con un sorriso malinconico, e non entusiasta come quello di Brandon.
 
Si incontrarono al cancello della scuola.
C’era anche Rose, e anche lei augurò a Sam di trascorrere una bella serata, anche se lui non le aveva spiegato la natura dell’uscita. Non aveva idea di come avrebbe potuto prenderla. D’altra parte, quella ragazza veniva letteralmente da un’altra epoca, con una mentalità ben diversa.
“Andiamo?” chiese Thomas, con un sorriso nervoso.
Sam annuì e fece strada, anche se non aveva idea di dove stessero andando esattamente.
Furono circondati da altri compagni di scuola per un po’, proseguendo per la solita strada, poi, all’incrocio in cui di solito si dividevano, Thomas lo condusse lungo la via che prendeva sempre lui.
Stavolta Sam non aveva l’album da disegno e all’improvviso sembrava essersi dimenticato come camminare da persona normale. Infilava le mani nelle tasche del giubbotto, poi in quelle dei pantaloni, poi stringeva gli spallacci dello zaino, e poi ricominciava da capo.
“Dove stiamo andando?” domandò. Thomas non era mai così silenzioso e la cosa lo innervosiva.
“È una sorpresa” rispose l’altro. “Ma giuro che non ti sto portando in un posto isolato per ucciderti. Andiamo in pieno centro città.”
In qualche modo riuscirono ad avviare una conversazione, anche se erano entrambi agitati, e dopo un po’ parlare divenne sempre più naturale.
Arrivarono davvero in centro, dove era pieno di gente, i negozi erano aperti. Diventò più difficile chiacchierare, perché dovevano evitare in continuazione altre persone sui marciapiedi.
Oltrepassarono un paio di pub, e anche il cinema. Sam stava iniziando a pensare che volesse portarlo a vedere un film, invece Thomas continuava a camminare a passo deciso e lui lo seguiva curioso.
Svoltarono in alcune strade laterali e a un certo punto Thomas si fermò.
“Eccoci” disse.
Erano davanti ad una Galleria che Samuel conosceva abbastanza bene, perché spesso ospitava delle mostre d’arte e lui e Mindy cercavano di non perdersene neanche una.
“Questa?” domandò Sam, indicando la porta d’ingresso sbarrata. “È chiusa.”
“Inaugurano una mostra nei prossimi giorni.”
“Sì, lo so. Tra dieci giorni. Sull’Impressionismo.”
Thomas fece un largo sorriso. “Ovvio che lo sai.”
“Non capisco” replicò Sam, sorridendo anche lui, perché l’espressione di Thomas era contagiosa, ma era davvero confuso.
“Vieni con me.”
Sam lo seguì sul retro dell’edificio.
Thomas estrasse un paio di chiavi e aprì una porta laterale.
“Cosa stai facendo?!”
“Apro la porta” spiegò Thomas, facendosi da parte per dargli la precedenza.
“Questo lo vedo, ma come fai ad avere le chiavi?!” sussurrò Sam, varcando la soglia.
“Buonasera!” salutò una voce.
Sam sussultò per lo spavento e Thomas scoppiò a ridere. Era entrato anche lui e adesso si stava richiudendo la porta alle spalle.
“Buonasera, Jack” salutò.
Ci fu una breve presentazione con il trentenne in divisa che li aveva accolti, Jack, ovvero il custode della Galleria. Consegnò a Thomas un pacchetto e indicò loro la strada da percorrere per arrivare alle sale espositive.
I due ragazzi ringraziarono e si inoltrarono nei corridoi semi bui e deserti.
“Vuoi spiegarmi?!” chiese Sam, che adesso era su di giri.
“Mia sorella lavora qui” disse Thomas, mentre avanzava a passo sicuro. “I quadri sono quasi tutti già a posto, anche se probabilmente prima dell’apertura ufficiale faranno qualche modifica.”
Quando arrivarono nella prima sala fiocamente illuminata, Thomas fece il segno di un pollice in su verso un angolo del soffitto, e improvvisamente tutte le luci si accesero.
“Grazie, Jack” mimò Thomas, scandendo bene le parole con le labbra, verso quell’angolo di soffitto dove adesso Sam poteva vedere chiaramente una telecamera di sicurezza.
Sam si guardò intorno a bocca aperta.
La sala era quasi completamente allestita. Molti quadri erano già alle pareti, altri erano in alcune teche appoggiati su dei tavoli al centro della stanza, in attesa di essere liberati. Sui tavoli e sulle panche per i visitatori erano sparpagliate le targhe dei quadri che non erano ancora stati affissi. Qua e là c’erano scatoloni e attrezzi, e si sentiva un fortissimo odore di vernice fresca.
Dopo aver fatto un giro su se stesso per osservare ciò che lo circondava, Sam si voltò a guardare Thomas.
“Sei sicuro che possiamo stare qui?” domandò, con un sorriso talmente largo da lasciar intendere che non gli importava davvero la risposta.
Thomas rise compiaciuto per lo stupore e la meraviglia che leggeva sul viso dell’altro. “In teoria non potremmo, ma in pratica né Evelyn né Jack ci tradiranno. Ovviamente dobbiamo stare attenti a non fare danni, ma sono sicuro che non hai intenzione di strappare la tela di un Monet originale.”
Lasciarono i giubbotti e le giacche della divisa scolastica su una panca.
“Stavo pianificando di chiederti di venire qui con me durante l’apertura ufficiale, se la serata al pub non ti avesse scoraggiato ad aver a che fare con me per i prossimi cento anni” confessò Thomas.
Per Sam era sconvolgente scoprire che Thomas non solo gli aveva chiesto un appuntamento, ma addirittura aveva fantasticato su una seconda uscita.
“Beh, di certo non mi lamenterò del cambio di programma” replicò, rosso in viso.
Cominciarono ad esplorare la sala.
Sam era completamente rapito dai quadri.
Ogni tanto spiegava a Thomas qualcosa che sapeva su un dipinto senza neppure leggere la targhetta, altre volta non conosceva l’opera o l’autore e cercavano di capire quale delle targhette sparse in giro gli appartenesse.
Thomas non lo aveva mai visto così in vena di chiacchiere, quindi non lo interrompeva mai, anzi, a volte gli faceva anche qualche domanda. Chiedeva cosa gli piacesse di più di ogni quadro, o se lo avrebbe appeso in camera sua. Ogni tanto dava anche la sua opinione, soprattutto quando Sam la chiedeva, ma per la maggior parte del tempo lasciava parlare lui.
Dopo un’ora avevano visitato due sale, e Thomas aprì il sacchetto che gli aveva consegnato Jack.
“Evelyn lavora anche in un negozio di caramelle” disse.
Sam immerse la mano nel sacchetto e ne estrasse una liquirizia.
“Grazie.”
“Di niente. Ho pensato che ci sarebbe venuta fame a un certo punto.”
“Mi riferivo a questo.” Sam fece un passo indietro e allargò le braccia. “È… un sogno.”
Aveva davvero gli occhi che gli brillavano, e non riusciva a smettere di sorridere.
“Te lo avevo detto che ti sarebbe piaciuto” replicò Thomas, che come Sam aveva avuto per tutto il tempo il sorriso stampato in faccia.
Si guardarono negli occhi.
Sam non aveva mai desiderato così tanto baciarlo come in quel momento, ma non si avvicinò, anzi, fece un altro passo indietro.
Non aveva abbastanza coraggio. Era così insicuro che persino in quel momento era assalito dal dubbio che stesse fraintendendo tutto.
Thomas avvertì il nervosismo, e si allontanò ancora di più, guardando il quadro successivo.
“E di questo? Che mi dici?”
Riprendendo il controllo di sé, Samuel lo affiancò di nuovo e ricominciò a dare prova di quanto l’arte fosse la sua materia preferita.
Un’ora dopo erano fuori, perché il turno di Jack stava per finire.
“Ti va di cercare un pub e cenare?” chiese Thomas, quando furono di nuovo sulla strada principale.
Sam guardò l’orologio che aveva al polso.
“In realtà, dovrei tornare a casa” rispose, con la morte nel cuore.
Thomas dovette capire che non era una scusa per liberarsi di lui. “Posso accompagnarti fino a casa, allora?”
Sam gli sorrise. “Se non ti scoccia.”
“Nient’affatto.”
Parlarono ancora della mostra, e di quelle precedenti che Sam e Mindy avevano visto insieme. Thomas raccontò che Evelyn aveva iniziato a lavorare alla Galleria subito dopo il diploma, l’anno precedente, ma che era un lavoro saltuario e quindi per la maggior parte del tempo faceva la commessa in un negozio di caramelle. In entrambi i casi Thomas era fortunato, perché poteva visitare le mostre in privato e non rischiava mai un calo di zuccheri.
Sam si chiese se la sorella di Thomas sapeva che quella che aveva aiutato ad orchestrare non era una semplice uscita tra amici ma un appuntamento.
Ma lo era davvero?
Per Sam era ancora fin troppo surreale.
Arrivarono davanti casa di Sam e si fermarono fuori al cancello.
Tutte le luci delle stanze che affacciavano sul giardino erano spente. C’era un vago bagliore proveniente dalla finestra della sua camera, ma Max non sembrava vicino al vetro.
“Ringrazia tua sorella per tutto” disse, con le mani in tasca, guardando per terra. Non aveva idea di come quella serata si sarebbe conclusa. Si sentiva in imbarazzo a dire qualsiasi cosa. “E grazie anche a te. Non so davvero cosa dire.”
“Sono contento che sia stata una bella serata anche per te” disse Thomas, spostando il peso da un piede all’altro.
“È stata perfetta.”
Finalmente entrambi si guardarono.
Lentamente, Thomas si sporse verso Sam e gli diede un bacio leggero sulla guancia, quasi all’angolo della bocca.
Trattenendo il respiro, quasi incredulo di quello che aveva appena fatto, si tirò indietro e mormorò: “Buonanotte.”
Sam era rimasto pietrificato da quel gesto, ma prima che l’altro potesse voltarsi e probabilmente iniziare a correre via, si schiarì la voce.
“Ci vediamo domani insieme agli altri all’inaugurazione?” domandò. “Al pub sul rock e quella roba lì” sorrise.
Anche Thomas sorrise. “Ci vediamo domani” confermò.
 
Quando aprì la porta e mise piede in casa, prima ancora di riuscire a richiudersi la porta alle spalle, si sentì sollevare di peso.
Qualcuno lo sbatté contro il muro dell’ingresso e con un calcio richiuse la porta.
“SAM!” urlò la voce di sua madre, e il ragazzo, ancora frastornato, sentì i tacchi della donna scendere le scale.
La figura che lo teneva per il giubbotto in punta di piedi contro il muro era ovviamente suo padre.
Adesso mi spieghi cosa cazzo ho appena visto” sussurrò l’uomo con rabbia.
“RICHARD!” urlò la signora Robertson. “Lascialo andare!”
Anche Mindy si precipitò fuori dalla cucina e si bloccò sulla soglia quando vide la scena, con il terrore negli occhi. Scambiò uno sguardo allarmato con la madre di Sam.
E un istante dopo, accanto al ragazzo, c’era la figura luminescente del fantasma.
“La ragazza… la tutor. È venuta qua per parlare con loro” disse Max in fretta. “Sanno che hai mentito e non eri da lei. Ma non so cosa…”
Impotente, terrorizzato, Maxwell fissava il signor Robertson senza capire a cosa si stesse riferendo in quel momento, perché fino a due minuti prima era in camera di Sam a leggere, e non si era accorto che il padre del ragazzo era alla finestra del salotto, nascosto nell’ombra, quando Sam e Thomas era arrivati davanti alla casa.
Il signor Robertson rafforzò la presa sul giubbotto di Sam e gli diede un’altra spinta contro il muro.
Spiegamelo!” urlò, con voce così rabbiosa che Mindy fece un passo verso di loro, ma la padrona di casa la fermò.
“Richard, lascialo andare” disse Barbara Robertson, cercando di mantenere un tono di voce calmo e controllato. Sembrava che stesse avendo a che fare con un rapitore, e in quel momento Sam si sentiva proprio un ostaggio.
“Non finché tuo figlio non mi spiega che cos’ho visto” sputò lui, con tutto il veleno che aveva in corpo. “Perché mi sono sicuramente sbagliato, vero?” Spinse ancora di più Sam contro il muro. “O forse adesso vuole dirmi che non solo è stupido, ma anche frocio?”
In altre circostanze, o in una serata diversa, Sam avrebbe negato fino allo sfinimento.
Ma adesso, completamente terrorizzato, letteralmente con le spalle al muro, dopo aver assaporato per la prima volta l’ebbrezza di un momento che non credeva nella vita gli sarebbe mai stato concesso…
Tantissime volte si era comportato da codardo con suo padre, assecondando il genitore anche a costo della propria sofferenza.
Era stanco.
“Sì” disse, con voce ferma. Aveva la tachicardia e le lacrime agli occhi, questione di pochi secondi e sarebbero scese inesorabili. “Sì!” ripeté. “Lo sono!”
Momentaneamente ubriaco di un coraggio che non credeva di possedere, non si era reso conto di cosa avrebbe significato una risposta del genere.
Il padre allontanò il braccio, pronto a colpire.
La madre e Mindy provarono a fermarlo, ma erano troppo lontane. Maxwell invece lo intercettò con entrambe le mani.
Non aveva abbastanza forza per bloccarlo, ma deviò il colpo e lo depotenziò.
Invece di colpire il naso di Sam, le nocche colpirono lo zigomo.
Il signor Robertson perse la presa sul figlio, confuso da ciò che era appena successo.
Sam, accecato dal dolore, si ritrovò senza sapere come sul pavimento, tra le braccia di Mindy. Sua madre, invece, era vicino al telefono, con la cornetta sollevata.
Con l’altra mano aprì la porta d’ingresso.
“Esci immediatamente oppure chiamo la polizia” disse, respirando a fatica, spaventata. Anche lei aveva le lacrime agli occhi.
Il signor Robertson era confuso, e arrabbiato, e tentò di avventarsi contro sua moglie, ma stavolta Max aveva anticipato la sua mossa. Si era messo davanti alla madre di Sam riuscì a dare un pugno al viso all’uomo prima che potesse arrivare a lei.
Non fu un colpo forte, non avrebbe fermato neppure un bambino, ma la sorpresa e la confusione compensarono.
Il signor Robertson si guardò intorno, smarrito, furioso. Ma per lui non c’era niente da vedere, lì. Non c’era nessuno.
Fuori!” urlò la moglie.
Mindy nel frattempo aveva aiutato Sam a sollevarsi e lo stava trascinando in salotto.
Mentre il ragazzo finalmente si sedeva sul divano, toccandosi la guancia pulsante di dolore, si sentì la porta d’ingresso sbattere.
Un istante dopo la madre fece irruzione in salotto, seguita da Max.
La donna si gettò sul figlio e scoppiò a piangere sulla sua spalla.

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Capitolo 13
*** Lo sanno tutti ***


13. Lo sanno tutti

Quella notte la madre di Sam dormì con lui, nel suo letto, che per fortuna era a una piazza e mezza.
C’era anche Max, seduto come al solito per terra, sotto la finestra.
Oltre Mindy, in casa c’era Hugh, che era stato chiamato nel caso il signor Robertson avesse deciso di tornare.
Quella sera Sam aveva scoperto molte cose.
Aveva sempre saputo che suo padre era una persona violenta, ma mai avrebbe immaginato che alcune volte arrivasse addirittura a picchiare sua madre. Non aveva mai visto i lividi o le altre abrasioni, perché stava sempre attento a ferirla dove non si vedesse. E non l’aveva mai picchiata con Sam in casa.
Max gli disse che da quando si erano trasferiti non aveva mai visto un comportamento del genere, altrimenti glielo avrebbe raccontato, ma era pur vero che il fantasma aveva un udito umano e non poteva vedere oltre i muri, anche se poteva attraversarli.
A quanto pareva, il padre di Sam non aveva mai alzato un dito su Mindy, ma un paio di volte ci era andato vicino, ed era stato solo grazie all’intromissione della moglie se la ragazza ne era uscita sempre indenne.
Sam si sentiva un idiota per non essersene accorto prima, ma Mindy gli aveva assicurato che non era colpa sua, perché sua madre aveva fatto di tutto per tenerlo all’oscuro. Non era mai riuscita a denunciarlo.
I nonni materni avrebbero preso le parti dell’uomo. Per loro il compito di una donna era quello di stare in casa a fare la madre e obbedire al marito. Sam scoprì anche che sua madre si era pagata l’università da sola, e che uno dei motivi per cui non frequentavano molto i nonni era che non avevano mai accettato che fosse diventata un medico.
E poi c’era la reputazione. Non solo quella personale, ma anche quella professionale, sicché lei e il marito lavoravano insieme e frequentavano lo stesso circolo di persone sia in ospedale che fuori.
Mindy aveva provato a convincerla a denunciare, ma non ci era mai riuscita.
“So che non dovrei dirlo” gli aveva detto la ragazza, posando un impacco di ghiaccio sulla guancia di Sam che si era gonfiata e arrossata tantissimo. “Ma sono quasi contenta che stavolta abbia colpito te. È stata la goccia. Domani andremo alla polizia.”
 
Il giorno dopo, infatti, Sam fu consegnato nelle mani dei King, mentre Mindy e Hugh accompagnavano la signora Robertson in centrale.
Raccontarono la verità, sarebbe stato inutile cercare di salvare le apparenze. Erano vicini di casa, si sarebbero accorti dell’assenza del signor Robertson, per non parlare dello zigomo tumefatto di Sam che parlava da solo.
A pranzo, si sedettero tutti a tavola in cucina: Anthony e Gina, Brandon e Amy Beth, Sam, e anche Claire, la governante dei King.
Stavano mangiando in silenzio, cosa fuori dal comune per quella famiglia.
Sam si sentiva molto in imbarazzo. Soltanto dieci minuti prima sua madre era stata seduta sul divano nel salotto di quella casa piangendo tra le braccia della signora King mentre raccontava cos’era successo.
In quelle ultime ore il ragazzo aveva scoperto un sacco di altre cose, ad esempio che Gina e Barbara erano diventate amiche nelle ultime settimane.
Ok, lui trascorreva a scuola quasi intere giornate, ma come aveva fatto a perdersi così tante cose?
Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
“Non ti piace? Ti prepariamo qualche altra cosa?” domandò cautamente la signora King, visto che il ragazzo non aveva mandato giù neppure un boccone.
“Mà, sono sicuro che il problema non sia la lasagna” disse Brandon, sforzandosi con poco successo di non usare un tono esasperato.
“Chiedo scusa” disse Sam.
“Non ti devi scusare” disse il signor King. “Tu non hai fatto nulla di male per meritare un pugno in faccia, ragazzo. Capito?”
Sam strinse forte la forchetta e cominciò a singhiozzare. Nel pianto balbettò qualcosa, senza neanche rendersene conto, finché Brandon non lo prese per le spalle e lo costrinse a guardarlo negli occhi.
“Sam… Sam! Non capiamo cosa stai dicendo. Che vuoi dire? Che vuol dire che te lo sei meritato?”
Sam si limitò a fissarlo, sperando che capisse.
E l’amico capì.
“Cos’è successo?” domandò ancora Brandon, a voce bassa, accarezzandogli le spalle cercando di tranquillizzarlo.
Ma il ragazzo esitava.
“Sam, puoi dirlo. Non è un problema per noi. Per nessuno di noi.” Brandon gli offrì uno dei suoi soliti sorrisi rassicuranti.
“Ieri sera Thomas mi ha accompagnato a casa” riuscì a dire Sam, tra un singhiozzo e l’altro, ma non fu in grado di andare avanti.
“Tuo padre vi ha visti” disse Amy Beth. Non era una domanda.
Sam annuì.
“Continuo a non capire” disse la signora King. “Perché avrebbe dovuto arrabbiarsi?”
“Mamma…” mormorò Brandon.
“Tesoro” intervenne il marito, posando una mano sul braccio della moglie e indicando Claire con un cenno della testa.
“Oh” esclamò la donna.
Claire invece sorrise a Sam.
Adesso era il ragazzo a non capire, e chiese aiuto con lo sguardo al migliore amico.
“Claire ha una compagna. Te l’ho detto che non è un problema per noi.”
Sam tirò su col naso e si asciugò le lacrime con le mani, facendo attenzione e a non strofinarle sullo zigomo.
“Secondo me dovremmo metterci altro ghiaccio” mormorò Claire.
“La madre ha detto di lasciar respirare un po’ la zona” rispose Gina.
“Però sta diventando di un colore che non mi piace” aggiunse Anthony.
“Improvvisamente tutti medici, in questa casa” commentò la signora King, scuotendo la testa.
“Ti fa male?” chiese Amy Beth al diretto interessato.
“Non molto, se non la tocco.”
“Allora noi ci ritiriamo nelle mie regali stanze” disse Brandon alzandosi, anche se non aveva finito di mangiare. Tirò Sam per un polso per e fece un cenno alla sorella.
I signori King li lasciarono andare, e i tre giovani salirono al piano di sopra chiudendosi nella stanza del figlio minore.
“Qualunque cosa sia successa, mio padre ha ragione. Non ti sei meritato nessun pugno in faccia. Va bene?” disse Amy Beth, gettandosi sul letto.
Brandon gli indicò la poltrona e Sam si sedette.
“Però adesso devi dirci com’è andata con Thomas” disse l’amico, appoggiandosi alla porta chiusa, con un sorriso elettrizzato.
Brandon!” esclamò Amy Beth.
“Che c’è?!”
“Ti pare il caso?”
“Certo che sì.”
“Assolutamente no.”
“Ma voglio sapere!” si girò verso Sam. “Dove ti ha portato? Se ti ha accompagnato fino a casa vuol dire che è andata bene, no? Vi siete baciati?”
Brandon!” sibilò di nuovo Amy Beth.
Sam rise.
“Ahia!” esclamò, toccandosi d’istinto la guancia. Ridere faceva male.
“Ah! Lo sapevo!” quasi strillò il ragazzo, mentre la sorella alzava gli occhi al cielo.
“È andata bene” spiegò Samuel. Raccontò della Galleria.
Amy Beth ascoltava estasiata. “È il primo appuntamento più romantico del mondo. Non posso credere che era il piano B e che all’inizio voleva portarti al pub.” Finse di massaggiarsi le tempie come se avesse mal di testa. “Ah, gli uomini!”
“In realtà penso che gli sia venuto in mente mentre mi lamentavo del pub.”
“Perché ti lamentavi del pub?!” Brandon fece la parte dell’indignato. “Ma alla fine? Vi siete baciati?”
“Non ci siamo baciati. Cioè… ci siamo… quasi baciati, credo.” Sicuramente sarebbe arrossito se la faccia non fosse già stata gonfia e di tre colori.
“Che vuol dire, quasi? E che vuol dire, credo?!” domandò Brandon esasperato.
“Non lo so, Brandon, sono confuso! Ti ricordo che non ho avuto tempo di pensarci.”
Calò il silenzio. Sam si maledisse, perché non era stata sua intenzione rovinare l’atmosfera. Aveva avuto una notte e una mattina fin troppo drammatiche, era bello adesso poter dimenticare per un secondo quanto era diventata schifosa la sua vita.
 
Trascorsero il primo pomeriggio ad ascoltare e criticare le nuove canzoni di Brandon.
Quando Amy Beth e Sam si alleavano per prenderlo in giro e trovare note o parola sbagliate inesistenti lo mandavano al manicomio, anche se lui sapeva che scherzavano, e alla fine si divertivano tutti e tre.
Ad un certo punto sentirono il suono del campanello al piano di sotto.
“Vado io” disse Amy Beth.
Una cosa che Sam aveva imparato subito quando aveva iniziato a frequentare la famiglia King era che nessuno in casa si aspettava che la governante facesse qualcosa, se potevano farla anche loro. Claire aiutava con le pulizie, con la cucina, con le varie commissioni che servivano a gestire una casa e una famiglia, ma raramente faceva qualcosa da sola se i King non erano impegnati in altre faccende.
Due minuti dopo, Amy Beth si affacciò di nuovo alla porta della camera del fratello.
“Sam, dovresti scendere” disse, con aria seria.
I due ragazzi si guardarono in faccia, poi la seguirono.
Il salotto era affollato.
Oltre ai signori King e a Claire, c’erano anche sua madre, Mindy e Hugh, Sarah Burke e un poliziotto in divisa.
“Buonasera” disse Sam, titubante.
“Ragazzi, aiutatemi in cucina” disse Claire.
“Vi do una mano anche io” aggiunse la signora King.
Le due donne presero Amy Beth e Brandon per un braccio e delicatamente li condussero fuori, richiudendosi la porta alle spalle.
Fu la signora Robertson a rompere il silenzio.
“Sam” disse, prendendogli entrambe le mani e facendolo sedere accanto a sé sul divano. “Il signor King ci seguirà nella denuncia” disse.
Il padre di Brandon era un avvocato. Naturalmente, l’avvocato di famiglia dei Robertson era un amico di suo padre, quindi era fuori questione che venisse coinvolto.
“D’accordo” disse.
“La dottoressa Burke collabora con il distretto di polizia” intervenne quindi Anthony. “È qui per controllare come stai. Tutto qua.”
Per essere sicuri che mia madre non abbia mentito, pensò Sam.
Sarah gli sorrise e si sedette sul tavolino davanti a lui, come se fosse a casa sua. Aveva con sé una valigetta.
Lo visitò in fretta, parlando con la madre di Sam su come avevano trattato la ferita fino a quel momento. C’era una naturalezza nella loro conversazione che fece riflettere Sam sul fatto che forse già si conoscessero. In fondo lavoravano nello stesso ospedale.
Alla fine Sarah convenne che tutto sommato gli era andata bene, il gonfiore sarebbe passato in fretta. Per il livido ci sarebbero voluti alcuni giorni. Non aveva bisogno di punti e poteva continuare tranquillamente a seguire le direttive della signora Robertson, che ‘è più che capace di prendersi cura della ferita del figlio’.
Sam si appuntò mentalmente di ringraziare per l’ennesima volta Max per averlo aiutato ad evitare un naso rotto.
Prima di potersene tornare in camera di Brandon, Sam dovette rispondere anche ad alcune domande del poliziotto. Gli venne chiesto di raccontare la serata e quando l’uomo gli domandò come mai il padre aveva perso le staffe, Sam decise di dire una mezza verità. D’altra parte, ormai, in quella stanza conoscevano tutti il suo segreto. Nel giro di una settimana erano cambiate tutte le carte in tavola.
“Mi ha visto con un ragazzo e ha pensato che ci stessimo baciando.” Poi, siccome rivivere la serata precedente a parole aveva fatto montare di nuovo la rabbia in lui, aggiunse: “A quanto pare mio padre non è solo violento, è anche omofobo.”
Sentì la madre trattenere il respiro, e con la coda dell’occhio vide Hugh sopprimere a stento un sorrisetto.
“Ed era vero?” indagò il poliziotto.
“Non è rilevante” intervenne il signor King, con voce pacata ma ferma.
Il poliziotto sembrava un po’ a disagio.
Sarah alzò la testa dal foglio che stava compilando. “Io ho finito” disse, con tono di comando. Consegnò il documento al poliziotto. “Il ragazzo deve riposare, è ferito e ha subito un trauma” con un dito ticchettò sulla carta nelle mani dell’ufficiale. “I dettagli li trovate lì dentro, possiamo andare via.”
Uscirono tutti dalla stanza, e rimasero solo Sam e la madre.
“Mi dispiace molto che tu debba sopportare tutto questo. Ora devo tornare in centrale, ma ne parliamo più tardi, va bene?”
Sam annuì.
“Mindy viene con me, ma Hugh va a prendere le sue cose e si trasferisce da noi per un po’. Ti dispiace?”
“Certo che no” rispose Sam, come se fosse ovvio, poi si rese conto che la madre non poteva sapere che lui conosceva bene Hugh e che spesso l’uomo si univa alle sue uscite con Mindy, ad esempio le visite alla Galleria.
Si scambiarono un rapido abbraccio, e Sam cominciò a sentirsi meglio.
 
Dieci minuti dopo, Sam era di nuovo chiuso in camera di Brandon con lui e la sorella.
“Vado a fare un giro di telefonate” disse a un certo punto il musicista. “Avviso Archer e Christine che stasera non ci siamo per l’inaugurazione.”
“Perché no?” chiese Sam.
“Amico, vuoi uscire con la faccia conciata in quel modo? Sei dell’umore per uscire con la faccia conciata in quel modo?”
Io no.”
“Appunto.”
“Ma non dovete restare a casa solo perché io non esco.”
“Sei veramente scemo se pensi che ti lasceremo da solo” disse Amy Beth. Si girò verso il fratello. “Fai in modo che qualcuno avvisi anche Diane e le altre ragazze.”
“Thomas!” esclamò Sam, ricordandosene improvvisamente. “Lo avevo invitato a venire con noi. Se arriva al pub e non mi trova, penserà che gli ho dato buca o una cosa del genere.”
Brandon gli strizzò l’occhio. “Già il secondo appuntamento, eh? Va bene, andiamo.”
“Non è che potresti chiamarlo tu?”
“Come mai?”
“Non mi va di farmi fare un altro interrogatorio.”
L’amico sospirò. “Sono un Santo. Va bene, dammi il suo numero.”
Silenzio.
“Non ce l’hai, vero?”
Sam scosse la testa.
“Ce l’ho io” disse Amy Beth.
Entrambi la guardarono sorpresi.
“Come mai hai il numero di Thomas?” chiese Sam.
“Geloso?” lo prese in giro la ragazza.
Brandon scoppiò a ridere.
“Conosco la sorella” rispose infine Amy Beth. “Lo trovi nella rubrica sulla mia scrivania, sotto il nome Evelyn.”
Brandon uscì dalla stanza, e la ragazza si concentrò su Sam.
“Prima o poi dovrai parlare con lui.”
“Di questa storia non voglio parlarne proprio con nessuno!” replicò Samuel.
“Ma lo sai che è impossibile, vero? Tutti in città conoscono i tuoi genitori. Pensa a quando la madre di Sofia Parlor ha rasato per sbaglio metà testa del marito. Il giorno dopo lo sapeva già tutta la scuola, e quella roba era una stronzata, non era neppure vero e proprio materiale da gossip. Non mi sorprenderei di leggere il titolo ‘La Dottoressa Robertson caccia di casa il marito’ direttamente sui giornali.”
A questo Sam non aveva pensato, ma Amy Beth aveva ragione. Quella non era Londra, ma una semplice cittadina dove tutti conoscevano tutti, soprattutto se facevano parte della cerchia dei ricchi snob, come suo padre e i genitori di tre quarti degli studenti della Walker.
“Scusa, non volevo turbarti” disse ancora la ragazza, pentendosi di quel discorso davanti alla faccia dell’amico. “Però lunedì non puoi arrivare a scuola impreparato, devi essere pronto a quello che ti diranno.”
La scuola. Sam aveva avuto tanti di quei pensieri, nelle ultime ventiquattro ore, che la scuola sembrava una realtà lontanissima.
Brandon aprì la porta prima che Sam potesse rispondere.
“Ho combinato un casino” disse senza preamboli, richiudendosi la porta alle spalle e appoggiandovisi contro come faceva spesso.
“Cioè?” indagò subito l’amico.
“Ho chiamato Thomas. Ma ho combinato un casino” ripeté. “Solo che sembrava convinto che tu lo stessi scaricando! Non mi sembrava una buona idea lasciarglielo credere, e ho provato a rassicurarlo.”
“E quindi cosa gli hai detto?”
“Che avevi avuto un problema e non potevamo uscire da casa mia.”
Sam chiuse gli occhi e fece un sospiro. “Va bene, non è questo grande dramma. Gli parlerò lunedì.”
Brandon si schiarì la voce. “In realtà… sta venendo qui. Adesso.”
“Cosa?!?!” esclamarono Sam e Amy Beth contemporaneamente.
“Insisteva che voleva sapere che problema c’era con Sam, e io ovviamente non gli ho detto nulla, e allora mi ha chiesto se poteva venire qua. E gli ho detto di sì.”
Brandon spostava lo sguardo dall’una all’altro, in attesa di una reazione.
Sam impallidì e si portò le mani al viso, facendo una smorfia di dolore, perché si era dimentico dello zigomo tumefatto.
“Beh, il prima o poi è arrivato in fretta…” mormorò Amy Beth.
“Scusate, ma che dovevo fare?!” Brandon era nel panico e Sam non lo aveva mai visto così. “All’inizio sembrava un cucciolo di cane bastonato perché credeva che Sam volesse mollarlo, e alla fine era preoccupatissimo perché pensava fosse successo qualcosa di grave.”
“Ma infatti è successo qualcosa di grave!” esclamò Amy Beth.
“Sì, lo avrà capito dal fatto che non volevo dirgli cosa” disse Brandon, esasperato. “Anche se gli avessi detto che non poteva venire qui, probabilmente sarebbe arrivato lo stesso e si sarebbe arrampicato alla finestra.” Si voltò a guardare Sam. “Dio mio, Sam, ma cosa gli hai fatto? È completamente andato! Perso! Stregato!”
Malgrado tutto, Sam non riuscì a fare a meno di sorridere.
 
Mezz’ora dopo, Sam era in piedi al centro della camera di Brandon. Thomas era sulla porta, e lo fissava sbigottito.
“Bene, noi andiamo a prendere qualcosa da mangiare. Torniamo tra un po’” disse Amy Beth, afferrando il fratello per il gomito e trascinandolo fuori dalla stanza, mentre Thomas si spostava per farli passare.
“Divertitevi” disse Brandon. Rise all’occhiataccia della sorella e la seguì fuori dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
“Ciao” disse Sam, guardando ovunque tranne che verso Thomas.
“Cosa ti è successo?” domandò l’altro a voce bassa, incapace di staccare lo sguardo dal volto di Sam.
“È una storia lunga e patetica.”
“Voglio sentirla.”
“È… è stato mio padre.” Per l’ennesima volta da quando era tornato a casa la sera prima, gli occhi gli si riempirono di lacrime.
Thomas non disse nulla, ma lo raggiunse e lo circondò con le braccia, stringendolo talmente forte che a Sam mancò il respiro. Gli strinse le braccia intorno alle spalle e appoggiò la propria guancia contro la testa di Sam, accarezzandogli i capelli con una mano.
Lo tenne così a lungo, e Sam stava così bene in quella stretta che sopportò in silenzio anche il dolore alla guancia che premeva contro la spalla di Thomas.
Nessuno, a parte Mindy, sua madre e forse Brandon, lo aveva mai abbracciato così forte, con quella sicurezza. Di certo non suo padre, o qualcun altro dei suoi familiari. Nemmeno Patricia, che in ogni caso non avrebbe mai potuto farlo.
Quando sciolsero l’abbraccio, Sam stava lacrimando dall’occhio sinistro, quello dello zigomo colpito.
“Giuro che non sto piangendo” disse con una risata mezza rotta, nella speranza di salvare un minimo di dignità. “È per colpa di questa” e indicò vagamente la propria faccia.
“Ti fa molto male?” chiese Thomas, sentendosi uno sciocco subito dopo. Sollevò una mano e accarezzò delicatamente il mento di Sam, per spazzare via una lacrima che era arrivata fino a lì.
“No. Solo quando la tocco.”
Thomas abbassò di colpo la mano. “Scusa.”
Sam sorrise. “Tranquillo.” Oramai aveva asciugato tutte le lacrime con la manica della felpa. “Non c’era bisogno che venissi fino a qui, ti avrei parlato lunedì a scuola. Ti ho fatto telefonare solo perché non pensassi che non mi ero presentato a un appuntamento.”
“Quindi era un appuntamento ufficiale?” sorrise Thomas, quasi gongolando.
“Io fossi in te non farei quella faccia. Tu mi hai portato in una galleria d’arte aperta solo per noi, circondati da quadri stupendi, una serata praticamente perfetta, e io ti ho proposto un pub rumoroso in compagnia della cricca di Brandon.”
“Mi sembrava di avertelo già detto: a me importa solo di stare con te.”
Sam trattenne il fiato. “Non avevi detto proprio così…” mormorò.
“Era quello che intendevo. Lo sai.”
“Sì, lo so.”
Sorrise. Adesso lo sapeva davvero. Perché per quanto gli sembrasse impossibile, troppo bello per essere vero, troppo bello per poter capitare proprio a lui, l’espressione sul viso di Thomas valeva più di mille parole.
Lentamente gli prese una mano, e insieme intrecciarono le loro dita.
Poi Thomas sollevò l’altro braccio, e sfiorò il viso di Sam dal lato buono, accarezzandolo con i polpastrelli. Fece un passo avanti, chiuse gli occhi e lo baciò.
Dapprima posò solo delicatamente le labbra su quelle di Sam, un piccolo bacio a stampo, ma non si allontanò e lasciò la propria bocca a sfiorare quella di Sam. Attese qualche secondo, come se avesse paura che Sam potesse ritrarsi e stesse aspettando l’inevitabile distacco.
Sam, invece, si avvicinò ancora di più a lui con tutto il resto del corpo e sorrise con le labbra premute su quelle dell’altro.
Thomas avvertì il sorriso, lo ricambiò, spostò la mano dietro la nuca di Sam per tenerlo fermo, e finalmente dischiuse le labbra per far nascere un bacio vero.
Fu meglio di quanto Sam avesse immaginato e sperato. Aveva sempre pensato che sarebbe stato nervoso durante il suo primo bacio, invece fu come se lui e Thomas non avessero fatto altro da anni, tutti i giorni, tutto il giorno.
Si strinsero cercando di avvicinarsi sempre di più, come se fosse umanamente possibile, visto che già così non passava un filo d’aria tra i loro corpi.
Inevitabilmente lo zigomo colpito di Sam cominciò a fargli male, ma lui era troppo rapito dal bacio affinché gliene importasse qualcosa.
Quando si separarono per riprendere fiato e guardarsi negli occhi, Thomas continuò a tenerlo ancorato a sé circondandogli i fianchi con le braccia.
“Volevo farlo dal primo momento in cui ti ho visto, il primo giorno di scuola, a settembre” disse Thomas, ancora col respiro corto.
“Non ci credo” replicò Sam, sconvolto.
Thomas rise. “Ti ho visto seduto da solo ad uno dei tavoli in cortile durante la pausa pranzo. Stavi scarabocchiando su un quaderno e mi sono avvicinato solo perché volevo sentire la tua voce, così ti ho chiesto dov’era un’aula, non mi ricordo neanche quale.”
“Quella di matematica” rispose Sam.
“Ma allora te lo ricordi?”
“Certo che me lo ricordo. Intendevo dire che non posso crederci che volevi baciarmi già da allora” Sam scosse la testa, incredulo e felice.
“E invece sì. Ora dobbiamo recuperare il tempo perso” disse Thomas, un secondo prima di baciarlo ancora.
Quando si separarono di nuovo, Thomas osservò la ferita.
“Perché?” chiese soltanto.
Sam non sapeva cosa rispondere. Non voleva che Thomas si sentisse in colpa.
“Niente di particolare. Ha solo trovato una scusa. È una persona violenta, in passato ha ferito anche mia madre. Adesso lei e Mindy sono andate a denunciarlo. La polizia ha già parlato anche con me.”
Thomas si fece raccontare tutto nei dettagli, ma Sam lo tenne all’oscuro del coming out e ovviamente dell’aiuto di Max. Trovò liberatorio potergli raccontare tutte quelle cose, e si accorse di farlo non perché tanto le avrebbe scoperte lo stesso, ma perché voleva. Mentre si sfogava su quello che era successo, l’espressione dolce di Thomas, le sue carezze delicate e i suoi abbracci lo aiutarono a metabolizzare tutto.
Avevano appena finito di parlare e si stavano scambiando un altro bacio, quando furono interrotti da un forte bussare sulla porta, e dall’esterno li raggiunse una voce familiare.
“Qualsiasi cosa stiate facendo, voglio sperare non sia sul mio letto!”
Brandon!”
 
Circa un’ora dopo si affacciò in camera la mamma di Brandon, e li trovò tutti e quattro seduti per terra a giocare a Monopoli. Sam e Thomas sedevano così vicini che le loro ginocchia si toccavano.
“Scusate l’interruzione” disse la donna. Sorrise a Thomas. “Volevo sapere se resti a cena. Ordiniamo la pizza.”
“Non si preoccupi, stavo per andare via” rispose il ragazzo.
“Dove vai?” intervenne Brandon. “Non hai il permesso di andare al pub senza di noi!” scherzò.
Thomas rise. “Grazie per aver messo in chiaro le cose. Non ti preoccupare, me ne torno a casa.”
“Non dire stronzate.”
Brandon!” esclamò la signora King.
“Resta qui senza farti pregare” continuò il figlio.
“Forza, ditemi i gusti” la donna tirò fuori un taccuino e una matita da non si sa bene dove. “Tutti e quattro.”
Thomas si girò verso Sam, e lui gli sorrise.
“D’accordo” cedette.
Giocarono per un’altra ora, e quando fu il momento di mettersi a tavola, oltre ai quattro ragazzi c’erano solo le altre due donne di casa.
Sam si avvicinò alla signora King e la prese da parte.
“Per caso mia madre ha detto quando sarebbe tornata? È ancora alla centrale di polizia?”
“Oh, no, tesoro. Sono tornati tutti un bel po’ di tempo fa, ma sono andati a casa tua per finire di discutere su alcune cose. Non dovrebbe volerci ancora molto, abbiamo preso le pizze anche per loro.”
E infatti avevano tutti a stento finito di mandar giù la prima fetta quando sentirono la porta d’ingresso aprirsi e un vociare provenire dall’altra stanza, finché il signor King, la signora Robertson, Mindy e Hugh non fecero il loro ingresso.
La madre di Sam apparve sorpresa di vedere Thomas seduto a tavola con tutti gli altri, ma lo salutò cortesemente senza fare domande mentre tutti prendevano posto.
Quando saltò fuori che Hugh era un grande appassionato di musica, la conversazione si concentrò totalmente sull’argomento, anche se erano soprattutto lui e Brandon a parlare, per gran sollievo di Sam, che si sentiva ancora un po’ in imbarazzo in presenza di tutte quelle persone dopo quello che era successo con suo padre.
Lui e Thomas erano seduti vicini, e ogni tanto il ragazzo si voltava per fargli un sorriso rassicurante o per chiedergli come andava la ferita. Ormai il gonfiore era quasi del tutto sparito, anche se lo zigomo era sempre più verde e violaceo.
A fine cena Hugh propose di dargli un passaggio, siccome doveva comunque andare dall’altra parte della città per prendere alcune cose a casa propria.
Thomas ringraziò per la pizza e fece un saluto generale, poi i quattro ragazzi si spostarono nell’ingresso, mentre Hugh si avviava alla macchina.
La porta d’ingresso aperta lasciava entrare un vento gelido che li fece rabbrividire.
“Ok. Allora vado” disse Thomas, guardando negli occhi Sam.
“Ok. Ci vediamo lunedì” replicò l’altro, diventando rosso.
“Per amor del cielo…” borbottò Brandon, mentre lui e Amy Beth si voltavano verso le scale per lasciar loro un po’ di privacy.
Sam rise e sollevò una mano per sfiorare delicatamente il braccio di Thomas, mentre lui si avvicinava per dargli un bacio all’angolo della bocca, esattamente come la sera precedente.
Dieci minuti dopo, anche Sam, sua madre e Mindy si apprestarono a lasciare casa King, ringraziandoli profondamente dell’aiuto e dell’ospitalità.
Finalmente in camera sua, Sam e Max si stavano già preparando ad una lunga chiacchierata di aggiornamento, il ragazzo vivo sul letto e il fantasma sulla scrivania, quando Barbara Robertson bussò alla porta.
Il figlio la fece entrare e lei si sedette accanto a lui.
“È lui, vero?” chiese senza preamboli.
“Chi?” Sam finse di non capire.
“Il tuo tutor.”
“Non è più il mio tutor.”
“Ma è lui, vero? Il ragazzo di ieri sera.”
Sam annuì.
“Quindi voi… state insieme? È il tuo fidanzato?”
Questo non era un dettaglio che i due ragazzi avevano ben chiarito, ma per Sam in quel momento fu più facile rispondere di sì.
La madre rimase silenziosa per qualche secondo, riflettendo, poi parlò abbassando lo sguardo sulle proprie mani, che teneva in grembo e che si stava massaggiando nervosamente.
“Devo ammettere che non me lo aspettavo, non lo avevo capito. Sono stata una madre terribile, eh?” fece un sorriso triste.
Sam avrebbe voluto contraddirla, con tutto il cuore, ma dalle sue labbra non uscì una parola. Adesso le cose erano diverse, aveva una nuova prospettiva, ma se quella stessa domanda gliel’avesse fatta due giorni prima, probabilmente Sam le avrebbe risposto che sì, era una madre terribile, che Mindy era stata una madre migliore, nonostante l’età per essere sua sorella maggiore e di certo non un genitore. Era difficile dimenticare così su due piedi tutti i momenti in cui sua madre lo aveva fatto sentire una nullità esattamente come aveva sempre fatto suo padre.
Comunque, era una domanda retorica, e infatti la donna continuò a parlare.
“Mi sono distaccata il più possibile tentando di proteggerti, e ho sbagliato. Mi dispiace, non commetterò più lo stesso errore. Non voglio giustificarmi, né che mi perdoni, e non posso prometterti che da oggi in poi diventerò una madre perfetta, o almeno la madre che meriti, ma ci proverò. Questo posso giurartelo.”
Sam aveva le lacrime agli occhi e non sapeva cosa dire, così si sporse verso di lei e l’abbracciò stretta.
Max, nel frattempo, non si era mosso dal suo posto sulla scrivania, e osservava la scena con dolore, rimpianto e nostalgia.
“Va tutto bene” disse Sam alla madre, sciogliendo l’abbraccio.
La madre sorrise e lo guardò pensierosa. “Tesoro…” disse, mentre la sua espressione diventava di nuovo seria. “…è strano pensare che tu e quel ragazzo non siate solo amici, non lo nego.”
Sam si ritrasse leggermente, ma la madre lo prese per una mano.
“Ti prego, ascoltami, voglio essere onesta con te. Credo di aver bisogno di un po’ di tempo per abituarmi all’idea, ma è un mio problema, non tuo, e lo risolverò. D’accordo?”
Sam annuì in silenzio.
“Ti voglio bene” gli disse infine la signora Robertson, e lo abbracciò di nuovo.
Sam strinse forte sua madre e rilasciò il respiro che stava trattenendo.
 
Quando rimasero di nuovo soli, Max cercò di nascondere quanto si sentisse devastato dalla scena a cui aveva appena assistito.
Gli mancava sua madre.
Come la signora Robertson, la signora Davis non era stata una madre perfetta, ma aveva sempre amato il figlio, e perderlo l’aveva segnata per sempre.
Per due anni Thomas aveva dovuto sopportare di vedere la donna sprofondare sempre di più nella depressione, senza poter fare nulla, sapendo che era colpa sua.
“Quindi… fino alla scorsa settimana era un segreto di Stato. Ora lo sanno tutti” sospirò Sam. “Non riesco a spiegarmi come sia potuto succedere, lo giuro.”
“Penso sia normale. La parte più complicata è trovare il coraggio di dirlo la prima volta, alla persona giusta. Poi diventa più facile.”
Sam si lasciò cadere di schiena sul letto, con lo sguardo rivolto al soffitto. “Non voglio mai più uscire da questa casa.”
Max lo raggiunse e si distese fluttuando a mezz’aria accanto a lui, fissando il soffitto a sua volta. “Non lo pensi sul serio” disse.
Sam si sentì in colpa. “No, hai ragione.”
Rimasero in silenzio a tenersi compagnia per un po’. Sam con la coda dell’occhio vedeva il bagliore di Maxwell accanto a sé, ma non avvertiva calore.
“Ho visto Thomas oggi” disse all’improvviso.
“Tutto bene?” domandò Max, dopo un momento di esitazione.
“Sì” rispose Samuel, e non riuscì a impedirsi di sorridere.
L’altro non commentò.
“Anche Sarah.”
Adesso, invece, Max si voltò verso di lui con la testa, e Sam gli spiegò dell’interrogatorio informale e della visita.
“Sarah è la persona migliore che esista” disse Max, quando Sam ebbe finito di parlare.
“Da quanto tempo non la vedi? Intendo da vicino, in questa casa.”
“Due anni. Venne a trovare gli Hendricks, ma di solito erano loro che andavano da lei. Non spesso, comunque, non avevano lo stesso rapporto che ha con i King. Comunque si è trattato sempre di visite brevi. L’ultima volta che è stata davvero qui, addirittura qui in questa stanza, i miei genitori non si erano ancora trasferiti.” Max girò la testa verso la scrivania, per non farsi vedere in viso da Sam. “Passare il tempo con lei è la cosa che mi manca di più dell’essere vivo. Anche se sono sicuro che lei sia andata avanti con la sua vita e che non pensi più a me, vorrei sapere chi sono i suoi nuovi amici, e se la trattano come merita.”
“Max… ma certo che pensa ancora a te” cercò di consolarlo Sam. “Se era una buona amica non può essersi dimenticata di te. Sono sicuro che sente la tua mancanza.”
“Sono passati dieci anni, Sam.”
“Non sono poi così tanti.”
“Sono abbastanza.”

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Capitolo 14
*** Inizio e fine ***


14. Inizio e fine

Brandon e Amy Beth trascorsero l’intera domenica in camera di Sam per fargli compagnia, e lui mostrò finalmente loro i suoi disegni. Tutti, persino i ritratti che aveva fatto a loro e a Thomas.
Il giorno dopo trovarono proprio Thomas ad aspettarli davanti al cancello scolastico. Era ancora fuori, sul marciapiede, e sembrava un po’ nervoso.
Quando lo raggiunsero, sorpresi, si avvicinò subito a Sam.
“È ok, questo?” gli chiese.
“Questo cosa?”
“Entrare a scuola insieme.”
Sam gli sorrise e annuì. Non si stavano toccando, a un’occhiata esterna erano due amici che parlavano.
“Come va lo zigomo?”
“Meglio.”
Il gonfiore non c’era più. Mindy e sua madre avevano provato a coprire il livido con un leggero strato di fondotinta, con il risultato di rendere ancora più evidente l’ecchimosi e il fatto che aveva del trucco in faccia, così alla fine il ragazzo si era lavato il viso e aveva deciso di presentarsi in classe così com’era.
Varcarono la soglia e a metà viale, in cortile, Sam si fermò di colpo.
Rose stava correndo verso di lui. Non proprio correndo, ovviamente, ma fluttuando a tutta velocità.
“Samuel! Parlano di voi in tutta la scuola!”
Sam la guardò con aria interrogativa. Ignorò il ‘che succede?’ di Brandon e cercò di non sembrare troppo allarmato. Comunque non staccò lo sguardo dal viso di Rose.
La ragazza fantasma si portò una mano davanti alla bocca quando si accorse della ferita. “Allora è vero? Siete stato malmenato da vostro padre?”
Il volto di Sam sbiancò, e adesso era lui a sembrare più morto che vivo. Lanciò un’occhiata agli altri. Tutti e tre lo fissavano senza dire niente. Si girò di nuovo verso Rose e cercò di farle capire che voleva una spiegazione. Erano quattro anni ormai che comunicavano silenziosamente in quel modo, e la ragazza afferrò subito.
“Circola una voce tra tutti gli studenti. Che vostra madre ha denunciato vostro padre per violenza… domestica. Sì, è questa la parola che usano. Dicono che… che ha picchiato voi e vostra madre, che lo avete cacciato di casa.”
Erano passati solo due giorni, eppure tutti sapevano. Si ricordò che alcuni suoi compagni avevano genitori che lavoravano al distretto di polizia e altri addirittura in ospedale con i suoi genitori. Ovvio che tutti oramai sapessero. Cominciò a mancargli il fiato. Si guardò intorno, e si accorse che i pochi alunni che erano già in cortile lo stavano fissando. Quando incrociavano il suo sguardo, abbassavano tutti la testa.
Brandon gli si avvicinò e gli mise le mani sulle spalle.
“Tutto bene?”
Sam annuì.
“Stai tremando.”
Sam non fece in tempo a negare l’evidenza, che Rose gli fece notare altri in avvicinamento. Erano Archer, Nathan, Vinnie e Diana.
Avevano tutti facce da funerale, segno che avevano già sentito le voci che circolavano. Si fermarono davanti a Sam e agli altri, un po’ in imbarazzo. Con grande sorpresa di tutti, fu Diana la prima a parlare.
“Volevo dirti, che io non l’ho detto a nessuno. Nemmeno a Vinnie. Non sono stata io a far circolare la voce” disse. Quando il ragazzo la guardò confuso, lei si spiegò. “Oh, credevo lo sapessi. L’albergo dove… tuo padre…” sembrava molto in imbarazzo, persino più degli altri tre. Forse perché conosceva Sam molto di meno. “Insomma, l’albergo è di proprietà della mia famiglia. Non volevo che pensassi che io lo avessi raccontato in giro. Non è così, non mi sarei mai permessa.”
Otto paia di occhi lo fissavano.
“Grazie” disse Sam, incapace di aggiungere altro, perché sentiva gli occhi pizzicare. Non voleva scoppiare a piangere lì, in mezzo al cortile della scuola, sotto lo sguardo di metà del corpo studenti.
Archer fece un passo avanti e lo abbracciò. “Mi dispiace, amico” gli disse.
Quando lo lasciò andare, Nathan prese il suo posto. “È uno schifo” commentò, mentre lo stringeva.
“Almeno è solo un livido, suppongo poteva andarti peggio” disse Vinnie, quando venne il suo turno.
È solo un livido, vero?” domandò Archer.
“Sì, tranquilli” rispose Sam, che si sentiva molto in soggezione nel ricevere tutte quelle attenzioni alle quali non era abituato, soprattutto non da persone diverse da Brandon.
Tutti e otto i giovani si diressero finalmente verso l’ingresso dell’edificio, mentre Rose lo salutò dicendo che sarebbe andata ad indagare ulteriormente su quello che sapeva il resto della scuola.
 
Le prime ore di lezione trascorsero in maniera piuttosto ordinaria. Nessuno degli insegnanti gli chiese spiegazioni per il livido, anzi, era come se tutti evitassero di guardarlo. A differenza degli studenti, che invece lo fissavano di continuo, persino apertamente. Alcuni che non gli avevano mai rivolto la parola lo salutarono brevemente, quelli che invece di solito si divertivano a bullizzarlo, distoglievano lo sguardo da lui in tutta fretta. Persino Sean McDonald non disse nulla, ma abbassò la testa con aria grave. Evidentemente, un padre che picchiava suo figlio era troppo persino per lui, forse anche alcuni bulli hanno dei limiti.
Quando suonò la pausa pranzo, la segretaria del preside lo raggiunse al suo armadietto e gli disse che l’uomo voleva vederlo subito nel suo ufficio. Sam non ne fu sorpreso, Rose lo aveva avvisato che alcuni insegnanti si erano riuniti per decidere se parlare con lui oppure no di quello che era successo. Con lui in quel momento c’era Amy Beth. Le chiese di avvisare Brandon che avrebbe fatto tardi a pranzo, poi seguì la segretaria.
L’incontro con il preside fu breve e abbastanza indolore. Saltò fuori che era stata la stessa signora Robertson a chiamare la scuola per mettere al corrente gli insegnanti delle ragioni delle condizioni di Sam. Il preside voleva solo assicurarsi che a parte il livido sul viso il ragazzo stesse bene.
Dieci minuti più tardi, quando Sam entrò finalmente in mensa, vide che il suo tavolo, che all’inizio dell’anno era occupato soltanto da lui stesso, oggi era pieno di gente. Non solo i soliti Brandon, Archer, Nathan e Vinnie, ma anche Amy Beth e Diana, e persino Thomas.
Ma qualcosa non andava.
Thomas, che di solito era la persona tra quelle che gli riservava i sorrisi e gli sguardi più dolci, adesso aveva un’espressione dura che Sam gli aveva visto solo quando aveva creduto che fosse stata una sua decisione non averlo più come tutor.
Ancora a metà strada tra la porta e il suo tavolo, Sam scambiò uno sguardo confuso con Brandon. L’amico aveva un’aria colpevole, che confermò mimando con le labbra un ‘mi dispiace’.
Sam non fece in tempo ad allarmarsi, che Thomas si alzò dal tavolo e lo raggiunse.
“Seguimi” gli disse brevemente, superandolo e dirigendosi fuori dalla sala mensa a passo deciso.
Col cuore a mille, Sam girò su se stesso e lo seguì.
Nessuno dei due disse niente mentre proseguivano veloci verso la biblioteca. Sam era terrorizzato. Non aveva idea di quale fosse il problema, ma una parte di lui era sicuro che qualunque fosse, avrebbe dovuto aspettarselo. Pensava davvero che avrebbe potuto essere felice per più di 24 ore?
La biblioteca non era deserta, neppure in pausa pranzo, ma c’era poca gente. Fecero slalom tra gli scaffali e raggiunsero l’angolo isolato e chiuso alla vista dove di solito facevano ripetizioni.
Quando finalmente furono ‘soli’, Thomas lasciò cadere lo zaino per terra e gli prese una mano.
“Perché non me lo hai detto?!” sussurrò, ma il tono di voce era arrabbiato.
“Cosa?” domandò Sam, che aveva di nuovo le lacrime agli occhi. Gli ultimi due giorni lo avevano messo a dura prova, li sentiva pesare come due mesi.
“Che è stata colpa mia!”
Sam si strofinò un occhio con la mano libera, sforzandosi con tutto se stesso di non lasciar cadere neppure una lacrima. Quindi era a questo che si era riferito Brandon, poco prima.
“Quando te lo ha detto?” chiese a Thomas.
“Che importanza ha?”
“Chi lo sa oltre te?” insistette Sam, che cominciava ad avvertire il panico in arrivo.
Finalmente Thomas capì. “Solo io. Non me lo ha detto a pranzo, davanti agli altri.” Con l’altra mano gli accarezzò il viso, mentre con quella che gli stringeva le dita rafforzò la presa. “Eravamo da soli, stavamo andando in mensa. Eravamo solo io e lui. E in sua difesa devo dire che era convinto che io lo sapessi già.”
“D’accordo” disse Sam, prendendo fiato. Non si era neanche accorto di essere talmente in tensione da stare trattenendo il respiro.
“Scusa, non volevo arrabbiarmi” disse infine Thomas. Smise di accarezzarlo e gli lasciò la mano, facendo un passo indietro. “Però mi sono sentito un cretino. Sia perché ci sarei dovuto arrivare da solo, sia perché non me lo avevi detto. Perché non lo hai fatto?”
“Perché non è stata colpa tua e avevo paura che pensassi che era stata colpa tua.”
“Ma certo che è stata colpa mia!”
“Visto?” Sam tentò un debole sorriso, che Thomas ricambiò.
“Mi sento uno schifo” disse Thomas.
“Se non vuoi più stare con me, lo capisco” mormorò Sam, rassegnato, senza riuscire a guardarlo negli occhi.
“Cosa?!” Thomas fece di nuovo un passo avanti. “Che stai dicendo?!”
“Che se non vu-”
“Sam, ma ti pare!? Ma sei serio?!”
Thomas scoppiò a ridere e Sam lo guardò di nuovo in viso.
“Non lo so! Non capisco niente!”
Thomas lo abbracciò.
“Senti, mi dispiace se ho reagito male” gli sussurrò all’orecchio, per non farsi sentire dal altri. “Capisco perché non mi hai detto la verità, anche se avresti dovuto. Mi sono innervosito perché mi sento in colpa, ma non sono davvero arrabbiato con te. Forse sono arrabbiato con tuo padre ma ho riversato la mia rabbia su di te perché mi hai mentito.”
“Non ti ho mentito, ho solo tralasciato…” mormorò Sam, con il viso affondato nella spalla di Thomas.
Thomas sorrise tra i capelli spettinati di Sam. “Il risultato è lo stesso” disse. “Però questo non cambia niente tra di noi.”
“Quindi…” il ragazzo abbassò la voce il più possibile. “Siamo una coppia? Cioè, sei il mio ragazzo? Ufficialmente?”
Thomas scoppiò a ridere ancora più forte, sciogliendo l’abbraccio per costringere Sam a guardarlo negli occhi.
“Ufficialmente” confermò. Poi finse un’espressione arrabbiata. “Ma sono offeso che tu avessi anche solo il minimo dubbio. Forse dovresti darmi un po’ più di credito, no?” Si strinse nelle spalle. “Sai, parlando in generale, tipo su queste cose e sul fatto che non vuoi racc-”
“Ok ok ok ho capito ho capitooo” sbuffò Sam, senza riuscire a trattenere il sorriso. “Ho sbagliato, mi dispiace. Ma in ogni caso non mi sembra una ragione sufficiente per farmi saltare il pranzo.”
“Ho preso due tramezzini alla caffetteria” rispose Thomas, prendo lo zaino e appoggiandolo sul tavolo. “Mangiamo qui?”
“Sì, non ho tanta voglia di stare in mezzo alla gente. Mi fissano tutti.”
“Immaginavo.”
 
La settimana di Sam trascorse tranquilla.
Il padre non tornò a casa, non telefonò, si limitò a far ritirare le sue cose da un fattorino, ma avvenne tutto mentre lui era a scuola.
Sua madre, Mindy e Hugh rispondevano vagamente a tutte le sue domande, però per fortuna lui aveva Maxwell a riferirgli qualsiasi cosa venisse discussa tra quelle quattro mura mentre lui non c’era.
Non che ci fosse da sapere chissà cosa. Le autorità stavano ‘elaborando’ la denuncia. Bisognava solo aspettare.
A scuola il suo gruppo cercava di trattarlo come sempre, ma Sam non riusciva a non notare una certa attenzione in più.
Archer gli teneva aperta la porta per entrare in mensa, Brandon lo scortava da una classe all’altra anche quando aveva lezione in aule dall’altro lato della scuola, Vinnie gli dava sempre la precedenza in fila alla mensa… tante accortezze di quel genere da parte di tutti, incluso Thomas che aspettava il trio al cancello e poi si univa al loro tavolo a pranzo.
Era strano essere circondati da così tante persone che cercavano di farlo sentire meglio, dopo una vita in cui era stato abituato a poter contare solo su Mindy. Oltre agli amici, adesso aveva persino sua madre.
Nei corridoi e in aula, nessuno lo aveva più preso di mira, neppure Sean, però per fortuna erano diminuite anche le occhiate colme di pietà. Sam non le sopportava, gli facevano venir voglia di piangere.
Anche il livido era quasi completamente sparito, e né Sam né Thomas dovevano più preoccuparsi del dolore durante i baci rubati in angoli nascosti della biblioteca, adesso che avevano ricominciato a fare ripetizioni insieme.
Sam si sentiva bene. Era come se i macigni che si era trascinato sulle spalle negli ultimi anni si fossero finalmente sgretolati. Poteva essere se stesso, e aveva delle persone con le quali esserlo e che lo accettavano per quello che era. Una cosa che gli era sempre sembrata irraggiungibile era finalmente sua.
Per quanto potesse essere triste l’idea di avere una famiglia spaccata, senza suo padre stavano tutti molto meglio. Sam, soprattutto, stava molto meglio. Non aveva più il terrore di passare il tempo tra le mura di casa, e anche se aveva dovuto beccarsi un pugno in faccia per liberarsi di quella situazione, dal suo punto di vista ne era valsa la pena.
 
L’ultimo venerdì di febbraio arrivò in fretta, portando con sé il compleanno di Amy Beth.
Sam era un po’ nervoso. Sia perché aveva lavorato molto sul regalo per la ragazza e sperava con tutto il cuore che le piacesse, sia perché Thomas gli aveva chiesto di andare prima a casa sua e poi raggiungere insieme la festa.
Da un lato, Sam era entusiasta all’idea di andare a una festa dove era sicuro che non si sarebbe sentito a disagio (sarebbe stata la prima volta), dall’altro era un po’ agitato perché Thomas voleva che andassero insieme. Nessuno dei due era pronto a rendere pubblica la loro relazione, neanche con gli amici di Brandon o gli amici dalla scuola pubblica di Thomas. Tra questi ultimi, solo Jack, il migliore amico di Thomas, sapeva che il ragazzo era gay ed era a conoscenza dell’esistenza di Sam.
Però avevano deciso che alla festa sarebbero comunque andati insieme, come una coppia, per loro stessi, anche se nessun altro lo avrebbe saputo e sperando che nessun altro se ne sarebbe accorto.
Un passo alla volta.
Così, quel venerdì Sam era arrivato a scuola con una scatola rettangolare abbastanza grande che conteneva la cornice nella quale aveva sistemato l’illustrazione del castello irlandese per Amy Beth, e nello zaino aveva un cambio di vestiti e un piccolo tubo che custodiva un altro disegno.
Non si era preoccupato di incartare la scatola, ma tutti, inclusa la festeggiata, avevano capito che si trattava del regalo e avevano cercato di sbirciare o di strappargli qualche informazione. Persino Brandon non sapeva cosa avesse combinato Sam, ma lui era stato irremovibile.
Dopo le lezioni Sam e Thomas non si fermarono in biblioteca e raggiunsero a piedi, lentamente e chiacchierando, la casa del tutor.
Era in un quartiere di periferia non troppo lontano dalla scuola, in una via piena zeppa di villette a schiera grandi un quinto rispetto a quella di Sam, tutte in mattoncini e imposte scure, ma tutte con un aspetto curato e accogliente.
Man mano che proseguivano, i due ragazzi si erano fatti sempre più silenziosi, e Sam per calmare i nervi si mise a contare le villette che superavano.
Thomas si fermò davanti alla dodicesima.
“Eccoci” disse, facendo strada mentre tirava fuori un paio di chiavi dalla tasca.
Sam si strinse forte la scatola al petto e lo seguì docilmente.
L’ingresso era minuscolo e buio. Di fronte alla porta principale c’erano delle strette scale per il piano di sopra, e tutte le porte che Sam riusciva a vedere al piano di sotto erano chiuse.
“C’è nessuno?” domandò Thomas, a voce alta.
Sono qui!” giunse una forte voce femminile dal piano superiore.
Thomas sorrise a Sam, richiuse la porta e iniziò a salire.
Anche lì tutte le porte, quattro, per la precisione, erano chiuse, tranne una, che lasciava intravedere una stanza molto luminosa.
Thomas entrò in quella camera bussando sullo stipite di legno.
“Ehy” salutò.
Sam entrò subito dietro di lui. Era chiaramente la camera da letto di Thomas ed Evelyn. C’erano due letti singoli, una grande finestra, una scrivania, un armadio, mensole su ogni parete, e due comodini, niente di più. Non era disordinata come quelle di Brandon e Amy Beth, ma neppure ordinata e impersonale come quella di Sam.
Il lato di Evelyn era sommerso di poster, libri e pupazzi, mentre quello di Thomas era più spoglio, con qualche polaroid attaccata ai bordi delle mensole piene di fumetti.
La ragazza era seduta sul proprio letto, quello vicino alla porta, con la schiena appoggiata al muro e una rivista sulle ginocchia.
“Tu devi essere Sam!” esclamò, balzando in piedi e allungando una mano per presentarsi. “Io sono Evelyn. Puoi chiamarmi Eve.”
“C-ciao. Piacere di conoscerti” rispose Sam, un po’ in imbarazzo, perché non si aspettava tutto quell’entusiasmo.
“Vi stavo aspettando per salutarvi” disse ancora la ragazza. Assomigliava tantissimo al fratello, quasi come se fossero gemelli, un po’ come Brandon e Amy Beth. Anche Evelyn aveva luminosi occhi castani e i capelli ondulati dello stesso colore. Però lei, nonostante l’anno in più, di altezza arrivava a stento alle spalle del fratello.
“Ho l’ultimo turno al negozio” proseguì. “Mamma e papà sono già al lavoro” aggiunse, rivolgendosi a Thomas. “Vogliono sapere a che ora torni dalla festa.”
“Non ne ho idea…” rispose il ragazzo. “Comunque mi hanno già detto che qualcuno mi darà un passaggio in macchina. Forse la mamma di Sam o di Amy Beth.”
“Allora va bene” sorrise la sorella. Afferrò una borsetta che era attaccata al retro della porta della stanza e fece un passo nel corridoio. “Ci sentiamo più tardi. Divertitevi” li guardò maliziosamente e si avviò giù per le scale.
Immobili, rossi di imbarazzo, senza guardarsi in faccia, i due ragazzi rimasero ad ascoltare i rumori che provenivano dal piano di sotto mentre la ragazza si infilava il cappotto e usciva di casa.
Quando ci fu di nuovo silenzio, Thomas si schiarì la voce.
“Posso vedere il regalo di Amy Beth?” chiese.
“Certo.”
Sollevato, Sam si tolse il giubbotto. Thomas fece lo stesso e li sistemò entrambi sul letto della sorella, prima di dare una mano a Sam a sfilare la cornice dalla scatola.
La prese con entrambe le mani e osservò l’opera con occhi rapiti.
“È meraviglioso” disse, senza staccare lo sguardo dal disegno.
“Davvero?”
“Amy Beth lo adorerà. Per forza! Se lei non lo vuole, me lo tengo io.”
Sam sorrise e si chinò verso il suo zaino abbandonato sul pavimento per estrarre il piccolo tubo.
“Ho una cosa anche per te.”
“Dici sul serio?!” domandò Thomas con entusiasmo, ricacciando la cornice nella scatola e appoggiandola alla scrivania. Prese il tubo dalle mani di Sam e lo aprì.
Estrasse un disegno. Non era incorniciato, ma Sam lo aveva fatto plastificare.
Si trattava del cuore umano di cui Thomas si era innamorato quella sera al club di Storia. Non aveva aggiunto nient’altro a parte la propria firma e una piccola T in un angolo in alto del foglio.
Il viso di Thomas esprimeva meraviglia e commozione.
“Posso tenerlo?” chiese a voce bassa, continuando a osservarlo.
“Sì. È un regalo.”
Thomas staccò lo sguardo dal disegno solo per spostarlo su Sam. Gli si avvicinò e gli diede un bacio leggero sulle labbra, poi posò il regalo sulla scrivania, staccò l’angolo di un foglio da un quaderno, ci scarabocchiò sopra qualcosa e lo porse a Sam
Sam osservò il pezzetto di carta. Thomas ci aveva disegnato un cuore, nella solita forma dei cuori di San Valentino, e dentro aveva aggiunto le loro iniziali.
“Non mi sembrava giusto avere il tuo cuore senza che tu avessi il mio” disse Thomas.
Sam scoppiò a ridere, stringendo il pezzettino di carta nel pugno, e Thomas rise con lui.
“D’accordo, scusa… è una stronzata, mi sento un idiota.”
“Mi dispiace, non volevo ridere” disse Sam, quasi alle lacrime per colpa delle risate, ma Thomas non era da meno. “È una cosa molto dolce. Giuro che lo custodirò con a-” si bloccò per un istante. “Con cura” concluse.
Abbassò lo sguardo. Non stava più ridendo adesso.
Thomas fece un passo verso di lui e gli accarezzò la guancia sinistra. “Ti fa ancora male?”
“No, ormai è quasi completamente guarita.”
“Ottimo.”
Gli prese le mani e iniziò a indietreggiare verso il proprio letto tirandolo con sé, poi lo baciò.
Sam si rese conto che questa era la prima volta che erano davvero soli.
A scuola non lo erano mai stati, ovviamente, e nemmeno al loro primo appuntamento, perché anche la galleria d’arte era un luogo pubblico. E casa di Brandon era stata piena di gente il giorno del loro primo bacio, anche se avevano avuto un po’ di privacy.
Stavolta era diverso. Nessuno poteva vederli, o interromperli.
Per un attimo questo pensiero spaventò Sam, che interruppe il bacio, ma senza allontanare il viso da quello di Thomas e senza lasciargli le mani.
Fu solo un istante, però. La sensazione di protezione e la felicità che provava in quel momento con Thomas presero il sopravvento su paura e insicurezza.
Sam lasciò le mani di Thomas per attirarlo a sé con entrambe le braccia e ricominciare a baciarlo, decisamente con più fervore di prima.
Thomas si abbandonò a quell’impeto da parte del suo ragazzo, e un minuto dopo si ritrovò seduto sul suo letto, con il corpo di Sam ancora premuto sul proprio, e poi non era più seduto, ma era disteso, e Sam era completamente sopra di lui, i loro corpi che aderivano perfettamente, e non avevano smesso di baciarsi per un solo istante.
“Ehy…” mormorò Thomas, inspirando profondamente per riprendere fiato.
Sam sollevò la testa per lasciargli spazio, ma non si mosse. Anche lui aveva il fiato corto, e il sangue che ribolliva, e finalmente si rese conto di cosa stava succedendo, e del fatto che, non sapeva nemmeno lui come, si erano ritrovati stesi a letto l’uno sull’altro.
“Vorrei…” continuò Thomas, girando la testa verso la parete per non guardarlo in viso. “Vorrei rallentare un po’.”
Per Sam fu come se gli avesse tirato uno schiaffo. Non si era reso di essersi spinto troppo oltre. Non sapeva neppure come fosse stato possibile, dato che in quella relazione si era sempre sentito un passo indietro, impacciato, buono solo a lasciarsi trascinare da Thomas.
“Mi dispiace” disse, disperato, diventando completamente rosso in viso.
Si mise a sedere per allontanarsi, ma peggiorò la situazione, perché adesso si ritrovava con le ginocchia che stringevano i fianchi di Thomas e tutto il suo peso sul corpo del ragazzo.
“Scusa!” esclamò. Sollevò una gamba e iniziò maldestramente a scendere dal letto, ma Thomas lo fermò prima che potesse appoggiare tutti e due i piedi sul pavimento.
“Aspetta!”
Con un sorriso gli afferrò una mano e lo tirò di nuovo a sé, stavolta facendolo distendere al suo fianco, mentre lui scivolava di lato, verso il muro, per lasciargli spazio.
Il letto era piccolo, quindi anche così i due ragazzi erano praticamente appiccicati l’uno all’altro, distesi su un lato cosicché potessero guardarsi.
Ma Sam non aveva il coraggio di aprire gli occhi.
“Scusami, non volevo farti scappare” disse Thomas. “È solo che… non so se sono ancora pronto per… per quello.”
Finalmente l’altro lo guardò. Il tono di voce dolce di Thomas aveva dissipato un po’ l’imbarazzo, e anzi, a Sam pareva quasi che il ragazzo fosse… mortificato?
“Non capisco” disse sinceramente Sam.
“No-non è che non voglia farlo con te. È solo che non…”
“Cosa?!” esclamò Sam, che adesso aveva finalmente capito. “No, no! Ma sei matto?! Non stavo cercando di… assolutamente no!”
“Oh. Ok.”
Adesso Thomas sembrava ancor più mortificato di prima.
Ma come aveva fatto Sam, proprio lui, a ritrovarsi in una situazione del genere? Ormai aveva perso il conto delle cose incredibili accadute sulla faccia della terra nelle ultime settimane.
Strinse entrambe le mani di Thomas nelle sue.
“Intendevo dire che per me è lo stesso. Mi sono lasciato prendere dal momento” sentì di nuovo il volto andare in fiamme. “Ma non volevo arrivare a quello. Nemmeno io mi sento ancora pronto. Insomma, hai presente chi hai davanti?!” accennò una risata, e per fortuna questo fece allargare il sorriso di Thomas.
“Penso che tu sia molto più coraggioso e intraprendente di quanto pensi” rispose Thomas, lasciando un paio di baci leggeri sulle dita di Sam.
“È… è tutto a posto, allora? Tra di noi?”
Thomas sorrise, divertito da quella domanda un po’ sciocca, e rispose coprendo la distanza che separava i loro volti per baciarlo ancora.
 
Il movimento brusco lo spaventò talmente tanto, che Sam quasi cadde dal letto, perché per istinto si era tirato indietro anche lui. Per fortuna il braccio di Thomas lo teneva ancora stretto e gli impedì di rompersi l’osso del collo.
Ma era stato proprio Thomas ad allontanarsi per primo, contraendo il corpo e staccandolo da quello del ragazzo, spingendosi con la schiena contro la parete, così forte che avrebbe potuto bucarla.
Sam lo guardò negli occhi per un secondo, poi girò su se stesso per distendersi sulla schiena e non averlo più faccia a faccia.
“Che ore sono?” chiese.
“Non lo so” rispose Thomas, rosso in viso. Lanciò un’occhiata alla finestra. “Ok, sembra veramente tardi.”
“Merda!” esclamò Sam, e si alzò dal letto.
Lui e Thomas avevano passato l’ultima ora abbracciati, baciandosi, sfiorandosi, parlando.
In pratica, era stata l’ora più bella della vita di Sam.
Ma adesso l’altro sembrava essersene stancato, e forse era un bene. Perché se c’era una cosa che Sam aveva imparato negli ultimi tempi era il valore dell’amicizia, e non voleva mancare di rispetto a Amy Beth. L’aveva già fatta soffrire abbastanza.
“Ok, ma mi servono cinque minuti” disse Thomas, con un tono di voce strano, che Sam non riuscì a catalogare.
“Non abbiamo cinque minuti” rispose. “A meno che tu non voglia restare qui. Insomma, non sei obbligato. Sono io quello che non può mancare a questa festa se non vuole farsi ammazzare dai King.”
Nella fretta, Sam aveva tirato fuori dallo zaino un maglioncino pulito e, senza pensare, si era sfilato quello che aveva addosso ed era rimasto soltanto con una t-shirt che in quel momento era rimasta bloccata sotto le sue braccia, lasciandogli mezzo busto scoperto.
“Così non mi aiuti!” Thomas si strinse le labbra. Si era seduto e si era messo un cuscino in grembo.
“Cosa?” Sam si tirò giù la maglietta e infilò il maglione nuovo, talmente preoccupato dell’orario e da come Thomas si era allontanato da lui, da non rendersi nemmeno conto di quello che stava facendo.
“Perché pensi che mi sia tirato indietro, prima?” rise Thomas, scuotendo la testa.
“Non lo so. Magari avevi caldo. O ti sei stancato di starmi appiccicato” rispose Sam, abbassando lo sguardo sui propri piedi.
“Il contrario, direi.”
Sam alzò la testa per guardarlo, e gli occhi di Thomas slittarono per un momento sul cuscino che teneva sulle gambe e poi tornarono a incrociare quelli di Sam.
“Oh.”
“Già” disse Thomas, con un sorriso colpevole. “Mi dispiace.”
Sam si morse le labbra. “Non dispiacerti. Sono lusingato” e sorrise anche lui. Fece un passo avanti e, assicurandosi di non toccargli nessun’altra parte del corpo, gli lasciò un bacio a stampo sulle labbra.
“Avevo paura che ti saresti spaventato. Sai, dopo tutto il discorso di prima… avevo paura che se te ne fossi accorto avresti dato di matto.”
Sam non sapeva come avrebbe reagito se se ne fosse accorto. Forse il suo corpo avrebbe reagito allo stesso modo. Magari avrebbero mandato alle ortiche tutta la faccenda dell’essere pronti e si sarebbero tolti i vestiti di dosso a vicenda. Oppure, forse avrebbe dato di matto sul serio, perché le cose stavano andando davvero troppo in fretta.
“Non ho tempo per dare di matto” rispose, cercando di sdrammatizzare. “Dovremmo essere a una festa in questo momento. Ricomponiti!”
Thomas rise e gli lanciò il cuscino in faccia.
 
Quando Sam si svegliò il giorno dopo, si rese conto che era già mattina inoltrata.
“Buongiorno” disse una voce familiare.
Sam sussultò, perché era fin troppo vicina. Si girò dall’altro lato del letto e trovò Maxwell disteso accanto a lui, intento a leggere.
“Buongiorno” rispose, con la voce impastata di sonno.
“Com’è andata la festa di Amy Beth?”
“Bene. Dov’eri quando sono tornato?”
La festa era andata bene davvero. Lui e Thomas erano arrivati insieme, ma nessuno si era insospettito, perché in fondo ormai tutta la scuola sapeva che erano amici. Brandon però gli aveva fatto l’occhiolino e gli aveva sussurrato all’orecchio: come mai avete fatto tardi, sporcaccioni?
Amy Beth aveva adorato il quadro con il castello, si era persino commossa.
La serata si era svolta tranquillamente, Sam si era rilassato con tutti i suoi amici e l’unica vera nota dolente era stata il dover trattenersi dallo stare troppo vicino a Thomas, tenergli la mano, appoggiare la testa sulla sua spalla, guardarlo e sorridergli in ogni momento. Soprattutto dopo aver trascorso il pomeriggio nel suo letto e tra le sue braccia, dover mantenere le distanze era stato incredibilmente difficile.
“Nella stanza degli ospiti” rispose Max, senza spostare lo sguardo dal libro.
Sam non disse niente. Ormai, dopo quei mesi di convivenza con Max, sapeva che il fantasma attraversava momenti in cui non aveva voglia di parlare, e in quei casi stava sempre alla larga da qualsiasi stanza in cui ci fosse lui. Sam aveva imparato a non offendersi, sapeva che non era una cosa che riguardava lui personalmente.
Prima che entrambi potessero dire altro, bussarono alla porta.
“Sei sveglio?” domandò la voce di sua madre dall’altra parte.
“Avanti” rispose Sam, alzando il tono di voce. Sperava che prima non lo avesse sentito parlare con Max, ovvero da solo.
La donna entrò nella stanza, vestita di tutto punto.
“Ho dato a Mindy il sabato libero. Lei e Hugh sono usciti” disse, sorridendo debolmente.
“D’accordo” disse Sam, tirandosi su a sedere.
Max riprese a leggere.
“Possiamo parlare un secondo?” continuò la signora Robertson.
“Che succede?” chiese subito Sam, allarmato, e anche il fantasma riportò di nuovo l’attenzione sui vivi.
“Ci sono novità su tuo padre. Ho saputo tutto ieri pomeriggio, ma quando sono venuta a prenderti abbiamo dovuto dare un passaggio ai tuoi amici, e poi eri stanco, e allora…”
Thomas non era solo un amico, e sua madre lo sapeva benissimo. Una parte di Sam era sicura che la madre aveva approfittato della presenza di Nathan per usare quella parola, e si chiese nel caso in cui avessero dovuto accompagnare a casa soltanto Thomas quale sarebbe stata. Amico? Ragazzo? Fidanzato?
“È stato trasferito. In un altro ospedale, vicino Liverpool” disse finalmente la donna.
“Oh.” Non se lo aspettava.
“Ormai non c’è più niente di suo in questa casa, e lui non ha motivo di tornare. Non qui, e neppure in questa città. Non nelle prossime settimane, almeno. Il divorzio sarà gestito tutto dagli avvocati, e i suoi hanno già detto che… che lui è interessato solo alla parte economica.”
“Quindi non si prenderà la casa?”
“La casa è inclusa nella parte economica. Forse dovremo trasferirci di nuovo, ma in un posto più piccolo. Senza Mindy. Da sola non guadagno abbastanza per mantenere questo stile di vita, tesoro.”
Sembrava che la madre stesse facendo di tutto per consolarlo, ma Sam non ne sentiva il bisogno. Così come non aveva mai sentito il bisogno di vivere in un castello. Nemmeno il licenziamento di Mindy lo preoccupava, perché il suo rapporto con la ragazza era molto forte, e sapeva che non l’avrebbe persa solo perché non lavorava più per loro. Sperava solo che potesse trovare un nuovo lavoro in fretta.
“Quale sarebbe la parte non economica, allora?”
La signora Robertson fece un sorriso triste. “Tu” rispose.
Sam impallidì. A questo non aveva pensato affatto.
“Tranquillo, tesoro.” La donna gli accarezzò la testa, scompigliandogli i capelli già in disordine. “Non vuole la tua custodia. Ha richiesto espressamente di non averla. Mi dispiace.”
“Perché ti dispiace?” chiese Sam, quasi con disgusto.
“Lo so che non vorresti mai vivere con lui, ma… è pur sempre tuo padre.”
“No, non lo è” replicò Sam duramente.
Sua madre sospirò.
“E la denuncia? Cosa faranno con lui? Lo arresteranno?”
La signora Robertson scosse la testa. “Temo che non gli faranno neppure una multa. Gli hanno solo impedito di avvicinarsi a me e te per almeno un anno, e quindi adesso lavora in un altro ospedale. Ma anche questa decisione è provvisoria.”
“Ma… non è giusto” replicò Sam, con la voce piena di rabbia.
“Benvenuto nel mondo degli adulti, Sam” disse la madre, con espressione triste.
“Dove non c’è giustizia” aggiunse Max.
 
Quella sera Sam e Max stavano guardando la televisione in salotto, da soli, seduti ognuno ad un’estremità del divano, quando squillò il telefono. Sam aveva cenato ormai da due ore, dai King, dove aveva trascorso anche il pomeriggio, e stava aspettando che Mindy e Hugh rientrassero a casa.
Sam scattò in piedi e corse a rispondere.
“Tesoro? Sono io” disse sua madre, frettolosamente. “Ho dimenticato il portafoglio, ci sono dentro i miei documenti e mi servono subito. Dovrebbe essere in camera mia. Puoi chiedere a Mindy di portarmelo? È urgente.”
“Mindy non è ancora tornata.”
“Dannazione” sfuggì alla donna. Sam la sentì sospirare. “D’accordo. Dentro ci sono dei contanti, usali per un taxi e portami tu il portafoglio, per favore. Fai il prima possibile, ma stai attento, è tardi.”
“Agli ordini, capo” rispose Sam.
Quasi mezz’ora dopo, il ragazzo era in ospedale. La madre si fece trovare nell’ingresso, ma non era sola.
“Ciao, Sam” lo salutò Sarah Burke, con un sorriso.
“Ciao” ricambiò il ragazzo.
“Grazie, Sam” disse la madre. “Sarah ha finito il turno, ti riaccompagna a casa lei. Chiedi a Mindy se mi lascia qualcosa di pronto da mangiare per domani mattina? Dovrei tornare verso le sei.” Gli strinse brevemente la spalla in maniera affettuosa, fece un cenno d’intesa a Sarah e poi si allontanò lungo il corridoio.
“Devo solo prendere la giacca e la borsa nel mio ufficio. Mi accompagni?” chiese la ragazza.
“Hai un ufficio tutto tuo?” domandò Sam stupito. Neppure la madre lo aveva.
“Sì, gestisco un’associazione che ha sede qui in ospedale. Una fondazione. Quindi, insomma, non è proprio il mio ufficio. È una sede” rise Sarah. Aveva una risata contagiosa.
Chiacchierarono per tutto il tragitto in ascensore e poi lungo un corridoio semi deserto. Era tardi, e quell’ala dell’edificio sembrava riservata alla burocrazia. Non c’erano stanze per i pazienti, né malati.
“Eccoci” disse Sarah, fermandosi finalmente davanti a una porta chiusa. Entrò e accese la luce, mentre Sam si attardò per leggere la targa sulla parete.
Non poteva credere a quello che stava leggendo. Le labbra gli si incurvarono in un sorriso, poi seguì la ragazza all’interno.
Si guardò intorno, mentre Sarah prendeva le sue cose. La prima cosa che notò fu una foto sulla scrivania. Era incorniciata e ritraeva due giovani abbracciati. Non c’erano dubbi su chi fossero. Sarah e Max. Si avvicinò per guardarla meglio.
“È il tuo fidanzato?” chiese, solo perché voleva sentirle parlare di Maxwell.
“Oh, no” rispose lei. “È un amico. Lui è…” le si spezzò la voce, ma nient’altro nel suo aspetto lasciava trapelare del turbamento. Probabilmente aveva già avuto quella conversazione migliaia di volte. “Lui è la persona più importante della mia vita. Lo sarà sempre. Ma no, non è il mio fidanzato” e sorrise come se fosse una constatazione sciocca. E in effetti lo era, per lei e Sam, sapendo che Max aveva… altri gusti.
Sam non chiese nient’altro, perché la ragazza aveva parlato al presente, quindi non poteva indagare oltre senza creare sospetti, così cominciò a girovagare per la stanza.
C’erano un sacco di poster alle pareti, alcuni con slogan intimidatori, altri incoraggianti. E su un mobiletto accanto alla porta c’erano una sfilza di brochure. Ne prese una e cominciò a sfogliarla. Era un’informativa abbastanza generica, ma sul retro c’era il logo della fondazione di Sarah e una breve presentazione. In un momento di distrazione della ragazza, infilò la brochure a forza nella tasca dei jeans.
“Fai un lavoro importante” le disse poi. Iniziava a sospettare che questa ‘visita’ nell’ufficio di Sarah non fosse casuale, ma orchestrata da sua madre.
“Anche tua madre, e tutti gli altri medici che lavorano qui. Comunque grazie. Lavoro soprattutto con i giovani. Non per forza solo con i malati, cerchiamo soprattutto di fare lavoro di prevenzione.”
Sam indicò uno dei poster. “Cercate volontari? Per fare cosa, esattamente?”
“Niente di particolare” rispose Sarah, sostituendo il camice con il cappotto. “Per distribuire volantini, soprattutto davanti alle scuole, oppure nell’organizzazione di convegni, raccolte fondi… cose del genere. Alcune volte anche Amy Beth fa la volontaria. L’anno scorso persino Brandon ha dato una mano con una raccolta fondi.”
“Non me lo hanno mai detto.”
“Forse… forse non volevano essere fraintesi” suggerì la ragazza. “Dato che…”
Aveva senso, in effetti.
“Può essere un argomento delicato per alcuni” concluse lei.
“Beh, la prossima volta che vi serve una mano… conta su di me.”
Il sorriso di Sarah illuminò l’intera stanza.
 
“Mindy…?” chiamò a voce alta, rientrando in casa. Non aveva visto l’auto parcheggiata fuori, ma voleva essere sicuro. Si tolse il giubbotto e lo appese all’appendiabiti nell’ingresso. Nessuno risposta.
Col cuore in gola, corse in camera sua.
Trovò Max disteso sul letto a leggere.
“Max!” strillò, sfilandosi la brochure dalla tasca.
“Che succede?” domandò preoccupato il fantasma, vedendolo così sconvolto. Fluttuò giù dal letto e si sistemò di fronte a lui.
“Guarda!” Sam gli mostrò la prima pagina.
Max la lesse.
“È un po’ tardi per salvarmi, non ti pare?”
“Oh, scusa” disse Sam, girando la brochure per mostrargli il retro. “Pagina sbagliata.”
Max sbarrò gli occhi, leggendo.
M.A.X. Well Foundation – Supporto medico, psicologico ed economico per persone affette da HIV.
C’era una piccola presentazione e infine la firma: Sarah Burke, Presidente.
“Sei un idiota” disse Sam, senza lasciarsi scoraggiare dallo sguardo sconvolto dell’altro. “Tu pensavi che lei ti avesse dimenticato, e invece ha passato tutta la sua vita pensando a te. Ma che dico! Non ha solo pensato a te. I suoi studi, la sua carriera…. Ti ha reso lo scopo di tutta la sua vita. Ha passato gli ultimi dieci anni a cercare un modo per onorare la tua memoria.”
Max aveva indietreggiato e distolto lo sguardo. A suo modo, stava piangendo.
“C’è una vostra foto sulla sua scrivania” continuò Sam. “Max… non l’hai persa.”
Che cosa strana, pensò Sam. Aver perso tutto, persino la vita, il futuro, la speranza… ma non aver perso un’amica.
Gli occhi di Maxwell incrociarono i suoi per un attimo. Il fantasma sembrava distrutto. L’istante dopo, sparì così velocemente attraverso la parete più vicina che Sam credette si fosse smaterializzato sul posto.
 
Il bagliore lo svegliò.
Non era molto forte, ma Sam non era riuscito a perdersi in un sonno profondo, rigirandosi tutta la notte nel letto, turbato dalla reazione di Max.
Insomma, sapeva che sarebbe stata una notizia forte da digerire, ma aveva pensato che ne avrebbero parlato, che l’avrebbero affrontata insieme. Evidentemente non aveva imparato poi così tanto su Max, da quando lo conosceva.
Ma adesso il fantasma era lì, disteso accanto a lui sul letto, fluttuando a pochissimi centimetri dal piumone, sembrava appoggiarcisi veramente.
“Sam?” lo chiamò.
“Ehy.” D’istinto Samuel allungò una mano verso il ragazzo, che se la lasciò stringere.
Sam emise un grugnito di fastidio involontario, un po’ per il calore del tocco, un po’ per l’intensificazione della luce, ma compensò quel gesto stringendo forte le dita di Maxwell in un modo che sperò risultare rassicurante.
“Sam…” sussurrò Max, guardandolo negli occhi, e continuando a parlare solo quando finalmente Sam ricambiò lo sguardo. “Posso restare qui stanotte?”
Di solito non trascorreva mai le notti in camera del ragazzo. Non solo sarebbe stato inquietante avere una figura a fissarlo di notte, ma la luce lo avrebbe disturbato.
“Certo.”
“Grazie.”
“Ti va di parlarne?”
“No. Voglio solo… Voglio solo tenerti stretto finché posso. Ok?”
“Ok.”
Il mattino dopo, al risveglio, Sam si accorse che Max non c’era più. Non solo accanto a lui, ma in tutta la casa. E non era come quando non voleva farsi trovare, no, stavolta Sam sapeva cos’era successo, sapeva che Max era finalmente dove doveva essere, e che quindi non l’avrebbe mai più rivisto.

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Capitolo 15
*** Epilogo. Tre anni dopo ***


Epilogo.
Tre anni dopo.
 
Un vento rinfrescante scompigliò i capelli di Sam mentre il ragazzo si allontanava dalla Walker, con le mani in tasca e un leggero sorriso sul volto.
Come tutte le volte che tornava in città, era passato a trovare Rose, e aveva appena trascorso un’ora buona a chiacchierare con lei. Per fortuna non faceva freddo, era estate. Perché ovviamente non poteva entrare a scuola. Faceva in modo di incontrare la ragazza fantasma sempre quando l’edificio era chiuso, di modo che non ci fossero studenti o insegnanti in giro, e i due amici parlavano attraverso le sbarre del cancello.
Durante il primo anno dopo il diploma aveva fatto lo stesso con Patricia, finché un giorno, presentandosi al parco per salutarla, non l’aveva trovata. Evidentemente, era riuscita a passare oltre. Nonostante non ci potessero essere altre opzioni, Sam aveva fatto una rapida deviazione per il parco anche durante tutte le visite nell’anno successivo, finché si era arreso all’evidenza che non l’avrebbe rivista mai più.
Quella mattina, quando era andato a salutare i King e Sarah, come sempre aveva lanciato un’occhiata alla finestra della sua vecchia camera, nella sua vecchia casa. Nessuna traccia di Maxwell.
Percorse a piedi la strada fino al centro città, dove aveva appuntamento con Mindy e Hugh. E non solo con loro due.
“Eccoti qua” gli disse Brandon, spuntando fuori dal nulla e spaventandolo.
Sam neanche si era accorto di essere arrivato al luogo dell’incontro.
“Dove ci aspettano?” chiese ancora l’amico.
“In quella che apparentemente è la nuova sala da tè preferita di Mindy” rispose Sam con un sorriso. “Aspetta, ho segnato nome e indirizzo.”
Fece per infilare la mano in tasca e tirare fuori il foglietto di carta su cui aveva scarabocchiato le informazioni di cui avevano bisogno, quando uno strillo gli fece prendere un colpo.
“Oh mio Dio! Non posso crederci!” stava urlando una ragazza, incurante del fatto che si trovassero in una strada piena di gente. “Tu sei Brandon King!” Sembrava sul punto di mettersi a piangere, emozionata, con le mani davanti alla bocca.
Altre teste si voltarono.
“Sì, sono io” rispose Brandon, con un sorriso disinvolto. Era abituato, ormai.
Ed era abituato anche Sam, soprattutto alla parte successiva.
La ragazza si fece fare un autografo e poi mise tra le mani di Sam una macchina fotografica usa e getta.
“Possiamo scattare una foto?” la sconosciuta chiese a Brandon. E poi, senza aspettare la risposta, troppo emozionata per usare le buone maniere, si rivolse a Sam. “Puoi scattarci una foto?!”
“Certo” rispose Sam con un sorriso.
Ah, se gli avessero dato una sterlina per ogni foto scattata a Brandon con i fan…
 
Raggiunsero la sala da tè mezz’ora dopo l’orario dell’appuntamento, e trovarono Mindy, Hugh e Thomas già seduti ad un tavolino in un angolo della sala, con le tazze di tè davanti, e un vassoio pieno di dolcetti.
Mindy e Hugh si alzarono per abbracciare i due ragazzi, così stretti da rischiare di soffocarli.
“Come sta tua madre?” chiese Mindy a Sam, sciogliendo l’abbraccio e riprendendo posto insieme al futuro marito. Si sarebbero sposati di lì a due mesi, e lui e Thomas avevano già comprato un completo per l’occasione. Lei li aveva tartassati, con la paura che si presentassero in jeans e maglietta.
“Mi sa che la senti più tu di me” rispose Sam. “Comunque sta bene” aggiunse con un sorriso.
Mindy e l’ex signora Robertson parlavano al telefono almeno una volta a settimana, mentre Sam vedeva la madre circa una volta al mese.
La donna adesso abitava a Londra, come il figlio, e lavorava in un ospedale della città. Si erano trasferiti entrambi dopo il diploma di Sam, ma il ragazzo era andato a vivere con Thomas.
All’inizio i due fidanzatini avevano diviso una camera in casa con degli sconosciuti, e avevano dovuto fingere per lungo tempo di essere solo amici, altrimenti li avrebbero cacciati fuori. La madre di Sam aveva quindi proposto loro di trasferirsi da lei, nella camera degli ospiti, e alla fine i due giovani avevano ceduto. Erano già costretti a fingere in molti luoghi pubblici, non ce la facevano più a non poter essere loro stessi persino tra le mura di casa. Per Sam non era l’ideale vivere sotto lo stesso tetto con la madre e il proprio fidanzato, ma era stata l’alternativa migliore, almeno momentaneamente.
Comunque, l’anno successivo erano stati raggiunti in città da Brandon e Archer, finalmente diplomati anche loro, e adesso gli amici vivevano tutti e quattro insieme nello stesso appartamento.
Thomas frequentava giurisprudenza al King’s College, e anche Archer si era iscritto lì, nella stessa facoltà. I due ragazzi studiavano spesso insieme ed erano diventati molto amici. Archer aveva preso il coming out di Sam e la relazione con Thomas in maniera tranquilla, così come Vinnie e Diana, che stavano ancora insieme e adesso vivevano in Irlanda. Invece Nathan si era allontanato dal gruppo. Non aveva mai fatto commenti diretti sgradevoli, ma… insomma, anche se gradualmente e senza fare sceneggiate melodrammatiche e omofobe, aveva pur sempre preso le distanze.
“Come mai ci avete messo tanto?” chiese Thomas, mentre Sam si sedeva accanto a lui. Si strinsero brevemente la mano con affetto.
“Colpa di Brandon, ovviamente” rispose Sam.
“La gente mi ama, che posso farci?” il colpevole si strinse nelle spalle.
“Quand’è il prossimo concerto?” domandò Hugh.
“Quello al tuo matrimonio” rise il ragazzo.
“Davvero?” domandò Mindy.
“Sì. Il tour parte in ottobre, quando esce il nuovo album.”
“Emozionati?”
“Da morire!”
“La cover è pronta?”
“Prontissima” rispose Sam, che aveva illustrato già la cover dell’album di esordio della band di Brandon, nella quale il ragazzo suonava la chitarra e scriveva quasi tutti i testi. Non era il cantante, ma era il frontman, quindi tutti conoscevano il suo nome, anche perché era quello che parlava di più durante le interviste.
Il primo anno a Londra, invece di iscriversi al college, aveva messo su una band. I signori King avevano storto un po’ il naso, persino Amy Beth, ma in sei mesi erano riusciti a trovare un agente, e sei mesi dopo era uscito il loro primo album, che era stato un successo e li aveva portati in tour per tutta l’Inghilterra e in un sacco di programmi televisivi, musicali e non. Avevano conquistato tanti di quei fan che per il secondo tour erano state programmate anche delle date in altri paesi europei.
Sam, ovviamente, non aveva perso un solo concerto fino ad allora, e di certo non aveva alcuna intenzione di perdersi quelli di Parigi, Milano, e di altre città stupende.
Brandon ormai guadagnava un sacco di soldi e avrebbe potuto tranquillamente vivere per conto suo e in un appartamento ben più bello di quello dove abitava adesso con i suoi amici, ma non ne aveva alcuna intenzione, almeno per il momento. Gli ultimi due anni era stato troppo concentrato sulla musica per avere una storia seria, ma ultimamente stava frequentando una ragazza che a breve avrebbe potuto strapparlo dalle grinfie dei suoi amici.
Neanche Sam si era iscritto al college, ma era stato selezionato in una prestigiosa accademia d’arte londinese. Durante le vacanze di Natale avrebbe visto per la prima volta i suoi lavori esposti in una galleria d’arte, insieme a quelli di altri studenti ritenuti meritevoli.
“E com’è andato il pranzo?” chiese ancora Mindy. “Tua madre non vedeva l’ora di riabbracciarti.”
“Quella donna è troppo sentimentale” rispose Brandon con uno sbuffo, ma scherzava. Ci mancava poco che il ragazzo si mettesse a piangere ogni volta che rivedeva la sua famiglia.
“Tutti ci hanno chiesto di salutarvi e Claire ci ha detto di ricordarti che avete un appuntamento domani” intervenne Thomas, che aveva pranzato dai King con Brandon e Sam. Poi le strade dei tre si erano divise: Brandon era rimasto a casa, Sam era andato da Rose, Thomas aveva rivisto alcuni vecchi amici. Adesso si erano ritrovati per salutare Mindy, e poi tutti e tre sarebbero andati a cena dai Carter. Questo era il tour che facevano ogni volta che tornavano in città, arrivando presto la mattina e rientrando tardi la sera. Raramente restavano per più di un giorno, preferivano che famiglia e amici li andassero a trovare a Londra. Spesso, comunque, si univano ai tre ragazzi anche Amy Beth e Jack, il migliore amico di Thomas.
Amy Beth studiava e viveva a Oxford. Proprio con Jack, che aveva vinto una borsa di studio per quella stessa università. I due stavano insieme da poco meno di Sam e Thomas, quindi quasi tre anni ormai, ed erano stati proprio loro due a presentarli.
Trascorsero un’altra ora a chiacchierare, in attesa che Evelyn passasse a prenderli con la macchina.
Gli ultimi tre anni della vita di Sam non erano stati privi problemi, o di sofferenza. C’erano stati alti e bassi, ma da quando aveva conosciuto Max ed era riuscito a trovare la forza di aprirsi al mondo ed essere se stesso, era finalmente felice. Più volte aveva provato a confessare a Brandon e Thomas di poter vedere i fantasmi, ma alla fine non c’era mai riuscito. A Londra ne aveva conosciuti di nuovi, e chissà quanti ancora ce n’erano da incontrare. Almeno, stavolta nessuno di loro viveva in camera sua.
Thomas si sporse verso di lui, appoggiandosi al bracciolo della sua sedia in ferro battuto color rosa pastello, come quasi tutto in quella sala da tè.
“Tutto bene?” gli sussurrò, con le labbra che sfioravano l’orecchio di Sam. “Mi sembri sovrappensiero.”
Sam gli sorrise e gli strinse la mano. “Tutto bene” rispose.
E da tre anni, quella risposta non era più una bugia.
 
Fine.

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