Into the deep

di MaxB
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pelle ***
Capitolo 2: *** Thorn ***
Capitolo 3: *** Innamorarsi ***
Capitolo 4: *** Cuore ***
Capitolo 5: *** Non vi amo ***
Capitolo 6: *** Tre giorni ***
Capitolo 7: *** Pronto! ***
Capitolo 8: *** Perché siete venuta a Babel? ***
Capitolo 9: *** La slitta pt. 1 ***
Capitolo 10: *** La slitta pt. 2 ***
Capitolo 11: *** La slitta pt. 3 ***
Capitolo 12: *** Coraggioso ***
Capitolo 13: *** Avevo un dubbio ***
Capitolo 14: *** Anch'io vi amo ***
Capitolo 15: *** Sono già felice ***
Capitolo 16: *** Cinquantasei ***
Capitolo 17: *** Per noi pt. 1 ***
Capitolo 18: *** Per noi pt. 2 ***
Capitolo 19: *** Un disegno ***
Capitolo 20: *** Insieme ***
Capitolo 21: *** Concesso ***
Capitolo 22: *** A te basterò? ***



Capitolo 1
*** Pelle ***


Scena che ho riletto qualcosa come 12 volte, ultimissime pagine del libro terzo, La Memoria di Babel.
Ecco come mi sono immaginata la prima volta di Ofelia e Thorn.
Il mondo smise di essere parola per farsi pelle. Fedele a questa meravigliosa citazione, che trovo stupenda per descrivere un rapporto amoroso, non ci sono parole nel capitolo, se non due frasi che mi sono sentita in dovere di aggiungere.
 

1. Peau
 
 
- Fammele vedere.
Erano bastate quelle due parole pronunciate con sicurezza per scacciare via dallo sguardo di Thorn tutta l’insicurezza e l’intimidazione, accendendovi un altro tipo di luce. Con le mani che ancora gli circondavano il viso, pronta come non lo era mai stata, Ofelia sentì i muscoli di Thorn rilassarsi e la tensione emanata dai suoi artigli alleggerirsi, lasciandola ancora più libera.
Spronato dalle sue chiare e certe intenzioni, e dalla sua mancanza di tentennamenti, Thorn si portò le mani verso il colletto della camicia, che cominciò a sbottonare con gesti rapidi e metodici, precisi. Ofelia non abbandonava il contatto visivo nemmeno per un secondo, e per una volta fu Thorn a rischiare di sentirsi schiacciato dal suo sguardo intenso, che non era freddo e tagliente come il suo, ma dolce e caldo come il cioccolato dei suoi occhi. Giunto all’altezza dell’addome, continuò a sbottonarsi la camicia con una mano sola, mentre l’altra saliva verso la nuca di Ofelia. Lei subodorò solo un leggero sentore dell’alcol farmaceutico con cui si disinfettava con meticolosità le mani ogni volta, e ringraziò che non se le fosse pulite pochi istanti prima. La situazione era già abbastanza conturbante, non le servivano odori penetranti che le facessero girare ulteriormente la testa.
Thorn la tirò a sé e la baciò per non doverla più guardare in viso, per calmare quell’impulso che si faceva sempre più divorante ogni secondo che passava, cercando di essere calmo e lento per una volta nella sua vita.
Ofelia si godette quel contatto come se fosse il primo vero bacio che si scambiavano. Quando erano sulla muraglia di Sabbie d’Opale, era stato Thorn a baciarla, cogliendola di sorpresa e attivando un meccanismo di difesa che si era concretizzato in uno schiaffo non voluto. Non un ottimo inizio. Dopo tre anni era stato sempre lui a tirarla a sé, quando erano mezzo crollati sul pavimento della stanza dell’Ordinatore, nel Secretarium. Thorn non aveva voluto lasciarla andare quando lei aveva provato a tirarsi indietro, conscia solo dello stivale che aveva piantato nella gamba; l’aveva tirata ancora di più a sé, muovendo la bocca sulla sua in maniera un po’ meno maldestra della prima volta, lasciandoli entrambi a corto di fiato.
Ma questo bacio era puro calore, che si irradiava nelle vene e andava ad alimentare quello che sentiva già nelle profondità di se stessa, un luogo inaccessibile che non credeva nemmeno esistesse. Che solo Thorn le aveva e le avrebbe fatto scoprire. Le loro bocche non erano più timide e impacciate mentre si esploravano in quel bacio lento e profondo, sicuro e appassionato che fece accelerare i loro respiri nel giro di pochi secondi.
Quando Thorn tolse la mano dai suoi capelli, non prima di averli stretti più forte, come restio a lasciare andare i suoi boccoli scomposti, Ofelia capì che aveva finito di sbottonarsi la camicia con una sola mano. In pochi secondi aveva compiuto un’operazione che a lei avrebbe richiesto due minuti buoni con l’ausilio di entrambe le mani, figuriamoci una sola. Fortunatamente l’affettazione e la sicurezza dei gesti di Thorn bilanciavano i suoi, maldestri e poco pratici. Tanto più che senza guanti non avrebbe potuto toccare nulla che non fosse pelle umana.
Del resto, l’intento era stato quello fin dall’inizio…
Ofelia fece scivolare le mani giù dalle sue guance rasate, verso il suo collo, per poi posargliele sulle spalle, sotto la camicia, mentre Thorn si levava del tutto l’indumento e lo lasciava cadere per terra, senza mai staccare gli occhi ardenti dai suoi, il respiro corto e il battito accelerato. Ofelia sentiva la sua pelle bruciare sotto le dita, e si costrinse ad abbassare lo sguardo per fissare il corpo nudo di Thorn. Se si escludeva il suo fratellino Hector e l’imprevisto incidente con Renard, era la prima volta che vedeva un uomo a petto nudo. Mentre quello di Renard era coperto da una folta peluria rossa come i suoi capelli di fuoco, quello di Thorn era glabro, liscio come quello di Hector. Ma le somiglianze finivano lì.
Thorn non era magro quanto pensava. Per lo meno, non era scheletrico. La muscolatura era appena abbozzata, di sicuro non accentuata, ma Ofelia vedeva chiaramente la linea che ne delineava i pettorali e gli addominali. Anche le braccia, per quanto lunghe, non erano sottili quanto aveva immaginato, sebbene fossero asciutte e affilate come spade. Nel complesso quella visione era una piacevole sorpresa, cui Ofelia dedicò una minima parte della sua attenzione.
La gran parte d’essa era invece concentrata sulle innumerevoli cicatrici che solcavano la pelle di braccia, avambracci, addome, petto e spalle. Ne sentiva una particolarmente pronunciata sotto la mano destra, che fece scivolare sul suo braccio per poter osservare cosa ci fosse sotto.
La spalla era attraversata da una cicatrice larga e netta, dritta come un fuso, che gli arrivava sotto la clavicola. Sul braccio destro ne aveva una che i suoi parenti dovevano essersi parecchio divertiti a procurargli: era una spirale che partiva dal gomito e risaliva come una scala a chiocciola sul bicipite e terminava sotto l’ascella. O forse partiva da lì e terminava sul gomito, Ofelia non avrebbe saputo dirlo. Sull’avambraccio relativo ne aveva una trasversale, e poco più in alto due che si intersecavano a croce, come il mirino di un bersaglio, o l’indicatore di un tesoro. Erano tutte bianche, macchie ben definite sulla pelle chiara, alcune spesse e robuste, altre sottili e incavate.
Ofelia gli prese la mano destra e se la portò alla bocca, baciandogli prima le nocche scorticate, cercando di non inspirare troppo l’odore di disinfettante, poi risalendo sul polso magro, baciandogli le ossa sporgenti, e infine lasciandogli una scia di baci su tutta la lunghezza delle cicatrici. Gli baciò le curve di quella a spirale e alzò gli occhi su di lui quando stava per passare a quella sulla sua spalla. Thorn era immobile, una statua, gli occhi chiusi e la bocca semiaperta. Quando capì che si era fermata aprì gli occhi di scatto e li incatenò a quelli di Ofelia, facendole perdere un battito e facendola arrossire. La stava divorando con lo sguardo, come un cacciatore con la sua preda, o un Drago con la sua Bestia. Ma quella che stavano inscenando era un altro tipo di caccia.
Distogliendo lo sguardo, Ofelia si allungò per baciargli anche quella sulla spalla, spessa sotto le sue labbra. Con la coda dell’occhio ne vide una sul collo, una mezzaluna che non aveva mai notato per via degli indumenti che portava abbottonati fin quasi al mento. Sentiva l’acciaio dello sguardo di Thorn su di sé, ma lo ignorò e lo baciò dolcemente sul collo, facendolo irrigidire nuovamente. Quando si staccò lo vide più rigido e nervoso che mai, e il suo corpo emanava ondate di un sentimento represso che si stava facendo violenza per trattenere. Stava adeguando il ritmo a lei, cosa che non gli era mai capitato di fare con nessun altro.
Ofelia proseguì con l’esplorazione verso il suo braccio sinistro, lentamente, come chi ha a disposizione tutto il tempo del mondo. E loro, per una volta, ce l’avevano. Chiusi in quella camera, circondati dalla pioggia e dal silenzio, erano in una bolla fuori dal mondo, una piccola arca tutta loro, un interstizio tra gli specchi.
Thorn trasalì di nuovo quando Ofelia si inginocchiò tra le sue gambe e gli fece scivolare le mani sull’addome, guardandolo di sottecchi, leggermente intimidita. Ma lui stava bevendo ogni suo gesto, in attesa, un rapace pronto a spiccare il volo, un orso pronto a balzare. Prendendo coraggio, Ofelia gli accarezzò la pelle calda, liscia lì dove non c’erano cicatrici che gli ricoprivano il corpo come tatuaggi sbiaditi. Thorn aveva un clan tutto suo, e quei segni ne dimostravano l’appartenenza. Ofelia, anche se in misura minore, gli teneva compagnia, tra le artigliate di Freya, le cadute da bambina, i vetri dei compagni precorritori e le percosse subite nei panni di Mime. Erano un gruppo a parte, loro due. E si appartenevano.
Un taglio sul fianco, uno squarcio sul pettorale, una linea frastagliata che girava e finiva sulla schiena… Ofelia glieli baciò tutti, finché Thorn non si chinò per reclamare la sua bocca affinché baciasse anche le sue labbra, non solo la sua pelle. Le circondò il viso prima di far scendere le mani e attirarla a sé. Curvo com’era, sembrava uno strano contorsionista, un mobiletto ripiegato su se stesso. Ofelia gli fece il favore di alzarsi per essere quasi alla sua altezza, e ricambiò con forza la stretta con la quale Thorn la stringeva, quasi a volerla spezzare, come se ancora non fosse abbastanza vicina. Per essere uno che teneva all’igiene e alla pulizia in maniera maniacale, quei baci umidi e profondi dovevano essere un affronto per lui. Eppure cercava contatti maggiori, non voleva lasciarla andare. O l’istinto primordiale che si era impossessato di Thorn era più forte delle remore che si faceva, oppure il suo desiderio di stare con lei era così grande da far passare in secondo piano le sue manie. Quando le sue mani scesero verso la sua vita e afferrarono la stoffa della sua vestaglia nel pugno, Ofelia capì che la risposta si trovava nella seconda opzione.
Thorn aveva bisogno di lei, in tutti i sensi. Dopo una vita di privazione affettiva, passata a ricevere solo disprezzo, disgusto e cattive opinioni, gli serviva qualcuno che lo amasse davvero, per ciò che era, per com’era, per quello che diceva e faceva. Per i suoi modi bruschi e poco cordiali, asociali, per le manie, per la mancanza di senso dell’umorismo, per la pignoleria, lo stakanovismo e la poca loquacità. Ma anche, e soprattutto, per la generosità, la lealtà, la coerenza, la devozione assoluta, l’attenzione, la premura. L’amore incondizionato.
Thorn fece risalire le mani dalla sua vita alle sue braccia, fino alle sue spalle, da cui fece scivolare per terra la vestaglia che Ofelia non si era nemmeno accorta le avesse slacciato. Lei però non aveva ancora finito con le sue cicatrici. Si scostò e salì sul letto, attenta a non inciampare, ma non prima di aver notato sul volto di Thorn uno sguardo quasi ferito, di bramosia, una specie di capriccio non accontentato. Si inginocchiò alle sue spalle mentre lui teneva lo sguardo fisso di fronte a sé. E lei capì come mai rimanesse così immobile, perché non si fosse girato con lei, seguendone i movimenti sul materasso.
Ofelia era disgustata.
Non disgustata dalla schiena del marito, ma dalla cattiveria, dall’invidia, da qualunque fosse il sentimento che aveva spinto degli esseri umani, dei familiari¸ a ridurre in quello stato la schiena, la pelle, il corpo di un uomo. Un uomo buono. Perché Thorn era un uomo buono.
La sua enorme schiena dalle spalle larghe e la vita stretta sembrava essere stata presa a frustate. Le cicatrici erano larghe e lisce, non ispessite. La pelle era guarita bene, ma questo non cancellava l’abominio di cui era stata oggetto. Tre grosse artigliate parallele correvano obliquamente dalla spalla al fianco, interrotte qua e là da altri squarci di diverse dimensioni. Ne aveva anche una verticale che andava dal collo fin sotto la cintura, perdendosi chissà dove, come una seconda spina dorsale impressa sulla pelle.
Thorn espirò lentamente, incapace di rimanere ancora in apnea, e si incurvò un po’. Ofelia sapeva di dover dire qualcosa, o forse di non dover dire nulla. Nessuna parola sarebbe stata adeguata, né una domanda, né una formula di conforto. Il silenzio diceva già tutto. Le veniva da piangere, ma aveva paura che Thorn fraintendesse la causa di eventuali lacrime. Spinta da una forza irresistibile, quella che guidava già da diversi minuti i suoi gesti, si alzò sulle ginocchia e buttò le braccia al collo di Thorn, premendosi contro la sua schiena, abbracciandolo da dietro.
Lo sentì sussultare nuovamente. Non aveva previsto quello slancio, né che il busto di Ofelia avrebbe aderito così perfettamente a sé. Sentiva spingere il corpo della moglie contro il suo, consapevole di tutte quelle curve che non aveva mai potuto distinguere, tantomeno toccare, ma che in quel momento erano premute contro di lui come se fossero un solo corpo, loro due. E forse era proprio così.
Ofelia si chinò a baciargli il collo lentamente, inspirando il profumo leggero della sua pelle, sempre così pulita nonostante il sudore e l’alta temperatura. Lo annusò seppellendo il naso contro la sua clavicola, ringraziando che almeno il resto del corpo non sapesse di disinfettante. Non come le mani. Thorn allungò le braccia e prese le sue minuscole dita tra le sue, lunghissime, stringendole dolcemente. Ofelia lo interpretò come un muto ringraziamento, che contraccambiò con un bacio sulla spalla, quella dove svettava la cicatrice. Fece scivolare le mani via dalle sue, passandogliele sulle spalle in una lunga carezza, forse la prima che Thorn avesse mai ricevuto. Gliele fece passare lungo la schiena, sopra le cicatrici, e lo vide rabbrividire nonostante la temperatura fosse parecchio elevata in quel periodo. Alla fine gliele passò sui fianchi magri e gliele allacciò sullo stomaco, posando la testa sulla pronunciata colonna vertebrale. Sorrise quando sentì il suo cuore rimbombargli come un tamburo contro l’orecchio, ad un ritmo forsennato, seguendo le note di un’antica danza persa nel tempo.
Thorn le afferrò nuovamente le mani e si chinò per baciargliele, dito dopo dito. Ofelia sentì la sua guancia morbida sotto le dita, e si rese conto che Thorn si era preparato per quel momento. Sbarbato, pettinato, con l’armatura ben solida sulla gamba… ci teneva a fare bella figura, a rendersi presentabile. Oltre a non nutrire una gran stima per gli altri, non ce l’aveva nemmeno per sé, visto quanto le aveva riferito poco prima, cioè che era consapevole di non essere attraente. Aveva però cercato di rendersi al meglio per lei, cosa di cui si sentì oltremodo lusingata, visto che non teneva in considerazione nessuna opinione altrui; le aveva fatto capire che quella sua gli importava enormemente. Arrossì quando si rese conto che forse Thorn aveva desiderato quel momento, per quanto lei gli avesse detto che non avrebbe mai condiviso il letto con lui. La sua confessione doveva avergli dato l’impressione che ci sarebbe stata una smentita anche di quella vecchia dichiarazione infelice, spingendolo a rendersi adatto alla situazione in caso di un cambio di opinione. Del resto, erano sposati da tre anni…
Con i capelli spettinati per via dell’automa asciugacapelli e il pigiama troppo grande e informe di Ambroise, però, più che Thorn, era lei quella molto poco attraente. Grazie al cielo lui non aveva mai badato a quelle cose, nemmeno quando si erano visti e lei aveva avuto il viso pesto, le ossa rotte, il sangue che le colava dal naso. Non gli importava del suo aspetto, ma teneva così tanto a lei da essersi preparato di tutto punto.
Sentì un tale moto di affetto per quell’uomo, che ai suoi occhi era attraente, ammaliante e sapeva farle girare la testa con uno sguardo, che dovette staccarsi da lui per ritrovare il respiro. Thorn si alzò velocemente e si voltò verso di lei, facendo scricchiolare leggermente l’armatura. A petto nudo di fronte a lei, la osservava con uno sguardo allo stesso tempo vulnerabile e duro come l’acciaio delle sue iridi chiare. La prese per mano e l’aiutò ad alzarsi in piedi sul letto, per essere allo stesso livello. Ofelia odiava doverlo sempre guardare dal basso, ma era così strano essere alta come lui! Certo, in piedi sopra un letto, ma quelli erano solo dettagli…
Si accorse solo in quel momento che le piaceva la loro differenza d’altezza. Thorn era una torre di guardia che vegliava su di lei, sempre pronto a proteggerla e schermarla. E le piaceva anche, cosa che aveva scoperto da qualche minuto, quando Thorn si impossessava della sua bocca senza permessi o richieste, agendo e basta. Per essere uno che pensava fino allo sfinimento, non gli mancavano certo i gesti per concretizzare quei pensieri. Circondandogli il collo con le braccia, Ofelia si sentì andare a fuoco quando la lingua di Thorn, lenta ma sicura, come in cerca di un permesso, cercò la sua. Quasi le cedettero le gambe rispondendo a quel bacio così profondo, fatto di labbra, saliva, lingue, ansiti e respiri strozzati. E calore. Thorn le afferrò la vita e, quasi sostenendosi a lei per paura di cadere, fece passare le dita sotto alla stoffa della maglia del pigiama, sfiorandole la pelle nuda.
Fu il turno di Ofelia di rabbrividire. Le mani di Thorn erano calde, ma il suo tocco contro il suo corpo era incandescente. Non ottenendo un rifiuto, si spinsero un po' più oltre nell’esplorazione sotto la maglia, infilandosi del tutto sotto l’indumento, fino a stringerle i fianchi nudi, pelle contro pelle. Essendo in casa, ed essendo la temperatura esterna particolarmente alta in quel periodo, Ofelia indossava solo e unicamente il pigiama. E la vestaglia, per apparire più decorosa. In sostanza, aveva reso la vita facile a Thorn, le cui mani toccavano solo pelle ovunque andassero. Si mossero verso la sua schiena, salendo poi verso l’alto, fino alle scapole. Ofelia era tanto morbida quanto Thorn spigoloso, e lui si beò di quel contatto caldo e confortante.
La sua bocca scese a baciarle il collo, lasciandola libera di respirare. Quando sentì le mani del marito tornare indietro verso i fianchi e risalire, per nulla intimidita dalla loro lenta ascesa, sollevò le braccia per facilitargli il compito. Ofelia non poteva toccare i loro indumenti, essendo senza guanti, per questo Thorn le stava mutamente chiedendo il permesso. Lei non poteva spogliarsi, ma lui poteva farlo per lei. Quando capì che aveva il via libera, non esitò più. Le tolse la maglia con un movimento fluido delle mani, così agili e svelte da essere infallibili. Così calme e misurate quanto le sue erano nervose e goffe. La maglia venne depositata a terra, vicino alla vestaglia, senza tante cerimonie, ma Thorn non la guardò. Continuò a baciarle collo, spalle e clavicole finché Ofelia non reclamò la sua bocca, stringendosi a lui, cuore contro cuore ad un ritmo impossibile da sostenere. Il fuocherello che avevano dentro era divampato e tutto sembrava diventato urgente, indispensabile e insufficiente.
Thorn gemette quando sentì il seno di Ofelia premere contro il suo petto, piacevole al contatto. Mai nella sua vita aveva indugiato in simili fantasie, pensando che una situazione del genere non sarebbe mai potuta avverarsi, con nessuna donna. Invece in quel momento era lì, mezzo nudo, con colei che amava e che non poteva più tollerare di sentire distante. Voleva farla sua, voleva che pensasse solo a lui, che appartenesse solo a lui, che guardasse solo lui. E che lo desiderasse.
Capì finalmente che tutto quello che voleva si era già avverato quando avvicinò le mani al bordo dei suoi pantaloni del pigiama e, infilando leggermente le dita sotto l’elastico, non incontrò resistenza. Ofelia seppellì il viso nella sua spalla, emozionata e nervosa, e attese di scoprire dove sarebbero andate le mani di Thorn. Quelle mani che l’avevano sempre fatta impazzire senza comprenderne il motivo, specialmente quando si disinfettava. Ora capiva: voleva che toccassero lei, le attendeva sulla pelle, ma non erano mai arrivate fino a quel momento.
Thorn le fece scivolare i pantaloni sulle gambe e arrischiò una sbirciatina verso il basso. Vide parzialmente il seno della moglie, ancora schiacciato contro di lui, e le sue gambe che calciavano via i pantaloni da sotto i piedi. Ofelia era magra, ma non eccessivamente. Aveva le curve giuste al posto giusto, e Thorn ringraziò che non avesse la sua stessa costituzione allampanata.
Cogliendolo di sorpresa, Ofelia si allontanò da lui con due passi indietro, rossa in viso. Se per vergogna, imbarazzo, trepidazione o aspettativa, non avrebbe saputo dirlo. Si lasciò sbranare in silenzio dallo sguardo famelico di Thorn, che la squadrava da sopra a sotto senza il minimo disagio, come aveva fatto tante volte in passato, in procinto di valutare la situazione e trarre conclusioni. L’unica conclusione, in quel caso, fu un chinarsi per rimuovere l’armatura, depositandola di lato con cura, e accingersi a sbottonare i suoi, di pantaloni. Operazione che, per la prima volta da quando Ofelia gli si era avvicinata per baciargli le cicatrici sul viso, sembrò paventare. Quando se li fece calare giù dalle lunghe gambe, distogliendo lo sguardo e arrossendo fino alle orecchie, Ofelia gli si avvicinò per rassicurarlo e attirarlo a sé.
Fedele come al solito, la sua intrinseca goffaggine la fece inciampare. Thorn si avvicinò per evitarle la caduta, ma la gamba malata lo tradì, facendo cadere entrambi in avanti, uno sopra l’altra, sul letto. Ofelia lo guardò con gli occhiali storti sul naso, e Thorn si affrettò a raddrizzarglieli. Ofelia scoppiò a ridere, facendogli increspare la fronte in un moto di frustrazione. Sconsolato, chinò la testa scuotendola in rassegnazione, scontrandosi con il suo seno, e ponendo fine in modo brusco alla risata della moglie, che lo guardò sorpresa. Temendo di averlo fatto allontanare, gli sorrise dolcemente e gli diede un leggero bacio sulle labbra, circondandogli il volto con le mani per poi scendere sul collo e sulle spalle. Voleva che continuasse, e con Thorn i gesti valevano sempre più delle parole. Da sopra di lei, cercava di non pesarle addosso, anche se Ofelia avrebbe tanto voluto sentirlo più vicino.
A poco a poco i loro respiri spezzati divennero l’unico suono che erano in grado di percepire, il tocco delle loro mani l’unica cosa di cui fossero consapevoli. Sarebbero potute crollare le Arche e non se ne sarebbero accorti. Thorn si faceva di secondo in secondo più audace, abbandonando la bocca di Ofelia per scendere in basso, verso quel seno che lo stava mandando fuori di testa. E lui pensò bene di far impazzire pure lei, ripagandola per tutte le carezze che gli stava facendo. Senza nemmeno rendersene conto erano rimasti completamente nudi, senza alcun ulteriore pezzo di stoffa a separarli.
Erano pelle contro pelle, cuore contro cuore, bocca contro bocca e, quando Thorn si separò da lei bruscamente, Ofelia capì che era giunto il momento di unirsi definitivamente a lui.
Lo sguardo di Thorn era così intenso che Ofelia temette di non poterlo sostenere. Si rese conto in quel momento di amarlo così tanto da provare un dolore fisico alla bocca dello stomaco alla vista dei suoi occhi, dentro i quali scorgeva un trasporto sconfinato e un bisogno di abbandonarsi a lei che le fecero venire le vertigini. Oppure era paura? Probabilmente solo desiderio. Thorn le baciò dolcemente la fronte, respirando contro la sua pelle accaldata e i capelli che ormai erano più indomabili del suo spirito combattivo. Ofelia capì che sarebbe riuscita ad ammorbidirlo, perché lo amava visceralmente, perché con lui era completa e perché in lei avrebbe trovato una casa, un rifugio e una persona fedele, su cui contare sempre.
Non sarebbe più stato solo. Non lo avrebbe mai ferito. E non avrebbe permesso che lo fosse mai più, né solo, né ferito.
- Ti amo – gli sussurrò all’orecchio, facendogli irrigidire contemporaneamente ossa, muscoli e tendini; persino il sangue sembrò fermarsi sotto le vene.
A volte Thorn sembrava proprio un automa, come se il nome affibbiatogli per scherno in realtà fosse consono, ma quando Ofelia alzò lo sguardo e vide un lampo di consapevolezza attraversargli il metallo delle iridi come un riflesso, ebbe la certezza che Thorn non era affatto un automa. Aveva in sé più sentimenti ed emozioni di qualsiasi altro essere umano, era solo bravo a nasconderli sotto una finta patina di freddezza e indifferenza.
Thorn posò la fronte sulla sua, dolcemente, e si mosse per unirsi a lei, senza impaccio, sicuro di sé come se lo avesse fatto migliaia di altre volte. Ma Thorn era sempre efficiente, non sbagliava mai un colpo. E Ofelia ringraziò che i loro ruoli fossero proprio quelli, ognuno con il proprio compito, a completarsi a vicenda. Lui arrivava sempre dove lei non era in grado.
Concentrata su ciò che stava accadendo più in basso, Ofelia chiuse gli occhi, cosa che indusse Thorn a fermarsi nonostante non avesse guadagnato nemmeno terreno. Temendo che avesse paura, che si fosse irrigidita o che ci stesse ripensando, le baciò la guancia con una tenerezza di cui non si riteneva nemmeno capace, in un bacio casto che si davano due fratelli, ma che valeva quanto un discorso chiaro e diretto.
Le baciò anche l’altra, e ad un soffio dalla sua bocca le sussurrò: - Ti amo -. Poi le sfiorò le labbra. – Anche qualcosa di più.
Ofelia sorrise e rilassò i muscoli che non si era nemmeno accorta di aver contratto. Aprì timidamente le gambe e si sistemò meglio sotto di lui, cercando di garantirgli un miglior accesso, che Thorn non esitò a varcare. Fu infinitamente lento e paziente, pronto a cogliere ogni minima reazione di Ofelia, ogni suo pensiero inespresso o cambio di intenzione. Ma lei non lasciò trasparire nulla, non mollò il contatto con i suoi occhi nemmeno per un secondo, e Thorn seppe che stavano facendo la cosa più giusta del mondo. Forse la cosa più giusta, vera e bella della sua vita. Con l’unica persona con cui avrebbe potuto farla, visto il disgusto che gli procuravano le altre persone. Parenti inclusi.
Ofelia gemette quando Thorn arrivò fino in fondo, cercando di ritrovare il respiro perduto e di non concentrarsi sul leggero bruciore che sentiva dove i loro corpi si univano. Ancora incredula, cercò di pensare al fatto che lei e Thorn erano una cosa sola in quel momento, un'unica pelle, un nucleo, marito e moglie, consacrati l’uno all’altra. Gli accarezzò il viso, teso per lo sforzo di mantenere quella posizione e di darle il tempo di adattarsi, di restare fermo e non spingersi in lei con foga brutale. Aveva sempre tenuto lei il coltello dalla parte del manico, e lui non aveva mai fatto nulla per impedirlo. Era giusto che fosse così. Ofelia si aggrappò a lui e si mosse leggermente per abituarsi alla presenza estranea nel suo corpo. Fece gemere Thorn, che si affrettò a chiudere la bocca, vergognandosi. Ma lei sorrise e gli grattò piano la schiena con le unghie, rendendogli impossibile stare zitto. Thorn perse completamente il controllo e iniziò ad ansimare come se fosse nel bel mezzo della corsa che Ofelia era costretta a sostenere ogni mattina alla Buona Famiglia.
Il dolore scemò fino a diventare una piacevole sensazione di pienezza, di completezza. Non pensava che il suo sentirsi vuota, il sentirsi incompleta, potesse essere una sensazione reale, fisica. Eppure lo era. In quel momento non le mancava nulla, finalmente aveva riempito quel buco che l’assenza di Thorn aveva scavato in lei.
Si mosse contro di lui, cogliendolo di sorpresa, dandogli il ritmo, lento e costante. Si abbandonò del tutto ai cuscini e passò le mani dalla sua schiena alle sue braccia, a cui si aggrappò come ad un’àncora. Chiuse gli occhi, incapace di sostenere ancora lo sguardo di Thorn che si beava di lei, e inarcò la schiena in un riflesso involontario, consentendogli un accesso ancora più profondo, maggiore di quanto credesse possibile. Gemettero entrambi, contemporaneamente, e in un muto consenso Thorn accelerò il ritmo, seppellendo il viso nel suo collo.
Ofelia perse la cognizione del tempo e dello spazio, conscia solo della pelle calda di Thorn, della cicatrice sulla sua tempia, del fuoco che le ardeva dentro e del fatto che qualcosa di indefinibile stava crescendo in lei, qualcosa che la sconvolse e che si trovò a desiderare, inducendola a spingersi d’istinto ancora di più verso Thorn.
Era tutto così corretto, così bello e piacevole. Ofelia non lo avrebbe mai immaginato. E Thorn ringraziò che Ofelia avesse cambiato idea riguardo a quella parte del loro matrimonio, perché ora che aveva scoperto cosa si provasse ad essere così uniti, non avrebbe più potuto farne a meno.
Dopo poco tempo ad Ofelia si mozzò il respiro; strinse con forza le braccia di Thorn prima di lasciar ricadere le sue ai lati del viso, gli occhi che si chiudevano lentamente, la bocca spalancata in un muto urlo. Ogni fibra del suo corpo si contrasse con uno spasmo, mentre Thorn la guardava inquieto, ma senza fermarsi, e l’istante successivo la sentì sospirare, rilassandosi come una gelatina sotto di lui. E più in basso, dove si ritrovò stretto all’improvviso, capì cos’era successo, e fu il suo turno di scoprire cosa stesse provando Ofelia.
Crollò sopra di lei, sommergendola, appoggiando la testa sul suo petto, sentendo il suo cuore battere all’impazzata contro il suo orecchio. Non udiva nemmeno i loro respiri spezzati e ansimanti, ed era lontanamente consapevole di tutti i punti in cui i loro corpi aderivano. Era conscio solo del battito cardiaco di Ofelia, e poi delle sue braccia, che lo strinsero e lo abbracciarono, per tenerlo stretto a sé. Una mano gli tracciò con leggerezza la colonna vertebrale, dal collo alla zona lombare, sentendo le costole sotto le dita, mentre l’altra si infilò tra i suoi capelli chiari scompigliati e sudati, accarezzandolo dolcemente.
Si sentiva bagnata ovunque, in un misto di caldo, fatica, sudore ed emozione, ma per nulla al mondo avrebbe chiesto a Thorn di spostarsi da lì, da sopra e da dentro di lei. Le pesava addosso in modo piacevole, era al sicuro, protetta e amata, e quando sentì Thorn sospirare sommessamente capì che per lui era lo stesso. Sorrise leggermente e portò le mani verso il suo viso, per sollevarlo dal suo petto. Lo baciò dolcemente prima di staccarsi per guardarlo negli occhi, vivi e attenti come non lo erano mai stati, per una volta non duri come al solito. Sembrava che l’acciaio che sovente fulminava gli interlocutori si fosse sciolto, pronto per essere riplasmato. Thorn le diede un altro bacio leggero, dandosi poi lo slancio per girarsi sul fianco, trascinandola con sé, e sfilandosi da lei nel mentre.
Uno di fianco all’altra, con i visi alla stessa altezza, si guardavano comunicandosi silenziosamente mille cose, mentre Thorn le accarezzava il braccio e la schiena, e Ofelia il viso, passandogli il pollice sulla guancia con la cicatrice.
Thorn si schiarì la voce e si preparò a parlare, ma Ofelia gli chiuse la bocca con un altro bacio, per poi staccarsi e scuotere la testa. Percepiva che avrebbe avuto difficoltà a parlare in quel momento, nonostante la sua forbita eloquenza facesse invidia ai dizionari, e non voleva che si rovinasse l’atmosfera. Si sentiva intontita e assonnata, così non poté fare altro che avvicinarsi a lui e chiudere gli occhi, mentre le mani di Thorn la accarezzavano.
Si addormentò nel giro di pochi istanti, con grande sorpresa di Thorn, che capì quanto dovesse essere stato pesante per lei quel periodo. Lo aveva notato sul suo corpo, sui muscoli del suo viso, sui sorrisi sempre più rari e sulla tensione che emanava, che gli aveva ricordato leggermente la sua. Per non parlare delle cicatrici, che aveva visto subito e su cui voleva chiederle ragguagli.
Le tolse gentilmente gli occhiali e approfittò del suo sonno per staccarsi da lei ed esaminarle le braccia e le gambe più da vicino, dove svettavano le piccole cicatrici bianche. Doveva essersele procurate alla Buona Famiglia, perché si intuiva che fossero fresche. Ripensò ai loro stentati dialoghi di quel periodo, di come gli avesse proposto più di una volta di smettere i panni da precorritrice. Avrebbe dovuto ascoltarla, darle modo di spiegarsi, indagare. Invece l’aveva lasciata in balia delle cattiverie e delle lotte di potere, della competitività di giovani uomini e donne senza morale. Tutto perché voleva egoisticamente mantenere le distanze: l’amava come non aveva mai amato nessuno, ma il non essere ricambiato gliela faceva quasi odiare. Era stato un marito scadente, per quanto si fosse dato da fare per essere esattamente il contrario. Nel meccanismo del matrimonio c’erano degli ingranaggi di cui gli sfuggiva il funzionamento. Aveva ancora molto da imparare.
Quando osservò l’espressione serena di Ofelia, però, così rilassata dopo molto tempo, non poté fare a meno di pensare che non fosse una causa persa. Non aveva praticità con le questioni fisiche, ma a giudicare dalle reazioni che lei aveva avuto durante la loro unione, avrebbe potuto asserire di non essersela cavata male. Ofelia si era davvero innamorata di lui, che era sempre rimasto fedele a se stesso e non aveva fatto nulla per corromperla o comprarla, se non essere asociale come suo solito. Il fatto che lei lo amasse per com’era, pacchetto completo, gli faceva provare una strana sensazione allo stomaco e al petto, come se gli mancasse il terreno sotto ai piedi. Si allungò per scostarle dolcemente i capelli dalla fronte e osservarla dormire. Sentì le labbra fremergli nel bisogno, per la prima volta nella sua vita, di sorridere.
Alla fine si alzò, coprì delicatamente Ofelia con un lenzuolo leggero e spense la radio, che stava disturbando la quiete con un sottofondo di voci esagitate e confusionarie. Nudo, si aggirò per la stanza raccattando i vestiti che avevano sparso nella foga, zoppicando sulla gamba storpia, e ringraziando che Ofelia non potesse vederlo in quello stato. Si chiuse poi in bagno per farsi una doccia, e quando ne uscì nessuno avrebbe mai potuto immaginare cos’era successo poco prima in quella stanza: pettinato e vestito di tutto punto, Thorn sembrava pronto per incontrare i genealogisti, i lord di Lux e il consiglio dei ministri del Polo, tutti insieme. Prese l’orologio da taschino per verificare l’ora, e quando questi si aprì e richiuse per permettergli di leggerlo, si meravigliò di scoprire che l’ora di pranzo era già passata da un pezzo. Con Ofelia aveva perso la cognizione del tempo.
Dopo essersi rimesso l’armatura sulla gamba, uscì senza far rumore per andarle a prendere qualcosa da mangiare, ma nel tragitto verso la cucina, in quell’enorme palazzo in cui era certo che Ofelia si sarebbe persa, si scontrò con Ambroise, trafelato e sconvolto.
- Mister, sono tornato subito appena ho appreso la notizia, e invidio il vostro sangue freddo e la vostra prontezza di spirito. Posso chiedervi come sta miss Of…
Thorn increspò le sopracciglia, innervosito. Non sapeva cosa pensare di quello strano individuo, ma il fatto che girasse sempre intorno a sua moglie e fosse così in confidenza con lei non glielo rendeva certo gradito. – Quale notizia?
La voce fredda di Thorn attraversò il salone vuoto come un fulmine a ciel sereno, interrompendo il discorso raffazzonato di Ambroise.
- Non avete udito? Ciò che è appena successo alle arche…
Thorn lo squadrò con perplessità, spronandolo a parlare, ma Ambroise non era ricettivo come Ofelia, che sapeva interpretare ogni suo sguardo. Per farsi capire fu costretto a porgli domande precise, con suo sommo fastidio.
Sconvolto dalle rivelazioni, le sopracciglia gli schizzarono così in alto che le cicatrici non finirono più di allungarsi. Fece marcia indietro e si ridiresse verso la camera da letto di Ofelia, anche se quando ci arrivò aveva già ripreso il controllo delle sue emozioni. Quando si accorse che Ambroise lo stava seguendo con la sua sedia a rotelle accelerò il passo. Prima di congedarlo gli lanciò un’occhiata ammonitrice da sopra la spalla, accertandosi di coprire l’intero vano della porta perché non potesse vedere la figura addormentata di Ofelia sul letto.
- Incontriamoci nel salone tra mezz’ora – lo istruì perentorio, abituato come sempre a dare ordini. – Anche qualcosa di più – aggiunse, sibillino, quando si rese conto che Ofelia era nuda e doveva prepararsi da zero.
Gli chiuse la porta in faccia prima di rischiare di arrossire di fronte a lui, e si girò verso il letto solo quando fu sicuro di aver riottenuto il controllo del suo volto. Afferrò gli occhiali di Ofelia dal comodino dove li aveva lasciati e si sporse su di lei, allungando una mano per scuoterla dolcemente fino a svegliarla. Si bloccò a mezz’aria. Da addormentata aveva un’aria così serena e rilassata che Thorn reputò un crimine doverla svegliare. In mezzo secondo si chiese se non fosse il caso di lasciarla lì e andare ad indagare per conto suo, intanto, rendendosi immediatamente conto che non glielo avrebbe mai perdonato.
Le toccò la spalla e lei rabbrividì subito al contatto con la sua pelle, che era diventata fredda.
Alcuni mugolii e miopi battiti di palpebre dopo, Ofelia mise a fuoco i contorni del viso di Thorn. Gli sembrava accigliato, ma forse era solo perché le mancavano gli occhiali, che lui le stava prontamente porgendo. Se li infilò e si rese conto che effettivamente Thorn era inquieto; sul viso gli era completamente scomparsa l’espressione che aveva avuto poco prima, quando…
Ofelia si alzò a sedere, coprendosi con il lenzuolo, sotto lo sguardo attento del marito. Aveva un brutto presentimento.
- Le arche stanno crollando. Sembra che Anima sia completamente sparita.
Diretto, conciso, senza fronzoli e abbellimenti lì dove le notizie peggiori lo avrebbero richiesto. Thorn era fatto così, e Ofelia lo accettava. Balzò giù dal letto e inciampò sulle coperte. Sarebbe caduta lunga distesa se Thorn, i cui riflessi ormai lavoravano più per Ofelia che per se stesso, non l’avessero afferrata per la vita. Nuda tra le sue braccia, lei arrossì e si diresse verso il bagno senza guardarlo, vergognandosi della propria goffaggine per la prima vera volta nella vita. Per fortuna non aveva dovuto sedurre Thorn con il fascino e l’eleganza, altrimenti non sarebbe mai riuscita a farlo innamorare.
Quando uscì dalla doccia trovò Thorn seduto ad aspettarla, il mento appoggiato sulle mani giunte, con i gomiti sulle gambe. Aveva impeccabilmente sistemato la stanza. La stava aspettando. Quella consapevolezza la colpì all’interno dello stomaco: lui che non aspettava mai nessuno, che non adeguava il passo e l’altezza a nessuno, che faceva sempre tutto di testa propria senza consultare nessuno, aveva aspettato lei.
L’aveva aspettata in tutti i sensi.
- Grazie – mormorò lei, avvicinandoglisi. Sapeva che avrebbe capito a cosa si riferiva.
Thorn scattò in piedi come una molla facendo stridere l’armatura, e con una smorfia di disappunto si diresse verso la porta tallonato da Ofelia. Con una mano sulla maniglia, esitò. Si voltò e si chinò a baciarla, un contatto leggero ma prolungato, un piccolo discorso muto. Presa alla sprovvista, come sempre, Ofelia non ebbe il tempo di ricambiare.
Thorn si raddrizzò e la guardò negli occhi. – Insieme.
Poi aprì la porta e la fece uscire per prima dalla stanza.

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Capitolo 2
*** Thorn ***


Ed eccoci al secondo... non lo chiamerei capitolo. Più che altro tema. Il secondo tema che ho deciso di trattare: Thorn.
Pensavo fossero passati 3 giorni da quando ho postato la storia, invece sono passati 10 giorni...
Senza dilungarmi: la storia è tratta dalle pagine 467-470 del primo libro, Fidanzati dell'inverno, quando Ofelia si addormenta con il cappotto di Thorn addosso e nel sonno, a causa di un buco nel guanto, sul mignolo, tocca i dadi che sono stati con lui per tutta la sua crescita, sognando letteralmente la sua vita a ritroso, fino al momento in cui ha stretto in mano quei dadi per la prima volta.
Non avevo dato molta importanza al fatto, la prima volta che ho letto il libro, ma quando mi sono messa a rileggere tutte le loro interazioni mi sono profondamente commossa. Ho percepito Thorn come un bambino indifeso e sereno, perfettamente normale, in grado di ridere e giocare come chiunque altro piccolo della sua età, ma costretto dalle circostanze a cambiare atteggiamento. Bistrattato da tutti, è arrivato al punto da provare solo rancore, disprezzo e distacco per qualsiasi cosa. Come una protezione per i continui rifiuti.
Doveva essere un capitolo breve, ma è venuto più lungo del previsto.
Chiedo scusa, spero tanto che vi piaccia perché mi è sgorgato dalle dita con un processo di lettura inversa, e mi auguro tanto che  non sia noioso e che la vostra idea di Thorn si rispecchi in quella che ho percepito io.
Con tutti i miei ossequi alla grandissima Dabos, spero di aver trattato bene la sua creatura. Sono disposta ad accettare qualsiasi eventuale critica, chissà che magari non abbia totalmente sbagliato ad interpretarlo (vi prego, ditemi di no).
Buona lettura^^



2. Thorn


Thorn si alzò dalla scrivania, sentendo le sue stesse ossa scricchiolare a causa della postura rigida che aveva assunto. Che assumeva sempre. Del resto, tutto gli andava piccolo. Aveva giurato che non avrebbe mai adattato la sua stazza agli altri, ma gli oggetti e i mobili di sicuro non si sarebbero adeguati a lui. Le persone non meritavano comprensione, compassione e tutta quella gamma di emozioni umana legata a pietà e altruismo. Nessuno le meritava. Tutti dovevano avere ciò che spettava loro, sulla base di oggettivi calcoli. Pochi erano gli esseri umani degni di attenzione. Nessuno, nemmeno sua zia, era degno della sua stima.
Si avvicinò all’oblò della sua cabina per vedere fuori: il mare di nuvole, il nulla tra le arche. Quel dirigibile lo stava portando dritto dalla sua fidanzata lettrice. Non aveva una grande opinione dell’intelligenza di sua zia Berenilde, però le sue conoscenze e la sua fama e socialità l’avevano portata a trovargli la moglie ideale.
Ideale per i suoi scopi, ovviamente.
Dopo tutti i suoi anni di vita, l’esperienza accumulata e le ignominie che aveva visto e vissuto, non si illudeva certo che la sua fidanzata potesse innamorarsi di lui. Così come lui non si sarebbe mai innamorato di lei, chiunque essa fosse. Non aveva stima per l’intelligenza di Berenilde, quello no, ma era l’unica persona per la quale provasse un sincero e vivo affetto. Lo aveva cresciuto. Lo aveva accolto. Lo aveva trattato come un figlio, contro tutto e tutti, società, famiglia e decoro. L’avrebbe sempre protetta e riguardata. Ma era l’unica.
Non ci sarebbe stato nessun altro nel suo cuore. Ne aveva passate troppe per cadere di nuovo nello stesso errore.
Nel giro di mezzo secondo, grazie alla sua mente calcolatrice e laboriosa, rivide tutta la sua infanzia, adolescenza ed entrata nell’età adulta. Vide di nuovo il mondo tingersi di nero, nonostante la partenza fiduciosa e spensierata.
Il mondo non gli aveva regalato nulla.
Lui non aveva niente da regalare a nessuno.
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
La Memoria, il dono familiare più potente in lui. Aveva ereditato anche gli artigli, certo, ma non li esercitava inconsciamente come il primo potere familiare. La Memoria era intrinseca, non potevi accenderla e spegnerla. C’era, era parte di lui, dalla nascita. Gli artigli invece li attivava e disattivava. E lo disgustavano.
Chissà se avrebbe fatto qualcosa a sua nonna, la sua adorabile e gentile nonna, che aveva provato a soffocarlo quando era in fasce, se già all’epoca avesse avuto il controllo di quell’arma concessagli dal padre sprovveduto. Non lo sapeva. L’unica cosa di cui era consapevole era che sua nonna gli aveva fatto una cosa brutta, una cosa che lo aveva fatto piangere a dirotto, con singhiozzi agonizzanti, con le piccole mani strette a pugno che si agitavano con poca forza. Solo molto dopo avrebbe capito cosa significava quel gesto. Molto dopo, quando tanto ormai aveva perso del tutto la fiducia in chiunque.
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
Aveva tre anni ed era in braccio alla mamma. Lei lo aveva vestito in fretta, lo aveva preso ed era uscita di casa. Aveva camminato per un periodo molto lungo secondo la sua piccola mente di bambino, ancora incapace di dare un senso a quella cosa chiamata tempo che poi lo avrebbe ossessionato.
Tempo, tempo, tempo… ne avrebbe voluto di più con sua mamma. Ne avrebbe voluto con suo papà. Sarebbe voluto tornare indietro e cambiare molte cose. Magari non nascere nemmeno. Tempo, tempo, tempo…
La mamma lo portò da zia Berenilde. Gli piaceva la zia, lo coccolava, lo riempiva di attenzioni, gli parlava con una voce stridula che lo faceva sorridere. Era bella, la zia, ed era bello quando c’era anche lei.
La mamma entrò nel graaande castello della zia, che era seduta sul divano immersa in una nuvola di fumo che spesso faceva tossire Thorn. Infatti fu preso da un attacco di tosse e nascose il viso tra i capelli della mamma.
Non capì molto di ciò che successe dopo. Le voci si alzarono, Berenilde la supplicò, Thorn fu posato per terra e messo di fronte a dei giocattoli per distrarlo. Ma la sua attenzione era calamitata dalle due donne infervorate, che parlavano, e parlavano, e la mamma era arrabbiata e la zia disperata.
Thorn comprese solo che la mamma, dopo aver varcato la soglia di casa senza nemmeno salutarlo, non sarebbe tornata. La sua memoria non funzionava in senso inverso. Ricordava tutto, tutto il passato, tutto ciò che era avvenuto, ma non poteva sapere ciò che sarebbe avvenuto. Però sapeva che era andata via per sempre. Lo sapeva.
La zia lo prese in braccio e lo cullò, mentre lui la fissava con gli occhi vitrei, chiari e acquosi. Tossì ancora.
- Mi prenderò cura io di te, piccolo Thorn. Ora curiamo questa brutta bronchite e poi starai meglio. Vedrai, crescerai sano e forte. E poi ti prenderai cura te della zia, che ne dici?
Il bimbo nascose la testa nella spalla della zia e annuì, stanco.
- Io mi occupo di te, tu ti occupi di me. Bravo bambino. Andremo d’accordo, vedrai. Ti piace la zia?
Annuì ancora prima di addormentarsi.
Non aveva un padre. Sua madre se n’era andata. Rimaneva solo la zia Berenilde.
Si aggrappò alla sua veste nel sonno.
 
Aveva sei anni ed era bravissimo in matematica.
A scuola era il bambino con i voti più alti ed era una spanna sopra tutti gli altri, nonostante avesse appena imparato a scrivere e contare. La sua salute era un po’ migliorata, non si ammalava più così spesso anche se la zia continuava a riempirlo di vitamine amare e disgustose. Diceva che facevano bene, e lui obbediva senza fiatare. Lo zio lo ignorava, per lo più, ma non era cattivo. Nemmeno Freya e Godefroy erano cattivi. Erano i suoi fratellastri, anche se non capiva cosa significasse. Mezzo fratello. Thorn non se ne curava. Nemmeno loro erano cattivi.
Tutto sommato era una vita serena, la sua. Andava a scuola, mangiava le medicine che la zia gli propinava, faceva il bravo. Ogni tanto Freya e Godefroy giocavano con lui.
Era estate e giocavano fuori all’aperto, perché era abbastanza caldo e la zia Berenilde diceva che la luce naturale del sole gli faceva bene. Era come se prendesse le medicine via pelle invece che via bocca. Thorn non capiva, ma obbediva lo stesso e giocava sui bastioni con i fratelli. Fu la prima volta in cui si sentì orgoglioso, capace e bravo.
Godefroy tirò fuori dalla tasca dei dadi che aveva intagliato lui stesso.
- Con gli artigli – rivelò al fratello più piccolo, chinandosi su di lui e sussurrando.
Godefroy era grande e grosso, più vecchio di lui. Per Thorn era un gigante. Ma non era ancora così grande da capire come girava quel mondo di adulti di cui un giorno avrebbe fatto parte.
Thorn ammirava il lavoro del fratello. Voleva essere come lui, preciso e sveglio. Si inventarono un gioco di matematica per far passare la noia. Quando si resero conto che lui, il più giovane, era particolarmente bravo, invece di fare dei test individuali, Freya e Godefroy lo misero alla prova. Gli fecero fare calcoli di ogni genere, anche se Thorn li considerava abbastanza semplici ed elementari.
Era bravo. Loro lo guardavano come se fosse bravo. Erano stupiti. Erano felici. Lui era felice. Sorridevano tutti e tre. Sulla via del ritorno suo fratello, anche se era mezzo fratello, gli scompigliò i capelli.
- Continua così – gli disse, mettendogli in mano i dadi. – Tienili, te li sei meritati.
Freya lo guardava con affetto e rispetto. Era uno di loro. Era come loro. Non era solo.
Ed era bravo in qualcosa.
 
Aveva otto o nove anni e correva a casa di Berenilde.
Poteva farlo perché la sua cuginetta era sveglia. La zia non voleva che ci fosse rumore quando la piccola dormiva, perché rischiava di svegliarsi. Voleva bene alla cugina, assomigliava alla zia.
Quando sentì un rumore al piano di sopra, corse su per le scale e si buttò tra le gambe di Godefroy, rischiando di farlo inciampare. Risero. Suo fratello, mezzo fratello, si era alzato ancora. Era così alto e imponente! Invece Thorn cresceva poco. A lui non importava molto, ma la zia era preoccupata. Credeva che non mangiasse abbastanza, così gli ricordava sempre di mangiare e portarsi qualche merendina dietro per non stare a stomaco vuoto. Però non era preoccupatissima, come un tempo, perché si ammalava molto raramente. Era diventato forte.
 Ormai Godefroy era quasi adulto, un adolescente, così l’aveva definito la zia, ma ogni tanto giocava ancora con lui e Freya. Si divertiva così tanto! Si rincorsero per la casa, Thorn ridendo e cadendo qua e là, Godefroy scappando e facendogli gli sgambetti. Gli sbatté addosso quando arrivarono nel salotto, dove la zia Berenilde, Freya e la mamma di Godefroy stavano prendendo il tè. Thorn si spostò da dietro Godefroy e salutò Freya, contento. Voleva invitarla a giocare con loro. Ma Freya non lo guardava. Era zitta e non sorrideva. Godefroy e la zia Berenilde erano immobili. Anche la mamma di Godegroy era immobile, ma lo guardava.
Lo guarda molto male. Lo odiava.
Thorn aveva sentito quella parola dalla zia Berenilde, che aveva detto di odiare una donna che pensava fosse sua amica. Da quel momento non aveva più visto l’amica della zia che lei odiava. Forse nemmeno la mamma di Godefroy non voleva più vederlo. Thorn non sapeva spiegarsene il motivo, ma i suoi occhi non gli piacevano.
I suoi fratelli, mezzi fratelli, giocarono con lui molto di meno dopo quella volta. C’era sempre la loro mamma in mezzo, e Thorn sapeva che era colpa sua se non potevano più divertirsi. Se lei lo odiava, allora lui odiava lei, perché non voleva più vederla.
Che visione edulcorata del mondo, aveva! Da grande avrebbe capito cosa fosse l’odio, che di certo non era il sentimento di antipatia infantile provava il Thorn di quasi nove anni nel salotto della zia.
Thorn sputava nella tazza della mamma di Godefroy senza che lei se ne accorgesse. Lei lo ignorava. I suoi fratelli, mezzi fratelli, non giocavano più con lui, e quando lo facevano, Thorn non si divertiva più come una volta. Quando si rincorrevano usavano gli artigli, e lui si sentiva pungere qua e là da tanti aghi. Ridendo chiedeva loro di smettere, e allora loro smettevano ridendo, ma dopo poco ricominciavano. Quando andava a dormire dopo aver giocato con loro, aveva male ovunque. Non era più tanto bello giocare con loro.
Ora voleva tanto bene alla zia Berenilde e alla piccola cugina. Un po’ meno bene Freya e Godefroy. Nemmeno un po’ di bene alla loro mamma.
Odiò la loro mamma quando iniziò a lacerargli la testa con la sola forza di uno sguardo. Lei lo odiava, lui pensava di odiarla, ma non capiva.
Iniziò a stare in camera sua quando venivano i suoi mezzi fratelli e la loro mamma, perché era stanco di avere sempre male.
 
Aveva dodici anni quando la zia gli fece un bel regalo.
Ormai non giocava più con nessuno, né coi suoi mezzi fratelli, né con la sua cuginetta, perché non c’era più. La zia era stata molto triste, ma ora aspettava un altro bambino, ed era più serena. Non pioveva più a dirotto fuori dal castello, lei non piangeva più tutto il giorno. La presenza di Thorn le era di nuovo gradita e di conforto, e la zia lo considerava di più. Si era anche scusata.
Isolato, con Berenilde sofferente e i suoi mezzi fratelli lontani, Thorn giocava con i dadi intagliati di Godefroy. Era un buon modo per far passare il tempo, e si esercitava nella matematica, che non lo abbandonava mai. Non come Freya e Godefroy, che ascoltavano la loro mamma, che riempiva la loro testa di sciocche bugie. Non era vero che il loro papà, di tutti e tre, era morto per colpa sua. Thorn non aveva fatto nulla! Ma lei diceva di sì e loro ci credevano.
Lanciava i dadi, contava, calcolava, analizzava, e poi si esercitava con le combinazioni e le probabilità. Dopo un certo numero di lanci otteneva un certo risultato. Nessuno diceva a quei dadi che il numero uno era un traditore così che l’uno non uscisse più. Non funzionava così. L’uno continuava ad uscire, perché la statistica non mente. Erano imprevedibili, ma la loro prevedibilità glieli rendeva cari. Non erano influenzati da menzogne esterne, obbedivano alla loro legge intrinseca. Lui doveva essere come loro.
Oggettivo. Obiettivo. Analizzatore. Incontaminato.
La zia gli regalò un bell’orologio d’oro per farlo contento. Era un modello da taschino, con una catenella d’oro, un bel quadrante preciso e nel complesso di buona fattura. Si capiva che era un oggetto prezioso e di classe, costoso. A Thorn però non importava. Poteva anche essere fatto di fango e sabbia, tanto era l’importanza affettiva che gli attribuiva. Era un regalo sincero, onesto, che sgorgava dal cuore della zia. Qualsiasi fosse stato il materiale da cui era tratto, il valore per lui era inestimabile.
- Il tempo scorre, ma la zia ci sarà sempre per te – gli disse, accarezzandogli i folti capelli biondo chiaro, quasi argentei.
Lui strinse l’orologio nel pugno, se l’appuntò sulla camicia, e sorrise alla zia. In silenzio, un sorriso che valeva mille volte più di un ringraziamento, data la rarità con cui compariva.
La zia sorrise ancora di più e iniziò a chiacchierare del cuginetto in arrivo. Diceva che sarebbe stato un maschio. Ma Thorn non la ascoltava. Strinse l’orologio nel pugno tutta la notte, e il giorno successivo, finché il suo peso divenne il peso di Thorn, e i suoi ticchettii i compagni fidati di Thorn, e il suo colore la scintilla di vita di Thorn. Il suo valore, l’orgoglio di Thorn.
Ma non era un gioco, un orologio. Così Thorn continuò a giocare in un angolo con i suoi dadi, serio, in silenzio. Una via di mezzo tra l’infanzia e l’adolescenza, tra l’ingenuità e la consapevolezza, tra l’ignoranza e la comprensione, tra la protezione e la violenza. La zia però non era arrabbiata, perché aveva sempre il suo orologio con sé.
Thorn si stancava presto delle cose di poca importanza. Non dava loro più peso. Non le considerava. Non erano nulla, non valevano il suo tempo.
 Non si staccò mai dall’orologio.
 
Aveva quindici anni quando passò il confine tra infanzia e adolescenza.
Tra male e bene. Il mondo perse i suoi colori, le risate non ebbero più suoni, i sorrisi non ebbero più forma.
Steso sul tappeto di camera sua, agonizzante, odiò per la prima volta.
Odiò tutto. Tutti.
Il fuoco gli scorreva nelle vene. Veleno. La zia non era in casa, ovvio che qualcuno avesse cercato di farlo fuori. Non si illudeva più di una finta bontà inesistente. Le persone erano cattive, egoiste ed egotiste, arroganti e invidiose. E chi non lo era, lo diventava.
Figlio bastardo. Nato da una relazione adulterina, vergognosa. Costretto a vivere con la zia perché ripudiato da una madre ripudiata. Il padre, suo e dei suoi fratellastri, morto. Mai conosciuto. Ora capiva perché la mamma dei suoi fratellastri lo odiava. Ora capiva. E capiva anche cosa fosse l’odio. Capiva perché i suoi fratellastri non giocavano più con lui, non lo consideravano più. Se non per additarlo come bastardo. La cicatrice frastagliata che aveva sul polso non era un caso fortuito. Ora capiva che Freya non si era sbagliata quando gliel’aveva inferta. Non era un malinteso, come aveva cercato di spacciarlo. Era odio anche quello.
Si sentiva morire, ma non voleva farlo. La vita non gli aveva dato nulla, lui non aveva nulla da dare agli altri, ma non voleva morire. Sua zia aveva bisogno di lui. Avrebbe vissuto fintanto che qualcuno avesse avuto bisogno di lui. E poi studiare gli piaceva. C’era un posto nel mondo anche per lui; e se non c’era l’avrebbe trovato. Non era stato desiderato come gli altri figli legittimi, del resto.
Chiuse gli occhi, rallentò la respirazione, smise di rantolare. Strinse i pugni, gli occhi, corrugò la fronte. Sembrarono passare secoli, ma alla fine il dolore scemò. Una domestica lo trovò e lo aiutò ad alzarsi, a mangiare, gli fece bere un filtro calmante. Aveva ancora gli spasmi di dolore, ma poteva controllarlo.
Non aveva il controllo su nulla, tranne sé stesso. Su sé stesso, giurò quel giorno, avrebbe sempre avuto il controllo. Emozioni, espressioni, tutto in regola, tutto ordinato, tutto nella giusta prospettiva.
Da quel giorno non sorrise più. Iniziò a parlare lo stretto necessario.
La patina di colori fittizi che copriva il mondo dei bambini era caduto. Dietro c’era solo marciume.
Da quel giorno la sua fronte e le sue sopracciglia non si rilassarono mai più.
 
Aveva diciassette anni quando imparò a non rispondere alle provocazioni.
Godefroy e Freya lo torturavano lentamente. Aveva già tre possenti artigliate sulla schiena. Avevano impiegato un mese a guarire, la pelle però era ancora sensibile al tocco. Il tocco… lo disgustava il contatto con altre persone. Persino con zia Berenilde. Non voleva essere toccato. Calore umano, gesti gentili, dimostrazioni d’affetto… tutto falso, distorto, vuoto e funesto. La sua Memoria infallibile non gli permetteva di dimenticare il passato, tutto il passato, persino quello strano e incomprensibile passato trasmesso da sua madre, ma gli sembrava che ad aver vissuto la sua infanzia fosse un’altra persona, un altro bambino che non esisteva più.
Era diventato alto, sano, temprato, padrone di sé. Non grosso come Godefroy, purtroppo. La smisurata altezza non può intimorire una persona che è il doppio di te in larghezza. Metà dono familiare non può competere con un detentore di quel pieno dono.
Non doveva rispondere alle provocazioni di Godefroy, in casa della zia per una piccola riunione. Doveva ignorarlo, stare zitto, come se non esistesse. Non serrava nemmeno più i pugni quando si innervosiva. I pugni erano un preludio alla violenza, e lui disprezzava la violenza. Un’arma per i deboli. Lui non voleva essere debole. I forti non cedono alla violenza.
Invece rispose a tono al fratellastro alticcio. Già il fatto che fosse ubriaco avrebbe dovuto farlo desistere. Ma i bollori adolescenziali erano ancora forti in lui, le membra tese, i nervi scattanti.
Dopo le molteplici punzecchiature di artigli e i commenti spregevoli e volgari sul conto di sua madre e del suo destino, scattò in piedi, sovrastandolo.
- Smettila – sibilò con voce di ferro, fredda e inflessibile. – Per quanto mi disprezzi, abbiamo quasi lo stesso sangue, fratello. E io sono un bastardo. Condividi metà del tuo prezioso e altolocato sangue con un bastardo. Questo cosa fa di te? Un mezzo…?
Non concluse. Godefroy sogghignò e la vista di Thorn divenne rossa. Il sangue gli colava a rivoli dal sopracciglio, sull’occhio, a cascata sulla guancia, giù per la camicia. Sentì un altro squarcio aprirglisi sulla guancia, un altro fiume di sangue che procedeva nella discesa. Poi divenne rosso anche l’altro occhio, e sentì la tempia aprirsi come un cratere.
- Che ne dici? – berciò a sua volta Godefroy, che aveva perso del tutto l’ilarità. Vomitava le sue parole addosso a Thorn come fossero sputi. – Ora hai anche tu un marchio, mezzo fratello. Un Clan tutto tuo. Quello dei bastardi. Sarai un mezzo Drago, un mezzo quell’altra cosa che hai preso dalla sgualdrina di tua madre, un mezzo figlio forse, per Berenilde, un mezzo fratello per me e Freya, ma bastardo lo sei tutto intero. In ogni fibra del tuo ridicolo corpo sproporzionato.
Berenilde urlò quando si accorse del viso pesto di Thorn, e subito si precipitò a medicarlo.
Thorn aveva diciassette anni quando gli vennero inferte tre artigliate sulla schiena, come frustate al corpo di un essere indegno di vivere, ma degno di essere punito, e tre al viso, due verticali che gli spezzavano sopracciglio e guancia, e una orizzontale sulla tempia. Più quella di Freya sul polso, un braccialetto pallido e a buon mercato che non si sarebbe mai potuto togliere.
Aveva sette cicatrici a diciassette anni.
Arrivò a ventitré prima di compierne diciotto.
Raggiunse le quaranta quando finì gli studi.
E quando divenne cancelliere il numero cinquantasei era marchiato a fuoco e sangue sulla sua pelle.
Cinquantasei tatuaggi d’odio.
Cinquantasei motivi per non guardarsi indietro e non fidarsi di nessuno, se non di sua zia.
Cinquantasei evidenze del suo stato di bastardo inutile e abominevole.
Cinquantasei.
 
Aveva vent’anni quando capì di non essere abbastanza.
Per quanto affetto sua zia nutrisse nei suoi confronti, lui non sarebbe mai stato suo figlio. Non le sarebbe mai bastato.
Dopo la morte dell’ultimo figlio e del marito, tutto ciò che le rimaneva erano sua mamma, quella calunniatrice falsa ed egoista, e Thorn, il nipote bastardo. Sua madre non poteva sicuramente lenire il dolore del lutto, ma forse Thorn sì, dal momento che era stato cresciuto da lei, che era stato allevato come la sua prole, senza differenze.
Ma la zia non lo guardava più. Non gli parlava più. Quasi non mangiava più.
La zia non voleva essere malvagia, non ce l’aveva con lui. Semplicemente, l’unica cosa presente per lei in quel momento, importante, era il suo dolore. I figli morti. Assassinati. Il marito anche. E senza lui, come avrebbe potuto provare a continuare a generare una discendenza? Non era nemmeno più così giovane, ormai. Le sue possibilità si stavano dissolvendo, così come le sue speranze. La matematica, del resto, non mente.
Lui aveva sopportato i suoi cugini. Non amati, quello no. Non capiva i bambini piccoli, e non capiva la zia che li amava. I marmocchi facevano cose inconsuete, sfidavano le leggi, non comprendevano il mondo. Per la società erano… abbastanza inutili. Se non addirittura deleteri. In che modo contribuivano alla miglior gestione della vita comune? Alla creazione di profitto? Alla vendita, all’amministrazione, all’espletazione delle pratiche? Non facevano nulla di vantaggioso. Assorbivano solo attenzione, energie, tempo.
Utilità inversa.
 
Era un giovane adulto quando bruciò tutte le tappe per diventare intendente.
Divenne il cancelliere più giovane nella storia del Polo e affiancò l’intendente in carica per un periodo di prova che avrebbe dovuto concludersi con il passaggio di grado e il pensionamento del suo mentore. Non era solo merito dei suoi ottimi voti, lo sapeva. Era pur sempre un bastardo senza diritti. Lo zampino di sua zia aveva fatto il grosso del lavoro, ma lui era pronto a dimostrare il suo valore. La vita non gli aveva regalato nulla, quello di Berenilde era solo un trampolino di lancio, non un lasciapassare.
Thorn era emozionato quando varcò la soglia dell’Intendenza per l’inizio del suo apprendistato. Gli sembrava di essere al suo primo giorno di scuola. Fresco di promozione, con i voti più alti che uno studente potesse ricevere, una buona istruzione alle spalle e la sua Memoria pronta per essere sfruttata e collaudata per il bene della società, si sentiva fremere di eccitazione in tutto il corpo. La sua emozione si traduceva fisicamente in uno sguardo impassibile e freddo, un controllo assoluto della propria rigidità e una loquacità ancor più stentata del solito. Non aveva salutato nemmeno la zia quella mattina, che gli saltellava attorno come una bambina in attesa di un regalo. Non lo aveva baciato, accarezzato o toccato per incoraggiarlo, come avrebbe fatto qualsiasi zia, qualsiasi mamma, orgogliosa, ma per Thorn la sua presenza aveva significato moltissimo.
L’intendente lo accolse freddamente. Parlava poco come lui. Dopo un’ora capì che quell’uomo piccolo ed energico gli piaceva. O meglio, non lo disprezzava. Era pragmatico ed efficiente, svolgeva il suo lavoro in modo sussiegoso, asciutto e diretto, e si rivolgeva ai cittadini con imparzialità, senza ossequi o distinzioni di genere e ceto. La legge era uguale per tutti, e lui li trattava allo stesso modo. Lui era la legge.
Thorn imparò più da quel piccolo ometto tarchiato in un giorno che dai membri della sua nefasta famiglia in un’intera vita. All’intendente lui era pressoché indifferente. Gli dava ordini, lo trattava come se già sapesse tutto, come se non fosse lì per imparare il mestiere. Thorn capì che non era antipatia nei suoi confronti, era solo il modo che aveva di trattare chiunque. Per sua fortuna, lui imparava in fretta, merito della spiccata intelligenza e del senso del lavoro, della volontà che aveva di rendersi utile, di trovare il suo posto nel mondo. Non per ultima, fu grazie alla sua Memoria proverbiale che nel giro di poco tempo divenne competente quanto l’intendente in carica, senza mai sbagliare un colpo, confondersi o ritardare. A volte lo anticipava persino. Questo non gli piacque.
Thorn credeva di renderlo orgoglioso a lavorare duramente. Del resto era lui il suo mentore e addestratore, era merito suo se aveva imparato tutte quelle cose ed ora sapeva svolgere la sua mansione al meglio delle sue capacità. Ma la sua freddezza, silenziosità, compostezza e alacrità spinsero l’intendente a fraintenderlo. Cominciò a vederlo come un insetto che voleva fregargli il posto e mandarlo in pensione prima del previsto. Che voleva farsi bello agli occhi dei ministri, primeggiare e scalzarlo dal suo ruolo prestigioso.
Iniziò così a trattarlo come tutti gli altri: con malcelato disgusto, con disprezzo, cercando di attaccargli addosso il senso di inferiorità che derivava dal suo stato di bastardo. Thorn cambiò atteggiamento di conseguenza. Non si chiuse in se stesso come al solito. Suo malgrado, comprendeva la paura dell’uomo, perché era un tipo di timore che aveva già a suo tempo interiorizzato e accantonato: il terrore di non essere abbastanza, di essere sostituito, di non essere indispensabile.
Cercò di emularlo per mostrargli che lo ammirava. Sì, che proprio lui, ammirava qualcuno. Non aveva mai prestato attenzione al suo aspetto fisico e al modo in cui si presentava. Si pettinava e riordinava, era sempre preparato di tutto punto, ma non lo faceva per apparire attraente per le dame di corte o per mostrarsi. Il suo stato di bastardo bastava a tenere lontano qualsiasi tentativo di flirt da parte delle donne della buona società, che non lo vedevano nemmeno, e i gentili omaggi di Godefroy al suo viso avevano fatto il resto. Nessuno lo guardava. Se accadeva, era un errore, e la persona distoglieva subito lo sguardo. Se era fatto intenzionalmente, era perché l’interlocutore lo vedeva per la prima volta; e dopo averlo fatto, sussultava, spesso inorridiva, e distoglieva lo sguardo. Per quel che lo riguardava, avrebbe anche potuto evitare di sbarbarsi, pettinarsi, curarsi, tanto nessuno prestava attenzione a lui. Nemmeno lui stesso. Non gli interessava granché come appariva, si disgustava da solo, ma rendersi presentabile trasmetteva un messaggio. Un messaggio che Godefroy, Freya e tutti dovevano percepire: niente lo avrebbe abbattuto. Non gli interessavano i giudizi altrui.
Così imitò l’intendente. Un giorno si presentò al lavoro con un pizzetto curato, a cui diede la forma di un’àncora nel giro di poco tempo. Il suo mentore portava così la barba, e Thorn sperava che recepisse il messaggio: l’imitazione è la più grande dimostrazione di ammirazione.
Sortì l’effetto opposto. Ogni giorno sentiva l’intendente brontolare che ora stava persino cercando di assomigliargli, che era un copione, un impostore, che lo irritava. Thorn se ne dispiacque. Nessuno gli aveva mai insegnato quelle cose da uomo, come farsi la barba, come tagliarla. Nessuno gli aveva insegnato nulla da uomo, a dire il vero; come cambia il corpo, come si cresce, come ci si pone con le signore. Vedeva Archibald ogni tanto, che faceva il galante con chiunque respirasse, e che dispensava occhiolini e ammiccamenti come se fossero semplici saluti. Un giorno aveva strizzato l’occhio persino a lui, che lo aveva incendiato con lo sguardo. Thorn non aveva avuto un mentore di vita. Non aveva avuto un padre e lo zio aveva convissuto pacificamente con lui fino alla sua morte, ma non l’aveva mai considerato suo figlio.
Thorn era un giovane uomo solo e senza guida.
Smise di imitare l’intendente, smise di parlare se non per questioni necessarie, smise di considerare il mondo. Se veniva trattato così, forse anche lui doveva trattare in quel modo gli altri.
Dopo alcuni mesi la situazione si stabilizzò. Lavoravano in silenzio, ognuno nei propri spazi, interagivano poco, ma Thorn era un buon osservatore. Scoprì tutto di lui. Era un vedovo senza figli. Lui e la moglie non avevano potuto averne, e si erano rassegnati. La moglie era morta da un paio di anni, lasciandolo completamente solo. Ma lui l’aveva amata. Amata davvero. Erano tante le signore che si presentavano all’intendenza, giovane donne a volte disperate, che chiedevano un’udienza da sole con lui, lanciando occhiate insistenti a Thorn. Ma l’intendente, cogliendo l’antifona, non le guardava nemmeno più in volto, chinava la testa e diceva con la sua profonda e burbera voce che se avevano qualcosa da dire potevano farlo solo e soprattutto in presenza del suo allievo.
Thorn non capiva granché di amore, se non che lui non avrebbe mai provato quel sentimento incomprensibile, ma seppe con certezza che l’intendente, per riuscire a rifiutare con tanta forza d’animo le velate proposte di belle signore, doveva aver amato di cuore, profondamente, indissolubilmente.
Thorn imparò da lui la fedeltà, la lealtà, la coerenza, la professionalità. Imparò a provare affetto per lui.
E l’intendente lo percepì. Non cambiò radicalmente atteggiamento, la vedovanza lo aveva reso effettivamente coriaceo e silenzioso, laconico, ma non odiava più Thorn. Lo aveva accettato come un naturale proseguimento delle cose. Non se lo dissero mai, ma l’intendente si abituò a lui, e furono entrambi grati della loro silenziosa compagnia.
Il giorno prima di morire per infarto arrivò a dirgli: - Sai, non ho mai trovato nessuno rapido ed efficiente come te. Sei un gran lavoratore. Credo che sarai migliore anche di me.
Thorn non aveva lasciato trasparire nessuna emozione, si era limitato ad osservarlo in silenzio, non sapendo come rispondere. Il cuore gli batteva forte. Cosa gli prendeva?
Quando si ritrovò da solo all’Intendenza, il giorno successivo, e capì che sarebbe sempre stato solo lì dentro, da quel momento in poi, Thorn pianse. Chiuse le porte, staccò i telefoni, e pianse per la prima volta da quando aveva tre anni e aveva compreso che sua mamma non sarebbe mai tornata a prenderlo, perché non lo voleva.
Avrebbe potuto rispondergli, invece di stare zitto. Avrebbe potuto dirgli: - Il merito è vostro. Siete un ottimo insegnante.
Oppure: - Grazie, mi avete insegnato bene.
Anche solo: - Grazie.
Invece era stato zitto come sempre, e quel vecchio era morto da solo, credendo che l’unica persona che l’avesse mai amato se ne fosse andata due anni prima, e che a quel mondo a nessuno importasse nulla di lui.
Com’era per Thorn.
Al funerale era da solo. Non c’era nessun parente, nessun amico. L’ex intendente viveva per il lavoro, non aveva figli né nipoti. Aveva lasciato qualcosa di sé solo a Thorn, e lui non gli aveva fatto sapere che era stato speciale. Che gli si era affezionato. Che era stato importante, molto importante per lui. Che lo aveva stimato, lui, che non aveva mai stimato nessuno, soprattutto sé stesso.
Quando tornò a casa dopo il funerale, il suo sguardo era cambiato ulteriormente.
Non era freddo. Era gelido. Insensibile. Gli doleva il petto, il cuore non stava calmo, e si promise che non si sarebbe mai più ammorbidito per nessuno. Non avrebbe più voluto bene a nessuno, se non a sua zia.
Non si guardò mai più allo specchio, se non a pezzi: i capelli, per pettinarli. Guance e mento, per rasarli.
Si disgustava da solo.
Si odiava.
 
Era troppo giovane quando cadde nell’oscurità dell’odio totale.
Era ancora più giovane quando quell’odio divenne indifferenza. E l’indifferenza, non se ne accorse nemmeno, è peggiore dell’odio. Perché l’odio tiene vivo, e spesso deriva dall’amore.
L’indifferenza invece è assenza. Vuoto. Mancanza. Morte di qualsiasi cosa. E fa male.
Intendente a tutti gli effetti, svolgeva il suo ruolo senza passione, senza quell’eccitazione iniziale. Non era più così felice di servire quella società disgustante. Non era più così sicuro di poterla migliorare.
I ministri erano solo arrivisti che pensavano al proprio tornaconto, senza rispetto per nessuno. Archibald era compreso tra loro, ed era forse il peggiore. Lui non pensava proprio. Lo aveva visto distruggere matrimoni e rubare il cuore a giovani fanciulle da maritare, ingannandole e abbandonandole. Ultimamente bazzicava persino attorno a sua zia, ma sapeva che Berenilde era troppo furba per farsi incastrare da uno come lui.
Si stufò presto di tutto e tutti. Quando si rese davvero conto di come funzionava la meccanica di ministri e cortigiani, ammirò ancora di più il defunto intendente. Chiedevano più di ciò che era lecito ottenessero, e quando Thorn deliberava negativamente, cercavano di corromperlo. Divenne subito un monotono sistema di negazione, il suo.
La richiesta del cittadino era fondata? No. Delibera negativa. Nemico aggiuntivo.
La richiesta era valida e necessaria? Sì. Delibera positiva. Nessun ringraziamento, nessuna coercizione.
Thorn era quasi divertito nel constatare quanto fosse senza fine l’odio che si poteva provare nei confronti di qualcuno che esercitava le sue funzioni nel rispetto di quelle leggi scritte che tutti erano tenuti a rispettare.
Divenne il cittadino più odiato del Polo. La sua fama lo precedeva. La sua mancanza di tentennamenti lasciava senza fiato. Nemmeno il più piccolo comma di qualsivoglia norma gli sfuggiva.
Lui era la legge. La faceva rispettare nel rispetto del suo lavoro.
E questo alle persone non piaceva.
La corruzione è sempre la scelta più acclamata.
Aveva bisogno di aria, ma non ne aveva il tempo. Non ne aveva nemmeno per vivere.
 
~~~~~~~~~~○~~~~~~~~~~
 
Thorn respirò a pieni polmoni, interrompendo quel flusso di ricordi. Avvertiva sempre una fitta quando pensava al suo mentore, l’intendente che lo aveva preceduto.
Tirò fuori dal taschino l’orologio e lo guardò nella penombra della cabina, contando automaticamente i secondi, minuti, ore che gli mancavano per raggiungere la fidanzata. Lo strinse forte per calmarsi, poi tornò a fissare il nulla fuori dall’oblò.
Non gli piaceva quella storia. Avrebbe preferito non coinvolgere nessuno nei suoi piani, specialmente una donna.
Specialmente un’animista. Si era documentato su di loro, sui loro doni familiari. La zia aveva giurato di aver trovato la miglior lettrice di Anima, quello che gli serviva. Peccato che avesse già rifiutato due pretendenti. Due cugini. Nella sua arca era un affronto, un rifiuto simile. Se non altro, questo a Thorn piaceva. Ma il suo rifiuto era anche pericoloso. Non gli interessava che la fidanzata fosse servile, ribelle, o qualunque altra cosa. Gli bastava che facesse il suo dovere: gli donasse il suo potere da lettrice.
E gli desse dei figli per continuare la progenie, data la grande fecondità degli animisti. Thorn storceva il naso ogni volta quando la zia glielo ripeteva, circa tre volte ad ogni incontro. Lui avrebbe volentieri saltato quella parte: non amava, per niente, i marmocchi, e il disprezzo che provava per l’umanità era esteso a tutti, donne incluse. La loro intimità sarebbe stata difficile, già lo percepiva. Sperava solo che non fosse una libertina, che non andasse col primo che capitava, dopo averlo visto in volto. Ad esempio con Archibald.
Strinse l’orologio un’ultima volta prima di metterlo via, per evitare di romperlo. Passeggiò per lo spazio angusto e cercò di calmarsi. Avrebbe fatto a meno di una fidanzata. Di una moglie. Non prometteva nulla di buono quella situazione.
Nessuno si sarebbe innamorato di lui, avrebbero avuto un matrimonio vuoto, falso, insignificante.
E lui non era in grado di amare nessuno, specialmente una donna frivola e dedita alla procreazione com’erano le animiste. La lettera della madre della sua fidanzata lo aveva fatto rabbrividire. C’era troppa energia, troppa vitalità, incontenibilità in quelle parole.
Non si sarebbero mai amati. Era matematicamente certo.
 
Ma Ofelia non era matematica. Ofelia distruggeva le certezze.
Aveva una predisposizione naturale alle catastrofi.
Thorn si era aspettato una moglie frivola. O disgustata da lui. Magari elettrizzata dalla possibilità di fuggire dalla sua Arca.
Si era aspettato tutto.
Ma mai che si sarebbe innamorato perdutamente della sua imprevedibile, forte, intelligente, decisa e gentile fidanzata.
Però successe.
Successe come un fulmine a ciel sereno dopo un’ora, un’ora, dal loro incontro.
E ciò che lui fece fu dare il peggio di sé.
Del resto, non gli era rimasto che il vuoto, dentro.

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Capitolo 3
*** Innamorarsi ***


Ok lo ammetto. Doveva essere un capitolo, breve, come sempre, ma ormai i miei capitoli fanno quello che vogliono ed è uscito fuori tutt'altro. Oltretutto avevo un estremo bisogno di leggere cose affettuose e smancerose su Ofelia e Thorn e quindi mi sono arrangiata da me e le ho scritte. Spero di non averli snaturati troppo, io sinceramente in una situazione del genere li vedo. Specialmente dopo aver letto degli estratti del quarto libro ihihi.
Tagliando corto, questo cap è basato su questo: http://www.passe-miroir.com/2017/12/22/faq-de-noel/#more-1026
Sito de La passe-miroir ufficiale di C. Dabos, domande dei lettori n.4 e 5: quando Ofelia si è innamorata di Thorn? E viceversa. Le ho tradotte più o meno fedelmente inserendole dentro la storia, se volete una traduzione effettiva usate Google Traduttore o chiedetemi pure in privato. Parlo sempre volentieri di loro. (Ofelia: http://www.passe-miroir.com/wp-content/uploads/2017/12/ITV_2.jpg e Thorn: http://www.passe-miroir.com/wp-content/uploads/2017/12/ITV_4.jpg)
E niente, scoprire di preciso quando si sono innamorati mi ha sconvolta. Da Ofelia un po' me l'aspettavo, ma Thorn... non l'avrei mai detto.
AVVERTIMENTO: alcuni spoiler di una scena del quarto libro verso fine capitolo. Niente di troppo spoileroso o specifico, ma è una scena adorabile tra i due che ho dovuto citare per forza.
Grazie a tutti di cuore e buona lettura.



3. Tomber amoureux


Ofelia passeggiava nervosamente per la stanza, mordicchiandosi le cuciture del guanto. Era sicura che continuando a quel ritmo avrebbe aperto un buco su ogni dito, rendendo inservibile quel nuovo paio. La zia le avrebbe dato una bella strigliata.
D’un tratto si fermò, colta dalla paura di aver scavato il pavimento della camera con il suo andirivieni, ma il parquet ricoperto da spessi tappeti era a posto.
Era un piovoso pomeriggio e l’ambiente era immerso nella penombra. A pranzo non aveva toccato cibo e ora il suo stomaco reclamava attenzione, ma allo stesso tempo era stretto in una morsa che avrebbe impedito ad Ofelia di mangiare.
Non vedeva Thorn da un mese. Non vedeva Thorn da un mese e sarebbe dovuto tornare due giorni prima. E come se non bastasse non aveva notizie di lui da una settimana. Era andato a Babel, sotto espresso invito dei gemelli Helena e Polluce, per dare una mano con le pratiche di archiviazione che lui stesso aveva impiegato due anni per avviare e mettere in moto. Adesso che era tornato al Polo, riprendendo la sua mansione da intendente, il loro trascorso a Babel era solo un ricordo lontano, e nessuno dei due avrebbe desiderato far ritorno in quel posto così caldo e diverso dal loro stile di vita. Troppo caotico, organizzato e rigido, che nascondeva bugie e falsità in pieno giorno invece che mascherarle sotto illusioni ben architettate, come al Polo. Ad Ofelia faceva venire i brividi la ligia categorizzazione di cittadini, la competitività degli aspiranti precorritori, degli stessi insegnanti. A Thorn anche.
Però era partito lo stesso: sarebbe stato alquanto disdicevole, persino per uno come lui, rifiutare un invito diretto di non uno, bensì due spiriti di famiglia.
Ofelia aveva ricevuto l’ultimo telegramma interfamiliare di Thorn sette giorni prima, data coincidente con l’inizio del suo viaggio di ritorno. Il messaggio era parco di parole come lo stesso Thorn, senza sprechi o aggiunte superflue, e a Ofelia aveva fatto venire ancora più nostalgia del marito. Se non fosse stata così in ansia, la situazione sarebbe stata quasi comica. Comicamente surreale. Erano stati separati quasi tre anni dal giorno del loro matrimonio, e Ofelia in quel periodo non era nemmeno stata in grado di ammettere con sincerità i suoi sentimenti. Ora, non solo aveva presentato a Thorn delle infondate rimostranze riguardo alla sua partenza, ma era addirittura in ansia, tesa, all’idea che fosse in ritardo di soli due giorni.
Sapeva che la sua preoccupazione era sprecata. Dal Polo a Babel il viaggio era lungo, e una qualsiasi condizione climatica avversa avrebbe potuto ritardare sensibilmente il suo arrivo. Eppure non riusciva a levarsi di dosso quella sensazione sgradevole di catastrofismo. Doveva essere successo qualcosa. Sicuramente era successo. E non avrebbe più rivisto Thorn.
La sciarpa, animata dal suo acuto nervosismo, si agitava come la coda irrequieta di un gatto, muovendosi a scatti e frustando l’aria con impazienza ed energia. Voleva chiamare Berenilde, lei avrebbe saputo cosa fare, ma la zia Roseline l’aveva trattenuta asserendo che fosse “irragionevole come un cucchiaino da dolce in una zuppa”. Ofelia aveva trovato il paragone alquanto calzante, anche se non era servito a calmarla.
Si fermò in mezzo alla stanza, d’un tratto determinata. Se Thorn non si fosse fatto vivo entro l’indomani mattina, avrebbe mobilitato Berenilde. Tre giorni di ritardo giustificavano abbondantemente una denuncia di smarrimento.
 Determinata, si mosse verso la porta della camera, che le stava diventando stretta, ma se la trovò spalancata davanti nel momento in cui allungò una mano per afferrarne la maniglia. Si fece tutto nero per un attimo, e Ofelia credette di essere svenuta, anche se aveva tutti i sensi all’erta. A riportarla alla realtà fu un battito sordo e regolare che le arrivava dritto all’orecchio. Il battito inconfondibile di un cuore.
Allontanandosi di un passo, si rese conto che per guardare in volto il detentore di quel cuore avrebbe dovuto alzare la testa fin quasi a farsi venire il torcicollo. Le si inumidirono gli occhi quando capì, senza bisogno di vederlo, che solo con una persona al mondo doveva fare quello sforzo titanico.
Thorn.
Di fronte a lei, in carne ed ossa, abbastanza umido per via della pioggia, con i capelli che gli spiovevano sugli occhi d’acciaio. Brillavano sotto le palpebre socchiuse, nella penombra, scrutandola come per studiarla e capire cosa stesse facendo o pensando. Thorn corrugò la fronte quando vide gli occhi umidi di Ofelia, quando percepì il suo palpabile nervosismo. Non gli sfuggiva mai nulla che la riguardasse.
- Ti ho spaventata? – chiese soltanto, facendola sussultare nonostante avesse usato lo stesso tono laconico e sommesso di sempre.
La sua voce produsse in lei anche un brivido che la scaldò dentro come un fuocherello a cui viene accostato un nuovo ciocco di legna.
Si scoprì incapace di parlare. Come al solito, nel momento in cui doveva esternare i suoi sentimenti, in quel caso dirgli quanto era preoccupata e insieme sollevata, la voce le mancava, il cervello pensava vorticosamente ma non traduceva in suoni le sue emozioni.
Thorn increspò ancora di più le sopracciglia chiare, accartocciando la cicatrice che ne attraversava una. Le posò le mani sulle spalle, delicatamente, come temendo che Ofelia potesse ribellarsi e sottrarsi a quel contatto.
Infuriata con se stessa, lei strinse i pugni. Non aveva il controllo delle sue corde vocali, ma poteva muoversi. Ringraziando il fatto che Thorn si fosse arcuato per cercare di scrutarla in modo ravvicinato, Ofelia si alzò sulle punte dei piedi e gettò le braccia al collo del marito, avvicinandolo ancora di più a sé e baciandolo con foga.
Thorn aveva gli occhi spalancati dalla sorpresa, e la cosa avrebbe fatto ridere Ofelia se non fosse stata troppo impegnata a cercare di godersi quel contatto con lui. Quella riunione tanto agognata. Non si era resa conto che le fosse mancato tanto finché si scoprì incapace di allontanarsi da lui, anche solo per riprendere fiato. E non era facile concentrarsi sul bacio: i capelli di Thorn bagnavano i suoi, il suo volto era freddo e la punta del suo naso affilato la solleticava.
Percepì a mala pena lo stridore della sua armatura quando si mosse per allontanarsi dalla porta e poi chiuderla, e capì che lui l’aveva presa in braccio e si era avvicinato al letto solo quando ricadde pesantemente sul materasso, con Thorn a sovrastarla.
Le sue intenzioni erano chiare, del resto gli si era gettata addosso appena aveva messo piede in casa, ma non fece nulla per aiutarlo a spogliarla. Sarebbe stata solo d’impiccio, con le sue goffe dita. Non aveva però considerato il fatto che Thorn era freddo. E zuppo. Non ci aveva fatto caso, o meglio, non aveva voluto farci caso, ma quando le sue grandi mani gelide le sfiorarono la pelle accaldata schizzò a sedere trattenendo a mala pena un urlo. E gli diede una testata.
Lui si massaggiò la tempia con sguardo impassibile, scrutandola, cercando di capire cosa fosse successo. Ofelia non aveva mai reagito così…
Seduto di fronte a lei, silenzioso come un’ombra, allungò una mano per afferrarle gentilmente il braccio, cercando di farla parlare, ma Ofelia lo respinse con energia come se si fosse scottata.
- Hai le mani gelide – sussurrò con un filo di voce, seminuda di fronte a lui.
Thorn inarcò le sopracciglia, facendo diventare ancora più lunga la sua ampia fronte, rimanendo in silenzio. Dopo alcuni attimi di immobilità, si allontanò e si alzò, facendo cigolare tutta l’armatura. Che si bloccò a metà movimento, lasciandolo con la gamba piegata. Thorn sbuffò leggermente e non incrociò lo sguardo di Ofelia mentre la sistemava. Lei, dal canto suo, era ancora seduta sul letto, in mezzo ai vestiti sparsi e alle lenzuola sfatte, basita dopo il suo tentato rapimento a danno del marito. Era rossa fino alle orecchie.
- Scusa – le disse lui, rompendo il silenzio, fissando la porta della sala da bagno. – Mi concederò una doccia prima che… prima di…
Abbassò la testa, in lotta con se stesso. Ofelia lo trovava estremamente tenero in quei frangenti, talmente poco abituato ad esprimere a parole i suoi sentimenti da provare un vero calvario nel tentare di farlo.
- Meglio se mi asciugo – decise Thorn alla fine, dirigendosi verso il bagno.
Ofelia però non voleva che finisse così. Tremava dallo shock. Si stava immaginando gli scenari più atroci di morte o cattura del marito quando lui era entrato sommergendola con la sua mole imponente. Era un po’ scossa, aveva bisogno di toccarlo, sentirlo, per accertarsi che fosse davvero lì con lei, al sicuro. Non voleva aspettare, aveva già atteso un mese.
Cadde dal letto nel tentativo di raggiungerlo prima che si chiudesse in bagno, e Thorn si precipitò ad aiutarla senza rendersi conto che non poteva toccarla. Tutta quella situazione era un po’ bizzarra. Si era aspettato di trovare Ofelia a casa… tranquilla. Magari leggermente preoccupata. Ma di sicuro non in quello stato. Sapeva cosa provava la moglie per lui, ma anche dopo la sua confessione era rimasto convinto che tra i due fosse lui quello che l’amava di più. Del resto, come poteva essere altrimenti? Ofelia provava affetto per molte persone, mentre nel cuore di Thorn c’era posto quasi esclusivamente per lei.
Non sapeva interpretare quella foga, quel bisogno di toccarlo. L’aveva trascinato a letto senza nemmeno salutarlo! Ofelia continuava a sorprenderlo, giorno dopo giorno, e Thorn si rese conto, finalmente, che passare la vita con lei non sarebbe mai stato noioso. Lo avrebbe preso in contropiede anche dopo dieci anni, probabilmente. Quel pensiero gli fece battere il cuore, però riuscì a nascondere la smorfia di disappunto. Non poteva reagire così ogni volta che la vedeva!
Alla fine Ofelia si alzò da sola, e si diresse verso il bagno anticipando Thorn vestita sola con un corpetto succinto, la sottogonna e delle calze pesanti.
Notando la fronte aggrottata del marito, increspata in un muto interrogativo, Ofelia si accinse a riempire di acqua e sapone la vasca. Sempre più perplesso, Thorn non sapeva cosa fare, lì in piedi di fronte alla porta del bagno. Quando Ofelia ricominciò a spogliarsi tenendosi addosso solo i guanti, pensò che volesse farsi il bagno prima di lui. Era intenzionato ad uscire per lasciarle la sua intimità quando Ofelia riprese a spogliarlo da dov’era rimasta, trascinandolo dentro la stanza con lei e chiudendo la porta.
Alla fine decise di lasciarsi guidare e si chinò per baciarla, prima di seguirla dentro la grande vasca bollente.
 
Il vapore che impregnava la sala da bagno rendeva l’aria soffocante e umida, ma Thorn non si sarebbe mai lamentato. Sdraiato nell’acqua calda, con la testa reclinata all’indietro contro il muro, un braccio penzoloni fuori dalla vasca e l’altro sulla pancia di Ofelia, con le ginocchia ossute che sporgevano dal pelo dell’acqua, aveva raggiunto la pace dei sensi. Non si era reso conto di avere così tanto freddo finché sua moglie, non l’acqua calda ma sua moglie, l’aveva scaldato. Scaldato dentro. La tensione delle sue membra si era sciolta come ghiaccio in quella grande vasca, e lui rilasciò tutto il nervosismo che non sapeva nemmeno di aver provato: Ofelia era lì con lui, stava bene, ed erano insieme.
Con la schiena appoggiata al suo busto, immersa fino al mento, lei gli pesava piacevolmente addosso, accarezzando la grande mano che era appoggiata sul suo ventre, finalmente non più fredda.
- Bentornato, comunque – mormorò, un sussurro a malapena udibile.
Thorn aprì gli occhi e fissò la nuca di Ofelia, piena di capelli ricci e asciutti sulla sommità e lisci e bagnati sulle punte, dove si immergevano nell’acqua. Le stavano crescendo parecchio in fretta, ma del resto era anche passato molto tempo da quando li aveva tagliati drasticamente, all’orto botanico di Babel.
- Ho notato – bofonchiò lui, tornando a reclinare la testa e chiudere gli occhi.
Non si era mai concesso un bagno così lungo, un ozio del genere. Era sempre impegnato, ogni secondo scandito dal ticchettio del suo orologio era uno spreco, una pratica che si accumulava, un verdetto non emesso o un verbale non stipulato. Ma non in quel momento. Non lì, con Ofelia, dove il tempo sembrava non esistere nemmeno.
- Come?
- Ho notato, ho detto – ribadì lui, incapace di lasciar trasparire nel tono di voce la serenità e l’affetto smisurato che provava dentro
- Hai notato cosa? – lo incalzò Ofelia, muovendosi per girarsi e scrutarlo.
Ma lui non si spostò di un millimetro, gli occhi ostinatamente chiusi. Ne aprì giusto uno spiraglio per contemplare il viso della moglie, accaldato per quello che avevano fatto poco prima e per il vapore.
- Di essere il bentornato. Era superfluo dirlo, me l’hai dimostrato chiaramente.
Le gote di Ofelia si riscaldarono ancora di più, di sicuro non per il calore della stanza, e lei distolse lo sguardo. Non si perse però il fremito delle labbra di Thorn, quello che ormai aveva categorizzato come un molto mal riuscito tentativo di sorridere. Ma lei lo apprezzava lo stesso.
- Non mi sembrava… non mi sembra che ti sia dispiaciuto.
- Non ho detto che mi sia dispiaciuto.
Questa volta Thorn raddrizzò la testa e si sporse per baciarla, lentamente, quasi con pigrizia. Ofelia chiuse gli occhi e lo ricambiò, producendo un sacco di schizzi e rumori di scivolamenti mentre si sistemava in braccio a lui, cuore contro cuore. Interruppe il bacio e si sdraiò letteralmente contro il suo ampio petto, le braccia strette contro il seno per tenersi al caldo. Thorn le accarezzò la schiena con la punta delle dita, tornando a reclinare la testa.
- Non me l’aspettavo – aggiunse dopo un po’. Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse passato, e sentì l’impulso di sporgersi per raccogliere l’orologio da taschino. Contagiato dalle sue intenzioni, Thorn lo sentì animarsi per rispondere al suo bisogno di conoscere l’orario, ma era al di là della porta chiusa e lui non aveva la minima intenzione di alzarsi per recuperarlo.
Quella situazione era surreale, quasi non si riconosceva più. Tutta colpa della donna che gli stava sonnecchiando addosso. Aveva scombussolato tutto. Quando però la donna in questione si raddrizzò per guardarlo dritto negli occhi, Thorn non ebbe alcun rimpianto.
Poteva scombussolargli la vita quanto voleva, lei.
- Cosa non ti aspettavi? – gli chiese, incuriosita, tracciando con un dito la lunghezza di una cicatrice sul petto e sulla spalla.
- Che mi attendessi in modo così impaziente.
Ofelia lo fissò in silenzio, cercando di capire cosa gli passasse per la testa.
- Sei mio marito. Sei stato lontano un mese, certo che ero impaziente. Come se non bastasse non ho ricevuto notizie riguardo al ritardo in arrivo, per quanto ne sapevo potevi essere morto, o rapito dai genealogisti, o su un’altra arca. Hai ritardato di quasi tre giorni!
Il sollievo che aveva provato nel trovarselo davanti stava velocemente lasciando posto all’irritazione. Perché non le aveva inviato un telegramma? Perché non l’aveva in qualche modo avvisata dei suoi piani?
- Tre giorni, Thorn! – inveì ancora, senza mai urlare, come suo solito. Si sentiva incapace di aggiungere altro. Le vennero le lacrime agli occhi.
Thorn la strinse a sé delicatamente, una mano sulla nuca e una sulla schiena, per calmarla.
- Due giorni e quindici ore, non tre giorni.
Ofelia si agitò, stizzita, e le manopole dell’acqua iniziarono ad aprirsi e chiudersi da sole. Stava tentando di fare dell’ironia o era serio?  – Non mi sembra il caso di puntualizzare proprio ora.
- Siamo stati separati per due anni e sette mesi, prima che tu iniziassi a cercarmi. Non sapevi né dove fossi, né se fossi vivo. Un mese mi sembrava una facezia al confronto. Se sei sopravvissuta quasi tre anni senza mie notizie, com’è possibile che la mia mancanza di un mese ti abbia sconvolta tanto?
La voce era gelida. Era lo stesso tono che avrebbe usato per chiedere una zolletta di zucchero nel caffè, il silenzio in aula, o il numero di una pratica. Stavano parlando di cose più serie, per tutti i vocabolari! Come poteva essere così apatico e calcolatore?
- Dovresti aver capito quanto sei importante per me, ora – gli disse lei dopo un po’, cercando di calmare il nervosismo.
Thorn serrò la mascella, poco propenso a quelle dichiarazioni, o al modo in cui Ofelia spesso lo guardava e stringeva. Con affetto profondo, un sentimento che non aveva mai sperimentato e del quale non credeva di essere degno.
Non seppe come rispondere. Ofelia era ancora premuta contro di lui, ma fece leva sul suo petto per sollevarsi e scrutarlo in volto.
- Da quando ti ho ritrovato, sono state diverse le volte in cui eravamo separati, ma io sapevo sempre dove trovarti, e lo stesso valeva per te. Ed eravamo sulla stessa arca! Questo mese sei stato lontanissimo, e per più di una settimana non ho avuto tue notizie. La cosa come avrebbe fatto sentire te?
Thorn non voleva nemmeno immaginarlo. Le era mancata terribilmente, per quanto avesse soppresso quel sentimento malinconico nel momento stesso in cui l’aveva salutata per partire, ma il pensiero dei loro ruoli invertiti gli fu insopportabile: lei lontana, con chissà chi, senza sapere se fosse in pericolo, senza notizie.
Increspò le sopracciglia senza rispondere, d’un tratto teso.
Ofelia invece stava ripensando ai momenti che avevano vissuto insieme. Quelli spiacevoli: quando Thorn aveva finto di non riconoscerla nel Secretarium, senza nemmeno farsi sfuggire la minima espressione, o quando l’aveva liquidata per avergli fatto perdere tempo, sostituendola, quando lei aveva solo cercato di rendersi utile. Certo, col tempo era davvero migliorato: la metteva a parte di tutto e teneva in considerazione ciò che aveva da dire, la coinvolgeva. Avevano già convenuto entrambi di non essere una coppia ordinaria, e la cosa piaceva a tutti e due. Ofelia non dubitava dei suoi sentimenti, ma era sempre così freddo e imperturbabile che…
- A volte mi chiedo quanto sia profondo ciò che provi per me.
Nessuno dei due si aspettava una frase del genere. Ofelia arrossì e distolse lo sguardo. Non era decisamente una donna romantica, quelle amenità erano lontane da una loro conversazione tipo quanto lo erano le arche tra loro, eppure si rese conto di aver bisogno di una conferma. Thorn le dimostrava amore a gesti, ed era più che sufficiente, valeva più delle parole. Però aveva bisogno di quelle, in quel momento. La sua mancanza l’aveva resa vulnerabile e voleva una conferma verbale del fatto che l’amava, che era importante per lui.
- Che domanda sarebbe questa?
Fedele a sé stesso, il quesito era stato posto in modo quasi brusco. Thorn si coprì il volto con la mano: era arrossito, sorprendendo Ofelia.
- Thorn?
- Come puoi pretendere una risposta?
- Era solo una domanda – borbottò lei, di pessimo umore. Un semplice “molto” sarebbe bastato, come risposta. – A volte è difficile decifrarti.
- Dubiti del mio… -. Stava per dire “amore”, ma il solo pensare quella parola lo fece arrossire ancora di più. – Dubiti di me?
- No che non dubito di te! Di cosa dovrei dubitare? Non importa, dimenticati la domanda.
A disagio, Ofelia fece per alzarsi e uscire dalla vasca, ma le lunghe dita di Thorn si richiusero sul suo braccio, tirandola giù di nuovo. La baciò, soffocando le sue proteste, sentendola sciogliersi tra le sue braccia. Ancora una volta si chiese come fosse possibile che lei ricambiasse i suoi sentimenti. A volte l’amava così intensamente da provare un dolore fisico a non averla sempre sott’occhio.
- Ti ho già detto che ti amo – mormorò quando si separarono per riprendere fiato, le fronti premute una contro l’altra. – Sono stato il primo a farlo. E ti ho amata quando tu mi disprezzavi, per più di tre anni.
- Non ti ho mai disprezzato. E ti ho ricambiato dopo pochi mesi, quindi non dire che i tuoi sentimenti sono stati a senso unico per più di tre anni.
Thorn valutò il fatto che nemmeno Ofelia riusciva pronunciare il sostantivo “amore”, e si sarebbe soffermato su quella strana coincidenza se non fosse stato distratto da altro. Incuriosito, rifletté sulle parole della moglie.
Stringendole ancora le braccia, dopo aver riacquistato il pieno controllo di sé, le chiese: - Quando ti sei innamorata di me, di preciso?
Ofelia avvampò. L’unica cosa che riuscì a pensare fu che era una domanda troppo personale.
Però abbassò gli occhi e ci pensò seriamente.
 
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Era successo al circo, quando aveva portato suo fratello Hector a fare un giro, insieme a Renard.
Non vedeva Thorn da parecchio tempo e avrebbero dovuto sposarsi dopo quattro giorni.
Era stata una semplice frase a farla innamorare definitivamente, ma a dire il vero aveva sentito qualcosa dentro di sé nel momento stesso in cui, alzando la testa per scrutare il cielo, si era trovata davanti il suo volto.
Col senno di poi si rese conto che parlare con lui era stato naturale, come se avessero ripreso una conversazione interrotta pochi minuti prima, non settimane prima. Come due amici di lunga data.
O due coniugi.
L’aveva un po’ stupita l’atteggiamento scostante che Thorn aveva avuto nei confronti del fratellino. Sapeva che i “perché” di Hector erano estenuanti a volte, e lui era stato più schietto e ficcanaso del solito, ma la reazione di Thorn era stata a dir poco maleducata. Non solo non gli aveva rivolto la parola, usando lei come intermediaria, ma addirittura non l’aveva nemmeno guardato in volto e aveva chiamato Renard perché gli facesse da baby-sitter mentre loro parlavano. Oltretutto si era sentita imbarazzata dallo sguardo ammiccante del suo consigliere, che aveva velatamente insinuato che sarebbe rimasto a tenerli d’occhio, in quanto chaperon. Ma se Ofelia non provava nulla per Thorn, perché era arrossita in modo così vistoso?
Altro che chaperon. Di cosa avrebbero mai potuto parlare due sposini alla vigilia delle loro nozze? Di intrallazzi politici, ovviamente.
Thorn l’aveva messa a parte del suo lavoro come rappresentante dei clan dei decaduti, della scomparsa del conte Harold, il tutore del cavaliere, e le aveva chiesto della lettera minatoria che aveva ricevuto pochi giorni prima, senza sprecarsi nello spiegarle come facesse a saperlo.
Di tutta quella conversazione Ofelia ricordava solo due cose: la prima era che Thorn le aveva chiesto come fosse possibile che lui volesse sabotare il suo stesso matrimonio, date le lettere eloquenti che aveva ricevuto; la seconda era che l’aveva accusata di avere un’opinione meschina di lui. Nel primo caso, il tono apatico e freddo di sempre aveva lasciato trasparire una punta di sgomento, come se la cosa fosse assurda. Thorn non voleva rompere il fidanzamento, ma Ofelia aveva intravisto una certa… premura dietro quel sarcasmo. Non era solo una questione di interesse, altrimenti Thorn avrebbe parlato di sabotaggio dei suoi piani, non del suo matrimonio. Nel secondo caso, nel suo tono di voce c’era decisamente una nota di delusione. Non era felice dell’opinione che credeva Ofelia avesse di lui. Non voleva che lei lo considerasse meschino, non voleva che avesse una cattiva impressione di lui, nonostante tutto quello che stavano affrontando e il fatto che lui non l’aiutasse in alcun modo a pensare bene di lui.
Non avevano potuto continuare la conversazione perché erano subentrati i cugini decaduti di Thorn, minando non solo la tranquillità di quel pomeriggio al circo, ma la loro stessa vita. Thorn era stato lesto a farla cadere, con un movimento fluido che Ofelia non gli aveva nemmeno visto compiere. Si era ritrovata a pensare brevemente che fosse a suo modo elegante nei movimenti, nonostante la corporatura ossuta e i gesti spesso rigidi e macchinosi. Quando era rientrata in possesso degli occhiali che le erano caduti sulla sabbia, i suoi occhi avevano cercato inevitabilmente lui. Non aveva guardato cosa stesse accadendo, nonostante le grida di dolore di qualcuno, né aveva considerato la sua incolumità, osservando se ci fosse qualche minaccia prossima a farle del male.
No, lei aveva cercato Thorn, e si era tranquillizzata solo quando lo aveva visto in piedi, impavido come una statua di bronzo, per nulla intimorito. Non si era scomposto minimamente, non aveva mosso un dito, aveva ancora il portadocumenti in mano. Le era sembrato incredibilmente forte, e in quel momento il suo cuore si era calmato. Si era sentita protetta con lui, al sicuro, perché aveva capito che Thorn ci teneva a lei, alla sua sicurezza. Per rimarcarlo le aveva anche ordinato con voce stentorea di rimanere giù, e lei aveva prontamente obbedito.
Aveva avuto conferma del fatto che Thorn si curava eccessivamente di lei quando aveva scoperto la presenza di Vladislava, che vegliava su di lei al posto suo, riferendogli ogni singola stranezza. Aveva gli occhi del fidanzato costantemente puntati contro, e questo, nonostante lei gli servisse solo per i suoi piani, andava oltre ad una preoccupazione disinteressata.
La cosa che l’aveva colpita di più, però, era stata vederlo utilizzare gli artigli, con suo grande disgusto e disappunto. Sapeva che Thorn era cresciuto circondato da disprezzo e violenza, da arrivisti, egoisti e familiari anaffettivi; la sua infanzia, le sue esperienze avrebbero dovuto influenzarlo al punto di riempirlo di rabbia repressa e odio, renderlo pronto a sfogare quei sentimenti di livore al primo screzio. Ma non lui. Lui, per quanti colpi avesse subito, non voleva renderne nemmeno uno, e per quanto odio avesse incassato, non voleva restituirlo.
Thorn non era violento. Provava disgusto nel ferire gli altri. E si preoccupava enormemente per lei.
In quel momento gli era stato caro, ma non se n’era resa conto subito.
La vicenda aveva portato ovviamente ad una discussione sul suo potere familiare, sulla memoria che sua madre gli aveva trasmesso, quella stessa memoria che i suoi cugini avevano reclamato. E in quel frangente si era resa conto che Thorn non solo non era corrotto, anzi era un modello di integrità e imparzialità, ma nessuno gli dava il credito che meritava. Nonostante questo, lui avanzava implacabile, spinto dal proprio senso del dovere. Non gli faceva più una colpa per il fatto che ricercava il proprio tornaconto personale, perché lo faceva in modo corretto e onesto in una società che era agli antipodi di sincerità e moralità.
Aveva sentito una strisciante malinconia sostituire la rabbia che accompagnava ogni loro incontro, lasciandola triste e vulnerabile. Thorn le faceva un po’ pena. Le faceva tenerezza, ma per quanto quel sentimento si stesse consolidando in lei, non era ancora in grado di riconoscerlo.
- Volete sistemare tutti i problemi da solo, a costo di servirvi degli altri come fossero pezzi di una scacchiera, a costo di farvi odiare dal mondo intero – aveva aggiunto poco dopo, quando Thorn aveva riportato l’attenzione su di lei.
Era implacabile, un risolvitore di enigmi e problemi, un calcolatore stakanovista e troppo dedito al proprio lavoro, ma era integro. Migliore di molte altre persone che aveva conosciuto in quel periodo, gentili di facciata e marce dentro.
- E voi, mi odiate ancora?
Non era la prima volta che Thorn sollevava quella domanda. Nel suo tono laconico però c’era come una nota di… frustrazione. Assomigliava anche allo struggimento, in una certa misura…
Ofelia aveva risposto di getto, senza farsi sorprendere dal suo bisogno di conferme circa la sua opinione su di lui. – Credo di no. Ora non più.
- Meglio così, perché non mi sono mai dato tanto da fare per non farmi odiare da qualcuno.
Quella volta Ofelia l’aveva sentito a stento, ma riflettendoci in seguito, in quella calda vasca da bagno con lui, rievocando la vicenda, si rese conto che Thorn l’amava già profondamente, quella mattinata del trentun luglio, al circo. L’amava al punto da confessarle che aveva tentato, si era sforzato di cambiare se stesso quel tanto che serviva a rendersi degno di lei, sebbene non si fosse mai adeguato a nessuno e non tenesse minimamente in conto i giudizi altrui. Eppure teneva al suo tanto da voler cambiare la propria natura, rendersi… amabile. Quanto meno sopportabile.
Sulla spiaggia era troppo confusa per farci caso, ma quella di Thorn era una confessione in piena regola. Per uno come lui, era quanto di più vicino ad una dichiarazione d’amore ci fosse.
Inconsciamente doveva averlo capito, però.
- Dobbiamo tornare. Abbiamo già perso il traghetto di mezzogiorno, mia madre ci farà sicuramente una scenata.
Alternando lo sguardo tra Thorn e il fratellino che era insieme a Renard, e si stava avvicinando, Ofelia aveva notato che il fidanzato ora guardava Hector, titubante, come si fosse trovato a disagio. Il suo cervello stava macinando pensieri su pensieri, Ofelia lo vedeva chiaramente, ma non aveva capito cosa gli passasse per la testa finché non lo aveva sentito dire: - Questi piccoli grattacapi familiari sono cose di cui davvero non mi intendo.
Spinta da un impulso irrefrenabile e sconosciuto, gli aveva afferrato la manica per invitarlo in albergo con loro. Un gesto così confidenziale, azzardato e cameratesco le era sgorgato da dentro, senza imbarazzo, perché il suo cuore, senza che lei se ne rendesse conto, già scoppiava per quell’uomo arcigno e confuso che non sapeva come reagire alla proposta.
Quell’uomo tutto d’un pezzo, bistrattato da tutta la vita e fedele solo a se stesso che aveva sconvolto le sue abitudini e credenze per far posto nella sua vita a lei. Che aveva fatto di tutto per rendersi accettabile, per lei, perché non fosse a disagio con lui, affinché potessero stare bene insieme. Che sapeva tutto di corruzione, intrighi politici, odii familiari, disprezzo, calcoli di aritmetica e trigonometria avanzata, burocrazia e articoli di legge impronunciabili e dimenticati da tutti… ma non sapeva come comportarsi con la famiglia della fidanzata. O con i bambini. Perché non aveva mai avuto una famiglia con cui parlare, che attendesse il suo ritorno, o che avesse piacere di godere della sua compagnia.
Thorn non aveva avuto nulla di ciò che lei aveva da tutta una vita: l’amore dei parenti.
E si innamorò di lui per quello, senza accorgersene, perché con qualcuno che credeva in lui al fianco, Thorn sarebbe stato in grado di compiere gesti fuori dalla portata dei normali esseri umani. Era un uomo incredibile, e lei avrebbe tirato fuori la sua parte migliore, sciogliendo quella corazza di ghiaccio che gli proteggeva il cuore da ulteriori ferite e delusioni. Dal dolore di essere costantemente rifiutato.
- Vi prometto che non sarà così terribile come pensate.
Il pranzo non era stato dei migliori, ma Ofelia aveva tenuto fede alla promessa ricambiando il suo amore negli anni a venire. Proteggendolo, cercandolo, salvandolo; salvandolo da sé stesso e da una vita vuota e insensata.
Era stato il timore dei “piccoli grattacapi familiari” a cui era estraneo a farla innamorare con tutta l’anima.
 
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- Mh.
Il commento di Thorn fu a dir poco freddo, dopo che lei ebbe risposto a grandi linee alla sua domanda. Con la punta del dito Ofelia gli tracciò le cicatrici che aveva su petto e addome, cercando di distrarsi e non guardarlo in volto, mentre tentava di far calare il rossore. Per fortuna non aveva gli occhiali, perché altrimenti sarebbero diventati rossi anche loro, rendendo intollerabilmente palese il suo imbarazzo.
- Non hai niente da dire? – lo incalzò quado ebbe esaurito le cicatrici da ripassare, a disagio in quel silenzio riflessivo.
- Riguardo a cosa?
- A quello che ti ho detto!
Thorn si passò una mano tra i capelli che gli erano ricaduti sugli occhi, impedendogli la vista, e si chinò per osservare Ofelia. Faceva ancora fatica a decifrare il tono delle conversazioni che aveva con la moglie, quindi aveva sempre bisogno di scrutarle il volto per cercare di capirla al meglio. – Non sono un esperto in materia.
- Potresti cercare di essere meno criptico, per cortesia?
Thorn aggrottò le sopracciglia, sospirando appena. – Non so come funzionano queste cose. Come ci si innamora o corteggia. Certo il tuo è stato uno strano modo di farlo. Sei imprevedibile come sempre.
- È stato uno strano modo di innamorarmi?
- Esatto.
Thorn si mosse leggermente, a disagio, non tanto per la prolungata vicinanza con Ofelia, quanto per il tenore della conversazione, neanche fosse stato un dialogo sconcio. Stranamente il contatto con la moglie nel senso intimo del termine era stato più disinvolto del previsto, ma non voleva pensarci in quel momento, così aggrottò ancora di più le sopracciglia, accartocciando fronte e cicatrici.
- Non è che queste cose si possano comandare, Thorn. Solo quando sono spontanee sono autentiche, però, e la mia lo è stata di sicuro. Non un colpo di fulmine, ma un insieme di cose che… mi hanno… cioè…
Si ritrovò a balbettare la fine della frase, di colpo con la bocca secca. Che razza di modo era quello di affrontare argomenti del genere in modo tanto serio? Thorn era l’antitesi del romanticismo, però quella conversazione era quanto di più sentimentale potessero discutere, e rimase basita dalla cosa. Forse era colpa della lontananza che li aveva resi emotivi?
Thorn la strinse a sé e la baciò con foga, come suo solito, per farla stare zitta e placare quello sproloquio inintelligibile. Ofelia si ritrovò ad ansimare dopo poco, sorpresa dal modo in cui lui la faceva sentire con un solo tocco. Quando stavano insieme fisicamente non provavano il minimo imbarazzo, come se la loro unione servisse a rendersi completi, loro che erano stati separati per tutta la vita e avevano gran poco in comune. Erano ingranaggi di un meccanismo più grande di loro, che faticavano a comprendere ma accoglievano con tutte le forze che avevano, perché metteva in moto una macchina che li teneva in vita.
Una vita insieme.
- Aspetta – lo bloccò repentinamente quando sentì le sue mani farsi audaci e spingersi in altri posti, oltre i suoi fianchi.
Thorn era imbronciato come sempre, ma nei suoi occhi gelidi Ofelia intravide per un attimo un lampo di sorpresa: era lei a gettarsi su di lui di solito, a prendere l’iniziativa; non l’aveva mai rifiutato, cosa che lo aveva aiutato ad essere più rilassato e a suo agio con lei. Fiducioso.
I suoi quesiti, i suoi pensieri e le sue perplessità conversero verso il sopracciglio spezzato, che si inarcò.
- Aspetta – ripeté Ofelia, nonostante Thorn fosse completamente immobile, come solo lui riusciva ad essere. – Ora dimmelo tu quando ti sei innamorato di me e per quale ragione.
Thorn sussultò e anche l’altro sopracciglio schizzò verso l’alto, contribuendo ad allungare le cicatrici che aveva in volto. Aveva temuto quella domanda perché, al contrario di Ofelia, lui sapeva con precisione quando lei gli era entrata dentro, in che occasione e perché. E non reputava la questione molto lusinghiera, dal suo punto di vista, quindi avrebbe preferito non parlarne mai e chiudere la conversazione lì, in quella vasca da bagno deleteria e foriera di impaccio.
- Io… scusa? – esclamò, perdendo il controllo di sé e ritraendo le mani dalla moglie, non sapendo più dove posarle. Riprese il discorso in una serie di borbottii simili ad un motore a scoppio: - Che domanda è? Come credi che possa saperlo…?
L’occhiata ammonitrice di Ofelia e le sue braccia incrociate sul petto lo fecero zittire, e tentò di reprimere la stizza che si era impossessata di lui serrando la mascella, come ad impedirle di muoversi per parlare. Un’inaspettata e gradita riconciliazione di benvenuto si stava trasformando in una tortura umiliante quanto i colpi d’artiglio che aveva ricevuto da quando era nato.
Che razza di argomenti stavano trattando…
- Thorn – lo incalzò Ofelia. – Non ho avanzato rimostranze quando me lo hai chiesto tu. È a causa tua che ne stiamo discutendo.
Avrebbe voluto obiettare che era lei ad aver sollevato l’argomento, in primis, e si ricordava anche le esatte parole del loro dialogo, ma obiettare in quel frangente non lo avrebbe portato da nessuna parte. Sapeva bene che Ofelia faceva di testa sua e da lui otteneva sempre ciò che voleva. Si sarebbe soffermato ad analizzare quest’ultimo particolare poco virile se la moglie non lo avesse pungolato al petto, imbronciata e irritata.
Distogliendo lo sguardo e sentendo già le gote imporporarsi, con suo notevole disappunto, strinse i pugni e sputò quelle nove parole che lo avrebbero coperto di ridicolo.
 
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Tutta quella storia della moglie era davvero una scocciatura. Lo era ancora di più il dover deludere sua zia, che si aspettava una storia d’amore in piena regola. Odiava deluderla, ma a lui interessavano solo le mani della sua fidanzata.
Non avrebbe provato affetto per lei. Non avrebbe condiviso il letto, rabbrividì al solo pensiero, con lei. Non avrebbe generato una prole con lei.
Un paio di mani. Solo quelle gli servivano. Per il resto avrebbe potuto fare ciò che più riteneva consono. Gli bastava che arrivasse viva alla Cerimonia del Dono e si sarebbe concluso tutto per il meglio.
Lo stomaco gli aveva fatto un balzo in petto dal disgusto quando l’aeronave aveva attraccato al porto di Anima. Quei cavilli formali da espletare con la famiglia della giovane erano del tutto futili, una perdita di tempo e una farsa. Non gli interessava conoscere nessuno, non avrebbe tratto nessun giovamento o guadagno da quell’incontro.
Tuttavia aveva sceso le scale del gigantesco mezzo di trasporto e si era ritrovato in pochi secondi sotto una pioggia torrenziale che sembrava sbeffeggiarlo. Una cacofonia di risate, voci, urla e disordine lo aveva accolto come una marea umana, accerchiandolo e investendolo. Se non fosse stato così alto si sarebbe sentito soffocare, preda di un attacco di claustrofobia da eccessiva socialità. La voce di una donna bassa e rubiconda aveva sovrastato le altre, che si erano zittite ai suoi richiami, come se quella signora tonda fosse stata la più grande autorità del posto. Ma chi comandava in quel luogo, le madri grasse e ciarliere?
Thorn aveva aggrottato le sopracciglia, già intollerante dopo solo pochi minuti.
Nella fiumana di gente, possibile che fossero tutti parenti?, aveva sentito la donna tarchiatella, di sicuro la suocera, chiamare una certa “sciocchina”. Senza capacitarsi di ciò che stava succedendo e del perché le cose non potessero essere condotte con un minimo di giudizio, aveva sentito qualcosa sbattergli addosso.
Abbassando lo sguardo aveva notato una piccola figura, piccola quanto la signora che continuava a sproloquiare, stringersi nelle spalle sotto di lui. Aveva immaginato che quella fosse la fidanzata. Una minuscola fidanzata. Quanti anni aveva? Era davvero in età da marito? Quanto bassa poteva essere una persona?
Thorn le sovrastava di due teste, più che normale che lei non avesse nemmeno provato a sollevare la sua.
- Buonasera – aveva mormorato gelidamente, senza ottenere risposta dalla fidanzata ma ricevendo in cambio dei flebili applausi. Applausi per cosa, poi?
Senza potersi opporre, trascinato dal nugolo di animisti, si era ritrovato sulla carrozza con fidanzata, futura suocera e una delle Decane che avevano organizzato il matrimonio, un’autorità di Anima. La donna tonda non aveva fatto altro che blaterare amenità di nessun interesse, così Thorn era stato zitto e aveva mosso il capo in risposta alla donna, senza veramente cogliere il tema del soliloquio.
Guardava fuori dal finestrino della carrozza senza soffermarsi su nulla di preciso, ma di una cosa fu più che consapevole: la fidanzata lo stava osservando. Non in modo eloquente, eppure lui lo percepiva. Gli sembrava di sentire sulla pelle il ribrezzo che la sua vista doveva suscitarle, l’orrore all’idea di dover trascorrere un’intera vita con lui, un uomo ricoperto di cicatrici senza nulla da offrire sul piano affettivo. Per un attimo le aveva fatto quasi pena, quella piccola ragazza costretta ad un destino del genere. Del resto, lui aveva bisogno di quelle mani, di quel dono, e non aveva mai guardato in faccia nessuno per raggiungere i suoi scopi. Nessuno gli aveva dato nulla nella vita, non poteva permettersi di fare sconti a chicchessia. Solo che una donna così piccola avrebbe avuto ancora più difficoltà a sopravvivere al Polo.
Infastidito, aveva interrotto la chiacchierona ordinando al cocchiere di dirigersi all’osservatorio. La rabbia repressa della donna era palese, del resto lui aveva guastato la serata a tutti. Poco male, sperava che potesse servire a farla stare zitta, come in effetti fu. Mortalmente offesa, la futura suocera era rimasta in silenzio, ostinatamente imbronciata, ponendo fine a quel supplizio di accoglienza e festosità.
L’unica cosa che aveva notato, con un certo stupore, era il sorriso della fidanzata, mal nascosto dalla sciarpa che stringeva al collo e accarezzava come se fosse stata dotata di vita propria.
Un sorriso, dopo la figura maleducata che aveva fatto e la sua asocialità, era l’ultima cosa che si aspettava. Non era di certo rivolto a lui, ma all’intera situazione. Era stato pronto a ricevere insulti, sguardi incattiviti come quelli che gli rivolgeva la donna tonda, odio o addirittura scenate perché il matrimonio venisse annullato seduta stante. Di certo non un sorriso velato e compiaciuto della fidanzata.
Thorn era rimasto in silenzio per il resto del viaggio e non l’aveva più guardata, con gli occhi chiusi e la fronte aggrottata, ma il suo interesse non era più diretto verso l’incontro con madama Artemide.
Perché quella piccola fidanzata aveva sorriso quando lui aveva offeso sua madre?
Aveva sentito il suo sguardo su di sé quasi alla fine del viaggio, e aveva dischiuso una palpebra per verificare se effettivamente la fidanzata lo stava scrutando. L’aveva vista distogliere in fretta lo sguardo, come aveva immaginato, ma subito dopo la carrozza si era fermata e lui aveva archiviato la questione.
 
Perso nelle elucubrazioni insensate e illogiche, il tipo che odiava con più passione, sulla donna che avrebbe dovuto sposare, Thorn era stato l’ultimo a scendere dalla carrozza che li aveva condotti fino al porticato d’accesso all’osservatorio. La fidanzata era scesa per prima, aiutando la Decana a mantenere la stabilità sui gradini del convoglio. Aveva studiato l’etichetta, sapeva che avrebbe dovuto farlo lui, ma delle forme di cortesia e della galanteria se ne infischiava altamente. Doveva estrarre dalla valigia il dono di Faruk per Artemide, e non aveva avuto il tempo di farlo durante il viaggio a causa del poco spazio.
Era sceso solo quando aveva reperito la cassetta di suo interesse, salendo poi la scalinata di accesso all’osservatorio senza curarsi delle donne di cui era ospite: la madre era inferocita, la Decana in paziente attesa attaccata al braccio della fidanzata, che per qualche motivo sembrava più instabile della stessa anziana.
Ottenuti i dieci minuti che gli servivano per portare a termine il suo compito, Thorn si era incamminato verso l’entrata, facendo risuonare il rumore dei suoi passi sul marmo.
Si era fermato quando aveva sentito un certo trambusto, chiedendosi cosa fosse successo di così grave da suscitare urla e strepiti. Che ce l’avessero con lui?
Invece si era voltato in tempo per vedere la fidanzata scivolare sul ghiaccio e agitare le braccia prima di cadere malamente, perdendo gli occhiali, senza fiatare, come se scivolare in modo così rovinoso fosse un’abitudine. Aveva visto la Decana incespicare e la donna tonda e livida di rabbia afferrarla per evitarle la fine della figlia. E se l’era presa proprio con quest’ultima mentre lei recuperava gli occhiali che aveva perso nel volo.
La fidanzata sembrava… insofferente. Ignorava le lamentele della madre, il dolore che sicuramente la caduta le aveva inflitto e lo stato pietoso in cui versavano i suoi occhiali, decisamente rotti. Si stava alzando quando lui aveva sentito il cuore sussultargli nel petto, e preso alla sprovvista si era incamminato verso la direzione che doveva prendere. Aveva udito le proteste della donna tonda alle sue spalle, ma non se n’era curato e aveva continuato ad avanzare salone dopo salone e porta dopo porta per sfuggire a ciò che lo stava inseguendo.
Solo che quel qualcosa era dentro di lui, non alle sue calcagna.
Il volto senza occhiali della fidanzata, il suo sorriso malcelato, i suoi silenzi menefreghisti e la sua goffaggine. L’assenza di lamentele, di chiacchiere superflue, di civetteria… non la capiva.
Non riusciva proprio a capirla. Quale donna non fa un dramma di una caduta così violenta, vergognandosi o urlando il proprio dolore per un’unghia spezzata? E poi era così piccola e magra, gracile… non sarebbe mai sopravvissuta nel suo ambiente. Era fragile, non aveva spina dorsale. L’avrebbero spezzata come un rametto secco.
E la cosa gli dispiaceva. Non la conosceva, non le doveva nulla, ma…
Nessun ma. Nella sua vita non c’erano mai stati dei “ma”. I calcoli e i problemi hanno una sola soluzione.
Aveva serrato la mascella ed era avanzato alla volta di madama Artemide.
Le sue mani. Gli servivano le sue mani.
Perché inconsciamente il suo cuore voleva altro?
 
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Un’ora dopo il primo incontro. Osservatorio di Anima.
Ad Ofelia erano cadute le braccia.
- Un’o… un’ora dopo avermi vista? Dopo che sono caduta così malamente da rompere gli occhiali?
Thorn era imbarazzato come non lo aveva mai visto, se non quando l’aveva abbracciata di slancio poco dopo la loro prima volta insieme, incerto su come comportarsi. Ma in quel caso Ofelia lo comprendeva. Lui era apatico, decisamente poco sentimentale, asociale e freddo, eppure…
- Un colpo di fulmine…
Il mormorio di Ofelia lo costrinse a chiudere gli occhi, corrugando così tanto la fronte da riempirla di solchi.
- Argomento chiuso – sancì lapidario.
Ofelia ridacchiò. Si sentiva così bene… non aveva mai riscosso successo in campo amoroso, non si era mai infatuata di nessuno e nessuno di lei, ma sapere che un uomo ermetico e arido come Thorn aveva addirittura avuto un colpo di fulmine per lei
Lo abbracciò stretto, schizzando ulteriormente d’acqua il pavimento e costringendolo ad aprire gli occhi. Il rossore era ancora lì sulle sue guance, però Thorn stava riacquistando il controllo di sé. Ofelia sentì la sua corta barba impigliarsi tra i capelli quando seppellì il volto nel suo collo, facendolo sussultare. Ogni tanto sembrava un giocattolo caricato a molla, che si muoveva a scatti. Sapeva essere allo stesso tempo fluido e rigido come nessun’altro.
- D’accordo – concesse allora, felice. – Non ti chiederò più nulla in merito ai tuoi sentimenti.
- Non c’è altro da chiedere – la rimbeccò lui, laconico.
Quella conversazione proprio non gli andava giù, non era nelle sue corde e sperava proprio che Ofelia non tirasse più fuori l’argomento.
- Ogni tanto i dubbi vengono.
Thorn l’afferrò per le spalle e l’allontanò da sé, arcuandosi per guardarla bene negli occhi. – Non devono venirti. Se ti vengono vuol dire che c’è qualche mancanza da parte mia, e allora devi farmela notare. Non posso vivere nell’inquietudine che tu non sia convinta… che tu non sia contenta.
Ofelia gli accarezzò il viso e gli sorrise. – Questa conversazione l’abbiamo già avuta, a Babel – gli fece notare. – Come allora, oggi ti rispondo che io sono già felice. Non è cambiato nulla, e non cambierà mai.
Thorn si schiarì la voce. – Bene.
Ofelia ricordava bene cos’era successo dopo, quando mesi prima avevano avuto una conversazione simile a casa di Lazarus. Thorn si era chinato per baciarla ma l’armatura della gamba si era bloccata, fermandone lo slancio. Lei aveva riso di cuore mentre lui si affrettava a sistemarla con palese esasperazione.
In quella vasca, non c’era l’armatura a bloccarlo, e Ofelia rispose al bacio spronando le sue mani affinché riprendessero il percorso che avevano interrotto prima.
Sorrise mentre lo baciava, ripensando al passato, remoto e prossimo, al presente di quel momento, caldo e confortevole, e al futuro, che si prospettava sicuro e appagante. Non importava se lei aveva impiegato dieci mesi a innamorarsi e lui un’ora, l’amore che nutrivano l’uno per l’altra trascendeva tempo e spazio, cresceva ogni giorno di più ed entrambi erano certi che niente avrebbe potuto scalfirlo.
Avevano in mano i dadi della loro vita, ma Ofelia ringraziò quei piccoli e infimi dettagli che li avevano fatti giungere lì, in quel bagno, sapendo che la mancanza di anche una sola delle loro caratteristiche li avrebbe portati su due arche lontanissime.
Il suo essere la miglior lettrice di Anima, di cui Thorn aveva bisogno. La sua goffaggine, che lo aveva fatto infatuare. La sua intelligenza, che la spingeva a pensare con la sua testa ed essere, per questo, imprevedibile. O ancora, la condizione di bastardo di Thorn, che per quanto lo avesse fatto soffrire sin dalla nascita, lo aveva costretto a dover cercare una moglie su un’altra arca, la sua. Non per ultimo, il suo aver rifiutato due pretendenti, rendendole impossibile sfuggire a quel matrimonio forzato.
Sentì l’impulso irrefrenabile di dirgli che lo amava, lo amava come mai avrebbe creduto possibile amare qualcuno. Ma con Thorn, un uomo pratico, i gesti valevano più dei discorsi imbarazzanti che avevano sostenuto. Così si abbandonò a lui con tutta se stessa, perché era l’unica cosa che aveva da offrire.
Ed era l’unica cosa di cui lui avesse bisogno.

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Capitolo 4
*** Cuore ***


Ecco il quarto capitolo! Questo si basa sulla scena della quasi-morte di Ofelia per via del barone schifoso-odioso-marcio-putrido-Melchior.
Pagine da 480 in poi del secondo libro, Gli scomparsi di Chiardiluna. Se vi va, vi consiglio di rileggere quelle pagine prima di farlo con il capitolo, o addirittura di leggere tutto insieme. Inutile dire che io ho cercato di rendere il punto di vista di Thorn (perdonami in anticipo, grandissima Dabos). Ma non ne sono certa perché il nostro amato intendente è più insondabile di un blocco di marmo.
Grazie mille a tutti per l'attenzione^^


4. Coeur

Pazza lei. Pazzo lui. Pazzi tutti.
Erano tutti fuori di senno. E lui odiava quella situazione. Aveva ripudiato Ofelia per tenerla al sicuro. L’aveva fatto; aveva posto fine a qualsivoglia tentativo di minare la sua sicurezza, nessuno l’avrebbe più cercata, intimidita, reputata un problema da eliminare. Lo aveva fatto per lei. Ofelia non lo amava, ma lui purtroppo, purtroppo, sì, e l’avrebbe sposata anche contro la sua volontà pur di averla al suo fianco. Quella era forse l’unico gesto egoistico che si sarebbe mai concesso. Invece non l’aveva fatto: aveva infranto ogni giuramento e contratto. Annullato il matrimonio. Rinunciato alla lettura del libro. Rassegnato le dimissioni. Non era più solo un bastardo, era una nullità, un individuo la cui esistenza non aveva più alcuno scopo, niente di niente.
E tutto per lei. Per Ofelia. Per lei, che nemmeno ricambiava i suoi sentimenti. Per lei, maledetta lei, testarda, impulsiva, coraggiosa, onesta, giusta e pura, così buona e pura, così ingenua, intelligente, bella, altruista, integra e coerente. Così coerente con se stessa da continuare a voler fare di testa sua, da volerlo salvare.
Idiota, ecco cos’era stato, un colossale stupido a pensare che annullando il matrimonio e tagliandola fuori da ogni cosa l’avrebbe salvata. No, così facendo l’aveva spronata a gettarsi a capofitto nella tana del lupo. Era così imprevedibile da destabilizzarlo ogni santa volta, gli faceva venire una tale voglia di imprecare da fargli male fisicamente.
I suoi pensieri furibondi e vorticosi trasparivano dalla mascella contratta, dal ticchettio secco delle scarpe sull’asfalto, dalle lunghe falcate che lo portavano a percorrere quelle strade vuote, con l’eco come unico compagno e testimone del suo avvicinamento.
Matematica. Logica. Tutto vano, tutto buttato alle ortiche. Avrebbe dovuto immaginarlo, quello ingenuo era lui. Povero illuso. Nell’ordine naturale delle cose, se A è fonte di B, e B è un problema, bisogna eliminare A. A era Ofelia, B era quell’insieme di ricatti, minacce, sotterfugi e illusioni che avevano come epicentro lui e lei. Lui. E. Lei. Ergo il loro matrimonio. Eliminando A, cioè Ofelia, B sarebbe crollato. Ma con Ofelia non funzionava così. Sarebbe stato troppo facile.
Ofelia si era gettata su B come un’amante, ecco cosa aveva fatto. Lui li aveva separati, aveva seppellito il problema, lo aveva arginato, l’aveva messa in salvo, e lei aveva deciso di sua spontanea iniziativa di ignorare il buon senso, di prendere e scappare per risolvere un enigma che non la riguardava nemmeno più.
Scosse la testa e imprecò di nuovo, accelerando l’andatura, quando un minuscolo brandello di pensiero misto a speranza fece breccia nel suo cervello già sovraccarico: lui aveva salvato lei condannando se stesso; e se lei avesse agito per lo stesso motivo? Per salvare lui? Impossibile. Illogico. Ofelia non gli doveva nulla, non erano nemmeno più fidanzati.
Non lo amava. Anche qualcosa di più.
Dannata la sua impulsività, aveva capito fin da subito che quella fidanzata gli avrebbe causato problemi. In tutti i sensi immaginabili, non per ultimo in ambito sentimentale. Desiderava odiarla con tutte le forze, così tanto da sentire gli artigli, tesi allo spasimo, rivoltarsi quasi contro di lui, contro il suo odio per se stesso, un individuo che non sarebbe mai stato amabile, specialmente da una creatura come Ofelia. Erano sui piatti opposti della bilancia, non avrebbe mai funzionato per loro.
Perché si rincorrevano in quel modo, allora?
Desiderava odiarla. Voleva odiarla. Gli stava facendo passare le pene più infernali che avesse mai conosciuto.
Quindi perché quando entrò dalla porta di quell’orribile e fatiscente Immaginatoio immorale e perverso si sentì sollevato sentendo la sua voce, viva, calda? Perché il suo cuore accelerò, nonostante fosse stato tranquillo e pacato durante la camminata folle? Perché diamine lei continuava a torturarlo in quel mondo, scombussolandolo, mettendo a soqquadro se stesso e tutte, tutte le sue convinzioni?
Perché l’amava così tanto da provare un dolore fisico reale e divorante?
E perché l’amava così tanto da fargli venire voglia di bruciare ogni cosa nell’udire il suono del tonfo di un corpo al piano di sopra, di un osso che si spezzava, il suo urlo di agonia, il suo dolore?
Imponendosi di calmarsi, nonostante all’esterno il suo viso non lasciasse trasparire la benché minima emozione, prese un profondo respiro e placò il vortice che aveva nella testa, preparandosi alla battaglia. Salì le scale in silenzio, furtivo, dono che aveva perfezionato nel tempo e sapeva che gli sarebbe tornato utile un giorno.
Il barone Melchior stava premendo Ofelia contro il sudicio parquet nel corridoio, sovrastandola con la sua rivoltante pancia grassa, torcendole malamente il braccio dietro la schiena in un’angolatura innaturale. La scena era già di per sé macabra e sbagliata, profondamente sbagliata, ma ciò che lo turbò più di tutto, più dell’osso rotto, di quella serpe viscida sopra Ofelia, di quel posto putrescente e ammuffito, erano le lacrime di Ofelia. E il suo silenzio, senza un lamento, mentre sopportava il dolore stoicamente. Non si sarebbe mai arresa, era una guerriera, in ogni ambito della sua vita, familiare, matrimoniale, sociale. Nessuno avrebbe mai potuto metterle i piedi in testa, imporle qualcosa contro la sua volontà.
Quanto sbagliato era stato il giudizio affrettato che le aveva dato su quell’aeronave che li aveva portati al Polo, alla vigilia del loro incontro! Non supererete l’inverno. Era lui quello che non avrebbe mai superato indenne uno scontro con lei. Mai avrebbe potuto immaginarlo.
Si impose di ignorarla dopo aver salito le scale ed essersi trovato in piedi di fronte ai due, sul pianerottolo. Non poteva guardarla: gli serviva mantenere il controllo sulla sua voce. Quella scena non lo scalfiva. Non gliene importava. Non lo riguardava. Doveva convincersene. Solo così avrebbero potuto uscirne indenni.
Il barone appariva destabilizzato, era un bene. L’effetto sorpresa giocava a suo vantaggio.
La voce gli uscì limpida quando spiegò come aveva fatto a trovarli, perché era lì. Fu una provvidenza che avesse evitato di guardare Ofelia, perché il suo volto, quando il barone la costrinse ad alzarsi facendo leva sul braccio rotto, era una maschera di dolore: lacrime, capelli, sorpresa, tutto si mischiava su quel viso solitamente serio ma sereno. Non poteva guardare. Già il solo notare come la pancia orrendamente prorompente di quel burattino di corte premeva sulla schiena di Ofelia era disgustoso e disturbante. Che quelle sue mani sudicie stessero toccando lei…
Doveva distrarsi. Mentre disquisiva con il barone, prendendo tempo, controllò l’ambiente discretamente, ma non sembrava che ci fossero complici: questo avrebbe semplificato notevolmente le cose. Le parole grondanti bugie e false promesse del barone non lo scalfivano nemmeno, Thorn rispondeva meditando attentamente su cosa dire, ma non lasciava che i vuoti vaneggiamenti dell’avversario si depositassero e intaccassero la sua mente.
Sentì una fitta viscerale pungerlo come uno dei suoi artigli quando disse che non era più fidanzato con Ofelia. Per quanto fosse vero, per quanto l’avesse fatto per salvare lei, faceva male. Avrebbe sopportato qualsiasi dolore pur di metterla in salvo.
- Discutiamo la faccenda fra noi, solo voi e io, che ne dite?
Ecco dove voleva arrivare. Il barone sembrava compiaciuto e soddisfatto, ma non ottemperò alla sua richiesta. Ofelia rimaneva premuta contro di lui, il braccio rotto dietro la schiena, le mani dell’uomo a mantenerne il controllo. Tuttavia, non poté impedire alla proposta del barone riguardo alla sua Memoria e al Dio che serviva di solleticare la sua curiosità. Si stava sbottonando, quel burattino, rivelando chi servisse e da chi ottenesse quel potere e quelle informazioni.
Thorn si mostrò interessato, finse di cadere nel suo tranello, era l’unico modo per non destare sospetti di alcun genere. Lo assecondò. Si alleò con lui. Avrebbe fatto di tutto pur di togliere Ofelia da lì, da quella posizione, da quell’impiccio.
Per questo intrise la voce di ogni piccola particella di serietà e convinzione quando, rispondendo al barone, disse che incontrare Dio era il suo più grande desiderio. A giudicare dalle occhiate che Ofelia gli rivolgeva, o tentava di rivolgergli, dato che lui stette ben attento a non incrociare i suoi occhi, doveva essere stato convincente. Fin troppo convincente, forse, nel palesare il suo disinteresse nei confronti dell’ex fidanzata.
Quando il barone insinuò che avrebbero dovuto sbarazzarsi di Ofelia, che aveva visto e sentito troppo, nonostante gli anni di rigido contenimento a cui aveva sottoposto il suo corpo, nonostante la calma apparente che dimostrava sempre, nonostante dentro gli infuriasse la tempesta, e nonostante il controllo che riusciva ad esercitare su di sé, non poté impedire al suo labbro di contrarsi.
Per questo si passò l’indice sul labbro inferiore: per tentare di coprirne il tremore. Lo sguardo sconvolto di Ofelia, che notò brevemente prima di spostare i suoi occhi da un’altra parte, dimostrava che era stato convincente, ma questo non lo faceva stare meglio. Voleva urlare, per una volta nella sua vita voleva perdere il controllo, sottrarre Ofelia alle grinfie di quel maledetto depravato e stringerla a sé, baciarla, quasi con violenza, non lasciarla mai più andare.
Invece l’aveva dissuasa che non contasse nulla per lui, glielo leggeva in volto. Maledetta lei, maledetto lui, maledetti tutti. Perché non capiva?!
Eppure la sua voce rimase implacabile, gelida come un blocco di ghiaccio, senza la minima emozione quando suggerì di modificarle la memoria, invece di ucciderla. Un ottimo compromesso per lasciare in vita lei, affinché non si macchiassero di omicidio, e per uscirne puliti, senza ombra di dubbio alcuno sui loro maneggi.
Avrebbe voluto tirare un sospiro di sollievo quando vide un guizzo di comprensione negli occhi della diretta interessata. Finalmente. Si ritrovò a benedire la sua curiosità e la sua sete di conoscenza, che all’inizio lo avevano tanto infastidito, ma l’avevano spinta, non molto tempo prima, a Sabbie d’Opale, ad interrogarlo sulla sua Memoria, il dono degli Storiografi, di cui condivideva il sangue e il patrimonio genetico e mnemonico. Lei sapeva che non poteva in alcun modo fare ciò che si stava proponendo di attuare come soluzione. Doveva capire quanto lui non volesse il suo male. Tutt’altro. Era lì per lei, non era mai stato presente per nessuno, non si era mai dato la briga di aiutare qualcuno, eppure in quel momento era lì; non solo in quel momento, oltretutto, aveva messo a rischio la propria vita diverse volte pur di salvaguardare lei, di proteggerla. Le avrebbe sempre fatto da scudo, con il proprio corpo, se fosse stato necessario.
Sperava che finalmente lo avesse capito.
Con sollievo, un sollievo divorante che mascherò a malapena, vide il barone riportare il braccio di Ofelia alla posizione naturale, ponendo fine allo strazio. Lo stomaco gli sussultò di disgusto quando lo vide farle il baciamano. Disgusto e gelosia. Non voleva che quelle orrende e sporche mani la toccassero un istante di più, ma non poteva muoversi, o si sarebbe svelato, facendo cadere la messinscena in già precario equilibrio che aveva architettato.
Voleva che il barone sparisse. Voleva spalancare le braccia e stringere Ofelia, mentre questa si avvicinava a lui con passo incerto, l’espressione non del tutto sollevata, leggermente spaventata e confusa. Lei non aveva mai paura, e vedere il suo volto intimorito gli fece esplodere dentro una rabbia cocente e violenta come non l’aveva mai provata. Era sicuro che gli artigli lo avrebbero straziato e dilaniato da dentro se avessero avuto effetto sul suo stesso sistema nervoso. Fortunatamente non era così, ma a volte il dolore serve a schiarirsi i pensieri e la mente annebbiata, riportando ogni cosa alla giusta prospettiva.
L’importante era che Ofelia fosse viva, che stesse bene. Poterla riportare a casa, nelle braccia della sua famiglia, anche se ciò che desiderava più di tutto era che lei scegliesse le sue, di braccia, per essere consolata e rassicurata.
Che illuso. Un doppio illuso, dal momento che qualcosa andò storto.
Ofelia si irrigidì, prima di tutto, cominciò a sbattere le palpebre freneticamente e una mano corse ad artigliarsi il petto, afferrando la stoffa come a volerla strappare. Il respiro accelerò, lei barcollò.
Thorn la prese per le spalle, la strinse così forte da rischiare di ferirla, ma non importava né a lui, né a lei, che sembrava in preda all’agonia e di certo non badava alla morsa delle sue dita.
- Che le avete fatto?
Si meravigliò delle parole che avevano lasciato spontaneamente la sua bocca. Non credeva di essere in grado di parlare, data la situazione. In seguito alla nefasta verità che il barone gli mise davanti, svelando la natura di quel baciamano mortifero e maledetto, Thorn sentì Ofelia scivolargli tra le dita, in tutti i sensi possibili e immaginabili, e rimase ad osservarla impotente per un attimo, prostrata sul pavimento, inerme. Si stringeva le braccia al petto come per cercare di tenere uniti i pezzi di sé, che stavano sfuggendo al suo controllo. Eppure non emetteva un rantolo, l’unico suono percettibile era il suo respiro spezzato e stentato.
Thorn avrebbe voluto rubarle quella sofferenza. Avrebbe sopportato dieci volte quella tortura, centinaia di volte se fosse stato necessario, pur di non veder agonizzare in quel modo, languire come la fiammella morente di una candela.
Poteva tollerare tutto, ma non quello.
Per la prima volta nella sua vita la paura gli ghermì il petto come gli artigli di un qualche uccello rapace, lancinante e intollerabile. Come la sua calma apparente, incontrollabile. Ogni riserbo, ogni autocontrollo svanì.
Snudò gli artigli come fa una bestia con le zanne, rivelando la sua vera natura, quella che ripudiava, che si rifiutava di vedere, che non voleva vedere e che non aveva mai voluto, ma che era parte di lui come la Memoria: la parte assassina. Le dita del barone caddero a terra con piccoli tonfi sordi e il tintinnio degli anelli, facendo sgorgare dai moncherini sangue scarlatto come la sua ira divampante.
Si potevano contare sulle dita di una mano le volte in cui aveva fatto ricorso a quell’arma odiosa, i suoi artigli, il suo stesso sistema nervoso, e per la prima volta, la prima e unica volta, ringraziò di averli, li accolse, li canalizzò, li accettò come una salvezza, una benedizione. Li sentiva muoversi accanto a lui come prolungamenti dei suoi arti, della sua stessa pelle, bramosi di sangue e di devastazione, pronti ad infliggere ciò che il suo cuore solitamente indifferente stava provando. Bruciando.
- Annullate l’illusione.
Il ringhio di una belva, di un omicida, la voce stessa della morte, dell’odio e del disprezzo. Il gemito della disperazione più profonda. Ofelia peggiorava di secondo in secondo e tutto ciò che voleva da Melchior era un consenso, un’accettazione, un annullamento di quella diabolica e mortifera illusione.
Più i discorsi insensati e i balbettii sconnessi di Melchior aumentavano, più ribolliva il sangue nelle vene di Thorn. In qualche occasione gli era capitato di vedere gli occhiali di Ofelia cambiare colore, solitamene sul tono del blu slavato e del grigio esangue, ogni tanto anche del rosa tenue, e si chiese se ad Ofelia fosse mai capitato di vederci rosso come lui in quel momento. Se le sue lenti si fossero mai tinte di sangue, carminio e denso, così intenso da renderlo quasi cieco.
In un attimo gli fu davanti, afferrando Melchior per il bavero, avvicinando quella rivoltante faccia grassa e sudata al suo viso spigoloso mentre sibilava ancora, con la voce dell’odio e della morte: - Annullate l’illusione!
Vide il braccio del barone scattare, sentì qualcosa sfiorargli la guancia, ma non poté prevenire il colpo, di cui non sentì il benché minimo effetto su di sé. Lo sfarfallio delle ali di una falena, ecco cos’era stato. La sua attenzione, di solito acuta e totale, quasi eccessiva, era troppo influenzata dal suo stato d’animo alterato, e non aveva visto arrivare quel colpo irrisorio che tuttavia era andato a segno. Ma non commise lo stesso errore due volte.
Quando il braccio scattò di nuovo per colpirlo, dopo alcune parole senza senso e importanza sputacchiate dal barone, Thorn gli mozzò il resto delle dita della mano sana, facendo cadere anche il bastone con cui aveva intenzione di offenderlo.
Thorn lo mollò e lo osservò mentre barcollava contro la balaustra precaria e instabile, implorando, pregando, supplicando che il legno marcio cedesse sotto il peso di quel corpo inutilmente grasso. Arrischiò uno sguardo verso Ofelia, che osservava la scena in silenzio, per quanto gli permettesse il respiro rantolante, ma Thorn notò che il suo campo visivo si stava stringendo, che dietro gli occhiali la vista si stava offuscando. Forse non stava guardando affatto.
- Annullate l’illusione! – ordinò per la terza volta, smanioso di urlare ma incapace di farlo.
Non ascoltò la risposta insignificante del barone. Percepì solo la sua orrenda risata, sbagliata, e il suo corpo reagì autonomamente. Era consumato da artigli, odio, rabbia, paura e struggimento, il tutto alimentato dall’amore per quella donna che stava morendo ai suoi piedi.
Gli calciò la pancia adiposa e ingombrante, facendolo precipitare di sotto. Sperando con tutto se stesso di averlo ucciso.
Ne diede per scontata la conferma e si voltò verso Ofelia, che aveva gli occhi strizzati e il volto esangue. Si inginocchiò accanto a lei in un battito di ciglia, terrorizzato perché il respiro era ancora accelerato e il viso pallido. Perché non si stabilizzava subito? Perché ci voleva così tanto? L’illusione era sparita con Melchior, il creatore, quindi perché Ofelia ci metteva tanto, troppo, a riprendersi?
Rimase accanto a lei per un’eternità, adeguando il respiro al suo, desiderando toccarla, stringerla, sgridarla, scuoterla dalla rabbia, baciarla. Diamine, se voleva baciarla. Avrebbe dato la vita per lei. Per il suo amore avrebbe dato molto di più.
Il sangue si raffreddò nelle sue vene, gli artigli si ritirarono e il suo cuore si placò mentre le stava vicino, timoroso di toccarla, notando i piccoli cambiamenti che avvenivano il lei: le gote che riprendevano colore, il sangue che diminuiva la richiesta di ossigeno, il cuore che si assestava, riacquisendo pian piano un ritmo accelerato, non forsennato, e poi naturale, forse solo leggermente più veloce del normale.
In Thorn, prosciugato, rimase solo desiderio. Al di là del livore, dell’acredine, della paura che gli aveva lasciato un orribile gusto in bocca, voleva lei. Voleva toccarla, voleva fisicamente unirsi a lei, strappare i vestiti che indossavano e stringerla così forte da farla entrare dentro di sé, assorbirla. Solo quello avrebbe placato il suo tormento. Mai aveva provato una cosa del genere in vita sua, un bisogno così sconfinato e travolgente di un tocco, di pelle, di calore, di umanità. Erano cose che lo disgustavano. I contatti umani gli avevano solo portato dolore, ne erano la prova le cicatrici che indossava come un abito. Ma Ofelia non gli avrebbe mai fatto del male.
La desiderava con impetuosità, necessità, angoscia, dolore.
L’amava come non avrebbe mai amato nessun altro.
Quando finalmente Ofelia riaprì gli occhi, raddrizzandosi e mettendo a fuoco l’ambiente circostante, Thorn non resistette più. Le scostò i capelli folti e ribelli che le nascondevano il volto accaldato, per poterla vedere meglio; le tolse gli occhiali, desiderando che anche lei lo guardasse senza ostacoli, iridi contro iridi, anima contro anima. Le scrutò le pupille, che seguirono il suo movimento, rassicurandolo. Poi le prese il mento tra le dita, stringendo forse più forte del necessario, per impedirsi di attirarla a sé e baciarla; glielo girò da una parte e dall’altra, sollevato che i suoi occhi lo seguissero con scioltezza, senza difficoltà.
Questo non allentò la morsa della paura e dell’angoscia su di lui. Stava stringendo la mascella tanto forte da sentire lo scricchiolio dei denti, aggrottando la fronte tanto da sentire un solco scavarsi tra le sopracciglia. Del resto, meglio quello che saltarle addosso, o cedere e afflosciarsi, svuotato di ogni energia. La tensione nervosa lo teneva in vita, in forze, seppur una forza malsana. La rabbia gli artigliava ogni nervo del corpo.
Cercò di non far caso alla preoccupazione dipinta sul volto di Ofelia. Il suo sguardo puntava dritto alla sua guancia, quella colpita dal barone Melchior, un innocuo taglietto. Eppure lei sembrava quasi più spaventata da quello che dalla sua stessa condizione, più provata dalla rabbia che lui mascherava a stento che dal rischio di morte che aveva accarezzato fino a pochi istanti prima. Possibile che fosse davvero più interessata a lui che a se stessa? Anche se in lei c’era qualcosa che minacciava di esplodere, lo percepiva, la sua angustia era rivolta a lui.
Imprevedibile, avventata e incosciente.
Dovette prendere lui la parola, costringendo la sua mandibola a muoversi, per assicurarsi che stesse davvero bene: - Il cuore?
Bastarono i suoi balbettii, la sua calda e pacata voce spezzata per mandarlo in frantumi. Senza nemmeno lasciarle finire i suoi borbotti rassicurativi, ogni centimetro del suo corpo si fiondò su di lei, fagocitandola nel primo abbraccio della sua vita, intrappolandola tra le sue braccia, cercando di tenerla insieme, affinché rimanesse intera. Non si rendeva conto che in realtà, in quella morsa, stava cercando di tenere insieme se stesso, per evitarsi un tracollo.
La sentì trattenere il respiro, ma non oppose resistenza. Rimase rigida contro di lui, presa alla sprovvista. Era così piccola che probabilmente, premuta contro di lui, non vedeva altro che oscurità. Solo in quel momento si rese conto del battito erratico del suo cuore, frettoloso e disorientato, che gli rimbombava nelle vene e nella testa, coprendo ogni pensiero. Come se l’illusione di Melchior fosse passata da Ofelia a Thorn, uccidendo lentamente lui. Lei aveva l’orecchio premuto proprio contro il suo petto, perciò l’aveva sicuramente percepito. Chissà cosa stava pensando in quel momento. Era calma, troppo calma. Chiunque sarebbe caduto in stato di choc istantaneamente. Lei invece si stava quasi facendo cullare da lui.
Sollevato com’era, non poté trattenersi. Non sopportava quel silenzio, era una sua prerogativa, non di Ofelia. Lei avrebbe dovuto parlare, come sempre. Prese il suo posto per quell’unica volta. – Quando vi ho detto che avevate una predisposizione naturale alle catastrofi non era un invito a dimostrarmelo.
Un tentativo di alleggerire l’atmosfera; una frase, purtroppo vera, che avrebbe dovuto suscitare in lei una reazione. Qualsiasi reazione sarebbe stata bene accetta: una spinta e uno schiaffo, che avrebbe accolto come una carezza, una risata addirittura, come se non fosse successo nulla e loro non fossero circondati dal sangue di un cadavere.
Non si aspettava il pianto. Ma del resto, Ofelia era umana, anche se tendeva a dimenticarlo, e lo stato di choc aveva solo tardato qualche secondo. Scossa da profondi singhiozzi, in preda ad un pianto isterico, Ofelia si aggrappò a lui, lo strinse a sé, quasi percependo il suo bisogno di averla più vicina, nonostante i loro corpi aderissero in ogni punto. Le braccia di Thorn si irrigidirono, rispondendo alla sua sorpresa di fronte a quella reazione, e le sue orecchie accolsero le sue grida liberatorie come una ninna nanna.
Liberati, liberati, liberati, avrebbe voluto sussurrarle. Forse lo fece, e lei non sentì, forse non lo pensò nemmeno, e quelle parole venivano in realtà da qualcun altro. Magari dallo stesso luogo profondo e inaccessibile da cui venivano le urla di Ofelia, un posto così remoto da far sembrare distante la sua voce, che si perdevano nell’aria dissolvendosi, come se non fossero nemmeno esistite, purificandosi dal male che le aveva generate.
Thorn non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato, quante lacrime Ofelia avesse versato, se i tremiti che la sconquassavano fossero dovuti al pianto, alla paura o al freddo. Sapeva solo che non voleva guardare l’orologio, voleva che il tempo si fermasse, stringerla ancora un po’, lasciare che continuasse a bagnargli la camicia e tirare su col naso. Voleva stare lì con lei, in quel posto ovattato e nascosto al resto delle Arche, come due naufraghi alla deriva, in attesa che Ofelia tornasse da lui.
A poco a poco i suoi gemiti si placarono, lasciando solo il silenzio a tener loro compagnia, insieme a qualche sporadico singulto e respiro tremolante.
- Volevo aiutarvi. Ho rovinato tutto.
La voce di Ofelia era roca e fragile, attutita dal suo petto, ma gli fece accelerare il cuore. Poco male che lei lo sentisse, non aveva più nulla da nascondere. Il suo corpo era sincero, lasciava trapelare senza vergogna quei sentimenti che non era mai in grado di dimostrare, che non lasciava mai prendere forma sul suo viso.
- Avete rimpianti? Io no.
Forse avrebbe voluto che quell’abbraccio avvenisse in circostanze diverse. Che lei avesse sempre bisogno di lui, non solo quando rischiava una morte imminente e lacerante. Ma non era un rimpianto di cui intendeva metterla a parte. Non lì, non in quel momento.
La sentì addossarsi la colpa di tutto, di ogni gesto, parola, pensiero che li avevano portati dove si trovavano, accusandolo di essersi preso sulle spalle un peso insostenibile, a causa sua. Non si rendeva conto che, proprio perché se n’era preso carico per causa, quel peso era sopportabile. Anche qualcosa di più.
Impacciato, si rese conto che le sue mani non si muovevano con la certezza e la comprensione che lui aveva dei propri sentimenti. Erano quasi spaventate, timide mentre le sfioravano i riccioli setosi, intricati quanto lei, la nuca calda e le spalle tremanti, gracili, al contrario delle sue. Era così indifesa, ancora aggrappata a lui come un neonato alla propria madre, come ci si aggrappa al corrimano di una scala insidiosa e ripida, con disperazione, abbandono, incertezza. Sembrava che ogni sua percezione si fosse acuita, rendendogli fin troppo eloquente il modo in cui il suo corpo morbido aderiva al suo, senza far nulla per scostarsi. Senza imbarazzo, o schiaffi di circostanza.
Sembrava che lei avesse capito qualcosa che a lui sfuggiva, accettato il fatto che erano lì insieme, che lui l’aveva salvata.
Thorn liberò delle parole che non aveva mai pronunciato in vita sua, parole di contrizione, parole che uscirono balbettando, esitando, sommesse e in borbottii. La sua eloquenza era addestrata per discorsi tecnici e burocratici, di certo non per formulare scuse o esprimere stati d’animo. Forse perché prima di lei non c’era stato niente del genere, dentro di lui. Niente. Aridità e gelo, sferzati da odio e repulsione per se stesso.
A seguito di quelle sue strascicate parole, sentì qualcosa cambiare. Ofelia si rilassò contro di lui, quasi impercettibilmente, premendo ancora di più la testa contro il suo torace ossuto, rinsaldando la presa sulla stoffa che indossava, come se avesse preso una decisione.
O l’avesse accolta, dopo averla respinta per tanto tempo.
Qualunque cosa fosse, sperava che non l’allontanasse da lui. Non voleva illudersi, sapeva che un singolo momento, sebbene più intimo di qualsiasi unione fisica, non avrebbe cambiato la visione che Ofelia aveva di lui, non l’avrebbe spinta ad amarlo. Ma non gli importava. Voleva solo vivere e morire in quel momento, mentre la imprigionava tra le sue braccia, lenendo quel desiderio consumante che si era impossessato di lui, appagando con un semplice contatto, e il calore del suo corpo vivo, il bisogno che aveva di lei.
E poi, ovviamente, lo sorprese nuovamente.
Gli chiese chi era Dio. Tra tutte le domande che poteva fare, le azioni che poteva compiere, gli scenari immaginabili, Ofelia voleva sapere tutto della conversazione che Thorn aveva avuto con il barone Melchior. Non si smentiva mai.
La sua voce riprese il tono normale e distaccato mentre disquisiva con lei di politica, di intrighi, con una donna, la donna che gli era stata scelta come moglie. Quale donna del Polo avrebbe mai potuto, o voluto, sostenere una conversazione del genere? Solo lei ovviamente, la cui sete di conoscenza quasi eguagliava la sua, ed era forte in lei quanto la sua compassione ed empatia.
Troppo presto la sentì staccarsi da lui, distratta da quella maledetta ed irrequieta sciarpa. Si allontanò senza incrociare il suo sguardo, si rimise gli occhiali e prese subito una decisione, formulando un piano.
Avrebbe voluto trattenerla, vivere in quell’istante per sempre, senza nemmeno curarsi della camicia bagnata che gli aderiva al corpo, poco piacevole come sensazione. Invece doveva concentrarsi. Pianificare. Organizzare. Di certo non poteva lasciare che Ofelia decidesse di testa sua, non dopo tutto quello che era accaduto.
- Non c’è più un “noi” – si costrinse a dire, implacabile e apatico come sempre, nonostante quella piccola frase lo facesse morire dentro.
Le illustrò il piano, quello sensato, lungimirante e obiettivo, come se stesse discutendo una decisione amministrativa sulle derrate alimentari anziché sulla sua resa e conseguente condanna certa. La vide aprire diverse volte la bocca per intervenire, per interromperlo e opporsi, ma non gliene lasciò l’occasione.
Alla fine del suo discorso, fece una cosa che non aveva mai fatto. Mai in vita sua.
Le chiese un parere. No, non un parere, molto di più. Le chiese di rispettare una sua decisione.
Lui era la legge. Lui era i numeri della contabilità del Polo, veritieri, trasparenti, logici e innegabili. Lui si faceva obbedire. Nessuno aveva mai potuto obiettare un suo verdetto e uscirne vincitore, nessuno la scampava dopo essersi opposto. Tutti obbedivano a ciò che lui non chiedeva, ordinava. Ofelia, questo lo aveva capito ancora meglio di quanto avesse compreso quanto ormai fosse perso per lei, anteponeva sempre il libero arbitrio a tutto il resto. Lui era il cervello e lei il cuore, lui era il piano e lei l’azione. Lui era l’odio e lei era l’amore. Lui la dannazione, lei la liberazione.
Le chiese il permesso.
Le chiese. Il. Permesso.
Era l’unico modo per assicurarsi che si attenesse a ciò che lui si proponeva. Non imporle la decisione, ma darle la possibilità di scegliere di rispettarla, facendogli un favore. Si trattava di un favore.
- La rispetterò – sancì lapidaria infine, dopo un lungo silenzio.
Il cuore di Thorn sprofondò del tutto nell’oscurità, come se fosse stata lei, e non lui stesso, a decidere di consegnarlo alla giustizia. Come se non si fosse condannato da solo, non quando aveva ucciso il barone Melchior, bensì prima, quando aveva rotto il fidanzamento e annullato il matrimonio, forse l’unica cosa che si fosse reso conto di desiderare in quella vita.
Tuttavia, una scintilla di speranza continuava a fargli battere quel cuore nero in petto, come una fiaccola morente in un tunnel buio, dove regnavano le tenebre e la luce perdeva la battaglia: il suo viso, cocciuto mentre pronunciava quelle due parole.
Cocciuto, amareggiato, triste. Dimesso.
E tuttavia, non rassegnato.
Mai rassegnato.

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Capitolo 5
*** Non vi amo ***


Buongiorno a tutti, eccomi qui a tediarvi. Quello che ho scritto è basato sul capitolo La stazione di Fidanzati dell'Inverno, Libro 1, pagine 419-431.
L'intento era quello di descrivere solo la scena tra Ofelia e Thorn in cui lei lo ripudia e gli rivela di non amarlo, ma ci sono scappati in mezzo pure Godefroy e Freya, non invitati, e ho dovuto inserirli.
Sempre dal punto di vista di Thorn, ormai mi ci sto affezionando. Spero solo di non averlo fatto troppo confuso perché l'ho reso così confuso a causa dei propri sentimenti che alla fine mi sono confusa anche io e ne è uscita una lotta tra me, lui, la vendetta e l'amore e insomma, una gran confusione.
Avrei un favore da chiedere: se avete piacere, solo se avete piacere, mi aiuterebbe molto capire quale stile preferite, se capitoli narrati da Thorn (4 e 5), non detti e non narrati (cap 1), digressioni quotidiane (cap 2) o scorci di vita con flashback e approfondimenti (cap 3). E se ne preferite uno in particolare, su quale argomento vorreste che scrivessi. Oppure quale scena del libro vorreste sviscerare. Non garantisco di riuscire ad accontentare tutte le richieste, purtroppo se una cosa non viene da me faccio fatica a scriverla, però potreste darmi degli utilissimi spunti o farmi notare qualcosa che al momento mi sfugge.
Altrimenti continuo per la mia strada sperando di rendervi meno ardua l'attesa fino al 15 giugno *sclera*.
Grazie mille dell'attenzione e del fatto stesso che siete qui^^ Buona lettura (spero)


5. Je ne vous aime pas

Odiava quella serata. Quel caos. Quella calca di corpi pressati tra loro come se fosse normale invadere lo spazio personale altrui, come se fosse addirittura apprezzabile e consigliato. Non si sarebbe trattenuto un minuto in più di quanto aveva pattuito per non dare adito a screzi o malintesi, o peggio ancora, offese di natura non specificata ma che a corte spuntavano come funghi. Si sarebbe mostrato ai presenti, così che nessuno potesse avanzare la pretesa di dire che Thorn non si era presentato al rinfresco post-spettacolo, e se qualcuno non avesse fatto in tempo a fermarlo per poter parlare con lui, tanto peggio per quella persona: lui c’era, sarebbe stato quell’individuo ad essere stato troppo lento. 
Così, faceva buon viso a cattivo gioco. Ergo, stava in silenzio, sovrastando gli altri, e sfruttando la sua altezza per evitare i conoscenti da cui più di tutti voleva tenersi lontano. Lanciava occhiate torve in giro per tutta la sala, sempre sul chi-va-là, temendo un abbordaggio da volti illustri ed indesiderati, rifiutando di mescolarsi alle conversazioni. Peccato che, per quanto lui le rifuggisse, quelle anime in preda ai fumi dell’alcol e all’eccitazione dello spettacolo sembravano interessate a parlare con lui, e lui soltanto. Soprattutto per rimostranze, celate dietro sorrisi falsi e melensi che diventavano parole intrise di fiele quando i lamentatori erano certi di avere la sua attenzione. 
Stava ancora cercando di liberarsi di tre panciuti ometti che si auguravano che la caccia fosse fruttuosa quando intravide Ofelia, o meglio, Mime il valletto, avvicinarsi per porgergli un calice di champagne. L’insofferenza verso quegli uomini che avevano bisogno più di un digiuno che di una caccia abbondante fu sostituita dallo sconcerto, che mascherò dietro un semplice sopracciglio sollevato. E il suo cuore gli balzò speranzosamente in petto, ma quello nessuno lo avrebbe mai saputo, per quanto lui stesso ne fosse irritato. La sua fidanzata turbava il meccanismo di pompa di quell’organo così preciso e meticoloso, avrebbe dovuto cercare di regolarlo. O regolare se stesso ogniqualvolta si trovava in sua presenza. 
Notando lo sguardo insistente del valletto, per quanto potesse esserlo quella maschera di inespressività, Thorn afferrò il calice e congedò quella massa di uomini ciccioni e strizzati dentro le redingote che avevano bisogno di essere allargate. Avrebbe fatto stilare una legge che prevedesse obbligatoriamente indumenti di una taglia in più per coloro che superavano una certa soglia di eccesso ponderale, così da evitare inutili feriti a causa di bottoni saltati da giacche e camicie troppo strette e sparati a velocità folle contro gli occhi di qualcuno. 
Preda di quei pensieri da funzionario diligente, si voltò con l’intento di allontanarsi dalla sala, sperando che il valletto alle sue spalle lo seguisse. Non poteva permettersi di girarsi per appurarlo, perché qualcuno avrebbe sicuramente notato il suo interesse per un semplice e indegno domestico, ma contava sulla capacità di Ofelia di leggere tra le righe. Il suo intento era quello di guidarla verso la hall del teatro, dove poi avrebbero potuto… 
Non portò a termine il pensiero. Tra tutti gli invitati con cui poteva intrattenersi, che aveva evitato e che non aveva potuto ignorare, si imbatté proprio nei due con cui non voleva avere nulla a che fare. Mai più. 
Freya e Godefroy. I fratellastri. 
Nonostante i riflessi pronti e gli artigli che saggiavano delicatamente l’aria come dei termometri, alla ricerca di minacce, non vide arrivare l’enorme mano di Godefroy, che lo urtò talmente violentemente da fargli rovesciare lo champagne che teneva in mano. 
Così come il suo cuore era stato lesto a svegliarsi e agitarsi alla vista di Ofelia, seppur mascherata, fu rapido anche a congelarsi e sprofondare nell’abisso in cui quelle due serpi avevano costretto Thorn a nasconderlo. Per proteggersi. Per evitare di soffrire ancora, come loro avevano fatto soffrire lui. Per non provare più affetto, per nessuno, perché quel sentimento caduco ed effimero innalzava la persona per poi abbatterla senza pietà quando l’illusione svaniva e il velo si spezzava. 
Provare affetto per qualcuno, legarsi a qualcuno, portava solo sofferenza. 
Non voleva pensare a Ofelia in quel momento. 
Sentì lo stomaco annodarsi quando Godefroy lo chiamò “fratellino”. Forse un tempo lo era stato, un fratellino, con tutte le connotazioni positive che quell’appellativo recava con sé. Ma non lo era più. Non lo era decisamente più da anni. 
Godefroy lo apostrofò come un vecchio amico il cui ritrovo dissipa la nostalgia, ma Thorn non era così tonto da lasciarsi raggirare. Sapeva bene che, dietro i modi camerateschi, ciò che provava Godefroy era in tutto e per tutto identico a quello che grondava dagli occhi predatori di Freya: odio. Disprezzo. 
Desiderio di violenza, di cui portava l’evidenza sulla pelle. 
Ciò che voleva meno al mondo era intrattenersi con loro, a parlare di nulla, ma non poté fare a meno di correggerli entrambi quando pretesero di sapere da quanti anni non si vedevano tutti e tre insieme. Non cinque, non quindici, ma sedici. Sedici, un mese e cinque giorni, per l’esattezza. Thorn ne aveva appena compiuti otto quando finalmente avevano deciso di sparire dalla sua vita. E non gli erano mai mancati. 
Il suo intento era quello di non lasciarsi coinvolgere, di starsene lì immobile e zitto finché si fossero stufati e allontanati. Lui non poteva attaccarli essendo un bastardo che sarebbe stato accusato a prescindere in caso di violenza, ma nemmeno loro avevano libertà d’azione a quel rinfresco. 
Tuttavia, non poté fare a meno di irrigidirsi quando Freya alluse velatamente ad un incidente di caccia per Berenilde. Nonostante il contegno e l’apatia che si era imposto, lo sforzo che stava facendo per non lasciar trapelare il suo fastidio nei loro confronti, Thorn non si trattenne dal restituire a Freya la sua stessa occhiata, solo più intensa: odio. Disprezzo. Dieci volte più espliciti e chiari, alimentati dal ricordo delle cinquantasei cicatrici che gli avevano inferto, che in quel momento, una a una, sembravano pulsare per ricordargli cosa quelle due Bestie gli avevano inflitto. 
Anche Freya sembrò ricordarsi di quei marchi, i marchi da bastardo, perché gli ricordò che lui non poteva prendere parte alla caccia. Lui, da parte sua, avrebbe voluto ricordarle che lui amministrava e gestiva tutto il denaro del Polo, varando leggi economiche e apponendo il veto alle decisioni finanziarie, il che comportava un potere e una responsabilità enorme che non prevedevano il rischio di morte da parte di Bestie appena uscite dal letargo. Lui non si sporcava le mani. Ma stette zitto, senza ribattere come un adolescente che non sa mordersi la lingua, soprattutto sapendo che la sua ripicca non era inattaccabile: serve a poco contabilizzare le spese se non c’è cibo che sfami chi fa girare l’economia. 
Fortunatamente Freya si allontanò e Thorn si augurò di non vederla per altri sedici anni. Anche qualcosa di più. Del resto, il sentimento era reciproco. 
Godefroy, d’altro canto, sembrava in vena di chiacchiere amene tra fratelli, come se non lo odiasse. Era quella la cosa che più di tutti l’aveva ferito: aveva ammirato Godefroy, il fratello maggiore bello e prestante, simpatico, carismatico, affascinante, capace di farti sentire importante e portarti in palmo di mano, ma che sapeva distruggerti con altrettanta facilità. Come ti innalzava, Godefroy non ti faceva inciampare, ti faceva precipitare. Ti scaraventava via. 
Era più pericoloso di Freya, che era solo un fuoco di paglia, impulsiva e senza discernimento. Godefroy era un pianificatore, un calcolatore. Il cacciatore migliore. 
Thorn prestò poca attenzione alle confidenze del fratellastro circa il nuovo aborto della moglie. Gliene fregava poco. Non poté però evitare di essere punto sul vivo dalle sue insinuazioni circa la famiglia che di lì a qualche tempo avrebbe formato con Ofelia. 
- Compatisco la donna che dovrà vedere la tua lugubre faccia ogni mattina. 
Invece di pensare alla provocazione, pensò alla veridicità di quella frase. Avrebbe voluto lanciare un’occhiata alla diretta interessata, dietro di sé, ma si trattenne. Per lui non era una cattiva prospettiva quella di svegliarsi ogni mattina con il viso di Ofelia davanti, per quanto avrebbe desiderato di poter affermare il contrario. Non si illudeva certo che lei morisse d’amore per lui, ma forse avrebbe tollerato di buon grado il suo viso. Di mattina. Nel loro letto… 
Si impose di concentrarsi sull’individuo sadico ma di scarso acume che aveva accanto. 
- Una faccia lugubre che hai decorato a modo tuo – gli rispose, intridendo ogni sillaba di veleno e acredine. 
Perché era vero. Non avrebbe avuto quella tre cicatrici a definirgli la pelle del volto se Godefroy non l’avesse sfregiato. Così come non avrebbe avuto le altre cinquantatre sparse per il resto del corpo. 
Godefroy se ne andò dopo un’ultima stoccata cui Thorn non diede peso. Non voleva continuare la conversazione, e quell’uomo muscoloso e privo di sagacia pensava che avere l’ultima parola sancisse la vittoria in un dibattito. Non aveva capito che la meglio in una discussione ce l’ha chi non ribatte di fronte ad un avversario di indubbia inferiorità intellettuale. Inoltre, rispondergli avrebbe solo protratto quel supplizio, invece lui voleva solo andarsene. 
Mormorò brevemente un’indicazione a beneficio di Ofelia, sperando che l’avesse sentito, e si incamminò verso l’atrio. Si diresse al guardaroba, vuoto, ma non potevano parlare in quella stanza, rischiavano troppo. Se qualcuno fosse entrato, avrebbe visto parlare il valletto muto. Orecchie indiscrete erano sempre in ascolto dietro l’angolo, pronte a carpire i fatti loro. E non potevano avere… intimità, lì. 
Scacciò il pensiero e si avvicinò al suo armadio. Condusse Ofelia attraverso alcune rose dei venti, e quando fu certo che nessuno li aveva seguiti si fermò nella stazione abbandonata che nessuno frequentava in inverno. Si affrettò ad accendere una lampada a gas per illuminare l’ambiente. Poi si avvicinò ad una stufa mentre rispondeva alle domande di Ofelia. Sempre domande, non si esaurivano mai, e lui aveva finito con l’abituarcisi. Odiava che le persone gli ponessero quesiti, sia quando espletava le sue funzioni di intendente che quando non praticava, di qualsiasi natura, personale o di altro genere. Le domande di Ofelia invece lo incuriosivano, lo aiutavano a capire cosa le passasse per la testa, dal momento che era una persona di così difficile interpretazione, diversa da chiunque avesse mai incontrato. 
Ofelia tremava visibilmente, quando parlava le battevano i denti, così si affrettò ad accendere la stufa in ghisa che avrebbe almeno dovuto ridarle un po’ di calore. A lui quel freddo non dispiaceva, lo aiutava a schiarirsi le idee. Era impietoso e inesorabile, il freddo. Catartico. Solitario. Lo faceva sentire vivo. Gli sembrava di essere parte del freddo stesso, perché ne riconosceva la natura: il freddo imperversava anche dentro di lui. Erano spiriti affini. 
- Siamo fuori da Città-cielo? 
Siamo soli. Siamo in un posto dove siamo soli, tu e io. Lontani dal mondo. – Ho pensato che qui non ci avrebbe disturbato nessuno. 
Thorn non era un individuo romantico, rifuggiva le smancerie e non aveva idea di cosa fosse un corteggiamento. A dire il vero, aveva represso la sua natura stessa di uomo, il bisogno umano di calore e affetto, e di una compagna. Tutte cose, necessità, che Ofelia aveva risvegliato in lui. Che gli aveva fatto scoprire. 
Quindi non fu il romanticismo a farlo rabbrividire impercettibilmente di aspettativa, ma la possibilità. Di toccare Ofelia, in quel luogo abbandonato in cui esistevano solo loro due. Toccare per la prima volta un essere umano, lui che aborriva i contatti fisici. Sentire la sua pelle calda sotto le dita… 
Baciarla. 
Maledetta lei che lo aveva scombussolato, il suo orologio interiore non segnava più l’ora così precisamente come aveva sempre fatto, giorno dopo giorno. Ecco perché si affidava così tanto al suo orologio da taschino: era reale, fisico, materiale. Concreto. Vero. Lo aiutava a concentrarsi, gli ricordava chi era e dov’era. Con Ofelia dimenticava persino di essere un bastardo. Come se potesse essere qualcosa di diverso, con lei. 
Ofelia continuava ad incalzarlo con le domande, a cui lui rispondeva senza nemmeno guardarla. Il desiderio tenue che mulinava impazzito dentro di lui si stava accendendo come il fuoco della stufa, e rivolgere lo sguardo a lei sarebbe stato deleterio, anche se indossava i panni di un uomo. Bastava la sua voce a farlo sragionare. Non poteva permettersi errori. 
Si accovacciò di fronte alla stufa finalmente accesa e Ofelia si avvicinò con le mani tese verso la fonte di calore, come aveva previsto, con le piccole e sottili dita avvolte nel guanto da lettrice. La posizione scomoda gli permetteva di rimanere lucido, e l’essere più in basso di lei, per una volta, lo aiutava a tenere gli occhi fissi di fronte a sé, senza cercare il contatto con i suoi, dietro la livrea, dietro gli occhiali, giù per la sua anima. 
Sarebbe volentieri rimasto in quella posizione, in quel silenzio rassicurante, cullato solo dallo scoppiettio dei ciocchi di legno, dalla presenza di Ofelia accanto a sé. Ma non poteva rimandare a lungo quella conversazione, e non gradiva rimanere sulle spine. Sperava che Ofelia avesse buone notizie, ma ne dubitava. Raramente ne aveva. Nella maggior parte dei casi erano notizie foriere di sventura e grattacapi che toccava a lui sbrogliare. Temeva per la sua incolumità, e paventava una confessione circa un’ulteriore violenza infertale. Non avrebbe sopportato oltre quel trattamento nei suoi confronti, non un singolo capello torto. E aveva paura che lei stesse per cedere, per dirgli che non aveva più forze, che lo odiava e odiava tutto ciò che lui rappresentava, che la costringeva a subire. 
Per quanto lo desiderasse, non credeva che Ofelia volesse parlare di sentimenti. Non positivi, almeno. Per cui cacciò con forza quelle vane e vacue speranze nelle nere profondità della sua anima disillusa e ruppe il silenzio. 
- Volevate parlarmi. Vi ascolto. 
Fu così che scoprì che Ofelia voleva metterlo a parte dello stato malinconico e depressivo della zia. Dall’incredulità passò alla stizza: tra tutti gli argomenti di cui avrebbe potuto parlare, quello era forse il più futile ed irrisorio che avrebbe mai potuto tirare fuori. A parte il fatto che della salute della signora Roseline gli interessava poco, gli pareva ridicolo che Ofelia avesse messo a rischio la sua copertura per rivelargli la condizione emotiva della vecchia zia. Assurdo e insensato. 
O forse era perché si aspettava un qualche tipo di confessione o ammissione? Scacciò quel pensiero con ancora più irritazione e rispose alla preoccupazione di Ofelia a denti stretti.  
Non era nulla di importante. Si rifiutava di accettare il fatto che lei gli avesse discretamente chiesto di appartarsi per parlare di una simile quisquilia. Toccava a lui dare spessore al loro incontro. 
- Anch’io devo parlarvi. 
Le ordinò, anzi, le richiese di potersi occupare di sua zia Berenilde, di vegliare su di lei e di trattenerla affinché non partecipasse alla caccia del giorno successivo. Era da incoscienti, e fortunatamente aveva ottenuto da sua zia la rassicurazione che non vi avrebbe preso parte, ma da quando l’interno clan dei Draghi le aveva fatto visita prima dello spettacolo lei aveva cambiato idea. Doveva onorare le tradizioni di famiglia. O meglio, doveva mostrarsi all’altezza delle aspettative. Per quanto il senso di appartenenza di Berenilde a quella famiglia fosse labile e sottile, ci teneva a fare bella figura, e si ripeteva sovente che era comunque la sua famiglia, con le sue tradizioni, le sue abitudini e i doni che le avevano permesso di arrivare dov’era in quel momento. Berenilde era una mosca bianca sotto molti aspetti: preferiva la vita di corte a quella isolata dei Draghi, e si era presa cura di Thorn con affetto quando lo stesso padre Vladimir lo aveva condannato e ripudiato, insultato e sbeffeggiato. Non avrebbe avuto problemi a dire la sua e opporsi alle decisioni di fratelli, zii e nipoti, ma in quel frangente lei non voleva farlo. Il fatto stesso che si azzardasse a dire la sua e pensare con la propria testa la rendeva una minaccia: l’indipendenza e il distaccamento erano sempre una minaccia. 
E Thorn aveva bisogno che Ofelia la trattenesse, che la sorvegliasse e le impedisse di compiere una simile sciocchezza. Perché lui percepiva che c’era qualcosa sotto, e non aveva alcuna intenzione di perdere la sua protettrice. 
La donna che lo aveva cresciuto come un figlio, nonostante fosse un bastardo e un disonore. Non poteva perderla. 
Quando finì di discuterne con Ofelia, rimase in silenzio a fissare il fuoco crepitante dentro la stufa. Ad un tratto intuì che lei aveva altro da chiedere, come suo solito, e sentì i suoi occhi sul volto, che lo scrutavano. Che gli osservavano le cicatrici, traendo le dovute conclusioni. 
Di sicuro la mettevano a disagio, la disgustavano. Avrebbe voluto cancellarle solo per lei, perché potesse vedere oltre quelle linee bianche intrise di dolore, vedere lui. Si ingannava da solo, ma in cuor suo sapeva che non sarebbe stato uno bello spettacolo ciò che Ofelia avrebbe potuto vedere, con o senza cicatrici. 
Alla fine, finalmente, lei mise fine all’attesa. – Non mi avete mai parlato di vostra madre - mormorò con un filo di voce, quasi intimidita eppure curiosa, incapace di trattenersi. 
Lui non era altrettanto condiscendente. La domanda lo fece trasecolare, facendogli montare dentro un turbine di emozioni in modo così inaspettato che fece fatica a domarlo. E come sempre, quando si trovava messo alle strette dai suoi pensieri e dai suoi sentimenti, reagì con rigidità. Parole taglienti e modi rudi, gesti secchi e toni freddi. Perse definitivamente il controllo della propria apatia e della calma di facciata quando Ofelia insistette con quella vocina labile sempre sul punto di spegnersi come una fiammella con un colpo di vento. 
- Né io né voi la conosceremo mai. Non avete bisogno di sapere altro. 
Ofelia tacque dopo quell’intimazione implicita, quel troncamente del discorso, e Thorn ne rimase sorpreso. Solitamente non lo ascoltava, continuava imperterrita per la sua strada. Che l’avesse offesa con il suo tono decisamente troppo brutale in quella circostanza? 
Non voleva che si offendesse. Non voleva che pensasse male di lui, o che lo vedesse sotto una cattiva luce. Non voleva che chiudesse del tutto la conversazione e se ne andasse, lasciandolo lì da solo, com’era sempre stato. 
Voleva averla al fianco ancora per un po’, con la sua presenza che lo riscaldava più di quanto stesse facendo quella vecchia stufa congelata. 
La guardò con intensità, conscio di non essere riuscito a nascondere del tutto la preoccupazione e il nervosismo nei suoi occhi. 
– Mi esprimo male. È colpa di questa caccia... – si costrinse a mugugnare quando riebbe ottenuto il controllo di sé ed ebbe accantonato il pensiero della madre che lo aveva abbandonato in un angolo oscuro del suo cervello. Con Ofelia, aveva notato, dire la verità era sempre la scelta migliore. La fidanzata, oltre che a leggere con le dita, sembrava capace oltremisura di leggere le persone, con le loro inclinazioni, i toni di voce e le intenzioni. Soprattutto le intenzioni. E capiva meglio di chiunque altro quando qualcuno mentiva. Lui non le aveva rivelato tutta la verità circa il matrimonio e i suoi piani, e forse un giorno la cosa gli si sarebbe ritorta contro, però in quel momento non voleva pensarci. Voleva essere onesto, per lei. - La verità è che sono più preoccupato per voi che la signora Roseline. 
Continuò a fissarla, a cercare di carpirne i pensieri, mentre lei non fiatava, consapevole di avere il suo sguardo addosso, che ricambiava con la coda dell’occhio, come indecisa su cosa rispondere. Ofelia era preoccupata per la zia, e lui lo era per lei. Voleva che lo sapesse, perché ciò che lei provava nei confronti della zia era ciò che lui provava per lei. Il medesimo sentimento, solo rivolto a persone diverse e in modi diversi. 
Fu quando Ofelia riavvicinò le mani alla stufa che Thorn si accorse di una macchiolina sul suo guanto. Il fuoco che gettava su di loro ombre sinistre e cupe non serviva a rischiarare l’ambiente come la luce del sole o una lampada, eppure Thorn seppe indubbiamente che quella macchia era sangue. L’indecisione lo divorava, eppure non poteva ignorarlo. Sangue che apparteneva a lei, con ogni probabilità. 
Si fece forza per allungare il lungo braccio e afferrarle il polso, con goffaggine, non avvezzo ai contatti. Non restò sorpreso dallo scoprire che in realtà la sensazione che derivava dal toccare lei era del tutto diversa da quella che provava per qualsiasi tocco umano in generale: non era disgusto, ripugnanza o uno spiacevole ricordo che veniva evocato, ma tepore, fragilità e una fugace ed effimera promessa. Una speranza. Ofelia aveva il polso sottile sotto le sue dita, così tenero da poterlo spezzare senza fatica. Chissà se tutte le donne erano così. Di sicuro non tutte gli ispiravano quel senso di protezione e possessività che gli trasmetteva lei. Anzi, nessuna, tranne lei. 
- C'è del sangue sulla vostra mano. 
A giudicare dalla sua reazione, quello sul guanto era veramente sangue, il suo sangue, e nemmeno lei si era accorta di averlo perso. Né ne conosceva la fonte. Thorn non la perse d’occhio, quasi non batté le palpebre, quando lei si tolse il guanto e portò la mano nuda verso il viso. 
Il viso. Era divorato dall’angoscia, che non trapelava da nessuna parte del suo corpo eppure imperversava come una tempesta dentro di lui. 
Poi la vide rimettersi il guanto come se niente fosse, nonostante il sangue fresco e l’evidenza di una ferita fresca da qualche parte sotto quella pelle fasulla e posticcia. 
- È stata vostra sorella. C'è andata giù un po’ pesante. 
Ovunque passasse, quella donna lasciava cicatrici e desolazione. Era stata in grado di ferirlo ancora una volta, in modo addirittura involontario, senza alzare nemmeno un dito su di lui. Del resto, ormai Ofelia era diventata il suo punto debole. Doveva proteggerla, a costo di lasciarsi infliggere altre cinquanta cicatrici. Senza emettere un lamento. 
Irrigidito dalla preoccupazione, turbato e spaventato all’idea che Ofelia gli stesse nascondendo la reale entità del colpo che le era stato inferto, Thorn si alzò e svettò su di lei, guardandola dall’alto, per avere sotto controllo ogni cosa. Aveva la mascella contratta quasi dolorosamente, per trattenere quel tumulto che solo Ofelia, anche se indirettamente, gli scatenava dentro. 
- Vi ha aggredita? 
- Poco fa, al ricevimento. Nono sono stata abbastanza rapida a sgombrare il passo. 
Thorn percepì chiaramente il sangue defluirgli dal viso, lasciandolo pallido e sconcertato. Ofelia aveva rivelato l’attacco come se niente fosse, come una cosa di poco conto. E lui, da parte sua, come poteva dire di volerla proteggere se non era in grado di farlo nemmeno quando lei era a pochi passi da lui? Ofelia era costantemente lontana, fuori dalla portata dei suoi occhi vigili, ma veniva colpita a prescindere. Era come se qualcosa o qualcuno si fosse accanito contro di lei da quando era arrivata al Polo, nonostante tutti i suoi tentativi di nasconderla e tenerla al sicuro. 
Non era in grado di proteggere nessuno. Era atterrito e deluso da se stesso. 
- Non lo sapevo. Non me ne sono accorto... 
Era la prima volta che il controllo gli scappava così grossolanamente da indurlo a parlare da solo, in un soffio di stupore e orgoglio ferito. 
- Non è niente – rispose Ofelia, minimizzando con il chiaro intento di tranquillizzarlo. Nemmeno a lei era sfuggita la sua alterazione. 
- Fatemi vedere. 
Non gli servivano parole. Doveva vedere la realtà dei fatti con i suoi occhi, l’estensione della ferita, la profondità, la natura stessa di ciò che a lui era sfuggito. Notò la rigidità di Ofelia, ma la imputò al freddo che provava. Non stavano facendo nulla di sconveniente, lui doveva assolutamente accertarsi che stesse bene e non stesse nascondendo in realtà un colpo più grave del previsto. 
- Vi dico che non è niente – gli rispose infatti, meccanicamente, spingendolo ancora di più a voler scavare per capire cosa fosse successo. 
- Lasciate giudicare a me. 
- Non tocca a voi giudicare! 
Sorpreso, Thorn la osservò in silenzio, a corto di parole. Non si aspettava quel rimbrotto da parte della fidanzata; la resistenza sì, l’aveva prevista, ma non l’acredine nella sua voce. Mescolata a stanchezza e ad una punta di esasperazione. 
Aveva alzato la voce con lui. Non aveva mai assistito ad una scena del genere con lei, che parlava sempre piano, con voce pacata e quasi atona. Lo aveva preso in contropiede. La sorpresa venne presto mascherata da un’espressione distaccata, impassibile, ma dentro di lui albergava un cattivo presentimento. 
- E a chi altro dovrebbe toccare? - domandò infatti, teso, temendo il peggio. 
Lei era la sua fidanzata. La sua futura moglie. Non sapeva come funzionavano le relazioni, ma di una cosa era certo: la salute e l’incolumità della propria compagna erano prerogativa del marito. Anche la valutazione dei danni. Quindi perché esitava? Si sarebbero sposati entro breve. Non stavano accelerando i tempi o facendo qualcosa di oltraggioso, ma lei doveva permettergli di... 
- Ascoltate. Vi sono riconoscente di volermi proteggere e vi ringrazio per il sostegno che mi offrite, ma c’è una cosa che dovete sapere di me. 
Gli occhi di Thorn si assottigliarono. Vedevano solo lei, la sua difficoltà nel parlare, il suo disagio. E la sua determinazione a rilasciare quella confessione a lungo trattenuta, nonostante non fosse nella sua indole dire certe cose. Thorn si rese conto in un istante che erano sulla stessa lunghezza d’onda, che i loro pensieri erano gli stessi: sarebbero diventati marito e moglie, legati per la vita, quindi lui era legittimamente autorizzato ad accertarsi che lei stesse bene, a prendersi cura di lei. Sì, i pensieri erano gli stessi, ma non i sentimenti. Mentre lui nutriva qualcosa di sconosciuto e profondo, divorante, per lei, Ofelia non lo provava minimamente. E Thorn, che si era voluto illudere per tutto quel tempo, crogiolarsi nella fantasia di un matrimonio conveniente non solo per ciò che avrebbe politicamente ottenuto, vide il suo castello di carte crollargli addosso. Sapeva cosa stava per dirgli Ofelia. 
E il suo cervello, per una volta, si fermò, in stallo, in attesa del colpo, ricettivo. 
- Non vi amo. 
Io sì. 
Quando si riebbe, e vorticanti pensieri e sensazioni gli invasero di nuovo il cranio sguazzando nella sua materia grigia, afferrò l’orologio da taschino e consultò l’ora per assicurarsi di essere reale, che tutto quello che lo circondava fosse reale, anche se sperava dal profondo del cuore che non lo fosse. Si era permesso di staccare i piedi da terra per provare ad allungarsi e toccare il cielo, sognare, ma non avrebbe più commesso lo stesso errore. Non poteva più permetterselo. 
Le tre parole di Ofelia erano categoriche; la grammatica era come la matematica: il senso di una frase era uno, non poteva essere manomesso e reinterpretato a piacimento.  
Non vi amo. Era un valore assoluto. Non una stasi temporanea, una condizione momentanea, era un fatto. Una verità. 
Non vi amo. Non posso amarvi. Non vi amerò mai. 
Eppure, rigido come uno spaventapasseri, teso fino allo spasimo, si inginocchiò metaforicamente di fronte a lei. Alla ricerca di una flebile speranza, di una possibilità. Di un perché. 
- È per colpa di qualcosa che ho detto... o non ho detto? 
Non voleva guardarla. Non voleva cogliere la miriade di espressioni che sfrecciavano su quel viso così incapace di nascondere i propri pensieri. Stringeva l’orologio, tangibile, osservava lo scorrere immutabile del tempo, unica certezza in quel luogo isolato e fuori dal mondo. Eppure, se l’avesse guardata, si sarebbe ricordato che con indosso la livrea da valletto il volto di Ofelia non era visibile, nascosto da un’espressione neutra e distante. Ma non se lo ricordava. La sua tensione, però, quella la percepiva, a ondate, e gli faceva male come una marea di artigli. 
- Non è colpa vostra. Vi sto sposando perché non ho scelta, ma non sento niente per voi. Non condividerò il vostro letto e non vi darò figli. Mi dispiace. Vostra zia non ha scelto la persona giusta per voi. 
Thorn chiuse l’orologio di scatto, stizzito. Berenilde. Sua zia gli aveva fatto dono di quell’orologio. Sua zia aveva scelto la persona giusta per lui. 
L'unica giusta. L'unica possibile. 
Era stato lui, come al solito, a tradire la sua fiducia e rovinare tutto. Ofelia era perfetta. Il matrimonio era perfetto, con i benefici politici ed economici che avrebbe comportato. L’unica variabile, si rese conto, era lui. E il risultato dell’equazione era impossibile. Perché lui era sbagliato. Lui non andava bene. Lui non sarebbe nemmeno dovuto nascere, cosa si aspettava? 
La tensione di Ofelia era come gli artigli dei familiari, sì, ma lo ferivano di più. 
Il suo dispiacere era sincero, lei era desolata, e proprio perché la sua onestà era così evidente, le sue parole lo ferivano di più. 
Il suo tono era sommesso, pacato, come se tentasse di rabbonire una Bestia, ed era per questo che lo feriva maggiormente. 
Ofelia non lo amava. Non lo avrebbe mai amato. 
Lui non era amabile. Non lo sarebbe mai stato. 
Si infuriò con se stesso, si odiò, si maledisse. E riversò la sua acredine su di lei, che non aveva colpe. Eppure era la causa di tutto. Un esserino così piccolo, così insignificante, gli aveva rovinato la vita. E peggio di tutto, lo aveva illuso. 
Gli tornò in mente la sensazione che aveva provato alla vista di Godefroy e Freya. Ripensando fugacemente al loro passato insieme, aveva ribadito a se stesso che l’affetto, quel sentimento caduco ed effimero innalzava la persona per poi abbatterla senza pietà quando l’illusione svaniva e il velo si spezzava. 
Provare affetto per qualcuno, legarsi a qualcuno, portava solo sofferenza. 
Come aveva potuto pensare che con Ofelia la cosa sarebbe stata diversa? Si era infatuato di lei, no, peggio, si era innamorato, e quel sentimento era stato calpestato come un piccolo bocciolo, non ancora pronto a sbocciare con fulgore, e già tranciato. 
La odiò profondamente. In fin dei conti, le persone erano tutte uguali, che fossero nobili o poveri, o nati su arche diverse. La meschinità era ciò che le comandava, e sarebbe sempre stato così. 
Sul suo viso calmo non trapelò nulla. Almeno le sue emozioni e i suoi pensieri dovevano rimanere suoi, e suoi soltanto. Era un intendente, come tale doveva comportarsi. Si sedette sulla panchina, un po’ scostato da lei, incurvato dal peso delle spiacevoli rivelazioni acquisite. 
Pragmatismo. Legislazione. Causa ed effetto.  
Causa ed effetto. Dichiarazione di non ottemperanza ai doveri coniugali per mancanza di amore? Causa. 
Effetto? - Stando così le cose ho il diritto di ripudiarvi, ne siete consapevole? 
Quella era l’ultima spiaggia. Forse Ofelia non sapeva che, stando così le cose, con le sue affermazioni lui poteva rescindere il contratto matrimoniale e condannarla. Non si sarebbero salutati pacificamente con una stretta di mano e un addio: lei sarebbe stata disonorata. A vita. Aveva ancora una possibilità di non lasciar naufragare il matrimonio, perché dubitava che lei conoscesse di preciso a quali conseguenze sarebbe andata in contro. A giudicare da dove veniva, da quel luogo così fantasioso e indulgente, non aveva idea dell’inferno che avrebbe passato. 
Invece Ofelia annuì lentamente, come se ammettere che sapeva a cosa si era condannata le costasse fatica. Preferiva l’esilio a lui. Preferiva il ripudio. Preferiva il disonore. 
Thorn la odiò. E desiderò farle provare ciò che stava provando lui. Aveva fatto tutto il possibile per metterla in salvo, per provvedere ai suoi bisogni, per essere... umano. E quello era il risultato. Un risultato impossibile. 
Stando così le cose... 
- Volevo parlarvi in tutta onestà. Sarei indegna della vostra fiducia se vi mentissi su questo punto. 
Perché quella donna minuscola continuava a lacerargli il cuore? Avrebbe voluto strapparselo dal petto pur di non sentirlo più battere e sanguinare. Ofelia gli parlava di onestà e fiducia, ma lui avrebbe preferito violenza e silenzio. Tornare al passato, alla cicatrice numero uno, e poi alla due, e alla tre, fino alla cinquantaseiesima, perché il dolore fisico era assai più sopportabile di quello mentale. 
Però, per quanto lei avesse seppellito ciò che di positivo, per una volta nella vita, Thorn si fosse concesso di provare, non poteva lasciarla andare. Non poteva lasciare che soffrisse, che si distruggesse per una scelta del genere. 
Non poteva lasciarla andare. Non poteva. 
Come ultima ragione, gli venne in mente che lei gli serviva. Le sue mani, il suo dono gli serviva, ma lui non voleva ignorare la sua dichiarazione per quello. Voleva ignorare la sua dichiarazione perché una vita senza quel tornado che calamitava catastrofi gli era impensabile. 
E poteva fargliela pagare. Dopo tutto quello che lui aveva fatto per lei, Ofelia non voleva stare al suo fianco? Allora lui l’avrebbe sposata, legandola a sé con un giuramento, una cerimonia e la protezione della legge. Per tutta la durata delle loro vite. Se ne infischiava dei sentimenti. 
Con le dita premute l’una contro l’altra, curvo su se stesso, ruppe il silenzio. - In questo caso farò finta di non aver sentito. 
Un sospiro. - Thorn, non siete obbligato... 
Il matrimonio era un obbligo, un obbligo che lei non voleva rispettare. Che non osasse accennare agli obblighi! L’ira trasparì dalla sua voce, mischiata al suo dolore. - Certo che lo sono. Avete idea della sorte che viene riservata agli spergiuri, da queste parti? Credete che vi basti scusarvi con me e mia zia per tornare a casa vostra? Qui non siamo su Anima. 
Finalmente la portata della sua pericolosa ammissione sembrò colpirla. Era in trappola, e lui era la sua gabbia. Il suo carnefice e il suo salvatore insieme. La condannava ad una vita con un uomo che non amava, e la salvava da un’esistenza peggiore della morte, ripudiata, disonorata, maltrattata. O peggio. 
Thorn si raddrizzò, le si avvicinò, e incatenò i suoi occhi in tempesta a quelli di lei, sotto la livrea da valletto, dentro la sua anima. L’innegabile istinto di protezione che lo legava a quella donna lo fece parlare quasi controvoglia. - Non ripetete a nessuno quanto mi avete detto, se tenete alla pelle. Ci sposeremo come convenuto. Poi, affé mia, la questione riguarderà solo noi due. 
Noi due. Lui e lei, marito e moglie. Gli sembrava una giusta punizione. Eppure sentiva una specie di rimorso. Si rese conto con sgomento che compativa quella giovane donna, quella ragazza, che era stata costretta a condividere il suo destino. Che colpa ne aveva lei? 
Voleva allontanarsi. Si raddrizzò del tutto. Il matrimonio si sarebbe celebrato lo stesso, quello era un castigo sufficiente, anche se lei non se lo meritava. 
Si intimò di essere egoista. Aveva un piano da portare a termine. Lei gli serviva. Punto. Era solo una vittima malcapitata, tutto lì. 
E per quanto odiasse lei, se stesso, la situazione, avrebbe cercato di renderle la vita più serena possibile, con libertà e concessioni. Non gli importava più, aveva solo ghiaccio dentro di sé, e paura. Paura di diventare un essere spietato e vendicativo, come la metà violenta dei suoi familiari. Lui non era così. 
Odiava essere così indeciso, così in confusione, provare quella marea di emozioni incontrollabili e insensate, cambiare idea così tante volte. Cercò di focalizzarsi: matrimonio, lettura, riabilitazione. Fine. Ofelia era solo un variabile di poca importanza, necessaria ma non decisiva. Il piano era il fulcro. 
- Non volete saperne di me? Non ne parliamo più! Non desiderate marmocchi? Perfetto, io li detesto. Sparleranno alle nostre spalle, poco male. 
Lui non feriva gli altri, non infliggeva dolore volontariamente. Ofelia aveva tutti i diritti di non amarlo. La sua furia incosciente e la sua delusione infondata derivavano da un errore che lui aveva commesso: la speranza. Raccoglieva tempesta da tutta una vita, cosa mai poteva essere un amore non corrisposto? Non era mai stato corrisposto da nessuno, non era certo una novità. 
Avrebbe fatto il possibile per accontentarla, povera malcapitata il cui unico sbaglio era stato quello di essere brava a gestire il proprio potere familiare. 
Thorn non poté vedere le emozioni sul suo viso, coperto com’era dall’illusione di Mime, ma percepì ogni cosa nella sua voce: - Mi dispiace... 
Colpa, tristezza, gratitudine, stupore. Desolazione. Accettazione coatta. 
Rassegnazione. 
Le scoccò un’occhiata intransigente, celando la pietà che provava. Per lei. 
- Aspettate a scusarvi. Rimpiangerete presto di avermi come marito. 
 



 
 
Non era una minaccia. 
Era un dato di fatto. 
Lui era un errore. La sua vita di privazioni e isolamento lo dimostrava. 
Avrebbe dovuto compatire se stessa, Ofelia, non lui. Perché era lei quella condannata a vivere attaccata a lui, sotto il suo stesso tetto, per tutta la vita. 
L'avrebbe rimpianto come marito allo stesso modo in cui lo rimpiangeva come fidanzato. E lui avrebbe rimpianto di non poterle dare ciò che lei meritava: la felicità. Perché una vita con lui era l’antitesi della gioia. 
E si odiò per questo. Perché l’amava, ma ciò che poteva offrirle era solo quello, se stesso. 
Un ammasso di pietosi sentimenti non corrisposti che lo avevano ridotto ad un relitto. Un reietto. 
Un essere non amabile. 
Mai. 

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Capitolo 6
*** Tre giorni ***


Eccomi qui! Premetto subito che il capitolo è stato scritto dietro "richiesta" di Cheodionicknam, Tati Saetre, Carla_995 e in piccola parte di Drastoria47, per la quale rispetterò meglio la richiesta nel prossimo capitolo^^ Grazie per avermi espresso la vostra preferenza, è stata molto utile.
Il capitolo si basa sulle pagine 250 in poi del libro terzo, La memoria di Babel, capitolo Spaventapasseri, quando Ofelia incontra Thorn.
Ho cercato di rendere come ho potuto la vita di Thorn lì al Polo, i suoi pensieri e le sue abitudini, ricostruendo uno scenario ipotetico (spero che sia anche coerente) sulla base di queste informazioni:
- Thorn odia il fatto che Dio tenga sott'occhio Ofelia. E' la ragione per cui Ofelia lo vede sempre in tensione: Thorn prova una rabbia divorante per Dio
- Nel volume 4 c'è una parte, non vi faccio spoiler eh, in cui Thorn fa riferimento alla sua mania di lavarsi le mani, che ho un pochino trattato qui
- Nel capitolo Thorn pensa spesso ad Ofelia e questo fatto non è incongruente con la sua personalità se valutiamo il fatto che alla fine del libro terzo lui dice di non volere mezze misure, e che nel corso della storia più volte le chiede se ha qualcosa da dirgli: Thorn è un uomo e come tale vorrebbe starle vicino in quel senso. Quindi la pensa. Spesso (a mio parere)
Spero di aver giustificato in parte ciò che leggerete, e che la mia visione non si discosti troppo dalla vostra.
Grazie mille a tutti in anticipo.


6. Trois jours

Thorn attese pazientemente, contando automaticamente i secondi che passavano. La sua Memoria comportava anche questo: l’eccessiva attenzione al dettaglio, il calcolo della misura di ogni superficie che incontrava, lo scandire automatico e insito dello scorrere del tempo. O forse era una sua peculiarità, estranea agli Storiografi?
Thorn non lo sapeva, e non lo avrebbe mai saputo. A chi poteva chiederlo, lì, nella stanza dell’Ordinatore, al Memoriale, a Babel? Non avrebbe potuto chiederlo nemmeno a qualcuno del Polo, a dire la verità. Per un istante, un fugace secondo, s’immaginò in una conversazione superficiale e frivola con i suoi cugini da parte di madre, gli stessi che lo avevano attaccato a Sabbie d’Opale, al circo, una vita prima. Con…
Era ovvio che non avrebbe mai potuto fare domande circa il suo potere familiare ai suoi parenti. Non aveva mai potuto chiedere nulla a nessuno, nella vita, e aveva imparato a sbrigarsela da solo, a non contare su nessuno se non su se stesso, ad essere indipendente. Tutte le volte che aveva cominciato a fare affidamento su qualcuno, quel qualcuno era sparito o lo aveva tradito, ferito. E la persona che più di tutte desiderava rivedere…
Scosse la testa. Due anni, otto mesi e ventun giorni erano trascorsi da quando si era dato alla fuga, con una gamba ridotta in pezzi e il cuore straziato.
Irritato con se stesso, si alzò di scatto. Non voleva pensare a quelle cose. Non doveva pensare a quelle cose. Non poteva permettersi distrazioni. Aveva una missione, uno scopo, un obiettivo, e il tempo che scorreva inesorabile era agli sgoccioli.
Mosse le dita infilate nel guanto d’arme pesante e protettivo per portarle al taschino dove per undici anni, due mesi e cinque giorni aveva risieduto stabilmente il suo orologio, come una parte del proprio corpo. Poi gli sovvenne che il regalo di sua zia non si trovava più lì da quando lo aveva ceduto a…
Avrebbe voluto dire, avrebbe tanto voluto affermare che lei gli tornava in mente solo quando, distratto, si accingeva a prendere un orologio che non c’era, ricordandosi in quel momento che lo aveva lei. Ma sarebbe stata una bugia. A Thorn lei tornava in mente ogni giorno, ogni ora, spesso ogni minuto, più di quanto avesse voglia di ammettere o riuscisse, lui con la sua Memoria portentosa, a ricordare. Solo quando si concentrava sull’Ordinatore non la pensava, ma nel momento in cui si staccava lei arrivava di soppiatto e reclamava la sua attenzione prepotentemente. Attribuiva tutta la colpa, ancora, alla sua Memoria, che gli impediva di dimenticare, facendogli rivivere nitidamente ogni istante trascorso con lei. Anche in quel caso però, non aveva nessuno a cui chiedere conferma dei suoi sospetti. Le persone col tempo dimenticano. Lui no. Fortunatamente, perché ricordare era l’unico sprone per continuare ad avanzare, lavorare per proteggerla, e per poterla rivedere, un giorno. Solo, ovviamente, nel caso in cui anche lei si fosse ricordata di lui.
Mano a mano che indugiava in quei pensieri futili e devianti il suo umore peggiorava. Si tolse i guanti, posandoli sul banco di lavoro dove la macchina taceva, in attesa di ricevere o spedire ordini. Era una macchina utile, doveva ammetterlo, ma ancora non abbastanza performante. Il margine di miglioramento era ampio, troppo ampio, e in quei due anni gli sembrava di aver fatto meno progresso di quanto avrebbe voluto. I Genealogisti attendevano.
Assicuratosi che nessuno gli avesse effettivamente spedito nuovi riferimenti, traduzioni o annotazioni, e che quindi era tempo per lui per riposare, si allontanò in uno sferragliare metallico che gli feriva le orecchie. Ci aveva fatto l’abitudine, ormai, a quella sottospecie di protesi, ma la sua presenza lo disgustava, rammentandogli ciò che un tempo era e non sarebbe più potuto essere. In quel momento era uno storpio. In quel momento e per il resto della sua vita. Non c’era alcuna possibilità di guarigione, la sua gamba era stata distorta troppo malamente perché potesse tornare ad essere quella di un tempo.
Arrivato in fondo alla stanza aprì la porta della sua stanza, adiacente alla sala da lavoro per praticità e risparmio di tempo. Oltretutto, lo disturbava dover percorrere lunghi tragitti in quelle condizioni menomate. Non era certo per un motivo di ego: sapeva che tutti, quando camminava, lo guardavano, lo additavano e chiacchieravano, ma quella non era mai stata una novità. Lo avevano soprannominato “automa”, un appellativo che, paragonato a quelli che gli avevano propinato al Polo, era persino lusinghiero. Decisamente meno sprezzante di “bastardo”. Ma non era quello il problema. Tollerava i commenti altrui, gli scorrevano addosso senza scalfirlo; era il suo giudizio che non accettava. Il supplizio di sentire l’armatura scricchiolare, deriderlo, limitarlo.
La sua mente stava vagando troppo, Thorn se ne rese conto con fastidio. Il chiaro segno che aveva bisogno di riposare. Era sveglio da venti ore e trentasei minuti. In ventiquattro minuti avrebbe dovuto lavarsi e coricarsi per dormire quelle tre ore che si concedeva come riposo. Gettò una veloce occhiata all’alloggiamento fantopneumatico che conteneva la cena che avrebbe dovuto consumare circa sei ore prima. Non aveva fame, e la vista di quella massa informe di alimenti fantomizzata non gli faceva certo venire l’acquolina in bocca. Ma lui era un tipo pratico: non consumare la cena significava non avere abbastanza energie per nutrire il suo cervello, che aveva bisogno di calorie per lavorare al massimo della sua capacità e forza. In secondo luogo, lasciare quella pappa informe lì costituiva uno spreco, nel caso in cui non l’avesse ingerita, e un accumulo, quando a distanza di poche ore gli sarebbe stata fatta pervenire anche la colazione. Decise di includere il pasto in quei ventiquattro, anzi, ventritre minuti e quarantadue secondi che gli rimanevano prima di potersi coricare.
Si diresse senza esitazioni verso il ripiano dove teneva tutti i disinfettanti del caso. Svitò la boccetta di alcol farmaceutico, sperando che quell’odore penetrante gli schiarisse la mente annebbiata dalla stanchezza, e si sistemò sopra la bacinella per versarsi il liquido sulle mani. Le guardò senza vederle, odiandole, con quelle cicatrici sui polsi e le lunghe dita ossute e pallide, disgustanti. Quella di disinfettarle era diventata un’abitudine solo di recente, da quando aveva dovuto cominciare a maneggiare manoscritti antichi, fragili, e l’idea di contaminarli con le sue mani sporche lo aveva spaventato. Solo in seguito la sua era diventata un’ossessione: come rischiava di contaminare la carta, il mondo contaminava lui con la sua stessa aria, i microbi e i pensieri altrui. E lui voleva rimanere integro, pulito, così come desiderava eliminare la sporcizia da sé.
Era passato dal non voler rovinare i libri antichi a voler proteggere se stesso dagli agenti ambientali esterni e infine al voler purificare se stesso. Cosa impossibile. Non ci sarebbe mai riuscito. Ma l’idea che le sue mani potessero comunque essere meno sporche lo tranquillizzava, aveva un effetto catartico su di lui. Come se potesse rimuovere le incrostazioni che aveva nell’animo e rendersi adatto a lei, essere abbastanza: rimuovere il sangue che aveva macchiato quelle mani, le morti, l’odio, la malvagità. Erano pensieri irrazionali, ne era consapevole. Non si poteva redimere un assassino solo lavandogli le mani, ma in quei gesti meccanici e nell’odore penetrante del disinfettante trovava una sorta di pace. Un giorno sarebbe riuscito a fare così anche con se stesso, e sarebbe stato degno di lei, forse.
Chiuse la boccetta di alcol e mise via la bacinella, poi andò a lavarsi e cambiarsi, mangiò e si disinfettò ancora. Gli era avanzato un minuto: aveva tre ore e un minuto per dormire e recuperare le energie. Nel momento in cui toccò il cuscino, però, capì che non sarebbe riuscito a prendere sonno. La sua mente continuava a vagare tra i paesaggi del Polo e di Anima, della sua casa, del suo ufficio all’Intendenza, ovunque ci fosse lei. Doveva essere più stanco del previsto. Oltre ad un calo d’efficienza cerebrale, comunque, la mancanza di riposo garantiva ai suoi artigli fuori controllo maggior spazio d’azione, e quella era di gran lunga la cosa peggiore che potesse accadere. Gli serviva energia per imbrigliare il suo potere familiare, che aveva cominciato a ragionare di testa propria da quando, alla cerimonia del dono, aveva ereditato l’animismo di... Ofelia.
Ofelia.
Tra tutte le cose che poteva trasmettergli, gli aveva trasmesso la sua mancanza di disciplina, la sua capacità di influenzare gli oggetti con il suo stato d’animo. E gli artigli erano un oggetto in fondo: erano un’arma.
Indispettito, si alzò dal letto e si diresse verso l’armadio. Spostò le grucce a cui erano appese le camicie e osservò i nastri perforati al suo interno, sbarrati da una croce nera. I suoi fallimenti. Gli era rimasta solo una possibilità, il registro di portineria che la nuova apprendista di cui non gli interessava niente, Mediana, si stava adoperando per decifrare.
Era la sua ultima possibilità. Se nemmeno quello avesse contenuto l’informazione che gli serviva, i Genealogisti lo avrebbero fatto sparire. Thorn dubitava che il loro toglierlo dalla circolazione si limitasse ad una stretta di mano di ringraziamento per il lavoro svolto e un biglietto per un’aeronave diretta al Polo.
Toglierlo dalla circolazione significava fare in modo che nessuno, mai, potesse mai più trovarlo.
Lui non avrebbe più fatto ritorno in patria.
Non avrebbe più rivisto sua zia Berenilde o la cuginetta che si stava prodigando per crescere.
Non avrebbe più visto Ofelia.
Sua moglie.
Si lasciò sfuggire un mezzo sospiro di esasperazione.
Doveva essere davvero, davvero al limite della stanchezza se il suo cervello gli faceva baluginare in mente quell’appellativo. Moglie. Per quanto fosse corretto, dal momento che lui e Ofelia si erano effettivamente sposati, il matrimonio non era stato consumato, e non aveva un’effettiva validità.
Si alzò di scatto, rovesciando lo sgabello. Aveva tolto l’armatura di sostegno nel momento in cui si era coricato, così ora si stava appoggiando sulla gamba sana mentre caricava meno peso su quella storpia, ma percepiva lo stesso il dolore e le ossa distorte, in alcuni punti polverizzate.
Accolse quel dolore come una redenzione e insieme una punizione per i suoi pensieri, e smise di trattenere gli artigli. Era così stanco... animato solo dalla rabbia, che gli scorreva nelle vene al posto del sangue, mentre il ricordo del viso intristito di Ofelia, così sinceramente preoccupato per lui, gli faceva battere il cuore e spingere quel livore nel resto del corpo, ad alimentarne gli organi. Sentiva gli artigli saggiare l’ambiente, in cerca di minacce, famelici e mostruosi, e desiderò, li implorò, di colpire lui, di devastarlo, di ferirlo. Ma se c’era una cosa che non poteva fare era rivolgerli contro se stesso, sfortunatamente.
Non si azzardò a guardare l’orologio quando si fu calmato. La mascella era così contratta da scricchiolare, e temette che fosse diventata insensibile quando la mosse per appurarne il corretto funzionamento. Gli artigli si erano placati, e ora si muovevano pigramente attorno a lui, quasi compatendolo. Si trascinò fino al letto e ci si lasciò cadere sopra, senza coprirsi, senza muoversi, esausto. Chiuse gli occhi e cercò di addormentarsi ricorrendo all’unico pensiero, immaginario, che riusciva a distendergli i nervi: quello di avere Ofelia accanto a sé.
Arginò il resto e si concentrò sul suo volto, dipingendola accanto a sé, vigile, che lo osservava senza occhiali, serena accanto a lui. Sapeva che era solo una fantasia deleteria, ma era l’unica cosa in grado di spingerlo a proseguire nel suo piano, in quell’arca, in quella vita.
Si sentì solo come non era mai accaduto, ma il ricordo di Dio, della sua minaccia, gli diedero la volontà di dormire.
E così fece.
 
Due ore e mezzo dopo si alzò di soprassalto, più concentrato e meno... sentimentale. Odiava indugiare in quelle emozioni degradanti e avvilenti, ma quando la sua mente era stanca non c’era nulla in grado di contenerne i pensieri vorticanti, a migliaia, ingigantiti dalla sua Memoria, che si agitavano come vermi indistinti.
Il suo filone di pensieri riprese da dove si era interrotto la sera precedente, ma mentre si disinfettava, si lavava, si vestita, ingurgitava quella sbobba fantomizzata e di disinfettava di nuovo, lasciò che si allontanasse da Ofelia per dirigersi verso Dio.
La sua rabbia crebbe a dismisura come se avesse gettato benzina sul fuoco, e si sentì pervaso da una carica che la sera precedente avrebbe giurato di aver perso. Così come il ricordo del viso di Ofelia lo aiutava a dormire, il ricordo di Dio e del loro incontro lo aiutava a rammentare perché era lì, perché era così importante ciò che faceva: doveva distruggerlo.
Tenerlo lontano da Ofelia. Ecco qual era il suo nobile scopo, il suo tentativo di restituire i dadi al mondo. In realtà, avrebbe rinunciato a tutto pur di sapere che Ofelia era al sicuro, che nessuno l’avrebbe mai più cercata o infastidita, di certo non quell’essere immondo che aveva promesso di non perderla d’occhio.
Di non perdere d’occhio lei, Ofelia. Sua moglie.
Pervaso da quella scarica di adrenalina, mentre la violenza di quell’odio imperversava in lui, chiuse la porta della sua stanza e riprese posto all’Ordinatore, infilandosi i guanti e riprendendo il lavoro da dove lo aveva interrotto la sera prima.
Un'ira funesta era assai più vantaggiosa di una nottata di sonno: ti manteneva sveglio più a lungo, ti dava più energia. Ti elettrizzava.
Thorn sapeva che, a lungo andare, quella determinazione lo avrebbe prosciugato, ma non gli importava. Aveva rinunciato alla felicità da molto tempo, forse non l’aveva mai nemmeno contemplata nel suo futuro. Però sapeva anche che, per quanto deleteria fosse la forza che l’odio concedeva, nel suo cuore albergava un germoglio di speranza che gli avrebbe impedito di crollare.
Si crogiolò in quella consapevolezza per un istante prima di mettersi le cuffie e spegnere il cervello su ogni questione secondaria.
Ofelia.
Non la pensò più per ore, diventando una macchina egli stesso. Aveva un obiettivo da raggiungere.
 
 Thorn interruppe il suo lavoro quando una voce sgradevole e autoritaria gli ronzò nelle cuffie, interrompendo maleducatamente e brutalmente una richiesta di riferimento da parte di un apprendista volenteroso.
La voce di Lady Septima.
Thorn ascoltò la comunicazione in silenzio, desiderando tirare un pugno alla superficie dell’Ordinatore per sfogare la propria frustrazione, ma il gesto, per quanto liberatorio, sarebbe stato più controproducente che altro. Doveva controllarsi, nonostante la pessima notizia e il tono saccente della sua interlocutrice. Era compito di quest’ultima prendersi cura dei propri allievi, ma lui ne pagava le conseguenze.
Lady Septima era un’incompetente come tutti gli altri. Anche qualcosa di più. Sì, perché lei era obnubilata dall’orgoglio e dall’arroganza, dalla considerazione poco obiettiva e spropositata di sé come superiore a chiunque. Thorn aveva notato le occhiate bieche e sdegnate che gli lanciava quando non poteva fare a meno di condividere il suo stesso spazio, l’opinione bassa e sdegnata che aveva di lui era palese nei suoi occhi. Il sentimento era reciproco.
Si era aspettato un giorno come gli altri: avrebbe lavorato una ventina di ore, sperando che non ci fossero visite o messaggi a sorpresa da parte dei Genealogisti, avrebbe consultato brevemente l’apprendista che stava esaminando l’ultimo manoscritto che poteva servire al suo scopo, avrebbe continuato a lavorare e poi, come la notte precedente, avrebbe dormito tre ore e ricominciato. Non aveva tempo di soffermarsi a riflettere su quanto noiosa e abitudinaria fosse quella vita. Non gli interessava. La noia non era mai stata una condizione cambiabile, un’incognita. Era un dato di fatto, e lui l’accettava per ciò che era. Ma quando in ballo c’era il destino del mondo, il destino di Ofelia, la noia era un carburante, non un intralcio.
Invece il programma per la sua giornata era stato cambiato brutalmente, distrutto, e ora doveva arginare il nervoso che lo assaliva come un’onda ogni qualvolta qualche incompetente svolgeva un lavoro che non era chiaramente in grado di portare avanti.
Staccò le mani, che nel frattempo avevano continuato a volare su pulsanti e manovelle dell’Ordinatore, lasciando che Lady Septima perdesse la pazienza. Non gli importava, non godeva nel farla attendere, ma doveva meditare su cosa dire per non risultare troppo offensivo: Lady Septima era pericolosa, di ciò era sicuro.
- Come intendete sopperire a questa mancanza?
Thorn poté quasi sentire, al di là delle cuffie fino all’interfono da cui la donna stava parlando, la sua stizza. Quella situazione le piaceva poco quanto a Thorn, ma lei non sapeva nulla dell’importanza di quel compito.
Gli aveva appena comunicato che Mediana, l’apprendista che si stava occupando, in maniera abbastanza meticolosa, doveva riconoscerlo, dell’antico registro di portineria, era stata vittima di un incidente. Un colpo apoplettico. Un altro. La cosa non gli quadrava al cento per cento, ma di certo non aveva tempo e risorse da spendere in un’indagine. Per un istante gli balenò in mente l’investigazione che aveva condotto con Ofelia a Chiardiluna, il modo in cui avevano collaborato. Vinto. Ma il pensiero si ritirò subito, tornando al suo posto. Non era importante in quel momento.
Doveva sostituire una recluta che stava facendo un buon lavoro. Come intendeva procedere Lady Septima?
- Vi presenterò un’altra apprendista. Vi chiamerò tra poco, non appena riuscirò a mettermi in contatto con lei, così che possiate vederla e spiegarle il lavoro.
- Sarà all’altezza?
La voce di Lady Septima, che non celava il suo furore bene quanto Thorn, era palesemente irritata, la risposta mordace. – I miei allievi sono sempre all’altezza, sir Henry. Io svolgo bene il mio lavoro, so qual è il mio posto, e ottengo dei risultati.
Ogni singola lettera era intrisa di veleno, a cominciare dal nome che aveva pronunciato con tanto sdegno. Non scalfì minimamente Thorn, in alcun modo: né per l’acredine, né per l’allusione al fatto che lui non aveva ancora trovato ciò che cercava. Poco importava, ci sarebbe riuscito. Stava per riuscirci. Era compito di quella donna procurargli del personale in grado di assolvere ai propri incarichi.
- Me lo auguro. Attendo la convocazione.
Chiuse la linea di comunicazione con Lady Septima e strinse i pugni. Aprì simultaneamente un’altra linea e ordinò un rapporto completo e aggiornato della situazione di catalogazione a cui erano arrivati, chiedendo che gli venisse fatto pervenire tramite Lady Septima. Successivamente ricominciò a lavorare, rispondendo alle richieste che si erano accumulate, in fila una dietro l’altra, mentre lui discuteva con la professoressa di specializzazione. Il suo dialogo di un minuto scarso aveva comportato un accumulo di ben venti richieste di riferimenti.
Le sue mani volarono sui pulsanti, più veloci di prima, mentre a voce rispondeva senza una sbavatura di insicurezza a tutte le domande postegli.
Pochi minuti dopo si era rimesso al passo, e il suo cervello aveva cominciato a riflettere sulle conseguenze del malore dell’apprendista virtuosa. Non gli interessava granché di lei, ricordava il suo nome, Mediana, solo grazie alla sua infallibile Memoria. Ma una cosa era certa: c’era sotto qualcosa. Non era possibile che due persone cadessero vittima di un colpo del genere nell’arco di poco tempo. Era una casistica contraria ad ogni legge combinatoria, ergo: non era un caso. Più di quello, però, lo preoccupava il ritardo che quel piccolo inconveniente avrebbe portato alla sua tabella di marcia. Il tempo era agli sgoccioli, i Genealogisti attendevano un riscontro positivo. Positivo, o nulla, lo sapeva bene. Nessun margine di errore, e nessuna proroga alla scadenza.
Mediana si era portata a buon punto, e ora si trovava a dover delegare il lavoro ad un’altra, che non sapeva nemmeno come cercare e non era al pari di quell’apprendista infortunata. Sapeva che non sarebbe stata alla sua altezza, perché Lady Septima reclutava sempre i migliori allievi per quei lavori. In ordine di meriti e risultati. Se Mediana era stata scelta prima dell’apprendista che gli avrebbe presentato a breve, significava che era più capace di lei. Quindi la prestazione lavorativa che si aspettava sarebbe sensibilmente calata, era un dato di fatto.
Accantonò quel pensiero dopo essere arrivato ad una chiara conclusione: non poteva farci nulla. Lui stesso non aveva le capacità o gli strumenti per decifrare quel manoscritto antico, e quello che più gli serviva era uno sguardo vergine. Lui non ce l’aveva, preda di mille congetture com’era, influenzato dai risultati che doveva e pensava di ottenere.
Continuò a lavorare, senza badare all’ora o al pasto che aveva saltato diverso tempo prima, concedendosi giusto una breve pausa per andare in bagno. Poteva capire perché gli avevano affibbiato l’appellativo di automa: era una macchina da lavoro, con un sostegno meccanico alla gamba. Si rifiutava di chiamarla protesi. Un’armatura. Ma sembrava soprattutto una macchina, lo sapeva, eppure era insito nel suo modo di essere. L’importante era raggiungere gli obiettivi prefissati. Il resto era una perdita di tempo.
- Sir Henry.
La voce che lo aveva chiamato, abbastanza alta da sovrastare il rumore dei macchinari che producevano e archiviavano dati a pieno regime, era indubbiamente quella di Lady Septima. Thorn non si girò finché non ebbe risposto anche all’ultima richiesta e comunicato a chi di dovere che si assentava per un periodo che sperava non fosse superiore ai trenta minuti.
Trenta minuti. Quelli sì che erano un vero spreco di tempo.
Alla fine si voltò verso Lady Septima, si alzò, maledicendo lo stridore metallico che fece mutare lo sguardo della precettrice da insofferente a malignamente soddisfatto, e la raggiunse, desideroso di rimettersi al lavoro quanto prima. Lady Septima gli allungò con un gesto altezzoso il rapporto che lui aveva richiesto dopo la loro comunicazione di qualche ora prima, circa l’andamento del lavoro di archiviazione. Aveva bisogno di fare il punto della situazione. Mentre seguiva la donna seppellì il lungo naso in quei fogli, leggendo minuziosamente le informazioni riportate per aggiornare la propria tabella di marcia. Si accorse a malapena di essere entrato in un ascensore, perché rischiò di sbattere la testa, alto com’era, e dovette arcuarsi per poter stare in quello spazio angusto. Del resto, non si era certo aspettato che la professoressa lo avvertisse. Era pronto a scommettere che quella piccola donna avrebbe goduto nell’osservarlo procurarsi un dolore fisico, e sentì i suoi artigli reagire di conseguenza.
Dovette impiegare ogni briciolo di volontà che aveva per trattenerli dall’infastidire Lady Septima, bramosi com’erano di violenza. Lo disgustavano. Si rintanò nell’angolo più lontano.
Arrivarono alla sala di consultazione prima di quanto previsto, ma Thorn non aveva ancora finito di studiare il documento di riepilogo e non accennò ad alzare il viso. Tanto meno lo sguardo. Sfogliò le pagine in fretta, cercando di farsi un’idea generale delle cifre che venivano trattate. In alcune sezioni c’erano delle gravi carenze di personale e materiale mentre in altre un sovraffollamento. Questo comportava uno sbilanciamento nell’impiego delle risorse, avrebbe dovuto farlo presente quanto prima a chi di dovere in modo tale da poter procedere con ordine. Voleva dare un’occhiata ai grafici…
Non si accorse nemmeno del gesto che Lady Septima fece, mentre gli indicava l’apprendista in mezzo alla stanza. Percepì solo il freddo invadere lo stretto ascensore. Se avesse avuto un secondo libero avrebbe sospirato, impercettibilmente, ma avrebbe sospirato: il freddo era una delle poche cose che considerava piacevoli. Era catartico, lo faceva sentire vivo. Gli avevano reso il Polo vivibile. Non come quel calore insopportabile e appiccicoso, per nulla decoroso, che c’era a Babel.
Ma non aveva il tempo per pensarci.
Lady Septima stava parlando, e lui stava ovviamente registrando quanto aveva da dire, ma c’erano delle priorità: i grafici riportavano dati e risultati disastrosi. Gli importava poco di accertarsi di chi fosse la recluta di Lady Septima. Le scadenze non sarebbero state rispettate, di quel passo, e la produzione sembrava essersi arenata e aver cominciato una lenta e inesorabile discesa.
- Siamo troppo in ritardo sul calendario previsto. I Genealogisti finiranno per esigere spiegazioni – annunciò, mantenendo l’accento di Babel senza sforzo. La sua Memoria aveva tanti difetti, tra cui la probabile tendenza a renderlo ossessivo-compulsivo, ma tornava indubbiamente utile per le lingue.
Chiuse di scatto il rapporto, dopo averlo visionato: deludente. Doveva incrementare il lavoro in qualità e quantità. A partire dalla sala in cui stava per entrare. Aveva già rischiato di perdere un manoscritto a causa della temperatura elevata, il freddo che lo aveva investito era gelido rispetto all’esterno, ma decisamente tiepido rispetto al livello di temperatura necessaria per mantenere quegli antichi registri in buono stato.
- Peraltro, ho bisogno che i Negromanti vengano qui con la massima urgenza. Temperatura e tasso di umidità sono troppo alti nell’emisfero orientale del Secretarium. Stiamo perdendo personale, evitiamo di perdere anche collezioni.
Mentre pronunciava quell’ordine, uscì dall’ascensore per dirigersi verso il manoscritto posto sul leggìo. Sperava ardentemente che quel registro di portineria contenesse l’informazione chiave che stava cercando. Il fallimento avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per l’intera umanità: nemmeno un’arca sarebbe stata risparmiata. Tanto meno…
Si lasciò distrarre dal rumore metallico dell’armatura mentre camminava. L’aveva regolata male, quella mattina se l’era infilata in fretta e ora quel sostegno cigolava da tutte le parti, lamentandosi. Alla fine decise di ignorarlo, così come ignorava lo sguardo di malcelato ribrezzo negli occhi di Lady Septima. Si chinò sul leggìo, per prendere visione personalmente del punto in cui erano arrivati, e ne voltò una pagina. Mediana aveva fatto un buon lavoro, ma la nuova recluta avrebbe saputo fare altrettanto? Intravide l’apprendista con la coda dell’occhio, nascosta nel buio. Poco gli importava che faccia avesse.
Si rivolse brevemente a Lady Septima per sapere ciò che davvero contava: - La recluta conosce le lingue antiche?
- No, sir. Tuttavia penso che sia in grado di svolgere i compiti dell’apprendista Mediana. È un’Animista, una lettrice.
Thorn si dedicò nuovamente ad ispezionare la pagina che teneva con la punta delle dita inguantate, per un secondo senza vederla. Un’animista. Una lettrice.
Lui conosceva forse l’unica lettrice in grado di assolvere quell’incarico. Nessuno sarebbe stato bravo quanto lei. Sua zia l’aveva accuratamente scelta per lui. Cercò di calmarsi per evitare di polverizzare quella pagina delicata. Si soffermò invece sul resto del testo, rovinato e irrecuperabile, almeno per lui.
- È in grado di recuperare il testo mancante?
- No, sir. Ma potrebbe ricostruire la sostanza penetrando nella percezione di quelli che l’hanno letto. Idealmente, di colui che l’ha scritto.
Non era una cattiva idea, e gli diede così tanto da pensare che non badò nemmeno per un istante allo sguardo di fuoco di Lady Septima sul suo gambale. Lo avrebbe sempre considerato inferiore, indegno, un’aberrazione. Poco importava, era abituato ad essere considerato così da tutta una vita. Il suo pensiero corse ad Ofelia, di nuovo, in pieno giorno, mentre era concentrato su una conversazione e una questione della massima urgenza.
Ofelia sarebbe stata in grado di penetrare quelle intenzioni. Era la lettrice migliore, e per un istante gli sovvenne quando aveva dovuto leggere anche lui, nel suo ufficio dell’Intendenza, in un’altra vita, quando aveva preso in mano una lettera dei suoi familiari. La corrispondenza trafugata. Possibile che…?
No, era impossibile che la recluta fosse proprio lei. Come avrebbe potuto trovarlo? Non aveva lasciato tracce, Ofelia non aveva i mezzi per riuscire nell’intento. Lui era su un’altra arca, con un’altra identità, usciva raramente e stava tutto il giorno nella sala dell’Ordinatore a lavorare. Era impossibile che Ofelia fosse la recluta. Sfidava ogni casistica e probabilità. Era un risultato matematicamente non raggiungibile. Doveva rimanere concentrato, smetterla di lasciar vagare la mente. Cercò di focalizzare le questioni fondamentali. Tra cui, la scomparsa della precedente apprendista. Ancora.
- Dov’è attualmente l’apprendista Mediana?
Attese la risposta mentre controllava gli appunti lasciati lì e i rapporti di traduzione. Di sottecchi fissava Lady Septima, cercando di carpire la risposta alla domanda non solo con l’udito, ma anche con la vista. Chi non aveva il controllo di sé lasciava trapelare col proprio linguaggio corporeo più di quanto avrebbe mai voluto ammettere.
Mentre con la precettrice intercorreva quello scambio di battute, Thorn sentì montare in sé la rabbia, quella che lo alimentava, come sempre. Lady Septima rispondeva implacabilmente alle sue domande, alle sue osservazioni, senza balbettii o tentennamenti di alcun tipo. Se sapeva qualcosa non lo lasciava a vedere, eppure… due incidenti non potevano essere un caso. Avrebbe dovuto indagare, ma non poteva: non aveva letteralmente tempo. Il disdegno e l’altezzosità di Lady Septima non aiutarono di certo la sua irritazione a placarsi, e per un attimo a Thorn sembrò che la donna fosse dotata di un tipo di artigli diverso, capace non di ferire, ma di portare al limite della sopportazione qualcuno.
Doveva tranquillizzarsi. Tornare padrone di sé. Da quella pomposa professoressa non avrebbe ottenuto alcunché. Continuavano a squadrarsi con rigidità, sebbene lei non facesse nemmeno lo sforzo di guardarlo in volto. Gli fissava la gamba, cercando di sminuirlo, di farlo sentire inadeguato. Come se una gamba potesse essere fondamentale. Avrebbe potuto vivere senza entrambe le gambe con facilità, anche se non avrebbe gradito molto la cosa. A Thorn occorse uno sforzo immane per contenere l’odio che provava e non lasciarlo trapelare dai suoi occhi.
Controllo. Doveva controllarsi.
Ordinò più turni di lettura, concordando con Lady Septima la direzione da intraprendere. Ritmi più serrati e controlli più rigidi. Alla controbattuta della professoressa, Thorn non poté fare a meno di ribattere causticamente, sottolineando l’evidenza che quella donna tanto orgogliosa voleva rifiutarsi di vedere.
- Basta che ciò non influisca sulla cura del dettaglio. I vostri allievi commettono ancora troppe imprecisioni, e non mi riferisco agli errori di codifica.
Era un duro colpo per Lady Septima, ma era una certezza, e lui non avrebbe indorato la pillola a nessuno. L’efficienza non era un’opzione, era un fondamento. E la qualità era una massima, non una teoria. Ovviamente l’espressione della precettrice si indurì, infastidita. Come ogni individuo privo di nerbo e incapace di incassare i colpi, Thorn sapeva che si sarebbe sfogata su qualcuno. E quel qualcuno non poteva essere lui. La osservò con distacco e senza espressioni mentre si voltava con sguardo di fuoco a fissare l’altra persona presente in quella stanza: l’apprendista sostitutiva, della quale aveva quasi dimenticato la presenza. Quasi. Lui non dimenticava nulla. Semplicemente, la sua importanza era passata in secondo piano rispetto allo scambio di battute che aveva avuto con Lady Septima.
- Apprendista Eulalia, volete restare con le mani in mano all’infinito? Piantatela di mettermi in imbarazzo e dimostrate a sir Henry che sarete all’altezza delle sue aspettative.
Come se il lavoro di un’altra persona potesse compensare per la sua corruzione e innalzare i suoi metodi di insegnamento. Patetica. Incassare la lode per le altrui capacità era una delle cose che aveva sempre disprezzato di più.
Indugiare in quei pensieri lo salvò dallo smascherarsi.
Perché quando si girò a guardare quell’apprendista di cui gli interessava solo il lavoro che avrebbe potuto svolgere, sentì la terra mancargli sotto i piedi, e il suo stomaco fece un balzo come se stesse precipitando. La sorpresa fu tale che il suo sguardo rimase assolutamente neutro, immobilizzato così come lo era il suo corpo. Trattene il fiato, stupito. Anche qualcosa di più.
Ofelia era di fronte a lui. Con i capelli corti, i ricci scomposti ad incorniciarne il viso come una massa di artigli capricciosi. Gli occhiali rettangolari sempre al loro posto, a schermare i suoi occhi, a nasconderli. Avrebbe voluto squadrarla da capo a piedi, avvicinarsi a lei e toccarla, abbracciarla dopo tutti quegli anni di lontananza. La nostalgia che aveva a stento trattenuto lo investì come un pugno, come un’artigliata di Godefroy. Peggio, di padre Vladimir. Fortunatamente la perplessità, la confusione di domande che aveva in testa e l’incredulità gli impedirono di vacillare. O di mostrare troppo interesse.
Rimase immobile e impassibile mentre veniva messo a dura prova da quello che avrebbe potuto paragonare all’attacco delle Bestie, di una tormenta del Polo in pieno inverno e dalla famiglia di Ofelia, tutte insieme. Era inerme. Incapace di muoversi o articolare parola.
La dichiarazione di Ofelia dopo tutti quegli anni lo riscosse, schiarendogli vista e pensieri. – Non vi deluderò.
Il suono della sua voce, quelle parole così propositive e sicure… Thorn voleva andarsene immediatamente. Una tempesta di emozioni infuriava in lui: rabbia, perché la sua presenza lì avrebbe rischiato di rovinare i suoi piani; sollievo, perché stava bene, era viva; stupore, perché lo aveva trovato; fastidio e incredulità, perché ancora una volta aveva demolito ogni probabilità possibile e immaginabile, riuscendo dove chiunque altro avrebbe fallito; nostalgia, al ricordo dell’ultima volta in cui si erano visti; malinconia, nel rendersi conto che le parole che avrebbe voluto sentir pronunciare dalle sue labbra erano molto diverse da un “non vi deluderò”. Lui aveva fatto crollare ogni velo sui sentimenti che provava per lei, si era messo a nudo, le aveva offerto se stesso in ogni modo possibile e immaginabile. Per quanto sconvolta e disperata, però, Thorn lo ricordava bene, Ofelia non aveva risposto a quella confessione. Più volte si era fatto trarre in inganno dal suo atteggiamento, e quello che aveva confuso per un bocciolo d’amore per lui era in realtà tutt’altro. Voleva una conferma da lei, una risposta a quella conversazione avuta durante le loro nozze.
Quella di fronte a sé era sua moglie.
Quel tumulto di pensieri non durò più di due secondi, e allo scoccare del terzo Thorn era già tornato padrone di sé. Quella che gli stava di fronte non era sua moglie Ofelia, ma Eulalia, l’apprendista virtuosa incaricata di leggere il manoscritto per scoprire il segreto di Dio e riferirlo ai Genealogisti.
Rimettere tutto nella giusta prospettiva lo aiutò, e doveva averlo fatto anche Ofelia, a giudicare dalla sua posa statuaria e della sua voce senza incrinature. Non era quello il momento di lasciarsi distrarre.
Thorn prese i rapporti di Mediana dal leggìo e allungò il braccio per porli ad Ofe… ad Eulalia, senza muovere un passo nella sua direzione. Doveva starle il più lontano possibile, la sua presenza lo destabilizzava troppo. Inconsciamente, non voleva attrarre l’attenzione più del dovuto con lo sferragliare metallico che l’armatura avrebbe prodotto ad un suo passo. Non voleva che Ofelia lo fissasse con… pietà.
- Avete tre giorni di tempo per mandare a memoria questa traduzione e imparare a maneggiare documenti antichi. Dopo di che verrete qui ogni sera dopo i gruppi di lettura. Tre giorni, siamo intesi, apprendista?
Tre giorni. La distanza che li separava.
Tre giorni e sarebbero stati soli, senza identità fittizie, dopo due anni, otto mesi e ventidue giorni.
Non lasciò intravedere che aveva colto l’espressione piena di dubbi di Ofelia, sperando che Lady Septima potesse interpretarla come una sorta di timore da parte di Eulalia. Comprensibile, accettabile. Il suo era un compito arduo e importante, una certa apprensione era tollerabile.
Thorn si girò per non doverla più guardare. Non riusciva a sostenere il suo sguardo. La sua presenza. Si diresse verso l’ascensore senza una parola di commiato o altre direttive, né per una donna né per l’altra. Non guardò più nessuna delle due.
Giunto nella Sala dell’Ordinatore, notando che erano passati solo quindici minuti, decise di prendersene cinque per sé. Per riordinare i pensieri e le priorità, tracciare linee, piani, alternative. Si diresse verso camera sua a lunghe falcate, facendo cigolare sinistramente quell’arnese che si portava appresso. Si tolse i guanti d’arme velocemente e si disinfettò le mani febbrilmente, come in preda ad una crisi.
Ofelia lo aveva trovato. Ofelia era lì. Aveva un piano, o era lì per lui? Come aveva fatto ad arrivare a Babel? E al Memoriale? Era sola o con qualcuno? Lo conosceva, quel qualcuno…?
Strinse i pugni mentre dentro di lui infuriavano sollievo, gioia, paura e sconcerto. Non rientrava in quella categoria di umani che si chiedeva se una realtà inaspettata fosse un sogno. Lui sapeva che non era un sogno. I sogni sono residui di memoria che vengono analizzati, processati e catalogati, senza un inizio né una fine. Lui invece aveva ben presente ogni singolo dettaglio di quel giorno e del giorno prima.
Mancavano due minuti.
Rimise a posto alcol e bacinella, si infilò i guanti e si chiuse la porta alle spalle, prendendo di nuovo posto alla sua scrivania.
Una sola cosa era certa in quel caos di pensieri e teorie, supposizioni e incertezze: dopo tre giorni avrebbe rivisto Ofelia.
Da solo.
Dopo un tempo che sembrava infinito.
E per proteggerla doveva assolutamente portare a termine il suo lavoro, così come lei doveva prendere sul serio il suo compito e impegnarsi nella lettura. Potevano farcela, insieme, come insieme avevano anche già risolto un caso investigativo di quel tipo. Al di là di calcoli e logica, Thorn sapeva di essere immensamente più forte e concentrato quando lei era al suo fianco. Più spronato.
Si rimise le cuffie e accese la comunicazione, pronto per impartire direttive e rispondere a richieste di riferimenti, analizzando le catalogazioni altrui.
Dopo tre giorni avrebbe rivisto Ofelia, e le avrebbe chiesto perché era lì. Un caso? O lui era l’obiettivo che lei aveva raggiunto? Poteva anche darsi che lei avesse iniziato delle indagini per conto suo. Non ci sarebbe stato di che sorprendersi.
Ripensò fugacemente al calore della sua spalla quando vi aveva appoggiato la testa, in quella cella carceraria dorata. Ofelia era riuscita a trasformare un ricordo doloroso in uno dei più cari e significativi per lui. Lo aveva stretto a sé, con tanto ardore da aver dovuto staccare lui stesso le sue dita dalla sua camicia spiegazzata. Non era mai stato così vicino a nessuno.
Un ramo di pensiero fuggì senza controllo verso quella direzione, immaginandosi uno scenario di riconciliazione, che sarebbe avvenuto dopo tre giorni, ben lontano da quello apatico e indifferente appena svolto. Lei che gli correva incontro, abbracciandolo, quando lui era ancora seduto sullo sgabello. Lui che si chinava per baciarla, anticipato da lei, impaziente come sempre. E basta. Non sarebbero mai potuti andare oltre, non in quel luogo, non con quel poco tempo che avevano a disposizione.
Con una smorfia Thorn soffocò quelle ridicole fantasie. Era improbabile che quella situazione potesse verificarsi. Non si sarebbe verificata. Mai. L’importante era capire perché lei fosse lì.
Strinse con forza gli occhi per un attimo e quando li riaprì fece scattare le mani verso le manopole e i pulsanti che solo lui era in grado di azionare velocemente e con precisione assoluta.
Tre giorni.
Aveva aspettato anni per rivederla, ma d’un tratto tre giorni gli parvero un frammento di tempo troppo dilatato.
Tre giorni di assiduo lavoro. Tre giorni prima di averla accanto.
Un’eternità.

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Capitolo 7
*** Pronto! ***


Chiedo immensamente perdono per il ritardo! Avrei dovuto postare ieri e ho mille scuse pronte, ma dirò quella che mi preme di più: il capitolo è venuto fuori più lungo del previsto. Parecchio. Ops.
E pensare che non ero nemmeno troppo sicura di cosa scrivere. Alla fine ho dovuto troncarlo brutalmente perché sarei andata avanti fino alla fine del libro.
Ringrazio Drastoria47 per avermi dato questo originalissimo spunto, soprattutto perché se non me l'avesse suggerito non lo avrei mai scritto e non mi sarebbe piaciuto così tanto.
Per farla breve: Libro 1, Fidanzati dell'Inverno, capitolo I dadi, pagg. 477-482. Missing moment iniziale di come Thorn ha saputo della morte dei Draghi e riconingiungimento con la scena madre di Ofelia che risponde al telefono e apprende la notizia.
Spero davvero tanto che vi piaccia quanto a me è piaciuto scriverlo. Grazie mille a tutti^^


7. Hallo!

Thorn aveva cominciato a lavorare alle prime luci dell’alba, senza aver chiuso occhio per un solo istante, a dire il vero.
Le parole di Ofelia, il suo rifiuto, lo avevano oltremodo scosso e dormire sarebbe stato impossibile. Per non parlare del fatto che aveva un sacco di scartoffie arretrate, per via dell’assenza causata dallo spettacolo e dal ricevimento, tutte amenità futili ma doverose. Odiava quel genere di intrattenimenti. Ad aggiungersi alla sua angoscia c’era anche la caccia imminente. Probabilmente i suoi consanguinei erano già usciti dalle mura, con il favore del buio, a caccia delle Bestie più mansuete e intontite dal lungo letargo.
Avrebbe voluto chiamare la stanza di Berenilde a Chiardiluna, ma qualcosa glielo impediva, qualcosa di indefinibile che faceva fatica a distinguere. Voleva forse fidarsi di Ofelia e del suo giudizio? Aveva anche chiesto ai guardiani delle mura di avvertirlo subito nel caso in cui avessero avvistato la figura di sua zia uscire per recarsi nel gelido esterno. Non aveva ricevuto chiamate. Mise a tacere ogni pensiero secondario e si concentrò sul lavoro.
Il telefono squillava in continuazione, anche se quasi sempre era il suo segretario, che gli cambiava appuntamenti, portava nuovi fascicoli aggiornati o chiedeva conferme circa riunioni ed esiti di processi.
Mezzogiorno passò in un attimo e Thorn decise che era davvero il caso di chiamare le stanze della zia a Chiardiluna. Berenilde aveva l’abitudine di oziare fino a tardi, essendo principalmente un animale notturno, e la sera prima sicuramente aveva fatto le ore piccole, ma a Thorn poco importava. Doveva sapere se la zia era viva, in camera sua, o se si era gettata a capofitto nella caccia solo per una questione di orgoglio e tradizione, tutte cose ridicole che sfidavano logica e buonsenso. Era incinta, in uno stadio parecchio avanzato della gravidanza, possibile che padre Vladimir non volesse capirlo?
Come Thorn ben ricordava, però, quell’uomo aveva gran poco a che fare con raziocinio e affezione familiare. Era intransigente come pochi, un calcolatore freddo e spietato, di una natura diversa dalla sua, eppure Thorn ci trovava con ribrezzo più somiglianze di quanto avrebbe mai voluto ammettere. In fin dei conti, biologicamente parlando condivideva con lui una buona fetta del proprio patrimonio genetico, per quanto la cosa non facesse fare i salti di gioia a nessuno dei due. Se non si era risparmiato di usare violenza sul bambino che era all’epoca, di cui potava i segni indelebili sulla pelle, era ovvio che non avrebbe mostrato tenerezza nei confronti di una donna incinta che, oltretutto, si rendeva più indipendente di quanto il capostipite potesse tollerare.
Stava ancora indugiando in quei pensieri privi di colore e sentimento quando prese in mano la cornetta e compose il numero del centralino, aspettando di essere deviato verso la linea telefonica della zia. Non rispose nessuno. Thorn non era solito farsi prendere dal panico, o agitarsi per un nonnulla, ma sentì un cattivo presagio serpeggiare dentro di lui. Mezz’ora dopo chiamò ancora, era quasi l’una del pomeriggio, e gli squilli risuonarono a vuoto.
Alle due aveva ormai deciso di chiamare le sentinelle delle mura quando loro stessi lo anticiparono.
- Notizie di mia zia? L’avete vista? – chiese senza un convenevole o una mezza presentazione.
- Signor intendente… - rispose una voce di uomo dall’altra parte della cornetta, decisamente giovane a giudicare dalla mancanza di profondità nel suo timbro vocale. Era stato colto alla sprovvista dalla raffica di domande di Thorn. – Vostra… madama Berenilde? No, non c’è. Non c’era. Non ha preso parte alla caccia.
Thorn si accigliò. Aveva detto che voleva essere chiamato solo nel caso in cui sua zia fosse comparsa insieme al resto della famiglia. Se lei non era uscita, cosa potevano volere i guardiani? – Dunque, a cosa devo la chiamata?
- Mi rincresce, signor intendente, è… santo cielo, è una notizia talmente sconvolgente. Non so neanche come…
- Parlate e basta, non perdetevi in perifrasi, non le tollero.
Dall’altra parte della cornetta si udì solo un sospiro e Thorn poté chiaramente percepire un brusio concitato in sottofondo, voci erratiche e caotiche.
- Sono morti, signor intendente, tutti. Tutto il clan dei Draghi è stato sterminato. È qui presente il guardiacaccia e… non sappiamo i dettagli, ma dice che non ci sono sopravvissuti… è stato un massacro.
Thorn ammutolì. Morti. Sterminati. Massacro. Quelle parole gli rimbalzavano da una parte all’altra delle pareti cerebrali come dadi lanciati con forza in una scatola, che continuano a girare, sbattersi addosso e sbattere contro i confini. Riacquistò subito il controllo, però.
- C’è qualcuno di più… maturo con cui parlare? Che mi possa dare informazioni concrete?
Il tono era aspro, reso tale dalla mancanza di dettagli e dalla balbuzie isterica del ragazzo con cui stava parlando, che con ogni probabilità non doveva essere molto più giovane di lui.
- Il guardiacaccia, signor intendente. Li ha accompagnati lui, è tornato poco fa per riportare i primi corpi e chiedere aiuti. Non ce la faceva a portarli tutti da solo.
- Quale guardiacaccia? – chiese Thorn, a cui quel racconto frammentario faceva salire l’intolleranza. In mancanza di una risposta da parte del suo interlocutore, snocciolò tutti i nomi dei guardiacaccia in servizio, sperando che il ragazzo potesse riconoscere quello dell’uomo che interessava a Thorn.
Infatti fu così. – Jan! Sì si chiama Jan, ne sono sicuro. Io pensavo che…
- Si trova lì con voi? Potete passarmelo? – lo interruppe bruscamente, a corto di pazienza.
- No signor intendente, è tornato all’esterno con le altre sentinelle, a radunare gli altri… corpi.
- Avete avvertito le autorità? L’ambasciatore ne è informato?
- Le autorità sì, l’ambasciatore non mi pare, non credo. Mi hanno solo detto di avvisare voi, non mi hanno riferito altro.
- Penserò io a contattarlo, allora. Appena possibile fatemi richiamare dal guardiacaccia, intesi?
Gli giunse all’orecchio solo un respiro affannoso e un mormorio indistinto, e Thorn strinse con forza la cornetta. - Siete in grado di riferire la mia richiesta a chi di dovere? Devo essere richiamato appena il guardiacaccia tornerà da voi.
Gli sembrava di parlare con un ritardato, a scandire con calma e affettazione ogni sillaba, ma almeno il ragazzo sembrava aver capito. – Sì, vi faccio avvisare subito. Jan. D’accordo. Allora, ehm…
La sentinella sembrava in imbarazzo su come chiudere la conversazione, quali forme di cortesia utilizzare in quella situazione, quali condoglianze porgere, o forse doveva ringraziare? Thorn lo tolse ancora una volta dall’impaccio. – Quali corpi vi mancano da identificare?
- Non lo sappiamo, in alcuni casi ci sono pervenute solo… scusatemi la brutalità, ma ci sono pervenute solo parti del corpo. Un arto, una testa e… - farfugliò con voce flebile, prima di mormorare qualcosa di incomprensibile. Thorn aveva il sentore che quel ragazzetto sarebbe svenuto presto. Attese, più per evitare di dargli il colpo di grazia che per pazienza e magnanimità, finché riprese a parlare: - Scusate, è stato un tale shock… in ogni caso, non siamo in grado di identificare tutti i corpi, alcuni sono mutilati, altri sfigurati, alcuni magri, altri con una pancia prominente.
Thorn raggelò. – Pancia prominente?
- Sì, bella tonda. Almeno credo che sia una pancia… perbacco mi sento male. Scusatemi signor intendente, vi faccio richiamare subito appena ho notizie.
La comunicazione si interruppe lasciando Thorn immobile come una statua, al suo posto, con la cornetta ancora premuta contro l’orecchio, le lunghe dita pallide così strette da non far circolare più il sangue, gli occhi fissi, su cui non si chiudevano nemmeno più le palpebre.
Quando tornò padrone di sé con un sussulto, la prima cosa che fece fu prendere l’orologio da taschino. Erano le due e tredici minuti. Compose senza indugio il numero del centralino e della stanza della zia a Chiardiluna, ma ancora non rispose nessuno. Chiamò Archibald, pragmatico come al solito, mentre una parte del suo cervello analizzava i fatti e ordinava le pratiche da gestire, le persone da informare, i certificati da preparare, le notizie da diffondere, le proprietà da amministrare, i fondi da gestire e altro ancora, pensando al funerale, alla caccia malriuscita che avrebbe causato una penuria di generi alimentari per l’inverno, alla cernita da fare per la sussistenza di ogni abitante…
Chiuse il telefono con più forza del necessario, irritato dal suo suonare a vuoto, dalla mancanza di risposte. Stanco del silenzio.
Digitò un altro numero, passando sempre dal centralino che lo snervava con la sua attesa, e chiamò l’impiegato che gestiva la servitù di Chiardiluna, per esser messo in contatto con il valletto della zia. Dopo alcuni istanti di attesa non professionale (come si faceva a non avere sotto controllo ogni singolo dipendente, se si tratta del tuo lavoro, e non sapere nemmeno associare un nome a un volto?) il direttore del personale lo informò che Mime, così si chiamava il valletto, era ricercato per aver attaccato un nobile, ed era disperso dal giorno prima. Lo stavano cercando ovunque, ma di lui nessuna traccia.
Thorn chiuse la comunicazione senza ringraziare. Che Mime non si trovasse non era un gran problema, dal momento che era solo una copertura. Se nessuno lo aveva avvistato era perché con ogni probabilità aveva smesso i panni del valletto per tornare ad indossare quelli di Ofelia. In tal caso doveva essere con la zia, perché nessuno sapeva chi fosse e avevano fatto di tutto per inculcare a quella fidanzata testarda che l’anonimato era la sua più grande protezione.
Ofelia doveva essere per forza con sua zia Berenilde. Però non era riuscito a contattare la zia, di conseguenza nemmeno Ofelia. Poi gli sovvenne che la fidanzata era preoccupata per la zia Roseline. Che l’avesse portata da un dottore? Che fossero andate tutte e tre? Ne dubitava, Berenilde non era certo una signora che accompagnava chicchessia dal medico. Doveva essere talmente stremata dallo spettacolo della sera prima che con ogni probabilità stava ancora dormendo. Sì, doveva essere per forza così, era la soluzione più logica.
L’assistente di Archibald lo richiamò subito, per fortuna, e Thorn fissò un appuntamento per discutere dell’intera faccenda, ma non diede l’orario né rivelò l’accaduto perché dovevano attendere di essere raggiunti da Jan il guardiacaccia: era lui quello con le informazioni cruciali. Senza quell’uomo si sarebbero solamente trovati nello studio di Archibald a perdere tempo, senza niente di concreto di cui disquisire.
Thorn riordinò con metodo le carte e si alzò dalla scrivania. Aprì la porta dell’ufficio e quasi si scontrò con il suo segretario, parecchio più basso di lui, che stava per bussare con un fascio di carte in mano.
- Per voi, intendente. I nuovi dati del raccolto e il censimento delle nascite.
Thorn prese i fascicoli senza nemmeno guardare il segretario o gli stessi fogli. - Cancellate gli appuntamenti del pomeriggio e non passatemi nessuna chiamata, per ora. Vi avvertirò quando sarò nuovamente reperibile.
Chiuse la porta senza aspettarsi una risposta, appoggiò i documenti sulla scrivania, a coprire la macchia di inchiostro che Ofelia vi aveva rovesciato, e si avvicinò al divanetto posto sotto la grande finestra rotonda da cui anche lei, diversi giorni prima, si era affacciata per vedere l’esterno.
Ripetere i suoi stessi gesti non lo aiutò però a calmarsi. Si sedette, teso com’asse di legno, sul divanetto.
Per un attimo le immagini di Ofelia e della zia furono scalzate via dalla sua mente con prepotenza.
Il clan dei Draghi era stato sterminato. Non esisteva più. Al di là di ciò che questo comportava per l’intera popolazione del Polo, che avrebbe sfiorato, se non abbracciato, la crisi alimentare, piccoli frammenti di memoria gli vorticarono nel cervello come tante foglie in autunno. Ricordi. Ricordi brutti degli ultimi sedici anni e ancora prima, ricordi di odio e sofferenza, di cicatrici, sangue e rifiuti, di spalle voltate e ripudi.
Per un istante, però, ci fu qualcosa di più, qualcosa che aveva da tempo sepolto per non farlo più venire a galla e soffrirne nuovamente: il tempo dell’accettazione, della sua infanzia, dei giochi con i fratellastri.
Si infilò le dita tra i capelli, così travolto da pensieri ed emozioni da non fare neanche caso al fatto che si stava spettinando. I suoi dadi erano nel giubbotto che Ofelia aveva portato via quando aveva avuto freddo, qualche notte prima, e in mancanza di quelli prese tra le dita l’orologio della zia, stringendolo forte per ancorarsi a ad esso, al pavimento, all’ineluttabile scorrere del tempo che dava a tutto una percezione più realistica e fatale.
Freya non c’era più. La ragazzina che in passato aveva sorriso con ammirazione di fronte alla sua spiccata intelligenza e alle sue doti mnemoniche. In un’occasione lo aveva persino difeso da sua madre, quando era ancora ingenua e priva di malizia, e non sapeva che in realtà si sarebbe dovuta difendere da lui e dall’onta che rappresentava.
Godefroy non c’era più. Il ragazzo per cui, da piccolo, aveva nutrito un’ammirazione senza precedenti, la persona da cui aveva desiderato di più al mondo essere benvoluto, che gli aveva fatto un dono speciale. Dei dadi intagliati, un piccolo regalo così originale e utile dal punto di vista matematico. L’uomo la cui risata era contagiosa, per cui da piccolo Thorn finiva sempre con lo scoppiare a ridere senza motivo solo perché il fratello lo faceva divertire, ed era bello vederlo così ilare. Lui stesso una volta lo aveva protetto da alcuni ragazzi che lo avevano preso di mira, lui, un bambinetto pelle e ossa costantemente malato, decisamente non in grado di difendersi, nemmeno con gli artigli. Lo aveva portato in braccio in casa e lo aveva medicato senza dire nulla a nessuno, e anche dopo anni Thorn aveva custodito gelosamente quel ricordo. Per una volta in cui le sue gigantesche e brutali mani erano servite per curarlo, per risollevarlo, non per dilaniarlo e ferirlo.
E poi padre Vladimir... suo nonno. Ma di quell’uomo non aveva nulla da rimpiangere. Quando non poteva impedirsi di pensare a lui desiderava poter estirpare dalle sue pareti cerebrali i frammenti di dolore che accompagnavano tutte le sue memorie. Non aveva mai desiderato così tanto dimenticare qualcosa quanto i ricordi di padre Vladimir. Retrogrado, sadico, irragionevole, dispotico, egoista, anaffettivo, brutale, sanguinario, di mente ristretta, eccessivamente patriarcale. Gli aggettivi poco lusinghieri di certo non mancavano a Thorn, ma fu costretto a fermarsi perché sapeva che una volta cominciato avrebbe avuto difficoltà a fermarsi.
Morti tutti e tre. E con loro mogli, mariti e figli. Thorn non riusciva a capire nemmeno cosa provasse, quale sentimento emergesse al di sopra degli altri. Sollievo, all’idea di non dover più incrociare il loro cammino e non essere più molestato, all’idea di non dover più... temerli? O preoccupazione al pensiero di ciò che la loro scomparsa comportava per l’approvvigionamento? Tristezza, di fronte all’evidenza di aver perso tutto il suo clan, anche se non lo era mai effettivamente stato?
Qualunque fosse il filo conduttore di tutte quelle emozioni, così disparate e sfaccettate tra di loro, eppure collegata l’una all’altra, Thorn sentiva che ne mancava una, nel modo più assoluto: gioia.
E quando capì che in lui la gioia era completamente assente, si rese finalmente conto di quale fosse a linea che legava ogni sua tumultuosa emozione: il dolore della perdita.
Dolore. Perché per quanto lo avessero bistrattato, umiliato, devastato, ripudiato e insultato, un tempo erano stati la sua famiglia. Un affetto. Lo avevano reso ciò che lui era in quel momento, e per quanto poco amasse se stesso e qualsiasi versione di sé, lui era ciò che era, ed era l’unica cosa che si sentisse di accettare. Gli mancava il contatto del pavimento sotto i piedi, nonostante li avesse ben ancorati a terra, perché loro stessi erano stati una certezza per lui. La certezza che esistevano, che lo odiavano, o forse no, che comunque si ricordavano di lui, che lo temevano tanto quanto lo disprezzavano.
Non li avrebbe pianti, non aveva abbastanza amore dentro di sé per farlo. Del resto, non li amava, nemmeno lontanamente, quello che provava per loro era una lontana eco di un’infanzia ingenua e spensierata, fasulla eppure rassicurante. Avrebbe però ricordato, per non farli morire quando tutti si fossero dimenticati di loro, effimeri come neve, resistente ma destinata a durare poco, caduca con il primo calore.
Li avrebbe ricordati. Non doveva loro nulla di più. Forse qualcosa di meno, ma Thorn, tra tutte le brutte caratteristiche che sapeva di possedere e delle quali gli importava molto poco, sapeva di non essere un sadico insensibile. Il desiderio stesso di non essere come loro lo spronava a fare più di quanto loro stessi avrebbero mai fatto per lui.
Si alzò, con i pensieri nuovamente in ordine, pronto per intervenire con efficienza, proprio quando il telefono gli squillò sulla scrivania. Aveva elaborato il lutto e lo aveva accantonato, per un momento più propizio. Ora doveva interessarsi dei vivi: sua zia e... Ofelia, anche se quest’ultima non era in pericolo. A conti fatti, comunque, non si sarebbe sorpreso nell’apprendere che in realtà la giovane si era effettivamente cacciata nei guai. Non c’era forse una taglia sulla testa di Mime? La sua capacità di attirare disastri e di ficcarsi nei pasticci lo destabilizzava ogni volta, ma tollerava quelle complicazioni solo perché aveva la certezza che la fidanzata non gli ingarbugliasse la vita volontariamente: era impossibile riuscire ad attirare catastrofi con così tanta solerzia. Era ovvio che non ci sarebbe riuscita se lo avesse coscientemente voluto. Semplicemente non lo faceva apposta, lei era fatta così.
Thorn scosse la testa impercettibilmente, stringendo la mascella: non era proprio il luogo, né il momento, per indugiare in certe quisquilie.
- Pronto.
- Signor intendente, scusi se ho l’ardire di disturbarla - balbettò la voce del suo segretario dall’altra parte della cornetta, - ma ho in linea le sentinelle delle mura che dicono di avere a portata di mano un certo guardiacaccia di nome...
- Passatemi la linea.
La voce che gli rispose apparteneva allo stesso ragazzo che gli aveva parlato qualche minuto prima. Evidentemente i guardiani più anziani stavano svolgendo compiti più gravosi e avevano sbolognato quell’incombenza al più sacrificabile.
- Signor intendente sono...
- Passatemi il guardiacaccia.
Alla sentinella mancò il fiato quando quell’ordine perentorio gli fece vibrare il timpano, e si affrettò a lasciare la linea a Jan. Thorn lo capì dal trambusto che ne seguì.
- Buongiorno signor intendente, vorrei dire che è un piacere sentirvi ma in realtà vorrei che fosse per circostanze ben più favorevoli di questa e...
- Dovete raggiungermi all’Intendenza più in fretta possibile. O a Chiardiluna, presso lo studio dell’ambasciatore, se vi è più comodo.
Anche il guardiacaccia ammutolì, come la sentinella poco prima. - Capisco l’urgenza, signor intendente, ma ci vorrà come minimo qualche ora perché possa venire fino al vostro ufficio. E ancora più tempo mi sarà richiesto se dovrò raggiungere Chiardiluna! Mi rincresce davvero, ma...
Thorn strinse la cornetta, il cervello che lavorava a pieno ritmo, in modo chiaro e limpido, per tracciare una linea d’azione. La prima cosa da fare era prelevare il guardiacaccia e farsi raccontare i fatti minuziosamente, preferibilmente in compagnia dell’ambasciatore e della zia Berenilde, in quanto unica erede di tutto il patrimonio del clan dei Draghi, quale unica sopravvissuta. A tal proposito, bisognava assolutamente rintracciarla. Per il guardiacaccia però era quasi impossibile raggiungerlo in breve tempo, e ne avrebbero perso altrettanto a radunare prima lui e poi Berenilde. L’unica via auspicabile era una collaborazione con Archibald e l’utilizzo della rosa dei venti, per ridurre l’attesa del settantotto percento.
- Restate dove siete, vengo a prendervi io e andremo a Chiardiluna.
Ottenne solo il silenzio, mentre in sottofondo sentiva abbaiare ordini e imprecazioni.
- Mi avete capito?
- S-sì, ho capito... vi aspetto qui allora?
- Sì, dovrei essere da voi in un tempo stimato tra i dodici e i quattordici minuti.
Thorn non fece in tempo a chiudere la chiamata che aveva già composto il numero di Archibald.
- Prontooo? Oggi non ho molestato nessuna signora di buona famiglia, se questo è il motivo della vostra chiamata avete sbagliato numero.
- Sono l’intendente, ambasciatore - disse Thorn in tono sferzante. Il solo udire la voce melliflua e cantilenante di Archibald gli aveva dato un colpo che aveva dissipato il torpore causato da quella faccenda intrecciata. C’era così tanto a cui pensare...
- Mio caro Thorn quale lieta sorpresa! In realtà non mi siete caro e sentirvi non è una lieta sorpresa, avrei preferito udire una seducente voce femminile, ma se proprio lo desiderate posso dedicarvi un po’ del mio tempo. Quali amene novelle mi portate?
Thorn dovette attendere due secondi prima di rispondere, per essere sicuro di poter padroneggiare la propria rabbia. - Pare che il clan dei Draghi sia stato sterminato.
Dall’altro capo della cornetta arrivò solo silenzio. Finalmente era stato in grado di tappare la bocca a quel pomposo presuntuoso. Quando riprese la parola, Archibald aveva del tutto perso il timbro gioviale e leggero: - Il clan dei Draghi? Sterminato?
- Sì.
- Nessun superstite?
- Sembrerebbe di no.
- Servono dati certi, intendente - ribatté Archibald, quasi infastidito. Il livore stonava con la sua personalità quanto un sorriso sulle labbra di Thorn. Ma ciò in una certa misura aveva placato la furia di quest’ultimo: almeno si rendeva conto da solo della gravità della situazione. - Sarebbe vostro il compito di fornire i dettagli di ciò che è accaduto e...
- È ciò che mi sto accingendo a fare. Sono appena stato avvisato dell’incidente dalle sentinelle e mi sto avviando per recuperare il guardiacaccia che era testimone del massacro. Saremo nel vostro ufficio tra circa ventuno minuti. Siete in grado di...
- Thorn – lo interruppe Archibald, con una leggera nota di apprensione della voce. - Berenilde ha partecipato alla caccia?
Thorn strinse gli occhi, increspando la fronte, come vittima di una terribile emicrania. - Le avevo consigliato di non prendervi parte. Avevo chiesto al suo valletto di tenerla alla larga dalla battuta. Ma non risponde al telefono. Voi dovete andare presso le sue stanze per condurla nel vostro ufficio. Lei risulta ora essere l’erede dell’intero patrimonio dei Draghi, insieme alla madre, che però è... stata costretta ad allontanarsi. Siete in grado di farlo?
Sonoramente più sollevato all’idea che Berenilde fosse salva, Archibald riprese in parte il tono frivolo e spumeggiante. - Ma che rincuorante notizia, per quanto possa esserci qualcosa di rincuorante in questa nefasta situazione. Certo, mi premurerò di condurre la madama nelle mie stanze. Sarò più svelto di voi, caro intendente.
Thorn chiuse la chiamata senza aggiungere altro e, mentre si rassettava i vestiti e si pettinava i capelli prima di uscire, aggiornò la lista mentale.
Dovevano capire con precisione come si fosse verificato quell'eccidio. Per questo serviva il guardiacaccia.
Dovevano assicurarsi senza ombra di dubbio che Berenilde non avesse preso parte alla caccia. Per questo serviva che la zia si facesse trovare.
Inforcò la porta trovandosi a pensare che, per una volta, sperava davvero che Archibald fosse più veloce di lui.
 
Disponendo della Rosa dei Venti il tragitto verso le mura richiese effettivamente dodici minuti. Thorn ne aveva calcolati due di attesa per trovare il guardiacaccia e ripartire. Arrivò quasi in trance, perso com’era nei suoi pensieri, e rispose a malapena al saluto impacciato di Jan. Scambiò due parole con le sentinelle e fece in tempo a vedere il movimento frenetico degli organizzatori del recupero prima di rituffarsi nella porta da cui era arrivato.
Jan lo seguì in silenzio, stupefatto di fronte alla sua capacità di aprire porte che conducevano in luoghi diversi da quelli cui avrebbero dovuto effettivamente portarli. La quiete, interrotta solo dai loro passi veloci, dava modo alla sua mente di ricreare gli scenari peggiori.
Non era decisamente una delle sue giornate buone.
Se Archibald non avesse trovato sua zia in camera, gli scocciava ammetterlo ma non avrebbe più saputo dove cercarla. La sua assenza poteva significare che avesse preso parte alla caccia, e quindi fosse rimasta uccisa. In tal caso, dov’era Ofelia? Perché non riusciva a rintracciare nessuno? Aveva preso troppo a cuore il compito di impedire alla zia di svignarsela, seguendola e rimanendo uccisa anche lei?
La possibilità che stessero ancora dormendo era poco plausibile. Ormai era pomeriggio e Thorn stesso le aveva chiamate in camera più volte. Chiunque ad un certo punto si sarebbe svegliato. Che la zia avesse subito un attacco nelle sue stesse camere, un attacco in cui sarebbe rimasta coinvolta anche Ofelia? Ne dubitava, le stanze di Archibald, per quanto poco gli piacesse riconoscerlo, erano sicure. Chiardiluna era una fortezza inespugnabile, così come i suoi ambienti. Forse la zia aveva trascorso la notte da Faruk. Possibile, ma essendo appunto passato da molto il mezzogiorno, dubitava che Berenilde fosse ancora con lo spirito. Faruk era solito intrattenersi con le sue favorite per il tempo necessario ad appagare i suoi stimoli, quando era soddisfatto faceva in modo che lo lasciassero solo. Ma allora Ofelia dov’era? Non era più Mime, ormai di questo era certo, ma da chi si sarebbe potuto rifugiare? Da sua zia Roseline, negli appartamenti di Berenilde? Perché non rispondevano al telefono, allora?
Gli sembrava di avere una serpe che si mordeva la coda nel cervello, non riusciva a venire a capo di niente.
Per non parlare della strana sensazione che gli stringeva il petto e non voleva saperne di affievolirsi da quando aveva saputo della morte di metà dei suoi consanguinei. Un senso di estraniamento che non aveva mai provato in vita sua, per quanto poco gli interessasse della loro sorte.
Arrivò nello studio di Archibald con due minuti di anticipo, grazie al passo svelto di Jan, che era un buon camminatore nonostante la bassa statura.
L’ambasciatore tardò parecchio, e Thorn rimase ad attenderlo nel suo studio.
Era ormai pomeriggio inoltrato quando Archibald ebbe la decenza di presentarsi. Entrò nel suo ufficio con il sorriso più spento del solito, salutò velocemente Jan, poco interessato agli uomini tanto da non volerci intrattenere nemmeno una conversazione, e si rivolse all’intendente che da parte sua stava cercando di scavargli un buco nel cranio con la forza del suo sguardo.
- Non siate così ombroso, Thorn, i vostri parenti non vi sono mai nemmeno piaciuti – esordì, sedendosi su un divanetto di fronte all’intendente.
Jan aveva rifiutato più volte di sedersi, irrequieto com’era, e continuava a spostare il peso da una gamba all’altra con un movimento oscillante che faceva saltare i nervi di Thorn. Non era la sua migliore giornata, e in assenza di notizie concrete la sua pazienza si era esaurita ormai da ore.
- Avete rintracciato mia zia? Sta arrivando?
- Mi rincresce dirvelo, ma ho tardato proprio per questo motivo. Nessuno apre la porta della camera di Berenilde: è vuota. Ho provato a chiedere una copia della chiave dei suoi appartamenti, ma come ben sapete Chiardiluna è sicura come la miglior cassaforte, e i duplicati delle chiavi sono troppo pericolosi.
- Mi state dicendo che mia zia è dispersa e voi non avete nemmeno una copia della chiave della sua camera?
Il suo tono era sferzante, quasi violento, e il fatto che cercasse di trattenere la sua ira faceva solo apparire ancora più agghiacciante la sua voce cavernosa. Sembrava un rombo di tuoni.
Archibald perse un po’ di brio, ma il sorrisetto di circostanza rimase ad aleggiargli sul viso come se la sua bocca fosse del tutto incapace di assumere una piega più adatta alle circostanze.
- Sto dicendo che per essere i migliori in qualsiasi campo bisogna essere disposti a fare ciò che gli altri nemmeno immaginano. No, non abbiamo nessuna copia di nessuna chiave di nessuna stanza.
- Vi rendete conto che è una norma prevista dalla legge, vero? Alla sezione tre comma cinque del…
- Risparmiatemi la legislazione, ve ne prego, intendente. Ho tardato appunto per questo. Il mio segretario si sta adoperando per duplicare la chiave di nostro interesse, ma ci vorrà qualche ora. Entro sera saremo in grado di aprire quella porta.
- Entro sera sarà troppo tardi.
- È già troppo tardi, se madama Berenilde ha preso parte alla caccia. Non possiamo anticipare i tempi né tornare nel passato. Può essere che in realtà la cara madama sia in camera sua a riposare, che abbia assunto qualche… tranquillante prima di dormire, e che quindi il suo sonno sia innaturalmente profondo. Le strade sono due: attendiamo che ci chiamino le sentinelle per dirci che hanno rinvenuto il suo corpo, o attendiamo la copia della chiave per verificare se Berenilde è in camera. In ogni caso, ci tocca aspettare.
Thorn non voleva dirgli che, anche se sua zia avesse assunto qualche sonnifero, era improbabile che lo avessero fatto anche la sua fidanzata e la sua madrina, che con ogni probabilità erano in camera con lei. Il fatto di essere l’unico a conoscenza di ogni singolo risvolto di quella vicenda lo rendeva scalpitante, bisognoso di azione e di risposte. Sua zia poteva non essere sola in camera, eppure nessuno rispondeva al telefono o al bussare alla porta. Alla fine si decise a lasciarsi sfuggire una mezza verità. Non si aspettava certo che Archibald risolvesse tutti i suoi problemi, in quella stanza era palese chi fosse la persona con la maggior probabilità di successo in fatto investigativo, nondimeno capiva l’urgenza di mettere a disposizione qualsiasi minimo dettaglio per ritrovare la zia. E non solo lei...
- Mia zia non è sola – ammise laconicamente.
Archibald fu preso alla sprovvista, e per un secondo il suo sorrisetto baluginò con fulgore. - E a chi sarebbe accompagnata la madama?
- Ha una dama da compagnia. Dubito che si allontani senza la sua supervisione o che la stessa dama sia stata messa fuori uso da un sonnifero.
Archibald si grattò il mento ricoperto da una trasandata e corta barbetta bionda. Thorn cercò di mascherare il disgusto, ma lui odiava la barba. Era ruvida, odiava sentirla sotto le dita. Era indice di disordine e trascuratezza. Per quanto fosse impegnato, trovava sempre un attimo di tempo per radersi, ovunque fosse. O di tagliarla accuratamente per dargli una forma ricercata, ma mai incolta.
- Una dama di compagnia... - mormorò l’ambasciatore, incuriosito.
Thorn in realtà non era sicuro che la suddetta dama di compagnia fosse proprio nella sua forma più smagliante, a quanto gli aveva riferito Ofelia, ma di sicuro una delle due avrebbe dovuto sentire il telefono!
- Mh... dama di compagnia o vostra fidanzata, intendente?
Thorn non lasciò trasparire nessuna emozione che potesse confermare o negare quell’insinuazione. Rimase neutro, non mosse nemmeno un muscolo del viso, non batté le palpebre. Eppure dal suo sguardo doveva essere trapelato qualcosa, perché nel momento in cui era scattato per posarsi sul volto di Archibald, questi aveva sorriso come se avesse di fronte una sorpresa piacevole invece che una sgradita.
- Furbone, volevate tenerla tutte per voi! Bene, prima troviamo il modo di entrare negli ambienti di Berenilde, prima potrò fare la conoscenza della vostra sfortunata fidanzata.
L’idea che Archibald “facesse la conoscenza della sua sfortunata fidanzata” era rivoltante quanto l’immagine di sua zia dilaniata dalle belve, eppure sperava quasi che potesse accadere: avrebbe significato che stavano tutte bene.
Stavano bene, ma dove? Dove si trovavano?
- Non angosciatevi Thorn – intervenne nuovamente Archibald, perdendo un pizzico di buonumore per soppiantarlo con una serietà così estranea al suo ruolo. - Il fatto stesso che la chiave delle camere non sia stata resa al portinaio e che la porta sia chiusa significa che Berenilde è ancora lì dentro. Lo giurerei sulla vita delle mie sorelle!
Il ghigno furbesco che lo caratterizzava tornò a splendere sul suo volto, probabilmente in risposta ai commenti agitati che stava ricevendo col pensiero da parte delle sorelle in questione.
Thorn trattenne a stento una smorfia. - Credo sia il caso di ascoltare il resoconto da parte del guardiacaccia.
- Ma certo! Jan, permettetemi di porgervi gli ossequi da parte di una delle mie prozie. Vecchio birbante, a sua detta vi conservate splendidamente!
Il volto teso ed esangue del guardiacaccia assunse tonalità rossastre in un baleno a seguito del commento fuori luogo dell’ambasciatore: evidentemente aveva capito a quale zia si riferisse, e a quale circostanza.
- Bando alle ciance, parlate - ordinò Thorn perentoriamente, ponendo fine a qualsivoglia distrazione.
 
Il racconto di Jan era stato frammentario e confuso all’inizio, ma le domande inquisitorie di Thorn lo avevano aiutato a fare chiarezza e ordinare cronologicamente i fatti.
A Thorn sfuggivano diversi particolari, e di nuovo si trovava punto e a capo: Berenilde avrebbe potuto confermargli se l’angelo di cui Jan vaneggiava fosse proprio chi lui pensava. Non c’erano molte altre ipotesi plausibili per un attacco isterico di Bestie appena svegliate dal letargo. I Draghi erano forti, organizzati, lui lo sapeva bene. Se c’era una cosa in cui padre Vladimir eccellesse, quella era la metodica pianificazione di una caccia. Qualcosa di esterno aveva portato a quell’esito macabro, ne era certo.
Per il resto delle domande avrebbe avuto tempo in seguito, così come per stilare la pratica che avrebbe sancito se si trattava di omicidio o di un tragico incidente. Al momento importava solo rintracciare Berenilde.
Era suo malgrado sollevato dal fatto che nessuna sentinella avesse chiamato per informarli della riesumazione del cadavere della zia, però ancora di lei non si avevano notizie.
Era ormai calata la sera quando Thorn finì di scrivere alcuni appunti, non su quanto riferito da Jan, ma sulla bozza del fascicolo del caso, dato che lui non aveva bisogno di prendere appunti, e si rese conto che era ormai ora di cena.
Archibald se n’era rimasto tutto il tempo in un angolo, a parlare con le sorelle e il resto della Rete, raccogliendo più informazioni possibili sulla posizione di un certo giovane nobile biondino e con la faccia da angelo in particolare, mentre Jan era rimasto sotto la loro custodia, ossia in piedi nel salotto a guardare impazientemente la pendola che segnava l’ora.
- Dunque - esordì Archibald, - credo di avere delle novità.
- Un attimo – lo interruppe Thorn, pinzando il fascicolo e prendendo il telefono. - Provo un’altra volta a chiamare mia zia.
L’attesa fu più breve del solito, dato che la rete di Chiardiluna era collegata a quella dello studio e le telefonate non dovevano passare per il centralino, e questo, nonostante l’efficienza, fece innervosire Thorn. Ancora nessuna risposta.
- Prima di mettermi a parte delle novità vado a verificare se è cambiato qualcosa. Magari c’è un guasto al ricevitore nella camera di mia zia e pertanto il telefono non suona. Vado a bussare alla sua porta.
- Allora, se non vi dispiace, io andrei anche a cenare. Sono ore che non tocco cibo e un uomo non può vivere di soli pettegolezzi e donne.
Thorn non colse la frecciatina che aveva il chiaro intento di indisporlo, e per puro meccanicismo compose di nuovo il numero della camera della zia. Ormai era diventato un gesto automatico come il guardare l’ora sull’orologio da taschino.
- Posso dire di aver almeno ottenuto la conferma ad uno dei miei dubbi, intendente. La presenza della vostra fidanzata in quella camera è palese. Non ricordo di aver mai assistito ad un tale accanimento da parte vostra.
Thorn mise giù nuovamente la linea, con un po’ troppa forza del necessario, e scoccò un’occhiata torva ad Archibald e alle sue supposizioni.
- Cenate in fretta e ritroviamoci qui tra un’ora. Mi incaricherò di supervisionare anche il lavoro di duplicazione della chiave. Trovo intollerabile che ci voglia così tanto tempo.
Thorn uscì senza attendere risposta, di umore nero come poche volte era stato. Odiava farsi contagiare dalle emozioni, il suo stato d’animo era costantemente settato sulla neutralità. Né gioia, di cui ne aveva davvero poca, né rabbia dovevano influenzare le sue giornate e il suo lavoro.
 
Un’ora dopo era di nuovo nello studio di Archibald, con le mani vuote e una viscida angoscia che gli attanagliava le membra. Aveva persino fatto un salto alla camera affibbiata al valletto, a Mime, in uno squallido corridoio umido e freddo, con la scusa ufficiosa di doversi accertare che il criminale non fosse tornato e ufficiale che voleva vedere se Ofelia era lì nei paraggi. Nessuno aveva aperto la porta della camera di sua zia. La chiave non era ancora stata duplicata, o meglio, ricreata, dal momento che l’unica esistente e utile per la duplicazione era all’interno della stanza a cui volevano accedere. Thorn si aggrappava a quell’unica speranza: che Archibald avesse ragione e sua zia fosse chiuse dentro, magari svenuta, magari con il telefono staccato, qualsiasi cosa, purché fosse lì dentro.
Con Ofelia.
Ebbe un attimo di debolezza e si ritrovò a pensare a lei, individuando nella sua fidanzata la sua principale fonte di angoscia. Al di là della preoccupazione per la zia e del senso di vuoto misto a sollievo per la scomparsa dei Draghi, la sorte di Ofelia era quella che più gli premeva, e che più cercava di soffocare.
Che indossasse ancora i panni di Mime era da escludersi: non era stata né avvistata né catturata, il che significava che era ancora latitante. Il fatto che nessuno avesse visto il valletto era una prova del fatto che lei aveva smesso i suoi panni per tornare se stessa; un’Animista a piede libero per Chiardiluna, però, non era certo un fatto che passava inosservato. Ovunque Ofelia fosse, doveva essere con sua zia. E con il numero di sentinelle che sciamavano all’esterno del Polo, dubitava fortemente che le due fossero fuori dalle mura a vagabondare in seguito allo smarrimento della strada del ritorno: a quell’ora le avrebbero già trovate, vive o ibernate che fossero.
Per una volta Thorn sentì che la cattiva sorte della fidanzata non c’entrava nulla in tutta quella storia.
Dovette accantonare il suo pensiero su di lei appena Archibald rientrò, in ritardo come al solito. Quell’uomo aveva una mancanza di rispetto tale da rasentare l’indifferenza verso chiunque. Se non altro, per quanto il suo atteggiamento potesse passare per maleducato, Thorn arrivava sempre puntuale e teneva in conto gli appuntamenti altrui: politica, finanza, lavori domestici, fluivano tutti in un unico calderone che formava la società in cui vivevano. Dovevano funzionare tutti correttamente perché l’amministrazione reggesse, e il primo passo per avere una burocrazia ottimale era quello di rispettare gli impegni.
Thorn decise di sorvolare, per quell’unica volta.
- Spero che abbiate delle belle novità, intendente. Io e Jan ci siamo intrattenuti a cena più del dovuto – lo informò Archibald, pimpante come se andasse tutto bene.
L’occhiata imbarazzata del guardiacaccia e il suo mormorio sommesso fecero intendere a Thorn che l’ambasciatore non si era intrattenuto solo a cena. O meglio, non si era intrattenuto solo con la cena.
- Nessuna novità. Avevo considerato l’idea di buttare giù la porta, ma...
- Ah-ah-ah – lo bloccò Archibald muovendo un indice come se stesse parlando con un bambino piccolo e birbante invece che con l’intendente del Polo. Per poco il cappello sbrindellato non gli cadde dalla testa, ma Archibald non se ne curò. - Dovreste ben sapere che ogni porta di ogni stanza di Chiardiluna è a prova di ariete, illusioni o qualsiasi maleficio voi vogliate scagliare contro di essa. Non a caso è considerato il luogo più sicuro per proteggere chi è in difficoltà, come la vostra adorata zia. E la vostra fidanzata. I segreti meglio custoditi sono qui.
Thorn non gli prestò attenzione e chiamò ancora una volta la camera di sua zia. Mancava poco più di un’ora a mezzanotte.
Non rispose nessuno come al solito, così Thorn tirò fuori le carte per buttare giù il testo della conferenza stampa, i telegrammi e il rapporto dell’indagine.
Archibald era divertito. - Ma voi non dormite mai, intendente?
- Non se prima non mi arrivano notizie di mia zia. E nemmeno voi dormirete, ambasciatore. Mi servono le vostre firme.
Il guardiacaccia, così inutile da risultare quasi invisibile, si schiarì la voce timidamente. - Scusate se ho l’ardire di chiedere, ma nemmeno io posso...?
- Accomodatevi sul divano e fate ciò che volete, ma non avete il permesso di allontanarvi fin quando non avremo concluso la faccenda - dichiarò Thorn, senza nemmeno alzare lo sguardo dalle pratiche. Percepì però la tensione del guardiacaccia, così si affrettò a precisare: - Con concluso intendo che il vostro scopo ora è quello di riferire nuovamente la vicenda a madama Berenilde, in quanto portavoce del clan dei Draghi in questo momento. Le vostre dichiarazioni sono già state raccolte e ora provvederò a metterle agli atti. Una volta espletato il vostro incarico sarete libero.
Per nulla rilassato, Jan si accomodò timidamente sul divano, poco avvezzo a tutto quello sfarzo e lusso, ma non ci mise molto ad addormentarsi e russare. Era sveglio dalle prime luci dell’alba, aveva accompagnato fuori i Draghi e aveva assistito alla carneficina. Era quasi mezzanotte e non si era quasi mai seduto. Thorn ammirò la sua resistenza, sebbene la sua fosse di gran lunga superiore. Non si aspettava dagli altri ciò che pretendeva da se stesso, era talmente impossibile ottenerlo da sfiorare il ridicolo.
Archibald per una volta si tolse il sorriso dalla faccia e prese posto all’altro capo della scrivania, ottemperando alle sue funzioni con serietà. Per quanto gli scocciasse ammetterlo, Thorn riconosceva la competenza di quell’uomo immorale e sregolato. Diffidava di lui con ogni briciolo di volontà che aveva in corpo, ma non poteva giurare a cuor leggero che non sapesse fare il suo lavoro. Non bene quanto lui, ma era consapevole del fatto che nessuno sapeva fare il proprio lavoro come lui.
Era quasi mezzanotte quando prese nuovamente in mano l’orologio da taschino e con la mano libera, come per riflesso, sollevò la cornetta e compose il numero della camera della zia. Le sue dita lo digitavano senza nemmeno aver bisogno di ricordarlo, come se fossero a loro volta dotate di una memoria indipendente.
Aveva messo via l’orologio e stava per chiudere nuovamente la chiamata quando sentì lo scatto inconfondibile che indicava che l’interlocutore aveva preso la linea.
Senza nemmeno rendersene conto, teso come una molla, tuonò: - Pronto!
L’esclamazione che risuonò come uno sparo nella stanza silenziosa ebbe l’effetto di far svegliare di soprassalto il guardiacaccia e trasalire Archibald, che scattò in piedi e rimase a scrutarlo, immobile. Nonostante la leggerezza sulla questione e l’apparente serenità, Archibald era davvero in pensiero per la sorte di Berenilde.
- Thorn?
Non poté impedirselo: il battito del suo cuore accelerò. Così come il suo respiro. Sembrava quasi che stesse per andare in iperventilazione, visto dall’esterno, ma Thorn non si curò né dell’espressione allarmata di Archibald né dei borbottii confusi di Jan.
Ofelia aveva risposto al telefono.
Non riuscì a rispondere immediatamente. Quanto stupidi si poteva essere per rispondere in quella maniera? Se non fosse stato lui a chiamare, ma qualcun altro, come avrebbero giustificato la presenza di un’estranea negli appartamenti della zia? E quest’ultima dov’era? Perché non aveva risposto lei al telefono?
Sebbene il turbine di domande quasi soffocasse tutto il resto, Thorn percepì chiaro e limpido il sentimento che gli aveva fatto accelerare il battito cardiaco: sollievo. La voce di Ofelia aveva agito come un calmante, niente aveva più così tanta importanza ora che sapeva che era viva.
- Voi? - si trovò a mormorare, dando forma alla confusione che imperversava nella sua mente. - Bene... molto bene... Mia zia è lì accanto?
La risposta tardò un paio di secondi. Qualcosa gli suggeriva che la fidanzata non fosse proprio al massimo delle sue facoltà mentali al momento. - Sì, alla fine siamo rimaste tutte e tre qui.
Il sollievo aumentò, così come il battito cardiaco. Invece il suo respiro si mozzò, troncato.
Erano rimaste lì.
Erano rimaste lì! Con quanta pacatezza lo aveva detto! Avrebbe quasi preferito sentirsi dire che erano andate a spasso alle terme o per i Giardini Sospesi, piuttosto che scoprire che erano rimaste per tutto il tempo in quella camera a cui non aveva potuto accedere da fuori, nella quale nessuno, oltretutto, si degnava di rispondere alle sue chiamate.
Quello che divampò non era più sollievo, era furore al calor bianco misto a sbigottimento e, sì, ancora sollievo, perché attendeva quella risposta da quasi un giorno intero! Thorn non ci vedeva più.
- Volete parlare con lei? Credo che abbiate parecchie cose da dirvi – continuò Ofelia di fronte al suo silenzio.
Il suo tono freddo e distaccato fu la goccia che fece traboccare il vaso. Se voleva parlare con sua zia? E con quale pretesto si prendeva la libertà di essere tanto algida con lui, che aveva smosso l’intera intendenza e tutta Chiardiluna per scoprire dove fossero?
- Rimaste lì?! Sono ore che faccio i salti mortali per rintracciarvi e che trovo la vostra porta chiusa! Vi renderete conto che... No, evidentemente l’idea non vi ha neanche sfiorata!
Al pronunciare quel verbo, sfiorare, gli balenò in mente un’immagine del tutto fuori luogo: loro due che si abbracciavano, i loro corpi che si avvicinavano per mettere fine al tormento che aveva dovuto combattere per l’intero giorno. La scacciò con foga, alimentando ancora di più la sua furia.
- Mi state sfondando l’orecchio. Non c’è bisogno di gridare, vi sento benissimo. E per vostra norma non è ancora mezzogiorno, ci siamo appena svegliate.
Il tono effettato di Ofelia strideva con la dolcezza delle sue parole, cortesi nonostante lui le avesse appena urlato in faccia. Non che avesse intenzione di scusarsi, era lei quella nel torto marcio. Tuttavia non poté impedirsi di trasalire, non tanto per l’acredine della sua voce, quanto per il significato delle sue parole.
Possibile che...? - Mezzogiorno? Come diavolo si fa a scambiare la mezzanotte per mezzogiorno?
- Mezzanotte? - fu la risposta, stupita quanto lo era lui, ma per il motivo opposto.
- Mezzanotte? - ripeté in coro qualcuno che era in camera con Ofelia, con ogni probabilità le loro zie. Sentire le loro voci sane e salve però non servì a farlo sentire meglio, anzi. Erano sprovvedute, ecco cos’erano. Sprovvedute, immature e irresponsabili.
Era il momento di ricondurre la conversazione sui binari della ragione. - Quindi non sapete niente? Avete dormito tutto questo tempo?
- Che è successo? - chiese finalmente Ofelia, con un tono lievemente preoccupato e più partecipe. Finalmente ci era arrivata. In passato si era chiesto più volte se fosse lenta di comprendonio, smentendo quelle ipotesi quando ci aveva parlato di persona, e ammirando anzi la spiccata intelligenza che si nascondeva sotto i modi timidi e compassati. Eppure in quel momento Ofelia non brillava certo per la sua arguzia.
Si prese un attimo per organizzare il dopo senza quasi curarsi del prima: prima doveva riferire ciò che era successo, poi recarsi da loro. Ma le priorità per lui erano invertite, aveva bisogno di vederla... di vedere sua zia, ovvio, sua zia, per accertarsi che stesse effettivamente bene. Lanciò un’occhiata ad Archibald, che sogghignava come uno che la sa lunga, mentre Jan stava seduto composto e in silenzio sul divano.
Era finalmente tornato padrone di sé quando rispose: - Sto chiamando dallo studio di Archibald. Fra tre minuti sono lì da voi. Nell’attesa non aprite a nessuno.
Il dopo, e il prima. Avrebbe voluto essere già lì, invece di dover attendere tre minuti per percorrere lo spazio che li separava.
Ma Ofelia voleva il prima. - Ma perché? Che succede?
- Freya, Godefroy, Vladimir e gli altri. Pare che siano morti tutti.
Mise giù la cornetta senza aggiungere altro. La notizia le avrebbe fatto capire che era proprio il caso che, per una singola volta, obbedisse, e aprisse solo a lui. Si augurava davvero che lo ascoltasse, forse per la prima volta da quando l’aveva incontrata. Aveva detto che si fidava di lui, nonostante il suo tono di poco prima sembrasse una smentita: doveva dimostrarla in quel momento, la sua fiducia.
Si alzò di scatto, lieto di constatare che il guardiacaccia era già accanto alla porta. Jan non gli ispirava simpatia o altri sentimenti positivi come il desiderio di approfondire la sua conoscenza, ma era un uomo pratico, lavoratore, che sapeva qual era il suo posto e ci restava. Lo apprezzava.
Archibald era di tutt’altra pasta.
- Affrettiamoci, non vedo l’ora di conoscere la vostra fidanzata! Sono curioso di sapere se ci ho visto giusto!
Thorn lo ignorò e aprì la porta, fiondandosi nel corridoio per poi uscire dai quartieri di Archibald. Sentiva dietro di sé il passo ritmico di Jan e quello... saltellante?, dell’ambasciatore. Possibile che non riuscisse ad essere serio per più di mezz’ora consecutiva?
- Ah, l’amore, alla fine ha colpito il vostro cuore grande e freddo, eh, intendente? Che tenerezza! Se siete così pazzo di questa fanciulla, non posso certo dire che non muoio dalla voglia di metterle le mani add... cioè, di fare la sua casta conoscenza.
Archibald continuò a ridacchiare da solo.
Davanti alla porta della camera della zia era assiepato un corteo di curiosi e giornalisti che speravano di ottenere la dichiarazione dell’unica superstite, lo scoop più succoso della giornata, e probabilmente dell’intera anno. La stampa era ovviamente già al corrente di tutto, anche se lui e Archibald erano riusciti a tenersi lontani dalle dichiarazioni fino a quel momento.
Alto com’era, Thorn non ci mise molto ad individuare sua zia che si stagliava fiera contro la porta, scrutando l’esterno alla ricerca di lui, senza rilasciare commenti.
E infine sentì quella domanda.
- Gira voce che stiate nascondendo una lettrice di Anima. È nel vostro appartamento? Perché non ce la presentate?
Thorn allungò il passo e scalzò via quegli avvoltoi che si spintonavano di fronte alla porta d’entrata che per tutto il pomeriggio aveva provato a varcare. Poche ore prima tutta quella gente non c’era, e nessuno avanzava teorie circa la presunta presenza di un’Animista dietro le sottane di sua zia.
Se la sarebbe vista con Archibald, o più probabilmente con le sue sorelle, una volta che si fossero tolti da quel ginepraio. Anche i segreti meglio custoditi non sono difficili da svelare se sei a fianco ad un membro della rete con una malsana passione per i pettegolezzi.
Fece in tempo a spingere indietro la zia e far entrare Jan e quel traditore di Archibald prima di richiudersi la porta alle spalle.
Vide Ofelia con la coda dell’occhio, spaventata, malconcia e disorientata. Avrebbe voluto recarsi subito da lei per verificare che il tono della sua voce non fosse più brutale come quello che aveva usato al telefono. Che fosse morbido e caloroso come al solito.
Non fece in tempo, perché la zia lo placcò contro la porta, così sconvolta da essersi dimenticata quanto poco il nipote tollerasse quel genere di contatti. O forse, stringendolo così forte proprio perché conosceva la sua avversione. La zia non metteva mai in conto i sentimenti altrui a discapito dei propri.
Thorn sbatté contro la porta alle sue spalle ma non ricambiò l’abbraccio, sperando che questo potesse scoraggiare la zia dal protrarlo troppo a lungo. Incatenò invece il suo sguardo a quello di Ofelia, e non lo spostò da lì nemmeno per un secondo, non batté nemmeno le palpebre.
Solo allora sentì la tensione che aveva accumulato in quelle ore dissiparsi come nebbia mattutina. A nulla era valso lo slancio della zia: la vista di Ofelia aveva ridimensionato tutto.
Lei stava bene.
Poco importava che il resto dei suoi consanguinei fosse morto.
Lei era viva. Nulla contava di più.

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Capitolo 8
*** Perché siete venuta a Babel? ***


Ringrazio la mia carissima Itsellie per il meraviglioso spunto. E allo stesso tempo mi scuso, perché non sono soddisfatta della riuscita ç.ç Spero di non aver deluso le tue aspettative.
Itsellie mi aveva richiesto una specie di evoluzione alternativa: cosa sarebbe successo se Ofelia avesse detto a Thorn che era lui il motivo per cui si trovava a Babel? Il mio problema è che considero tutto quello che la Dabos ha scritto pura perfezione. Non c'è nulla che vorrei cambiare nei libri, nemmeno se questo significasse aggiungere qualche scena romantica o cambiare certi dialoghi. Quindi non mi sentivo in grado/autorizzata/serena all'idea di modificare un'intera storia.
Ho cambiato qualcosina, ho descritto un'Ofelia un po' più sincera con se stessa, ma molte descrizioni e dialoghi sono pedissequi al libro. Se fate un confronto lo notate: ho letteralmente copiato il capitolo. Allo stesso tempo vorrei ottenere questo effetto: far credere che questo capitolo rivisitato sia quello originale, confondere il lettore in modo da fargli chidere, alla fine, quale sia quello vero. Ma non pretendo di esserci riuscita, anzi, la mia era solo una spiegazione della mia idea di base. Uff. Grazie comunque a tutti per la lettura, sono aperta alle critiche e ai suggerimenti^^" (vi prego non siate troppo cattivi).

L’Attraversaspecchi III, La Memoria di Babel, L’Automa, pagine 275-284

8. Pourquoi etes-vous venue à Babel?

 
- È arrivata l’apprendista virtuosa. Ho alcune direttive da darle. Riprenderò il trattamento delle richieste bibliografiche appena terminato con lei. Fine comunicazione.
Spense il microfono, si tolse le cuffie e fece ruotare lo sgabello rimanendo poi immobile così a lungo che Ofelia si stava chiedendo se si aspettasse una qualche iniziativa da lei quando si rese conto che la stava esaminando meticolosamente dalla testa ai piedi. Ancora una volta, com’era accaduto poche ore prima, sotto la doccia, le parole di Mediana le risuonarono nella testa: “Detesti essere trattata da bambina, ma di fronte a un uomo sei e rimani una mocciosa senza esperienza”.
Davanti allo sguardo severo e inflessibile di Thorn si rese conto che quelle parole le facevano così male, la disturbavano tanto, perché erano terribilmente vere. Lei era una mocciosa di fronte a Thorn, quell’uomo che aveva sposato e non aveva più visto per praticamente tre anni. Si sentiva una bambina.
Eppure, la sensazione che suscitavano in lei gli occhi metallici e profondi di Thorn, ne era certa, una bambina non avrebbe mai potuta provarla. Si sentì nuda ancora una volta mentre lui la scrutava, registrando i cambiamenti che il suo corpo aveva subito durante la lontananza temporale e fisica. Ringraziò le atroci corse mattutine che almeno l’avevano aiutata a perdere peso. I tagli, invece, parvero riaprirsi uno dopo l’altro via via che Thorn la scrutava.
- Perché siete venuta a Babel?
Una erre scricchiolante come ghiaccio, consonanti dure come la pietra: Thorn aveva ripreso l’accento del Nord. Sentire la sua voce, non quella di sir Henry, ma quella di Thorn dopo tre anni, fu un tale shock che Ofelia temette che le cedessero le gambe. Qualcosa si mosse nella sua pancia, qualcosa che lei non avrebbe saputo come definire; non era fame, quello era certo. Inoltre, quando capì che Thorn stava parlando a lei, Ofelia, e non a Eulalia, perse ogni capacità di ragionare.
Com’era accaduto troppo spesso in passato, di fronte ad una domanda così diretta e alla sorpresa di averla ricevuta rispose di getto, facendo uscire dalle sue labbra la struggente e imbarazzante verità: - Cercavo voi.
Fece una piccola smorfia, quasi impercettibile. Avrebbe potuto dire che non ce la faceva più a stare dai suoi genitori, ma sarebbe stata una risposta idiota; l’altro pensiero che stava per scapparle di bocca, però, era decisamente peggio: non ce la faceva più a stare lontana da lui. Fortunatamente lo aveva bloccato in tempo. Non aveva fatto granché in quegli anni, non lo aveva cercato approfonditamente, si era solo chiusa in camera, in se stessa, in attesa. Non aveva lavorato alacremente come Gaela, Renard e persino Archibald, non aveva compiuto un’impresa titanica come quella di Thorn, che era diventato un Lord di Lux, una figura ancora più importante e potente di quella che ricopriva al Polo, come intendente. Però la sua risposta era sincera. Lo aveva cercato, se non fisicamente, almeno con la mente, e in quel momento, avendolo davanti, avendolo trovato, si sentì più a casa di quanto non lo fosse stata per tutta la sua vita, né su Anima, né al Polo.
Lì, a Babel. Con un individuo che si nascondeva dietro un’identità fittizia. Fu presa da una vertigine ma non barcollò.
Thorn, marmoreo sullo sgabello, era in attesa. La gola di Ofelia pulsava talmente da farle pensare che il cuore vi si fosse trasferito.
- Sono rimasto stupito quando ho visto che la sostituta di Mediana eravate voi. Anche qualcosa di più.
Ofelia stentava a crederlo, data l’impenetrabilità del suo viso. Quell’affermazione però le dava anche da pensare. Se era rimasto stupito, ma non lo dava a vedere, poteva essere che fosse anche felice, ma l’occultasse allo stesso modo? Poteva essere che anche lui si sentisse come lei, dopo tutti quei mesi, anni divisi? Gli era mancata quanto lui era mancato a lei?
Il pensiero le fece mancare il fiato più di quanto non avesse fatto la presenza stessa di Thorn. Ammettere così sinceramente che lui le era mancato... i suoi occhi da sparviero la facevano sempre straparlare, non solo con lui, ma anche con se stessa, ammettendo verità nascoste che da sola non avrebbe mai potuto capire. Oltretutto, lui, prima di andare via, le aveva detto...
“A proposito: vi amo”. L'eco lontana di quell’ammissione la colpì come uno sparo nel silenzio. Le girava la testa. Quelle quattro parole impacciate che Thorn  le aveva sussurrato subito prima di sparire dalla sua vita erano lì, reali, e se lei, che non lo aveva mai ammesso, sentiva con prepotenza di amarlo, lo stesso doveva valere per Thorn, che aveva trovato il coraggio di confessarglielo.
Lui aveva fatto la sua mossa, ora toccava a lei.
- Siamo stupiti in due. Se avessi saputo che eravate il famoso sir Henry avrei...
- Potreste essere Dio.
Colta alla sprovvista, Ofelia fece cadere al suolo i rapporti di Mediana.
- Credete che io... che sia...
- Avreste potuto esserlo. Anch’io, del resto. Dio conosce i nostri volti.
Era un’osservazione talmente elementare che Ofelia si vergognò di non averci pensato prima.
- È vero. Per fortuna Dio è un pessimo imitatore. Se mi aveste accolto con il sorriso sono sicura che avrei diffidato.
Thorn non fece commenti. Con la sua battuta Ofelia aveva sperato di distendere l’atmosfera. Non si aspettava certo che lui ridesse o anche semplicemente sorridesse, e nemmeno che cambiasse argomento per chiederle come stesse o cosa avesse fatto in quel periodo senza di lui, anche se lei ci sperava. Il fatto che però fosse rimasto coerente, che non fosse cambiato e si comportasse ancora in modo così pragmatico e inquisitorio la risollevarono: se era ancora se stesso voleva dire che provava ancora gli stessi sentimenti per lei, giusto? Non poteva essergli indifferente.
Tac-tac!
Era l’orologio da taschino. Ofelia si fece pizzicare le dita cercando di estrarlo dalla tasca.
- Ecco un testimone al disopra di ogni sospetto che dovrebbe convincervi che non sono Dio.
Si vergognò della voce incerta. Da quando era entrata in quella stanza si comportava come una bambina spaurita, proprio come Mediana aveva insinuato. All’epoca in cui non conosceva Thorn e aveva tutte le ragioni di temerlo non aveva provato nemmeno la metà dell’apprensione che la paralizzava in quel momento. Quell’uomo aveva aperto in lei una breccia che la rendeva insopportabilmente vulnerabile, in un modo che non aveva mai sperimentato prima.
Temeva di non essere amata da lui. Che situazione inadeguata per pensare una cosa del genere, però non poté fare a meno di rendersi conto che era esattamente così che Thorn doveva essersi sentito durante il loro fidanzamento. Non sapeva da che momento, di preciso, si fosse infatuato, ma era sicura che fosse molto, molto prima di lei. Del resto, lo stava ammettendo sinceramente e apertamente a se stessa solo in quell’istante, nonostante avesse letteralmente attraversato mezzo mondo per trovarlo.
Essere in bilico la straziava. Si pentì di essere stata così cieca per tutto quel tempo: avrebbe potuto risparmiare a Thorn un bel po’ di sofferenza.
Lui si alzò distendendo l’interminabile colonna vertebrale. Il movimento osseo suscitò un cigolio metallico nella gamba. Ofelia lo preferiva seduto. Era già abbastanza intimidita così, non aveva proprio bisogno di sentirsi schiacciata dalla sua altezza. Voleva poterlo guardare negli occhi, avere il suo viso a pochi centimetri dal suo, non lì in alto, a svettare su di lei.
Thorn non fece un passo verso di lei, non mosse un muscolo, non allungò un braccio. Rimase solo in piedi, fermo.
- Avete detto che siete venuta perché mi cercavate. C’era un motivo?
Ofelia fu presa in contropiede da quella domanda. C’era un motivo se lo cercava? Che domanda era, posta con così tanta serietà, poi?
Boccheggiò in silenzio prima di trovare il fiato per rispondergli. – Siete sparito senza lasciare traccia! Avevo… avevo risolto le cose con il sire Faruk. Avevo onorato il patto da parte vostra, gli avevo dato ciò che desiderava. Stavamo per tornare a dirvelo quando abbiamo trovato la cella carceraria vuota. Perché siete scappato? Si sarebbe sistemato tutto se solo mi aveste dato tempo!
Ofelia si rese conto di essere indignata, anzi, furente. Se solo Thorn avesse atteso, si fosse fidato, loro avrebbero trascorso insieme quei tre anni, al Polo, senza più nomee o epiteti fuori luogo per lui, che sarebbe stato insignito da Faruk del suo rango cancellando l’onta della sua nascita immorale. Invece si trovavano lì…
- Come sta mia zia?
Ofelia impiegò un po’ troppo tempo ad elaborare la domanda. Thorn era pacato ma rigido, per nulla scalfito dalla sua sfuriata o dalle sue rivelazioni. Sembrava quasi che non l’avesse sentita. Non aveva nemmeno fatto cenno di volersi riprendere l’orologio che lei gli porgeva, così Ofelia abbassò le braccia e continuò a stringerlo nel palmo per bloccarne i tac-tac nervosi.
Parlarono come due individui che non si vedono da molto tempo e si rivolgono a vicenda domande di circostanza, ma Ofelia avrebbe voluto urlare invece di sottoporsi a quell’interrogatorio: se era sola, se aveva una buona copertura nei panni di Eulalia, se c’era il rischio che le Decane li scoprissero.
Quando finalmente Thorn si mosse, con l’intento forse di fare un passo verso di lei, la meccanica che fungeva da esoscheletro alla gamba si bloccò a metà movimento. Thorn si aggrappò per un pelo alla consolle dell’Ordinatore per non perdere l’equilibrio.
Ofelia accennò un gesto, ma Thorn la prevenne: - Faccio da solo.
Obbedì, ma nulla le impedì di avanzare per avvicinarglisi, scrutandolo meglio così come lui aveva fatto con lei. Provò un tuffo al cuore osservando le sue mani inguantate che armeggiavano sapientemente con l’armatura, i suoi fini ma folti capelli chiari, il viso spigoloso e il naso severo, il cipiglio tra le sopracciglia e le cicatrici che si confondevano con il pallore della pelle liscia. Un sentore intenso di alcol farmaceutico la colpì, penetrando a fondo in lei. Era un odore del tutto sbagliato in quel contesto, eppure, in qualche modo, riusciva a ricondurlo a Thorn.
Quando si raddrizzò, dopo aver sbloccato il meccanismo con un baccano infernale, Ofelia si sentì schiacciare dalla sua altezza. Era stato un errore avvicinarglisi.
- Tocca a voi, se avete domande da fare. Preferibilmente non sulla mia gamba.
Ofelia non sapeva da che parte iniziare. Non aveva qualche domanda, aveva una cascata di interrogativi e confusione in testa. I suoi occhi però non abbandonavano il simbolo del sole cucito sulla camicia di Thorn.
Intercettato il suo sguardo, lui rispose senza che lei dovesse porre la domanda. Le spiegò cosa ci facesse quel simbolo sul suo petto, che ruolo ricoprivano i Lord di Lux e lui in tutto quello, e Dio, e come fosse arrivato lì dopo la sua fuga, anche se a spizzichi e bocconi.
Quando vide il fremito che gli percorse la mascella, capì che stava per chiederle di allontanarsi, di non ficcare il naso e tornare da dove era venuta. Quella volta non lo avrebbe permesso.
- Thorn, resterò a Babel, che lo vogliate o no. Checché ne dica Lady Septima, qui si sta tramando qualcosa… qualcosa di grave. Non so ancora cosa stiate combinando voi, ma prima che vi opponiate alla mia decisione, sappiate che…
- Non mi opporrò.
Con un movimento repentino, Thorn aveva annullato la distanza tra loro, abbassandosi a livello del suo viso. L’improvvisa vicinanza avrebbe dovuto metterla in allarme e spingerla ad allontanarsi, ma i suoi occhi erano ipnotici, e lei si rese conto di non averli mai scrutati così a fondo. Sbagliava a definirli metallici, sebbene il bagliore che proiettavano nella penombra fosse proprio quello del metallo. In realtà erano di un grigio intenso, a metà tra l’antracite e la quarzite, un mare in tempesta e un cumulo di nubi elettrostatiche. A giudicare dal fuoco che vi ardeva dentro, Ofelia capì che dentro di lui il nubifragio era già scoppiato.
Non vide le sue mani, ma ne sentì il contatto, guanto contro guanto, in basso. Credeva che volesse riprendere l’orologio, così glielo lasciò fare, ma anche quando l’oggetto gli venne passato Thorn non allontanò le dita. Anzi, le allungò, afferrandole il polso, come per trattenerla ed impedirle la fuga. La forza della stretta era pari a quella del suo sguardo.
Ofelia arrischiò un piccolo respiro quando si rese conto di averlo trattenuto, e condivise la medesima aria che respirava Thorn, il suo fiato fresco sul viso accaldato. Sentiva ancora l’odore di alcol disinfettante, e non capiva se quell’essenza la stesse aiutando a mantenere la lucidità o la stesse invece confondendo, annebbiando.
- Sono d’accordo con voi – rilanciò Thorn, in un bisbiglio. La sua voce le penetrò nell’anima, facendole vibrare il sangue e sussultare lo stomaco. Si scordò dov’era per un secondo. – Si sta tramando qualcosa. Io ho bisogno di uno sguardo all’esterno del Secretarium e voi di uno sguardo all’interno. Una collaborazione farà comodo a tutti e due. Fianco a fianco, però. Insieme. Che ne dite?
Vacillò quando Thorn disse “insieme”. Per tutto il tempo in cui erano stati fidanzati, da quando lo aveva conosciuto, per lui c’era stato solo lui stesso. Io, io, io. Io vado, io dico, io faccio, io vi ordino. Mai un noi, un insieme. Una collaborazione. La presa di Thorn sul suo polso si fece più stretta e morbida al tempo stesso, come accarezzandola.
Ofelia sapeva di non avere voce, le sue corde vocali erano come atrofizzate, incapaci di svolgere la loro funzione. Annuì semplicemente, battendo le palpebre più volte, ma quei gesti non servirono a cancellare lo sguardo famelico e il fiato fresco di Thorn, che la stavano obnubilando come le bolle di confusione dell’Immaginatoio.
Si rese conto che si stava avvicinando ancora di più al suo viso quando anche lui fece lo stesso, inclinando leggermente la testa. Vedeva così chiaramente i peli chiari delle sopracciglia, la cicatrice che ne attraversava una, le rughe che gli solcavano la fronte contratta. Chiuse gli occhi, incapace di registrare altri dettagli, e sentì le gambe cederle quando le labbra calde di Thorn sfiorarono le sue, dolcemente, quasi senza toccarle davvero.
Era in attesa di una conferma o di un rifiuto; non si era dimenticato di quando aveva ripetuto quel gesto, una vita prima, sotto la pioggia scrosciante, su un’alta Arca. Non si era scordato lo schiaffo che ne era seguito.
Che fosse per quello che le teneva ancora il polso? Voleva evitare che lo colpisse di nuovo? Era forse quello il motivo della sua titubanza? Non gli aveva detto che era arrivata lì per lui?
Ofelia schiuse le labbra, sul punto di perdere il controllo e avvinghiarsi a lui, sentirlo contro il proprio corpo, pronta ad assaggiare la sua bocca. Non si sentiva più una bambina, in quel momento, nemmeno lontanamente. Era inesperta, ma in qualche modo sapeva che avrebbe saputo cosa fare, come se anche quella fosse una seconda memoria che la indirizzava.
Invece, sulla consolle dell’Ordinatore le cuffie emisero un ronzio, segno che qualcuno stava cercando di stabilire una comunicazione. Era la voce di Lady Septima.
Ofelia indietreggiò, temendo quasi che Lady Septima potesse vederli, invece che parlare.
Thorn contrasse le labbra, i suoi occhi si raffreddarono e Ofelia poté giurare di vedere una certa frustrazione attraversargli il volto prima di tornare impassibile. – Non può sentirci.
L’incantesimo però era rotto, Ofelia sapeva di non poter più… restargli così vicina con quell’aggeggio che diffondeva ovunque la fastidiosa e imperiosa voce della precettrice.
- Sa chi siete veramente?
Thorn capì che Ofelia non si sarebbe più avvicinata, così si raddrizzò lasciandole il polso, allontanandosi a sua volta. Le spiegò velocemente e metodicamente, come suo solito, cosa ci facesse lì, chi sapesse di lui e perché. Capì anche per quale motivo gli serviva qualcuno che esaminasse il manoscritto come Mediana aveva fatto prima di lei, ma Thorn non volle contaminare il suo giudizio con un parere personale o una speranza.
Poi, nelle cuffie la voce di Lady Septima aumentò di volume, i “Pronto! Pronto!” si fecero più insistenti. Thorn tornò allo sgabello con rigidità meccanica, ma ancora non accese il microfono. Si prese alcuni istanti per dare ad Ofelia gli ultimi ordini, muovendo velocemente le mani su cavi e pulsanti. Ascoltando ciò che le diceva, si estraniò e una parte di lei si lamentò. Sarebbe finita così, dunque? Lui sarebbe tornato al suo lavoro e lei anche? Senza… senza cosa? Ofelia si sentì arrossire e fu grata che Thorn le stesse dando l’ampia schiena in quel momento. Del resto, lui non si era nemmeno accorto dell’effetto che le sue parole avevano prodotto su Ofelia.
- Ecco… stavo pensando di lasciare la Buona Famiglia.
Thorn fece ruotare lentamente lo sgabello verso di lei. Niente in lui esprimeva disapprovazione, eppure Ofelia si sentì gelare le ossa. Provò a spiegargli in che modo gli sarebbe stata utile uscendo da quel posto. Oltretutto, erano sposati, quindi… che male ci sarebbe stato a stare con lui?
Il rifiuto di Thorn però fu categorico, e Ofelia sentì crollare ogni certezza. Non erano stati ad un soffio dal baciarsi, pochi istanti prima? Perché d’un tratto Thorn le sembrava di nuovo così distante, come se ci fossero interi oceani di nuvole a separarli? Sentiva le ferite causate dai vetri pulsare sotto la pelle; avrebbe voluto togliersi la toga per mostrarglieli, ma non lo fece, e scacciò il pensiero come se non le fosse mai appartenuto.
Si rivolsero qualche altra frase per definire il piano e Ofelia raccolse i fogli con un misto di confusione, stizza e… un divorante senso di vuoto.
Quando si raddrizzò per uscire, però, si rese conto che Thorn era di nuovo in piedi, con una mano sulle cuffie e una a grattarsi la gola.
Rimasero immobili troppo a lungo, Ofelia a chiedersi cosa Thorn volesse, e lui a racimolare il coraggio per farglielo capire.
Alla fine fu Ofelia a dover rompere il silenzio. - È tutto? Non avete altro da dirmi?
Qualsiasi cosa, purché non riguardi i nostri piani, Lady Septima o i Genealogisti, avrebbe voluto aggiungere. Qualcosa su noi due, su te o su me.
Thorn però non rispose: la puntò. Si avvicinò a lei con una tale determinazione che i suoi occhi sembrarono vibrare come l’aria scaldata dal fuoco, mentre l’armatura cigolava come se stesse agonizzando. Nonostante quell’impedimento Thorn le fu addosso in un attimo, costringendola ad indietreggiare nello slancio, la schiena premuta contro la porta fredda.
Il suo viso si fece di nuovo spaventosamente vicino, e ad Ofelia mancò completamente il fiato. - Vi ho già detto tutto quello che dovevo dirvi. E voi? Avete altro da dirmi?
Ofelia scosse impercettibilmente la testa. No, nemmeno lei aveva altro da aggiungere, o meglio, aveva troppe cose da aggiungere, cose che non sarebbe riuscita a dire in quel momento, con quegli occhi stretti a fessura che la inchiodavano alla parete.
Da dire non aveva nulla.
Sollevò una mano senza incertezze, la posò sul collo di Thorn e lo attirò a sé fino ad annullare la distanza tra di loro. Non fu come il bacio che si erano dati sulle mura, anni prima, quel bacio inaspettato che Thorn le aveva rubato e a cui lei aveva reagito in modo tutt’altro che prevedibile.
Fu un bacio vero, un’esperienza extracorporea e allo stesso tempo profondamente radicata in lei. Sentì prima di tutto la sua barba corta pizzicarle il mento e le guance, solleticandola; poi prese coscienza delle sue mani, che le avevano artigliato la vita, stringendola a sé e premendola contro la porta contemporaneamente, come se avesse lui stesso bisogno di un sostegno per non cadere. Eppure Ofelia pensò che c’erano troppe cose che non andavano: troppi vestiti, troppi guanti, troppo metallo, troppo tutto. Un’eccedenza di cose superflue di cui si sarebbe volentieri sbarazzata. Non si sentiva affatto una bambina, ma di una cosa era certa: se Thorn l’avesse spogliata lì, in quel momento, rendendola nuda e indifesa come una bambina, non si sarebbe opposta. Non provava nessuna vergogna.
Si aggrappò alla sua camicia stirata e candida, ringraziando che nella sala dell’Ordinatore la temperatura fosse più bassa che all’esterno: si sentiva andare a fuoco. Alla fine, dopo tre secondi dall’inizio del bacio, si sciolse contro le labbra di Thorn, assaporandone il contatto. Erano ferme e decise come lui, ma non rigide, sottili e fresche, ma non algide e meccaniche. Sembrava che fosse pratico degli ingranaggi di un bacio quanto lo era di questioni finanziarie o aritmetiche, eppure Ofelia aveva la certezza che quello, come per lei, fosse solo il secondo bacio della sua vita. Si lasciò guidare da lui senza interrogarsi troppo su cosa dovesse fare, schiudendo le labbra e sentendo la punta fredda del suo naso contro la guancia, carezzevole. L’odore di alcol farmaceutico la inebriava. Per quanto fosse penetrante, Ofelia non avrebbe voluto sentire nessun’altra essenza in quel momento.
Quando sentì la sua lingua bussare alle porte della sua bocca non ebbe esitazioni, e la lasciò entrare, avida. Lo spazio accanto a loro fu ben presto riempito dai loro respiri erratici e affannati, mentre lottavano per riprendere fiato cercando di allontanarsi il meno possibile l’uno dall’altra. Ofelia voleva infilargli una mano tra i capelli, ma sapeva che il guanto le avrebbe impedito di sentirlo come invece desiderava. In compenso gli accarezzò la guancia con il pollice, sebbene neppure quello fosse abbastanza.
Trattenne a malapena un gemito quando Thorn affondò i denti nel suo labbro inferiore, gentilmente eppure con forza, inducendola a desiderare di essere interamente divorata da quella bocca. Si sentì avvampare quando quel suono lasciò la sua gola e aprì un occhio per guardare l’espressione di Thorn. Sembrava che gli avesse dato tutt’altro che fastidio, perché i suoi occhi ardevano e in un muto consenso prese un respiro stentato e continuò a baciarla.
La voce irritata di Lady Septima tornò a gracchiare nell’interfono e spezzò la magia, bloccandoli sul posto, fermi come statue. Thorn non disse nulla, si limitò a lasciarle un bacio sul collo, lungo e umido, prima di darle la schiena e risedersi sullo sgabello, prendendo nuovamente le cuffie in mano.
Ofelia non sapeva quanta violenza lui si stesse facendo per non voltarsi a guardarla ancora, per non cedere alla tentazione di gettare per aria tutto e vivere in quel momento con lei, dimentico di responsabilità, guai, scadenze e nemici, di Lady Septima e del suo tono petulante.
Sì, era decisamente meglio non abbandonare la Buona Famiglia.
- Chiudetevi la porta alle spalle – le disse poi a mo’ di saluto.
Ofelia obbedì e, fuori dalla sala dell’Ordinatore si bloccò in mezzo al baccano dei cilindri e si morse il guanto con tutte le sue forze, cercando di schiarire gli occhiali rossi e il battito impazzito del suo cuore, di far scemare l’erubescenza delle sue gote e il fuoco che le ardeva negli occhi.
Trasse un respiro profondo. La cosa più importante era averlo ritrovato. Il resto sarebbe stato questione di tempo, per lui come per lei.
Doveva pazientare, non c’era altra soluzione. L’unica cosa che potesse fare era lavorare alacremente per fornirgli risultati concreti ed essergli d’aiuto, in modo da andarsene il più presto possibile, insieme. O in modo da rivederlo. Presto, era questione di ore il loro appuntamento successivo. Era pronta, era carica.
- Al lavoro! - mormorò dirigendosi verso la camera fredda.
 
 


Bonus (per cercare di rimediare a quanto sopra, terribilmente breve)
L’Attraversaspecchi III, La Memoria di Babel, Il non detto, pagine 306-308
 
Ofelia dovette arrendersi all’evidenza: non era brava a fare conversazione. Thorn condivideva con lei le informazioni relative all’indagine, ma appena il discorso andava sul personale si chiudeva in se stesso.
Quando lo vide prendere la bottiglia dell’alcol pensò che la tappasse e la mettesse via, invece si disinfettò le mani un’altra volta, come se davvero fossero infette.
Agli occhi di Ofelia non lo erano. Guardò da lontano l’intreccio di vene sulla pelle, le lunghe dita arcuate, le ossa sporgenti dei polsi, e di colpo sentì come un dolore alla bocca dello stomaco. Non aveva idea di cosa stesse succedendo, ma guardare quelle mani le faceva venire voglia di urlare.
O meglio, forse sapeva cosa le stava succedendo, però faticava ad ammetterlo. Non era una bambina, non più, ma non era nemmeno una donna. Dopo il bacio che si erano scambiati pochi giorni prima ne aveva avuto la certezza lampante, che ancora era restia ad accettare ed abbracciare, nonostante il suo corpo già lo facesse. Chiuse gli occhi per scacciare i suoi stessi pensieri, e si ritrovò nella tana del lupo: dietro le palpebre che scrutavano il buio vide solo immagini di lei e Thorn, labbra contro labbra, pelle contro pelle, le sue mani fredde e grandi che la toccavano con possessività e delicatezza, trasmettendo sul suo corpo quelle parole che le aveva rivolto nella prigione, anni addietro. Quelle che lei aveva bisogno di sentirsi dire ancora.
Perché Thorn era così distaccato? Così distante, nonostante tutto? Perché non le dava ciò che lei voleva, ossia una parola di conforto, una rassicurazione circa il fatto che nulla era cambiato, che l’amava ancora? Lei non si era forse esposta?
No... un bacio non corrispondeva ad un’esposizione. Thorn era ancora in bilico, sospeso nell’incertezza, ma Ofelia non trovava le parole per esprimergli ciò che provava e voleva. Tutto quello che voleva. Comprese le sue mani...
Quando riaprì gli occhi dovette vedersela con i suoi occhi ardenti, il viso attraversato da ombre e qualcosa che assomigliava forse alla frustrazione, ma non avrebbe potuto dirlo con certezza. Era sempre così difficile decifrarlo.
Thorn si chinò su di lei, seduta sul suo letto, ad un passo di distanza. Allungò una mano e le passò il pollice sul labbro inferiore, schiudendole la bocca. Ofelia trattenne il fiato, non si sottrasse, in attesa di qualcosa, qualsiasi cosa, qualsiasi gesto o parola. Avrebbe solo dovuto chiederlo, e lei gli avrebbe dato tutto, tutto ciò che aveva e poteva dargli, tutta se stessa. Bastava il tocco leggero dei suoi polpastrelli a farle perdere di vista il loro obiettivo, o il fatto che Thorn era stato già rifiutato troppe volte per volerne rischiare l’ennesima. Non era più lui il problema, era lei.
Ofelia gli afferrò il polso e tenne fermo il suo braccio per baciargli il dito che ancora sfiorava la sua bocca. Thorn non batté ciglio, le posò solo la mano sulla guancia; lei vi si appoggiò e chiuse gli occhi, desiderando vivere in quel momento. E morire in quel momento, con lo stomaco che le ardeva e il cuore che voleva fuggirle dalla gabbia toracica. Thorn era in grado di percepirlo?
Forse sì, perché avvicinò il viso al suo, sempre di più, ma quando Ofelia gli soffiò il fiato caldo sulle labbra, protendendosi verso di lui, Thorn si ritrasse di scatto, negli occhi una luce assassina e intensa, un dolore a stento trattenuto, un sentimento divorante. Evitò di guardarla e si allontanò.
- Vi ho detto tutto quello che so. Ora fareste meglio a tornare alla vostra compagnia, ogni minuto che passate qui con me è combustibile per i pettegolezzi. Preferisco sfruttare questo tempo per esplorare nuove piste.
Le sue parole, per quanto oggettive e obiettive, le fecero comunque male, come la presenza della mano che ancora aleggiava sulla sua guancia, nonostante fosse lontana, in procinto di rinfilarsi il guanto metallico.
Ofelia prese tempo tornando a parlare del loro obiettivo, qualunque cosa pur di non sentire quel vuoto che si scavava in lei ogni secondo che passava, come uno smottamento, o un terremoto, qualunque cosa pur di sentire ancora il suono profondo della sua voce, quella vera, con l’accento del Polo.
Qualunque cosa per rimanere ancora un po’ di tempo con lui, fosse pure per “sfruttare quel tempo per esplorare nuove piste”.
Alla fine tacque, anche se non aveva alcuna voglia di tacere.
Non le andava per niente di andarsene. Sebbene stare accanto a Thorn fosse una specie di frustrazione permanente, tanto più che lui non la toccava quanto lei avrebbe voluto, lasciarlo era ancora peggio. La irritava dover inventare stratagemmi per vederlo in privato e cronometrare ogni loro incontro.
Aveva posato la mano sulla maniglia della porta quando una parola la trattenne.
- Ofelia.
Sentirsi chiamare col suo nome dopo aver portato per mesi quello di un’altra era così sorprendente che sentì lo stomaco sussultarle. O dipendeva forse dal fatto che era stato proferito dalle labbra di Thorn? Il suo nome gli era passato tra le labbra con una punta di struggimento, o si stava immaginando tutto? Era disperata fino a quel punto? Thorn stava finalmente per pronunciare le parole che lei aveva tanto bisogno di sentire?
- Siete sicura che non avete niente da dirmi?
Thorn si appoggiò con entrambi i pugni al tavolo facendole pesare addosso il suo sguardo.
Vi lesse tutto quello che sapeva fosse leggibile anche nei suoi: desiderio, un bisogno di abbandonarsi a lei che era quasi doloroso, violento. Solitamente dagli occhi di Thorn non traspariva nulla di più che una fredda analisi di persone e ambiente circostante, di insinuazioni che sfuggivano ai più, si stava dunque immaginando tutto? Se lui davvero provava ciò che lei stessa provava, perché le stava così distante, perché non colmava il vuoto dentro di lei, perché non le dava una certezza?
Si immaginò di corrergli incontro, dimentica del suo ruolo, del suo compito, della sua missione, dell’ora, del giorno, del mondo, di Dio e dei famigliari, impaziente di vivere per un istante dentro Thorn. Di baciarlo e sentirne il corpo duro e imponente contro di sé, ossa, tendini, muscoli, giunture, pelle. Tutto di lui, per lei, sopra, sotto, davanti, dietro, dentro di lei, come un solo corpo, una sola persona, un solo nucleo.
Invece stette zitta, la gola arida e riarsa, il sangue immobile, il cuore tachicardico, la mano sulla maniglia, artigliata ad essa come avrebbe voluto aggrapparla alla sua camicia candida e immacolata.
Una scintilla brillò ancora negli occhi di Thorn.
- Sapete dove trovarmi – disse facendole cenno di uscire.
Obbedì senza rendersene conto, disorientata. Era solo colpa sua.
Come poteva desiderare che lui la cercasse, che le desse ciò che lei per prima non era in grado di dargli?
Il messaggio era chiaro: la scelta era sua. E se voleva che ci fosse un “loro”, un “noi”, avrebbe dovuto dirgli chiaro e tondo quello che sentiva. Riusciva a malapena ad ammetterlo con se stessa, ma come poteva essere diverso, per Thorn? Lo aveva sempre allontanato. Si meritava una sincerità spudorata, un consenso.
Glielo doveva.
Ma sarebbe stata in grado di fornirgliela, quell’onestà?

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Capitolo 9
*** La slitta pt. 1 ***


Attenzione: si avvisano i gentili lettori che il capitolo si è animato e mi è sfuggito di mano.
Letteralmente. Probabilmente in questa prima parte non capirete nemmeno quale parte del primo libro volevo approfondire. Nemmeno nella seconda parte, a dire il vero, perché ho il sospetto che quello che volevo trattare sarà un 5% del totale. E pensare che non sapevo nemmeno da dove iniziare... va be', il titolo è comunque un indizio (La slitta). E poi ci sono molti riferimenti agli albori...
L'ho dovuto dividere perché sta diventanto troppo lungo e la cosa sinceramente mi piace.
Consideratelo una specie di missing moment in cui loro sono sposati, Thorn è stato riabilitato, le minacce sono state sconfitte (?) e Thorn non è scappato quindi la gamba rotta è stata subito curata e non necessita di armature di sostegno.
Spero vi piaccia, grazie a chi leggerà^^


9. Le traineau

Ofelia prese un profondo respiro e si immerse nello specchio della camera, racimolando tutto il coraggio che aveva. Emerse con la testa nell’armadio pieno di cappotti dell’Intendenza, dove così tante volte si era recata in passato, per parlare con Thorn indossando i panni del valletto di Berenilde. Ricordi che sembravano risalire ad una vita precedente, ma di cui voleva sfruttare alcuni cavilli per ottenere ciò che voleva.
Sarebbe stato più facile, conveniente e proficuo parlarne a casa, in salotto, in sala da pranzo, in camera? Certamente. Dove aveva deciso di affrontare il discorso, lei? Nel suo ufficio, in pieno orario di lavoro e di visite, senza riguardo per il buon costume e senza invito. Thorn era preso fin sopra i capelli con un censimento annuale non specificato di cui Ofelia non aveva capito lo scopo; l’unica cosa che aveva afferrato era che la presenza del marito a casa era più scarsa del solito: talvolta non rientrava nemmeno per dormire. Quanto meno si sforzava di chiamarla per avvisarla dei ritardi o delle assenze, ma la cosa cominciava a diventare pesante ad Ofelia. Le sembrava quasi che avessero avuto più tempo a disposizione per loro quando erano solo dei fidanzati, e lei non era innamorata, per giunta.
Se l’unico modo per parlargli e vederlo era quello di recarsi da lui, lo avrebbe fatto.
Con la testa e il busto nel suo armadio, sputò il pelo di una pelliccia che le si era infilato in bocca e bussò con le dita inguantate sul legno dell’anta, ovviamente chiusa. La sciarpa si dimenava, a metà tra i due lati dello specchio, per nulla a suo agio. Non ottenendo risposta, bussò più forte. Questa volta udì chiaramente il rumore dei tacchi di Thorn che si avvicinavano, l’apertura repentina del mobile, e poi un occhio metallico e stretto a fessura fece capolino tra due cappotti, puntando dritto al suo viso. Ofelia, bloccata dallo sguardo gelido di Thorn, non notò nemmeno l’arcata sopraccigliare severamente contratta, la mascella rigida e la bocca sottile stretta a trattenere una smorfia. Non sembrava particolarmente felice di vederla.
Con un solo cenno del capo le fece capire che avrebbe dovuto aspettare. Chiuse l’anta, questa volta accostandola e basta, e si allontanò. Ofelia ne approfittò per uscire del tutto dallo specchio e si mischiò alle pellicce, lieta del tepore che cappotti e spazio angusto emanavano. Nell’ufficio di Thorn faceva sempre freddo.
Quando un’altra voce, sempre maschile, si frappose a quella del marito, Ofelia si rese conto che Thorn stava ricevendo qualcuno. Pessimo tempismo. Non poteva aspettarsi qualcosa di meglio, comunque, dal momento che si era presentata senza invito. Rimase in paziente attesa, cercando di carpire qualcosa dal discorso che i due uomini stavano intrattenendo.
- Mi state dicendo di no?
- Precisamente – confermò Thorn, lapidario, la voce più grave e la erre più scricchiolante del solito.
Ofelia lo conosceva abbastanza bene da percepire che l’individuo seduto con ogni probabilità di fronte a lui non gli andava particolarmente a genio.
- Esigo delle motivazioni – berciò lo sconosciuto, con una voce nasale e stridula che fece storcere il naso ad Ofelia.
Arrischiò un’occhiata discreta dalla fessura dell’anta. Seduto sulla sedia davanti alla scrivania di Thorn c’era un funzionario in redingote che assomigliava ad un grasso pinguino stravaccato più che ad un nobile. Aveva il viso rubicondo e un bottone della camicia in procinto di saltare in un occhio dell’intendente, che se n’era accorto e lanciava occhiate di scoraggiamento alla pancia prominente dell’interlocutore. Ad Ofelia non suscitava una gran simpatia.
- Ho urgenza di chiudere questa conversazione priva di buonsenso, ma ricca di fesserie e ridicolaggini. Davvero mi state chiedendo perché non coadiuvo una legge che caldeggi la poligamia o una che giustifichi un marito infedele invocando come scusa un amore smisurato per il sesso femminile?
L’uomo divenne paonazzo, ma di rabbia, non di imbarazzo. – Proprio così! Siamo uomini, intendente, dotati di carne, sangue e impulsi, una legge che prevede una sola moglie è restrittiva e nuoce alla salute sia del marito che della consorte. Mina la salute del matrimonio e la libertà di ognuno.
Ofelia vide Thorn dallo spiraglio, rigido come uno spaventapasseri, alto e magro quanto l’uomo di fronte a lui era basso e grasso. – La libertà di ognuno consiste nello scegliere se sposarsi o meno. Il matrimonio implica una sola moglie e una progenie. Un atteggiamento diverso sarebbe disdicevole.
- Devo ricordarvi, intendente, che voi siete nato proprio perché il vincolo matrimoniale è stato trasgredito?
Ofelia rabbrividì. Thorn aveva finalmente rivolto il suo sguardo serio e inflessibile verso il funzionario dalla lingua lunga, e ciò che albergava nei suoi occhi era ben lontano dal divertimento, dal cameratismo o dall’indulgenza. Le narici leggermente dilatate, la fronte aggrottata fino a far congiungere le sopracciglia, la mascella così contratta che Ofelia giurò di averlo sentito digrignare i denti: Thorn era infuriato. Carico d’odio.
Non si prese la briga di rispondere a quell’attacco privo di tatto. – La risposta è no, non prenderò minimamente in considerazione una simile legge. Significherebbe anarchia, immoralità, corruzione e perdita di valore per il sacro vincolo matrimoniale.
Il sacro vincolo matrimoniale… Ofelia non credeva che Thorn lo considerasse addirittura sacro. Sicuramente non era abbastanza romantico da considerarlo un legame d’amore indissolubile ed eterno, che legava due cuori. Le veniva da ridere al solo immaginare Thorn con certi pensieri: era un tale paradosso!
Il nobile con la pappagorgia ringhiò e sputacchiò nel tentativo di palesare il suo malcontento. – Ve ne pentirete intendente, vedrete cosa vi farò.
Thorn appoggiò i gomiti sul tavolo, e nel farlo la giacca da intendente che indossava, la giacca che portava al di sotto e la camicia si tesero, lasciandogli scoperta la pelle dei polsi e dell’inizio degli avambracci. Su entrambi spiccavano le lunghe e bianche cicatrici che Ofelia conosceva così bene… e amava così tanto.
Il funzionario ammutolì quando le vide, quasi che Thorn gli avesse puntato una pistola contro.
- Non vi conviene minacciarmi, sarebbe solo fiato sprecato. Ringraziate solo che non avvisi vostra moglie della discussione appena avvenuta.
L’ometto se ne andò indignato, borbottando. – Avete troppo potere, mi consulterò con gli altri e vedrete cosa vi faremo passare.
- Al contrario, il potere non è troppo quando ben amministrato. Non si parla di potere, inoltre, ma di capacità di giudizio e discernimento, caratteristiche di cui la maggior parte di voi è sprovvisto. Chiudete la porta alla vostra uscita.
La porta la sbatté, invece di chiuderla.
Ofelia vide Thorn fare un altro cenno di attesa verso l’armadio, verso di lei, e sollevò il ricevitore del telefono.
- Dovete far attendere le visite programmate fino a mio ordine. C’è stato un contrattempo. No, niente di grave. Non devo essere disturbato per nessun motivo fino ad allora.
Thorn riattaccò. Ofelia intuì che aveva parlato con il consigliere, poco distante dal suo ufficio. L’intendente si alzò dalla sedia e andò a chiudere la porta del suo studio con la chiave, prima di recarsi verso l’armadio. L’approssimarsi della sua figura imponente le tolse tutta la luce, e la visuale di Ofelia si fece nera.
Thorn le aprì l’anta e scostò le giacche per permetterle di uscire. Ofelia non s’illudeva certo che il suo fosse un gesto galante: sapeva semplicemente quanto fosse facile cadere per una come lei, così aveva tolto di mezzo ogni possibile fonte di inciampo. La precedette alla scrivania e tolse di mezzo calamaio e inchiostro, memore di una delle visite in cui Ofelia aveva combinato la sua, macchiando tutto il legno a causa di un gesto brusco.
Ofelia si sedette sulla sedia, adattata alla misura di Thorn, per cui non toccava nemmeno terra con i piedi. Lui la fissava con lo sguardo truce dall’altra parte della scrivania, i gomiti ossuti appoggiati al legno e il mento appuntito adagiato sulle mani intrecciate. Si era fatto crescere il pizzetto modellandolo col rasoio per dargli la forma di un’àncora. Bizzarro, che si fosse sistemato la barba proprio come quando si erano conosciuti da poco. Ofelia doveva chiedergli proprio una cosa pertinente a quel passato.
- Come mai sei qui?
Ofelia si riscosse, per nulla intimidita dal suo tono freddo e inquisitorio.
- Devo chiederti una cosa.
Non aveva senso andare tanto per il sottile, con lui.
Thorn increspò le sopracciglia più di prima, il suo sguardo si fece distante.
- Non potevi chiedermelo per telefono? O aspettare che rientrassi?
- Non gradisco il dialogo telefonico. Se possibile vorrei ancora guardare in volto il mio interlocutore. Quanto alla seconda domanda, si dà il caso che mio marito non dorma a casa da due notti, avvisandomi sempre all’ultimo.
Sebbene non avesse mai avuto intenzione di utilizzare un tono accusatorio, sul finire della frase la sua voce aveva assunto quella sfumatura: lo stava involontariamente incolpando.
Ofelia non si soffermò a pensare a quando, appena fidanzati, una situazione matrimoniale di quel tipo le avrebbe fatto solo piacere: un marito sempre al lavoro, che tornava a caso di rado e spesso dormiva fuori. Il quadro ideale, per lei, che non voleva avere nulla a che fare con doveri coniugali, chiacchiere da consorti e quant’altro, tanto meno con uno come Thorn. Impensabile, come si fosse evoluta la situazione. Quel quadro di solitudine e lontananza dal marito le appariva tutto fuorché attraente. Thorn le mancava. Le mancava addormentarsi con il suo corpo caldo al fianco, le mancavano i baci che le rubava, le carezze estremamente dolci che le riservava quando erano soli. Le piacevano persino i loro silenzi complici, il suo modo di parlare diretto, schietto, senza fronzoli, la sua mancanza di ipocrisia e la sua sconcertante onestà.
Si era perdutamente innamorata di Thorn, e le mancava.
Lui increspò ancora di più la fronte, corrugando il viso così tanto che le due estremità delle cicatrici parvero toccarsi. Si irrigidì, si appoggiò allo schienale della sedia, e lasciò cadere le braccia in grembo, in modo misurato.
- Ti ho già spiegato perché mi assento. Tornerei a casa se potessi, mi pare di averlo detto chiaramente.
- Lo so, non voleva essere un’accusa.
La sciarpa si agitò attorno al suo collo, impaziente che Ofelia facesse la sua richiesta.
- Cosa devi chiedermi? – la incalzò Thorn, quasi avesse letto i muti movimenti della sciarpa. – Ho diversi appuntamenti che si stanno accalcando, non puoi proprio aspettare?
La parte egoistica di Ofelia si ribellò, saggiando l’idea di prendergli più tempo del previsto. Poi però tornò in sé e, lungi dall’essere meschina, si sentì solo trascurata.
- Vorrei affrontare subito l’argomento, dato che non so quando sarà la prossima volta che ti vedrò.
Thorn non riuscì a nascondere una piccola smorfia, ma per il resto non mutò espressione. – Non mi sembra il caso di essere così…
- Ti ricordi le richieste che ho avanzato prima che ci sposassimo? – lo interruppe, leggermente spazientita.
Come al solito, Thorn ripeté: - Io non dimentico mai nulla.
Ofelia sostenne il suo sguardo. Non dimenticava mai nulla grazie alla sua portentosa Memoria, certo, ma aveva la minima idea di quale fosse la richiesta a cui alludeva?
- Allora? – la sollecitò, ancora.
- Ah, visto che ti ricordavi, pensavo avessi capito – disse causticamente.
Thorn si lisciò i capelli già perfettamente pettinati. – Mi ricordo ogni tua richiesta, ma a quale fai riferimento di preciso, e perché? – cedette alla fine.
Ofelia cercò di trattenere un sorrisino soddisfatto.
- Mi riferisco a quello che ti ho chiesto quando sei stato attaccato, qui all’Intendenza, e io sono venuta a farti visita a tarda notte.
Un lampo nei suoi occhi fece capire ad Ofelia che Thorn aveva ben presente la situazione cui faceva riferimento.
- Hai avanzato più di una richiesta – fu lui a ricordarle, senza indugi.
Con Thorn non c’erano mai esitazioni, mai “credo che”, “forse”, “penso di”, “magari”. Le sue parole erano come lui: dirette come la traiettoria di una freccia, e spesso altrettanto pungenti.
- Sì, e mi sono da poco resa conto che, sebbene tu mi avessi concesso tutto quello che ho chiesto, non ne hai rispettata una.
Thorn le si avvicinò di nuovo, sporgendosi sul tavolo allungando l’infinita colonna vertebrale. Negli occhi sembrò vibrargli la sfida. Lui non dimenticava mai nulla e ottemperava sempre alle sue promesse.
- Non mi risulta.
- Ti avevo chiesto di poter vedere il mondo esterno.
Thorn annuì col mento, una sola volta. – Sì, perché, testuali parole, alla lunga credevi di non essere più in grado di distinguere le illusioni e la realtà. La mia risposta è stata…?
Presa in contropiede, Ofelia vacillò. Anche la sciarpa si agitò, stizzita, mentre gli occhiali si tingevano di un insofferente grigio smorto. Non ricordava le parole esatte, non era quello il punto.
- La mia risposta è stata – riprese Thorn, dopo il suo silenzio senza responso, - che te lo avrei concesso, perché l’inverno stava finendo e le temperature erano di nuovo in aumento.
- Sì, è vero… - bofonchiò Ofelia, cercando di riportare la conversazione sui binari che voleva lei. Thorn era troppo bravo a guidare i discorsi e ad averla vinta con la sua parlantina sciolta. – Ma…
- Hai aperto lo studio di lettura fuori da Chiardiluna, infatti. Hai trascorso un mese a Sabbie d’Opale, alle terme, con tutta la tua famiglia. Abbiamo addirittura visitato il circo insieme.
Fine del discorso. Non aggiunse altro. Ofelia avrebbe voluto dirgli che aprire lo studio di lettura non equivaleva a visitare il mondo esterno, e che non poteva asserire che avevano visitato il circo insieme come se fosse stata una piacevole gita programmata. Era stato un caso, nulla più, conclusosi addirittura con un attacco a loro danno. In ogni caso, riguardo alla permanenza a Sabbie d’Opale non sapeva proprio come ribattere. Gli occhi da sparviero di Thorn però la impalavano, bloccandole le parole in gola come batuffoli di cotone.
Fu di nuovo Thorn a prendere la parola in seguito al suo attonito e confuso silenzio. – In cosa, dunque, non avrei rispettato la concessione?
Ofelia strinse le mani l’una nell’altra, cercando di trattenersi dal morderne le cuciture. Non ci riuscì, e la punta del mignolo le finì in bocca. – Sì, è vero, l’hai rispettata, ma… non ho davvero visto il mondo esterno.
- A cosa ti riferisci quando parli di mondo esterno?
- Mi piacerebbe andare fuori dalle mura, nella distesa innevata dei boschi, dove non c’è proprio la minima traccia di illusione. O di civiltà e cortigiani.
Thorn la guardò attentamente, come se lei gli avesse appena chiesto una tazza di caffè, di spogliarla lì sulla scrivania o di prepararle un’aeronave per tornare su Anima: la sua espressione non cambiava, ma lui stava cercando di capire se fosse seria o meno.
Valutando il fatto che si era data la briga di raggiungerlo nel suo ufficio, che gli stava facendo “perdere tempo” e che sembrava sulle spine e nervosa, quello che chiedeva doveva essere innegabilmente vero, non una pretesa faceta.
- Lì fuori è pericoloso – sancì, lapidario, senza spostarsi di un millimetro. – Non posso lasciare che tu vada da sola nei boschi, a vagare. O scortata da tua zia. A fare cosa, poi?
- Volevo che tu venissi con me.
L’ammissione lo colpì come l’intera conversazione non era riuscita a fare per tutto quel tempo. Thorn batté le palpebre, sollevando poi le sopracciglia, facendogli separare e allungare entrambe le cicatrici.
- Io devo venire con te nei boschi?
Ofelia annuì, sicura che la voce non le avrebbe retto.
- Per quale motivo? E quando, per giunta? Non ho un attimo libero.
- Thorn, non abbiamo nemmeno avuto una luna di miele vera a propria. Non ti prendi mai una vacanza, anzi, credo sinceramente che tu ignori il significato di questo vocabolo.
- So cos’è una vacanza – rispose lui, piccato.
- Non è questo il punto. Non siamo mai restati da soli, nemmeno una volta.
- Cosa vorresti dire?
- Mia zia vive con noi. Abbiamo vissuto per lungo tempo con tua zia. Vorrei davvero che ci prendessimo due giorni per noi. Rallentare, soprattutto tu. E potresti prenderla come il mantenimento di una promessa, non come una vacanza.
Thorn rimase in silenzio, se attonito o di riflessione, Ofelia non avrebbe saputo dirlo.
Alla fine espirò. Nemmeno lui stesso si era reso conto di aver trattenuto il respiro.
- D’accordo – concesse. – Tre giorni fuori dalle mura, lontani dall’arca sospesa a mezz’aria, dalla corte, da casa nostra, dalle nostre zie. La cosa ti aggrada?
Ofelia trasecolò, la sorpresa la fece tossire. Thorn non si scompose mentre lei diventava paonazza; era abituato a certe scene, sapeva quando doveva preoccuparsi e quando poteva rimanere al suo posto, imperturbato.
- Tre giorni? Davvero? Io e te?
Ofelia era esterrefatta. Thorn cedeva sempre con lei, non le aveva mai negato nulla, questo doveva riconoscerglielo, ma che accettasse così in fretta… e per un giorno supplementare, oltretutto! Per una vacanza, poi? Così su due piedi…?
Qualcosa non tornava.
- Si dà il caso che si stia avvicinando la scadenza di alcune pratiche per cui mi servono dei dati da parte dei guardacaccia. Loro sono restii a raggiungermi qui, pertanto l’accordo è che mi facciano trovare i documenti che mi servono debitamente compilati e che io li prelevi. È un buon accordo, loro sono soddisfatti e io risparmio un terzo del tempo. Un giorno in più posso sprecarlo fuori dalle mura, per analizzare le pratiche e verificare che i dati siano corretti e completi.
Ah, ecco dov’era la fregatura.
- Quindi mi porterai con te mentre lavori? – chiese, irritata.
Thorn si alzò dalla sedia e si diresse verso la finestra tonda che capeggiava sopra il divanetto logoro. Parlò come se non avesse nemmeno sentito il suo commento offeso. – Partiremo all’alba e nel pomeriggio andrò dai guardacaccia. Il giorno successivo potremo fare quello che vuoi, hai carta bianca. Purché tu non mi chieda di andare a caccia. Vista la tua naturale capacità di attirare catastrofi, non mi sorprenderei se un branco di Bestie gravide ci accerchiassero per sbranarci. Fortunatamente sono in letargo ora. Il terzo giorno finirò il giro dei guardacaccia e nel pomeriggio ripartiremo per essere a casa per la notte.
Ofelia era stupita, e si meravigliò che Thorn avesse ancora il potere di lasciarla senza parole, dopo tutto quel tempo. – Dove dormiremo?
- I Draghi hanno un avamposto nel cuore della foresta, non troppo lontano dai rifugi dei guardacaccia, che utilizzavano come luogo di raduno prima e dopo le battute. Ci tenevano il necessario, qualche abito di ricambio, ma ci sono anche stanze per dormire, gabinetti e cucine. Non è molto grande, è formato da ambienti separati e spartani. Non credo però che tu intenda fare una gita di benessere in qualche località di lusso, o sbaglio?
Il tono di Thorn sul finire del discorso era diventato sarcastico, Ofelia ne era certa.
Alzò il mento, anche se lui non poteva vederla, quasi a sfidarlo. – Difatti. Bene allora, fammi sapere quando sarà la partenza.
Thorn si voltò di nuovo verso di lei, avvicinandosi senza fare alcun rumore. Per quanto fosse alto, difficile non notarlo, il suo passo era felpato, sinuoso. Ofelia cercò di sostenere il suo sguardo, anche se lo perse quasi subito, lassù in alto.
Era arduo anche cercare di mostrarsi reticente, dal momento che aveva ottenuto ciò che voleva. Anche qualcosa di più. Era andata lì per fargli una proposta che lui avrebbe difficilmente accettato, e invece aveva già programmato il viaggio, e per un giorno più del previsto! Sebbene fosse per due terzi un viaggio di lavoro, Ofelia contava di poter raggiungere il suo scopo il secondo giorno di permanenza, quando avesse avuto campo libero su cosa fare.
Non aveva intenzione di andare in gita, come Thorn aveva insinuato. Il suo intento era un altro, che la assillava da molto tempo, e finalmente avrebbe potuto testare la sua teoria. Non restava che aspettare.
- Partiremo tra otto giorni precisi. È tutto?
Quanta freddezza! Lui e i suoi modi da intendente anche nel programmare una vacanza.
Ofelia distolse lo sguardo per non farsi venire il torcicollo, e si alzò, dirigendosi verso l’armadio per tornare a casa.
- Sì, è tutto.
Doveva ringraziarlo? Decise di no, visto il suo scarso entusiasmo. Non si aspettava che fosse felice all’idea, ma nemmeno così apatico. Come al solito.
- Allora devo farti io una richiesta.
Le sue parole la colsero così di sorpresa che la sciarpa le si annodò più stretta attorno al collo, rischiando di farla soffocare, e i suoi piedi inciamparono su loro stessi. Ofelia si aggrappò all’armadio per non cadere.
- Cosa?
- Segreto professionale. Immagino tu abbia sentito la conversazione intrattenuta con quel funzionario appena sei arrivata. Non mi illudo che tu non abbia origliato. In ogni caso, ciò non toglie validità alla discussione, coperta dal segreto professionale. Devo chiederti di non farne parola con nessuno. Nemmeno con tua zia.
Ofelia stava per ribattere che non avrebbe potuto raccontare ad un accidenti di nessuno quella conversazione, ma poi pensò alla zia Roseline, che sarebbe stata incuriosita e scandalizzata dal tenore della richiesta del nobile, e a Renard, che si sarebbe fatto una bella risata.
Allora annuì, mostrandosi disposta ad ascoltarlo. – Non ne farò parola con nessuno, lo giuro. A proposito, però, penso che tu abbia… preso la decisione migliore.
- L’unica decisione. Un matrimonio si basa sul rispetto, se avessi acconsentito non avrebbe avuto senso come istituzione.
Ofelia annuì, per nulla sorpresa dal suo pragmatismo. Poi trattenne a stento una risata. – In effetti non ti ci vedo proprio a spiegare a tutta la corte che hai approvato una legge sulla base del tuo amore e di quello del genere maschile in generale per le donne.
Thorn si accigliò, per nulla divertito. – Una mi basta. Dovrebbe essere così per tutti.
Quelle parole la scaldarono dentro, tingendole lievemente gli occhiali di un rosa pallido. Fece per voltarsi, ma lui la richiamò.
- Ofelia?
Le sembrò di tornare indietro di alcuni anni, quando loro erano ancora fidanzati, lei era un valletto e si incontravano solo lì, nel suo ufficio. Si voltò, puntando gli occhi verso il suo pizzetto ad àncora, dal momento che gli occhi erano troppo in alto. Invece calarono in fretta su di lei, rapendola nella sua ombra, baciandola con urgenza, senza delicatezza o tenerezza. Il contatto durò a lungo, e quando si separarono avevano entrambi il fiato corto.
- Rincaserò domani sera…
La voce di Thorn era ferma, ma quasi incerta verso la fine della frase. Rimpianto, forse?
Ofelia annuì, per nulla sorpresa, infilandosi nell’armadio e successivamente nello specchio. Ne uscì nella loro camera, a casa, ancora con il respiro frammentato.
Era così difficile leggere Thorn, nonostante tutti quegli anni. Cosa voleva dire quel bacio? Era un contentino per indorarle la notizia che non sarebbe rientrato nemmeno quella notte? Una promessa per la loro piccola vacanza imminente? Un modo per scusarsi? Il tentativo di dirle con un contatto che le mancava e che l’amava?
Probabilmente era solo un ghiribizzo, non doveva interrogarsi troppo. Thorn non era troppo complicato.
Sorrise al pensiero paradossale. Thorn era assieme la persona più semplice e complessa che avesse mai conosciuto, anche se lui avrebbe affermato il contrario: quella più imprevedibile e ingestibile era lei, non lui.
Uscì dalla stanza per andare a parlare con la zia Roseline. Le tornò in mente la richiesta del funzionario e le scappò quasi da ridere, cosa che fece sussultare la sciarpa, che si muoveva felice come un’onda di mare.
No, aveva giurato, doveva tenere la bocca chiusa. Pensò fugacemente ad Archibald, chiedendosi se avrebbe approvato la proposta.
Forse no, dato che non era sposato e aveva tutte le donne che voleva.
Possibile che Thorn fosse l’unico uomo fedele in tutto il Polo?
In soggiorno, però, trovò Renard insieme alla zia Roseline, e il sorriso fulgido che le rivolse la fece pensare ad un caminetto sorridente.
No, Thorn non era l’unico. Sia lui che Renard le permettevano di avere ancora un briciolo di fiducia negli abitanti del Polo.
 
Thorn la svegliò la mattina della partenza che fuori era ancora buio; lo sarebbe stato ancora per diverse ore, a dire il vero. Erano le primissime ore del mattino.
- Se mi avessi avvertito che ci saremmo dovuti alzare così presto sarei andata a letto prima – bofonchiò Ofelia a mezza voce, camminando per la stanza intenta a vestirsi e sistemare le ultime cose.
Thorn non aveva nemmeno un bagaglio vero e proprio. Un po’ come quando era andato a prenderla su Anima, una vita prima. I sensi di nostalgia e di dejà-vu aumentavano, in quel periodo. Aveva ancora il pizzetto curato, non si era sbarbato del tutto. Se però fisicamente erano simili ai loro stessi di quando erano fidanzati, non si poteva dire lo stesso della loro personalità. Erano cambiati così tanto in quegli anni…
- Ti ho invitata a farlo più volte, ieri sera. Come sempre, non mi hai voluto ascoltare – sibilò lui, parlando piano per non svegliare gli altri.
Nessuno dei due si rendeva conto che la loro camera, oltre ad essere enorme e ben insonorizzata, era alquanto lontana dalla camera della zia e ancora più distante dagli alloggi della servitù. Ad entrambi però sembrava quasi di disturbare la quiete esterna parlando a voce alta.
Ofelia si avvolse con stizza la sciarpa attorno al collo, dopo aver finito di allacciarsi i bottoni del vestito. Era anch’esso grigio, come quello che aveva indossato per conoscere Thorn la primissima volta. Questo però, invece di essere sciatto e vecchio, era un dono di Berenilde, semplice ma elegante, e al tempo pratico. Ofelia doveva riconoscerle di saper sempre azzeccare l’abito giusto, fondendo il bisogno di Ofelia di comodità e il suo di buongusto.
- Sei una donna di corte, moglie dell’intendente, per tutti i Draghi! Devi presentarti come si deve! – le aveva detto quando glielo aveva tirato dietro senza tante cerimonie.
Un regalo apprezzato, sicuramente. Non presentato ottimamente, ma da Berenilde era già tanto ricevere un pensiero.
Ofelia continuò a borbottare sommessamente. Agguantò la pelliccia più calda che aveva da dentro l’armadio e se l’appoggiò al braccio, prendendo con la mano libera la piccola valigia da viaggio. Una cosa che lei e Thorn avevano in comune era l’essenzialità. Avevano sempre portato via poche cose, ovunque fossero diretti.
Quando gli si avvicinò con l’intenzione di uscire dalla stanza, Thorn schioccò la lingua, contrariato. La bloccò sulla porta. La superò, si diresse al suo armadio e, nonostante indossasse un cappotto pesante, ne agguantò un altro. Poi prese anche quello di Ofelia in un movimento rapido ed efficiente e si appropriò di entrambi i loro bagagli. Si avviò nel corridoio senza aspettarla.
- Aspetta! – bisbigliò Ofelia, cercando di raggiungerlo, sperando di non inciampare da qualche parte. La sciarpa, assonnata, le strinse il collo, in una chiara richiesta di tacere e lasciarla riposare. – Perché due cappotti?
Thorn non le rispose, o forse non la sentì, fatto sta che si ritrovarono fuori dalla porta di casa in un baleno. La carrozza li aspettava. Thorn controllò l’orologio da taschino in una frazione di secondo: erano in perfetto orario.
Ofelia provò a porre di nuovo la domanda, ma Thorn le fece capire senza tanti giri di parole che doveva tacere e salire sul veicolo. Peccato che Ofelia non fosse proprio donna da stare zitta.
Attese comunque che la carrozza si mettesse in movimento prima di incalzarlo.
- Allora?
Non aggiunse altro, per metterlo alla prova. E infatti Thorn rispose senza bisogno che lei riformulasse la domanda, facendole capire che l’aveva sentita benissimo la prima volta.
- Misura previdenziale. Temo che avrai freddo con quel semplice pellicciotto. Credo che sia più utile come asciugamano che come cappotto.
Ofelia inarcò le sopracciglia. – Me l’ha regalato tua zia.
Cosa, nel suo armadio, non era stato regalato da Berenilde? O fatto comprare da Thorn dietro ordine di Berenilde? Per fortuna Ofelia era riuscita a salvare i suoi vecchi capi d’abbigliamento prima che la zia facesse piazza pulita del sul “orribile guardaroba da zitella”. Aveva anche aggiunto che la zia Roseline, seppur vedova e in là con gli anni, si vestiva meglio di lei.
- Giustappunto. Mia zia bada più alla forma che alla sostanza. Fidati, non ti proteggerà per nulla quel giubbottino che indossi.
Ofelia era stanca, si era alzata prima di quanto avesse mai fatto, era stufa di discutere e punta sul vivo. Gli avrebbe fatto vedere quanto l’avrebbe tenuta al caldo quel capo di vestiario. Più per orgoglio personale che per affezione a quella pelliccia.
- Vedremo – disse allora, prima di chiudere gli occhi, sfinita nonostante si fosse appena svegliata.
Prima di abbandonarsi al sonno, comunque, avrebbe potuto giurare di aver visto un lampo divertito tra la fessura delle palpebre di Thorn.
 
Arrivarono al fossato di Città-cielo che il sole era già alto. Probabilmente era quasi l’ora di pranzo. Ofelia aveva saltato la colazione e moriva di fame, ma non l’avrebbe mai ammesso con Thorn. Sembrava quasi che lui non dovesse mangiare mai, e sperò che il suo stomaco non la tradisse gorgogliando.
Ad attenderli sul muraglione c’era Jan, il guardacaccia che aveva incontrato la prima volta che era venuta, insieme a due slitte e ai mastodontici cani simili a cavalli. Bestie addomesticate.
- Buongiorno mio signore! È da molto che non ci si vede, spero sia in ottima salute. Il nostro ultimo incontro purtroppo risale a quello spiacevole incidente della sua famiglia e…
- Buongiorno – lo interruppe Thorn, laconico, passandogli i bagagli.
Se non altro Ofelia era riuscita ad ottenere quello, dai suoi modi bruschi: che quantomeno salutasse. Per il resto, restava il burbero intendente con poco riguardo alla forma e alla cordialità. La sciarpa, che la pensava come lei, frustò l’aria.
- Siamo davvero onorati della sua visita, se volesse intrattenersi una sera con me e mia moglie ci farebbe solo piacere. Preparerà il…
Il guardacaccia si interruppe quando Ofelia emerse da dietro Thorn. Possibile che fosse così piccola e insignificante da passare inosservata?
- La dama di compagnia della vostra illustre zia? La state riportando da dov’è venuta, mio buon padrone?
Ora che Ofelia aveva capito meglio la gerarchia del Polo, che all’inizio aveva fatto tanto fatica ad afferrare, si rese conto che la deferenza del guardacaccia era comunque eccessiva. Che fosse perché viveva isolato da tutti? In ogni caso, la inteneriva il modo in cui trattava Thorn, senza ipocrisia, con vera ammirazione, come pochi facevano al Polo.
Poi si rese conto di ciò che aveva detto. Riportarla dov’era venuta?
Con stupore si rese conto che in effetti l’uomo non poteva sapere chi fosse. La prima volta che l’aveva incontrata lei era stata spacciata per la dama di compagnia di Berenilde. La seconda volta, quando Jan aveva riferito la sorte dei cacciatori nel salotto di Chiardiluna, Ofelia era effettivamente con la madama, anche se non in qualità di sua accompagnatrice. Nessuno, del resto, gli aveva rivelato la verità.
- No, è mia moglie, mi assisterà per il tempo che passerò qui.
Senza altre spiegazioni Thorn salì sulla prima slitta, quella dov’erano caricati anche i loro bagagli leggeri, e attese il via libera per lanciarsi giù dalla muraglia.
Ofelia lo guardò inorridita. Se n’era andato da solo? Possibile che si comportasse ancora come agli albori, senza nessun riguardo per lei?
Jan doveva pensarla allo stesso modo, perché la guardò imbarazzato.
- Mia signora moglie del mio padrone, vogliate seguirmi, prego.
Il guardacaccia la condusse alla sua slitta, dove Ofelia si sistemò come tanto tempo prima. Lui esitò prima di partire. – Insomma vi siete innamorati. Congratulazioni agli sposi. È successo al servizio della meravigliosa madama Berenilde, giusto?
Ofelia annuì, esitante. Se Thorn non si prendeva la briga di spiegare la vera storia dietro al loro matrimonio, di certo non l’avrebbe fatto lei.
Prendendo il suo muto assenso per timidezza, Jan scosse la testa e impugnò le briglie, lanciandosi nel vuoto.
La discesa, per quanto breve, fu orribile. Il pellicciotto largo le si sollevava ovunque, facendo entrare neve e spifferi gelidi. La picchiata le fece passare la fame, rendendola grata di avere lo stomaco vuoto. Gli occhiali rischiarono di volarle via e la sciarpa la strinse fin quasi a soffocarla, come se il collo di Ofelia fosse un maniglione antipanico.
Aveva il fiato corto quando atterrarono nello spiazzo di neve levigata di fronte a casa di Jan. Il fiato di Ofelia si condensava in enormi nuvolette e lei tremava dalla testa ai piedi, asciutta ma estremamente nuda in quella distesa bianca.
Thorn, efficiente come sempre, aveva già scaricato le loro valigie e, appena la vide, le andò in contro. Il guardacaccia la aiutò a scendere; Ofelia lo ringraziò con lo sguardo come poté: aveva le gambe che la reggevano poco. Thorn la agguantò prima che cadesse, rimettendola ritta e aspettando a mollarla finché non fu certo che fosse stabile. Poi le tolse in un solo gesto sinuoso il pellicciotto, che lanciò sulla slitta di Jan, e la coprì col suo enorme cappotto di riserva.
Inutile a dirsi, Ofelia si sentì subito meglio, e avvampò per quell’ammissione personale. Thorn non infierì, non fece nemmeno un commento, un sospiro, un movimento con le sopracciglia, ma non fu necessario: i suoi occhi esprimevano benissimo il concetto.
Te l’avevo detto.
Ofelia riacciuffò lo stesso la pelliccia e, dietro lo sguardo perplesso di Jan, seguì il marito. Poi si bloccò, quando vide che in realtà Thorn non era affatto diretto verso l’entrata della casa del guardacaccia, sulla cui soglia aspettava la moglie. No, stava procedendo dritto verso un bosco.
- Thorn? – lo richiamò lei, allarmata.
- Mio buon signore, è in arrivo una tempesta, dove avete intenzione di andare?
Thorn fece loro la cortesia di fermarsi, ma non si girò. – Proprio perché sta arrivando una tempesta è il caso che io e mia moglie ci affrettiamo verso il nostro alloggio.
- Quale alloggio? – si intromise la moglie di Jan, più diretta e meno pomposa del marito.
Ofelia doveva ancora capire se la sua schiettezza le piacesse o meno. Non aveva dimenticato i commenti che aveva fatto all’arrivo lì di sua zia e di lei stessa.
- L’avamposto dei Draghi è ufficialmente di mia proprietà da quando il sire Faruk ha riconosciuto il mio rango. Dormiremo lì.
- Ma è sperduto nel nulla e non viene acceso un fuoco da anni! Dubito addirittura che sia ancora in piedi! – esclamò il guardacaccia, stupito.
- Ho le mie fonti. L’avamposto è al sicuro, intatto, e ci ospiterà. Ora, se volete scusarci, vorrei arrivarci prima della tempesta, e tornare da voi in tempo per sbrigare le nostre faccende.
Ofelia capiva poco di quella situazione, ma il “se volete scusarci” di Thorn le era chiaro: doveva seguirlo. Senza fiatare gli camminò dietro, sollevando il più possibile le ginocchia nella neve alta. Dopo pochi minuti aveva il fiatone e non aveva più freddo, ma era esagerato aspettarsi che avesse caldo. Thorn, al contrario, era rimasto in giacca, con sotto solo la camicia inamidata, e portava tutte le loro cose. Sembrava a suo agio nel gelo quanto lei lo era accanto ad un camino, con la sciarpa al collo.
Ad un certo punto si fermò ad aspettarla.
- Quanto meno, gli stivali che porti sono adatti.
Ofelia aveva appena cominciato la vacanza e già non ne poteva più. Di tutto, lui compreso. – Quanto dista questo avamposto sperduto e inutilizzato da anni? Non ho intenzione di dormire all’addiaccio, sappilo.
L’occhiata che Thorn le lanciò era indifferente, ma la sua mano si alzò e si avvicinò al suo viso. Esitò, e poi la ritrasse, come se non avesse mai nemmeno compiuto quel movimento.
- Non farci caso, l’alloggio è in perfetto stato, te l’ho già detto.
- Non mi pare – borbottò lei.
- Me lo ricordo io. Comunque mancheranno dieci minuti a piedi. Con il tuo passo, forse quindici.
Infastidita, Ofelia fece per superarlo, ma Thorn la trattenne per la spalla. – Meglio che faccia strada io. Non si sa mai cosa potrebbe piombarti davanti in un posto come questo. Non tutte le Bestie sono in letargo.
Ofelia rabbrividì, ma non per il freddo. Lasciò che lui riprendesse a camminare e lo seguì in silenzio. Le sembravano già passati ben più di quindici minuti quando, superato un albero enorme, si trovarono di fronte un’enorme baita di montagna che poteva fungere da residenza di lusso.
Alla faccia dell’avamposto.
- I Draghi si trattavano bene, eh? – commentò, stupita.
Thorn la precedette sulla soglia della prima porta. L’avamposto era interamente in legno e pietra, con il tetto coperto di neve, ma il vialetto era sgombro e ripulito. Non sembrava affatto un luogo abbandonato da anni. Era stato costruito in base a canoni rigorosi di simmetria, cosa che fece subito capire ad Ofelia perché Thorn avesse insistito per alloggiare lì. Sembrava che il complesso fosse strutturato su due piani, il primo e quello a terra, e che ci fossero in realtà alloggi distinti e accessibili solo tramite la porta d’ingresso dedicata. Ofelia ne contò otto in totale.
Thorn confermò i suoi sospetti. – Quando il clan era in auge, i Draghi risiedevano qui per le vacanze, durante l’anno, o prima o dopo la caccia. Ogni ramo aveva il proprio alloggio riservato, ma sul retro c’è un piccolo caseggiato con la sala da pranzo comune, dove si riunivano per gozzovigliare o festeggiare la caccia abbondante.
Ofelia rabbrividì di nuovo, questa volta per il freddo. Si affrettò a seguire Thorn.
Quando lui premette un interruttore e l’intera casa si illuminò, non riuscì a reprimere un sospiro di sollievo. C’era la corrente. E non solo.
A sinistra dell’entrata c’era un enorme camino, il cui scopo era sicuramente quello di riscaldare l’intera casa; di fronte c’era un divano che sembrava nuovo, ben tenuto e decisamente comodo. Dalla parte destra c’era la cucina spartana dotata di tutte le suppellettili del caso e un bancone che doveva fungere da tavolo. Dietro c’era un piccolo antro, forse un gabinetto, di fianco alla scala che portava al primo piano.
- Di sopra ci sono le camere e un altro bagno – la informò Thorn, posando le borse sul bancone.
Ad Ofelia parve troppo alto per lei. E le parve anche che il tono di Thorn fosse più… dolce. Meno inflessibile, più che altro.
- Quante volte sei stato qui?
Quella era solo la prima di una lunga sfilza di domande.
- Una sola, quando avevo sei anni e tre mesi. All’epoca i miei famigliari mi odiavano già, ovviamente, ma Godefroy e Freya… non ancora.
Ofelia si sorprese di non dovergli cavare di bocca le parole, per una volta. E che parlasse di sua spontanea volontà della sua infanzia e del suo rapporto con i due fratellastri. Lei gli aveva rivelato da lungo tempo di aver letto i dadi, nascosti nel suo cappotto, molto tempo prima, ma non era stato facile farlo aprire in proposito e farsi raccontare la storia minuziosamente. Aveva dovuto essere molto persuasiva…
- Loro due e Berenilde mi hanno tenuto nascosto qui mentre cacciavano. La zia aveva accampato la scusa di voler venire un giorno prima per non affaticarsi troppo, visto che era appena rimasta incinta, e noi quattro abbiamo passato il giorno prima della caccia e quello dopo qui. Padre Vladimir si è fatto vedere solo per uccidere le Bestie, poi è tornato a Città-cielo. Gli anni successivi ha preteso che arrivassero tutti insieme, e io non sono più potuto venire. Già all’epoca lo infastidivano le proposte controcorrente di mia zia.
- Era l’alloggio di Berenilde, questo?
- Sì. Di sopra ci sono la camera padronale e tre stanze singole. Abbiamo dormito tutti e tre qui.
Ofelia sapeva che non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma lesse tra le righe.
Abbiamo dormito tutti e tre qui… ed è uno dei più bei ricordi che ho.
Gli si avvicinò e, con la porta ancora aperta, lo abbracciò da dietro, premendogli la testa contro le scapole.
- Devi proprio andare? – gli chiese sommessamente.
Tutto il livore era passato, ora che era arrivata a destinazione voleva solo riposarsi e passare del tempo con Thorn.
Lui si voltò e, impacciato come al solito, nonostante gli anni di matrimonio, la strinse a sé, rigido come uno spaventapasseri. Le sue strette non erano morbide o calorose, ma Ofelia amava le sue lunghe braccia attorno a sé, il battito del suo cuore contro l’orecchio e l’oscurità che la inghiottiva quando lui la imprigionava.
- Sì – rispose semplicemente. – L’abbiamo utilizzata come scusa per stare qui tre giorni, ma devo davvero lavorare, non era una bugia. Andrò dal guardacaccia e verrò a prenderti questa sera per la cena, poi torneremo qui. Altrimenti puoi venire con me subito, ma temo ti annoieresti lì tutto il pomeriggio.
Ofelia non ci pensò due volte. – Ti aspetto per questa sera. Ma non ci sarà una bufera?
Thorn esitò. – Non dovrebbe durare fino a tardi. In ogni caso, anche se dovessi metterci più del previsto, non uscire per nessun motivo, resta in casa, al sicuro. Con la tua attrazione per…
- Se lo dici un’altra volta te la scateno contro io, una bufera.
Thorn sbuffò dal naso, e Ofelia non capì se fosse un tentativo soppresso di risata. In ogni caso, il suo umore era davvero cambiato da quando erano arrivati lì. Si era risollevato.
Pensò di bersagliarlo con le domande che premevano per uscire, ma forse era il caso che si sbrigasse prima che la tempesta iniziasse ad infuriare.
- Vado. A dopo, allora.
Ofelia sapeva di non avere la forza fisica necessaria a trattenere un uomo come Thorn, ma aveva altri mezzi. Quel saluto freddo quanto la neve all’esterno non le piaceva per nulla, soprattutto visto il poco tempo che avevano avuto l’uno per l’altra in quel periodo.
Si alzò sulle punte e gli afferrò i lembi della giacca per avvicinarlo a sé e baciarlo. La risposta di Thorn fu immediata: le sue dita si insinuarono, con qualche difficoltà, tra i ricci annodati e gelati di neve, la sua bocca si fece sicura, urgente, insaziabile, e Ofelia fu contenta di rimanere a casa quel pomeriggio: per colpa della lingua e dei denti di Thorn, sapeva che le sarebbero rimaste le labbra gonfie per un po’. Lui la afferrò con disinvoltura e la fece sedere sul bancone dietro di sé, forse troppo alto per lei, ma non per lui. Per una volta fu il suo turno di guardarla dal basso, mentre lei sorrideva contenta di quella nuova inversione di ruoli. Lo attirò ancora una volta a sé, però Thorn si staccò poco dopo, con un gemito sommesso di protesta.
- Devo andare.
La lasciò lì, senza nemmeno guardarla, nascondendole la profondità dei sentimenti che albergavano nei suoi occhi da falco. Il suo lungo naso si chinò verso il camino, le sue lunghe braccia si tesero verso i fiammiferi e le sue agili e lunghe dita accesero un fuoco con pochi e abili gesti. La casa sembrava essere stata abitata fino al giorno prima, altra domanda che Ofelia voleva porre a Thorn.
Quando il fuoco crepitò e prese vita stabilmente, Thorn annuì a se stesso e prese la valigetta da lavoro, pronto ad uscire senza nemmeno il cappotto. Poi si avvicinò di nuovo ad Ofelia e la baciò dolcemente, a lungo, facendole percepire con un solo, morbido contatto quanto gli costasse uscire. Si fermò nel momento in cui Ofelia si fece più audace.
Si chiuse la porta alle spalle e la lasciò ferma, con le labbra umide e le gambe che frustavano l’aria, seduta sul bancone, con la sciarpa irrequieta e insoddisfatta che si stringeva e si allargava attorno alle spalle e al collo di Ofelia. Il fuoco che ardeva nell’enorme camino non l’avrebbe mai scaldata come aveva fatto Thorn con un solo bacio.
Sospirando, si accinse a far passare quel pomeriggio.
Era ora di esplorare la casa.
 
Non ci mise molto, a dire il vero, a fare il giro della piccola baita.
La cucina e il piccolo salotto erano a vista, e aveva già più o meno inaugurato il bancone da pranzo. Di fianco alla scala c’era un piccolo bagno con una doccia, tutto molto stretto e funzionale. Più che di Berenilde, quella casa gli sembrava decisamente nello stile spartano e minimalista di Thorn.
Al piano superiore le stanze erano piccole, tre singole e quella padronale, un po’ più grande, dotate tutte di armadi. Quella matrimoniale dava sul retro e aveva il camino e un bel balcone sospeso sul giardino innevato. Poco distante c’era una casupola lunga quanto l’avamposto, ma più bassa, e Ofelia si chiese a cosa potesse servire. Il bagno di quel piano era decisamente più grande, anche se non quanto quello che avevano a casa, ma era dotato di una vasca da bagno.
Ofelia si tolse gli stivali e portò le borse in camera, decidendo di non disfarle. Sarebbero stati lì davvero poco tempo e non le servivano grandi cose e ricambi. Poi scese al piano inferiore e si sedette sul divano, accostando i piedi infreddoliti al fuoco. Avrebbe dovuto accenderlo anche in camera, per scaldarla, così si recò di nuovo di sopra e lo animò, infondendo nei ciocchi di legna il suo disperato bisogno di calore. Avvamparono subito.
Thorn aveva i suoi metodi, lei anche.
Quando tornò giù si ricordò della costruzione dietro casa, così si infilò nuovamente gli stivali e il cappotto e fece per uscire. Fiocchi di neve grossi quanto il suo pugno fluttuavano nell’aria, così determinati da farle credere che fossero pesanti come sassi invece che leggeri come batuffoli di cotone. Decise di darsi una mossa prima che la tormenta le facesse perdere completamente l’orientamento, nonostante i due edifici fossero a non più di qualche centinaio di metri di distanza. Trovò le porte chiuse e le finestre sbarrate, un po’ come nel resto delle entrate dell’avamposto.
Tornata in casa, si spogliò di nuovo e, infreddolita, si sedette direttamente davanti al fuoco. Si tolse i guanti e mosse le dita davanti al camino, sentendo il calore penetrarle direttamente nel sangue. Si stava sciogliendo come un fiocco di neve e la cosa le era molto gradita. Quando smise di tremare si rimise i guanti e si alzò, ma inciampò nei bordi del vestito e ricadde a sedere. Appoggiò la mano a terra per non sbattere il naso, la mano in cui il guanto era infilato solo per metà, e involontariamente lesse lo spesso e morbido tappeto, pulito e profumato come se fosse stato appena comprato.
Una marea di emozioni e punti di vista diversi, di donna, bambino, ragazzo, uomo, giovane adulto la invasero, facendole perdere il contatto con la realtà. Ritrasse la mano quasi subito, ma non abbastanza da impedire alle sensazioni altrui di vorticarle nel petto come un boccone di difficile digestione.
Se solo avesse smesso di leggere un attimo prima… sperava che qualcuno avesse disinfettato il tappeto dopo quello che Berenilde e suo marito avevano…
Paonazza, si allontanò da lì e si raggomitolò sul divano. Si sentiva rilassata e in pace dopo tanto tempo, un po’ nostalgica, in ricordo di tutte le gite in montagna che aveva fatto da piccola con la sua famiglia; anche se il gelo del Polo faceva passare il freddo di Anima per una semplice brezza autunnale.
Cullata dal fuoco, dal vento che ululava fuori dalle mura di casa e dalla notte pressoché insonne, si addormentò.

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Capitolo 10
*** La slitta pt. 2 ***


Chiedo venia, l'intento era quello di farne un capitolo solo, ma era troppo lungo e sono diventati due, e in realtà alla fine sono tre.
Riporto alcune piccole precisazioni alla fine del capitolo, per non farvi spoiler su quello che leggerete ora.
L’Attraversaspecchi I, Fidanzati dell'inverno, Il Guardacaccia, pagina 117


10. Le traineau pt. 2

Quando si svegliò, da fuori non filtrava più nessuna luce. La sciarpa era rimasta schiacciata sotto il suo collo e si ribellò quando Ofelia si mise seduta, offesa e risentita. Sembrava che il vento esterno fosse entrato in casa da quanto si agitava.
Ofelia diede un’occhiata alla pendola di fianco al camino, strabuzzando gli occhi quando vide che ora era. Non sarebbe riuscita a prendere sonno quella notte, aveva dormito davvero troppo. Consapevole del fatto che Thorn sarebbe arrivato da un momento all’altro, si diede una sistemata e si preparò, in modo da essere pronta per uscire. Sapeva quanto lui detestasse aspettare.
Ne approfittò per esaminare i quadri che tappezzavano i muri, nell’attesa del suo ritorno. A casa loro ce n’erano pochi, così come nel palazzo di Berenilde. Quelli che vi erano appesi oltretutto rappresentavano per lo più paesaggi dipinti a olio o acquerello, del tutto diversi dalle scene mostrate lì, in quella specie di baita. Erano ritratti di Draghi a caccia, terribilmente familiari: le ricordavano quelli che lei aveva visto nell’archivio del prozio, su Anima. Una rapida occhiata le diede la conferma che infatti l’autore dei dipinti apparteneva alla stessa famiglia del pittore dei quadri presenti nell’Archivio della sua Arca natia.
In alcune scene si distingueva chiaramente Berenilde con i lunghi boccoli dorati sciolti, in procinto di finire una Bestia parecchio più alta di lei. Era a fianco ad un uomo che sorrideva ferino, suo marito con ogni probabilità. Era aitante, bello, fiero. L’autore era riuscito anche a catturare il bagliore adrenalinico negli occhi dell’uomo. In altre scene padre Vladimir era alla testa del drappello di spedizione; una, più grande delle altre, era un ritratto di famiglia. Riconobbe Freya e Godefroy da giovani, forse sui quattordici anni, altezzosi e seri come il loro nonno. Infine ne vide una, piccola, posata sulla cappa del camino, vuota se non per quella cornice. Era la foto a colori di un bambino con i capelli biondissimi, quasi argento, leggeri e fini come piume. Aveva gli occhi grigi come le nuvole non ancora cariche di pioggia, sereni. Sorrideva con le labbra sottili incurvate, mostrando dei denti bianchi e perfetti e una fossetta sul mento. Aveva forse sei o sette anni, anche se non era paffuto com’era tipico a quell’età. La prese in mano per scrutarla meglio, incredula.
Una foto di Thorn da bambino. Sorridente. Una vita prima.
Un grugnito alle sue spalle la fece sussultare e la cornice le cadde di mano. Voltandosi, sbatté contro un petto marmoreo, e due lunghe braccia si precipitarono ad afferrare sia la cornice che lei, prima che cadesse nel camino, finendo arrostita.
Thorn la guardò con espressione leggermente esasperata, per quanto sopportasse sempre di buon grado la sua scoordinazione.
- Ti ho chiamata due volte prima di avvicinarmi. Ho anche bussato.
- Sc-scusa – mormorò lei, con il cuore che le batteva nelle orecchie. Le girava la testa.
Thorn rimise la foto a posto senza nemmeno guardarla e continuò a tenere stretta Ofelia, temendo che cadesse.
- C’è una tua foto – disse lei intelligentemente, come se la cosa non fosse ovvia.
- Già.
- Chi te l’ha fatta?
- Mia zia ha voluto che me la facessero. All’epoca mi sembrava… divertente. Le altre sono state tutte bruciate, quella è l’unica che mia zia sia riuscita a conservare.
Sentire quelle parole le fece male. Non si sarebbe dovuta stupire, però: una famiglia che ti sfregia il viso e il corpo non può certo intenerirsi di fronte alla foto di un bimbo.
Ofelia la riafferrò per guardarla di nuovo, conscia del fatto che Thorn la stava ancora toccando. Era così vicino che poteva sentire il suo respiro, lì su, sopra la sua testa. Non poteva dirgli che era adorabile.
- Posso tenerla?
Thorn aggrottò le sopracciglia, chiedendosi evidentemente a cosa potesse mai tornare utile una foto.
- Non credo che mia zia ricordi nemmeno che esiste, né che abbia intenzione di tornare qui. Fa come vuoi.
Ofelia lo sentì rigido contro di sé. Evidentemente quella cornice scatenava brutti ricordi. Come biasimarlo, del resto? Lei si scostò da lui per posare di nuovo la foto sul caminetto. Non aveva la Memoria di Thorn, ma non l’avrebbe sicuramente dimenticata lì prima di partire.
 Quando alzò lo sguardo per osservargli il volto, si chiese distrattamente se quella fossetta ci fosse ancora, lì da qualche parte, sul suo mento. Poi si rese conto che per scoprirlo avrebbe dovuto far sorridere Thorn, e non con una delle minuscole incurvature delle labbra che ogni tanto le riservava. Ogni tanto… raramente, più che altro. Sarebbe stato impossibile.
- Andiamo? – lo incalzò dopo un lungo silenzio, passato da entrambi a scrutarsi a vicenda.
Gli occhi da falco di Thorn sembravano volerle scavare dentro più del solito.
La tempesta si era placata, anche se i fiocchi di neve continuavano a piovere come piume. Si incamminarono senza parlare nel silenzio ovattato della foresta, che spingeva Ofelia a chiedersi se avesse perso l’udito. Ogni tanto il verso di qualche animaletto o le foglie sotto i piedi le facevano capire che in realtà ci sentiva benissimo. Thorn qualche volta le lanciava un’occhiata da sopra la spalla, senza però aprire bocca o farle intuire cosa gli passasse per la testa.
Ofelia fu immensamente grata quando il calore della casa del guardacaccia la investì. La moglie le prese la giacca (alla fine aveva optato per indossare quella di Thorn, che la faceva sembrare ancora più piccola), lanciandole un’occhiata confusa per via della taglia dell’indumento, ma non fece domande. La trattava con riguardo decisamente maggiore rispetto alla prima volta che si erano viste, anche se non con la stessa deferenza che usava con Thorn. Qualcosa le suggeriva che il marito le incutesse un certo timore. La casa era piccola, ben lontana da quelle fastose e opulente di Chiardiluna. Era evidente che servisse loro più praticità che senso estetico, era una versione comoda e priva di orpelli della casa in cui era cresciuta su Anima.
Mangiarono su un piccolo tavolo rettangolare, Ofelia di fronte alla moglie del guardacaccia, con Thorn al fianco, seduto davanti a Jan. Fortunatamente i due coniugi chiacchieravano per sei, così tolsero Ofelia dall’impaccio di non sapere di cosa conversare. Thorn, che non si smentiva mai, non fece nessun tentativo di partecipare ai discorsi. Lanciava solo qualche commento quando si parlava di politica o di argomenti strettamente connessi al suo ruolo di intendente. Ofelia non apriva bocca per timidezza, e perché si sentiva estremamente scrutata dallo sguardo inquisitore della moglie del guardacaccia. Inoltre, si rese conto solo a cena di non aver toccato cibo per un giorno intero, e si scoprì molto affamata.
In ogni caso, quella signora sapeva decisamente cucinare.
Quando i due uomini si accomodarono in soggiorno per un caffè corretto, Ofelia fece per unirsi a loro, più attratta dal caffè che dalla conversazione, ma la padrona di casa la trattenne.
- Allora, signora moglie del buon signore, avete puntato in alto eh? Ottimo partito, avete fatto bene ad accalappiarlo.
Ofelia batté le palpebre diverse volte, mentre la sciarpa si agitava. La sua interlocutrice la adocchiò con curiosità, ma non commentò.
- Come?
- Parlo di vostro marito. Siete venuta qui come dama di compagnia e siete finita sposata con l’intendente. Questa sì che si chiama scalata sociale.
Ofelia non sapeva come sentirsi riguardo a quei commenti. Di sicuro non erano lusinghieri. Alla fine capì che la signora era solo sincera e, passando tanto tempo da sola col marito, senza nessun’altro con cui parlare, aveva perso la capacità di discernere cosa fosse lecito dire in un dialogo e cosa fosse meglio tacere.
Le fece domande sui suoi guanti particolari, sulla sciarpa, le chiese dimostrazioni di Animismo, che l’affascinarono, e la interrogò su come si fossero innamorati.
- Vi ha messa incinta, vero?
Ofelia stava sorbendo un bicchierino di grappa molto forte, aggrappandosi ad esso perché le sciogliesse la lingua e l’aiutasse a sostenere quella conversazione, ma quasi si strozzò di fronte alla domanda impertinente e terribilmente diretta. Se Thorn l’aveva sposata perché si era fatta mettere incinta? Se solo avesse saputo…
Il silenzio che proveniva dalla stanza accanto le fece capire che Thorn aveva fermato le chiacchiere di Jan. Stava valutando se fosse il caso di intervenire o se quello di Ofelia fosse solo l’ennesimo caso di saliva di traverso. Quando sentì che lei stava bene e che aveva ricominciato a parlare, invitò Jan a fare lo stesso.
Erano quelle piccole attenzioni da parte sua che le facevano comprendere quanto Thorn ci tenesse a lei, a modo suo.
- No, vi sbagliate. Non mi ha… io non… non è successo nulla del genere – balbettò, mentre gli occhiali le facevano vedere tutto rosso.
Lo sguardo della moglie del guardacaccia era scettico.
Il matrimonio non era nemmeno stato consumato subito, ma questo evitò di dirglielo. E, sebbene avessero deciso di provare ad avere un bambino, i figli tardavano ad arrivare.
- Be’, dovete averlo stregato in qualche modo. Non siete proprio quella che definirei una dama di corte. Non avete il fascino della zia del buon padrone, se capite cosa intendo. Ma io cosa ne capisco, del resto?
Se possibile, il commento fece arrossire Ofelia ancora di più. Sentiva caldo dappertutto, in un misto di alcol, caminetto e imbarazzo.
La moglie però tornò alla riscossa, imperterrita. – Davvero non è stato un matrimonio riparatore?
- No! – rispose Ofelia, con più voce del solito.
Finalmente la padrona di casa rimase in silenzio. Però non era per nulla scoraggiata o mortificata. Era proprio senza pudore.
- Oh be’, meglio per voi. I matrimoni riparatori non sono mai una soluzione. Mia sorella è rimasta fregata e ha dovuto sposare quel buono a nulla che l’ha messa incinta. Ancora oggi mi chiedo come faccia a sopportare quell’ubriacone, ma dev’essere decisamente bravo sotto certi ambiti. Le ha dato otto figli, non so se mi spiego.
Ofelia deglutì, sempre più a disagio. Lanciò un’occhiata disperata a Thorn, che la stava fissando a sua volta e sembrava insofferente quanto lei. Capendo l’antifona, si alzò dal divano.
- Mi dispiace – rispose alla padrona di casa, incerta se mostrarsi dispiaciuta per la sorte della sorella.
Ofelia sentì il suo sguardo scrutatore addosso, gli occhi piccoli e chiari della donna che le scavano dentro, e seppe senza ombra di dubbio che la domanda che stava arrivando era inopportuna e non morigerata.
- Chi è causa del suo mal pianga se stesso. Forse capite cosa intendo dire, comunque. Sapete cosa si dice degli uomini con il naso importante, no? Quello del vostro buon marito è sicuramente un naso di tutto rispetto, decisamente gros…
Ofelia scattò in piedi e si girò proprio mentre Thorn le si avvicinava da dietro. Si sbatterono contro, e Ofelia si massaggiò automaticamente la fronte che aveva cozzato contro qualcosa di ossuto. Un gomito, forse?
- È ora di tornare – annunciò lui seccamente.
Che avesse sentito il tenore dei discorsi di quella pia donna di casa? La zia Roseline si sarebbe scandalizzata come un cucchiaio in un cesto di mutande sporche.
Quasi in trance, Ofelia si vestì con il cappotto di Thorn, che lui stesso le allungò, e si diresse in fretta verso l’uscita. Passando davanti al guardacaccia non poté fare a meno di guardargli il naso a patata, sicuramente non elegante e raffinato, e avvampò ripensando alle parole di sua moglie.
- Siete molto accaldata, buona padrona, fate attenzione a non prendere freddo all’esterno – le raccomandò Jan, confondendo il suo rossore.
- Aspettate – li fermò sua moglie, trafelata.
Ofelia si augurava vivamente che non facesse qualche domanda inopportuna come chi stava sopra e chi stava sotto o che posizione… Le mancò il respiro. Che razza di pensieri stava facendo? La grappa, era sicuramente colpa della grappa. Sentì il bisogno di togliersi il cappotto per respirare. L’aria era soffocante.
Fortunatamente la signora non disse nulla di procace o sfrontato: le piazzò tra le braccia un cesto pesantissimo che Ofelia faticò a reggere. Le mani di Thorn furono leste a toglierglielo di dosso, prima che cadesse sotto il suo peso. Lo tenne con una mano sola, senza nessuno sforzo. Nonostante il fisico asciutto e ossuto, Thorn era forte; non aveva muscoli pompati e non era robusto, ma… be’, forse il suo corpo magro era sottovalutato. Ofelia non lo disdegnava di sicuro.
- Le provviste che mi avete richiesto, padrone. Saranno sufficienti per la vostra permanenza.
Thorn borbottò qualcosa che non assomigliava né a un ringraziamento né ad un saluto, e si allontanò fuori.
Ofelia ringraziò profusamente e disordinatamente per l’ottima cena, la generosità e la compagnia, cercando di non pensare all’ultima parte della conversazione per risultare sincera. Poi si incamminò nella neve tentando di raggiungere Thorn. Il freddo la investì come una carrozza lanciata a tutta velocità, e fu felice di non essersi tolta il cappotto all’interno, quando moriva di caldo e imbarazzo.
- Sono brave persone – disse Thorn, prendendola in contro piede, rallentando un poco l’andatura. – Un po’ troppo semplici, forse, ma pensano ai fatti loro.
- Insomma… - borbottò Ofelia.
- Come?
- No, nulla. Mi chiedevo per quale motivo ti portassero così tanto rispetto e soprattutto perché ti sei intrattenuto così tanto con il guardacaccia, alla fine della cena. Non ti ho mai visto parlare così tanto.
Thorn continuava a precederla di poco, ma il sibilo del vento ne portava via la voce, così Ofelia allungò il passo come poté e gli si affiancò.
- Portano rispetto al clan dei Draghi, sono una specie di mito per loro, li tengono in gran considerazione. Io personalmente ho fatto da portavoce per alcune loro richieste, che sono state accettate e varate come leggi. Ecco il perché di tanta esagerata devozione.
- Credo sia il loro modo per mostrare gratitudine.
- Non è necessaria. Quanto alla seconda domanda, il guardacaccia ha monologato da solo, io ero solo uno spettatore.
Ofelia represse un sorriso. – Mi pareva strano che d’un tratto fossi diventato loquace. Perché ti sei intrattenuto tanto, allora?
Thorn guardò dritto di fronte a sé mentre rispondeva, senza traccia di affetto o calore nel suo tono. – Per te. Pensavo ti facesse piacere trascorrere del tempo con sua moglie. Mi pareva andaste d’accordo.
Ofelia era sbigottita. Farle un piacere? Andare d’accordo? La moglie di Jan non era molesta, aveva conosciuto gente molto più pericolosa o antipatica, ma si sarebbe risparmiata buona parte dei suoi discorsi. I suoi occhi corsero al naso… importante di Thorn, e si sentì arrossire.
- Non era necessario. Grazie per il pensiero, comunque – si sentì costretta a dire, cercando di pulire gli occhiali dalla neve. Tra il colore rosa che lo cospargeva e i fiocchi che le si scioglievano sulle lenti, era sicura che sarebbe caduta.
Invece arrivarono indenni e illesi, soprattutto lei. Su Thorn non c’erano dubbi. La chiacchierata aveva fatto trascorrere il tempo più velocemente. Ofelia si tolse subito gli stivali, ma tenne il cappotto, e corse a ravvivare il fuoco morente. Animata dalla sua impazienza, la fiamma divampò violentemente, facendola sorridere.
Voltando la testa Ofelia vide Thorn chiudere la porta e scrutarla, per nulla turbato dalla sua capacità di infondere vita anche al fuoco. O, se lo era, non lo diede a vedere.
Si tolse la giacca per rimanere in camicia, si liberò anche lui degli stivali da neve e posò la valigetta da lavoro a fianco della porta d’entrata. Mise invece il cesto con le provviste sul bancone. Nel mentre, continuò a tenere d’occhio Ofelia, che rispose agli sguardi, finché le si accostò.
Le tolse gentilmente il giaccone immensamente lungo e ingombrante dalle spalle e lo sistemò sull’appendiabiti. Poi si sedette sul divano, alle sue spalle. La turbava sapere di averlo dietro di sé, soprattutto perché sentiva i suoi occhi metallici scavarle un buco nella schiena. L’alcol le stava facendo crescere una sonnolenza non richiesta, nonostante avesse dormito per gran parte del pomeriggio. Aveva altri progetti per quella sera, e tra questi rientravano un po’ di risposte ad un altrettanto po’ di domande.
Prese posto accanto a Thorn, con le ginocchia ripiegate sotto al corpo, e si appoggiò a lui per scaldarsi. Non temeva il freddo ed era inspiegabilmente caldo, Ofelia lo invidiava. Lui si allungò per prendere una coperta così ben ripiegata che Ofelia l’aveva scambiata per un cuscino, e la drappeggiò su di loro. Poi le passò un braccio dietro al collo, sulle spalle, e si chinò con il lungo corpo per baciarla.
Non incontrò resistenza, ma nemmeno partecipazione. Scostandosi, con la fronte aggrottata, gli occhi che scintillavano al fuoco come metallo fuso, le rivolse un’occhiata interrogativa. Ofelia non gli si era mai rifiutata. Anzi…
- Ho alcune domande da farti – biascicò, sorniona. – Prima di dimenticarle o di addormentarmi.
Thorn non sembrò deluso o irritato quando si riappoggiò al divano, fissando il fuoco. Non tolse il braccio dalle spalle di Ofelia, comunque, e per scusarsi lei appoggiò la testa al suo petto, stringendosi a lui. Lo sentì rilassarsi contro di lei, segno che non era arrabbiato.
Non si aspettava certo un invito, così partì con la prima.
- Perché la casa è così pulita? Non sembra un alloggio abbandonato ad anni di incuria, non c’è nemmeno un granello di polvere in tutte le superfici.
- Ho mandato dei domestici a rassettarla l’altro ieri. Vengono ogni mese a dare una rinfrescata, cambiare le vettovaglie e pulire. Un posto che non viene curato rischia di crollare o, alla lunga, di avere bisogno di ristrutturazioni, che sono una perdita di tempo e denaro.
La pausa che seguì fece capire ad Ofelia che il discorso era chiuso.
- Hai chiesto tu alla moglie del guardacaccia di darci tutto quel cibo?
- Le ho chiesto di prepararci delle provviste per un giorno. Uova, latte, pane, qualche affettato, un po’ di verdura. Non pretendo che tu ti metta a cucinare, è giusto l’essenziale per due giorni.
Ofelia approvò la scelta degli ingredienti, anche se sapeva che a Thorn non facevano né caldo né freddo. Mangiare per lui era necessario ma non gratificante. Un po’ come andare al bagno. Le venne da ridere al pensiero. Sì, la grappa le giocava decisamente brutti scherzi.
- Cos’è la costruzione che c’è sul retro?
Thorn aggrottò le sopracciglia, poi comprese. – Gli alloggi della servitù. Ho già detto che quando il clan era in auge spesso trascorreva qui le vacanze o il periodo pre e post caccia. Credi che mia zia si sarebbe mai fatta da mangiare o messa a pulire durante la permanenza? Si portava dietro tutto il corteo, e con lei anche le sue sorelle e i suoi fratelli.
- Non ci avevo pensato.
In effetti immaginarsi Berenilde che spignattava era antitetico quanto Thorn che rideva di gusto.
Si rabbuiò un po’ al pensiero. Thorn però la strinse di più a sé, accarezzandole piano un braccio, e Ofelia se ne fregò della sua poca propensione ai sorrisi e all’ilarità. Le piacevano così tanto le sue mani…
Cercò di riscuotersi dal torpore di quei pensieri incontrollati, ma aveva dimenticato la domanda successiva. Ci mise un po’ per ripescarla.
- Ti sei divertito quando sei venuto qui con tua zia e i tuoi… fratellastri?
Thorn si irrigidì leggermente, ma non si ritrasse. – Sì, anche se sono rimasto solo tutto il giorno. Non che la cosa mi abbia dato fastidio. Nella mia visione infantile era una cosa diversa, una vera vacanza, con tutto il fascino che questo comportava.
Il tono sempre monocorde e duro lasciò trapelare qualcosa, e Ofelia capì due cose: nella sua mente quel soggiorno di quando era bambino aveva rappresentato molto, e le vacanze non lo attiravano per lo stesso motivo. Se si fosse concesso una pausa da qualche parte, avrebbe sempre ripensato un pochino a quei giorni passati. Cosa provava? Nostalgia? Rabbia?
Ofelia moriva dalla voglia di saperlo, ma non poteva calcare la mano.
- Posso chiederti una cosa io?
La richiesta la prese alla sprovvista. – Sì.
- Cos’hai programmato per domani?
Programmato. Era una vacanza, santi dizionari!
- Giusto, non te l’ho ancora detto. Non voglio vincoli orari, ci svegliamo quando ci svegliamo.
Thorn grugnì e prese l’orologio da taschino, come se esprimere il desiderio di non volere vincoli orari potesse averne offeso i meccanismi. Non era molto nelle corde del marito non avere orari, ma le aveva dato carta bianca, quindi…
- Poi avevo intenzione di preparare un pranzo al sacco. Vorrei fare un giro in slitta.
Questa volta Thorn si irrigidì sul serio, bloccando la mano che indugiava sul braccio di Ofelia.
- Un giro in slitta?
- Sì. Avrei dovuto chiedertelo prima? Pensi che il guardacaccia potrebbe darcela insieme ai cani?
Thorn aveva uno sguardo indecifrabile, e stava osservando lei, non le fiamme.
- Sono perplesso. Ero certo che non ti piacessero i giri in slitta.
- Non è che non mi piacciano, è che… ci sono poco avvezza.
Thorn inarcò un sopracciglio. – Non capisco se mi stai prendendo in giro.
- No, sono seria. Vorrei che mi portassi a vedere qualcosa qui attorno, qualcosa di non contaminato dall’uomo. Le Bestie sono in letargo, no?
Thorn parve rifletterci, oppure si era semplicemente immobilizzato, fatto sta che non mollava Ofelia. Anzi, i loro visi si stavano pure avvicinando.
- Thorn? – lo incalzò lei.
Lui si allontanò di nuovo, tornando a fissare il caminetto, ma con gli occhi chiusi. La cicatrice sulla guancia risaltava come la scia di una lacrima.
- Sì, non dovrebbero esserci pericoli, anche se dirlo è un azzardo. Conosco un posto. Non credo che ci saranno problemi per Jan, ci darà una slitta, andrò a prenderla domattina presto.
Ofelia si rilassò nell’apprendere le notizie, soddisfatta.
- Come mai eri così rossa dopo aver parlato con la moglie del guardacaccia?
La domanda la prese decisamente in contropiede, tanto che la sciarpa si agitò e gli mollò pure uno schiaffo, che però passò per una carezza. La stava fissando con il suo sguardo affilato e severo.
- Cosa?
- Hai bevuto?
- No! Cioè, sì, un bicchierino di grappa. Non sono ubriaca!
Era stizzita, non ubriaca. E imbarazzata.
Thorn borbottò qualcosa. – Allora? – la incalzò.
Non aveva intenzione di demordere.
Ofelia chiuse gli occhi. Glielo doveva, lui aveva risposto a tutte le sue domande senza lamentarsi. Però...
- Ha… insinuato delle cose.
Lo sguardo di Thorn divenne gelido, Ofelia rabbrividì. Scambiando il suo brivido per freddo, Thorn la strinse ancora di più, facendo scendere il braccio verso la sua schiena e la sua vita. La cosa non le dispiaceva.
- Insinuato cosa?
- Che… mi avessi sposato perché ero incinta. E… il tuo naso. Che sua sorella ha avuto otto figli per quello.
Thorn spalancò gli occhi. Erano poche le volte in cui mostrava il suo stupore in quel modo. – Ha insinuato questo? Sono persone senza filtri, purtroppo, buone ma, come ho detto prima, sempliciotte. Non ricevono un’educazione che insegni loro che certi argomenti sono privati.
Non era arrabbiato, solo… Ofelia non avrebbe saputo dirlo. Non irritato. Rassegnato, forse? Era abituato a ricevere giudizi da tutta una vita, in fin dei conti, questo doveva essere addirittura meno maligno del solito. La cosa le metteva tristezza.
- Il mio naso cosa c’entra con gli otto figli di sua sorella?
La tristezza passò. Perché aveva quella Memoria portentosa? E perché lei diceva quello che non doveva e taceva ciò che doveva esprimere davvero?
Percependo la sua esitazione, Thorn la incalzò, perentorio. – Dimmelo.
Ofelia sospirò. – Ha detto che gli uomini con un certo naso sono anche… hanno una certa cosa, ecco.
- Non capisco.
Figurarsi, come avrebbe potuto capire? Nessuno dei due era pratico di simili conversazioni e doppi sensi. L’alcol le diede una mezza idea.
- Te la metto come una proporzione, d’accordo? Naso grosso uguale… ehm… appendice grossa.
Lì per lì Thorn sembrò brancolare nel buio, forse pensando all’appendice vera, quella che se si infiamma deve essere urgentemente operata. Poi parve capire e sollevò le sopracciglia, stupito.
- Intanto è un’equazione, non una proporzione. O un’equivalenza dato che si tratta di due misure diverse – la corresse poco dopo, riassumendo la naturale espressione neutra. – Una proporzione prevede che i termini vengano…
- Thorn…
La voce le uscì supplice, gli occhiali le scivolarono sulla punta del naso. Le stava venendo mal di testa.
Lui si zittì, leggermente risentito. – Quella della misura del naso per valutare la dotazione di un uomo è una vecchia diceria. Non ci sono fondamenti scientifici appurati per stabilirlo. Come il canone dell’altezza.
Ofelia lo fissò, stranita. – Cosa si dice dell’altezza?
Thorn strinse le labbra. Sembrava pentito. – Non importa.
- Io però ti ho detto cosa mi ha riferito la moglie di Jan.
- Non c’entra. Non sono argomenti di cui mi diletti a parlare.
- Nemmeno io, ma hai iniziato tu!
Thorn evitava di guardarla in tutti i modi, non imbarazzato, ma nemmeno a suo agio.
- Cosa si dice dell’altezza? Che è proporzionale? Le proporzioni matematiche mi sembrano azzeccate, in questo caso – osservò piccata. Le sembrava di parlare il linguaggio di Thorn infarcendo le frasi di nozioni algebriche.
Lui mugugnò qualcosa che non sembrava un assenso prima di rispondere in maniera più chiara. – Il contrario.
- L’altezza è inversamente proporzionale a… all’altezza di… del… della…
- Sì.
- Ma non è vero! – esclamò Ofelia.
Poi si tappò la bocca con una mano inguantata, e cominciò a mordere la cucitura del mignolo. Guardava Thorn di sottecchi: la stava fissando con un’espressione così intensa da poter essere confusa per rabbia al calor bianco, sembrava in procinto di divorarla. Non aveva mai avuto paura di lui, però con quella faccia era un po’ terrificante.
La risposta le era uscita involontariamente. Thorn era altissimo, ma aveva anche un naso importante. Le cose si scontravano. Eppure le dimensioni in lui sembravano rapportate in tutto. Era una scala perfetta. Anche sotto quell’aspetto. Non che avesse molti termini di paragone a dire il vero. Lui era l’unico uomo che avesse mai visto nudo. A parte Renard, ma cercò di non pensarci. Non lo aveva nemmeno fissato abbastanza a lungo da poterlo considerare nel confronto, quella volta.
La sonnolenza causata dalla grappa e il grado alcolico della stessa le stavano facendo correre i pensieri a briglia sciolta. Si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi, sentendo lo sguardo di Thorn sempre puntato su di sé. Percepiva però che il discorso era chiuso, e ne fu grata.
Decise di non rimetterseli. Non doveva guardare niente, in fin dei conti, e gli occhi intensi di Thorn la mandavano in confusione.
- Berenilde non viene mai qui? – chiese dopo un po’, per rompere il silenzio.
- Non ne avrebbe motivo.
Il tono era quello distaccato di sempre; Ofelia si calmò, lieta che l’argomento precedente fosse chiuso.
- Come hai conosciuto il guardacaccia? Ti ha insegnato lui ad usare la slitta?
Thorn si passò una mano tra i capelli prima di rispondere.
Quella era una delle conversazioni più lunghe che avessero mai avuto, forse una delle più lunghe dell’intera vita di Thorn. Era naturale che accusasse la stanchezza. Nonostante tutto le rispose, in modo pratico e distaccato, spiegandole prima come avesse conosciuto Jan e poi come si fosse trovato a guidare una slitta.
Cullata dal suono profondo della sua voce, che le arrivava come il rimbombo di un’eco in una caverna nell’orecchio posato sul suo petto, Ofelia scivolò lentamente nel sonno.
Non si rese conto che Thorn l’aveva portata in camera in braccio, o che l’aveva spogliata lasciandole addosso solo la sottoveste e la sciarpa. Non percepì nemmeno l’aria gelida della stanza, dove non avevano riattizzato il fuoco, o il fatto che Thorn la strinse a sé, avvolgendola con il suo lungo corpo per non farle sentire freddo.
Dormì un sonno ristoratore come non ne aveva più provati da un bel po’ di tempo.
 
La mattina successiva Ofelia si svegliò per via di un raggio di sole dispettoso che le solleticava gli occhi. Ci mise diverso tempo per riuscire a mettere insieme dei pensieri coerenti e capire dove si trovasse, anche se non ricordava come ci si fosse trovata. In ogni caso, gli occhiali erano sul comodino, e tanto le bastava.
Il letto era terribilmente freddo, ma l’aria della camera era tiepida grazie al fuoco scoppiettante che si agitava nel camino. Le sembrava di avere l’ovatta nel cervello.
Si diresse al bagno padronale per darsi una sciacquata al viso, ma rinunciò a pettinarsi i capelli aggrovigliati e sparati da tutte le parti. Li legò come poté e si rese conto solo in un secondo momento di essere in sottoveste. Tornando in camera trovò il vestito della sera prima accuratamente ripiegato sulla sua borsa da viaggio. Doveva essere stato Thorn, a giudicare dalla perfetta simmetria della piega e della posizione sulla valigia. E a proposito di Thorn, dov’era?
Si vestì già per uscire e scese al piano di sotto dopo aver cambiato l’aria e rifatto il letto. La brezza pungente del mattino aveva cacciato anche i più piccoli residui di sonno, gelandole i polmoni e gli occhiali, facendo dimenare la sciarpa in protesta. E sì che era fatta di lana, lei…
Il paesaggio, doveva riconoscerlo, era mozzafiato. Ovunque girasse lo sguardo c’era neve bianca e immacolata, picchi così alti che era certa che nessuno sarebbe mai riuscito a scalarli e alberi verdi carichi di pigne e ghiaccio. Ogni tanto si sentiva il verso di qualche animale, ma per il resto regnava il silenzio.
Quando scese, provando a chiamare Thorn, Ofelia ottenne solo il silenzio in risposta. Nessun messaggio, nessuna prova del suo passaggio. Diede una sbirciata fuori ma non vide nulla. Certe vecchie abitudini non cambiavano mai: lui era bravo a vivere da solo e non rendere conto a nessuno.
Cercò di non guastarsi l’umore e, serrandosi la sciarpa al collo perché non la intralciasse, decise almeno di preparare la colazione e il pranzo da portare via. Si rese conto solo allora che gli alimenti deperibili come burro e latte erano rimasti al caldo tutta la notte. Tolse il canovaccio che copriva il grande cesto e tirò fuori tutto quello che c’era dentro: pane appena sfornato, uova, salumi, maionese fatta in casa, un po’ di lattuga e qualche verdura come zucchine, cipolle e carote, una confettura di fragole di bosco, un estratto di mandragore da usare come crema spalmabile e dei biscotti al cioccolato fatti in casa. Non male come spesa, anche se non si poteva dire che fosse una gran cuoca. Anzi. In casa si nascondevano tutti quando si metteva ai fornelli, quelle rare volte in cui ci si cimentava nell’arte culinaria. Hector la prendeva ancora in giro per quella volta che aveva rischiato di cucinare la sciarpa.
Mancavano all’appello, però, latte e burro, quelli che sarebbero dovuti rimanere al fresco.
Tirando fuori tutti gli alimenti si rese conto che nel vasetto di vetro dell’estratto di mandragore c’era attaccato un bigliettino. “Utile per la fertilità”.
Ofelia avvampò. Dubitava che la moglie del guardacaccia attaccasse etichette del genere ad ogni suo composto. Quel messaggio era chiaramente indirizzato a loro.
Thorn fece la sua comparsa proprio in quel momento. Ofelia fortunatamente lo sentì, invece di farsi cogliere di sorpresa alle spalle come sempre. Thorn si tolse gli stivaloni, ovviamente era senza cappotto, e fece un cenno di saluto a Ofelia con la testa.
- Buongiorno. Mi hai portata tu a letto ieri?
Thorn aggrottò la fronte, come se la domanda fosse complicata. - Sì. Ti eri addormentata sul divano.
Ofelia annuì. - Dove sei stato?
- A prendere slitta e cani. Te lo avevo detto.
Nella mente di Ofelia riaffiorarono le frasi della sera prima, in modo sparpagliato e spizzicato. - Avresti almeno potuto lasciare un messaggio.
- Non ne vedevo la necessità - disse accigliato.
Ofelia non capiva se fosse di pessimo umore o indifferente come al solito.
- Per caso hai visto latte e burro? Non ci sono nel cesto.
Thorn si avvicinò ad un mobile e lo aprì. Era liscio all’interno, conteneva il latte, il burro e anche del formaggio. Nella parte superiore aveva un grande scomparto ghiacciato. Ofelia non l’aveva mai visto.
- Che cos’è?
- Uno stipo per conservare al fresco il cibo senza lasciare che si congeli all’esterno. È un po’ macchinoso da mantenere perché bisogna sempre cambiare il ghiaccio prima che si sciolga, ma per due giorni terrà.
Ofelia la trovò un’invenzione davvero utile, anche se in effetti lo sgocciolio del ghiaccio doveva essere una gran perdita di tempo.
- Vado a dare da mangiare alle Bestie - annunciò Thorn, uscendo nuovamente.
Ofelia intanto scaldò il latte in un pentolino, almeno quello sapeva farlo, e preparò i panini con maionese e salumi insieme a qualche foglia di lattuga e formaggio. Non sapeva bene quali fossero i gusti di Thorn, ma lui non si era mai sperticato in complimenti o critiche sul cibo, quindi pensò che gli sarebbe andato bene tutto.
Prima di chiuderli si rese conto che il vasetto con le mandragore la stava fissando. Intuendo i suoi pensieri, la sciarpa avvicinò il vasetto. Thorn rientrò proprio in quel momento.
- Quanto manca? - chiese.
- Quasi pronto. Che dici, - aggiunse poi lei, un po’ scherzando e un po’ no, mostrandogli il vasetto e la relativa etichetta, - te ne metto un po’ nel panino?
Thorn si accigliò e bofonchiò qualcosa a proposito dei fatti altrui. Aprì il vasetto e lo passò di nuovo ad Ofelia. - Dovresti prenderne anche tu, non è detto che il problema sia mio.
Si era aspettata tutto fuorché quella reazione. Innanzitutto, non pensava che Thorn l’avrebbe presa sul serio, spronandola addirittura ad usare quella crema. Stavano cercando di avere un figlio da svariati mesi, era vero, ma non le piaceva pensarlo come un problema, il suo ritardato arrivo. Moltissime donne aspettavano parecchio tempo prima di rimanere incinte. Si disse che Thorn parlava di problema solo perché nel suo mondo calcolato ad una causa corrisponde un effetto, quindi se loro stavano cercando un bambino da tempo e questo non arrivava, per lui qualcosa non tornava. Ma in natura non era sempre così.
In ogni caso, decise che un aiutino non guastava, e spalmò i panini di crema di mandragora sotto lo sguardo attento e indagatore di Thorn.
- Devo fare qualcosa? - chiese dopo un po’, poco avvezzo a starsene senza far nulla.
- Potresti apparecchiare, per favore?
Mentre Ofelia metteva in tavola la colazione si mossero con impaccio e circospezione per la cucina, poco inclini a quello stile di vita collaborativo e privo di domestici. Non se la cavarono male, e alla fine si trovarono davanti una tazza di latte caldo, fette di pane con la marmellata e biscotti.
Parlarono poco, più che altro di come avessero dormito e del viaggio di Thorn fino alla casa di Jan. Lui le assicurò che ci sarebbero stati il sole e poco vento, quel giorno.
Sparecchiarono in fretta e Ofelia finì di prepararsi. A malincuore guardò il suo pellicciotto appeso in ingresso, ignorandolo e indossando invece il cappotto di Thorn. Sapeva che non avrebbe sorriso o infierito, ma il suo sguardo vittorioso era palese. Lasciò che Thorn la precedesse per mettere sulla slitta acqua e provviste, e Ofelia si bloccò. Aveva visto i cani da tiro solo il giorno prima, ma ora che ci faceva caso erano davvero grossi. Se ne stavano buoni, però erano bestie grosse quanto dei cavalli adulti e molto più robuste, piene di pelo, zanne e occhi grandi e terrificanti. Erano due in tutto, una grigia e una bianca, che quasi si confondeva con la neve. Thorn non si mostrò minimamente impressionato, ovviamente. Ofelia prese posto dietro di lui e si attaccò ai sostegni come la prima volta che aveva conosciuto Thorn, e come il giorno prima.
Questa volta, però, mentre lui indossava i guanti e prendeva le redini, sicuro di sé come se guidare una slitta fosse un po’ come riordinare scartoffie all’intendenza, fu più premuroso.
- Pronta? – le chiese, voltandosi verso di lei.
La sciarpa le si strinse al collo, sotto al cappotto, e Thorn le sfiorò la mano per sistemargliela meglio sull’appiglio.
- Pronta.
Le diede di nuovo le spalle, forse interrogandosi sul perché di quella scelta. Tra tutte le cose che potevano fare quel giorno, proprio un giro in slitta? Poi però impartì l’ordine e i cani partirono a tutta velocità.
Ofelia sentì il viso pizzicarle per il freddo, che ben presto si tramutò in calore. Gli alberi scorrevano ai loro lati ad un ritmo folle, mentre il silenzio li avvolgeva. Si rese conto che il viaggio non era così male come aveva immaginato, anzi: le piaceva. I cani non erano costretti a scattare come dei forsennati per prendere la velocità necessaria ad involarsi, come quando avevano raggiunto Città-cielo. Correvano forte, ma non ad un’andatura da vertigine. Piano piano Ofelia si rilassò, guardandosi attorno.
Poi si concentrò su quello che le interessava davvero, il motivo della sua presenza lì, della vacanza: Thorn che guidava la slitta.
Dopo il loro matrimonio, dopo un po’ di pratica di vita coniugale e dopo averlo conosciuto meglio, si era resa conto che Thorn qualche volta aveva negli occhi uno strano luccichio, un lampo di vita che lo rendeva estremamente… umano. La maggior parte delle volte glielo notava addosso quando la scrutava, a letto, durante i loro amplessi, un po’ meno spesso quando la baciava, a meno che non fosse uno di quei baci divoranti che seguivano solitamente un lungo distacco.
Erano occhi pieni di vita, che trasformavano quasi il volto di Thorn. Ofelia lo amava profondamente in quei momenti, e cercava sempre di fare in modo che il marito avesse soventemente quello sguardo.
Qualche tempo prima si era messa a cercare di capire cosa potesse interessare Thorn, qualcosa di particolare per fargli scattare quella scintilla, e nello stesso momento, nel salotto di casa, la zia se n’era venuta fuori con un ricordo sulla loro ridicola e terrificante traversata sulla slitta per giungere al Polo. Ofelia ci aveva ripensato e si era resa conto che quella era stata la prima volta che aveva visto quello sguardo in Thorn. All’epoca non ci aveva fatto troppo caso, presa com’era dalle novità e dal tentativo di mantenere le distanze da quel fidanzato indesiderato e scontroso.
In ogni caso, la sua proposta aveva centrato il segno. Thorn si voltò a guardarla un po’ di volte, per assicurarsi che stesse bene, e le sembrò un uomo completamente diverso. Quando si fermarono perché lui potesse togliersi il cappotto, nonostante facesse un freddo da ipotermia, Ofelia lo sentì vivo, vide i suoi occhi da falco vivaci; la sua espressione non era mutata, ma percepiva in Thorn qualcosa di diverso. Era come se fosse un leone ricondotto all’habitat naturale dopo la cattività. Si era adattato alle gabbie, ma la sua vera natura era quella, selvaggia.
Ofelia si perse quasi tutto il paesaggio, per guardare lui. Si soffermava su ciò che la circondava solo quando Thorn allungava un braccio senza rallentare per indicarle qualcosa, come un branco di animali che sembravano cervi, poco più piccoli dei lupi da traino, che fuggivano via. Era uno spettacolo mozzafiato, e nonostante la mascella congelata e la temperatura impervia, Ofelia sorrise, felice. Certa che fosse uno dei momenti più emozionanti della sua vita, prese dei profondi respiri, come a volersi imprimere nei polmoni quell’atmosfera, trattenerla nei bronchi.
- Siamo quasi arrivati – le disse Thorn dopo un tempo che Ofelia non avrebbe saputo calcolare. Minuti, ore?
Non le interessava, potevano andare avanti così all’infinito, per quanto la riguardava.
Capì cosa Thorn intendeva dopo una curva stretta presa alla perfezione. Lui si stirò la schiena e rilassò la postura, e Ofelia fu certa che era soddisfatto del suo modo di guidare. Non le capitava mai di vederlo così, quasi indulgente con se stesso. E quando distolse l’attenzione da lui, lo vide.
Talmente rosso da sembrare un’immensa pozza di sangue, così limpido e sconfinato da farle credere che fosse la linea di giunzione tra terra e cielo. Un lago rosso, perfettamente circolare, immenso e incastonato tra una lunga pianura e due montagne così alte da toccare il cielo. Ofelia rimase senza fiato.
Thorn fermò la slitta poco più avanti, vicino ad alcuni massi piatti che avrebbero potuto fungere da appoggio. Scese con sicurezza togliendosi i guanti da guida, si diresse verso il fianco della slitta e prese una grossa bistecca che lanciò alle Bestie affamate. Quando passò loro vicino, quella bianca lo annusò, come riconoscendolo, e piegò la testa quasi lo stesse ringraziando. Ofelia rimase in silenzio al suo posto, senza fiatare o muovere un passo, godendosi la vista di quel Thorn così lontano da quello cui era abituata. Eppure così vero, così reale.
Lo osservò mentre prendeva una grossa scodella, sempre dal lato della slitta, e si avvicinava al lago. Per prima cosa si lavò le mani con cura. A causa del colore dell’acqua, Ofelia temeva che avrebbe sgocciolato liquido carminio ovunque, invece quando riempì la bacinella e si avvicinò ai cani vide che l’acqua all’interno era cristallina come quella che usciva dai tubi del Polo e di Anima. I cani bevvero avidamente e solo allora Thorn si riavvicinò alla slitta, rivolgendole uno sguardo.
Aggrottò le sopracciglia. – Non scendi?
Ofelia si sentiva imbambolata. Thorn le si fece più vicino, poggiandole la guancia fredda conto la fronte. Lo vide fare una smorfia. – Hai la pelle gelida, o forse è la mia, non capisco se stai male o no.
Le prese il mento tra le dita per scrutarle gli occhi con fare medico, e Ofelia si ritrasse. – Sto bene, sono solo…
Non concluse la frase. Thorn rimase in paziente attesa, all’erta. La slitta era rialzata quindi, per una volta, Ofelia non era più bassa di lui. Cioè, non tanto più bassa.
- Hai fame? Ti senti debole? Capogiri?
Ofelia trovò la forza di sorridere e scuotere la testa. – Mai stata meglio.
- Allora cos…?
Lo zittì con un bacio. Gli gettò letteralmente le braccia al collo e lo attirò a sé, contro la slitta. Thorn spalancò gli occhi e rimase immobile, senza nemmeno rispondere, ma quando Ofelia stava per allontanarsi lo sentì reagire. La sua bocca la scaldò dentro, le sue mani la confortarono attraverso tutti quegli indumenti. La zona si riempì del rumore dei loro respiri affannati e pesanti, tanto che anche i cani da slitta interruppero per un momento il loro pasto per guardarli.
Ofelia scavalcò il parapetto della slitta con l’aiuto di Thorn, che le impedì di rompersi l’osso del collo con una perdita di equilibrio fatale, ma la discesa non fu delle migliori. Gli cadde addosso e i due finirono distesi per terra, coperti dalla neve.
Thorn si rialzò così velocemente che Ofelia quasi non lo sentì spostarsi da sotto di lei, e a malapena vide le braccia tese che la rimisero in piedi.
Rimasero a fissarsi con il fiato corto, e Ofelia desiderò rimanere così a vita. Il metallo negli occhi di Thorn era vivo. Si agitava, luminoso. Non sapeva se fosse per la corsa in slitta o per il bacio. Se possibile, capì di essersi innamorata di lui una seconda volta.
Lui increspò la fronte, ma così poco che quasi Ofelia non percepì il movimento. – Che ti prende?
- Sono felice – rispose lei, cercando di mascherare il sorriso.
Si tolse gli occhiali, rendendosi conto solo in quel momento che erano storti e coperti di neve. Le lenti si autopulirono in un secondo e quando la nebbia della miopia di dissolse Ofelia vide che Thorn la stava ancora scrutando.
- La mandragora ha un effetto afrodisiaco. Dipende da quello, forse – le disse lui, cercando una spiegazione a quel comportamento.
Non che non si fossero mai saltati addosso a vicenda, però quella volta era stato diverso.
Ofelia scosse la testa. – No, te lo assicuro. E tu?
Thorn rilassò le sopracciglia, la bocca, tutto il viso. Per un attimo Ofelia lo vide senza tensione, e pensò che fosse a suo modo bello. Affascinante. – Non lo devo a quello.
Lui si chinò di nuovo per rubarle un bacio breve ma profondo, con cui le accarezzò lingua e labbra. Poi si ritrasse e tirò fuori dalla slitta il pranzo.
- Vieni – la sollecitò, allungando la mano.
Ofelia ci mise un po’ a capire che le stava tendendo la mano perché lei gliel’afferrasse. Si emozionò come una giovincella alla prima cotta. Thorn non l’aveva mai, mai, mai presa per mano. Sapeva che la sua reazione era esagerata, con la sciarpa che si attorcigliava e gli occhiali che si tingevano di rosa, ma non poteva farci nulla.
La grande mano di Thorn inglobò la sua, conducendola verso un masso piatto e libero dalla neve. Si sedettero a contemplare il lago mangiando i panini, cercando di non pensare alla crema di mandragore che c’era dentro, o al suo scopo. Masticarono in silenzio, immersi in quella quiete. Il fianco di Thorn era premuto contro quello di Ofelia, grata del contatto, e non c’erano spazi tra di loro.
Quando ebbero finito Ofelia partì con le domande. Si sentiva stranamente simile a Hector con i suoi infiniti “perché”.
- Il lago… come mai è rosso?
- Alghe. C’è un’elevata concentrazione di alghe rosse di cui è ghiotta una rara specie di pesci. In realtà l’acqua, come hai potuto vedere, è limpida, ma il bagliore del sole sulla superficie del lago accende i riflessi delle alghe e l’acqua assume questa tonalità.
Ofelia stava per chiedergli di che specie di pesci parlasse, quando vide un essere squamoso e di un rosso brillante emergere per poi rimmergersi. Era grosso quanto i lupi attaccati alla slitta. Evitò di fare domande o chiedere spiegazioni su quello.
Osservò invece le nuvole riflettersi sulla superficie. Sembrava che il lago fosse in realtà uno specchio rosso, e che immergendocisi lo si potesse attraversare, finendo in un mondo parallelo tinto di cremisi. Ofelia si chiese se tuffandosi nel suo riflesso avrebbe potuto sfruttare il lago come uno specchio vero e proprio. Non aveva comunque intenzione di fare una prova, si sarebbe solo ritrovata congelata fin nelle ossa.
- Perché hai voluto fare un giro in slitta?
La voce sommessa di Thorn risuonò lo stesso troppo forte nel silenzio di quel luogo. Sembrava di essere in una di quelle camere perfettamente isolate di Chiardiluna. Una camera sterminata però, e priva di illusioni.
- Te l’ho detto – rispose lei, con la voce bassa e fragile come le prime volte che avevano parlato. – Volevo fare un giro qui attorno.
Thorn non se la bevve. – Un giro lo potevi fare anche al Polo. Ci sono molti luoghi che non hai visitato. Tu volevi fare una gita in slitta, che ti terrorizza e che non rientra nelle tue abitudini. Perché?
Non avrebbe demorso, Ofelia lo sapeva. Decise di essere onesta.
- Ogni tanto hai… uno sguardo più morbido del solito. Solo in certe circostanze. Credo sia quando ti senti particolarmente bene, o… non saprei spiegartelo.
Thorn la scrutò in silenzio, come se non stesse parlando di lui.
- La prima volta che ti ho visto quello sguardo addosso è stato quando ci siamo conosciuti e tu ci hai portate con la slitta fino alla casa del guardacaccia. All’epoca non me n’ero resa conto perché non ti conoscevo, ma era uno sguardo così vivo. È come se tu fossi nato qui, per questo.
- Un eremita in una baita immersa nella neve, da solo con le slitte e le Bestie addomesticate?
Thorn era capace di uccidere delle semplici ovvietà in una conversazione, figuriamoci un po’ di romanticismo.
Leggermente risentita, Ofelia ribatté: - Non intendevo dire questo. Pensavo solo di voler verificare la mia teoria. Andare in slitta ti piace Thorn, non puoi negarlo.
Amava andare in slitta, lui che non amava nulla e nessuno, se non lei e la matematica, forse. Era parte di lui, come il freddo, con cui si trovava così a suo agio.
Ofelia si rese conto che quel paesaggio era Thorn. Gelido, duro, impenetrabile, desolato, completamente privo di vita o quasi, con un immenso cuore rosso come il lago al centro, dentro cui ogni tanto guizzava qualche pesce. Era un paesaggio triste, malinconico, ma con un così grande potenziale.
Era malinconico, sì, e le cose malinconiche hanno un fascino che pochi sono in grado di comprendere. Sono meravigliosi se si riesce ad andare oltre, oltre la superficie, oltre gli alberi ghiacciati, fino al suo pulsante cuore rosso.
La consapevolezza di ciò le fece girare la testa. Era bizzarro pensare di essere dentro Thorn, perché era una metafora, ma in qualche modo le sembrava anche una cosa letterale. Lei che ruolo aveva in tutto quello? Dove rientrava? Era il pesce che guizzava nel lago? O era la slitta? La baita immersa nella neve?
- Sì – ammise lui dopo un silenzio lunghissimo.
Ofelia sentì il bisogno di misurare il tempo, e si rese conto che Thorn non aveva quasi mai guardato il suo orologio da taschino. Era come se l’arca in cui esercitava le sue funzioni e ricopriva il ruolo da intendente fosse una malattia, e l’orologio diagnosticava, emetteva verdetti, dettava legge su tutto. Lì fuori Thorn non ne aveva bisogno. Era sempre nella tasca della sua giacca, non c’erano dubbi in merito, ma non aveva nessuno da curare. Thorn era a casa.
- Non intendevo essere brusco – disse poi, a mo’ di scusa, cosa che soprese Ofelia. – Solo che… erano pensieri su cui non mi ero mai soffermato. Mi ha sorpreso rendermi conto che hai… ragione. Però io ho te.
Ofelia sentì inspiegabilmente gli occhi pungerle. Doveva essere il freddo.
Lei era decisamente la slitta. Non il pesce che ogni tanto guizzava nel lago del suo cuore, un’emozione improvvisa e non richiesta, non la baita nella sua mente, in cui risiedevano i ricordi, il dolore, il passato. Lei era la slitta che gli scorreva nelle vene, la sua scintilla di vita, la sua ragione per tornare a casa la sera. La sua famiglia.
Le sue scuse, il suo ammettere che aveva ragione, erano davvero troppo per lei. Anche Thorn sembrò pensarla così, perché la sommerse in un abbraccio e le rese nera la visuale.
- Mi piace questo posto.
- C’è tanto da scoprire – rispose Ofelia, con la voce soffocata da lui.
Non si riferiva solo a quel posto. Thorn era se stesso lì, lontano da giudizi, etichette, vincoli sanguigni.
- Andare in slitta comunque è divertente.
Quello proprio non se lo aspettava. Mai in vita sua Ofelia avrebbe pensato che Thorn avrebbe pronunciato quella parola, “divertente”. Era un ossimoro bello e buono.
Le venne da ridere, inducendo Thorn a liberarla. – Che c’è?
Niente da fare, il tono rimaneva quello inflessibile di sempre, cavernoso e senza intonazione, il cipiglio era onnipresente.
- Niente, anche io penso che sia divertente.
Non specificò cosa, ma Thorn intuì che non parlava della slitta.
- C’è un motivo per cui ti piace?
Lui si volse a guardare i cani, e poi il lago. Non traspariva nulla dalla sua espressione
- Non nello specifico. Ispira solo un senso di libertà. È il mio atto di ribellione. Qui non ci sono leggi, regole, orari, scadenze. È anarchia completa.
Ofelia capì cosa voleva dire. Lì erano liberi, da tutto e tutti, isolati dal mondo. Thorn si sentiva semplicemente vivo. Emergeva la sua vera personalità, e Ofelia era davvero felice di poterla vedere e di essere forse l’unica a conoscerla.
- Vuoi tornare? Inizia a fare freddo, qui il sole tramonta prima.
La scelta era sua, ma Thorn si era già alzato. Accettò la mano che le porgeva, di nuovo, e lo seguì alla slitta. Lo guardò caricare tutto con estrema cura, dando persino una pacca sul fianco di uno dei cani-cavallo, prima di rimettersi al comando. D’un tratto Ofelia si sentì invadere dal calore, il suo stomaco fece una capriola, e non vide l’ora di tornare a casa. A giudicare dallo sguardo di Thorn, acceso di una piccola fiammella quasi famelica, Ofelia capì che erano sulla stessa lunghezza d’onda.



Ed eccoci arrivati al cuore del capitolo, in due sensi.
Prima di tutto, perché qui è presente l'approfondimento che volevo fare: dei semplici "occhi più vivaci del solito", per citare il libro. Non so perché ma questo dettaglio mi ha ossessionata per molto tempo e sono riuscita a trattarlo solo girandoci intorno dannatamente tanto ahahaha. Spero che si sia capito ciò che intendevo dire.
Secondo, il cuore di Thorn. Vi assicuro che nulla di tutto questo era architettato, io volevo solo parlare degli occhi di Thorn e sono finita con decine di pagine Word che nemmeno avevo pensato. Possessione della letteratura. Dovrei farmi visitare. Non era premeditato niente, nemmeno il paesaggio. Il lago rosso esiste, è ai piedi di una catena montuosa in Trentino, ci ho fatto una ferrata due anni fa, si chiama T qualcosa ma non mi ricordo bene scusate. In passato, negli anni '80/90 era davvero rosso per via di queste alghe particolari. Ora è solo un meraviglioso lago classico, perchè le alghe hanno perso la pigmentazione o non so cosa sia successo. Il fatto è che non doveva esserci nel capitolo. Mentre Thorn e Ofelia erano in slitta il paesaggio si creava da solo, ed era come se io fossi lì con loro. Girato l'angolo ho visto il lago, semplicemente. Quando loro si sono seduti a mangiare, mi sono resa conto con lo stesso stupore di Ofelia che il paesaggio era proprio Thorn. Sono rimasta colpita anche io. E preoccupata. O ho mangiato del funghetti allucinogeni oppure devo smetterla di mangiarmi il gelato con latte e biscotti prima di dormire.
In ogni caso, spero che vi sia piaciuto il capitolo. Il prossimo, la conclusione, ve lo anticipo, sarà ricco di...spoiler!! No scherzo, non flagellatemi. Ci saranno diversi spoiler, ma talmente velati che non capirete nemmeno quali sono. Ve lo assicuro al cento per cento.
Il primo capitolo era un'immersione nel passato di Thorn, questo capitolo è il presente, e il prossimo lo vedo un po' come il futuro. Di loro due insieme, però.
Scusate la lunghissima digressione O.O Sorry.
Spero davvero che vi sia piaciuto perché ci tengo tanto tanto a questo piccolo esperimento non voluto. E vi avviso anche che nel prossimo i nostri amati fidanzati dell'inverno sfrutteranno per bene quella cremina di mandragore xD
Sporcaccioni...
Grazie per essere arrivati fin qui ;) ♥

P.S. Il lago si chiama Tovel, l'ho cercato xD Dateci un'occhiata su Google immagini, se potete, è meraviglioso.

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Capitolo 11
*** La slitta pt. 3 ***


E così questa (piccola) storia si conclude. Questo approfondimento, non l'intera raccolta, sia chiaro. E' una conclusione un po' dolceamara, spero tantissimo, davvero tantissimo che vi piaccia.
Come avevo anticipato nella parte 2, sono presenti alcuni spoiler, più che altro sotto forma di dialoghi (ho proprio preso parti di conversazioni traducendole) ma conto di averle mascherate bene in modo da non farvele capire (sperooo). Quindi, sì, andate sul sicuro, insomma. Sì, dai ahahah. Mi piacerebbe un sacco però spiegare gli spoiler, quindi credo che aggiungerò una piccola noticina a pié pagina quando sarà uscito il quarto volume.
Finisco il monologo ringraziandovi di cuore per i vostri feedback, i suggerimenti, gli sproni, i complimenti e l'entusiasmo, mi date davvero una gioia immensa e la carica per continuare a scrivere anche quando la voglia è poca ♥ 
Buona lettura, spero...


Le traineau - Fin

- Siamo a metà strada – la avvisò Thorn un po’ di tempo dopo, spronando i cani da slitta.
I capelli si muovevano ovunque come le alghe del lago rosso, il suo corpo si stagliava di fronte a lei, statuario, forte, solido.
- Puoi fermarti?
- Cosa?
- Puoi fermarti?
Thorn obbedì, facendo rallentare i cani poco alla volta, fino a fermarsi in una specie di passaggio naturale tra due montagne e due boschi.
Sembrava preoccupato quando si girò verso di lei, ma anche… elettrizzato dalla corsa. – Stai male?
- No, tutto bene – lo rassicurò Ofelia, allontanando il suo viso accigliato con un gesto gentile. – Posso guidare io?
Thorn sembrò perdere il controllo per un attimo, spalancando gli occhi e vacillando, ma durò un secondo.
- Come?
- Posso provare a guidare io la slitta?
- Non è facile e non è sicuro.
- Infatti tu guiderai me.
Lui era scettico, la cosa era evidente, ma Ofelia non si fece scoraggiare. Si allontanò dal suo posto e fece due passi avanti, prendendo in mano le redini. Thorn la bloccò con le proprie. – Che stai facendo?
Ofelia iniziava a spazientirsi. Voleva un po’ di fiducia. – Mettiti dietro di me e mostrami come si fa.
Thorn prese un lungo respiro, ma non esalò. Non sbuffò. Alla fine si premette contro di lei, alle sue spalle, e le passò le braccia attorno ai fianchi, prendendo le redini con lei. Con la sua alta figura alle spalle e le due enormi Bestie davanti, Ofelia si sentiva un po’ soffocare, ma non demorse. Assecondò i movimenti di Thorn, che le raccomandò più volte di tenersi forte e avvertirlo in caso volesse fermarsi, e partirono.
Dopo alcuni minuti i cani non stavano nemmeno andando al trotto, la cosa era ridicola. Ofelia diede una frustata alle redini, facendo accelerare un po’ l’andatura ai cani.
Thorn le posò le labbra sulla testa, facendole perdere la concentrazione. – Piano.
- Non arriveremo mai a casa, così.
Thorn la strinse più forte. – D’accordo, facciamo sul serio. Io non mi ritengo responsabile.
I cani da slitta partirono a tutta velocità, facendola sussultare per lo spavento. Da davanti era come se tutto sfrecciasse ad un ritmo doppio, ma era allo stesso tempo più consapevole di quello che la circondava. Sentiva vibrare ogni cellula del suo corpo. Quando si abituò a quell’andatura lanciò un’occhiata a Thorn.
Aveva sempre lo sguardo elettrico, metallo attraversato da fulmini, e la bocca era increspata, come se stesse facendo un minuscolo sorriso. Thorn si accorse del suo sguardo e abbassò la testa, scrutandola a sua volta. Poi riportò gli occhi davanti a sé, accigliandosi.
- Sarebbe una pessima idea distrarsi ora, Ofelia.
Il messaggio era chiaro: guarda avanti e concentrati. Poco dopo però sentì ancora le sue labbra tra i capelli, la barba che la solleticava, e rabbrividì. Thorn lasciò le redini quando la vide sicura, e le strinse le braccia in vita, tenendola stretta.
Il viaggio di ritorno le parve immensamente più lungo che all’andata, carico di una strana elettricità. Il sole era già quasi tramontato del tutto quando Thorn riprese il comando per fermare la slitta di fronte a casa. Scese senza dire una parola, senza un gesto o uno sguardo, come se fosse da solo. Tolse i finimenti alle Bestie e le portò di fianco all’ultima casa, all’estremità opposta rispetto alla loro, dove c’era una piccola stalla che Ofelia non aveva nemmeno notato. Diede loro la cena e l’acqua e raggiunse Ofelia cercando di sistemarsi i ciuffi di capelli sparsi.
In quel momento lei capì perché non l’aveva nemmeno guardata: i suoi occhi non erano meno feroci di quelli dei cani. La scintilla si era trasformata in qualcosa di travolgente che albergava negli occhi di lui come nella bocca dello stomaco di lei.
Thorn la fece scendere quasi bruscamente, la prese per mano dopo aver agguantato le loro cose e si diresse a casa. La fece entrare per prima, si chiuse la porta alle spalle e si tolse gli stivali, imitato da lei. Thorn fu rapido come una freccia, preciso e diretto, e non perse tempo nemmeno per accendere il fuoco ormai morto: tolse il suo cappotto di dosso ad Ofelia quando lei stava finendo di armeggiare con il secondo stivale, impaziente.
Thorn gettò il giubbotto sul divano e la prese in braccio repentinamente, premendosi contro di lei, tuffando il suo naso freddo contro il suo collo, facendola rabbrividire; se di freddo o aspettativa, nessuno dei due avrebbe saputo dirlo. La sciarpa di Ofelia fu lesta a srotolarsi, per non essere d’impiccio, anche se era un pochino offesa da tanta irruenza.
Quando Ofelia sentì una superficie solida sotto il sedere aprì un occhio, scoprendo che Thorn l’aveva appoggiata sul bancone della cucina. Arrossì per qualche motivo sconosciuto anche a lei, e tirò Thorn per i capelli, dolcemente, allontanando i suoi denti e la sua lingua dal suo collo perché si concentrassero sulle sue labbra.
Non persero nemmeno tempo a svestirsi, Ofelia non si tolse i guanti. In quel momento non avevano bisogno di pelle e tenerezza, ma solo di starsi più vicino possibile, di dar sfogo al loro bisogno, di concretezza. Bastavano le mani per andare oltre i vestiti, tra i capelli, su petto, addome, braccia, collo, ovunque, eppure non abbastanza. Si consumarono come le ceneri del fuoco che aveva arso la mattina nel camino, dandosi calore a vicenda, respirandosi, assimilandosi.
Alla fine si ritrovarono ansimanti, con le fronti premute insieme, le bocche socchiuse, gli occhi spalancati. Quelli di Ofelia erano languidi, quelli di Thorn vivaci come durante la corsa di quel pomeriggio. Rimasero in quella posizione, lei seduta e lui in piedi tra le sue gambe, finché i loro respiri non si calmarono, e i cuori parcheggiarono le loro slitte.
Thorn le diede un altro lungo e morbido bacio prima di scostarsi, dopo averle succhiato a tradimento il labbro inferiore, cogliendola di sorpresa. Si riallacciò i pantaloni, ma lasciò sbottonata la camicia per quei pochi bottoni che Ofelia, con le sue mani goffe, era riuscita a disfare. Lei si risistemò il corpetto e scese dal tavolo rassettandosi la gonna e tutto quello che c’era sotto. Thorn riaccese il fuoco nel camino prima di guardarla. In penombra, scarmigliato, con le cicatrici che spiccavano bianche… Ofelia si sentì cedere le gambe. Rabbrividì, ma questa volta anche di freddo.
- Doccia? – suggerì Thorn con voce roca, facendo un cenno con la testa verso il bagno.
- Bagno – ripose Ofelia, imboccando le scale.
Thorn la seguì in silenzio.
 
Rimasero immersi nell’acqua calda fino a farsi raggrinzire la pelle, così rilassati che rischiarono di addormentarsi entrambi. Quando fu il momento di uscire impiegarono qualche secondo buono per capire come sbrogliare quell’intrico di braccia e gambe che avevano creato. Ofelia si infilò il pigiama pesante e scese al piano di sotto per preparare la cena mentre Thorn la seguiva con delle pratiche in mano. Le esaminò davanti al fuoco mentre lei si scervellava alla ricerca di qualcosa da cucinare che non fosse ancora panini. Optò per una frittata di verdure, la ricetta forse più semplice e innocua che potesse ideare. Almeno non rischiava di mandare a fuoco la casa. Usò le uova, il formaggio, le zucchine, le carote, la cipolla, persino un goccio di latte, giusto per sperimentare. Adocchiò l’onnipresente vasetto di estratto di mandragora e, senza che Thorn la vedesse, ne gettò l’intero contenuto nella frittata. Le avrebbe dato un sapore un po’ speziato.
Mentre si cuoceva apparecchiò, riflettendo sul fatto che le mandragore non erano davvero afrodisiache, dunque lei e Thorn non erano sotto un qualche influsso strano, però erano davvero piante usate in medicina per stimolare la fertilità, quindi perché non farsi aiutare un po’?
Ofelia spese il tempo rimasto per pelare qualche carota avanzata da mangiare cruda, in ricordo delle merende sane che ogni tanto sua madre le propinava quando era piccola e qualche amica le parlava di dieta e cibo salutare.
Mangiarono con calma, Thorn non si sperticò in complimenti sulla cena, ma Ofelia pensò che fosse buona per essere il suo primo tentativo di cucina. Commestibile quanto meno, non eccelsa ma nemmeno da buttare. Insomma, se la mangiò tutta.
Stava sgranocchiando la carota quando Thorn glielo chiese. - Hai usato ancora le mandragore, vero?
Lei si strinse nelle spalle. - Sarebbe stato comunque uno spreco non utilizzare quella crema.
Lui assottigliò gli occhi, serio. - Speriamo che facciano il loro dovere.
Ofelia era sempre un po’ a disagio quando parlavano dell’argomento figli. Lei non si era mai vista come una madre di famiglia e Thorn detestava i marmocchi, quindi per un certo periodo erano stati unanimi circa la decisione di non averne.  Poi però in Ofelia era scattato qualcosa. Vedeva donne incinte ovunque, anche al suo studio di lettura, prestava maggior attenzione a Vittoria e indugiava più del dovuto sulle foto dei tre figli di Agata, che non perdeva tempo in quell’ambito.
Era stata dura parlare a Thorn di quell’istinto di cui si credeva sprovvista, e che invece era sbocciato in lei come un fiore: prima invisibile, poi sempre più rigoglioso. Catturava la sua attenzione come una rosa in un campo d’erba. Lui si era mostrato comprensivo, anche se non aveva fatto nulla per incoraggiarla ad esprimersi. Ofelia era stata intimorita da lui per la prima volta nella sua vita. Paventava una risposta negativa, più che lui: un figlio non poteva certo farlo da sola o con un marito contrario.
Invece Thorn aveva accettato senza nemmeno rifletterci troppo, glielo aveva concesso come tutto quello che lei gli aveva chiesto agli albori. Solo in quel momento Ofelia si era resa conto di essere fortunata ad essere sposata con un uomo come lui, che la accontentava in tutto e le prestava davvero attenzione, anche se a modo suo. La amava più di quanto lei stessa avrebbe creduto possibile.
Ancora una volta si accorse che lei era come la slitta per lui, l’ebbrezza della corsa, una scintilla di vita. L’amore che lo aveva cambiato, riempito, cancellando la sofferenza del passato.
In ogni caso, era rincuorante sapere che lui era partecipe nel progetto di avere un figlio, che si interessasse. Non se ne dimenticava, e di sicuro le mandragore non servivano a renderli più attivi sotto quel punto di vista, Ofelia ne era certa. Si impegnavano abbastanza anche da soli…
Il pensiero la fece arrossire, cosa che catturò l’attenzione di Thorn. La scrutò in silenzio, mentre lei dava un morso ad una carota.
Gli occhi di Thorn si accesero all’improvviso, come quella mattina sulla slitta, e lui bevve un sorso d’acqua per cercare di nasconderlo. Ofelia diede un secondo morso alla carota, cercando di capire cosa stesse succedendo, e capì che lo sguardo di Thorn puntava proprio alla sua bocca.
Estremamente imbarazzata e accaldata, era indecisa se mettere giù quell’innocua verdura o fare una cosa che non si era mai azzardata a fare: provocare il marito. Si sentiva disinibita ma non volgare, e avvampò ancora di più. Bevve anche lei, per cercare di calmarsi, ma Thorn non la mollava un attimo, non batteva nemmeno le palpebre, e lei rispose a quell’insistenza. Allungò una mano sul tavolo per prendere la sua, accarezzando le lunghe dita ossute, e Thorn scattò, letteralmente.
Ofelia non lo vide alzarsi e raggiungerla, ma si sentì investita, percepì la sua bocca ovunque sulla sua pelle. La luce del fuoco gettava sul suo viso un alone rossastro che ne lasciava in ombra metà, donandogli un’espressione ferale, da cacciatore.
La verità era che, per quante concessioni facesse, Thorn era abituato a farsi obbedire, ad impartire ordini, ad ottenere ciò che voleva. Ofelia non aveva alcuna intenzione di contrastarlo. Non capì molto di quello che successe dopo, distratta com’era dalle sue mani possessive che si insinuavano ovunque sotto il pigiama, ma si rese conto che erano davanti al camino.
Sul tappeto.
Lo allontanò con troppa forza, ansimando. Thorn la guardò con una strana espressione: il viso era accartocciato dallo stupore, ma nei suoi occhi illuminati si leggeva anche una certa... apprensione. Aveva paura di essere respinto. Ancora non aveva superato quel trauma, dopo tanto tempo, dopo lo sforzo immane di Ofelia di fargli capire che lo amava con anima e corpo.
- Non qui – gli disse soltanto. - Non...
Sbuffò, cercando di riprendere fiato, e lo prese per mano guidandolo al piano superiore. - Fidati, non su quel tappeto.
Non sul tappeto dove anche Berenilde e suo marito... Rabbrividì. Sentiva ancora il formicolio di quella sensazione sulla punta delle dita coperte dai guanti.
Una volta giunti in camera Ofelia mise la sciarpa sul letto senza tanti riguardi. Anche lì c’erano uno spesso tappeto morbido e un camino ardente, e Thorn parve apprezzare. Riprese da dove si era interrotto, calmandosi solo quando sentì Ofelia reagire con trasporto.
Che fossero le mandragore, la vacanza, quell’avamposto isolato, Ofelia non avrebbe saputo dirlo, ma avrebbe trascorso volentieri tutta la sua esistenza lì, tra le braccia di quel Thorn quasi selvatico che faceva fatica a riconoscere. Pensò di impazzire quando lui le mormorò all’orecchio di non trattenersi, per una volta che non li sentiva nessuno, e lei non si risparmiò, facendo bruciare quel bagliore vivace che il fuoco rifletteva nei suoi occhi metallici. Non avrebbe nemmeno saputo dire cosa fosse successo, dopo, quante volte loro... e come...
Si sentiva appagata e lasciva, sdraiata sopra di lui, sul tappeto, con una coperta a scaldarli e il fuoco a tenere loro compagnia. Avrebbe volentieri dormito lì, con il battito accelerato del cuore di Thorn contro il suo orecchio. Il letto freddo non l’attirava per nulla.
Thorn le sollevò il mento per darle un altro bacio pigro, minuti, ore, giorni, secondi dopo. L’orologio da taschino era da qualche parte nella camicia di Thorn, abbandonato.
- Dovremmo dare una sistemata giù - mormorò lui, in seguito, infilandole contraddittoriamente una mano tra i riccioli spettinati. - La cucina è ancora apparecchiata e io ho lasciato le pratiche sul divano.
- Mh... - mormorò Ofelia, per nulla incline a scendere da lui solo per riordinare. - Non so nemmeno dov’è il mio pigiama.
Thorn sbuffò dal naso, se divertito o rassegnato non era dato saperlo. - Te lo sei tolto un po’ per le scale e un po’ qui.
Ofelia alzò lo sguardò, seria. - Me l’hai tolto un po’ sulle scale e un po’ qui.
Thorn non rispose, ma si sedette, costringendola ad assecondarne il movimento. Ofelia si allungò per prendere i guanti, lasciati a breve distanza per ovvi motivi, e nel farlo, ancora una volta, sfiorò il tappeto con la punta del mignolo. Fu un attimo molto più breve di quello del giorno prima, ma i sentimenti di Thorn la investirono come la slitta trainata alla massima velocità, violenti, bramosi, impazienti. Anche se Thorn non lasciava trapelare le sue emozioni con il corpo o tramite le espressioni facciali non significava che non ne provasse. Aveva dei sentimenti così passionali e profondi ingabbiati dentro di sé... E Ofelia sentì con un semplice contatto che la maggior parte di essi era rivolta a lei. Dietro a quell’ardore, a quel bisogno travolgente e insopprimibile, inarrestabile, c’era una tale dolcezza. Un amore così puro e semplice che le fece venire le lacrime agli occhi.
Thorn non era ghiacciato, dentro di sé. Era il più caldo e umano di tutti.
- Ofelia?
Il tono preoccupato la spinse ad alzare gli occhi, dopo aver finito di infilarsi il guanto. Thorn era accigliato. Le passò una mano sulla guancia per asciugarle le lacrime che erano traboccate senza che lei se ne rendesse nemmeno conto.
- Che cosa... è successo qualcosa?
Nonostante tutto, vedendolo in difficoltà le venne da ridere, ma si trattenne. Poteva anche amarla in un modo così intenso da farla vacillare alla sola idea, però rimaneva sempre l’orso che aveva conosciuto su Anima, in una notte piovosa: asociale, burbero, silenzioso, imbronciato e decisamente in difficoltà nel capire cosa passasse nella testa della moglie.
- No, nulla - sussurrò lei, con la voce tremante.
Le emozioni di Thorn le invadevano ancora mente e cuore, non era sicura che la voce le avrebbe retto. Scesero in silenzio, rivestendosi mano a mano che trovavano qualche capo d’abbigliamento abbandonato. Ofelia ripulì la cucina asciugandosi ogni tanto le lacrime che gocciolavano senza che lei glielo ordinasse e le appannavano gli occhiali. Thorn non produceva alcun tipo di rumore, al punto che Ofelia dovette girarsi alcune volte per assicurarsi che fosse ancora lì con lei, trovandolo sempre intento a scrutarla, con le sopracciglia aggrottate.
Quando tornarono in camera si diedero il cambio in bagno prima di andare a letto, e Ofelia fu grata che Thorn ci fosse andato per primo: avrebbe scaldato le coperte. Quando lei uscì e lo raggiunse aveva ancora gli occhi rossi, così si tolse gli occhiali per tentare di non vedere più l’espressione apprensiva sul suo volto di marmo. La sciarpa si agitava piano, contagiata dallo stato d’animo della padrona, e rimase al suo posto sul comodino come un gatto acciambellato.
Restarono sdraiati in silenzio a lungo, sapendo che nessuno dei due dormiva, mentre il fuoco scoppiettava nel camino, prossimo ad addormentarsi come loro.
Fu Thorn a cedere per primo. - Ofelia...
Non sapeva come continuare. Avevano passato una serata talmente bella... cosa l’aveva guastata? Era stata colpa sua? Di qualcosa che aveva detto o fatto? O non detto e non fatto?
In risposta, lei gli salì sopra e si aggrappò a lui, seppellendo il viso nel suo collo liscio, l’unica parte del corpo priva di cicatrici. Gli diede un bacio leggero.
- Va tutto bene. Davvero. È stata una bellissima giornata.
Thorn non rispose. Non sapeva come rispondere. Però non cedette. - Vuoi parlarne?
La sentì scuotere la testa contro il suo collo, solleticandolo con il naso. Cosa poteva dirgli? Che aveva letto il tappeto che lui aveva toccato, leggendo lui stesso? Leggendolo proprio nel momento meno indicato, quando era in preda all’eccitazione? Poteva dirgli che l’amore che aveva percepito in lui l’aveva quasi spaventata, perché nemmeno lei era sicura di ricambiarlo con la stessa intensità? Thorn era un’esagerazione umana: eccessivamente metodico, ossessivamente alla ricerca della perfezione, rifiutava le mezze misure e non tollerava che qualcosa sfuggisse al suo controllo. Anche nei sentimenti era esagerato ed eccessivo. Se lo tradivi, seppelliva tutto quello che avevi rappresentato per lui. Ma se lo amavi, lui viveva per te.
E lui viveva per Ofelia.
Non poteva rivelargli nulla di tutto quello.
- Te l’ho detto. È stata una delle più belle giornate della mia vita.
Non era tutta la verità, ma era sincera. Il pensiero che la vacanza fosse già finita le procurò una stretta al petto, e non piacevole come quelle provate durante la serata.
La barba di Thorn le si impigliò tra i capelli, le sue labbra le depositarono un bacio leggero sulla testa. Il suo muto modo per dirle che per lui era lo stesso. Rimase abbarbicata sopra di lui, cullata dal suo respiro. Poi sentì le mani di lui accarezzarla sulla schiena, sui fianchi, sulle cosce, non in modo invadente, ma delicato, come per riflesso. Non erano decisamente lascive, eppure il cuore di Ofelia sussultò; le venne caldo, di nuovo. Strinse forte gli occhi. Non poteva volerlo ancora, il suo corpo era sfibrato. Eppure...
Alla fine prevalse la stanchezza, e fu così anche per Thorn, perché quando Ofelia scivolò nell’incoscienza sentì le sue braccia stringerla per l’ultima volta e assestarsi sulla sua schiena, tenendola stretta contro di sé.
 
La mattina furono di nuovo svegliati dal sole. Aprirono gli occhi insieme, lentamente, nella stessa identica posizione in cui si erano addormentati. Erano talmente esausti che non si erano mossi di un centimetro, e non ne avevano nemmeno sentito la necessità. Rimasero a lungo immobili, respirando piano, cercando di non fare rumore o muoversi per rompere l’incanto. Illudersi che potesse durare per sempre.
Poi Ofelia starnutì.
- Sei sveglia – mormorò Thorn, come se non fosse ovvio, a mo’ di buongiorno.
- Già.
Ofelia si mosse piano per spostarsi da lui. Gli aveva dormito addosso tutta la notte; per quanto potesse essere leggera e Thorn forte, come minimo era in una posizione scomoda e tutto rigido. Cercò di non pensare al fatto che la conformazione fisica di Thorn seguiva delle regole tutte sue, che esulavano dalla normale concezione. Ogni tanto le sembrava che fosse composto unicamente da parti meccaniche.
Quando le sue mani la fermarono prima che lei scendesse, però, trattenendola per le natiche, ad Ofelia si mozzò il respiro. Decisamente non era composto di parti meccaniche. E se lo era, erano davvero di ottima fattura, doveva riconoscerlo.
La presa non si allentò.
Ofelia gli rivolse uno sguardo interrogativo, cercando di metterlo a fuoco. Tra la mancanza degli occhiali e la nebbia che la mattina per i primi minuti le impediva sempre di vedere chiaramente, era un’impresa rendere nitida l’espressione di Thorn.
- Aspetta almeno che mi lavi la faccia – mormorò lei, anche se non sapeva esattamente cosa il marito dovesse aspettare.
In risposta lo sentì arcuarsi, in qualche modo, e il suo naso freddo le solleticò il collo, seguito a ruota dalle sue labbra. Ofelia si bloccò, e mise a fuoco tutto. Niente di meglio di una sana dose di sorpresa per riuscire a vederci meglio, letteralmente.
- Non ho intenzione di aspettare.
Fu tutto estremamente… nuovo. Ofelia si sentiva come una sposa alle prime armi invece che come una moglie navigata. Aveva scoperto così tanto su Thorn nell’arco di un giorno: novità sul suo passato, un nuovo lato del suo carattere, quanto sapesse essere appassionato…
E soprattutto scoprì, in quel momento, quanto un Thorn appena sveglio, riposato, con una lunga notte di sonno alle spalle e una moglie che gli aveva dormito addosso per ore potesse essere… insaziabile. Estremamente sensibile. Generoso. Capace. Erot…
Il cervello di Ofelia andò in cortocircuito per un po’. E le mandragore non c’entravano proprio nulla. Quando si ridestò, grazie alle dita leggere di Thorn che le percorrevano la spina dorsale, si chiese se in realtà non si fosse appena svegliata e quello appena vissuto fosse un sogno a colori troppo vividi. Arrossì, ma le mani di Thorn la smentirono. Era tutto vero. E lei adorava quelle mani. Dopo poco fu lui ad essere sdraiato su di lei, mentre Ofelia gli accarezzava le braccia e tracciava con le dita i solchi delle cicatrici che conosceva a menadito.
Si disse che avrebbero dovuto prendere l’abitudine anche a casa di fare certe cose la mattina appena svegliati. Solitamente si dedicavano del tempo la sera, quando Thorn rincasava e aveva un attimo libero. La mattina era sempre di fretta, e la sua mente già orientata verso i suoi calcoli e le sue pratiche non si lasciava distrarre facilmente.
Forse avrebbe cambiato idea dopo quella mattina. Le sembrava strano che se la prendesse tanto comoda, senza nemmeno fare un tentativo per vestirsi, lavarsi, pettinarsi, ordinarsi, togliersi di dosso l’odore della loro pelle…
Basta! Era tutta colpa di quella baita di montagna. La sciarpa sussultò sul comodino accanto a lei, spaventata da quello scatto di sensazioni incontrollate.
Al di là della sua tempesta ormonale, Thorn era davvero un’altra persona. Se quella versione di lui rappresentava il vero se stesso, Ofelia considerò che averlo sposato era un privilegio. Averlo conosciuto era un dono. Ed essere l’unica a sapere dell’esistenza di quella parte di lui era un miracolo.
Purtroppo, non tutto poteva durare in eterno.
- Cercherò di tornare a casa più spesso – disse, parlando dopo tanto tempo passato in silenzio.
Ofelia, giocherellando con i suoi capelli, glieli aveva spettinati e aggrovigliati tutti. Portava ancora i guanti, ma non li tolse. Intuiva che l’idillio fosse ormai al suo tramonto.
- È una promessa? – chiese lei, riscaldata da quelle parole.
Thorn fece una specie di smorfia, ma per il resto non cambiò espressione. Non sorrise, non si rabbuiò, niente, come al solito. – Io mantengo le mie promesse. Non prometto cose che non posso mantenere. È un proposito. Un augurio. Un impegno, chiamalo come vuoi.
Ofelia annuì contro il cuscino, lieta che lui non dimenticasse mai nulla: sarebbe sempre stato consapevole di quello che si era prefisso di fare. Ad Ofelia mancava già, come se fosse distante, all’intendenza, non sdraiato su di lei.
Alla fine fu costretto ad alzarsi. Le morse un fianco, facendola squittire in protesta, e si diresse al bagno.
Ofelia rimase a letto, avvolta nelle coperte. Allungò un braccio per attirare la sciarpa, che le strisciò lungo l’arto come uno strano serpente tricolore addomesticato. Le si accoccolò contro il petto intuendo il bisogno di conforto della padrona. Thorn non si era mai comportato in quel modo. Quasi non lo riconosceva. Era così… premuroso, accorto, presente. Le metteva una malinconia indicibile sapere che stava per finire tutto. Erano partiti che non facevano altro che bisticciare, e ora aveva il costante bisogno di strusciarglisi addosso come un gatto. O come un qualche animale durante la stagione dell’accoppiamento. Preferiva paragonarsi ad un gatto, sinceramente.
Cercò di trattenersi dal saltargli di nuovo addosso quando lo vide uscire dal bagno pulito, ordinato e vestito di tutto punto. Si chiuse dentro appena lui ebbe finito per evitare di fare la figura della selvaggia e nascondere ai suoi occhi l’espressione dimessa. L’idea di partire la stava uccidendo. Perché non era in grado come lui di nascondere i suoi sentimenti?
Ofelia rifece il letto, quanto meno per non lasciare che la fantasia dei domestici che sarebbero passati a ripulire vagasse troppo. Radunò le sue poche cose e scese di sotto portando tutto giù per le scale.
Thorn aveva apparecchiato, ma sembrava leggermente impacciato. Decisamente fuori dal suo habitat.
- Ho… preparato, intanto – disse. – Ma il resto non…
- Faccio io – lo rassicurò lei sorridendo, evitandogli l’imbarazzo.
Mangiarono quello che rimaneva delle provviste in silenzio, senza nemmeno guardarsi. Ad Ofelia veniva da piangere. Non voleva che finisse tutto. Quei giorni di riposo, l’essersi riscoperti nonostante non avessero alcun tipo di problema di coppia, l’alchimia che si era creata, la facilità con cui Thorn si era aperto…
Sparecchiarono assieme, senza proferire parola, e Thorn preparò la slitta mentre Ofelia lavava piatti e posate e controllava di aver preso tutto. Il fuoco era già spento nel camino, e lei si augurò che non fosse un presagio. Erano destinati ad essere anche loro due come una fiamma in un camino? Ardente solo quando l’attizzavi, ma fredda e inospitale se non la curavi? Thorn non era così. Lei nemmeno. Forse erano una candela, più pacata e lenta. Ardevano con il loro ritmo.
Anche una candela poteva accendere un fuoco, però.
Quando Thorn rientrò per dirle che era tutto pronto, Ofelia non riuscì a trattenersi. Aveva ricominciato a nevicare e tra i capelli argentei e biondo pallido del marito era incastrato qualche fiocco di neve. Il pizzetto, stranamente ancora al suo posto, non raso, sembrava invitarla a ad avvicinarsi. Ofelia lo fece di gran carriera, con un’intenzione ben chiara dipinta negli occhi.
Cadde. Se Thorn non l’avesse presa in tempo, si sarebbe trovata lunga distesa. La sciarpa agguantò gli occhiali che le erano caduti prima che Thorn la raddrizzasse.
- Che avevi in mente di fare? – chiese lui, con un sopracciglio inarcato, visibilmente perplesso.
Rossa di vergogna, Ofelia non si fece scoraggiare. Lo baciò con foga, esitando quando calpestò il tappeto di Berenilde. Non avrebbe mai potuto vederlo in altro modo. Alla fine lo trascinò sul divano, o lui trascinò lei, o lo fecero a vicenda. In ogni caso, come la prima volta, il giorno prima, non fecero in tempo a spogliarsi. Fu rapido, struggente, un bisogno primordiale, la necessità di colmare un vuoto in cui Ofelia stava precipitando.
Si rese conto che stava piangendo solo quando Thorn le infilò una mano tra i capelli e la strinse a sé con l’altro braccio. Era troppo rigido, non la cullava, ma Ofelia apprezzò lo stesso il suo tentativo di consolazione.
- Scusa – mormorò alla fine, quando i singhiozzi si placarono.
Gli occhiali erano storti e macchiati di un blu infinitamente triste, la sciarpa non sembrava nemmeno animata da quanto era floscia. Aveva urgente bisogno di un fazzoletto.
- Ti ho fatto male? – domandò lui con una voce burbera e cavernosa che voleva solo essere carezzevole, ma non ci riusciva.
Thorn sapeva di essere stato un po’ brusco poco prima, leggermente incontrollato. Le reazioni di Ofelia lo avevano fatto impazzire, ma si maledisse vedendo le sue lacrime. Forse aveva frainteso, rovinando tutto. Come sempre.
- No – disse però lei, senza spostarsi da lui. – No, per niente.
- Sei strana da ieri sera.
Nessun invito a continuare, nessuna frase di conforto. Thorn non era bravo in quelle cose, ma Ofelia accettò lo sforzo.
- Non voglio andare via – ammise alla fine. – Tu appartieni a questo posto. Qui sei te stesso.
Lui si irrigidì. Ofelia lo sentì allontanarsi da lei, anche se la teneva stretta tra le braccia. Era una distanza interna, intima, molto più dolorosa di quella fisica.
- Non possiamo stare qui. Lo sai.
Ofelia tremava. – Cambierà qualcosa tra di noi?
Avrebbe tanto voluto vederlo in volto, cercare di leggergli le espressioni mascherate, ma al tempo stesso ne era terrorizzata.
- Vuoi che cambi qualcosa? Una volta ti ho detto che mi avresti dovuto avvisare se avessi fatto o detto qualcosa che non ti aggradava. Perché non volevo dovermi chiedere come mai mia moglie non fosse felice. Cosa devo fare, Ofelia?
Quella bontà immeritata e quello slancio verso di lei la commossero al punto che si mise di nuovo a piangere sommessamente.
- Io ti ho detto che ero già felice, ricordi? Anche qualcosa di più.
Alzò la testa per guardarlo: la fissava con gli occhi più aperti del solito, in cui sembravano balenare mille emozioni. Ma la mascella era contratta dalla tensione e il solco tra le sopracciglia era più profondo del solito.
- Non devo cambiare nulla?
- No, Thorn, ti amo come sei.
In risposta, lui nascose il suo volto ai suoi occhi posandole un bacio in fronte. Rimase con le labbra ferme sulla sua pelle, senza muoversi. Ofelia intuì che avesse bisogno di riprendere il controllo di sé.
- Io appartengo al posto in cui sei tu. Che sia Anima, il Polo, Babel, o il mare di nuvole. Torneremo qui.
Ofelia annuì piano. Thorn aveva parlato ad un soffio dalla sua testa, non si era mosso. E lei non voleva che lo facesse. – Me lo prometti?
Questa volta, Thorn annuì con decisione, un solo movimento del mento appuntito. – Sì.
Ofelia sorrise asciugandosi le lacrime.
- Ricordati la promessa – mormorò, citando la frase che aveva detto tanto tempo prima, nel suo studio da intendente, di fronte ad altre richieste. Era tutta una richiesta, con Thorn.
E lui le ricordava tutte. – Io non dimentico mai nulla – concluse infatti.
Ofelia gli diede un bacio leggero e si alzò dalle sue gambe, rassettandosi i vestiti. Prima, però, si spostò dal tappeto. Thorn la imitò, riallacciando e riabbottonando quello che doveva. Prima che Ofelia andasse a sciacquarsi il viso, la trattenne per il polso.
Non parlò.
- Cosa c’è?
Thorn era pensieroso. In cerca delle giuste parole.
- Il tappeto.
Ottimo come esordio.
Ofelia lo fissò con tanto d’occhi.
- Non ti piace questo tappeto. L’hai evitato per tutta la permanenza qui. Devo farlo cambiare?
Il tappeto di Berenilde. Ofelia si mise a ridere alla domanda. Lei e Thorn non erano stati molto più indulgenti con il resto dell’arredamento, quindi con quale coraggio si arrogava il diritto di criticare Berenilde?
Le piaceva, quel tappeto. In fondo, era solo intriso d’amore nella sua forma più pura e insieme parossistica.
- Non serve, mi piace il tappeto. Pensavo solo che non fosse il caso di contaminarlo.
Ulteriormente, aggiunse.
Thorn era sbigottito, ma non lo diede a vedere. Le lasciò il braccio e le permise di andare in bagno, sentendo la sua risata soffocata riecheggiare per il salotto. Aveva pianto pochi minuti prima…
Senza interrogarsi oltre sistemò le ultime cose, chiuse le imposte, l’aspettò.
Quando Ofelia uscì era raggiante.
Ancora, decise di non interrogarsi. Quella faccenda non era matematica; per quanto si fosse spremuto le meningi non sarebbe arrivato a nessuna soluzione accettabile. Non c’erano condizioni di esistenza che tenessero. Con Ofelia era sempre così.
Illogicamente, lei era l’unica condizione di esistenza di cui avesse bisogno.
 
Ofelia stava per salire sulla slitta quando si rese conto di aver dimenticato una cosa. Corse giù, rischiando di inciampare nella neve alta, e bloccò Thorn che stava chiudendo la porta di casa.
- Mi sono scordata… ehm… – balbettò, elusiva.
Lui aggrottò le sopracciglia, ma non replicò. La fece passare, rimanendo però sulla soglia ad osservarla. Ofelia si diresse verso il camino, sulla cui mensola era poggiata la foto di Thorn da piccolo. Estrasse solo la foto, non prese la cornice, che rimase vuota, nuda. Avrebbe portato una foto nuova la prossima volta che fossero tornati. Magari una di loro due insieme, se fosse riuscita a convincerlo a farsene una. Impossibile.
Thorn la seguì con lo sguardo in ogni movimento, senza fiatare, e chiuse la porta quando lei uscì. La vide prendere la sua piccola valigia e infilare la foto tra le pagine di un libro, per non sgualcirla. Si fermò alle sue spalle, intimamente commosso da quel gesto, senza però darlo a vedere. Nessuno aveva mai sentito il bisogno di tenere una foto di lui, di custodirla, di appropriarsene. Quando Ofelia si alzò, sussultò nel rendersi conto che la sua alta figura si stagliava alle sue spalle, vicinissima.
Lo fissò. Thorn era esitante. Sollevò una mano che poi fece ricadere, risollevandola infine per grattarsi la gola. Dopo alcuni secondi si chinò e la baciò, un contatto lieve ma morbido, che la colse di sorpresa. I gesti dolci di Thorn erano rari, vederlo in difficoltà in quel campo la inteneriva sempre. Thorn era un tipo pratico: non era uomo da carezze, abbracci o contatti in pubblico; anche quando erano soli era parco di tocchi, la maggior parte delle volte. Si limitava ai baci, o all’atto pratico vero e proprio, in cui non si risparmiava. Ma un bacio davvero romantico era raro quanto un suo sorriso, e Ofelia si ritrovava sempre con il cuore a mille dopo quegli istanti.
Il tragitto di ritorno fu breve, nemmeno cinque minuti grazie alla slitta. Ofelia non si offrì di guidare e Thorn non glielo propose. Rimasero in silenzio, l’uno perso nei propri pensieri, l’altra impegnata ad imprimersi a fuoco nella mente la vista di quegli alberi giganteschi carichi di neve, in un miscuglio di verde e bianco. I colori erano sempre gli stessi, non come a Città-cielo, Anima o Chiardiluna. Bianco, marrone, verde a profusione. E un cielo carico di nuvole grigie poco rassicuranti.
Anche Jan il guardacaccia e sua moglie non furono di molte parole, per una volta. La padrona di casa salutò Ofelia caldamente, però, e riprese indietro il cesto con gli alimenti che aveva fornito loro, ormai vuoto.
- Era davvero tutto buonissimo, vi ringrazio – le disse Ofelia, timida. Cercò di non pensare all’estratto di mandragore.
- Di nulla, è un piacere poter lavorare per il vostro buon marito.
Ofelia sorrise leggermente e annuì, allontanandosi prima che la donna le chiedesse qualcosa su come avevano trascorso la notte o si sperticasse in spiegazioni sull’utilità delle radici di mandragora.
Si trattennero un paio d’ore, Thorn doveva finire di far compilare alcune carte al guardacaccia. Fortunatamente sua moglie aveva da fare in un’abitazione vicina. Ofelia passò il tempo leggendo e guardando la foto di Thorn da piccolo, pensando che sarebbe stato davvero bello avere un bambino simile a lui. Magari un po’ più paffuto, e con una capacità migliore di esprimere i propri sentimenti, ma un piccolo pargoletto biondo con gli occhi grigi non le sarebbe dispiaciuto. Quando ebbero finito il guardacaccia lo convinse a mangiare qualcosa di veloce e Thorn acconsentì più per assecondare la moglie che per vero appetito.
Questa volta Jan portò le valigie e Thorn guidò la slitta con Ofelia. Lei indossava il suo cappotto enorme come se fosse il suo; aveva rinchiuso il pellicciotto in valigia con sguardo truce, considerandolo un traditore. Lui si era animato, colpevole, ma Ofelia aveva chiuso la sua borsa senza degnarlo di un’occhiata. Era grata a Thorn per non aver fatto commenti in merito. Doveva riconoscergli almeno il fatto che non fosse un uomo che girava il dito nella piaga.
In realtà lo era. Anzi, sembrava che provasse gusto nel rinfacciare gli sbagli altrui, ogni tanto. Ofelia decise di sorvolare e si preparò a sentire lo stomaco finirle in gola quando i cani corsero a tutta velocità per prendere lo slancio e alzarsi in volo.
Le sembrò che andasse meglio, per una volta. Magari era solo questione di abitudine.
Cercò di salutare Jan cordialmente, come al solito, ma la tristezza le mordeva il cuore come se quel sentimento fosse stato un oggetto che lei stessa aveva animato. Si rilassò solo quando salirono in carrozza, uno di fronte all’altra.
Fu Thorn a parlare per primo, stranamente.
- Ci torneremo con i nostri figli.
Era una constatazione più che una domanda, un invito o un’ipotesi. Ofelia tossì, soffocata dalla sua stessa saliva. La sciarpa le diede delle leggere pacche sulla schiena da sotto il cappotto.
Ci torneremo con i nostri figli. Figli! Più di uno. Ofelia non sapeva se lo avesse fatto in un tentativo di tirarle su il morale o se fosse serio, ma sperò di cuore che lo fosse. Era così rassicurante sentirlo parlare in quel modo. Le faceva annodare lo stomaco e bruciare gli occhi; riuscì a non piangere solo perché si impegnò al massimo per trattenere le lacrime. Cos’era tutta quell’emotività di punto in bianco? E cos’era quell’abitudine di Thorn di parlare sempre in modo tanto serio?
Ofelia trovò la forza di annuire e abbozzò anche un piccolo sorriso. Passato lo sbigottimento iniziale, si rese conto che il sorriso era sincero. L’idea di tornare in quella baita era esaltante, ma la prospettiva di tornarci con i loro figli… una chimera.
- Volentieri – aggiunse anche a parole, vedendo che Thorn si era un pochino rabbuiato di fronte al suo scarso entusiasmo. – Sarebbe bellissimo.
Thorn si passò una mano tra i capelli, evitò il suo sguardo. Appoggiò i gomiti alle ginocchia, rigido. – Se dovessero tardare… c’è una clinica, su Babel. Una specie di Osservatorio medico molto all’avanguardia. Potremo farci suggerire lì, eventualmente, che comportamento adottare, o quale…
Ofelia si alzò nello spazio angusto e gli si raggomitolò addosso, zittendolo. Era impossibile spiegare cosa provasse in quel momento. Lo stupore sovrastava tutto, però. Thorn, così restio a vedere dottori e prendere medicine, che le proponeva addirittura di andare su un’altra Arca solo per farsi visitare? Il pensiero la esaltava e terrorizzava insieme. Esaltava, perché prendeva davvero sul serio la questione di avere dei figli. Terrorizzava, perché con lui non c’erano mezze misure. Se cercava strade di quel tipo, così estreme secondo i suoi canoni, voleva dire che era preoccupato per il fatto che lei non era ancora rimasta incinta. La cosa la spaventava, anche se sapeva che era normale.
- Ne riparleremo – gli rispose, laconica come lui. – Intanto vediamo che effetto fanno le mandragore.
Thorn annuì piano. – Lo dicevo solo per farti capire che ci sono delle buone cliniche e…
- Thorn, non c’è nulla che non vada. Non serve che ti prodighi così tanto per cercare qualcosa di cui forse non avremo bisogno.
Il tono le era uscito più tagliente del necessario, ma non sopportava quel pensiero. Che ci fossero problemi. Non voleva essere pessimista.
- Vorrei solo esserti indispensabile – mormorò, così piano che Ofelia dubitò di averlo sentito davvero.
Si immobilizzò contro di lui. Alzò lo sguardo e vide che aveva gli occhi rivolti verso l’esterno, oltre il finestrino della carrozza, ma lei sapeva che in realtà non stava davvero guardando fuori. Aveva i lineamenti contratti, il profilo era affilato. Non era a suo agio.
Ofelia gli posò una mano sulla guancia, quella attraversata dalla cicatrice, per coprirgliela. – Lo sei, Thorn. Come potresti non essermi indispensabile?
Lui assottigliò gli occhi, chiudendo quasi del tutto le palpebre, ma il luccichio metallico era ben presente. Attento. – Sei una donna più forte di quanto avessi creduto all’inizio. Mi sono fatto un’idea del tutto sbagliata di te, al principio. Tu non hai bisogno di nessuno.
- Se non avessi bisogno di nessuno, sarei sola. Non avrei portato Archibald a celebrare il nostro matrimonio in una cella. Me ne sarei tornata su Anima, senza nessun vincolo, senza di te. Non ho potuto farlo. Tu eri, mi sei e mi sarai sempre indispensabile, Thorn.
Gli baciò le cicatrici a una a una, prima quella sulla guancia, poi sul sopracciglio e infine sulla tempia. Lo strinse a sé, per non dover più guardare la voragine nei suoi occhi.
- Nessuno ha mai avuto bisogno di me. Vorrei ottemperare ai miei doveri. Il fatto che tu non sia… non abbia ancora…
Ofelia sentì dal suono smorzato della sua voce quanto fosse in difficoltà. – Non è un dovere, Thorn. Devi calmarti, smetterla di fasciarti la testa. Rilassati. Arriverà, per alcuni passano anni prima di riuscire ad avere un figlio. Io non ho bisogno di te per questo, Thorn. Cioè, sì, ovviamente ho bisogno di te per questo, perché da sola… insomma…
Si era incartata nelle sue stesse parole, la valanga di emozioni che era rovinata dentro di lei la faceva straparlare.
- Non ho bisogno di te solo per questo. Sono forte solo perché ho te accanto. Prima di conoscerti non ero così. Sei molto più che indispensabile per me.
Lui non rispose, ma almeno non allontanò lo sguardo dal suo. Annuì gravemente, come se Ofelia avesse appena annunciato un decesso, invece di parole che lo avevano fatto vibrare nel profondo.
- Sei mesi. Se entro sei mesi non ci riusciamo, allora…
- Allora vedremo fra sei mesi. Discorso chiuso.
Ofelia ripensò alla foto tra le pagine del suo libro, al piccolo Thorn spensierato che era stato massacrato crescendo. Che contro di lei, però, insieme a lei, rimaneva il bambino bisognoso di affetto che era stato tanto tempo prima. Si accoccolò ancora meglio tra le sue braccia, lasciandosi cullare dal suo respiro e dall’incedere della carrozza.
Gli strinse una mano. Lo sentì rilassarsi poco dopo, per quanto Thorn potesse essere rilassato. Le posò le labbra sulla testa. Aveva ancora il pizzetto, che Ofelia aveva scoperto di adorare. Le piaceva la sensazione di sfregamento contro la pelle del viso. Alla fine cedette del tutto e la circondò con le lunghe braccia, ingabbiandola.
- Concesso – mormorò piano, un sussurro che la strada dissestata si portò via.
Ma Ofelia aveva sentito. Sorrise.
Finché avesse avuto Thorn al fianco, non c’era impresa che non potesse compiere.
Erano insieme, e lo sarebbero stati per sempre, attraverso cicatrici, dolore, delusioni, scherni e tutto quello che di malevolo la vita poteva riservare loro.
Non le importava. Avrebbe affrontato decine di Faruk pur di averlo al fianco.
Chiuse gli occhi e si abbandonò ai movimenti della carrozza, immaginandosi di essere ancora sulla slitta. Quella slitta che scorreva nelle vene di Thorn, e che lei voleva guidare ogni giorno della loro vita.

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Capitolo 12
*** Coraggioso ***


Ok ok ok, inutile dire che mi scuso per il megaritardo, ma il capitolo è lungo e quindi conta come due? No, vero? Dai, scusate davvero, ma ho ricominciato a lavorare il primo giugno e non avevo capitoli di riserva :( Non vogliatemene.
Sappiate che gli aggiornamenti da ora in poi saranno irregolari, purtroppo, ma ci saranno, questo è sicuro. Anche perché non vedo l'ora di approfondire i capitoli dell'ultimo libro ç.ç Muoio. -14 signori, -14!!! Se fossi Thorn saprei anche le ore.
Detto, ciò, buona lettura♥

L’Attraversaspecchi II, Gli Scomparsi di Chiardiluna, La Marmocchia-I Contratti, pagine 27-54

12. Courageux


Erano in ritardo di due minuti e trentasette secondi… trentotto… trentanove… quaranta, quando le vide.
Sua zia Berenilde, la signora Roseline e la fidanzata, una di fianco all’altra. Thorn chiuse di scatto l’orologio da taschino, celando il fastidio provocato dal loro ritardo dietro ad un’espressione neutra e compassata. Sentiva su di sé gli sguardi insistenti di alcuni funzionari, probabilmente quelli che lo odiavano di più. Il resto del pubblico era impegnato ad acclamare o esprimere il proprio disappunto per la noiosa e scontata partita che si svolgeva sotto i loro occhi. Faceva un caldo infernale, sentiva le gocce di sudore scendergli giù per la curva della schiena e venire poi assorbite dal tessuto della camicia. Indossava una giacca sopra ad essa, e come ultimo capo portava la giacca nera da intendente, con le spalline dorate e il colletto stretto. Non era solito prestare molta attenzione all’abbigliamento, ma i panni da intendente li odiava proprio. Non il ruolo che ricopriva, tantomeno il lavoro in sé, quanto l’abito. Quello lo avrebbe cambiato radicalmente, se avesse potuto.
Distolse l’attenzione da quei pensieri futili quando lanciò un’occhiata veloce ad Ofelia. Aveva il viso ferito coperto da una veletta nera. Non doveva essere molto comoda, e tenendo conto della sua goffaggine patologica, non era nemmeno indicata per aiutarla a camminare correttamente. Quando lei lo vide, gli sembrò che fosse arrossita, ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Soprattutto, non si sarebbe illuso.
Quando invece annunciarono la loro presenza, fu certo, ci avrebbe giurato, che avesse sospirato. Nemmeno lei, come lui, amava le attenzioni; lo aveva notato svariate volte nelle settimane precedenti. Si agitava, quando era osservata, mettendo ancora più in pericolo la sua incolumità. Nonostante tutto, le sembrò anche più fiera, come se si fosse raddrizzata, pronta ad affrontare la situazione di petto.
Thorn non ne dubitava, vista la sua tendenza a volersi emancipare, i suoi tentativi di prendersi sempre più libertà e la spiccata intelligenza che nascondeva sotto la timidezza e la voce sommessa. Nonostante quei tratti del suo carattere lo intrigassero, dovette ammettere suo malgrado, in quel momento aveva bisogno di una fidanzata sottomessa e soprattutto silenziosa. Sperò ardentemente che non gli giocasse qualche brutto scherzo.
Thorn aggrottò le sopracciglia ancora di più quando vide Archibald fare l’occhiolino ad Ofelia, in lontananza, per poi posare il suo sguardo immotivatamente divertito su di lui, come a sfidarlo. Con sua somma soddisfazione, Ofelia vide l’ammiccamento, ma non vi badò minimamente.
La sciarpa, tuttavia, costituiva un’altra fonte di preoccupazione. Le si era attorcigliata al piede, dove una sciarpa non dovrebbe decisamente stazionare. Quell’indumento dotato di vita propria lo aveva più volte innervosito, ma anche incuriosito. In alcune occasioni gli era stata incredibilmente utile per discernere lo stato d’animo di Ofelia: quando era abbastanza brava da nascondere i sentimenti che le passavano sul volto, ci pensava la sciarpa a palesarglieli. Eppure, in quel caso, non era di alcun aiuto. Anche qualcosa di più.
La folla che la fissava con insistenza, quelle attenzioni non gradite, la veletta che le oscurava la vista, la sciarpa che le complicava l’avanzata, forse persino la sua stessa presenza… Thorn diede per scontato che sarebbe caduta.
E così accadde. Sull’ultimo gradino, quando le mancava un nonnulla per arrivare sana e salva al suo fianco, Ofelia inciampò. Lui era lì, pronto. Si poteva quasi dire che non aspettasse altro.
Thorn allungò senza esitazione una mano per afferrarle il braccio. Dosò la propria forza, prestò un’enorme attenzione ai suoi modi per cercare di essere il meno brusco possibile e al tempo stesso rimetterla stabilmente in piedi. Sapeva bene che, oltre al viso, Ofelia era stata colpita anche nel resto del corpo. In particolare sul costato, dove le costole incrinate le facevano talvolta sfuggire delle mute smorfie di dolore. Ammirava il suo stoicismo, il fatto che non si lamentasse mai. In quello erano più simili di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
Notò l’occhiata gelida di sua zia Berenilde e l’esasperazione della zia Roseline, ma lui non era affatto turbato da quell’incidente. Aveva ormai accettato quella parte di Ofelia come una peculiarità impossibile da modificare, non come un difetto da correggere. In qualche modo, faceva parte di lei quanto la sciarpa che non si toglieva mai e gli occhiali le cui lenti cambiavano colore in base al suo umore.
La mano era ancora sul braccio di Ofelia nonostante lei non rischiasse più di cadere, quando le risate attraversarono il giardino dell’oca. Thorn sentì un calore di tipo diverso nel corpo, che quasi fece sembrare fresca la temperatura dell’ambiente. Odiava i contatti, toccare gli altri lo ripugnava, però… con Ofelia provava l’opposto. Si sentiva spinto verso di lei da qualcosa di indecifrabile, invece che respinto. Doveva stare attento per quello: se non fosse stato padrone di sé avrebbe cercato il suo contatto più di quanto fosse lecito. In ogni caso, non spostò la mano.
Era convinto, anzi, sicuro quanto un risultato algebrico, che quelle sensazioni non fossero ambivalenti. Non era certo cosa Ofelia pensasse di quei momenti di vicinanza che lui non aveva mai sperimentato prima, ma di sicuro non era impaziente di approfondirli. Non suscitavano in lei le stesse reazioni. Ne aveva avuto la conferma dopo il discorso spiacevole intrattenuto all’intendenza: Ofelia non voleva nessun tipo di contatto con lui.
Arginò quella marea di pensieri disordinati e intollerabili per concentrarsi sul motivo della loro presenza lì.
Faruk era assente e smemorato come sempre, cosa che fece crescere in Thorn un’ondata di intolleranza e insofferenza. Era uno spirito di famiglia, era il detentore del potere assoluto al Polo, la sua parola era legge, ogni suo desiderio un ordine, e se ne andava in giro tutto il giorno a bighellonare, senza nemmeno essere conscio di chi avesse attorno o di chi condividesse con lui le notti. La cosa lo disgustava, era un modo di vivere che aborriva e non capiva.
A dimostrazione di ciò, Faruk domandò con sguardo vitreo: - Chi è?
Thorn non si fidava di lui, non più di quanto si fidasse di Archibald. Era talmente volubile… Il fatto che fossero lì per trattare della lettura del libro e ottenere addirittura protezione per sua zia e Ofelia era un controsenso. Che non si ricordasse chi era lui era un conto, ma scordare persino chi era Berenilde? Inconcepibile, lui e quello spirito di famiglia erano del tutto incompatibili. Era appena arrivato e già non vedeva l’ora di andarsene.
A proposito di ora, sentì l’impulso meccanico di prendere l’orologio da taschino per quantificare quanto tempo avesse perso inutilmente fino a quel momento, ma si trattenne. A stento.
Cercò di non stringere le dita nervose a pugno mentre assisteva alla scenetta lenta e priva di senso che si svolgeva di fronte a lui in quel momento: Faruk che non capiva nemmeno dove fosse e cosa stesse facendo, mentre l’aiuta-memoria, un cugino dell’ambasciatore, gli spiegava pazientemente cosa fosse in procinto di accadere. La testa gli pulsava. La forza psichica di Faruk non lo disturbava più di tanto, la tediosità della situazione era causata da altri fattori: la presenza di Archibald, irriverente e fuori luogo come sempre, l’incompetenza stessa di Faruk, l’eccessiva pazienza tutti, la lascività delle favorite coperte di diamanti. Era tutto… disorganizzato. Impreciso.
Intollerabile.
Quando nessuno gli rispose, quantomeno a Faruk sovvenne qualcosa. – Dov’è l’aiuta-memoria?
Il suo tono di voce era indolente e svogliato quanto la sua flemma.
- Sono qui, mio signore!
Quanto meno l’aiuta-memoria, sebbene fosse imparentato con quell’anticonformista pigro e negligente di Archibald, sapeva qual era il suo posto e sapeva svolgere il suo lavoro. Aggiornò impeccabilmente il sire Faruk sul motivo di quell’udienza e su chi fossero i presenti. Archibald come sempre fece il suo teatrino, cosa che avrebbe fatto sfuggire a Thorn una smorfia se il disagio dell’essere lì, in quel momento, quando aveva una miriade di altre cose da fare, non avesse prevalso. Il tono annoiato di Faruk, che poneva le domande come se gli costasse un sforzo, lo fecero imbestialire interiormente. Lo spirito di famiglia non era l’unico a desiderare di non essere lì.
Thorn trattenne a stento l’impazienza quando, con estrema calma, come chi ha tutto il tempo del mondo a disposizione, Faruk prese il taccuino che l’aiuta-memoria gli porgeva e si mise a leggere quelle informazioni che aveva scritto lui stesso. Archibald, come aveva fatto notare l’assistente di Faruk, gli aveva ripetuto la questione solo quella mattina. Quella mattina! Per Thorn era inconcepibile il concetto di “dimenticanza”. Ricordava interi discorsi risalenti alla sua infanzia, figuriamoci se avrebbe mai potuto scordare ciò che quella mattina aveva detto e udito.
Per ingannare i suoi nervi, il tempo, l’attesa, per costringersi a non fare una strage lì e in quel momento, nonostante odiasse la violenza, Thorn si concentrò sulle parole fastidiose dello spirito di famiglia.
- I Draghi sono morti – disse, leggendo le parole scritte dalla sua stessa mano.
- Berenilde appartiene al clan dei Draghi.
- Dov’è Berenilde?
Un sillogismo. Sembrava un ragionamento infantile, come quando si cerca di insegnare ad un bambino un calcolo elementare. Non che Thorn avesse mai provato l’esperienza, ma si ricordava che era così che all’inizio gli era stata insegnata la prima nozione matematica. Era una specie di deduzione logica, troppo fallace e imprecisa per portare ad un assioma, ad una teoria certa e verificabile o ad una condizione assoluta.
Se i Draghi erano morti, e Berenilde faceva parte dei Draghi, allora anche Berenilde era morta.
Ovviamente il sillogismo faceva acqua da tutte le parti, ma era un primo tentativo razionale di intendere un concetto. Ergo, Faruk era molto, molto più indietro di quanto desse addirittura a vedere. Il che era tutto dire.
Quando però la zia Berenilde avanzò per posare una mano sul viso di Faruk, la pazienza di Thorn si esaurì. La presenza psichica dello spirito, che si era allargata quando si era reso conto di chi fosse Berenilde e del fatto che forse era morta, defluì come un’onda. La cosa fu inversamente proporzionale per Thorn.
Non erano lì per guardarsi negli occhi o giocare agli innamorati. Soppresse la minuscola radice di pensiero che si insinuò nella sua mente, spingendolo a chiedersi se Ofelia lo avrebbe mai accarezzato, guardato, considerato allo stesso modo. Non era il luogo, né il momento. E non era nemmeno una domanda a cui volesse dare una risposta.
Thron prese e consultò l’orologio da taschino, disapprovando la quantità di tempo sprecato per nulla. Quando il coperchio scattò, fu come se i presenti si fossero svegliati da un incantesimo.
Era ora. Anche qualcosa di più.
Faruk fu lento come al solito mentre aggiungeva qualche scarabocchio inarticolato sul suo taccuino. Eppure trovò comunque la presenza mentale necessaria per porgere a Berenilde le condoglianze. Ogni tanto il sire aveva qualche sprazzo di lucidità e consapevolezza, ma troppo poco spesso per destare la comprensione e l’indulgenza di Thorn.
Quest’ultimo fu sollevato quando Berenilde prese in mano la situazione, conducendo il discorso. La zia era frivola talvolta, troppo interessata alla vita di corte per i suoi gusti, ma Thorn si fidava di lei. Era l’unica in cui riponeva fiducia. Non lo aveva mai deluso, nemmeno una volta, sebbene avesse dovuto farle cambiare opinione in più di un’occasione. Non era facile tenerla sotto controllo, in fondo era una donna determinata che faceva valere la propria indipendenza, ma non avrebbe mai tradito Thorn. Lui avrebbe potuto giurarci. Ed era un’alleata molto, molto potente.
Le doveva tutto. Persino il fidanzamento con Ofelia era opera sua. Merito suo.
Quando Berenilde disse che lui stava per prendere moglie e che dunque la prosecuzione della stirpe dei Draghi era assicurata, Thorn fece saettare lo sguardo in basso, di lato, per cogliere l’espressione di Ofelia. La veletta nera le celava il volto, ma non gli sfuggì l’irrigidimento che l’attanagliò. Non aveva lasciato spazio ai dubbi quando gli aveva detto che non aveva intenzione nemmeno di consumare il matrimonio, figuriamoci avere figli. Tanto meglio, lui non aveva alcun interesse per i marmocchi, anzi.
Eppure, una minuscola parte di sé, calcolabile in un quindicesimo, parlando per frazioni, si chiedeva come sarebbe stato essere padre. Padre dei figli di Ofelia. Forse era un ventesimo, quella porzione cerebrale che si interrogava al riguardo, perché riuscì a seppellirla facilmente. Bastava pensare alle grida di un neonato per rinsavire.
Lui ed Ofelia non avrebbero avuto figli. A giudicare da tutte le sue reazioni, sarebbe stato già tanto se fossero riusciti a conversare, qualche volta; e solo grazie alla spiccata curiosità di Ofelia, così nuova per lui. Nessuno si azzardava mai ad incalzarlo con le domande.
Thorn continuò a fissare l’orologio, contando secondo per secondo, sperando che il supplizio finisse presto. La folla mormorava “bastardo” in tono sorpreso, persino sbalordito, sicuramente disgustato e oltraggiato. Ci era talmente abituato che quasi non se ne accorse. Faceva dannatamente caldo intorno al palco, sentiva rivoli di sudore colargli giù per la schiena, la fronte imperlata d’acqua, i capelli appiccicosi. Voleva una doccia, urgentemente, e voleva che tutti si dessero una mossa. Fosse stato per lui, avrebbero finito tredici minuti prima, ben due minuti dopo l’arrivo delle signore. Due minuti, ecco il tempo che ci voleva.
Non quindici minuti e quarantadue secondi. E non erano nemmeno arrivati a scalfire il vero problema. Intollerabile.
Thorn non avrebbe mai creduto di dirlo, ma finalmente Archibald prese la parola, in maniera inaspettatamente capace e sensata, portando la conversazione sui giusti binari: l’amicizia che aveva offerto a Berenilde e Ofelia. Alleanza diplomatica, a voler essere precisi. L’amicizia non si accostava alla burocrazia, tantomeno agli intrallazzi di corte e agli inciuci politici. Archibald trattò anche la questione principale, quella che dava a Thorn ancora più fastidio dell’accordo con l’ambasciatore: la richiesta di protezione da parte di Faruk, a corte.
Il suo corpo si tese allo spasimo. Senza quasi rendersene conto, strinse ancora di più il braccio di Ofelia. Invece che darle appoggio e sostegno, con quel contatto sembrava quasi che fosse lui ad aver bisogno di stabilità. La posa di Faruk, la sua noia, il suo disinteresse… tutto lo infastidiva. E lo preoccupava. Se c’era qualcuno di imprevedibile, era proprio lo spirito di famiglia, malleabile in base alla giornata e dalla mentalità duttile e limitata.
Thorn ebbe un cattivo presentimento; non si accorse nemmeno dell’occhiata che Ofelia lanciò al suo braccio, lì dove lui la stava afferrando.
- La lettrice. Ho scritto qui che Berenilde mi avrebbe portato una lettrice. Dov’è?
Purtroppo, quel sovrano svogliato ed eccepibile si concentrava sempre sui dettagli sbagliati. Incompetente.
Come guardando la scena al rallentatore, Thorn impresse involontariamente nella sua mente ogni dettaglio di ciò che accadde. L’aiuta-memoria indicò Ofelia, lei intrecciò le dita in un gesto che Thorn non seppe interpretare, e Faruk richiuse il taccuino. Si chinò, si avvicinò ad Ofelia, talmente alto che sembrava quasi dovesse inginocchiarsi per riuscire a guardarla negli occhi. Thorn dovette farsi violenza per non mettersi a fare da scudo tra lei e lo spirito di famiglia. Non gli piaceva affatto quella prossimità. Come se non bastasse, Faruk si arrogò di diritto di interagire con lei. Le sollevò la veletta che la copriva il volto, la scrutò, se con interesse o noia non era dato saperlo.
Thorn si chiese se in realtà Faruk non avesse perso di nuovo la memoria, e si stesse interrogando su chi fosse la donna di fronte a sé. Forse si chiedeva come mai avesse il volto scarno e un po’ malridotto. I pensieri di Faruk erano insondabili quanto i suoi. Thorn sperò solo che non la considerasse abbastanza interessante da volerla come una delle sue favorite. Se avesse potuto, l’avrebbe rapita e nascosta da qualche parte purché nessuno, tantomeno quel… quell’essere inaffidabile la sfiorasse.
L’unica cosa chiara era che la pressione psichica di Faruk la destabilizzava. La sentì quasi trasecolare di fianco a sé, attraverso il braccio che ancora stringeva. Le stava nuocendo con la sola forza della sua mente. Doveva allontanarla da lì.
- È sciupata.
Il tono deluso e stupito di Faruk fece provare a Thorn una rabbia così violenta che si sorprese di se stesso. Era come ricevere un pugno nello stomaco. O un’artigliata. Lui sapeva bene cosa si provasse, ma si stupì scoprendo come un sentimento, una cosa talmente impalpabile e irrazionale, potesse essere più brutale del dolore fisico. Ofelia non era sciupata. E se lo era, allora lui era direttamente un rottame, con le sue cinquantasei cicatrici. Si offese lui per lei, sebbene intuisse che Ofelia non aveva bisogno di difensori.
Aveva imparato a sue spese che la fidanzata diceva ciò che pensava direttamente, senza filtri, con grande convinzione e… sincerità. Non stava zitta di fronte a nulla e nessuno.
- E poi non mi piacciono i marmocchi.
Senza sorprendersi, Thorn la sentì prendere un profondo respiro, come a volersi calmare o allontanare la potenza mentale di Faruk. O forse per prendere coraggio. Thorn non era in grado di interpretare i suoi stati d’animo alla perfezione, e a giudicare dal fatto Ofelia non faceva mai ciò che ci si aspettava facesse, non sarebbe mai stato in grado di decodificarli. Eppure sapeva con certezza che non sarebbe stata zitta. Non era una marmocchia, e soprattutto, sapeva benissimo difendersi da sola. Lottare da sola. Imporsi. E lo faceva bene. Anche qualcosa di più.
Quando espirò, Ofelia lanciò un’occhiata alla zia Roseline, che le stava facendo dei gesti, quasi si aspettasse la sua approvazione. La trattazione non si stava svolgendo come previsto, era assolutamente necessario riportarla nella giusta ottica, considerarla correttamente.
- Forse non sarò grande, ma non sono più una marmocchia.
Ofelia non era grande fisicamente, ed era giovane, molto giovane. Lui e lei avevano per la precisione sei anni, quattro mesi e due giorni di differenza. Era giovane. Ma non così giovane. Comunque, nonostante le avesse pronunciate con un tono così basso da essere udito a stento, come la maggior parte delle volte, Thorn fu colpito da quelle parole. Sottintendevano molto più di quanto fosse percepibile, bastava leggere tra le righe. Quello era un monito, non per Faruk, non solo per lui, almeno, ma per tutti loro.
Lui compreso.
Nessuno doveva azzardarsi a chiamarla marmocchia, o a non tenerla in considerazione.
Purtroppo, quella dichiarazione di indipendenza si perse nel nulla. Faruk, infatti, ricominciò a parlare di tutt’altro, tirando fuori dal taccuino disordinato e spiegazzato, dai bordi asimmetrici che turbavano Thorn, un disegnino del tutto insignificante che sembrava fatto da un bambinetto incapace. Lo spirito di famiglia asserì che fosse Artemide. Thorn si sforzò di non aggrottare ancora di più le sopracciglia. Aveva visto Artemide di persona, le aveva parlato giusto il tempo di apprezzare il suo pragmatismo e la sua dedizione al lavoro, senza distrazioni. Artemide sì che era uno spirito di famiglia. E non assomigliava per nulla a quello scarabocchio. Lanciando un’occhiata ad Ofelia, capì che doveva pensarla allo stesso modo.
Faruk però continuò imperterrito. – E così, fanciulla di Artemide, pare che sappiate leggere il passato degli oggetti.
Ofelia sospirò malinconicamente, stupendo Thorn. – Ahimè, è l’unica cosa che so fare decentemente con le mie dieci dita.
Era sincera, si evinceva dal suo tono di voce che Ofelia era pienamente convinta di quell’asserzione. Thorn, in un certo senso, non poteva darle torto. Era goffa e distratta, maldestra, le sue dita non sarebbero servite a molto come artigiana, scribacchina, cuoca o qualsiasi altro mestiere. Eppure… Thorn immaginò di essere accarezzato da quelle dita, vide quei polpastrelli sempre coperti dai guanti accarezzargli il volto, le cicatrici, in un gesto tenero. Avrebbe voluto che le sue dita venissero adoperate anche per quello, non solo per leggere, ma non sarebbe stato possibile. Mai.
In ogni caso, c’era una questione molto più urgente da trattare: la conversazione stava finalmente convergendo verso il punto giusto, e allo stesso tempo sbagliato. La lettura del Libro non c’entrava con Ofelia; non direttamente, almeno.
- Non dovete dispiacervi – disse Faruk, per una volta troppo presente a se stesso. Non era un caso se si ricordava di quella questione. Il Libro era l’unica cosa che gli interessasse davvero, l’unica a cui fosse ancorato. L’unica che ricordasse. Lo prese dal mantello, quasi porgendolo ad Ofelia. – Potreste, per esempio, leggere il mio Libro.
Non lei.
In qualche modo Thorn la vide protendersi verso quel Libro, quel gigantesco volume da cui lui aveva cercato così ardentemente di tenerla lontano. Per quanto si volesse servire delle sue mani, o meglio, del suo dono per riuscire nell’impresa e affrancarsi dalla nomea di bastardo, non avrebbe mai lasciato che lei lo leggesse, accollandosi il rischio del fallimento. E tutte le relative conseguenze. Strinse l’orologio da taschino come se fosse il suo baricentro, il suo punto di equilibrio, e lui fosse su un baratro.
Non lei.
Poteva anche essere ambizioso e non tenere in conto il parere o le emozioni altrui, ma non era un egoista. Quello mai. E non sacrificava nessuno, se non se stesso. Ofelia non doveva in alcun modo leggere quel Libro, per quanto lei stesso forse lo desiderasse. Se per curiosità morbosa, deformazione professionale o semplice atto di ribellione verso di lui, non lo avrebbe mai capito.
- Non lei – disse infine, con voce atona, inflessibile, così priva delle emozioni che lo laceravano dentro lasciandogli ulteriori cicatrici, di un tipo del tutto diverso.
Thorn tirò il braccio di Ofelia forse troppo bruscamente, animato dal bisogno di metterla in salvo. Le fece scudo con il proprio corpo, come se questo potesse in qualche modo farla scomparire, o proteggerla dalle pretese di Faruk. Non avrebbe permesso che si immolasse al posto suo, senza nemmeno sapere la posta in gioco. L’avrebbe difesa come aveva fatto per tutto quel tempo, nonostante i metodi fossero stati dubbi e contestabili.
- Io – aggiunse poi, come per spingere definitivamente Faruk a concentrarsi su di lui.
Finalmente Faruk alzò gli occhi incontrando i suoi, apparendo confuso e un po’ inebetito. Quello spirito era tutto tranne che sveglio e presente, era ridicolo che un tale individuo governasse. Era un miracolo se l’arca non era stata travolta dall’anarchia.
- Sarò io a leggere il Libro – ripeté, per togliere a Faruk ogni dubbio e fargli dimenticare la presenza di Ofelia. Attirare su di sé tutta l’attenzione, buona o cattiva che fosse. – Quando avrò ereditato il potere di mia moglie, fra quattro mesi e nove giorni, e avrò imparato a servirmene. È nel contratto.
Cacciò il formicolio che sentì da qualche parte al pronunciare le parole “mia moglie” associate ad Ofelia, e mise via l’orologio da taschino. Non era un tipo romantico, il romanticismo era una perdita di tempo futile e incomprensibile, ma credeva nel matrimonio come istituzione che riconosceva un legame assoluto tra due individui. Un legame indissolubile tra lui e Ofelia, che lei lo volesse o no…
Tirò fuori dalla stessa tasca in cui aveva messo via l’orologio il contratto appena menzionato, estraendolo con un colpo secco e stizzito. La sua mente operava su più fronti, ma il fatto che una piccola parte della sua attenzione fosse impegnata a pensare costantemente ad Ofelia lo infastidiva. E spaventava. La stava ancora tenendo ferma dietro di sé, ma non era chiaro se lo facesse perché temeva che lei si spostasse di sua spontanea volontà o perché voleva solamente prolungare il contatto. Le implicazioni della seconda opzione erano destabilizzanti, per uno come lui, che odiava toccare qualsiasi cosa o persona. Poteva passare per un gesto possessivo, ma non era che un tentativo di protezione dalle conseguenze che nessuno, lì, avrebbe potuto immaginare, in caso di fallimento nella lettura. Tantomeno la fidanzata.
Infatti, sentì Ofelia irrigidirsi, così vicino a lui, sicuramente mentre traeva la conclusione sbagliata. Lo avrebbe odiato ancora di più, però l’importante era che non avesse colpi di testa e restasse al suo posto, al sicuro.
Facendosi violenza, Thorn finalmente arrivò dritto al punto. Per quanto la cosa gli facesse ribrezzo, si abbassò a chiedere a Faruk un favore di cui lui non era nemmeno convinto. – Siete disposto a prendere la mia fidanzata e mia zia sotto la vostra protezione fino al giorno delle nozze? Nonché tutti gli Animisti che verranno al Polo, in modo da intrattenere con loro i migliori rapporti diplomatici?
In attesa della risposta, Thorn percepì Ofelia agitarsi leggermente dietro di lui, e la zia inquietarsi, nonostante il sorriso di facciata. Sperò solo che la sua stretta non facesse in qualche modo male ad Ofelia e alle sue ferite. La più minuscola parte irrazionale e insensata di sé sperò che Faruk respingesse la richiesta. Sapeva, però, che in quel caso le cose sarebbero state più difficili del previsto.
Thorn desiderò ardentemente prendere il suo orologio da taschino mentre Faruk leggeva il contratto, con molta calma. Invece rimase fermo immobile, sentendo le articolazioni contrarsi per via della rigidità della postura. Quando alla fine il sire si alzò, superandolo in altezza di una testa, Thorn si sentì… piccolo. Una cosa che non gli capitava mai, se non in presenza di quello spirito di famiglia gigantesco. Non gli piacque essere dalla parte dei più bassi. Cercò di non pensare al fatto che Ofelia doveva sentirsi sempre in quel modo.
Alla fine sentenziò: - Se sa solo leggere, e io non posso chiederle di leggere, che le farò fare? Accetto nella mia cerchia solo persone capaci di distrarmi.
Per una frazione di secondo Thorn quasi impallidì. Adocchiò le favorite alle sue spalle, sapendo che Faruk accettava di buon grado quel tipo di distrazioni. Gli parve, all’improvviso, tutto un enorme errore. Stava gettando Ofelia nella tana del lupo. Faruk era imprevedibile. L’imprevedibilità era pericolosa.
Nell’attimo in cui quei pensieri lo spiazzarono, Ofelia si mosse, rimettendosi di forza al suo fianco, costringendolo a lasciarle il braccio. Stupefatto, la guardò con insistenza, ma l’attenzione della fidanzata era completamente rivolta a Faruk.
Stava per sferrare, Thorn lo sapeva, un altro dei suoi madornali colpi di testa.
- Non sono molto brava a distrarre, ma posso rendermi utile. Su Anima gestivo un museo, potrei aprirne uno qui. Un museo è come una memoria. È come il vostro taccuino.
Thorn era impallidito.
Ofelia, la sua futura moglie, quello scricciolo di donna che era più bassa di lui di due teste e aveva una voce così labile da essere a stento udibile, aveva davvero proposto con tono fermo e una determinazione ferrea allo spirito di famiglia del Polo, in grado di polverizzarti il cervello con la sola presenza, di gestire un museo?!
Thorn non seppe se essere ammirato o infuriato, ma una cosa era certa: era attonito. Nessuno, mai, era stato in grado di sbalordirlo in quella maniera. E nessuno, mai, si era azzardato a prendere la parola in quel modo di fronte a Faruk. Quest’ultimo non era molto indulgente nei confronti di chi non lo assecondava.
Gettò lo sguardo verso sua zia Berenilde, che aveva completamente perso il sorriso. Se la situazione non fosse stata tanto drammatica, e se lui non fosse stato così poco propenso all’umorismo, l’avrebbe fatto ridere la sua espressione di orrore, con la maschera caduta.
Il pubblico rumoreggiava sommessamente, pensandola come lui: nessuno si prendeva certe confidenze con Faruk, sapeva bene cosa accadeva a chi lo contrariava.
Contrariamente alle sue abitudini, Faruk sembrò quasi interessato. Di sicuro non infastidito, nonostante Thorn non ne fosse affatto rasserenato. Avrebbe voluto riprendere Ofelia per il braccio, principalmente per spostarla se fosse stato necessario, e secondariamente per poterla toccare ancora.
- Che tipo di museo gestivate? – chiese infatti lo spirito di famiglia, non proprio interessato ma di sicuro non annoiato come poco prima.
- Di storia primitiva – si affrettò a rispondere Ofelia, illuminandosi d’un tratto. Thorn la osservò dall’alto, incuriosito di fronte a quello slancio di entusiasmo. Non l’aveva mai vista così, e il fatto che la sua gioia fosse causata dal poter parlare del museo che gestiva in precedenza gli diede molto su cui riflettere. – Tutto ciò che ha a che fare con il vecchio mondo. Naturalmente posso adattarmi alle vostre risorse storiche.
Se lui era la matematica e la burocrazia, Ofelia era la storia e la letteratura. Non proprio materie accostabili.
Faruk sembrò davvero interessato, cosa che la fece quasi sorridere, facendo sorgere in Thorn un certo tormento. Con lui non aveva mai quell’espressione, tutt’altro. Possibile che fosse la sua stessa presenza a renderla arcigna? Nemmeno con Archibald era tanto fredda e scostante. Avrebbe dovuto darsi da fare sul serio per farle cambiare idea su di lui, una cosa che non aveva mai fatto e mai gli era sembrata necessaria. Farsi accettare e conoscere per essere approvato da lei, per renderla felice… da dove derivavano quei desideri?
- Storia, quindi – sentenziò Faruk, riportandolo al presente. – Perfetto, piccola di Artemide, mi racconterete storie. Sarà il prezzo della protezione che accordo a voi e alla vostra famiglia. Vi nomino vicenarratrice.
La gaiezza di Ofelia si spense come se le avesse proposto di sposarlo lì, seduta stante. O di bruciare tutti i libri che conosceva. Di sicuro quella nomina non era ciò che Ofelia si aspettava, e Thorn si rese conto che forse avrebbe dovuto metterla in guardia. Quasi mai lo spirito di famiglia capriccioso concedeva precisamente quello che gli veniva richiesto, se non in momenti di eclatante distrazione e sbadataggine.
Ofelia non avrebbe gestito nessun museo. Eppure, Thorn non poté fare a meno di essere ammirato dal suo tentativo coraggioso. Anche qualcosa di più.
Tendeva a dimenticarlo, ma quella fidanzata che la zia gli aveva trovato era tutt’altro che ordinaria; nonostante fosse timida e silenziosa, non era anodina. Era sopravvissuta ben più di qualche giorno alla vita al Polo, era stata addirittura picchiata, accusata di tentato omicidio, costretta sotto mentite spoglie… e si era lamentata molto meno di quanto sarebbe stato sopportabile.
Ofelia era forte, questo lo sapeva già. Tenace, decisa.
Era anche coraggiosa. Non lo avrebbe mai dimenticato. Non aveva mai conosciuto qualcuno come lei.
 
Il palco si riempì ben presto di nobili, a seguito dell’incoronazione di sua zia. Una cosa talmente ridicola da rasentare l’assurdo. Che senso aveva incoronarla? Non era una regina, e non era nemmeno l’unica donna con cui Faruk si intrattenesse. Thorn tentò di tenere a bada i pensieri, che tendevano a correre a briglia sciolta quando era nervoso. Ofelia era come sparita, e ce ne voleva per perderla d’occhio, visti i guai che combinava. I cortigiani lo pressavano da tutte le parti, senza un minimo di rispetto per ciò che la buona etichetta chiamava “spazio personale”. Si concentrò sulla lettura del contratto che il cancelliere gli porse, per distrarsi. E anche perché doveva assolutamente assicurarsi che le parole riportate sul foglio di carta fossero accurate e precise, ne andava della sicurezza di Ofelia. Lo lesse in circa quattro secondi, rivolgendo al mittente un cenno affermativo del capo. Lui aveva già memorizzato ogni singola parola, ma ordinò lo stesso al dattilografo lì a fianco di inviargliene una copia all’intendenza, per metterla agli atti. Il foglio che aveva in mano, invece, lo tenne. Lo avrebbe dato ad Ofelia, sperando di farle cosa gradita.
Fece vagare di nuovo lo sguardo sull’ampio spazio, cercando Ofelia. Seguì il percorso che doveva aver seguito, giù per le scale e poi… in un luogo un po’ più appartato? Guidato dall’istinto, la trovò subito, accanto alla zia Roseline, senza più la veletta sul cappello, visibilmente contrariata. Lei lo stava guardando a sua volta, cosa che fece provare a Thorn una strana sensazione allo stomaco; ma appena notò che lui aveva il viso rivolto verso di lei, Ofelia si girò, con il chiaro intento di ignorarlo.
Thorn aggrottò le sopracciglia.
Come se non bastasse, vide un’altra figura incedere verso la fidanzata, rotonda e decisamente pericolosa. Cunegonda, la Miraggio che ormai era caduta in disgrazia. All’intendenza aveva diverse pratiche aperte a suo nome, e doveva porle alcune domande circa la sua attività. Insomma, non era proprio finanziariamente e burocraticamente pulita. Il fatto che stesse parlando con Ofelia la rendeva ancora più colpevole, agli occhi di Thorn. Non voleva che la fidanzata si mischiasse con persone deplorevoli e pericolose, soprattutto data l’attività deprecabile che Cunegonda svolgeva.
La Miraggio millantava di sapere tanto, tutto di tutti, quando in realtà conosceva i fatti superficialmente, e per la maggior parte infarciva le notizie di menzogne; ma qualche fondo di verità veniva sempre a galla. Doveva accorrere in aiuto di Ofelia.
Scese le scale di gran carriera, diretto verso la fidanzata e sua zia, ma fu intercettato dal suo segretario, sudato quanto lui. Il fatto che fosse andato fino a lì per cercarlo significava solo guai, Thorn lo sapeva. Lanciando un’ultima occhiata ad Ofelia, fece cenno al suo segretario di seguirlo, senza appurare se lo stesse facendo o meno.
In un angolo più o meno riparato lo ascoltò mentre gli menzionava un processo che era stato anticipato e di cui aveva urgente bisogno che Thorn approfondisse i dettagli, data la delicatezza delle parti prese in causa. Un processo che avrebbe sicuramente suscitato scalpore, un altro caso di corruzione sventata. Thorn sapeva che si sarebbe attirato addosso più odio di quanto già non avesse, ma se c’era qualcosa che tollerava ancora meno dei contatti fisici, questa era la disonestà. L’ipocrisia.
Quando ebbe finito, aveva ormai perso di vista Ofelia. Thorn congedò il segretario, che non gli propose nemmeno di tenere il fascicolo relativo al processo: sapeva che l’intendente aveva una Memoria infallibile. Aveva già imparato ogni singola parola di quel verbale, non gli serviva altro.
Tenendo in mano il foglio dattiloscritto che aveva sottratto al cancelliere e al dattilografo, si diresse verso il posto in cui aveva avvistato Ofelia prima dell’interruzione. Si rese conto solo il quel momento che in realtà lei non aveva alcun bisogno di ricevere la sua copia del contratto proprio lì, ma erano diversi i motivi per cui voleva fornirglielo. In primis, voleva avere l’occasione di parlare con lei, e quello gli sembrava un buon espediente. Come seconda cosa, voleva guadagnarsi la sua fiducia, mostrarle che la metteva a parte dei progetti che la riguardavano, che si curava di lei. A modo suo. Terzo, era il caso che lei tenesse quel foglio per sbandierarlo sotto il naso del molestatore di turno, Faruk compreso. E molestatori, arrivisti, approfittatori, ce ne sarebbero stati tanti.
Quando arrivò alle spalle di Ofelia, però, il moto di sollievo impercettibile che provò nel vederla lì, perché non se n’era andata, venne soppiantato da un fastidio feroce e viscerale. Era un misto di rabbia, insofferenza, disgusto, nervoso. Thorn sapeva che il termine preciso era gelosia, ma non voleva pensare alle implicazioni di quell’emozione.
Di fronte ad Ofelia non c’era più Cunegonda, che non si vedeva nei paraggi, bensì Archibald. Thorn avrebbe quasi preferito che Ofelia parlasse ancora con la Miraggio, a voler essere sinceri. Il cilindro malandato, la redingote indossata malamente e senza precisioni, i buchi nel tessuto, tutto l’insieme asimmetrico dell’ambasciatore bastava a fargli venire il ribrezzo. Il fatto che stesse parlando con la sua fidanzata, lui, così poco raccomandabile con le signore, gli fece temere il peggio.
Ofelia non lo voleva perché si era invaghita di lui come le altre quattrocentottantanove conquiste? Quattrocentoottantanove e mezzo, ad essere precisi.
Non avrebbe permesso mai e poi mai che Archibald riuscisse nel suo intento. Ofelia non poteva cadere vittima di quello spudorato immorale e… disordinato. L’avrebbe protetta, a costo di battersi fisicamente, o usare gli artigli. Cercò di non pensare al fatto che, in parte, voleva proteggerla per se stesso, non per la sua felicità o reputazione.
Era stato talmente silenzioso che né Ofelia né la signora Roseline si erano accorte del suo avvicinamento. L’ambasciatore invece non diede segno di averlo notato, eppure Thorn vide il suo sguardo saettare verso di lui velocemente. Gli parve che il sorriso impertinente si fosse allargato sul suo volto ammiccante, ma Archibald non lo interpellò, non avvisò le altre del suo arrivo, e non lo incluse nella conversazione.
Si esibì in una specie di numero di giocoleria, raccogliendo il cilindro che giaceva ai suoi piedi, per poi farlo volteggiare in aria e rimetterselo sul capo. Thorn pensò che alla fin fine, stropicciato e strappato com’era, quel cappello sarebbe stato meglio a terra, in effetti. Non aveva idea di cosa avessero parlato fino a quel momento le signore e l’ambasciatore, ma il commento che seguì le azioni da clown non lo rassicurarono per nulla.
- Non ho incontrato molte persone qui che si preoccupassero del mio interesse. Grazie, ambasciatore.
Quelle parole gli fecero male più di tante altre che Ofelia gli aveva rivolto, ben più algide e ferali. Il fatto che le stesse dicendo a quell’individuo invece che a lui gli rendeva intollerabile persino stare lì. Se il sentimento che nutriva nei confronti di Ofelia fosse stato meno invadente, forse se ne sarebbe andato. Ma il bisogno di sapere cosa stesse accadendo lo trattenne.
- Oh, non ringraziatemi. Più vi informo e più il vostro debito verso di me cresce. Un giorno vi presenterò il conto.
Archibald gongolava, lanciandogli di tanto in tanto occhiate furtive e ferine. Stava godendo nel torturarlo. Anche se Thorn non reagì in alcun modo, dimostrandosi indifferente come se in realtà l’ambasciatore avesse detto ad Ofelia che stava per piovere, non poté fare a meno di irrigidirsi. Sapeva bene a che conto alludeva Archibald, più volte lo aveva visto elargire favori in cambio di pagamenti… in natura. Specialmente se la fanciulla era promessa in sposa o sposata con qualche suo nemico. Ancor più se era illibata.
Ofelia, quanto meno, sembrava stupita. L’aveva presa in contropiede. – Che debito, che conto? Mi avete offerto la vostra amicizia.
Ofelia non era stupida, Thorn questo lo aveva capito bene, ma non poteva fare a meno di chiedersi se l’arca in cui era nata, il modo in cui era cresciuta, non l’avessero resa un po’… sempliciotta. Aveva capito che su Anima, su cui erano praticamente tutti parenti, non esistevano intrighi di corte, ma diamine, Ofelia doveva aver ormai compreso il funzionamento del Polo. Nessuno, mai, elargiva amicizie e favori gratuitamente. C’era sempre un tornaconto personale dietro le buone azioni. O quelle che sembravano tali. Davvero Ofelia credeva che Archibald sarebbe diventato suo amico in modo disinteressato?
- Appunto – fece notare Archibald, estasiato. – Amici cari e borsa del pari. Non vi preoccupate, ci prenderete talmente tanto gusto che vi affretterete a indebitarvi di nuovo.
Le implicazioni di quell’asserzione fecero inorridire Thorn. Il pensiero che Ofelia potesse davvero… con Archibald… più volte… Intollerabile. Lo scenario lo bloccò sul posto, anche se sapeva che avrebbe dovuto palesare la sua presenza già diverse battute prima. Eppure, in un angolo remoto della sua mente, la scena in cui Ofelia si concedeva come pagamento cambiò tinte, e Archibald venne soppiantato da lui. Non si soffermò troppo su quella fantasia, però si vide velocemente cedere sotto le attenzioni di Ofelia.
Avrebbe voluto cancellare quella… quei… quegli impulsi. La sua minuscola e imprevedibile fidanzata aveva fatto cadere un muro in lui, quello del controllo totale e assoluto su pensieri ed emozioni. E aveva risvegliato un istinto che non credeva nemmeno di possedere, e che trovava ripugnante quando vedeva qualche coppia amoreggiare in un angolo appartato. Ofelia lo aveva spinto non solo a non considerare uno scenario del genere uno scempio, ma addirittura a desiderarlo.
Fortunatamente la zia Roseline lo distrasse. Ofelia sembrava… atterrita. Si era finalmente resa conto di che razza di individuo approfittatore fosse l’ambasciatore? Sua zia sembrava molto più sveglia di lei, sotto quell’ambito.
- Te l’avevo detto di evitare brutte frequentazioni! Signor ambasciatore, controllerò personalmente che manteniate le distanze da mia nipote!
L’avvertimento non servì a rassicurare granché Thorn. Aveva imparato a sue spese che Ofelia non si poteva trattenere. Era più indipendente di quanto si sarebbe mai aspettato.
Archibald doveva pensarla come lui, perché sembrava più che mai divertito. Gli si illuminarono gli occhi, e Thorn ebbe il cattivo presentimento che avesse preso le parole della signora Roseline come una sfida. Ci mancava solo quello per eccitarlo ulteriormente.
- Siete una persona che apprezzo, signora Roseline, quindi mi dispiace contraddirvi, ma non potrete avere sempre la signorina sott’occhio. E nemmeno voi, intendente.
Con quelle ultime parole, Thorn ebbe la conferma del suo sospetto: anche se parlava con la sua fidanzata e la zia di quest’ultima, gli avvertimenti e le provocazioni erano rivolte a lui. Infame, infida serpe…
Ofelia si voltò talmente di scatto che la costola le provocò una fitta di dolore decisamente acuta, a giudicare dalla smorfia e dal modo in cui impallidì. Era talmente sbadata! Avrebbe voluto prenderle il braccio come sul podio, per aiutarla a stabilizzarsi, quanto meno, ma capì che non era il caso. Origliare non era proprio educato, e lui se n’era sempre infischiato di convenzioni ed etichette; però Ofelia ci teneva, e facendo qualche gesto inconsulto avrebbe solo peggiorato la situazione. Certo, c’era da dire anche che in realtà non aveva voluto interrompere la conversazione, anche quello era un gesto cortese, all’incirca.
Da quando in qua, però, lui si preoccupava di certe cose come il galateo e le buone maniere? Non erano fondamentali, nell’ottanta percento dei casi erano solo una perdita di tempo. Sentì l’impulso di prendere l’orologio da taschino, ma si trattenne. Presto se ne sarebbe andato, e non voleva sprecare un secondo del tempo che aveva con Ofelia. Chissà quando l’avrebbe rivista.
Nonostante il caldo soffocante, e la presenza rivoltante di Archibald, niente lo avrebbe fermato dal prendersi quegli ultimi momenti con la fidanzata, che lei lo volesse o no. Si vergognò di se stesso per quei pensieri infondati e quelle emozioni incontrollate, ma non poté fare a meno di lasciar fluire tutto. Ignorò tutto e tutti, tranne lei.
- Sono venuto a portarvi il vostro contratto.
- Vi prego di non fare commenti – rispose lei, con tono acido, prendendogli in malo modo il foglio dalle mani.
Per quanto lui si sforzasse di essere… tollerabile, lei sembrava non impiegare il minimo sforzo per rendersi amabile. E nonostante tutto, lui era lì, per lei. Si sarebbe fatto maltrattare gratuitamente, se fosse servito. L’unica cosa che non riusciva ad accettare era il fatto che nei suoi confronti sembrava sempre insofferente, invece tollerava Archibald, che pure era più meschino e fasullo.
Thorn tirò fuori un argomento che sapeva l’avrebbe interessata, quasi prendendosi una rivincita su Archibald, anche se lui non avrebbe capito. Ormai aveva intuito quali cose interessassero Ofelia, comprenderla non era più così impossibile. D’altro canto, ogni volta che lo credeva, lei compiva un’azione del tutto imprevista, facendolo ricredere su tutto.
- Vi informo anche che sono riuscito ad avere un collegamento radiotelegrafico con la vostra famiglia. Li ho rassicurati sulla vostra salute e convinti a rimandare l’arrivo.
Come a voler confermare di proposito le sue elucubrazioni di poco prima, Ofelia non si mostrò sollevata, o grata. Indignata, quello sì. Cosa doveva fare, con lei?
- Non vi è venuto in mente che mi avrebbe fatto piacere essere presente al collegamento radiotelegrafico? Da quando siamo partiti i miei genitori non hanno ricevuto nessuna delle nostre lettere e noi non abbiamo ricevuto nessuna delle loro. Avete una vaga idea dell’isolamento in cui siamo precipitate io e mia zia?
Thorn aggrottò la fronte. Più che dal tono irritato e più alto del solito, novità sia per lui che per Ofelia, Thorn fu colpito da ciò che le sue parole comportavano. Le avrebbe fatto piacere sentirli? Isolamento? Lui non poteva neanche lontanamente immaginare di cosa stesse parlando Ofelia, o di quanto fosse profonda la mancanza che sentiva. Lui non aveva mai avuto una famiglia, figuriamoci qualcuno che sentisse nostalgia di lui. Erano dei concetti che proprio non comprendeva.
Aveva sbagliato ancora una volta, credendo di fare bene. O aveva fatto bene, ed era la fidanzata che funzionava al contrario?
In ogni caso, una cosa era certa. – Ho dovuto affrontare questioni più urgenti -. Ed era vero. Ofelia si rendeva conto di che caos avrebbe scatenato un arrivo imprevisto della sua famiglia? A malapena riusciva a garantire protezione a lei, figuriamoci ad un numero illogicamente spropositato di Animisti! – Con i tempi che corrono la presenza qui di membri della vostra famiglia sarebbe un pericolo per noi e per loro. Farò in modo che le vostre prossime lettere vengano inoltrate correttamente.
Questo, almeno, poteva concederglielo.
Eppure Ofelia non si placò, non si rassegnò, non si arrese. Sembrava davvero indignata. – E il vostro contratto? Ho il diritto di prenderne conoscenza o non sono affari miei?
Thorn increspò ancora di più le sopracciglia. Era abituato a sarcasmo, insulti, malelingue, diffamazioni, calunnie, violenza fisica, ma i commenti aspri di Ofelia gli facevano male come niente era mai riuscito a fargliene. Infilò una mano nella tasca interna dell’uniforme, desiderando potersela togliere. Faceva così caldo che sentiva i capelli appiccicati alla testa. Ne estrasse una busta, che pose ad Ofelia.
- Per voi ho un facsimile. Non separatevene mai e mettetelo sotto il naso di Faruk ogni volta che serve.
Sperava davvero che con quei due contratti insieme, il suo e quello di Ofelia, la protezione del gineceo e la vigilanza di sua zia, la fidanzata potesse essere al sicuro.
Ofelia fece cadere il foglio quando lo estrasse dalla busta, com’era prevedibile, ma Thorn non si spazientì. La osservò con calma mentre leggeva tutto, parola per parola, citandolo mentalmente mano a mano che lei proseguiva, come se lo stessero leggendo insieme. Vide i suoi occhiali scurirsi, ma non ne capì il motivo. Aveva cominciato a comprenderla, ma era ben lontano dal poterla prevedere.
Quando finì di leggere, sembrava più determinata che mai. Ofelia gli lanciò un’occhiata in tralice, che lo ferì nel profondo. Sembrava… disgustata. A dimostrazione di ciò, come per provocarlo o infierire, si girò verso Archibald, che era rimasto in silenzio a godersi il battibecco. Gongolante.
- Un giorno pagherò il conto. Lasciate che sia io a scegliere come, farò in modo che sia equo.
Thorn avrebbe voluto rabbrividire nonostante l’afa. Il sorriso vittorioso e superbo dell’ambasciatore, l’odio di Ofelia, le implicazioni e le varie possibilità di quella risposta… come aveva potuto sbagliare così tanto, quando aveva solo cercato di proteggerla?
Archibald si toccò allegramente il cappello. – Sono impaziente di vedere il conto, fidanzata di Thorn! – infierì. – Nel frattempo mi congedo. Sono stato lontano da Chiardiluna troppo tempo e quando il gatto non c’è, i topi ballano.
Mentre l’ambasciatore piroettava su se stesso, pronto ad andarsene, finalmente, la signora Roseline gli bloccò la strada. Thorn si augurò che lo facesse passare e andare via quanto prima, perché faticava a tenere a bada quegli artigli che tanto ripudiava e che in quel momento, gonfi di tutto quello che era successo fino ad allora, bramavano solo il sangue di quell’impudente funzionario.
Si concentrò su Ofelia, mentre Archibald provava a sedurre persino la casta signora Roseline. Gli interessava poco di quella scena: Thorn stava scrutando Ofelia, attento a non perdersi nemmeno una sua espressione, che dallo sdegno e dalla determinazione passò alla confusione e allo sgomento. Quando Archibald se ne andò, la vide preoccuparsi per la zia, stupita di fronte al suo cedimento con quell’individuo. Era una donna premurosa, Ofelia, questo lo aveva capito. Nel prendersi cura di chi amavano, in fondo, loro due erano simili, solo che lei non se ne rendeva conto. Thorn non aveva mai avuto nessuno da amare, se non la zia, che era l’unica che si fosse mai interessata a lui. Non si reputava un brav’uomo, un altruista, ma fedele sì. Integro, sì. Leale, anche.
Ma era solo, lo era sempre stato, e non aveva avuto modo di dimostrare quelle qualità, forse le uniche umane che possedesse. Voleva davvero che Ofelia lo vedesse.
La signora Roseline, ancora stordita, alla fine si allontanò, cosa che non avrebbe mai fatto se fosse stata nel pieno delle sue facoltà mentali. Era un chaperon molto zelante. Li aveva lasciati soli. Thorn prese l’orologio da taschino per calcolare quanto tempo avessero trascorso insieme, e quanti pochi attimi gli mancassero prima di andarsene. Con l’orologio in mano guardò Ofelia dall’alto, coprendola con la sua ombra.
Il vestito bianco che sua zia Berenilde le aveva donato era… apprezzabile. Era in contrasto con la massa scura dei lunghi capelli ricci e con il cappello nero, ma a Thorn non dispiacque come le calzava. Decise di distrarsi, stava diventando disgustoso persino ai suoi stessi occhi con quelle osservazioni così umane.
- Credo che allearvi con Archibald sia stata una pessima idea – commentò per attirare la sua attenzione, caricando l’orologio da taschino.
Ofelia alzò la testa verso di lui, allungando il collo come ogni volta che tentava di guardarlo negli occhi. In quei momenti gli sembrava estremamente vulnerabile. Non voleva ammettere che la considerava tenera. In fondo, era ancora arrabbiata.
- Bene – sancì, anche se dal tono traspariva che non le andasse bene nulla. - È tutto quello che avete da dirmi?
- No.
Ne aveva così tante, di cose da dirle, ma non sapeva nemmeno come fare, figuriamoci da che punto partire. C’era però una cosa che voleva assolutamente farle sapere, anche se non capiva perché. Forse per farsi perdonare di tutte le volte che l’aveva sottovalutata, o screditata, o che aveva dubitato di lei. Forse per farle capire che l’apprezzava, che la considerava forte, che una donna come lei, piccola e all’apparenza fragile, non faceva altro che destabilizzarlo, stupirlo. Intrigarlo. Forse perché voleva che in qualche modo, leggendo tra le righe, capisse che gli piaceva.
Gli piaceva più di quanto fosse lecito e tollerabile, logico, per uno come lui.
Increspò ancora di più le sopracciglia, mentre la scrutava, incerto su come dirlo. Ofelia sembrava pronta ad incassare qualsiasi cosa, forse si aspettava una sgridata, o che qualcuno la rimettesse al suo posto. Ma Thorn, per quanto lei gli rendesse la vita complicata, non la voleva diversa per nessun motivo al mondo. Non l’avrebbe mai costretta a fare ciò che non voleva. Non avrebbe mai tentato di cambiarla. Non l’avrebbe rimproverata perché aveva la forza, la volontà di essere se stessa senza vergogna alcuna, e per la sfida che lanciava a quel mondo falso e corrotto.
Lei si accorse della sua titubanza, e si spazientì. Per una volta, era lui quello lento. L’orologio che ancora teneva in mano gli rammentò che il tempo scorreva, e non poteva rimanere lì con lei, a scrutarla, a parlare, sebbene stesse solo ricevendo parole acri, per sempre. Ma lo avrebbe voluto. Anche qualcosa di più.
- Svelatemi dunque i vostri pensieri fino in fondo. E facciamola finita.
Thorn non se lo fece ripetere due volte. Sarebbe stato vergognoso e deplorevole. Non doveva interrogarsi troppo su come formulare la frase, lui era diretto, e non sarebbe cambiato facilmente. – Ciò che avete fatto prima sul palco è stato coraggioso.
La tensione gli aveva reso la voce pesante, più grave del solito. Non era riuscito a far trapelare la sua ammirazione per l’intraprendenza di Ofelia. Sperò che potesse leggere tra le righe, al di là del suo livore, e carpire la sua sincera approvazione.
Senza attendere risposta, senza più guardarla, ripose l’orologio al suo posto e se ne andò senza voltarsi.
La vista del volto di Ofelia esterrefatto e a corto di parole, però, lo seguì a lungo, nel suo cammino per tornare al lavoro.
Per una volta era stato lui a prenderla in contropiede. Sperava che potesse essere di buon auspicio per il futuro.
Anche qualcosa di più.
 
 

 
 
Bonus (che in realtà era quello che volevo approfondire nel capitolo, ma sarebbe stato troppo breve)
L’Attraversaspecchi II, Gli Scomparsi di Chiardiluna, La Lettera, pagine 66-68

Erano passate quattro settimane e cinque giorni dall’ultima volta che l’aveva sentita.
La mancanza della sua voce e della sua presenza lo stava facendo innervosire, nonostante Thorn chiamasse regolarmente la zia per accertarsi della sua salute e di quella delle sue ospiti. Anche se Ofelia stava bene, come gli riferiva la zia, sembrava del tutto inadatta alla vita di corte e alle feste mondane. Questo, almeno, era ciò che essa sosteneva. A Thorn non poteva importare di meno se la sua fidanzata indossava vestiti alla moda o non voleva cambiare montatura degli occhiali, così antiquata, a sentire la zia, o se la sciarpa che si ostinava a portare appresso le facesse fare sempre brutte figure.
Thorn si irritava con la zia per la vaghezza e l’insignificanza delle notizie amene che gli riportava, ma la verità era che ce l’aveva con Ofelia per non essersi mai fatta sentire. E ce l’aveva con se stesso per quello spasmodico desiderio di voler quantomeno ascoltare la sua voce, se non vederla.
Nei giorni successivi all’incontro con Faruk aveva spesso rimembrato la loro ultima conversazione, con la sua ammissione del fatto che Ofelia era stata coraggiosa. Non poteva dimenticare, ovviamente, ma la cosa che proprio non voleva archiviarsi nella sua Memoria e saltava fuori ogni giorno, spesso più volte, era l’espressione della fidanzata: era ben lontana dall’anelare a stare ancora con lui, o conversare ancora con lui.
Thorn sperava proprio che le fosse passata. Era irragionevole essere ancora arrabbiati, quel che era fatto era ormai fatto, non cancellabile. Erano concordi circa il fatto che fossero partiti con il piede sbagliato, ne avevano convenuto, ma non c’era stata occasione di approfondire quella discussione. Oltretutto, era una discussione chiusa e archiviata.
Quel giorno, dopo aver finito di redigere un verbale con ben otto minuti di anticipo, Thorn non poté fare a meno di indugiare in quei pensieri. Non poteva più permettersi di tentennare e continuare a pensare al… ai… a Ofelia. A cosa stava pensando, cosa stava facendo, soprattutto con chi si stava vedendo. Non sarebbe andato da nessuna parte in quel modo, e ne avrebbe risentito anche il suo lavoro, il suo rendimento professionale. Da quello che aveva potuto imparare da Ofelia, era una ragazza… una donna sincera. Non sembrava portare molto rancore, aveva le sue idee ed era determinata, tenace. Tutte qualità che Thorn si era reso conto di apprezzare, quanto meno in lei.
Aveva davvero un buon cuore, per quanto quel pensiero fosse strano, se derivante da lui. Voleva sentirla.
Voleva ascoltare la sua voce, per lo meno al telefono. Voleva che gli raccontasse qualcosa, anche di stupido, di ameno e futile, giusto per fargli capire che si fidava. Si fidava di lui. Le veniva tanto facile parlare con l’ambasciatore senza odiarlo, perché doveva essere diverso con lui?
Scacciò quel pensiero prima che la gelosia lo attanagliasse. Quanto meno, Thorn era onesto con se stesso. Una volta che accettava qualcosa come assodato, non la negava, non la nascondeva. Lui provava davvero un interesse, provava qualcosa per Ofelia, qualcosa di nuovo che nemmeno lui si spiegava, ma… era una sensazione piacevole; quando lei non era ostile. Davvero, stranamente, piacevole. Anche qualcosa di più.
Prese la decisione al volo, dato che gli avanzavano ancora sei minuti e quarantaquattro secondi prima dell’appuntamento successivo. Impugnò la cornetta.
L’avrebbe chiamata.
La centralinista che rispose al telefono chiese, in modo efficiente, con chi dovesse metterlo in contatto. Thorn le diede le indicazioni del caso senza presentarsi o salutare, e la centralinista obbedì.
Quando sentì di nuovo suonare la cornetta, questa volta consapevole che avrebbe risposto Ofelia, con ogni probabilità, Thorn si sentì agitato. All’ultimo secondo quasi si pentì di quella decisione, un evento inconsueto, per uno come lui, sempre coscienzioso, presente e padrone di ogni cosa.
Non sapeva cosa aspettarsi da quella telefonata.
Un lieve clic e un leggerissimo ronzio gli fecero capire che Ofelia aveva raccolto la telefonata. Era già un passo avanti.
- Pronto? – chiese, perfettamente padrone del tono di voce.
Gli rispose il silenzio. Per un attimo pensò che ci fosse un’interferenza, e l’attimo dopo temette che Ofelia avesse fatto cadere la comunicazione.
- Pronto? – incalzò.
- Avete cambiato segretario?

Thorn aggrottò le sopracciglia, non potendo evitare di chiedersi quali strane macchinazioni stesse producendo il cervello iperattivo della fidanzata. Avrebbe trovato più consono un “vi odio, cosa volete?”, che un quesito sul segretario. Fu così preso alla sprovvista da quella domanda insensata che rispose di getto, senza porsi alcun interrogativo.
- No. Che c’entra lui?
- Ho appena parlato con una donna.
Che fosse…? No, era impossibile che Ofelia fosse gelosa. Non teneva così tanto a lui, di questo era, purtroppo, certo. L’insinuazione lo fece comunque mettere sulla difensiva. E lo spinse a dare una spiegazione. – Era una centralinista. La torre di Faruk e l’intendenza non sono collegate dalla stessa centrale telefonica e non abbiamo sistemi automatici.
Era un argomento talmente neutro che Thorn sperava proprio che Ofelia cambiasse discorso. D’accordo che alla fine voleva solo sentire la sua voce, ma di certo non mentre parlavano di centralini telefonici. Il silenzio che gli arrivò risuonò un po’ perplesso, ma Thorn non diede ulteriori delucidazioni e attese una risposta dall’altra parte.
- Volevate dirmi qualcosa?
Il tono di Ofelia non era propriamente… ostile. Era una cosa positiva, no? Stava… continuando la discussione. Thorn era talmente poco avvezzo a certe faccende da trovarle tediose. Si sarebbe dovuto studiare un manuale per capire come si intavolavano conversazioni.
Quel pensiero irrazionale gli fece capire con orrore quanto si stesse sforzando per lei, per piacerle. Che cosa ridicola. Eppure, non riusciva proprio sbarazzarsi di quei pensieri. Non stava cambiando se stesso per lei, quello no, lo aveva giurato a se stesso ogni volta che qualcuno lo aveva ferito e lo aveva rifiutato, ma… era come se con lei volesse mostrare il meglio di sé. Che c’era dell’altro. Anche se impacciate e confuse, non gli dispiacevano le loro conversazioni. Ofelia era l’unica a non averlo mai giudicato. Se non quando aveva scoperto la verità, nel peggiore dei modi.
Stava a lui rimediare. Glielo doveva.
Doveva essere onesto. - Spero che abbiate voi qualcosa da dirmi. Non ho più avuto vostre notizie da quando vi siete traferita nel gineceo.
In un millesimo di secondo Thorn si rese conto che la risposta a quella domanda avrebbe significato tutto. Ofelia avrebbe riattaccato? Probabilmente lo odiava. Avrebbe descritto qualche avvenimento come se nulla fosse? Lo aveva perdonato. Avrebbe ribattuto qualcosa in tono piccato? Era ancora arrabbiata. Gli avrebbe detto che gli mancava?
Ridicolo. Illogico. Thorn quasi si perse la sua risposta da quanto si infuriò con se stesso.
- Non c’è niente che abbiate bisogno di sapere.
- Siete sempre arrabbiata con me – concluse. Avrebbe quasi potuto predirlo. Forse Ofelia, dopotutto, era un pochino rancorosa. Toccava a lui farle riguadagnare la ragione, in ogni caso. – Eppure pensavo che ci fossimo chiariti. Ci siamo trovati d’accordo sul fatto che entrambi eravamo partiti col piede sbagliato.
Dall’altro capo della cornetta il respiro di Ofelia si fece pesante, come se lei stesse lottando con se stessa per stare calma. Non era proprio un buon segno, ma lui non intendeva demordere. Che senso aveva essere ancora in collera?
- No, Thorn. Vi siete trovato d’accordo da solo.
Suo malgrado, quella frase lo innervosì. Quella fidanzata era completamente irragionevole.
- Dovete considerare…
- Ascoltatemi bene.
Thorn si zittì, sorpreso. In quel momento capì che aveva preso un granchio, bello grosso anche. Ofelia non aveva la minima intenzione di riconciliarsi. Probabilmente non aveva nemmeno pensato a lui in quelle settimane, se non per maledirlo, forse. Per la prima volta in vita sua, ebbe timore delle parole che qualcuno stava per rivolgergli.
- Vi ho compianto sinceramente perché credevo che il matrimonio l’avesse organizzato Berenilde e noi fossimo le sue marionette. Ora ho capito che c’è sempre stata un’unica marionetta: io. Posso accettare l’idea che abbiate voluto sposarmi solo per le mie mani, ho visto il mondo in cui siete cresciuto, ma non vi perdonerò mai di averlo saputo da una bocca diversa dalla vostra.
Era il discorso più lungo che le avesse mai sentito fare, con la voce forte e chiara, sorda nonostante il mormorio. Thorn si rese conto che era davvero meglio che Ofelia parlasse a bassa voce per la maggior parte del tempo: il suo tono non era fragile come lui aveva pensato, come tutti credevano. Era forte come lei, potente. Autoritario, persino, e la cosa lo destabilizzò più delle parole acri in sé, perché non era abituato a sentirsi rivolgere accuse simili.
O forse, si rese conto, tanti gli parlavano in quel modo, ma lui non se n’era mai curato. Non gli era mai interessato. Per questo le parole di Ofelia non facevano solo male, ma doppiamente male. L’ennesima potenza del dolore, senza possibilità di estrarne la radice.
Capì però che Ofelia esigeva la sincerità. Forse l’avrebbe addirittura perdonato, forse, forse assecondato, se le avesse detto sin dal principio qual era il suo scopo, cosa mirava ad ottenere con quel matrimonio combinato. Forse, solo forse, lo avrebbe accettato, se fosse stato anche veritiero e trasparente circa il fatto che le sue… prospettive erano cambiate, da quando lei era entrata, volente o nolente, nella sua vita. Non era abituato a dover condividere, a mettere gli altri a parte dei suoi piani, progetti e pensieri. Nemmeno con sua zia Berenilde lo faceva. Con Ofelia, comprese, sarebbe stato fondamentale farlo.
Aveva sbagliato in pieno, e aveva avuto la pretesa di chiudere la faccenda senza nemmeno capire come lei la pensava. Non avrebbe sbagliato una seconda volta.
Thorn si rese conto che dall’altro lato della cornetta non giungeva alcun rumore, nemmeno il più flebile respiro, come se Ofelia avesse trattenuto il fiato mentre lui elaborava. Alla fine, però, meno avvezza al silenzio di lui, riprese la parola.
- Avete sentito quel che ho detto o devo ripeterlo?
Non sarebbe durata al Polo, eh? Thorn trovò tragicamente comica la situazione, dato che in quel momento era lei a metterlo alle strette.
- Non lo ripetete.
Non lo avrebbe sopportato.
- Bene. C’è altro prima che riattacchi?
Non avrebbe sopportato nemmeno di chiudere la conversazione in quel modo, mentre entrambi rimuginavano, lei nel gineceo e lui all’intendenza, su quella spiacevole telefonata. Poteva forse chiudersi così, ma l’argomento non lo era. Lo sarebbe stato solo quando avessero parlato faccia a faccia.
Doveva vederla.
Ne andava del loro matrimonio, si disse.
Bugiardo.
- Penso che dovreste venire qui – le rispose dopo un attimo, cercando di raccogliere le idee. E aggiunse: - Preferibilmente da sola.
Le zie, o anche solo una zia, sua o di lei che fosse, avrebbero solo complicato le cose. Erano le zie impiccione la causa per cui lui voleva vedere Ofelia da sola. Le zie.
Non perché voleva un po’ di… una parvenza di intimità con lei.
Bugiardo, ancora.
- Come?
Ofelia era brillante, in certi momenti, più arguta di chiunque altro. Eppure, in altri momenti era ottusa e lenta di comprendonio come un bambino.
- Vi sto dando appuntamento – chiarì, professionalmente. – Un appuntamento ufficiale da futuro marito a futura moglie. Siete ancora in linea?
Non era sicuro di poter ripetere nuovamente quelle parole, sperava proprio che avesse sentito.
- Sì, sì, vi sento – bofonchiò lei, un po’ risentita e un po’… attonita? L’aveva presa alla sprovvista? Non sembrava propriamente disgustata all’idea. Ma Thorn non era bravo ad interpretare gli stati d’animo altrui dal tono di voce, specialmente se si trattava di Ofelia. – Ma perché vederci? Vi ho appena detto…
- Molto semplicemente, - minimizzò, interrompendola, - non possiamo permetterci di essere nemici. Mi state complicando la vita col vostro rancore, - eccome se gliela stava complicando, - dobbiamo assolutamente riconciliarci. Io non posso entrare nel gineceo. Venite a trovarmi all’intendenza, insultatemi, schiaffeggiatemi, rompetemi un piatto sulla testa, se volete, poi non parliamone più.
Thorn non avrebbe mai e poi mai pensato che tali parole potessero uscire dalla sua bocca con tale facilità e convinzione. Non le aveva quasi pensate, erano fluite di getto. Ed erano vere. Piuttosto di sapere che Ofelia era ancora arrabbiata si sarebbe fatto picchiare. Si immaginò davvero seduto lì, com’era, con gomiti sulla scrivania e il mento appoggiato sulle mani, mentre riceveva senza nemmeno sobbalzare il colpo inferto alle sue spalle da Ofelia, con un piatto in mano. Non la immaginava capace di compiere un tale gesto, ma si vedeva immobile, arrendevole, pronto ad incassare.
Ofelia era forse l’unica persona al mondo della quale non era disposto a tollerare l’arrabbiatura perenne. Non era proprio in grado di sopportarlo.
Tra tutte le ferite e i danni morali che gli erano stati inferti con malvagità, l’ira di Ofelia, la sua disapprovazione nei suoi confronti, era la più dolorosa in assoluto. Avrebbe fatto di tutto per riconciliarsi. Si sarebbe prestato davvero come zerbino.
Si affrettò a prendere l’agenda, con il bisogno impellente di fissare un appuntamento con lei. Di riflesso, si incastrò la cornetta contro la spalla e tirò fuori anche l’orologio da taschino, che aprì di fronte a sé, mentre sfogliava in fretta le pagine dell’agenda, tutte riempite fitte di appuntamenti.
- Scegliete voi il giorno. Per me andrebbe bene giovedì. Diciamo… tra le undici e mezzo e mezzogiorno. Posso segnarlo sull’agenda?
Non aveva mai concesso una mezz’ora a nessuno. Nemmeno ai funzionari più illustri o alla zia. Ofelia avrebbe dovuto esserne onorata.
In risposta, ottenne solo la linea caduta.
 
Thorn rimase immobile con la cornetta premuta contro l’orecchio per un lungo minuto, cercando a fatica di metabolizzare quanto appena accaduto. Ofelia aveva accettato?
Cosa volevano dire quei battiti regolari della linea caduta? O meglio, interrotta?
Decise che glielo avrebbe chiesto all’appuntamento. Si chiese cosa scrivere sull’agenda. “Appuntamento con la fidanzata”? “Riconciliazione pre-matrimoniale”? No, quest’ultima suonava estremamente fraintendibile. Optò per scrivere solo “Ofelia”.
Rimise a posto l’orologio da taschino, sistemò i gemelli e il colletto della camicia, si lisciò i capelli.
Tornò padrone di se stesso.
Cercò di tornare padrone di se stesso.
Per la prima volta nella sua vita, non era padrone di nulla.
Prime in lista, delle sue emozioni.
 
Ofelia non si presentò all’appuntamento.
Thorn l’attese per trentacinque minuti, con l’anta dell’armadio aperta, una caffettiera calda sulla scrivania e due tazzine. Il caffè le piaceva, di quello era certo. Ricordava ancora quando aveva bevuto il suo, una notte di tanto tempo prima.
Troppo tempo prima.
Fumò la pipa, e attese.
Sistemò la scrivania già perfettamente in ordine, impeccabile, simmetricamente ineccepibile, e attese.
Si rassettò i vestiti già stirati e inamidati, e attese.
Controllò persino di aver scritto correttamente giorno e ora, e che corrispondessero a quella precisa data.
Thorn attese.
Invano.
Passati i trentacinque minuti, ben cinque più di quanto avesse preventivato, si rimise al lavoro, chiamando il segretario per dargli alcuni ordini.
A fine giornata, quando anzi erano le prime ore del nuovo giorno, Thorn si sedette sul divanetto di pelle logoro, sotto la finestra che dava sull’esterno. Attese la fine della notte, la fine della sua notte, ma Ofelia non arrivò. La aspettò proprio lì dove lei una volta lo aveva trovato seduto, quando era andata a trovarlo; quando ancora non lo odiava; quando lo assillava con le sue inesauribili domande.
Ofelia non arrivò. Il cuore di Thorn risprofondò nell’oblio da cui quei sentimenti appena sbocciati come un fiore lo avevano fatto riemergere. Fece più male del solito, più male che in passato, più male di quando era piccolo e certe cose ancora non le poteva somatizzare.
Fece un male atroce.
 
Thorn si rialzò dal divanetto, chiuse l’anta dell’armadio e si sedette alla scrivania, pronto per un altro giorno di lavoro.
Fumò un’altra pipa, lesse il giornale e bevve il caffè, si lavò nel piccolo bagno attiguo. Stava per aprire la porta al primo appuntamento del mattino quando si fermò.
Senza esitazione, riaprì l’anta dell’armadio.
Ormai non gli importava più delle convenzioni, Ofelia poteva andare a trovarlo quando voleva. Avrebbe annullato ogni appuntamento.
Bastava che andasse da lui. Gli bastava vederla.
 
Ofelia non andò. Non richiamò.
E Thorn continuava ad attendere. Paziente.

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Capitolo 13
*** Avevo un dubbio ***


Allora! In vista di domani, mi sono sforzata al massimo per riuscire a pubblicarvi il capitolo sia qui che lì (su Ingranaggi). Sono proprio contenta di esserci riuscita xD
Molto presto aggiungerò sulla terza parte del capitolo La slitta gli spoiler contenuti nel quarto libro, nel caso in cui qualcuno volesse svelare l'arcano senza (giustamente) essere costretto a rileggersi tutte e tre le parti del capitolo.
Detto ciò, i capitoli che sto scrivendo ultimamente POV Thorn sono estremamente tristi e mi rincresce, ma non riesco a fare a meno di pensare che il nostro povero e amato intendente dentro abbia TANTA più sofferenza di quanto mostri. E spero che lo scopriate leggendo il quarto libro. E che il quarto libri sani anche questa sua grave mancanza affettiva, non vedo l'ora.
ALTRA COSA IMPORTANTE: io il quarto libro lo leggerò a metà agosto perché mi serve l'atmosfera giusta, ossia le ferie in montagna *-* Ho cominciato a leggere il terzo volume proprio il 15 agosto dell'anno scorso, mi sembra doveroso aspettare per leggere l'ultimo libro nello stesso luogo e nello stesso tempo. Maniacale come Thorn sono. QUINDI non aspettatevi capitoli basati sul vol 4 prima di agosto! Anche perché il libro l'ho preordinato online e chissà quando arriva. Ho già un capitolo pronto, sul 4, a dire il vero, ma devo assolutamente rivederlo in vista della lettura ufficiale del 4° libro, perché magari ho scritto delle castronerie o devo aggiungere cose fondamentali. E' un capitolo sporcaccione eh, vi faccio spoiler xD
Ultimo, non odiatemi, aggiornerò ancora prima di agosto, ovviamente, ho ancora 3 o 4 scene che voglio assolutamente riportare del libro 2 e del 3 e cavolo più ci penso più si moltiplicano, mannaggia, dovrete sopportarmi parecchio, però intanto volevo andare avanti con Ingranaggi dato che sono terribilmente indietro. Rischio di trovarmi con due storie dall'aggiornamento rallentato e lo odierei.
Ok ho finito buona lettura e grazie a tutti vi voglio bene. E' il caso di dirlo: che l'orologio da taschino sia con voi♥
L’Attraversaspecchi II, Gli Scomparsi di Chiardiluna, Le vertigini, pagine 302-314

13. J'avais un doute

Il pranzo non era andato proprio… cioè, era andato così… insomma, era andato.
Thorn non avrebbe saputo redigere un verbale in proposito, e la cosa lo destabilizzava. Lui poteva stilare rapporti su ogni evento, circostanza, a qualsiasi ora del giorno e con qualsiasi umore o incombenza. In quel caso, però, era troppo emotivamente coinvolto per sapere come gestire la cosa.
All’inizio del pranzo l’atmosfera era stata a dir poco tesa. L’inquietudine degli Animisti con cui aveva consumato il pasto era reso prepotentemente evidente dalla mancanza di reazioni, dall’immobilità degli oggetti e dal silenzio. Se c’era una cosa che aveva imparato in quei mesi, sul retaggio di Ofelia e sulle abitudini dei cittadini di Anima, era che: uno, chiacchieravano a briglia sciolta, come se fosse un requisito fondamentale per la propria sopravvivenza, come respirare, e di conseguenza facevano sempre sapere cosa passava loro per la testa senza che nessuno lo chiedesse; due, gli oggetti, in loro presenza, si muovevano, danzavano, lottavano, agivano in qualsiasi modo, solitamente in modo molesto.
Il fatto che nessuno spiccicasse parola, soprattutto la futura suocera, la madre di Ofelia, era a dir poco sconvolgente. Thorn apprezzava il silenzio, o più che apprezzarlo, non tollerava il chiacchiericcio inutile. Non si era mai sentito a suo agio nelle conversazioni, le trovava espedienti poco onesti per passare il tempo. Nel senso che, ad un pranzo o ad una cena, pur di non sentirsi tagliati fuori si era disposti a parlare con chiunque, anche con individui a cui di norma non si sarebbe mai rivolta la parola. Lui era una persona sincera, anche se nessuno avrebbe mai attribuito quella caratteristica ad uno come lui: era troppo positiva. Eppure lo era, sincero. Tanto sincero che non indossava una maschera dettata dal buon costume. Lui non avrebbe mai intavolato un discorso con chicchessia, in nessuna occasione, quindi non lo faceva mai, nemmeno ad un pranzo con i familiari della fidanzata. Era fatto così.
Eppure, in quel caso si era sentito a disagio. Non tanto perché non sapeva cosa dire, come intrattenere gli ospiti, non era quello il suo cruccio, quanto perché Ofelia era agitata. Lo aveva quasi pregato di restare per pranzo, lo aveva afferrato per la manica. Lo aveva quasi toccato. Aveva usato una scusa per trattenerlo, incoraggiandolo a pensare a quell’incontro come a un’esigenza diplomatica.
Thorn non era stato zitto durante il pranzo per cercare un argomento da sviscerare, ma perché era ancora attonito dall’invito e dalle reazioni di Ofelia, e stava cercando di analizzarle minuziosamente. Inoltre, aveva capito che lei ci teneva davvero a fargli fare bella figura con la famiglia, motivo per il quale ogni tanto l’aveva vista cercare di prendere la parola e diventare frenetica, essendo poi ignorata da tutti.
Ma perché voleva che lui facesse bella figura? Ci teneva così tanto al giudizio dei suoi parenti, o voleva solo che loro pensassero bene di lui? E perché avrebbero dovuto pensare bene di lui, poi? Ofelia voleva mostrarlo ed esporlo come un fidanzato modello, cosa che, per quanto si fosse sforzato, non sarebbe mai stato?
Il suo contatto sulla spiaggia di Sabbie d’Opale, lo slancio con cui lo aveva voluto con sé a pranzo, l’impegno che profondeva per farlo piacere… che Ofelia avesse cambiato opinione su di lui? Che si fosse… affezionata, come si era affezionato lui?
Seduto nella cabina teleferica, non faceva che rimuginare sulle ore appena trascorse, come del resto aveva fatto durante il pasto, senza giungere ad alcun risultato. L’inusualità di quella situazione aveva reso la vicenda uno degli enigmi più difficili da risolvere. Alla fine ci aveva rinunciato, a pranzo, esponendo le sue argomentazioni, ossia i possedimenti famigliari e la richiesta di non interferire. Aveva anche provveduto a fornire un domicilio ad Ofelia, adempiendo all’ultima richiesta che gli mancava da ottemperare. La verità era che, sebbene non si fosse aspettato che Ofelia morisse di gioia all’idea di ricevere un castello, cosa che si era dimostrata vera, con sua soddisfazione interna, non si era nemmeno aspettato tanto sdegno da parte della famiglia. Non sarebbe mai stato il genero ideale, lo aveva ribadito. Per questo aveva utilizzato la seconda argomentazione per farsi apprezzare: aveva dato completa libertà ad Ofelia e ai suoi genitori. La questione, spinosa, avrebbe dimostrato una volta per tutte cosa la fidanzata provasse per lui. Sarebbe scappata? Dell’opinione dei suoi parenti gli importava poco o nulla, ma era stato in qualche modo sollevato quando aveva visto la suocera deporre l’ascia di guerra. Certo, le aveva dato praticamente carta bianca, ma almeno non lo aveva più guardato con odio misto a disprezzo e sgomento. Non gli interessava davvero di essere odiato, c’era abituato sin dall’infanzia, ma non voleva dispiacere ad Ofelia. Di conseguenza, dal momento che lei teneva al fatto che lui si facesse… accettare dalla famiglia, si era sforzato più del solito. Per lei.
Ancora una volta, i pensieri di Thorn tornarono ad Ofelia, seduta di fronte a lui con gli occhiali oscurati. Non era ancora in grado di interpretare bene i cambiamenti di colore delle sue lenti, ma il fatto che non fossero chiare e scintillati non doveva essere di buon auspicio. L’aveva delusa? Sperava di no. Gli sembrava di aver fatto dei passi avanti con lei. Che la distanza avesse giovato ai suoi sentimenti? Gli era sembrata così… disponibile e… interessata e… non disgustata. Aveva preso un abbaglio? Ofelia era stata davvero contenta di rivederlo, anche se per caso? Gli era sembrato di sì, ma ora? Come aveva preso il suo exploit a tavola? A giudicare dalla sua espressione, non bene?
Mentre rimuginava su tutti quegli argomenti insieme, desiderando poter spegnere il suo stesso cervello efficiente e iperattivo, per una volta, si augurò che la sorella di Ofelia stesse zitta. Se c’era qualcuno che aveva preso dalla suocera, quella era proprio la cognata. Lei sì che era entusiasta del regalo di nozze della sorella.
- Nove castelli, è str-or-di-na-rio! Su Anima non ce n’è neppure uno, vero sorellina? Solo bicocche caratteristiche e nel migliore dei casi as-so-lu-ta-men-te noiose. Ehilà, la nostra…
Thorn decise di ignorare quel monologo, rendendosi conto che nemmeno Ofelia vi prestava molta attenzione. In effetti, nel giro di poco divenne un soliloquio: Agata stava parlando a se stessa, dal momento che nessuno la ascoltava. A nessuno dei tre presenti sembrava importare. Ofelia continuava a scrutarlo apertamente, mentre lui si fingeva interessato all’esterno della teleferica, guardandola di sottecchi. Agata non si rendeva conto di nulla.
Per quanto Thorn avrebbe voluto che gli sguardi che Ofelia gli lanciava fossero civettuoli, come quando due innamorati non riescono a togliersi gli occhi di dosso, si rendeva conto che in realtà erano penetranti, insistenti. Il che poteva solo dire che Ofelia voleva parlargli, possibilmente da soli. Dovevano sbarazzarsi dello chaperon, e lui non aveva nulla in contrario. Né al liberarsi di Agata, né allo stare da solo con Ofelia. Era arrivato al punto di desiderare di poter stare con la fidanzata a dispetto di qualsiasi convenzione, anche a costo di rimanere con lei solo per farsi bombardare da insulti e lamentele.
Era patetico, ma non sapeva come arginare quelle emozioni. Il fatto che lei fosse diventata così gentile e disponibile nei suoi confronti lo mandava ancora più in confusione, illudendolo e facendo sorgere in lui dei dubbi di natura sentimentale. Non avrebbe dovuto, lo sapeva. Ofelia aveva già chiarito esplicitamente la sua posizione e i suoi pensieri nei suoi confronti. Eppure, non poteva fare a meno di indugiare nella fantasia rassicurante che, in qualche modo, Ofelia avesse cambiato opinione su di lui.
Non gli importava di rimanere scottato.
Trascinato lontano da quei rimestii inutili e deleteri, Thorn si diresse verso l’imbarcadero e successivamente imboccò un tunnel che lo avrebbe condotto sul muraglione. Agata continuava a blaterare, e la cosa cominciava a dargli sui nervi, poco a poco. Aveva già portato abbastanza pazienza. Ofelia invece gli sembrava sempre più agitata e impaziente, chiusa nel suo silenzio riflessivo, mentre la sciarpa le strisciava sul corpo senza meta, anch’essa inquieta.
Fintanto che attraversavano il tunnel, Thorn prestò attenzione a ciò che diceva Agata; non tanto per la natura delle sue domande, quanto perché Ofelia aveva aperto bocca. Si era reso conto che la fidanzata non era proprio quello che si diceva una chiacchierona, anche se poneva più quesiti di chiunque avesse mai conosciuto. Quando parlava era sempre inevitabilmente e fastidiosamente attratto da ciò che avrebbe detto. Era un buon modo per cercare di capire cosa le passasse per la testa.
Ofelia rispose semplicemente alle domande di Agata circa la loro destinazione e il perché Thorn non prendesse il treno. Aggrottò le sopracciglia quando la sentì rispondere in maniera confusa, e non gli fu difficile immaginare che in realtà la sorella avesse capito ben poco di dove stessero andando e perché. Una cosa era certa: Ofelia non avrebbe mai potuto fare la guida turistica.
Quando sbucarono sul muraglione, che la prima volta aveva stupito anche lui, udì il gridolino terrorizzato di Agata. Continuò ad incedere, ma aggrottò ancora di più le sopracciglia. Sarebbe stata in grado di affrontare il camminamento, che dava dritto sullo strapiombo, fino alla porta che si apriva sulla Rosa dei Venti?
Sperava di no.
Circondato da nient’altro che nuvole, continuò ad avanzare finché non si rese conto che nessuno lo seguiva, nemmeno Ofelia. La voce di Agata gli giungeva da lontano, portata via dal forte vento che era un preludio ad una tempesta in grande stile. Il cappotto gli svolazzava da tutte le parti, ma Thorn lo percepiva a malapena: era troppo impegnato a cercare di capire cosa avrebbero fatto la fidanzata e sua sorella. Lo avrebbero salutato e si sarebbero dileguate? Agata sarebbe tornata indietro mentre Ofelia lo raggiungeva? Ce l’avrebbe fatta? Aveva intuito che fosse una ragazza che non si lasciava scoraggiare nemmeno dal più impervio degli scenari, ma quello strapiombo era in grado di far venire le vertigini a chiunque. Sarebbe riuscita ad attraversarlo? O meglio, lo avrebbe fatto lo stesso? Per raggiungerlo e stare con lui ancora un po’?
Ad un certo punto la vide indicare un punto oltre lui, con ogni probabilità la garitta a cui dovevano giungere. Stava cercando di convincere la sorella, dunque. Era davvero intenzionata ad andare…
Quando, poco dopo, la vide camminare verso di lui, da sola, il suo cuore mancò un battito con suo sommo disappunto. Il vento forte le gonfiava il vestito, facendolo agitare da tutte le parti, e Thorn contrasse i muscoli: nel caso in cui fosse inciampata, si sarebbe precipitato al suo fianco per impedirle di cadere. Instabile com’era, sarebbe stato possibile vederla capitombolare anche su una superficie piana in una giornata di sole, figuriamoci su uno stretto e vertiginoso camminamento durante il preambolo di un temporale. Come quando era scivolata sul ghiaccio su Anima, appena si erano conosciuti…
Miracolosamente Ofelia riuscì a raggiungerlo vacillando solo un poco. Non appena gli si affiancò, anche Thorn ricominciò a camminare, questa volta più lentamente, sia per adeguarsi al passo della fidanzata che per prolungare egoisticamente e poco professionalmente il tempo a disposizione con lei. Si era reso conto che, quando si trattava di lei, dello stare con lei, il tempo diventava una questione relativa e non assoluta, e ogni minuto trascorso insieme non era una perdita o uno spreco. Tutt’altro. Sperava sempre che quei momenti durassero più del dovuto. Anche qualcosa di più.
- Ora capisco perché, di tutti i possibili chaperon, avete scelto quella chiacchierona – le disse, rivolgendole la parola per la prima volta da dopo il loro incontro sulla spiaggia di Asgard. A tavola non avevano parlato affatto, ma era piacevolmente sorpreso circa le motivazioni che avevano spinto Ofelia a scegliere Agata come accompagnatrice.
Il fatto che soffrisse di vertigini era un’ottima scusa per poter restare soli. Si meravigliava persino che Ofelia avesse anche solo architettato una cosa simile.
- Avevo una cosa da chiedervi, e ci tenevo a farlo in privato.
Per una volta, fu ansioso di ascoltare le sue domande. Incuriosito. Dubitava che Ofelia volesse chiedergli qualcosa di ambito sentimentale, ma era invece sicuro che lo avrebbe sorpreso, come sempre. – Cosa?
- Le vostre scuse.
Giustappunto. Non era affatto ciò che si era aspettato.
Thorn la osservò dall’alto, senza muovere la testa o vacillare nel cammino. Ofelia, invece, sebbene avesse notato il suo sguardo indagatore, non lo ricambiò. Tentò invece di infilare i capelli nella sciarpa, in modo che non le sferzassero il viso come delle fruste. Ci stava riuscendo con difficoltà. E poco.
Thorn però non aveva percepito il suo tono di voce come stizzito, arrabbiato o imperioso, quanto più… demoralizzato, forse. Non era granché bravo ad interpretare gli stati d’animo altrui tramite il timbro vocale, tanto più che non gli era mai interessato. Pensava di essere arrivato a buon punto con Ofelia, ma ancora una volta lei l’aveva smentito.
Diede voce ai suoi pensieri senza rimuginarci troppo. – Perché dovrei scusarmi? Mi avete chiesto un domicilio e vi offro un castello. Ho mantenuto tutte le promesse che vi avevo fatto.
Invece che una richiesta di scuse, Thorn si aspettava quanto meno un cenno di gratitudine da parte di Ofelia. Aveva ottemperato ad ogni impegno preso con solerzia e meticolosità, dandole ancor più di quanto lei si fosse aspettata. Perché mai lei doveva volere le sue scuse?
- Sto parlando dei miei genitori – precisò finalmente. – Dovevate tranquillizzarli. Vi bastava fare una buona impressione per un’ora, Thorn, solo un’ora. Invece avete fatto un accordo con mia madre.
- E lei è tranquilla.
Questa volta, Thorn lo capì, era esasperata. A lui importava poco di fare buona impressione a chicchessia, fosse anche la suocera. L’unica persona di cui gli interessasse il parere era lì al suo fianco, insoddisfatta. Doveva riconoscerlo, Ofelia non era facile da accontentare.
- Tranquilla? È esultante! Le avete dato pieni poteri sulla mia vita.
Ah, ecco dunque svelato l’arcano. La chiave di volta. Risolta l’equazione, anche se non con metodi convenzionali. Ofelia sceglieva sempre la strada più impervia per esternare ciò che provava. Lui era decisamente più diretto; i giri di parole facevano solo perdere tempo.
Ofelia aveva concluso che la sua libertà fosse stata minata. Aveva percepito quell’accordo come una limitazione al suo potere d’azione. Se c’era una cosa che aveva capito con assoluta certezza, su di lei, era che anelava all’indipendenza come pochi. Voleva essere padrona della sua vita, avere in mano i dadi del gioco, e che non fossero contraffatti. Se avesse potuto, lui le avrebbe dato anche i suoi, purché fosse contenta. Stava lavorando in merito, lei non poteva nemmeno immaginare quanto.
- Le ho promesso che non mi sarei opposto alla sua volontà. Ma la promessa impegna soltanto me.
Ofelia si zittì, continuando camminare in silenzio e fissando dritto davanti a sé. Era evidente che stava riflettendo sulle sue parole, forse rendendosi conto che non c’era nessun tranello. Lui non fece pressione. Non aveva alcuna fretta.
- Mettiamo che vi prenda in parola – disse infine, a voce bassa come suo solito. Faticava a sentirla tra le raffiche di vento, ma in qualche modo era come se ciò che pronunciava fosse più forte del vento stesso. – Mettiamo che me ne vada dal Polo subito dopo la cerimonia del Dono e che non torni più. Vi ritrovereste a essere il più ridicolo dei mariti.
La prospettiva era orripilante; non tanto perché temeva di essere “il più ridicolo dei mariti”, quanto perché una vita senza di lei, ora che ci aveva fatto l’abitudine, era dolorosamente impensabile. Non voleva che se ne andasse; desiderava invece, con tutte le sue forze, che scegliesse di sua spontanea volontà di restare. Anche qualcosa di più.
Voleva che scegliesse lui e quella vita al di là degli intrighi matrimoniali e politici.
Se ne infischiava del ridicolo, ci conviveva da sempre. Quello che non poteva sopportare era che lei, la donna che amava, l’unica che avrebbe mai amato, sicuramente, se ne andasse. Eppure, se la cosa l’avesse decisa lei, non l’avrebbe fermata.
Nonostante tutto, non poté fare a meno di percepire quanto fosse grave il suo tono di voce, quando le rispose. Il fatto che le avesse dato pieno potere d’azione non significava che sarebbe stato imprescindibilmente contento delle conseguenze. – Devo già fare in modo che arriviate viva al matrimonio. Voi mi trasmetterete il vostro animismo, io vi libererò dagli obblighi coniugali e saremo pari. Quello che deciderete di fare poi riguarderà soltanto voi.
Voleva aggiungere che non gli sarebbe dispiaciuto uno scenario diverso, se lei lo avesse voluto; voleva farle intuire che non avrebbe caldeggiato una sua dipartita, e che sarebbe stato… sollevato, se lei fosse rimasta.
“Se vorrete restare al Polo con me potrete farlo, purché lo scegliate voi. Non vi imporrò io la mia presenza”.
Ecco cosa voleva dirle, ma due detonazioni in rapida successione lo bloccarono, portando via ogni rumore e gesto. Nulla di cui preoccuparsi, significava che qualche Bestia si era avvicinata troppo, ma Ofelia sembrava leggermente turbata. Era persa nelle sue elucubrazioni, con le labbra serrate; non faceva nemmeno più caso al vento che le agitava i capelli attorno al viso. Thorn avrebbe tanto voluto che aggiungesse qualcosa, sapere cosa stava pensando. Non gli era mai capitato, e la cosa lo rendeva irrequieto. E frustrato.
- E l’alleanza diplomatica? Voi e Berenilde non avete fatto altro che sventolarmela sotto il naso per tenermi buona. Pensate che Faruk sarà d’accordo a farmi trascorrere le mie giornate all’altro capo del mondo?
Sentirla parlare di un ipotetico futuro in cui lei rimaneva ben rintanata su Anima lo fece quasi rabbrividire. Se fosse accaduto, il fatto che lei non desiderava in alcun modo una vita con lui sarebbe stato evidente, e lui non sarebbe mai potuto nemmeno andare a trovarla. D’altro canto, sentirla nominare Faruk gli fece capire che su Anima quanto meno sarebbe stata al sicuro da qualsiasi male. Al sicuro anche da se stessa. Al sicuro, e lontana.
La preferiva al sicuro? O la preferiva vicina? L’inconciliabilità di quei desideri, come due poli che si respingono, lo stava tediando dall’interno, minando la sua calma di facciata. Non era da lui non saper decidere tra due opzioni.
Alla fine comunque, lo sapeva, avrebbe scelto irrazionalmente di starle accanto, mettendola addirittura in pericolo. Lo avrebbe preferito, piuttosto che non vederla mai più. Ma sapeva anche che non l’avrebbe mai fatto.
Al sicuro. Ofelia doveva stare al sicuro.
- Appena non vi avrà più sotto gli occhi vi dimenticherà – disse infatti, sperando che anche lei volesse salvarsi dallo spirito di famiglia, e sperando al tempo stesso che non lo volesse al punto da tornare sulla sua arca natia. Più di tutto, però, sperò che non le venisse qualche colpo di testa come suo solito, così precisò: - Per lui conta solo il Libro, e il Libro è cosa che…
- …Che riguarda solo voi, lo so.
Subito dopo averlo detto, Ofelia si soffiò il naso, concedendogli un attimo di pausa. Era evidente cosa pensasse di lui a quel riguardo. Era convinta che Thorn lo facesse solo per ambizione e guadagno personale, cosa che in parte era vera. Che male c’era se, per una volta nella vita, voleva affrancarsi dalla sua condizione di bastardo ed essere riconosciuto davvero? Non stava facendo del male a nessuno nel suo tentativo di ripulirsi dall’onta della sua nascita adulterina, cosa di cui non aveva nemmeno colpa. Non ne stava facendo a lei, visto che le aveva offerto tutto ciò che lei aveva richiesto e le aveva dato libertà in tutto. Chiedeva solo in prestito il suo animismo, dopodiché sarebbe stata una sua scelta. Aveva tutta la vita davanti. Ma cosa più importante, non si rendeva conto che la sua smania di essere lui il lettore del Libro non riguardava solo l’elevazione personale. Quell’impresa era la più difficile in cui si sarebbe mai potuto cimentare, la più pericolosa. Faruk non era affatto indulgente con chi falliva nello scopo. Ofelia non poteva saperlo, e lui non poteva dirglielo.
Voleva che stesse lontana dal Libro per salvaguardarla, e lei pensava che invece fosse solo per superbia o arroganza. Non era l’uomo migliore del mondo, ma era migliore della misera considerazione che Ofelia aveva di lui. Quantomeno, si augurava di esserlo.
Ofelia riprese la parola dopo aver messo via il fazzoletto, ricordandogli quando un tempo era lui quello costantemente malato e dalla salute fragile. – Vi siete concesso solo tre mesi per affrontare quella lettura. Pensate di arrivarci senza nessuno che vi insegni a padroneggiare il nuovo potere? Smettetela di voler portare il mondo intero sulle vostre spalle.
Thorn si voltò verso di lei, scrutandola al colmo della sorpresa. Si era aspettato una recriminazione, ma per la sua volontà di ascendere socialmente, di certo non perché si stava buttando a capofitto in un’impresa titanica senza gli strumenti adeguati per affrontarla. Ofelia era sembrata quasi… accorata, preoccupata, partecipe. Era da quando l’aveva incontrato al circo che si comportava in modo diverso dal solito, lo aveva addirittura afferrato per la manica, e ora gli diceva con apprensione che non doveva caricarsi ulteriore peso sulle spalle?
Non era pratico di questioni coniugali, ma sembrava proprio una moglie preoccupata per le sorti del marito, che lo incoraggiava a non strafare. O immaginava che fosse così che una moglie si comportava. La situazione gli procurò una vampata di calore allo stomaco, sciogliendogli i nervi tesi da mesi, anni, con poche parole.
Ofelia si stava… interessando a lui? Si stava impensierendo per lui, davvero?
Che avesse in qualche modo cambiato opinione? Su di lui? Su di loro?
Avrebbe voluto prendere in mano l’orologio da taschino, ma si accorse subito che non poteva, perché ce l’aveva lei. Non era abituato a non averlo con sé, era come una parte del corpo. Si rese conto solo in quel momento, con estrema violenza, di quanto Ofelia lo tenesse in pugno. Proprio come il suo orologio. Proprio come quel cuore che non sapeva nemmeno esistesse, e che invece era persino capace di provare affetto.
- Cos’è successo al muro di cinta, laggiù?
Fortunatamente Ofelia lo distrasse, o forse cercò di distrarre se stessa da ciò che aveva appena detto. Si era pentita delle sue parole? Se n’era vergognata, forse? Cos’aveva voluto dire in realtà?
Si era appoggiata al parapetto e indicava un punto in lontananza, poco visibile. Thorn era abituato a quel paesaggio, ma immaginò che per una come Ofelia fosse sconcertante uno scenario simile. In ogni caso, la sua domanda non riuscì a distrarlo del tutto. Una volta capito cosa stesse indicando, riportò la sua completa attenzione su di lei. Aveva il vestito che si muoveva al vento, quasi volesse portarla via, le mani inguantate posate sul parapetto, a cui si appoggiava anche con il busto, premendosi contro la roccia. I capelli erano aggrovigliati e per la maggior parte incastrati nella sciarpa, che si muoveva, per una volta, non di propria volontà, ma sferzata dal vento. Gli occhiali e gli occhi dietro essi erano fissi sul punto a cui erano interessati, in lontananza, ma Thorn avrebbe tanto voluto che si fermassero a guardare lui, invece del paesaggio. Voleva che scrutassero lui come lui aveva scrutato lei. Non poteva mentire a se stesso, ciò che vedeva gli piaceva al punto da provocargli battiti erratici a più riprese, e talvolta dei formicolii non meglio identificabili allo stomaco.
Ofelia gli piaceva. Così com’era. Anche qualcosa di più.
Con il naso rosso, gli occhiali, i guanti, la sciarpa, i riccioli spettinati, gli occhi intelligenti e profondi, sinceri, e la bassa statura. Davvero, davvero bassa, non solo in confronto a lui.
- È crollato - si costrinse a risponderle, senza però perderla di vista o distogliere lo sguardo. – In quel punto si è staccato un blocco di terra, quattro anni fa.
Ofelia si allontanò subito dal parapetto, come se temesse che potesse crollare di nuovo, proprio in quel punto, proprio in quel momento. Per lo meno, distanziandosi, non avrebbe rischiato di cadere nel vuoto, cosa di cui sarebbe stata capacissima.
- Un crollo? Di quelle dimensioni?
- Non era poi così grande. Due anni fa, su Heliopolis, un’arca minore, si è staccato un blocco di vari chilometri. Non leggete mai le gazzette interfamiliari?
Ofelia scosse la testa, sbalordita, e non parlò per un po’. Fermi entrambi al loro posto, immobili nonostante le correnti travolgenti, rimasero immersi ognuno nei propri pensieri. Thorn avrebbe tanto voluto conoscere i suoi, ma la mente e i processi deduttivi di Ofelia erano insondabili, decisamente al di fuori della sua portata. Provò l’inspiegabile impulso di posarle una mano sulla spalla, per allentare quel sentimento così estraniante che era evidente stesse provando. Non aveva davvero mai sentito del crollo di quei pezzi di arca? Non erano dei casi isolati, anzi, forse Anima era proprio l’unica che fosse scampata in quegli anni.
Fu la pioggia a riscuotere entrambi. Da poche gocce che bagnarono i loro capelli e vestiti si passò subito ad un acquazzone violento e fradicio. Con sua sorpresa, Ofelia non provò nemmeno a ripararsi, e rimase sotto l’acqua con gli occhiali gocciolanti e inservibili, i vestiti aderenti al corpo e freddi. Non era molto attenta alla sua salute, a quanto pareva. Aveva una buona resistenza al dolore, come lui, una delle poche cose che avessero in comune.
Se Ofelia non si fosse riparata gli occhiali con la mano, ad un certo punto, Thorn avrebbe detto che non si fosse nemmeno accorta della tempesta.
- Viviamo in un mondo davvero enigmatico. Leggo da anni ogni genere di oggetti e ho la sensazione di non sapere niente. La terra esplosa in pezzi. Spiriti di famiglia smemorati. Libri indecifrabili. Voi.
Thorn sgranò gli occhi, sperando che lei non lo notasse sotto la cortina di pioggia. Quasi trasecolò, sentendo una vertigine minare il suo impareggiabile equilibrio. Durante quel lungo silenzio aveva pensato a quello? A lui? Al fatto che fosse enigmatico, per giunta? Si rendeva conto che era lei la più grande incognita del mondo, al di là del crollo delle Arche, degli spiriti di famiglia e dei loro Libri, al di là della loro stessa esistenza e di Dio?
Lei era l’incognita, eppure credeva che quello enigmatico fosse lui. Ofelia aveva un cervello… incredibile. Nel senso che proprio non ci si poteva credere, non nell’accezione positiva del termine. Eppure, per un attimo si sentì talmente spinto verso di lei, talmente rincuorato da quelle parole che non sapeva se prendere come un complimento, che fece per parlare e riversare su di lei ogni pensiero recondito e nascosto che cercava di sottomettere da quando l’aveva conosciuta.
Voleva dirle che per lui era lo stesso, che nella sua vita di calcoli, di finanza e amministrazione burocratica, di regole ferree e catalogazioni, in cui tutto era bianco o nero, lei non era il grigio, era un’esplosione di colori, un arcobaleno che gli aveva fatto vedere un mondo che da solo non avrebbe mai intravisto. E che avrebbe voluto conoscerne di più, con il suo aiuto. Perché gli enigmi vanno risolti.
Non poté dire nemmeno la prima sillaba, perché un’altra detonazione risuonò in lontananza. Lo sparo gli risuonò nel cervello, riportandolo alla ragione, rompendo qualsiasi influsso emotivo e irragionevole si fosse impossessato della sua mente.
Non poteva dirle quelle cose, era fuori discussione.
- Sbrighiamoci – la incalzò, rendendosi finalmente conto che era il caso che Ofelia si riparasse al più presto, raffreddata com’era. Mise a riparo il portadocumenti che si stava bagnando per colpa di una sua svista, cosa che non era mai successa. – Non posso trattenermi oltre, e voi state prendendo freddo.
Si sarebbe trattenuto molto più del dovuto con lei, molto di più, e il guaio era proprio quello. Al di là del fatto che nella sua agenda non c’era spazio per quelle chiacchiere, e che stava sottraendo tempo prezioso al suo lavoro, c’era il rischio che dicesse qualcosa di equivocabile come poco prima stava per fare. L’avrebbe solo allontanata, se avesse ceduto. Doveva stare molto attento con lei, essere cauto, anche se Ofelia non gli facilitava il compito. Come prima.
Se ci avesse pensato troppo si sarebbe illuso, e non poteva permetterselo.
Si voltò e si diresse verso la garitta con il tetto a cupola, che almeno offriva un po’ di riparo dalla pioggia torrenziale. Osservò Ofelia gesticolare verso la sorella. Si era aspettato che lo salutasse e si affrettasse verso di lei, ma fu sollevato e grato quando lei lo raggiunse sotto il riparo improvvisato. Non avrebbe dovuto esserlo, eppure da tempo non poteva più nulla verso quello che provava per Ofelia. 
Come a voler confermare i suoi pensieri, lei gli chiese: - Quando tornerete?
Senza troppo riflettere sulle implicazioni della domanda, Thorn rispose in automatico, con tono da intendente: - Ho ancora parecchie ispezioni da fare in provincia.
Subito dopo si rese conto delle incognite del quesito.
Ofelia era… impaziente? Voleva sapere quando sarebbe tornato… perché? Era contrariata all’idea di doversi separare? Improbabile. Forse la sua era mera curiosità. Eppure… il fatto che si stesse comportando in modo strano era irrefutabile. Thorn non voleva prendere un abbaglio, ma lei stava proprio interessandosi a lui. Era… una sensazione travolgente che lo avviluppava da dentro, con la stessa forza degli artigli ma incredibilmente dolce.
Si rese conto che forse Ofelia voleva che lui non partisse. Non era una cosa plausibile, ma allora perché quella domanda?
- Quando volete che torni?
Lo chiese di getto, senza nemmeno pensarci. E si rese conto che, a dispetto di tutti i suoi impegni, sarebbe stato disposto a tornare a qualsiasi ora di qualsiasi giorno Ofelia avesse deciso. Forse non sarebbe nemmeno partito, se lei glielo avesse chiesto.
L’espressione della fidanzata era sorpresa quanto la sua, anche se non lo dava a vedere. Capì di averle fatto cosa gradita prendendola in causa, chiedendo la sua opinione. Aveva compreso quanto odiasse essere una pedina vittima di eventi e decisioni altrui.
– Io? Immagino che dipenda più che altro dai vostri impegni. Cercate soltanto di non dimenticare il matrimonio.
Non del tutto soddisfatto dalla risposta e al tempo stesso tranquillizzato dal fatto che non avrebbe dovuto esentarsi dal lavoro, le rispose come al solito: - Non dimentico mai niente.
Tanto più il loro matrimonio. Il fatto che Ofelia volesse che lo ricordasse significava che allora lei desiderava quell’unione? Una persona che vuole rifuggire un certo avvenimento di sicuro non lo ricorda a chi dovrebbe, per così dire, farlo verificare. Si sarebbe davvero arresa alle circostanze, sposandolo? Per rassegnazione, o per qualcos’altro?
- Ora che mi viene in mente – esclamò di nuovo lei, pulendosi gli occhiali, trascinandolo fuori dai suoi stessi pensieri, -  mi ero scordata di informarvi sull’ultimo capriccio di vostra zia: Berenilde mi ha chiesto di essere la madrina di sua figlia!
Thorn non poté impedirsi di sollevare il sopracciglio. Ofelia era… contenta. Questo era evidente, sebbene il tono fosse quasi sarcastico e incredulo. Eppure, trapelava la gioia che provava al riguardo. La cosa lo scaldò dentro, perché gli diede la certezza che, in qualche modo, Ofelia teneva a loro: lui e sua zia, il suo nucleo familiare, l’unico che avesse mai avuto.
E lui era impaziente di poter considerare lei la sua famiglia.
- Nessun capriccio. Fate parte della famiglia, ormai.
Non aveva mai pronunciato parole più vere di quelle, e lo fece sentire bene poterle esternare, anche se non nel modo in cui avrebbe voluto. Quello che intendeva dire era molto, molto più profondo, ma si sarebbe accontentato di asserire in senso lato che fosse parte della famiglia.
Nonostante tutto, Ofelia sembrava quasi perplessa.
- La proposta non mi sorprende – si costrinse ad aggiungere, temendo di averla turbata. – Mia zia sta per mettere al mondo una discendente diretta di Faruk. I parenti della bambina potranno contare su una posizione di rilievo a corte. Allo stesso tempo anche la mia posizione si consolida.
Non era proprio quello che avrebbe voluto dire, mettendo in luce la componente politica di quella richiesta, ma era più a suo agio a parlare di quegli intrighi che di quello di cui avevano parlato prima; di cui non riusciva ancora ad interpretare tutte le sfaccettature. Avrebbe avuto molto a cui pensare, una volta allontanatosi da lì.
In ogni caso, Ofelia non era portata per quegli intrallazzi. La richiesta di sua zia era stata mirata e intelligente, ma esponeva lo stesso Ofelia ad un certo rischio. L’unica cosa che lui voleva con più ardore di quanto volesse essere accettato dalla fidanzata era che stesse lontana quanto più possibile dalla corte. Renderla la madrina della cugina l’avrebbe messa a rischio.
- Ciò detto, sono dell’opinione che dovreste declinare l’offerta. Il vostro posto non è e non è mai stato la corte.
L’espressione di Ofelia, d’un tratto indurita al di là degli occhiali bagnati e dei capelli appesantiti dall’acqua, gli fece capire di avere sbagliato. Non si era espresso come avrebbe voluto, e lei aveva frainteso.
- Ieri ho conosciuto vostra madre.
Thorn si irrigidì come se la scarica di un fulmine l’avesse attraversato dalla testa ai piedi. Tra tutto quello di cui potevano parlare, non si aspettava un’uscita del genere. Ofelia aveva già provato a tirare fuori l’argomento, in passato, e il fatto che lui avesse sempre chiuso il discorso non la faceva demordere, anzi, accresceva la sua smodata curiosità in merito. Anche qualcosa di più.
L’evidenza che stesse cercando di capirlo meglio, di indagare, di conoscere lui e il suo passato scivolava in secondo piano quando tirava fuori quell’argomento. Rispondeva al novantatré percento delle domande che Ofelia gli poneva, con pazienza, talvolta con curiosità, altre con la volontà di farla entrare, di mostrarsi a lei come non aveva mai potuto fare con nessuno, perché percepiva che Ofelia lo avrebbe accolto, se fosse stato onesto. Sperava che fosse così, almeno.
Ma non voleva, non poteva rispondere ai quesiti che gravitavano attorno alla persona di sua madre.
Nemmeno Ofelia avrebbe potuto farlo cedere in merito.
- Berenilde mi ha raccontato quello che le è successo. Mi chiedevo… - borbottò Ofelia, leggermente meno spavalda di quando aveva affermato di aver conosciuto sua madre. Troppo poco intimorita, però, per demordere. – Se davvero avete ereditato la sua memoria prima della Mutilazione, vi sarebbe possibile… ecco… rendergliela? Non sto dicendo che meriti un gesto d’affetto da parte vostra. So che vostra madre non ne ha avuti per voi. Avevo soprattutto la sensazione che la sua memoria fosse un fardello supplementare.
Thorn sentiva i denti formicolargli da quanto stringeva la mascella, i tratti del volto contratti. Quell’argomento… lo odiava. Non voleva sentire nulla che riguardasse quella donna. Nulla. Berenilde doveva aver accennato ad Ofelia qualcosa della sua infanzia e nascita, ma Ofelia non aveva il diritto di indagare. Nessuno ce l’aveva, quella era una questione sua.
Lui non aveva avuto una madre. In senso biologico sì, ma non nell’accezione… figurativa del termine, se così si poteva dire. Nemmeno Berenilde poteva essere considerata sua madre. Lo aveva amato, questo era innegabile, lo aveva salvato, ricoperto di cure e affetto, gli aveva dato una casa e un riferimento, gli aveva spianato la strada. Gli voleva bene, davvero. Ma non poteva considerarsi sua madre tanto quanto lui non si era mai considerato suo figlio. All’inizio lo era stato, forse, ma poi era diventata madre davvero. L’adorazione che aveva nutrito per la sua prole era imparagonabile all’affetto di zia che provava per lui. Eppure Thorn non si era sentito di criticarla per questo: aveva fatto già abbastanza, crescendolo e standogli accanto.
Il suo orologio era il regalo più bello che avesse mai ricevuto.
Ma la donna che lo aveva messo al mondo... Ricordava quel tanto che bastava per odiarla: la trasmissione della sua Memoria, che lo aveva marchiato a vita; l’abbandono di fronte alle sue continue fragilità immunitarie; col tempo aveva scoperto degli intrighi politici, degli assassinii, addirittura, dell’inganno seduttivo a danno del padre, della falsità con Faruk e della distorsione della veridicità della storia del Polo.
Gesti d’affetto? Non ne avrebbe mai avuti per lei, e quella stessa insofferenza e indifferenza non erano nulla in confronto a ciò che lei aveva perpetrato.
Sua madre era stata la prima persona a rifiutarlo. Dopo di lei, ne erano giunti molti altri, ma nessuno gli aveva mai fatto male come lei. Quale madre… abbandona il proprio figlio? Quale?
Nessuno gli aveva mai fatto male come lei, sì… e nessuno aveva continuato a fargliene allo stesso modo.
Forse Ofelia avrebbe potuto surclassare quel dolore e infliggergliene un nuovo tipo, sconosciuto, che temeva con tutto se stesso. Ormai era consapevole di come Ofelia lo tenesse in pugno, e che nessuno avrebbe mai potuto ferirlo come lei.
- Voi non sapete niente – disse con calma, eppure terribilmente gelido all’interno, e di sicuro non tranquillo.
Quei pensieri, quei ricordi, quelle insinuazioni gli stavano urtando letteralmente il sistema nervoso, e i suoi artigli maledetti si stavano librando nell’aere attorno a sé, impazienti, bramosi, come se fossero vivi e chiedessero sangue. 
Doveva trattenerli ad ogni costo.
- In effetti non so nulla – ammise Ofelia a labbra strette, per nulla soddisfatta.
Bastarono quelle parole a calmarlo. Perché Ofelia voleva sapere di più su di lui? Perché cercava di insinuarsi tra le sue difese?
Doveva allontanarsi da lì.
Prese il mazzo di chiavi dell’intendenza e le introdusse nella serratura, pronto ad andarsene. La garitta si aprì su una delle tante Rose dei Venti, circolare e luminosa. Prima di imboccarla e andarsene, però, non poté fare a meno di fare alcune raccomandazioni.
Per quanto a volte le sue domande fossero fuori luogo, la presenza di Ofelia era davvero di conforto, piacevole. Anche qualcosa di più.
- Non allontanatevi più dall’albergo. Fino al mio ritorno state attenta a chi frequentate, a quello che mangiate e all’aria che respirate. L’Invisibile veglia su di voi, cercate di non renderle il compito più difficile. Se seguite alla lettera le mie raccomandazioni non vi succederà niente.
L’Invisibile appena menzionata era lì con loro, da qualche parte, ma Thorn era stato talmente preso da Ofelia da aver quasi dimenticato la sua presenza, fino a quel momento. Quasi. Lui non dimenticava mai nulla, e la verità era che aveva cercato di ignorare il fatto che fosse lì con loro per fingere di essere da solo con Ofelia.
Al contrario suo, quest’ultima doveva proprio aver dimenticato che erano in tre, perché si guardò alle spalle, alla ricerca di qualcuno che non avrebbe visto.
Thorn la vide rabbrividire, e fu deciso ad andarsene immediatamente per evitare che si raffreddasse ancora di più. Non era nemmeno al massimo della sua salute fisica, rimanere bagnata avrebbe solo peggiorato la situazione.
Ancora una volta, però, lei intervenne per fermarlo nella sua determinazione.
- Aspettate – disse prendendo di tasca l’orologio da taschino. Il suo orologio. Vederlo stretto tra le mani di qualcun altro fece uno strano effetto a Thorn. Soprattutto se quel qualcuno era Ofelia. – Prima che partiate vorrei rendervi questo. Ne avete più bisogno di me, e comunque non lo leggerò. Ho scelto di dare fiducia a voi, non al vostro orologio.
Il cuore di Thorn si bloccò. Non si rese nemmeno conto del fatto che le sue parole si erano affievolite sul finire della frase, come se avesse perso slancio, se si fosse vergognata o fosse accaduto qualcosa. Ofelia fissava il suo orologio con orrore, stupita e dispiaciuta, cercando di dire qualcosa e non riuscendoci.
A Thorn in quel momento non importava. Stranamente, per quanto fosse intimamente legato a quell’oggetto, non gli sarebbe importato nemmeno se Ofelia glielo avesse reso in pezzi, cosa di cui sarebbe stata capace. Invece no, glielo stava rendendo dopo averlo tenuto con cura, e non l’aveva letto.
Non. L’aveva. Letto.
Aveva deciso di dare fiducia a lui. Dare fiducia. A lui.
Quella sottospecie di rivelazione lo aveva reso più attonito di qualsiasi altra dichiarazione gli fosse mai stata rivolta, o minaccia, o affermazione. Ofelia non aveva volutamente letto l’oggetto che più conteneva i suoi stati d’animo e le sue emozioni, la sua personalità, il suo io. Le aveva dato il permesso di sondare se stesso concedendole di tenere quell’orologio, e Ofelia non aveva voluto. Non aveva scoperto quanto fossero incomprensibili e potenti i sentimenti che provava per lei, quanto la sua presenza lo avesse sconvolto, cambiato, quanto fosse stata anaffettiva la sua vita e ferale la sua infanzia, quante minacce avesse ricevuto, quando dolore, quando stringeva l’orologio con i tagli ancora sanguinanti. Non lo aveva letto. E questo perché voleva che fosse lui a svelarsi a lei, e non che un oggetto glielo mostrasse.
Ofelia voleva conoscerlo davvero, e voleva che fosse lui a farsi conoscere. A mostrarle che poteva fidarsi di lui, con le azioni, non con il suo passato e i suoi pensieri.
Quella era… la situazione più commovente che avesse mai vissuto.
- Non… non capisco – balbettò Ofelia, riportandolo al presente, nonostante si sentisse ancora la testa imbambolata come mai gli era capitato. In automatico richiuse il pugno sul suo orologio, che ai suoi occhi era diventato ancora più prezioso. Si accorse che la lancetta dei secondi non girava più, ma non era un dettaglio fondamentale in quel momento. – L’ho caricato stamattina… Forse un granello di sabbia l’ha inceppato…
Stava vaneggiando, preoccupata, perché aveva percepito quanto quell’orologio gli fosse caro. Era dispiaciuta per qualcosa di cui forse non aveva nemmeno colpa, per lui. Nessuno si era mai rattristato per lui.
Un dubbio atroce gli attanagliò le viscere, e questa volta non riuscì a sopprimerlo.
Ofelia aveva… aveva passato la mattinata con lui al circo, evidentemente non infastidita dalla sua presenza; gli aveva chiesto calorosamente di pranzare con la sua famiglia, di fare buona impressione; lo aveva seguito fin là, sul muraglione, portandosi appresso una sorella che soffriva di vertigini per restare, questo era palese, sola con lui; aveva parlato come se temesse che lui se ne andasse; lo aveva definito un enigma, e non con accezione negativa; aveva cercato di sondarlo, di capirlo, di farlo aprire…; gli aveva chiesto quando sarebbe tornato come se l’idea di non vederlo le fosse difficile da sopportare; gli aveva ricordato il matrimonio, come se lo attendesse con impazienza; e ora quello.
Gli aveva ridato l’orologio, vergine di letture, perché voleva fidarsi dell’uomo che era, e non dell’uomo che avrebbe letto.
Ofelia non… non lo odiava. Non lo disprezzava. Non provava repulsione.
Non si poteva certo dire che lo amasse, ma, forse…
Un dubbio. Un dubbio che non era più sopprimibile.
- Il mio prozio sa aggiustare qualsiasi oggetto. Forse sarebbe meglio che me lo lasciaste ancora un po’.
Con il pugno ancora stretto sull’orologio fermo, come il suo cuore, come il sangue nelle sue vene, come la sua mente, come la sua vita e il tempo che non scorreva più, Thorn le avrebbe lasciato qualsiasi cosa. Qualsiasi lei avesse chiesto.
Invece di risponderle, intenerito dalla sua preoccupazione, seppe che non avrebbe potuto trattenersi. Non più. E non voleva trattenersi. Non aveva mai sperimentato quel bisogno di… contatto e calore, quel bisogno di sentirsi fisicamente vicino a qualcuno. E ciò che aveva seppellito per anni emerse con forza, propagando un’onda d’urto in tutto il suo corpo.
Se davvero Ofelia non lo aborriva, se davvero si sentiva… in qualche modo legata a lui, non lo avrebbe respinto. Giusto?
Thorn non avrebbe esitato. Non accettava i dubbi, non ce n’era mai stato lo spazio nella sua vita e nel lavoro che svolgeva.
Si chinò su di lei, volutamente, irrefrenabilmente. Si chiese se l’avvicinamento richiedesse tanto tempo per via della loro differenza d’altezza o perché il tempo si stava effettivamente dilatando, prolungando quell’attimo più di quanto non sembrasse.
In un attimo posò le labbra sulle sue, e per un istante si sentì morto: non respirava, non pensava, non esisteva nemmeno. Poi, quando prese coscienza del fatto che stava effettivamente baciando un’altra persona, anzi, Ofelia, percepì quasi la pioggia evaporare dal suo cappotto, tanto si sentiva andare a fuoco.
Era… era una sensazione indescrivibile. Il solo contatto delle labbra morbide di Ofelia lo spingeva a volerne di più, a rimanere lì in eterno, o forse solo per un secondo, per poi approfondire quell’incontro. Non era schifato, tutt’altro. Era proprio attratto dalla sua bocca, dal suo corpo, da Ofelia stessa.
Il dubbio che lui l’amasse non c’era mai stato, ma la realtà lo colpì come un pugno violento, un’artigliata, e sperò di non aver frainteso le parole e i gesti di Ofelia durante quella giornata. Non poteva… non voleva più vivere separato da lei.
L’amava, ed era un fatto inconfutabile.
Nel giro di un battito di ciglia si rese conto di tutto questo, e del fatto che Ofelia non si era ritratta. Sentì i capelli spiovergli sulla fronte, bagnando entrambi, e provò ad approfondire quel bacio leggero sperando di non incontrare resistenza. Ne voleva di più, lui che odiava quel genere di cose, ne voleva molto di più. Non si sarebbe più chiesto cosa la gente trovasse tanto inebriante in un bacio. Aveva sempre provato disgusto per quel gesto che per lui era solo uno scambio di microbi e una violazione di spazio vitale. Invece… no, non avrebbe più criticato.
Provò a schiudere le labbra di Ofelia, timidamente, andando a tentativi, ma lei non sembrava molto collaborativa. Eppure, non sembrava nemmeno recalcitrante.
Tutto finì velocemente com’era cominciato.
Ofelia trasecolò sotto di lui, uno schiaffo lo colpì in pieno sulla gota, con uno schiocco che lasciava bene intendere che la mano avesse centrato il bersaglio.
Uno schiaffo.
Ben lontano dall’essere il colpo più duro che avesse mai ricevuto, fu quello che gli fece più male in assoluto. Con un solo, esile schiaffo, Ofelia aveva mandato in frantumi tutto quello che, dalle profondità dell’anima di Thorn, era risalito lentamente in superficie, in cerca di luce, in cerca di lei.
Non si era ritratta. Gli aveva proprio dato uno schiaffo.
Mentre si raddrizzava rigidamente, si massaggiò la guancia, che pure non gli faceva male. Era un riflesso involontario, ma non poté evitarlo. Guardò di lato, incapace di incontrare il suo sguardo.
Codardo. Non voleva vedere il disprezzo nei suoi occhi, la sorpresa mista ad ira e probabilmente disgusto. Aveva preso Ofelia talmente alla sprovvista che lei aveva impiegato più del solito a capire cosa stesse succedendo, ecco perché non lo aveva respinto subito.
Non voleva guardarla. Aveva visto troppe volte l’espressione di orrore nei suoi confronti sui visi altrui. Non voleva vederla anche sul suo.
- Ascoltate – farfugliò lei, interrompendo il silenzio plumbeo per prima. – Non volevo… non avreste dovuto…
Non voleva cosa? Era stato stupido ad illudersi. Non avrebbe ricommesso lo stesso errore.
- Avevo un dubbio – la interruppe, distante. Un dubbio invadente e pressante, pungente. Un dubbio stupido e… utopico. – Voi l’avete dissipato.
Thorn non la vide arrossire. Non voleva vedere nulla. Si girò e si piegò per passare sotto la porta della garitta ridicolmente bassa. Aveva un dubbio che lui aveva fatto sorgere in sé. Ofelia non aveva colpe. Non le avrebbe dato la colpa. E, inutile dirlo, non avrebbe cambiato ciò che provava per lei.
Non poteva. Non ci riusciva. Gli rincresceva solo che fosse costretta a sposare un uomo che davvero non le confaceva. Non le avrebbe dato la colpa nemmeno di quello. E non l’avrebbe costretta a sopportarne le conseguenze.
Le diede le spalle e le disse: - Farò in modo che sopravviviate fino al matrimonio. Quando tutto sarà concluso tornate a casa con la vostra famiglia. Il ridicolo non mi ha mai ucciso.
Thorn chiuse la porta e, solo dopo essersi assicurato di non poter più vedere Ofelia si voltò, chiudendola a doppia mandata. Gli sembrò un gesto simbolico, alquanto insolito per una persona realistica e razionale come lui.
Gli sembrava di aver chiuso il suo cuore a doppia mandata.
Dopo aver indugiato un secondo di troppo, si rese conto di avere ancora l’orologio da taschino in mano. Lo fissò, adocchiando trucemente le lancette ferme. Rotto o no, quell’oggetto era una sorta di portatore di memoria, per lui. Il regalo della zia, legato alla sua infanzia… e il pegno che aveva dato alla fidanzata, che l’aveva definitivamente rifiutato.
Non gli interessava che funzionasse, gli avrebbe sempre ricordato lei. Anche quando se ne fosse andata. Perché era ciò che avrebbe fatto, come chiunque altro nella sua esistenza: se ne sarebbe andata. Si era presa la vita del suo orologio così come si era presa tutto ciò che in lui aveva appena cominciato a sbocciare.
Si allontanò, pronto a ricoprire nuovamente il suo ruolo da intendente, cercando di non pensare al matrimonio imminente. Non si chiese cosa stesse facendo Ofelia.
Se avesse saputo che era ancora ferma dietro la porta della garitta, inconsapevolmente delusa, pentita, in preda al senso di abbandono e alla speranza che lui si riaffacciasse sull’uscio, forse sarebbe tornato indietro e avrebbe ritentato un bacio. Forse avrebbe incontrato meno reticenza. Forse lei gli avrebbe chiesto scusa, smentendosi. Forse lo avrebbe respinto con ancora più determinazione.
Forse…
Thorn serrò la mascella, in collera con se stesso. Portava ancora sulla guancia la prova di ciò che l’indecisione provocava. La prova del fatto che i dubbi laceravano il mondo.
Lui amava Ofelia. Lei non amava lui. La cosa non sarebbe mai cambiata.
Non aveva più dubbi.

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Capitolo 14
*** Anch'io vi amo ***


Allora. C'è una parte, in cui Thorn si mette a calcolare quantitativi di microfilm nelle bobine nelle scatole, in cui oltre a sembrarmi di essere tornata a scuola, a risolvere problemi sui quantitativi di mele ecc, ho coinvolto mio fratello per fare dei calcoli che fossero realistici. Mi sono stufata subito quindi non so se sono giusti. Non fate dei controlli, per favore. Tutto qui xD Non controllate se ho scritto giusto.
Conclusa questa parentesi imbarazzante, questo capitolo mi era stato suggerito da Valy1090 anche se avevo già in programma di analizzarlo. Il primo bacio VERO signori. Capitolo scorso, il bacio andato male, questo capitolo il bacio andato bene e nel prossimo... mah *faccina furba*. Vi lascio immaginare.
Spero che vi piaccia e accetto qualsiasi critica costruttiva vogliate lasciarmi, ci sono andata giù pesante con Thorn e la parola "amore" perché il poveraccio è allo stremo, almeno io l'ho percepito così. Caro lui xD
L’Attraversaspecchi III, La Memoria di Babel, Le parole, pagine 414-422


14. Je vous aime aussi

Thorn era confuso. Determinato. Sbalordito. Indignato.
Tutto insieme. Non gli piaceva sentirsi così. Ogni volta che Ofelia era nei paraggi si sentiva così, perché, inutile a dirsi, lei metteva a soqquadro il suo mondo in un modo del tutto imprevedibile. Come in quel momento. Lei non era direttamente implicata nella faccenda mentre, seduto nel Secretarium di fronte all’Ordinatore, osservava con attenzione l’aspirante virtuoso di fronte a lui; anche se, correttamente, sarebbe stato nominato aspirante virtuoso nel giro di poco. La cerimonia si sarebbe svolta tre ore e diciassette minuti dopo, e Octavio, il figlio di Lady Septima, avrebbe ottenuto i gradi. Obiettivamente, Thorn non avrebbe saputo dire se li avesse meritati imparzialmente per il suo lavoro e il suo talento o solo per i favori e i sotterfugi di Lady Septima, ma qualcosa, negli occhi decisi del ragazzo, nel suo portamento fiero eppure intimorito, nella stessa decisione di vederlo con così tanta insistenza gli fece pensare che forse, solo forse, la sua promozione sarebbe stata meritoria. In ogni caso aveva ben altro a cui pensare che non alla giustizia delle promozioni e delle nomine di un sistema già di per sé corrotto.
Octavio gli aveva rivelato tutto. Tutto quello che era successo. Con Ofelia. Thorn, in quanto Sir Henry, sapeva tutto ciò che di strano accadeva all’interno del Memoriale, e la sparizione di due precorritori era qualcosa di strano, tanto più se uno dei due fuggiaschi altri non era che il figlio di Lady Septima, una delle più influenti rappresentati di Lux e insegnante. Il fatto che Ofelia fosse con lui lo aveva resto oltremodo… infastidito, dalla cosa. Ma non voleva pensare al perché Ofelia avesse dormito fuori con Octavio.
Non voleva pensarci, eppure il pensiero lo pungeva come un’ape fastidiosa ancora, e ancora, all’angolo della sua coscienza, facendogli diventare quel giovane e basso precorritore ancora più antipatico. Aveva l’età di Ofelia. Aveva quasi la sua statura. Aveva altro, in comune con lei? Qualcosa che lui non avrebbe mai potuto avere?
Thorn si intimò di darsi una calmata. Sapeva che Octavio, in quanto Visionario, interpretava ogni suo gesto e minimo cambiamento d’espressione, un po’ come Ofelia leggeva gli oggetti. Come avrebbe inteso la sua mascella contratta, il cipiglio che si faceva più marcato di attimo in attimo? Non doveva pensare ad Ofelia.
Doveva pensare alle rivelazioni di Octavio. Su E. D., su quei libri distrutti da miss Silence, sul Senza Paura e Quasi Senza Rimprovero, sul professor Wolf, sulla Lacerazione. Sul fatto che Ofelia era riuscita così facilmente a capire quale fosse il libro che cercava, mentre lui aveva impiegato anni a catalogare, analizzare e setacciare tutto lo scibile in quella gigantesca biblioteca che era il Memoriale.
Ofelia aveva trovato ciò che a lui serviva. La chiave di volta. La soluzione dell’equazione. Ed era una notizia di portata incredibile. Ora doveva solo rintracciare quel libro per bambini, portarlo ai Genealogisti, e continuare con le sue ricerche. Si rese conto che Ofelia, alla fine, lo aveva davvero aiutato, anche se lui l’aveva accusata di avergli fatto perdere tempo. Tempo, sì, gliene aveva fatto effettivamente perdere quando non si era fatta trovare, e lei non si era trattenuta dal rivolgergli a sua volta delle accuse, ma se solo avesse saputo… l’avrebbe aiutata, avrebbero collaborato. Insieme. Perché invece aveva coinvolto Octavio, il figlio di una loro nemica, completamente inaffidabile? O affidabile, dal momento che si trovava di fronte a lui, dopo avergli rivelato ogni singolo fatto?
Aveva troppo lavoro da svolgere per soffermarsi anche ad analizzare se la presenza e la confessione di quel precorritore fossero un bene o un male. Troppo lavoro.
Analizzò l’aspirante virtuoso con la stessa intensità con cui quest’ultimo osservava lui, due animali che si scrutavano a vicenda. Octavio era impettito, come a volerlo sfidare a mettere in dubbio le sue parole. Sembrava persino fiero, come se parlare fosse stata una liberazione per lui. Aspettava un responso con quieta determinazione, anche se Thorn era più bravo a mascherare la trepidazione. Si augurò che, per quanto fosse bravo come Visionario, nemmeno Octavio potesse leggere il suo volto.
- Sono informazioni cruciali, avete fatto bene a farmi rapporto.
Octavio ebbe un leggero tentennamento prima di riprendere la posa statuaria. Interpretò la reticenza di Thorn a parlare come un invito ad esprimersi lui stesso, così intervenne. – Vi ringrazio, sir Henry. Ho riferito quanto vi ho detto anche a mia madre, ma… credo che riportare l’accaduto anche a voi sia stato utile per avere un altro punto di vista.
- Certo – riprese Thorn, indeciso su cosa dire o meno. Scelse di non dire nulla. – Le vostre rivelazioni mi hanno dato molto su cui riflettere e lavorare, avete reso un buon servizio ai lord di Lux e agli stessi Genealogisti. Al contrario di ciò che sostiene Lady Septima, come mi avete riferito, le vostre parole vanno ben oltre semplici vaneggiamenti. Bisogna indagare. Credo però che ora dobbiate andare a prepararvi in vista della cerimonia.
Se era contrariato da quel congedo, Octavio non lo diede a vedere. Anzi, parve addirittura sollevato.
- Vi ringrazio, sir Henry.
Agendo d’impulso, Thorn afferrò le chiavi del Secretarium. Forse si sarebbe pentito di quella scelta, forse sarebbe stato un atto scellerato, ma se Ofelia si fidava di quel tale, doveva fidarsi anche lui. Certo, Ofelia si fidava anche di Archibald, individuo a cui non avrebbe affidato nemmeno una scarpa bucata, ma doveva fare un atto di fede. Doveva fidarsi di Ofelia.
- Se volete ringraziarmi, dovete far pervenire queste alla precorritrice Eulalia – disse allungando in punta di dita le chiavi. – Devo vederla da solo, subito dopo la cerimonia, quando sarà più difficile notare la sua assenza.
Octavio si avvicinò senza esitazioni per prendere le chiavi che Thorn gli tendeva, e lui fu ben attento a non toccarlo. Non ci teneva a far incontrare le loro mani, le loro pelli. Il solo pensiero gli faceva sorgere una sorta di nausea, un certo malcelato disgusto. Anche un po’ di più. Sentì l’impulso di prendere il disinfettante per ripulirsi, ma si trattenne. Doveva attendere.
- Farò come dite, sir Henry.
Perso nelle sue elucubrazioni, Thorn quasi non si accorse della sua uscita. Sperò solo che Octavio non avesse frainteso il suo intento di vedere Ofelia da sola. Avrebbe potuto pensare, in fondo, che lui volesse sentire anche la sua versione dei fatti, cosa probabile e addirittura doverosa. Ma sapeva che Octavio vedeva ben oltre le parole di una persona, leggeva gli intenti. E Thorn non voleva vedere Ofelia solo per ascoltare la sua versione dei fatti.
Si alzò con impazienza, pronto a mettersi al lavoro. L’incontro con i Genealogisti era fissato per l’indomani mattina, e lui aveva tempo solo fino alla fine dei festeggiamenti per ritrovare quel libro che cercava da due anni, dieci mesi e cinque giorni. Due anni, dieci mesi, cinque giorni e sette ore. E Ofelia lo aveva trovato in meno di tre mesi. La cosa assumeva una portata ridicola.
La sua mente lavorava febbrilmente, scartando variabili e giungendo a soluzioni che a loro volta creavano nuova incognite, da risolvere utilizzando metodi sempre diversi. Come trovare un libro nel minor tempo possibile? Non poteva andare a frugare in ogni scaffale del Memoriale, ci sarebbe voluto troppo tempo. Inoltre, sapeva per certo, da quanto Octavio gli aveva detto, che non li avrebbe trovati lì, a disposizione di tutti. Doveva consultare l’Ordinatore? No, il metodo di catalogazione che aveva progettato era buono ma gli avrebbe impiegato troppo e non era nemmeno sicuro che il libro di E. D. fosse stato registrato. Inoltre, se anche avesse trovato la sua ubicazione nell’archivio, era impossibile che il libro fosse ancora al posto in cui era stato assegnato, sempre per via di miss Silence e della sparizione. E si trovava al punto di partenza. Doveva esserci un modo per consultare ogni singolo libro presente al Memoriale nel giro di poco, molto poco. Ma come?
Mentre si dirigeva verso la sua camera per disinfettarsi le mani, che sentiva sudicie come il resto di sé, la targhetta appesa fuori dalla camera che indicava la presenza della porta quasi invisibile e un lampo di luce giunto da fuori dalla finestra gli fecero avere un’illuminazione.
Era una buona idea. Anche un po’ di più.
 
Tre telefonate dopo, Thorn era quasi certo che sarebbe riuscito a trovare il libro entro la scadenza prefissata. Sessant’anni prima c’era stata l’Esposizione interfamiliare, al Memoriale. Allora il metodo di archiviazione era stato talmente grossolano e approssimativo da essere impossibile da catalogare. Decisamente scadente. La maniacalità insita in Thorn lo spingeva ad aborrire quel sistema, o meglio, a volergli porre rimedio, ma decisamente non aveva tempo. In occasione dell’Esposizione erano stati realizzati dei microdocumenti contenenti copia di tutti i libri esposti. Sessant’anni prima i libri di E. D. non erano a rischio estinzione da parte di Miss Silence e, se davvero risalivano a prima della Lacerazione, sicuramente sarebbero stati contenuti all’interno dei microfilm. Con la prima telefonata Thorn era venuto a conoscenza dell’Esposizione, con la seconda dell’assenza di catalogazione dei microfilm che erano conservati poco distante dal Secretarium e con la terza aveva chiesto che gli venissero portati con urgenza tutti i microfilm insieme all’attrezzatura necessaria a scorrerli uno ad uno. Quando l’operatore aveva provato ad obiettare che stava per iniziare la cerimonia per la consegna dei gradi, Thorn aveva perso la pazienza. Il tono del precorritore incaricato del fattorinaggio si era fatta subito terrorizzata quando sir Henry aveva accennato al volere diretto dei Genealogisti.
Aveva una pista. E calcolò che ci sarebbero voluti circa dieci minuti prima che il precorritore insieme ad altri due o tre compagni gli portassero quanto richiesto. Non aveva avuto bisogno di minacciare nessuno, la seconda volta che aveva avanzato una richiesta. Odiava ricorrere a simili sotterfugi, citare l’influenza dei lord di Lux, ma era in ballo il futuro di Ofelia. Non contava il fatto che, se entro la mattina successiva non avesse avuto nulla da provvedere ai Genealogisti, loro avrebbero fatto sparire dalla circolazione la sua identità fittizia e, di conseguenza, lui. Anche un po’ prima della mattina dopo, a dire il vero. Lui non contava, la sua vita non contava. Non aveva mai contato; per nessuno, tanto meno per se stesso. Ma la vita di Ofelia era un altro paio di maniche.
In quei dieci minuti cercò di sgomberare il più possibile la camera dell’ordinatore, di sistemare un tavolino di fronte ad un muro spoglio per posarci il proiettore di diapositive, ad una distanza di un metro e cinquanta centimetri per poter visionare gli ingrandimenti dei libri senza dover strizzare gli occhi. Avrebbe dovuto lavorare alacremente, non era il caso che i suoi occhi si stancassero troppo. Gli servivano.
Gli rimanevano ancora quattro minuti e dodici secondi quando finì di preparare, tempo che impiegò per disinfettarsi con cura le mani, nella camera adiacente. Non impegnata a coordinare qualche lavoro fisico o a calcolare le sistemazioni e le soluzioni al suo problema, la sua mente corse a briglia sciolta verso quello che sembrava essere il suo unico chiodo fisso: Ofelia.
Confusione. Determinazione. Sbalordimento. Indignazione. Riaffiorarono in lui, tutte insieme, con prepotenza, rendendogli impossibile ignorarle.
Confusione. Cos’era lui per Ofelia? Niente, a dire il vero, quella risposta non era confusa. Quante volte le aveva chiesto, quando si erano incontrati, se avesse qualcosa da dirgli? Qualsiasi cosa. Qualsiasi. Ma lei non diceva mai nulla. Eppure persino lui si era reso conto che… lo cercava. Prolungava volutamente i loro discorsi, come per prendere tempo. Però, quando lui l’aveva baciata, lo aveva respinto violentemente, nel vero senso della parola. L’eco dello schiaffo che gli aveva dato gli bruciava ancora, dentro. Nell’orgoglio. Nel cuore. Allora perché era andata a cercarlo? Perché lo aveva trovato? Perché era così accanita? Solo perché voleva risolvere il mistero di Dio, dell’Altro, perché si sentiva minacciata? O c’era qualcosa di più, che riguardava lui? Perché quella donna, sua moglie, si ricordò con un moto di possessività ingiustificata, non parlava chiaro? Cosa voleva da lui? Ciò che lui voleva da lei era chiaro come una giornata tersa. Non glielo aveva nascosto. Le aveva promesso che non le avrebbe più nascosto ciò che la riguardava direttamente, e così era stato.
Determinazione. Voleva venire a capo dell’arcano, voleva ridare al mondo i suoi dadi. Voleva mettere al sicuro Ofelia, darle la possibilità di scegliere tutto ciò che voleva. Perché Ofelia, più di tutto, desiderava essere indipendente, essere padrona della sua vita. Inutile dire che Thorn sperava che, in qualche modo, lui rientrasse nella sua scelta. In ogni caso, aveva un lavoro da portare a termine, ad ogni costo, e non aveva intenzione di permettere a Dio o chi di per sé di minare la libertà e l’esistenza di Ofelia. Voleva strapparlo da Ofelia. Quella determinazione gli faceva fremere con orrore gli artigli, che bramavano il sangue quando lui si lasciava trasportare dal pensiero di quell’essere e della trappola che rappresentava. Cercò di tenerli a bada con scarsi risultati.
Aggiunse altro disinfettante alle mani, sentendosi ancora più sporco di prima.
Sbalordimento. Ofelia, in un modo o nell’altro, causava talmente tanti disastri che ormai Thorn era sicuro di poter trovare lei al centro di qualsiasi sciagura si abbattesse sulle arche. Più volte, durante la sua lontananza e il suo isolamento a Babel, aveva setacciato i giornali interfamiliari, concentrandosi con accanimento sulle notizie più nefaste, temendo di trovarci una sua foto. Fortunatamente nessun problema verificatosi sulle altre arche sembrava essere legato ad Ofelia, ma Thorn aveva sinceramente paura ogni volta che leggeva una brutta notizia. Eppure, nonostante la sua presenza ovunque ci fossero catastrofi, quasi le piacesse trovarsi in pericolo, era sempre quella che trovava la soluzione per prima. In qualche modo riusciva sempre a farsi amico qualcuno, come Octavio, e chissà chi altri, grazie all’aiuto dei quali indagava e risaliva alla fonte di tutti i problemi. Thorn si ricordava ancora del coinvolgimento di Renard nel caso degli scomparsi di Chiardiluna, del suo intervento tempestivo e dell’aiuto che aveva fornito ad Ofelia. Lei… attirava le persone in un modo che gli era incomprensibile. E questo lo rendeva estremamente geloso. Ofelia piaceva. Si faceva amici e alleati senza difficoltà. E se, un giorno, si fosse innamorata di uno di questi aiutanti? Non era una cosa impossibile.
Questo, in ogni caso, lo portava ad essere indignato. Non tanto per la sua popolarità, ma per il fatto che era riuscita a rintracciare il libro che gli serviva, e che cercava da così tanto tempo da irritarlo oltremodo, senza nemmeno sapere cosa stesse cercando. Non poteva essere un caso. E se lo era, era una coincidenza ridicola, che sfidava ogni regola matematica, statistica, probatoria e di comune buonsenso.
Ma Ofelia era così.
E lui l’amava al punto da essere arrabbiato con se stesso.
Si strofinò le mani una terza volta, cercando di purificarsi dentro, di pulire il suo stesso sangue. Di essere un pochino più degno di lei. E cercò di sbollire, senza risultati. L’ultima volta che si erano visti non era andata bene per niente.
Sentì bussare proprio quando uscì dalla camera. I fattorini erano in anticipo di dieci secondi, e Thorn apprezzò, a modo suo. Cioè semplicemente non li guardò trucemente. Impiegarono trentatrè minuti a scaricare nella stanza tutte le scatole di microfilm. Nel frattempo, Thorn aveva già posizionato proiettore, visore e la prima bobina di microfilm. Quando, lanciandosi un’occhiata esterrefatta, i fattorini ebbero lasciato la stanza, ingombra di pile di scatole disposte in equilibrio precario, Thorn lasciò il visore per fare un rapido calcolo. C’erano sedici scatole contenenti ciascuna quaranta bobine di diapositive e microfilm; nello specifico, ogni bobina conteneva quindici diapositive e un microfilm da quattro minuti. In due secondi Thorn calcolò che doveva esaminare diecimiladuecentoquaranta documenti fotografici tra diapositive e microfilm. Con quei numeri in testa si adoperò per visionare un’altra bobina e impiegò sei minuti e mezzo precisi per consultarla interamente. Con quel ritmo, constatò, avrebbe finito in tempo.
Soddisfatto, cercò velocemente una delle scatole più recenti. A seguito dell’Esposizione interfamiliare quel metodo di archiviazione era stato abbandonato. Del resto, comportava solo una perdita di tempo, un costo eccessivo e una grande difficoltà di catalogazione. Sperava che avessero licenziato chi aveva avuto l’idea. In ogni caso, quel metodo approssimativo e raffazzonato era stato usato dall’Esposizione all’indietro. Ciò significava che il libro che gli interessava era contenuto nei microfilm e nelle diapositive esposte al Memoriale in quell’occasione. Dunque, doveva cercare di partire dalle scatole più recenti, dov’era certo che avrebbe trovato ciò che cercava. Le scatole più vecchie poteva tenerle per ultime.
Thorn non era un individuo speranzoso, ma si augurò che la sua deduzione fosse corretta. Aveva preso troppi abbagli in quei due anni, doveva rimettersi in carreggiata.
Il tempo venne scandito dal sul orologio da taschino che, animato, si apriva e chiudeva da solo ogni volta che lui finiva con una bobina e passava alla successiva. In grado di operare su più fronti, grazie alla memoria fotografica non doveva perdere tempo a leggere tutte le singole righe riportate nelle diapositive: con uno sguardo aveva già assimilato ogni informazione. La sua mente, dunque, aveva tempo di correre a briglia sciolta.
Correre verso il suo ultimo incontro con Ofelia. Era stato uno dei peggiori diverbi che avessero mai avuto. In quanto sir Henry, lui doveva essere inflessibile, e quella di Ofelia, o meglio Eulalia, era stata una grave trasgressione di protocollo. Non poteva essere indulgente, e non lo era stato, sostituendola, ma lei non aveva capito che il suo ruolo era quello, e per la sicurezza di entrambi non poteva permettersi errori. Eppure gli era apparsa così ferita… Allo stesso tempo lo innervosiva il fatto che avesse trascorso tutto quel tempo con l’inaffidabile figlio di Lady Septima. Aveva capito il motivo del suo ritardo, a posteri, certo, ma l’aveva capito; ciò che invece gli sfuggiva era il perché delle sue azioni. Perché aveva indagato con Octavio? Perché non aveva coinvolto lui in prima persona? Forse perché lo aveva giudicato troppo preso dal suo metodo di ricerca? Non si rendeva conto che sarebbe stato aperto a qualsiasi suo suggerimento, anche stupido, solo per lavorare insieme? Glielo aveva detto, di consultarlo. Era un modo per includerlo, non per tenerla d’occhio.
Invece no, era andato tutto a rotoli, e lei aveva agito d’impulso come suo solito. Impulsiva, testarda, così determinata da tralasciare dettagli fondamentali. E aveva dato a lui dell’egoista! Era armata di buoni sentimenti, ma li adoperava nella maniera sbagliata. Glielo aveva anche detto, che non sapeva cosa farsene dei suoi buoni sentimenti. Non finché lei agiva per conto suo, non finché sembravano due entità separate, che non condividevano le informazioni. Lui avrebbe tanto voluto che i suoi buoni sentimenti fossero indirizzati a lui. E non solo in ambito lavorativo o pratico, collaborativo.
Si sentì pizzicare il petto di dolore e stizza quando rivisse quelle ultime parole. Egoista… se solo Ofelia avesse saputo. Se avesse saputo non solo quanto ancora l’amava, con quel sentimento esacerbato da rifiuto e lontananza, ma anche che tutto quel suo darsi da fare aveva come finalità lei, la sua libertà, la loro libertà. Era scappato per permetterle di scegliere senza vincoli, senza legami. Le aveva detto che la loro collaborazione era finita, con il cuore a pezzi e gli artigli che fremevano di collera e odio, ancora una volta verso se stesso, che continuava ad illudersi e sperare; non riusciva a soffocare ciò che provava per lei.
Più Ofelia lo allontanava, lo rifiutava, lo escludeva, più lui odiava se stesso; come un riflesso, o una proporzione diretta. Quando invece Ofelia lo cercava, si interessava, gli stava vicino, gli sembrava di non essere un fallimento totale. Il problema era che Ofelia era indecifrabile, e Thorn non riusciva mai a capire cosa pensasse di lui. In passato si era sbagliato troppe volte per permettersi di fare ulteriori congetture errate.
Proprio sul filone di quei rimestii mentali sentì battere due timidi colpi alla porta. Non si mosse, non si interruppe. Ofelia aveva le chiavi per entrare; chiunque altro non sarebbe stato il benvenuto, il tempo stringeva.
Così come si strinse il suo stomaco per un breve istante quando Ofelia, perplessa, fece il suo ingresso nella stanza. Sbatté immancabilmente contro una pila di scatole pericolanti nella penombra. Avrebbe dovuto prevederlo: maldestra com’era alla luce del sole, la scarsa luce per lei rappresentava una vera e propria insidia.
Si fermò davanti alla luce del proiettore, disorientata, e strinse gli occhi dietro gli occhiali per cercare di capire dove fosse finita. Ofelia rimase bloccata di fronte a lui per quindici secondi, permettendogli di cambiare due diapositive. Peccato che le parole dei testi ingranditi proiettate sul corpo di Ofelia non fossero di facile lettura. Gli occhi di Thorn dovettero scrutare parti anatomiche sulle quali non voleva nemmeno accennare un pensiero.
- Non rimanete nel cono di luce.
Sentì Ofelia avvicinarsi, ma non si interruppe per osservarla. Il tempo stringeva, e le sue mani giravano con precisione i pomelli del proiettore per non perdere nemmeno un decimo di secondo del tempo che gli restava. Percepì, anche se non li vide, gli occhi di Ofelia su di sé. Fu grato di essere impegnato, perché non voleva assolutamente vedere cosa albergasse nei suoi occhi. Collera? Stizza? Disgusto? Distacco?
Indifferenza? L’indifferenza sarebbe stata la peggiore.
- Prendete una scatola – le ordinò quindi, solo per evitare che continuasse a fissarlo.
Ofelia si mosse per la stanza, tirando su con il naso. Dubitava che stesse piangendo, non ne avrebbe avuto motivo. Raffreddore? In ogni caso, il rumore gli giunse attutito, come se lei avesse cercato di camuffarlo con della stoffa. Sentì il tipico fruscio di una scatola che veniva aperta, mentre Ofelia obbediva al suo ordine perentorio. Di solito non accadeva mai, tanto meno senza un’adeguata spiegazione.
- Se riuscite a decifrare una data, mettete da parte i più vecchi – si raccomandò lui.
In effetti l’aiuto di Ofelia avrebbe potuto fargli risparmiare il tempo di alzarsi e andare a ravanare tra tutte le bobine, scandagliando le etichette sbiadite riportanti le date delle diapositive. Il fatto che lui fosse sollevato all’idea di averla lì, di fianco a lui, non gli era di nessuna utilità, anche se il suo animo ne appariva risollevato. Comunque, i suoi artigli erano ancora all’erta, saggiando l’aria come alla ricerca della prossima vittima. Erano talmente nervosi, come lui del resto, che dubitava che sarebbe riuscito a trattenerli se qualcuno si fosse avvicinato troppo. Mentre pensava cambiò un’altra bobina. Anche quella precedente era stata inutile. Cercò di trattenere la frustrazione: l’impazienza giocava a suo sfavore, rendendolo impreciso. Doveva concentrarsi.
Ignorava il corpo intirizzito, la postura scomoda, le ossa contratte e rigide per le troppe ore passate senza muoversi. Non si era mai curato troppo di se stesso, e quel giorno non faceva eccezione. Il suo fisico era uno strumento, e come tale lo avrebbe usato. Non c’era indulgenza, era una perdita di tempo prezioso.
Si accorse quasi per caso che Ofelia non si muoveva più. Aggrottò le sopracciglia. Sì, Ofelia gli sarebbe stata utile… se avesse lavorato. Che si aspettasse… qualcosa? Anche lui si aspettava qualcosa che non era mai arrivato, una confessione, una parola, ma non era quello il caso di star lì a mettere i puntini sulle i. Gli serviva aiuto, e se parlare era l’unica cosa in grado di far muovere Ofelia, avrebbe parlato. Si rese conto, in effetti, che senza lei e la sua pista non sarebbe arrivato a quel punto, ad un passo dal trovare ciò che i Genealogisti volevano. Non era tipo da lodi, non ne aveva mai ricevute e tanto meno elargite, esisteva solo il proprio dovere, però, come al solito, quando c’era di mezzo Ofelia le cose funzionavano diversamente. Lui l’apprezzava davvero, in tanti modi e per tanti motivi. Il fatto che lei non lo ricambiasse non implicava che lui dovesse desistere. Finché avesse avuto fiato in corpo l’avrebbe amata, era innegabile. E amarla lo rendeva un uomo diverso.
Le era grato.
- Sono al corrente del vostro incontro con il Senza Paura e Quasi Senza Rimprovero, della vostra edificante conversazione con il professor Wolf e delle vostre ricerche sui libri di E. D. distrutti da miss Silence. Una pista eccellente. Se ne avessimo parlato l’altra sera, invece di scaldarci, avremmo guadagnato tempo. – Era stato soprattutto lui a scaldarsi, lo sapeva, ma di quello non si sarebbe scusato. Ofelia non lo metteva mai a parte dei suoi piani, e a suo modo quel tacergli i suoi intenti era come mentirgli. Una spiegazione era d’obbligo, però. – I microdocumenti che vedete lì sono stati realizzati in occasione dell’Esposizione interfamiliare di sessant’anni fa. Da allora non sono mai stati ordinati. È ragionevole supporre che una copia dei libri di E. D. si trovi una di quelle scatole…
- Non sarò virtuosa – esordì Ofelia, bloccandolo.
Thorn continuò a lavorare al visore, una diapositiva dietro l’altra. Il tono di Ofelia era quasi… deluso. Temeva che lo fosse anche lui? O temeva che non sapesse che non sarebbe diventata virtuosa? Non riusciva a carpire i pensieri dietro le sue parole.
- Lo immaginavo – disse soltanto, incerto su come risponderle. Alla fine optò per la sincerità. – Ho dato parere sfavorevole al vostro passaggio di grado. Presumo che abbia avuto il suo peso nella valutazione.
- Cosa avete fatto? – balbettò Ofelia, del tutto presa in contropiede. – Ma io credevo che voleste…
Non era per ripicca che aveva fatto ciò che aveva fatto. Non era perché il suo lavoro era stato mediocre o scadente, o per il ritardo. Come sempre, Ofelia era stata ineccepibile nello svolgimento del suo compito. Anche un po’ di più.
- Ho cambiato idea – la interruppe. – Ultimamente mi è sembrato che i Genealogisti si interessassero un po’ troppo da vicino al futuro dei precorritori. Non avrei dovuto spingervi a ottenere la promozione. La vostra copertura non avrebbe retto a lungo con loro.
Non le disse che aveva premuto perché lei prendesse la promozione perché, in parte, temeva di vederla sparire di nuovo. Non le disse che lo aveva fatto perché, in parte, in gran parte, voleva continuare a vederla, avere una scusa per incontrarsi da soli, loro due. Per lavorare, certo, ma da soli. E la cosa gli faceva talmente male, quando erano insieme e sembravano distanti quanto due arche, che odiava se stesso per la sua poca amabilità. Avrebbe tanto voluto essere migliore, per lei.
- Allora avreste potuto…
- Dirvelo prima? Non eravate molto raggiungibile negli ultimi giorni.
Il tono di Thorn non era d’accusa. Ma il pensiero dietro quelle parole, sì. Si sentiva ferito, inutile dirlo, dal fatto che lei avesse lavorato da sola. O meglio, non con lui. Con gli altri sì, però. Individui dalla dubbia raccomandabilità. Continuò lo stesso a lavorare, senza guardarla.
Poi la udì sospirare.
- C’è un’altra cosa che devo dirvi. Che avrei dovuto dirvi prima, in realtà.
Cattive notizie, con una probabilità del novantaquattro percento. Raramente Ofelia aveva buone notizie. Quando era ancora ospite a Chiardiluna, lo andava a trovare all’intendenza ogni volta con nuovi problemi, che gli chiedeva cortesemente di risolverle. Quando mai Ofelia gli aveva portato buone nuove?
Era troppo indaffarato per ascoltarla in quel momento. Qualsiasi nefasta comunicazione avrebbe dovuto attendere. C’erano delle priorità.
- Potrà certamente aspettare ancora un po’ – mormorò tra i denti, cercando di concentrarsi sui microfilm e non immaginarsi le situazioni più nere e i grattacapi più irrisolvibili che Ofelia potesse proporgli. – Al ritmo di una diapositiva ogni dieci secondi e di un microfilm ogni quattro minuti, prima dell’alba avrò trovato quello che cerco.
Cambiò la bobina. Il discorso era chiuso.
Ofelia avrebbe dovuto capire l’antifona e mettersi al lavoro. Stranamente, lo fece. La sentì muoversi tra le scatole di carta, probabilmente per cercare di mettere in ordine le date. Era davvero inusitata la sua obbedienza, ma forse aveva colto il tono impaziente nella sua voce. Il tempo stringeva, sul serio questa volta, e se non avesse portato quello che volevano ai Genea…
- Anch’io vi amo.
La prima cosa che Thorn percepì furono i suoi artigli scattare. Si svolse tutto troppo in fretta per dare un senso a ciò che accadde, ma lui era pienamente consapevole della situazione. Si voltò immediatamente, bloccandole il polso. Aveva intuito la sua posizione per colpa degli artigli, che erano saettati, violenti, verso quel corpo estraneo che si avvicinava di soppiatto verso il suo angolo cieco. In un lampo pensò con acidità che era proprio il momento sbagliato perché Ofelia, la goffa e rumorosa Ofelia, iniziasse a muoversi silenziosamente. Un’altra statistica bruciata. Riuscì a fermare lo slancio dei suoi artigli, bramanti il sangue, appena in tempo, ma lo slancio che si era dato per girarsi e bloccare Ofelia era stato troppo. Si sentì vacillare e attirò Ofelia a sé. La verità era che, Thorn lo ammise controvoglia, avrebbe attirato Ofelia contro di sé a prescindere, in quella situazione.
In un battito di ciglia si rese conto di cadere, e il battito dopo era a terra, con la schiena dolorosamente sbattuta contro uno scaffale. Il visore era in mille pezzi sul parquet. Le scatole erano rovinate a terra in un fracasso di microfilm. Documenti volavano ovunque. La sua armatura si era allentata al punto da togliersi completamente. Ma niente aveva importanza in quel momento, niente che non fosse il corpo di Ofelia premuto contro il suo. Era sdraiata su di lui, incastrata contro il suo busto, tra le sue braccia che si erano automaticamente serrate contro di lei per proteggerla dalla caduta. O forse per tenerla stretta e non lasciarla andare, come se allentando la presa potesse rimangiarsi le parole pronunciate.
Quelle parole che ancora gli risuonavano limpide all’orecchio, impedendogli di sentire il suo stesso respiro.
“Anch’io vi amo”.
Anch’io vi amo.
Anch’io. Vi. Amo.
Aveva udito male? Impossibile. Anche se tutto, in quella situazione, sembrava impossibile.
Thorn sentì che Ofelia cercava di spostarsi, ma non la lasciò muovere di un millimetro. Se davvero Ofelia lo amava, aveva vinto. Non si sarebbe più trattenuto. Non voleva lasciarla andare, e non l’avrebbe fatto. Aveva aspettato quel momento così tanto, così a lungo, che ancora si chiedeva se in realtà non fosse tutta un’illusione. Eppure a Babel non c’erano illusioni. Quando era stato lui a dirle che l’amava, lei non aveva ribattuto. Ciò che aveva confessato pochi istanti prima, però, era una chiara risposta.
“A proposito: vi amo”.
“Anch’io vi amo”, gli aveva risposto lei, finalmente, dopo una separazione di due anni, dieci mesi e cinque giorni.
Sentiva il cuore di Ofelia, premuto contro il suo torace, galoppare insieme al suo. Non era mai stato più felice di una perdita di controllo del genere.
Le affondò il viso nei capelli cercando di trattenersi dal fare altro, dall’andare oltre. Voleva… cosa? Cosa voleva?
Tutto. Voleva tutto di Ofelia. Voleva sentirla contro di lui, uniti in quel modo, sempre.
Eppure, un senso di urgenza spiccò sugli altri all’improvviso. Voleva che lei fosse al sicuro, e lui non era sicuro.
- Niente gesti bruschi.
Il silenzio di Ofelia lo indusse a chiedersi se avesse capito o meno le sue parole. Cercò, con riluttanza, di allentare la stretta delle sue braccia, quanto meno per lasciarla respirare. Ofelia gli appoggiò lentamente le mani sullo stomaco, facendogli sentire uno strano formicolio sotto il suo tocco, e lo tenne d’occhio da dietro gli occhiali storti. Lui la fissava a sua volta, ma in cerca di una conferma alle sue parole. Trovò tutto tranne quella.
- Non fatelo mai più – ribadì, più duramente che poté. Abbandonare l’accento di Babel era liberatorio, parlare con l’accento del Nord in presenza di Ofelia lo era ancora di più. Sperava che così lei potesse recepire meglio il messaggio. -  Non prendetemi mai più di sorpresa. Avete capito?
Ancora una volta, Ofelia non diede segno di aver compreso. Lo fissava con perplessità, in modo inquisitorio, come se quello che doveva capire qualcosa fosse lui, non lei. Poi il suo sguardo si posò sull’armatura, o meglio, sui pezzi che la componevano, disordinatamente sparsi sul pavimento. Thorn lanciò ad essi un’occhiata rapida e disinteressata, tornando a concentrarsi su Ofelia. Sembrava preoccupata, colpevole.
- Niente che non si possa riparare. Ho un po’ di attrezzi in camera – la tranquillizzò lui. Poi adocchiò il visore.  – Invece quello è più grave. Dovrò procurarmene un altro.
Non calcolò il tempo che avrebbe perso. Il tempo che stava perdendo.
Anch’io vi amo.
Era come se avesse raggiunto lo scopo della sua esistenza, anche se in realtà era ben lungi dall’aver concluso il suo compito. Eppure, le sue priorità apparvero ad un tratto completamente ribaltate. E lui si sentiva più leggero, come se gli fosse stato tolto un gran peso dalle spalle.
Ofelia parve leggergli nel pensiero, a modo suo. – Non credo che sia una priorità – disse, stizzita.
Per una volta, Thorn non ebbe dubbi. Capì che Ofelia era sulla sua stessa lunghezza d’onda. Lui non aveva voluto nulla in cambio, quando si era dichiarato. Lei, invece, voleva qualcosa.
Thorn posò la bocca sulla sua senza esitazione. Non era certo che un bacio fosse quel qualcosa che Ofelia voleva, ma appena sentì le sue labbra morbide incontrare le sue, capì che era quello che voleva lui. Che quella era la sua priorità. La baciò senza timidezza, incerto su come fare eppure animato da una forza di volontà insopprimibile. I contatti fisici gli davano il disgusto tanto quanto quello di Ofelia, e solo il suo, gli facevano l’effetto opposto.
Ne voleva di più. Ne voleva ancora.
Fu acutamente cosciente di come il suo mento ispido di barba accarezzasse quello piccolo e morbido di Ofelia, e si pentì di non essersi rasato quella mattina, preso com’era dal lavoro. Mosse le mani verso di lei, quasi con titubanza, ma quando la sentì muoversi per scostarsi non ebbe incertezze. Le prese il viso tra le mani, colto da una smania incontrollabile, fremente d’eccitazione. Era così… piacevole il contatto con le sue labbra umide, il calore del suo respiro, la morbidezza della sua pelle. Le infilò le dita tra i capelli, desiderando toccare di più, averla più vicina, di più, di più. Caddero altri documenti, ma nessuno dei due ci fece caso.
E finalmente Ofelia reagì, arrendendosi alla sua volontà, per una volta. Rispose al bacio muovendo la bocca insieme a lui, respirando con lui, schiudendo le labbra per farlo avvicinare a sé più di quanto si fosse mai permessa di fare con qualcun altro. Il bacio, da casto com’era cominciato divenne ben altro, umido, affannato, e Thorn si scoprì a dover trattenere, a stento, dei mormorii di apprezzamento che gli raschiavano la gola, pronti ad uscire. Non riusciva a credere a ciò che stava facendo, e soprattutto a quanto gli piacesse. Anche un po’ di più.
Fu costretto a staccarsi, proprio costretto, quando i suoi polmoni iniziarono a bruciare per la mancanza di ossigeno. Era stata un’esperienza… incredibile. Era davvero assurdo che toccare un altro essere umano potesse essere così galvanizzante per uno come lui, che aveva sempre aborrito i contatti. Si stava già chiedendo quando avrebbero potuto rifarlo.
Inchiodò gli occhi a quelli di Ofelia, che lo scrutavano sorpresi da dietro gli occhiali. Sorpresi, ma non spaventati, inorriditi o pentiti. Era evidente che il bacio fosse piaciuto anche a lei.
- Vi avverto. A proposito di quel che avete detto non vi permetterò di avere ripensamenti.
Se già era stato difficile sopportare il fatto che lei non lo amasse, e non lo avrebbe mai amato, ora che finalmente aveva raggiunto il suo obiettivo e Ofelia ricambiava i suoi sentimenti, non l’avrebbe fatta allontanare per nulla al mondo. Se prima starle lontano era stato una fonte di distrazione, fastidioso anche, da quel momento in poi Thorn capì che sarebbe stato un vero e proprio calvario. Un dolore fisico. I suoi artigli, per una volta, si quietarono, in pace con se stessi e con lui. No, se Ofelia avesse cambiato idea per lui sarebbe stata la fine. In molti, troppi sensi.
Tenne le mani strette attorno al suo viso delicato, restio a lasciarla andare, come a voler infondere i suoi sentimenti in quel contatto. La verità era che non era ancora pronto per staccarsi da lei; voleva stare ancora un po’ in quell’anfratto di tempo solo loro, senza preoccupazioni sul passato o sul futuro. Solo loro due, insieme.
- Vi amo – ribadì lei, con decisione, facendo mancare qualche battito al cuore di Thorn.
Avrebbe potuto starla ad ascoltare mentre glielo ripeteva ancora e ancora, all’infinito, continuando a dubitare delle sue parole tanto sembravano una chimera. E invece erano vere.
Ofelia lo amava. Glielo aveva detto non una, ma due volte. Non un dubbio aveva attraversato i suoi occhi sinceri, non un’incrinatura aveva alterato la sua voce ferma. La sua confessione le sgorgava dritta dall’anima, e Ofelia, al contrario di lui, non parlava se non con il cuore in mano.
- È quello che avrei dovuto rispondervi quando mi avere chiesto perché ero venuta a Babel. È quello che avrei dovuto rispondervi ogni volta che volevate sapere cos’avevo da dirvi.
È quello che lui avrebbe voluto sentirsi dire ogni volta che la vedeva, non solo a Babel, ma anche al Polo, molti anni prima. Non c’erano parole che avrebbe voluto udire di più.
- Certo, desidero penetrare i misteri di Dio e riprendere il controllo sulla mia vita, ma… giustappunto voi fate parte della mia vita.
Era suo marito. E lei era sua moglie. Il loro legame era stato stipulato giuridicamente tempo prima, e finalmente era stato riconosciuto anche da lei. Il matrimonio era fatto per essere spezzato solo dalla morte, e Thorn seppe con certezza che nemmeno quella avrebbe potuto cambiare la loro condizione. Lui era parte della vita di Ofelia, e non avrebbe mai voluto appartenere ad altri se non a lei.
- Vi ho dato dell’egoista senza mettermi mai nei vostri panni. Vi chiedo scusa.
Mentre la voce le moriva su quelle parole, una lacrima silenziosa le sfuggì dall’angolo dell’occhio, andandosi a raccogliere sul suo pollice. Lui sgranò gli occhi, colpito. Più di tutte le altre cose che Ofelia gli aveva rivelato, confessato, palesato, le sue scuse furono quelle che lo colpirono di più, a parte la dichiarazione. Finalmente, finalmente Ofelia si era resa conto che tutto quello che lui aveva fatto, faceva e avrebbe fatto era per lei. Per lei e nessun altro; non per il suo tornaconto personale, per il suo orgoglio e la sua ambizione, ma per tenere al sicuro lei.
Era sollevato, così sollevato e leggero che non percepì nemmeno più la pressione degli artigli, come se si fossero addormentati per un attimo. Combatté l’enorme, pesante stanchezza che gli era crollata addosso in un secondo, crogiolandosi nella dolcezza di quell’ultima asserzione.
Non era un egoista. Ofelia lo sapeva. Aveva visto del buono in lui. Nient’altro contava.
Era più che mai urgente tenerla al sicuro, dunque. Rafforzò la presa sul suo viso, cercando di parlare con il tatto oltre che con la bocca, come a voler infondere in lei una lettura inversa. – Devo insistere. Non avvicinatevi mai più alle mie spalle o negli angoli morti del mio campo visivo, non fate movimenti che non possa vedere, o se lo fate avvertitemi ad alta voce.
Come a voler confermare il suo avviso, gli artigli si svegliarono dal torpore, rimettendosi in allerta, pronti. Non li aveva mai odiati più che in quel momento, mentre lo costringevano a dedicare attenzione a loro invece che alla pelle di Ofelia contro le sue mani, il suo corpo ancora così vicino, troppo vicino, al suo.
All’improvviso un lampo di comprensione le attraversò gli occhi. – Non avete più il controllo dei vostri artigli?
Aveva capito, dunque, l’incresciosa situazione in cui si trovava. Vergognandosi di se stesso, e odiando ciò che era, strinse le labbra, increspò il viso, come a voler ingabbiare il quel modo il suo nefasto e sanguinario potere familiare.
- Posso trattenerli se non vi percepiscono come una minaccia, ma farete bene a osservare le mie raccomandazioni per evitare di scatenare riflessi di difesa. È molto semplice, non potete permettervi di essere sbadata con me.
Non più del solito almeno, per quanto Ofelia potesse evitare di essere sbadata. Un’immagine fugace gli attraversò la mente: lei insanguinata, sfregiata da lui. Che nonostante tutto, lo sapeva, non lo avrebbe considerato un mostro, che invece era. O sarebbe stato. Era intollerabile, non poteva permetterlo.
- Com’è successo? – balbettò lei, per nulla preoccupata di ciò che lui poteva accidentalmente infliggerle. – L’inoculazione del mio animismo ha forse creato un’instabilità nel vostro potere familiare?
Thorn contrasse le sopracciglia, terribilmente a disagio. Quell’ammissione, quella situazione, quella mancanza di controllo di se stesso gli causava più umiliazione della gamba storpia, della sua fisionomia così longilinea e dinoccolata, della corporatura ossuta, delle cicatrici che lo ricoprivano come scarabocchi su un foglio di carta, dell’altezza spropositata. Il suo aspetto fisico, per quanto anodino e insignificante, non era fonte di vergogna. La mancanza di padronanza su una potenziale arma sì. Avrebbe dato qualsiasi cosa per riottenere il governo dei suoi artigli.
Sperava solo che Ofelia non ne fosse orripilata. Ma come sarebbe potuto essere altrimenti? In una situazione del genere non l’avrebbe biasimata se si fosse ritratta da lui, schifata e delusa.
- La cosa vi mette a disagio?
Sul viso di Ofelia la sorpresa lasciò presto il posto alla consapevolezza, e inaspettatamente il suo sguardo parve quasi ammorbidirsi, come se avesse capito qualcosa di importante. Sembrava che con quell’ammissione lui le avesse tolto un peso dalle spalle. Come al solito, le sue reazioni erano del tutto incomprensibili e improbabili.
Lo guardò dritto negli occhi, decisa e rassicurante, quando gli disse: - No. Adesso che lo so starò attenta.
Com’era possibile che non fosse disgustata da lui? Com’era possibile che fosse ancora lì, tra le sue braccia, sul suo corpo, e non in fuga da qualche parte, spaventata? Com’era possibile che Ofelia lo amasse davvero, al punto di sopportare tutte le sue manie, la sua asocialità, la sua totale incapacità di parlare di qualcosa che non fossero obiettivi da raggiungere o lavoro? Che non provasse repulsione per ciò che era, per il suo aspetto, per ciò che aveva fatto, per chi era?
Provò un calore intenso nelle viscere, come un’onda d’urto che si sparse nelle sue vene, accelerandogli il battito. Era un’iniezione di fiducia, di consapevolezza nel fatto che Ofelia era una persona buona, che guardava in profondità, e forte, che non si fermava di fronte al primo inconveniente. Lui continuava a darle meno credito di ciò che meritava.
Strinse con forza le dita sul suo viso, lottando con se stesso per non baciarla, resistendo a quel nuovo impulso che non sapeva come gestire. La voleva vicino, la voleva stretta contro di sé, su di sé, dentro di sé, con sé. Le sembrò troppo lontana, nonostante fosse a pochi centimetri da lui, leale, sincera, onesta.
Non poteva baciarla lì. Non poteva fare altro, lì. Ofelia meritava di meglio. Quel pensiero gli diede forza, scacciando ogni altra immagine incontrollata che gli invase il cervello. Non ultima, quella delle sue mani che scendevano dal suo viso per accarezzarle i capelli scarmigliati, il collo, le spalle, le braccia. I fianchi. Per attirarla a sé, perdersi in lei.
Invece lasciò cadere le mani, privo di energie. Concentrati.
- Voi… la scatola degli attrezzi è sotto il letto di camera mia, potete portarmela? – le chiese, tentando di rimettere ordine nelle sue priorità. Per prima cosa doveva riparare l’armatura. Poi… - Devo trovare un altro visore di microfilm e rimettermi al lavoro, ma per questo ho bisogno della gamba.
Quando cercò di piegare il ginocchio non poté trattenere una smorfia. Senza il sostegno dell’armatura era davvero difficile usare l’arto storpio, e lui odiava essere rallentato. Specialmente se a rallentarlo era il suo stesso corpo.
Thorn fece fatica ad interpretare l’espressione di Ofelia quando gli rispose: - È davvero così urgente?
Sembrava… corrucciata? Contrariata? Pareva restia a staccarsi da lui, ad allontanarsi. Che anche lei volesse indugiare ancora in quei contatti?
Thorn prese l’orologio da taschino in modo meccanico, un gesto che in tutti quegli anni gli era mancato. Sentire il metallo freddo e liscio, perfettamente rotondo, sotto le dita, gli aveva sempre dato un senso di pace, come se l’orologio in sé potesse sistemare ogni suo grattacapo. Lo aiutava a rimettere ogni questione nella giusta prospettiva. E gli segnava il tempo. Tempo che, in quel momento, proprio non aveva.
Contrasse le labbra, facendosi forza per staccarsi mentalmente da Ofelia.
- Lo è. Anche un po’ di più.
Sapeva che Ofelia non avrebbe collaborato finché non le avesse rivelato tutto, così cedette e le disse la verità.
- Ho tempo fino alla fine dei festeggiamenti per trovare il libro che mi hanno chiesto i Genealogisti, dopo di che, se non ho niente in mano faranno sparire sir Henry dalla circolazione. Mi portate la scatola degli attrezzi, per piacere?
Mise in tasca l’orologio, usando anche la forma di cortesia più comune, poco avvezzo a pronunciarla, per spronare Ofelia a collaborare. Aveva davvero fretta. Doveva trovare quanto cercava quanto prima, per poter… stare ancora con lei. Senza l’ansia della scadenza imminente, per giunta. Non desiderava altro.
Ofelia, comunque, sembrava più lenta del solito a darsi una mossa. Era sbalordita, e non in senso positivo.
- Faranno sparire sir Henry dalla circolazione. Sir Henry siete voi.
Aveva una mente brillante, era tenace, astuta, talvolta geniale… e incredibilmente poco collaborativa quando serviva. Non era la prima volta che faticava ad afferrare dei concetti basilari.
- È solo un’identità creata dai Genealogisti. Possono riprendersela in qualsiasi momento e darmi in pasto a Dio o peggio, cosa che faranno senza la minima esitazione se non do loro ciò che vogliono prima dell’alba. La scatola degli attrezzi, per favore.
L’alba si avvicinava secondo dopo secondo, ticchettio dopo ticchettio. Aveva bisogno di Ofelia, era disposto ad ammetterlo, per una volta, e proprio in quel momento lei lo ostacolava.
Sembrava indignata, dietro lo sgomento. – Sapevate fin dall’inizio di avere il tempo contato e non mi avete detto niente?
- Dirvelo sarebbe stato controproducente.
Ofelia doveva rimanere lucida, non farsi prendere dall’ansia. E gli serviva uno sguardo esterno, fuori dai giochi. Non aveva voluto escluderla per mancanza di fiducia, ma per aumentare le possibilità di riuscita. Per avere più opportunità.
D’un tratto, invece che pronta a baciarlo nuovamente, sembrava più in procinto di arrabbiarsi seriamente con lui. Thorn sperava che quella condizione non fosse permanente, ma avrebbe accettato il suo livore di buon grado, se fosse servito a farla muovere.
- Perché vi siete alleato con gente simile? Perché mettete sempre in pericolo la vostra vita?
Si sentì pervadere dal sollievo nonostante la situazione critica e disperata. L’ira di Ofelia era causata dalla sua premura per lui, dalla sua preoccupazione. Non si era mai sentito così considerato in vita sua. Lui influenzava la sfera emotiva di Ofelia. Non avrebbe voluto farla stare male, ma in quel frangente era necessario. Stare con lui aveva delle conseguenze, non poteva più nasconderglielo. Cercò di raddrizzarsi e controllò automaticamente il suo aspetto quando si accorse della devastazione che li circondava. Il primo passo per riuscire in un lavoro, qualunque esso fosse, era l’ordine. La disciplina. Non poteva stare in quel caos. Né mentale, né materiale.
Le rispose quasi senza pensarci, preso com’era dal controllare che almeno i suoi abiti fossero in ordine. - Perché la mia vita è l’unica cosa che mi sento in diritto di mettere in gioco. La scatola degli attrezzi, vi prego. E anche l’alcol visto che ci siete.
Era umiliante dover supplicare aiuto a quel modo, per uno come lui, che non aveva mai avuto bisogno di nessuno. Eppure era anche… rassicurante sapere di non essere solo, di poter contare su qualcuno. In ogni caso, aveva bisogno di ripulirsi. Sentiva la polvere e le scatole cadute in modo caotico aggrapparsi e appicciarsi alla sua pelle come disgustose sanguisughe. Non si sentiva più degno di toccare Ofelia, doveva disinfettarsi. Sistemarsi la gamba e disinfettarsi. Una volta fatto quello, si sarebbe concentrato.
- Ma perché? – lo rimbeccò Ofelia, imperterrita, inamovibile. Thorn amava la sua cocciutaggine molto poco, in quel momento. Ma la amava molto di più per il vivo timore che provava. Paura per la sua sorte. – Perché vi infliggete una cosa del genere? Perché vi costringete continuamente a sfidare forze al di sopra della vostra portata? E non venite a dirmi che è senso del dovere. Voi non dovete niente al mondo. Che ha fatto il mondo per voi?
La tensione che lo attanagliava svanì completamente, scacciata dalle dure parole di Ofelia. Rilassò la fronte. Era passata dal considerarlo un egoista della peggior specie a credere che fosse il più grande filantropo dell’umanità. Farlo per il mondo? Senso del dovere? Odiava quasi chiunque, in quel mondo. Non doveva nulla a nessuno… se non a lei.
Lei, che era forse l’unica cosa che rendeva la sua esistenza vivibile. L’unica cosa per cui valesse qualsiasi sacrificio. L’unica cosa per cui avrebbe rischiato tutto ciò che aveva, vita compresa. Ofelia meritava tutto. Il meglio.
- Credete che lo faccia per il mondo?
La forza degli artigli crebbe in lui, accompagnata da quelle parole. Ofelia meritava di vivere in un mondo in cui potesse essere libera, e al sicuro. Non in quel mondo marcio e corrotto, controllato, falso, pericoloso. All’improvviso si sentì vicino al suo dono familiare, comprese la brama degli artigli. Se avesse avuto davanti Dio non avrebbe esitato a sfogarsi.
- Dio ha detto che non vi avrebbe perso di vista, proprio davanti a me. – La scena, vivida nella sua mente, gli fece stringere la mascella mentre la rabbia, cocente, lo divorava. – Sarò pure un marito scadente, ma non permetto a nessuno, soprattutto non a lui, di molestare mia moglie. Non posso strapparvi a Dio, ma posso strappare lui da voi. E sarà quello che farò non appena vi deciderete a portarmi quella benedetta scatola degli attrezzi. Se esiste un libro che contiene il segreto di Dio e che permette di individuare una falla nella sua invulnerabilità, io lo troverò.
Non si era mai espresso con più chiarezza, non aveva mai reso più espliciti i suoi intenti. Faceva tutto per lei. Nient’altro aveva più importanza. Si sentiva svuotato, sotto tutta quell’angoscia e quella rinnovata determinazione. Non aveva più segreti con lei, si era aperto completamente, mostrando quanto fosse possessivo e implacabile.
Sperava che Ofelia capisse. E lo aiutasse. Ma soprattutto, sperava che fosse disposta a stargli sempre vicino, da quel momento in poi. Lei parve volergli comunicare proprio quello, mentre lo inchiodava con lo sguardo da dietro le spesse lenti degli occhiali, ostinata. Poi, finalmente, e malauguratamente, ammise una piccola parte irragionevole di Thorn, si allontanò da lui per andare a prendere la scatola degli attrezzi in camera. La seguì con lo sguardo, notando in lei cose verso le quali in precedenza non si era mai permesso nemmeno di abbozzare un pensiero. La curva dei fianchi, il modo in cui la toga le scendeva sul corpo, le parti di pelle nuda, lì dove era possibile vederla.
Thorn deglutì e serrò per un istante gli occhi, incapace di controllare quell’ondata di nuove emozioni che provava. Faticava ancora a rendersi conto che lui si sentiva attratto da quella pelle, invece che respinto. Nutriva il desiderio estraneo di… toccarla, percepire come fosse al tatto.
Quando riaprì gli occhi era di nuovo padrone di sé, e Ofelia stava incedendo verso di lui. – Riparatevi l’armatura e lasciate perdere i microfilm. So dov’è il libro.
So dov’è il libro. Quel maledetto libro che cercava da tempo immemore. E lei lo aveva trovato in pochi mesi.
Thorn era estremamente contrariato, mentre si sistemava con gesti rapidi e precisi l’armatura. Stupito, anche se non avrebbe dovuto. Irritato, per il fatto che lei lo aveva preceduto.
E terribilmente attratto da lei.
Mentre la seguiva fuori dal Memoriale, lasciandosi alle spalle quel disordine che non era più un suo problema, Thorn sentì verso di lei uno slancio d’amore che era più fisico che altro. Cercò di non guardarla mentre incedevano uno di fianco all’altra, in silenzio.
Avrebbe dovuto parlarle il giorno dopo, in seguito al completamento del suo compito.
Doveva parlarle. Perché non era più disposto ad amarla platonicamente, a distanza, di nascosto, in silenzio. Ed era pronto ad ammetterlo apertamente, senza più dubbi o indecisioni.
La voleva.
L’amava, e voleva farla sua.
Il pensiero era così intenso da far quasi male, ma finché ci fosse stato quel dolore ci sarebbe stato anche un “loro”, e Thorn non desiderava altro.

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Capitolo 15
*** Sono già felice ***


Questi capitoli diventano sempre più lunghi ma almeno giustificano l'attesa (no... va be', ci ho provato xD).
Ho finito Echi in tempesta. So che molti di voi l'hanno finito in uno o due giorni, ma io ho impiegato quasi quasi due settimane a leggerlo. Avevo paura. Tanta. E ne ho ancora. Nonostante le parti che avevo letto in francese e la fine che mi ero spoilerata, non era pronta a tutte le rivelazioni, ai pensieri stessi di Thorn in quelle due piccole parentesi che mi hanno aperto un mondo di comprensione su di lui. Wow. Ho così tanto da scrivere, per liberarmi di questo groppone che ho sul petto. Tanto.
Quindi vi dico questo: non scriverò un post libro, un epilogo, un sequel o un finale alternativo, chiamatelo come volete. Ne scriverò circa... tre. Che poi saranno più di tre, ma i dettagli ve li spiegherò più avanti. Il fatto è che... non può esserci un unico finale. E' talmente aperto che ognuno ha il diritto di pensare al proprio, e sicuramente lo avete già fatto. Io ne scriverò tre che spero possano in qualche modo essere coerenti e, perché no, magari concordi con la vostra idea. Io ne ho già uno preferito, ma ho bisogno di scriverli tutti. Non li posterò come capitoli qui, su Into the Deep, ma su un'altra raccolta di One shot che pubblicherò come opera separata. Questa raccolta è nata come un approfondimento dei libri, a volte anche di missing moments, ma un epilogo esula dal senso di Into the deep. E' una mia concezione personale che non potrà mai essere confermata o smentita, quindi se vorrete, sappiate che la troverete nella lista delle storie della sezione Attraversaspecchi, come Ingranaggi. E spero vogliate leggere anche quelle. Non so quando le pubblicherò, devo ancora cominciare a scriverle (e ho pure Ingranaggi da continuare *impreca come Gaela e si dispera*). Sono masochista. Sono già indietro con queste due ff e ne aggiungo una terza... va be' dovrebbe essere più breve, no?
OK scusate la mega digressione.
Oh, e c'è uno scambio di POV: Thorn, Ofelia, e infine Thorn.
Grazie a tutti per l'attenzione♥
L’Attraversaspecchi IV, Echi in tempesta, Il vuoto e La Messaggera, pagine 42-43 e 69-85



16. Je suis déjà heureuse

- Io vado – annunciò, orologio in mano, conscio di tutto il tempo che stava perdendo. E tuttavia restio ad allontanarsi, suo malgrado. – Ho un altro incontro con i Genealogisti. Conoscendoli, la prossima missione che mi affideranno avrà direttamente a che fare con la faccenda che ci riguarda. A stasera.
Si allontanò senza aggiungere altro, con l’armatura che cigolava ad ogni passo. Nel silenzio di quel luogo, ammantato della nebbia del mare di nuvole, lo scricchiolio metallico del tutto innaturale del suo esoscheletro gli appariva ancora più grottesco, innaturale. Faceva pendant con il vuoto che sembrava voler inghiottire tutto, eppure gli era estraneo. Era tutta una contraddizione, in quel momento, sia lui che il tempo che stava vivendo. Voleva andare dai Genealogisti per riprendere le ricerche, ma allo stesso tempo paventava l’incontro con loro per la ripugnanza che gli avrebbe suscitato e desiderava ardentemente rimanere accanto ad Ofelia. Voleva metterla in salvo, tenerla al sicuro, eppure voleva anche che collaborasse con lui.
- Sii prudente.
Le parole gli trafissero la schiena, mandandogli una scarica elettrica in tutto il corpo e boccandolo sul posto. Gli artigli si agitarono convulsamente, animanti dalla sua irrequietezza, e più che mai Thorn fu felice di essersi allontanato da Ofelia. L’avrebbe sicuramente ferita, nel suo stato attuale.
Sii prudente. Gli faceva uno strano effetto sapere che c’era qualcuno che lo attendeva e che ci teneva alla sua salute. Alla sua vita. E non per un tornaconto personale. Nonostante quello che lui e Ofelia avevano condiviso il giorno prima, che ancora lo faceva rabbrividire di piacere al solo pensiero, gli appariva innaturale essere considerato così importante. Essere tenuto in considerazione. Essere atteso.
Essere amato.
Perché se c’era una certezza in quella situazione paradossale e caotica, del tutto illogica, era che Ofelia lo amava. Non nutriva più alcun dubbio al riguardo. Quella consapevolezza lo elettrizzava, ma in modo diverso. Non lo disgustava come gli artigli. Lo rinvigoriva, lo esaltava.
- Pure tu – replicò. Fece una smorfia che nessuno vide. Quelle due misere parole non esprimevano tutta la convinzione con cui le sentiva dentro. Ofelia non doveva essere prudente. Ofelia doveva assolutamente stare attenta, al sicuro, protetta. Ma non poteva esprimere a voce quello che sentiva. L’unica cosa che poteva fare era rafforzare la loro profondità in qualche modo. – Anche un po’ di più.
In quelle parole, invece, c’erano talmente tanti concetti inespressi che sarebbe stato impossibile per Ofelia coglierli tutti. Si augurò che almeno in parte ne afferrasse qualcuno. Si allontanò nella nebbia, diretto verso il Memoriale, dove si trovavano i Genealogisti.
Cercò di concentrarsi sul compito che doveva… che dovevano portare a termine. Rendersi conto di non essere solo era talmente inusuale che doveva ancora farci l’abitudine, a non parlare più di sé ma di loro. Di lui e Ofelia, che aveva letteralmente attraversato il mare di nuvole pur di trovarlo. Nessuno aveva mai fatto tanto per lui, Ofelia meritava il meglio.
Una cosa che lui, nella sua condizione di fuggiasco e fasullo membro di LUX piegato sotto la volontà di due Tattili ricoperti d’oro e troppo inclini alle effusioni, non poteva offrirle. Si augurava ogni giorno, anche un po’ di più dopo la giornata precedente, di poterle offrire una vita degna di quel nome. Agiata, possibilmente senza problemi, dato che al momento stavano già affrontando la loro sfilza di grattacapi, zeppa di quello che Ofelia desiderava di più, che fossero soldi, anche se ne dubitava, libri, cibo, qualsiasi cosa.
Anche figli, se lei un giorno avesse cambiato idea e ne avesse voluti. Il suo cervello gli inviò una fitta di protesta, mentre i ricordi rischiavano di sommergerlo, sbloccati dalla contraddizione appena pensata. Lui non voleva figli, ma voleva darle qualsiasi cosa avesse chiesto. Odiava quel genere di infondate dicotomie.
Mentre camminava per le strade di Babel, lontano dal mare di nuvole, la nebbia si diradò, mettendo in mostra in maniera più che lampante l’importanza dell’uniforme che portava. Nonostante l’armatura producesse un baccano infernale, almeno per lui, le persone terrorizzate si fermavano a guardarlo con deferenza e sussiego, smettevano di parlare, alcuni uomini si toglievano persino il cappello. Thorn sperò che non lo fermassero: non aveva risposte o consolazione da offrire loro in seguito a quello che era successo. Era un membro di LUX solo per la giacca. Tolta quella, rimaneva lui, un bastardo fuggiasco e ricercato nella sua arca natia, che non aveva fissa dimora, possedimenti o lavoro.
Aveva talmente tante cose a cui pensare, da pianificare… Anche se non sapeva cosa gli avrebbero chiesto i Genealogisti, in circostanze normali avrebbe almeno immaginato decine di diversi scenari possibili. Le statistiche erano dalla sua parte: più teorie formulava, per quanto strampalate e diversificate fossero, più alta era la probabilità che la richiesta dei Genealogisti combaciasse con almeno una di esse.
Un angolo della bocca si increspò: Ofelia sarebbe riuscita a dipingere un solo scenario e azzeccarlo, con la sua tendenza a demolire i calcoli probatori.
E di nuovo il pensiero tornò a lei, invece di concentrarsi sul suo futuro. Sul loro futuro.
Prima fossero usciti da quel ginepraio, restituendo al mondo i suoi dadi, prima avrebbero potuto pensare a loro, a cosa fare in seguito. Ma era un pensiero talmente lontano, talmente impalpabile e inimmaginabile, così pieno di variabili, che decise di non soffermarcisi troppo. Era meglio pensare ad una cosa alla volta.
Mentre una parte della sua mente era concentrata su quelle macchinazioni inutili, un’altra parte scandagliava le viuzze della città alla ricerca di quelle meno trafficate da attraversare, per attirare meno sguardi possibili; la parte che cercava di ignorare con più forza, invece, si soffermava su qualsiasi difetto simmetrico dall’ambiente: una mattonella più alta di un’altra, un muro sbeccato, una difformità del terreno. Un’altra ancora calcolava impercettibilmente i secondi, i minuti, che gli ci erano voluti per compiere quel tragitto. E i minuti che mancavano alla sera, quando avrebbe rivisto Ofelia. Quelli non avrebbe potuto calcolarli, ma si augurò che fossero pochi. Il meno possibile.
Ne erano già trascorsi millecentoquindici quando raggiunse lo specchio che gli interessava. Era uno specchio a muro all’interno di una sartoria perennemente vuota e con la porta aperta. Nessuno lo vedeva mai entrare, e dunque nessuno lo vedeva mai sparire all’interno dello specchio. Non amava servirsi del potere di Ofelia, sebbene dopo la cerimonia del dono fosse diventato il suo potere a tutti gli effetti, ma non vedeva alternative: salire su un trenuccello gremito era fuori discussione, con i suoi artigli che saggiavano l’aria, famelici più che mai. Tra la scarica di energia che gli aveva dato Ofelia il giorno prima e la tensione che gli irrigidiva il corpo all’idea di rivedere i Genealogisti erano più nervosi che mai, pronti ad attaccare non solo chi si avvicinava ai suoi angoli ciechi, ma chiunque, indistintamente. Non avevano nemmeno bisogno di un pretesto.
Si immerse di testa, titubante, nella superficie riflettente, concentrando lo sguardo sull’armatura che gli avviluppava la gamba, ma si scontrò con il vetro dello specchio. Trattenne a malapena un sospiro. Ofelia gli aveva spiegato, tempo prima, che la lettura e l’attraversamento degli specchi funzionavano un po’ alla stessa maniera, ed erano allo stesso tempo diametralmente opposti, come due poli con la stessa carica. Entrambe le capacità erano permeate dall’individualità della persona che le adoperava, basate sull’io; ma, mentre la lettura presupponeva il dimenticarsi di se stessi per poter accogliere meglio le percezioni altrui, l’attraversare gli specchi richiedeva trasparenza, onestà con la propria persona. Chi attraversava uno specchio non doveva scordarsi di sé. Doveva accettarsi o, quanto meno, riconoscere ciò che era, senza indulgenza, con l’intera gamma di errori, vergogna, sensi di colpa e difetti che ne seguivano.
Fronteggiare se stessi senza giustificarsi, giudicandosi nella propria interezza, non era una cosa che tutti riuscivano a fare.
E Thorn non si scusava di nulla. Sapeva esattamente chi fosse, non aveva difficoltà ad ammetterlo. Sapeva di essere pedante talvolta, maniacale, ossessivo, asociale, poco loquace, anaffettivo, calcolatore, logico oltre ogni limite, senza senso dell’umorismo, inflessibile, stakanovista, rigido, privo di tatto, e non cercava scuse. Sapeva di esserlo.
Il fatto che lo sapesse, però, non gli rendeva quelle caratteristiche più digeribili. Allo stesso tempo, non trovava motivi per modificarle. Dell’opinione altrui aveva una più che bassa considerazione.
Sollevò la testa, affrontando la vista di se stesso.
La fronte era corrugata, leggermente stempiata, anche se non eccessivamente. Non ricordava di averla mai vista distesa. Il naso era lungo e affilato, sicuramente non uno di quei nasi che la gente avrebbe invidiato. Il volto era scavato, sbarbato, squadrato. Gli occhi erano due lame che scintillavano sotto le palpebre, minacciosi; non cercò nemmeno di addolcire lo sguardo che rivolgeva al mondo, non gli sarebbe stato di nessuna utilità. Le labbra erano una riga sottile e perennemente tesa. E poi, le cicatrici… una gli attraversava la tempia, come uno squarcio nel terreno, una gli tagliava il sopracciglio e l’altra gli solcava l’intera guancia sulla faccia lunga.
Ciò che vedeva… non gli faceva né caldo né freddo. In ogni caso, si rendeva conto di avere un aspetto diverso dagli altri, ed era certo di non rientrare nei canoni di bellezza universalmente conosciuti, eppure… Ofelia…
Scosse impercettibilmente la testa e si immerse nello specchio guardandosi negli occhi.
Si disprezzava, ma sapeva chi era. Per questo riusciva ad affrontare il suo riflesso e ad immergervisi. Non era necessario amarsi per poter usufruire di quel potere. Bastava essere onesti.
Si disprezzava, da tutta una vita, e la cosa non sarebbe probabilmente mai cambiata.
Si disprezzava, ma finché Ofelia non lo avesse fatto, poteva convivere con il suo corpo, con la sua mente, con la sua individualità. Ofelia non gli avrebbe mai chiesto di diventare qualcun altro, di cambiare radicalmente.
Ofelia, chissà come, si era innamorata di lui.
Thorn emerse dallo specchio sentendosi quasi liquido, come ogni volta che ne attraversava uno. Non aveva paura di rimanervi incastrato, com’era accaduto ad Ofelia, però gli faceva uno strano effetto vedere le sue lunghe membra emergere da una superficie che doveva essere solida. Quando tirava fuori le braccia le guardava uscire centimetro dopo centimetro, materializzarsi di fronte a lui nonostante dietro lo specchio non si vedesse nulla.
Doveva concentrarsi.
Era uscito in una parte del Memoriale che era sempre vuota: i bagni del personale di servizio della biblioteca, nella sezione meno visitata in assoluto secondo le statistiche degli ultimi cinque anni. Uscì senza guardarsi indietro, disinfettandosi le mani mentre attraversava le librerie. Vide un certo trambusto sopra di sé, o sotto di sé, dato che era sbucato sul soffitto del Memoriale, anche se in quel luogo sopra e sotto perdevano di significato. Aveva lottato ferocemente con quelle concezioni agli inizi del suo impiego lì, perché la mancanza di una direzione definita, di un sopra e sotto chiaramente identificabili, generava solo caos. Dal momento che non poteva cambiare quella situazione, aveva deciso di non concentrarcisi troppo. In ogni caso, sopra di lui il fermento era palese: file di persone si dirigevano verso impiegati seduti dietro piccoli tavoli, a quanto pareva.
Non poté impedirsi di corrugare la fronte. Cosa stava succedendo? Era solo una pedina dei Genealogisti, lo sapeva, ma avrebbe apprezzato qualche informazione in più. Rallentò leggermente il passo quando passò alle spalle di due commessi che confabulavano proprio di ciò che accadeva sopra di loro.
- Censimento di cosa? – chiese uno, di cui Thorn non si prese la briga di guardare nemmeno le scarpe.
- Dei babeliani che risiedono qui da meno di dieci anni. Anzi, probabilmente non possono nemmeno essere definiti babeliani. Forestieri, forse potremmo defin…
Thorn riprese il passo abituale mentre si allontanava. Aveva sentito il necessario: censimento di chi era in città da meno di dieci anni. Ofelia era probabilmente una delle ultimissime arrivate a Babel, se non l’ultima. Era scontato che avrebbero avuto bisogno di censire anche lei, quindi. Sentì le sopracciglia indolenzirsi, costrette come le aveva ad accartocciarsi su loro stesse, ma non poteva farci nulla. Ofelia sembrava sempre attirata dagli eventi verso il luogo dove si svolgeva l’azione principale. Avrebbe dovuto considerarlo un bene per le loro ricerche, ma la verità era che Ofelia aveva la grandissima e ormai assodata tendenza a scatenare disastri su scala arcale.
Non gli piaceva quel censimento, per quanto fosse sinonimo di ordine.
Arrivò al club di genealogia in trecentosessantanove secondi. Se l’era presa comoda. Ma il suo ritardo di cinquantanove secondi non servì a farlo arrivare insieme ai Genealogisti. Come al solito, attese per altri millesettecentoquarantacinque secondi in quella stanza opulenta e di dubbio gusto, talmente pacchiana con i suoi rivestimenti in oro che Thorn si sentiva a disagio anche solo a guardarli, prima che i Genealogisti arrivassero. Meno di mezz’ora. Un record, per loro.
- Welcome, sir Henry – dissero all’unisono appena entrati, aggiungendo oro all’oro con la loro presenza.
Gli diedero il benvenuto, sì, ma non lo fecero sentire tale. Fermo sulla solita sedia di cui sapeva le misure a memoria, li osservò prendersi da bere con tutta calma da un piccolo carrello ricolmo di dolci e bevande. A quando pareva i più importanti rappresentanti di LUX si erano alzati da poco.
Thorn non poté evitare di dare un’occhiata all’orologio da taschino, che come al solito lo assecondò senza bisogno che lui lo aprisse: era mattina inoltrata. Trattenne a stento una smorfia: non aveva molto in simpatia chi perdeva così tanto tempo. Non aveva molto in simpatia nessuno, a dire il vero, ma quella coppia ancora meno.
Tornò a fissarli trucemente, cercando di mettere loro una certa fretta, ma loro continuarono a fare colazione in silenzio e con estrema flemma, imboccandosi a vicenda, bevendosi le loro carezze e mangiandosi con gli occhi in un modo che avrebbero dovuto adoperare per il cibo, invece che per loro stessi. In quei casi Thorn distoglieva lo sguardo nauseato. La sua mente correva inevitabilmente a Ofelia, sovrapponendo alle loro carezze quelle che lei gli aveva dedicato solo il giorno prima. Se prima che lei arrivasse a Babel riusciva a tenere a bada i propri pensieri sul fatto che lei fosse l’unica eccezione al senso di disgusto onnipresente che lo pervadeva quando vedeva qualcuno toccarsi o qualcuno lo toccava, da quando l’aveva baciata e aveva condiviso con lei…
Deglutì a vuoto. Immaginarsi le mani di Ofelia al posto di quelle di chiunque altro non lo disgustava affatto. Semmai, il contrario.
Passarono altri millesettantasette esasperanti secondi prima che loro prendessero posto sul divano di fronte a lui. Quasi una sopra l’altro. Si stavano già tenendo le mani. Thorn si ritrovò a chiedersi quante volte al giorno quei due…
Scacciò il pensiero con violenza, infuriandosi con se stesso. Non erano pensieri da fare, né su lui e Ofelia, né su quei due individui spregevoli. Come unica reazione ottenne uno scatto a stento trattenuto degli artigli. Doveva controllarsi. Se la miglior difesa era l’attacco…
- Sono pronto per ricevere i nuovi ordini – tagliò corto, desiderando porre fine quanto prima a quell’incontro. Dubitava che Ofelia fosse già a casa di Lazarus ad attenderlo, visto il censimento e la mole di persone da registrare, ma qualsiasi posto sarebbe stato meglio di quello.
La donna gli sorrise con indulgenza. In pratica, piegò gli angoli della bocca all’insù, ma gli occhi rimasero calcolatori e attenti, privi di qualsiasi empatia.
- Ma certo, dear friend – commentò lei, posando una mano sulla coscia dell’uomo.
- Siamo certi che il vostro aiuto ci tornerà utile anche questa volta – ribadì lui, con un movimento gemello che lo portò ad incrociare il braccio con quello della moglie.
Thorn attese. I modi in cui i Genealogisti gli consegnavano i dettagli della nuova missione erano sempre diversi, ma solitamente si servivano di qualche bambola di porcellana dalle fattezze umane raccapriccianti. Troppo simili a persone vere perché lui potesse apprezzarne i lineamenti, troppo inutili perché potesse trovarvi un qualsivoglia interesse. In ogni caso, quelle bambole inanimate e grottesche erano di gran lunga più umane dei due individui che le adoperavano come messaggere.
Gli occhi dei Genealogisti, come se appartenessero ad uno unico corpo, lo fissavano immobili, battendo le palpebre all’unisono.
Passarono altri centoventi secondi precisi a scrutarlo prima di chiedere: - Andrete fino in fondo alla vostra missione?
- Sì.
Come sempre.
- Good boy.
La donna riprese la parola da sola. - Fuori dalla porta vi aspetta la nostra… aiutante. Vi consegnerà il vostro nuovo ordine di lavoro. Fatela entrare non appena sarete usci…
Senza mezzi termini, l’uomo le infilò la lingua in bocca in un modo viscido che questa volta fece rimestare le viscere a Thorn dalla repulsione. I corpi d’oro sul divano erano talmente intrecciati in un groviglio luccicante che persino Thorn ebbe difficoltà a capire cosa appartenesse a chi.
La donna si staccò sospirando.
- Ditele di aspettare la nostra uscita – rettificò l’uomo, prima di dedicarsi nuovamente alla moglie.
Thorn se ne andò senza salutare, e loro si dimostrarono troppo impegnati per ricordargli che, come al solito, avrebbero atteso con impazienza la sua prossima visita.
Si chiuse la porta alle spalle con forse troppa forza, e strinse con stizza il pomello prima di lasciarlo andare e incontrare gli occhi spaventati di una giovane Pharaon. Era nuova nell’entourage dei Genealogisti. Thorn sapeva che non sarebbe durata molto.
- Buo-buongiorno sir Henry – balbettò, incapace di modulare sia le proprie emozioni che le sue. – La conoscenza è al servizio della pace.
Lui non rispose al saluto, ma fissò subito la bambola che la ragazza teneva con esitazione tra le mani.
- E-ecco, i lord mi hanno chiesto di farvi avere questa – mormorò porgendogli la bambola, arrossendo.
Era logico chiedersi cosa ci facesse un uomo come lui con una bambola, ma non avrebbe dato alcuna spiegazione.
Sentì un pizzico di pena per quella ragazza e l’ingrato ruolo che la obbligavano a ricoprire. – Grazie. I lord vi attendono qui fuori, saranno loro ad uscire.
La giovane fece un cenno affermativo con la nuca, e Thorn si allontanò senza congedarsi.
Ripercorse i suoi passi a ritroso fino a tornare nel bagno vuoto da cui era arrivato, stringendo la bambola con una tale forza da temere di crepare la fine porcellana. Fortunatamente gli artigli non avevano effetto sugli oggetti, dato che erano privi di sistema nervoso, ma le sue dita potevano essere ugualmente pericolose.
Si specchiò nuovamente, provando un intenso raccapriccio per ciò che era diventato: una marionetta. Allo stesso tempo era grato di esserlo, perché quel ruolo gli permetteva di dare ad Ofelia una scelta. Anzi, più d’una. Potevano sembrare sentimenti contraddittori, ma erano strettamente collegati e imprescindibili. Certo di chi fosse e di chi sarebbe stato, si immerse nel proprio riflesso senza tentennare.
 
Sbucò dallo specchio del grande bagno padronale adiacente alla camera di Ofelia. Alla loro camera… La sera prima lo aveva usato per darsi una bella ripulita dopo che le sirene erano scattate. Erano rimasti alzati fino a tardi cercando di carpire più informazioni possibili su quanto accaduto, e alla fine Ofelia si era addormentata sul divano del salotto, con Ambroise che le ronzava attorno aggiungendole ora una coperta, ora un cuscino. Quando Thorn aveva capito che l’unica cosa da fare era attendere l’indomani per svolgere qualche ricerca sul campo, aveva svegliato Ofelia perché andasse a riposarsi come doveva a letto. L’aveva accompagnata in camera e, preda del sonno, lei si era sdraiata senza quasi spogliarsi, a parte gli occhiali.
Thorn si era lavato, notando per la prima volta lo specchio del bagno, senza soffermarsi a guardarsi, però, e poi era tornato in camera quando mancavano ancora tre ore e quarantaquattro minuti all’alba. Come ogni cosa, anche lo spuntare del sole sembrava estremamente puntuale a Babel. Ofelia aveva il sonno pesante, non aveva cambiato posizione, inducendolo a chiedersi quante ne avesse passate per essere così stanca. Tutte quelle cicatrici sorte in seguito al suo soggiorno alla Buona Famiglia… Aveva lottato per trattenere gli artigli, seduto sul bordo del letto, mentre le dava le spalle. In riflessione.
Con la bambola ancora in mano, si diresse verso il salotto, scrutando con sguardo torvo gli automi che saltuariamente gli si avvicinavano scodellandogli qualche proverbio dalla dubbia logica come UN OMBRELLO SERVE ANCHE COL SOLE o FORCHETTA E COLTELLO RENDONO IL PASTO PIU’ BELLO. Era quasi ora di pranzo, e Ambroise si stava facendo preparare qualcosa dall’automa della cucina. Thorn aveva già di suo poco appetito, l’idea di mangiare qualcosa cucinato da una macchina non gli faceva venire certo l’acquolina in bocca.
Cercò un luogo appartato per poter riflettere in pace, e alla fine optò per la sala dell’impluvium, con il soffitto aperto che lasciava entrare le piogge per riempire la vasca sottostante. Thorn aggrottò le sopracciglia, chiedendosi di quale utilità potesse essere un luogo del genere, ma almeno lì non gironzolavano tanti automi e c’era un divanetto per sedersi di fronte all’impluvium. Non vi prese posto lui, ma vi sistemò la bambola, mentre lui le si metteva di fronte. Passò i successivi ventisettemilasettecentoquarantacinque secondi, quasi otto ore, a scrutare la messaggera di porcellana dei Genealogisti, chiedendosi cosa avrebbe potuto dirgli, quale missione affidargli, quale ruolo avrebbe svolto; e come avrebbe potuto includere Ofelia in quel piano, se lei lo avesse voluto. Ofelia, che era la ragione per la quale lui stava attenendo invece di ascoltare seduta stante il messaggio che avrebbe dato una direzione alle sue ricerche, che avrebbe plasmato il suo futuro. Se solo qualche anno prima gli avessero detto che avrebbe atteso di propria spontanea volontà tutte quelle ore solo per condividere con una donna i propri pensieri e progetti… lo avrebbe considerato il parossismo dell’assurdità. Un evento inverificabile. Invece eccolo lì, orologio alla mano, ad attendere con pazienza il suo ritorno, per ascoltare il messaggio insieme.
Si tolse la giacca da Lord di LUX, si arrotolò le maniche fino a lasciar scoperti gli avambracci e cinque cicatrici. Formulò settantanove teorie con altrettante linee d’azione per sé e Ofelia, ben più delle trentaquattro pronunciate da Ambroise, che a metà pomeriggio lo aveva raggiunto adducendo la scusa che un buon padrone di casa non lascia mai soli i propri ospiti. Thorn lo guardò torvo per pochi istanti, malcelando la sfiducia che nutriva nei confronti di quello strano invalido invertito. Figlio di Lazarus, per giunta. Più fastidioso ancora della sua presenza fu il suo soliloquio, che durò ben settantuno minuti. E quarantanove secondi. Se li sorbì tutti, cercando di trattenere gli artigli che sentiva di secondo in secondo più acuminati, pronti ad attaccare. Non era conveniente dargli sui nervi, e un modo per farlo benissimo era sproloquiare senza bisogno alcuno di farlo. Come Ambroise.
Riuscì a non ferirlo, in ogni caso, e quando gli portò del riso decise di mangiare, se non altro per mantenersi in forze. Aveva saltato il pranzo, non poteva permettersi di saltare anche la cena. Mangiò per senso del dovere, non certo perché il riso fosse buono, anzi, o perché avesse appetito. Ofelia arrivò duemilacinquecentoventotto secondi dopo, sbucando dal cassettone del salone.
Lui non distolse gli occhi dalla bambola, ma non poté impedirsi di ascoltare la sua voce, che gli entrò nelle orecchie facendogli vibrare i timpani solo per raggiungere il suo stomaco e scorrergli nel sangue. Gli artigli parvero placarsi leggermente. Era fuori da ogni logica il modo in cui il suo corpo reagiva a lei, che fosse la sua voce, il suo sguardo o il suo tocco, mentre la sua mente veniva calamitata con prepotenza; come se durante il giorno non dovesse sforzarsi di relegare in un angolo il pensiero di lei, costante e talvolta fastidioso come una mancanza di controllo. Eppure, si sentiva così sollevato quando Ofelia era vicina a lui…
Ascoltò con attenzione il suo dialogo con Ambroise, notando come fosse gentile, empatica e riconoscente nei confronti di quel giovane. Ormai aveva capito che era una caratteristica intrinseca del suo carattere: Ofelia era buona, apertamente buona; più si fidava di qualcuno, più offriva. Lui ne era l’esempio per antonomasia: quando Ofelia aveva capito che poteva fidarsi, gli aveva dato tutto, ogni parte di sé, ogni gesto e pensiero.
Attese che mangiasse senza metterle fretta: doveva essere stanca dopo il censimento e non voleva metterle fretta. Commentò sbuffando alcuni punti del loro dialogo, specialmente la parte riguardante Ambroise e le sue teorie. Ora che Ofelia era arrivata, la presenza del giovane gli dava ancora più sui nervi, come se fosse un intruso, e non il contrario. Di sicuro era un intruso in quella vicenda tra lui e… sua moglie.
- Posso? – sentì chiedersi poco dopo.
L’aveva percepita avvicinarsi, ma non si era mosso in alcun modo. Aveva solo spostato gli occhi, osservandola. Era accaldata e impolverata, provata dalla giornata, con un timbro sotto la frangetta disordinata e una macchia di curry gialla che lo attraversava.
Annuì, lieto del fatto che avesse preso sul serio il suo avvertimento di non compiere mai gesti bruschi o alle sue spalle, di avvisarlo preventivamente. I suoi artigli, agitati dalla sua comparsa improvvisa, si calmarono quando Thorn riuscì a convincerli del fatto che andava tutto bene, che Ofelia poteva fare ciò che voleva, che non era di sicuro un nemico. L’opera di persuasione del proprio sistema nervoso non fu né lungo né complesso, forse perché i suoi nervi erano intrisi anche del piacere che aveva provato il giorno precedente, una sensazione mai sperimentata prima di allora… e dovuta ad Ofelia. Era logico che non la considerassero una minaccia, ma era decisamente meglio prendere le dovute precauzioni.
Ofelia lo interrogò circa la provenienza della bambola, a cui Thorn rispose con alcune ulteriori intromissioni da parte di Ambroise. Trattenere gli artigli stizziti fu più facile con Ofelia accanto, ma non vedeva l’ora che il padrone di casa togliesse il disturbo. Non aveva alcuna intenzione di fargli ascoltare il messaggio dei Genealogisti, e a dirla tutta desiderava anche stare da solo con Ofelia, dopo un’intera giornata passata lontani. Lei bevve del tè caldo senza fretta, a suo agio vicino a lui come non l’aveva mai vista. Quando erano al Polo cercava sempre la distanza, a Babel sembrava essere dilaniata dall’incertezza, non aveva compiuto un solo passo per avvicinarglisi per troppi giorni prima di dichiararsi a sorpresa e ora sembrava addirittura attirata da lui.
Attratta. Era un pensiero paradossale, ma i suoi occhi non lo ingannavano. Prese la bambola e la rivoltò, mostrando il meccanismo vocale sulla schiena di fredda porcellana.
- Aspettavo che tornassi per sentirla insieme – ammise, trovando più facile dire certe cose quando di mezzo c’era anche una componente di lavoro.
Aveva atteso il suo ritorno anche per sentirla finalmente accanto, per averla sott’occhio, per sincerarsi che stesse bene, ma attribuire quel motivo alla loro missione gli rendeva più facile esprimere il concetto.
Non ottenendo risposta, guardò Ofelia con la coda dell’occhio, notando come il suo sguardo si fosse soffermato sulle sue mani. No, non sulle sue mani o sulla bambola, ma sugli avambracci, sulle cicatrici che li solcavano, come se il giorno prima non le avesse toccate… baciate tutte. Sul suo viso traspariva tenerezza, non pietà, quasi orgoglio. Talvolta le espressioni di Ofelia erano davvero imperscrutabili.
In imbarazzo senza motivo, fu costretto a schiarirsi la voce prima di decretare: - Insieme.
Insieme, sotto ogni punto di vista.
Ofelia annuì, sicura. – Insieme.
Finalmente Ambroise si congedò. Sarebbe stato scortese dire a chi li ospitava che era il caso che togliesse il disturbo. Non che Thorn avesse qualche remora a farlo presente, ma forse Ofelia non avrebbe gradito. E a proposito della fiducia che Ofelia sembrava nutrire verso quel ragazzo, e verso un sacco di altre persone di cui lui avrebbe diffidato senza pensarci due volte, la mise in guardia. Le loro questioni erano solo loro, a prescindere dall’argomento trattato.
Thorn cercò di convincersi che non fosse la gelosia a parlare al posto suo, ma gli artigli gli dissero il contrario, guizzando nervosamente.
Ascoltarono il messaggio della bambola. Come al solito, Thorn si concentrò solo sul suono delle parole, sulla loro successione, sul discorso in generale e non sul significato e sulle implicazioni, così da poterlo memorizzare perfettamente. Come una specie di lettura. Quando la bambola tacque, si ripeté per filo e per segno il discorso, cominciando a districare le decine di scenari che si presentavano loro davanti.
Discusse con Ofelia del piano, dei significati reconditi delle rivelazioni e del come la cosa li riguardasse. Si accigliò quando lei disse che aveva incontrato i Genealogisti quella mattina, rispondendo abbastanza evasivamente da fargli temere che avessero interagito. Ovviamente, Ofelia si attirava addosso le sciagure peggiori, come insetti sulla carta moschicida. Una carta moschicida enorme e parecchio appiccicosa. La portata della rivelazione del progetto Cornucopiando era così vasta da non poterla abbracciare tutta in una sola notte e con un solo pensiero, ma parlarne con Ofelia era… interessante.
Quella era la prima volta che sviscerava un argomento dall’inizio alla fine con qualcuno, che non contava solo su se stesso, che includeva un’altra persona nel suo piano e non solo perché gli era utile, ma anche perché, in parte, lo voleva. Era talmente abituato a fidarsi unicamente di sé, a lavorare da solo, ad usare solo le proprie forze e il proprio cervello che gli era ancora difficile mettere a parte Ofelia di ogni suo pensiero. Eppure, mano a mano che la discussione procedeva si ritrovò a farlo con sempre più facilità, come se Ofelia fosse diventata una propagazione di sé, come gli artigli, una parte di lui.
E forse lo era davvero. Nessuno era mai entrato così dentro di lui, e nessuno lo avrebbe mai rifatto. Solo lei, che buttava giù qualsiasi statistica come se la matematica fosse un’opinione. Si incollerì, odiava quella situazione, il fatto che lui e Ofelia non potessero parlare di… case, o mobili, o di qualsiasi altra cosa parlasse una coppia appena sposata. Odiava dover stare lì, accanto a lei, a parlare del crollo delle arche, di distruzione, di progetti che non riguardavano la loro vita insieme ma il dover sventare una donna ambiziosa e ossessionata dall’onnipotenza e un’entità non identificata che distruggeva il suolo su cui poggiavano i piedi, tutto ciò che conoscevano.
I suoi occhi incontrarono un’asimmetria non trascurabile sulla pavimentazione, e fu costretto a chiudere gli occhi per non notarla più, per ignorarla e concentrarsi sulla questione fondamentale. Cercò di rievocare quella memoria tramandata da generazioni, la memoria di Faruk, ma gli sembrava di cercare una chiave in una pozzanghera fangosa, farsi torbido lui stesso. Finché Ofelia non lo aiutò, come un’estensione di quella memoria che però non aveva ereditato. Come lei aveva ascoltato lui, Thorn si fece attento quando gli parlò di quel riflesso che aveva liberato, dell’Altro, di come secondo lei non fosse che il riflesso di Eulalia Diyoh. Erano tutte teorie interessanti, su cui meditare, su cui programmare, ma all’improvviso si sentì stanco, svuotato.
Non voleva passare l’intera serata a parlare con Ofelia di certi argomenti. Pensiero che lo contrariò. Era in gioco il destino del mondo, eppure lui… voleva passare del tempo con lei. Guardò infatti l’orologio da taschino, per constatare con precisione che ore fossero e quanto gli rimanesse prima dell’alba.
Perché all’alba, lo disse ad Ofelia, sarebbe andato all’osservatorio. Prima avessero risolto l’equazione e prima… avrebbero potuto condurre una vita normale, e se non normale, quando meno una vita che potevano decidere da soli, che nessuno avrebbe imposto loro.
Aveva chiuso l’argomento così, ma vide Ofelia stringere i pugni, esitare. Che volesse dirgli altro? Che volesse continuare la discussione? Non gli passò minimamente per la testa che potesse nascondergli qualcosa, qualcosa di doloroso da dire, di grave. Ofelia era sincera, non gli occultava più nulla, non glielo aveva mai nascosto a dire il vero. Ricordava ancora quanto si fosse infuriata quando lui non era stato del tutto trasparente circa il motivo del matrimonio combinato, e ancora lo rimpiangeva. Eppure, eccoli lì, sposati, insieme, pronti ad affrontare una minaccia più grande di loro per riprendersi le loro esistenze e le loro scelte.
- Vengo con te – sbottò allora Ofelia, accorata. Decisa.
Quelle parole lo fecero contrarre, del tutto inaspettate. Erano così… insolite. Pericolose.
- Non posso portarti con me.
Avrebbe voluto, l’avrebbe portata con sé ovunque pur di non separarsi mai da lei, ma condurla all’osservatorio avrebbe smascherato il suo inganno, costringendoli a cambiare i loro piani completamente.
Ofelia gli disse esattamente le stesse cose che aveva pensato, aggiungendone però una che lui non aveva nemmeno contemplato: si sarebbe offerta volontaria. Thorn cercò di farla desistere, sia perché sarebbe stato compromettente, sia perché quel luogo gli pareva tutto fuorché sicuro. L’osservatorio delle Deviazioni era ammantato di mistero, il posto di cui aveva fatto più fatica in assoluto a sondare i segreti, senza oltretutto riuscirci. L’idea che Ofelia ci andasse spontaneamente per sottoporsi agli esperimenti… no, se avesse potuto, lo avrebbe impedito. Anche se impedire una cosa ad Ofelia, lo sapeva bene, era come cercare di fermare un treno in corsa. Ofelia non rispondeva a nessuno se non alla propria volontà e, sebbene fosse una delle cose che lo avevano più colpito di lei, lo spaventava.
Osservando meglio il suo timbro, visibile sotto la frangetta, pensò che non era di buon auspicio che i Lord di LUX avessero i suoi dati, per quanto falsi. Le consigliò di stare nascosta, ma sapeva che sarebbe valso a poco come avvertimento.
- Non basterà tutta la burocrazia di Babel a impedirmi di raggiungerti.
Quelle parole ebbero uno strano effetto su di lui. Lo raggiunsero con la forza di un’onda d’urto, ma lo rammollirono come una carezza.
Erano tra le parole più belle che qualcuno gli avesse mai rivolto, quasi più belle della dichiarazione che Ofelia gli aveva confessato solo due giorni prima. Era una frase che esprimeva attività, non era passiva quanto un “ti amo”, statico. Ofelia, lo sapeva bene, avrebbe fatto carte false per stargli a fianco, e quella consapevolezza accrebbe l’amore che provava per lei, insieme alla convinzione che Ofelia lo amava davvero.
La guardò con perplessità, cercando di mascherare le emozioni che gli stavano attraversando mente e corpo. Era talmente inverosimile che lei fosse lì, che fosse bastata una semplice confessione perché lasciasse cadere anche l’ultimo muro che aveva eretto contro di lui… perché lo includesse in tutti i suoi piani, appoggiandosi a lui con fiducia cieca. Sentì un’esplosione di desiderio partirgli dallo stomaco e diffondersi fino alla punta degli artigli, che sguazzarono trepidanti.
La represse. Distolse lo sguardo, incapace di sostenere ancora quello longanime di Ofelia. Così sincero e trasparente. Era… nessuno lo aveva mai guardato in quel modo. Sembrava che ai suoi occhi fosse in grado di compiere miracoli, di non sbagliare mai. Infallibile, invincibile. Perché lo guardava con quella fermezza? Perché non aveva dubbi su di lui? Aveva passato una vita intera a non valere nulla agli occhi degli altri, e ora arrivava lei, piccola donna convinta come poche, che lo scrutava dentro, oltre le cicatrici, oltre il sangue, oltre la nomea di bastardo. Lo guardava come se fosse pronta ad affidargli se stessa, la sua vita, e non avesse paura perché sapeva che lui poteva tutto. Lo guardava come se lui fosse il suo mondo.
Dovette schiarirsi la gola per riuscire a parlare, e per trovare il coraggio di farlo. – Ti aspetterò.
Non solo in quel frangente, ma sempre, qualunque cosa fosse accaduta. La sua vita le apparteneva, non aveva più alcun senso se lei non c’era. Del resto, chi altri lo attendeva, altrove? Non aveva più un solo parente vivo, se non Berenilde, che aveva già la figlia di cui occuparsi. Nessun amico. Solo Ofelia, sua moglie, che era disposta a seguirlo fin dentro quel ginepraio pur di stare con lui.
Il suo cuore accelerò di fronte alla portata di quelle rivelazioni nuove. Non sapeva bene come comportarsi, nonostante tutto quello che avevano passato insieme, nonostante la distanza temporale e spaziale, l’inizio a dir poco burrascoso e l’epilogo roseo. Nonostante il giorno prima…
Alla fine, lasciandosi guidare da ciò che il corpo gli suggeriva di fare già da diversi minuti, e che gli aveva suggerito in tutti quegli anni, l’abbracciò stretta appena un secondo dopo che lei ebbe chiesto: - Devo disinfettarmi?
Disinfettarsi per cosa? La sua sporcizia era superficiale, non intrinseca come la sua, insidiosa. Lei era pura, pulita.
La strinse forte, come temendo che potesse scomparire o scappare se avesse allentato la presa.
- No – rispose in seguito, ricordandosi della domanda.
Finalmente la sentì sciogliere la propria rigidità, abbandonarsi a lui senza rispondere all’abbraccio, ma accoccolandosi dentro la gabbia delle sue braccia, che la circondavano strettamente. Si chiese se sentisse il modo in cui il suo cuore si agitava in petto. Era… così bella, quella sensazione. Aveva i capelli che portavano ancora un lievissimo sentore di sapone, anche se gli odori della città lo avevano quasi fatto sbiadire. Non gli importava, quello era l’odore di Ofelia, e lo avrebbe tollerato a prescindere.
Dopo diciassette lunghi secondi allentò la stretta, quantomeno per permetterle di respirare. Ofelia aveva gli occhi spalancati, forse la collisione contro il suo corpo era stata troppo brusca. Imbarazzato, si sentì arrossire, e non solo perché era stato impulsivo: lo sguardo di Ofelia, con gli occhi aperti e limpidi, era terribilmente conturbante. Si costrinse a voltare lo sguardo pizzicandosi la radice del naso, con forza, come per impedire al sangue di sgorgare, bloccando il passaggio.
- Non sono abituato a essere guardato in questo modo – ammise, vergognandosi.
- In che modo? – domandò Ofelia. Non si era mossa di un millimetro.
Era un territorio spinoso, quello in cui si era addentrato. Come poteva esprimere con facilità quei concetti, del tutto estranei a uno come lui? Si schiarì la gola nuovamente per prendere tempo e coraggio, per mandar giù quel groppo di reticenza che gliela serrava. I sentimenti non erano come la matematica, non rispondevano a nessuna legge. Erano imprevedibili. E Thorn odiava le cose imprevedibili, incalcolabili. Come l’amore.
- Come se fossi incapace di commettere errori. Invece alcuni ne commetto. Anche un po’ di più.
Innamorarsi di lei era stato un errore. Enorme. La cosa più bella che gli fosse mai capitata.
Si chinò su di lei, perché vedesse la serietà con cui le parlava. Non sapeva come fare in quella situazione, in generale, come marito. Non aveva mai letto manuali che trattavano l’argomento, sia perché non esistevano sia perché non gli era mai interessato, prima di allora. Non ne aveva mai avuto bisogno. Ma più impellente di qualsiasi altra cosa c’era la necessità, in quel momento, di sapere che Ofelia avrebbe continuato a guardarlo in quel modo. Per tutta la vita, se fosse stato possibile. Non voleva deluderla, ma non sapeva come fare. Aveva bisogno che lei lo guidasse. E non se ne vergognava. Non era orgoglioso fino al punto di non chiedere aiuto. Anzi, non era proprio orgoglioso.
- Se ogni tanto c’è qualcosa che non ti va a genio… - mormorò, mentre l’uso del tu lo colpiva con forza, facendogli provare un senso di intimità ancora più profondo rispetto al giorno prima, a quando l’aveva toccata… - un gesto che faccio, una parola che non dico… devi dirmelo. Non voglio dover stare a chiedermi perché non riesco a rendere felice mia moglie.
Un gesto che faceva… se fosse stato necessario, non l’avrebbe più abbracciata. Bastava che lei ordinasse. Una parola che non diceva… se lei glielo avesse chiesto, le avrebbe detto “ti amo” mattina e sera, tutte le volte che avesse voluto. Non erano cose che gli facevano piacere, andavano letteralmente contro la sua indole, ma per lei avrebbe fatto qualsiasi cosa. Solo per continuare a vedere quegli occhi pieni di calore e confidenza.
La vide mordersi una guancia. Stava per propinargli una sfilza di cose da fare e non fare? Non si sarebbe sorpreso, data la sua scarsa esperienza nel campo. Chissà quante cose aveva sbagliato finora…
- Sono già felice – ammise lei, senza esitazione. – Anche un po’ di più.
Quelle parole lo colpirono più di qualsiasi altra pronunciata fino a quel momento. Ofelia non aveva la minima idea di cosa volesse dire quel “anche un po’ di più” per uno come lui. Lo diceva spesso, qualcuno avrebbe potuto considerarlo un manierismo, ma non era altro che il suo modo per rendere il concetto astratto di infinità. Lui si affidava solo e unicamente ai numeri; nelle questioni quotidiane, al lavoro, nella vita, tuttavia, il concetto di eternità o infinito non c’erano.  Ogni cosa che esulasse l’algebra era quantificabile, materiale, fissa. Lui non amava “da morire” qualcosa. Non desiderava “infinitamente” qualcos’altro. Erano illogici. Se aveva fame, lo sapeva determinare in una scala calcolabile da zero a dieci. Così valeva per tutto.
Quel “anche un po’ di più” era il suo undici nella scala.
Il suo sovrappiù. L’incalcolabile che si verifica in condizioni estreme. Il suo per sempre. L’eccesso inquantificabile.
Con quella semplice frase, che Ofelia forse gli aveva rivolto quasi per scherzo, lei non aveva fatto altro che dirgli che era felice fuori misura, in una scala che nemmeno esisteva, oltre il lecito.
Thorn l’amò prepotentemente. Anche un po’ di più.
Si chinò su di lei senza esitare, certo del fatto che fossero sulla stessa linea di pensiero, nello stesso universo sensoriale. Voleva annullare qualsiasi distanza, baciarla, sentire le sue labbra calde e morbide sulle proprie, bruciare di un calore che non veniva dall’alta temperatura, ma dal contatto con la sua pelle.
E chissenefrega se erano sporchi e sudati.
Un rumore stridente. Si bloccò. L’armatura si era inceppata.
Quello era un tempismo decisamente pessimo.
Anche un po’ di più.
Trattenne a stento la furia degli artigli, sperando che non rivolgessero il loro fastidio contro di lui. Aveva un tale nervoso addosso che se avesse potuto li avrebbe lasciati scatenare per un secondo, il tempo di scaricare i nervi. Dannata armatura, dannata zoppia.
Ofelia rideva della grossa, per nulla imbarazzata dal momento intimo andato in frantumi. Se possibile, si sentì ancora più in imbarazzo.
Sistemò l’esoscheletro con gesti più affettati e brutali del normale, indirizzando a quei bulloni e a quel metallo la sua stizza. Quando fu sicuro di averlo stabilizzato, si raddrizzò lentamente. Cosa avrebbe dovuto fare? Cercare di baciarla nuovamente? Non ci sarebbe stato nulla di male, lo desiderava ancora, ma… non sarebbe stato strano? Artificioso?
Ofelia lo tolse dall’indecisione allungando la mano lentamente, affinché lui la vedesse. Gli prese la sua tra le piccole dita, accarezzandogli il dorso col pollice. – Andiamo in camera? – mormorò.
Thorn non se lo fece ripetere due volte, con il cuore in gola e l’intestino che bruciava, la lava nelle vene. Rischiò quasi di scordarsi la bambola sul divanetto.
Quasi.
 
*
 
Era vero che Thorn non si era dimostrato troppo turbato dal suo stato pietoso, piena di polvere incollata ai capelli dal sudore e della sabbia sulla pelle, ma Ofelia aveva davvero bisogno di lavarsi via di dosso quella giornata eufemisticamente spiacevole. Tanto più se voleva… stare con Thorn. Voleva godersi il momento, non stare a pensare alla propria sporcizia.
Esitò quando entrarono in camera, quella che avevano condiviso il giorno prima e la notte. Era vero che lei e Thorn erano entrambi nella stessa barca, entrambi incerti mentre prendevano coscienza delle esigenze e dei desideri dell’altro, ma… era difficile il preambolo. Paradossalmente, era più naturale farsi guidare dall’istinto una volta preso il via, che chiedersi come farlo accadere. Sentiva la presenza torreggiante di Thorn dietro di sé, ma nemmeno lui fece una mossa per spronarla. Forse, se lui l’avesse abbracciata e baciata, la sua volontà di lavarsi sarebbe venuta meno. Ma così non fu.
- Io… ho davvero bisogno di una doccia – mormorò, odiando il flebile sussurro della sua voce. Era un’adulta ormai, non poteva più mostrarsi debole. Prese coraggio. – Vieni con me?
Non ottenendo risposta, si voltò verso Thorn, che la fissava con le sopracciglia inarcate fino al punto di spalancargli gli occhi. Non se l’aspettava, era ovvio. Si schiarì la gola, in imbarazzo, capì Ofelia, ma non distolse lo sguardo.
- Sì – disse laconicamente, riprendendo il controllo di sé, come se lei gli avesse in realtà offerto una tazza di tè.
Anzi, no: quella l’avrebbe rifiutata.
Con un po’ di imbarazzo e diverse cadute mancate per un soffio da parte di Ofelia riuscirono ad infilarsi in doccia insieme, grati del fatto che Lazarus fosse abbastanza ricco da non lesinare sulla grandezza dei bagni.
Da lì, come aveva ipotizzato Ofelia, fu tutto in discesa. Riuscì ad insaponarsi e sciacquarsi i capelli prima che Thorn si chinasse su di lei cominciando quel bacio che era rimasto in sospeso da prima, sull’impluvium. Più in confidenza con i loro corpi rispetto al giorno precedente, Ofelia accolse con trasporto le mani di Thorn sul corpo, che vagavano sulla sua schiena, scendevano sulle natiche e sulle cosce e le accarezzavano le braccia strette al suo busto, se non altro per stabilizzarsi. Ormai sapevano cosa aspettarsi dall’altro, e Thorn le parve decisamente più sicuro, meno a disagio, meno… spaventato. Sapeva che la colpa del suo timore era da attribuirsi all’impatto visivo delle cicatrici, ma quel timore non aveva motivo di esistere. Anzi, il fatto che lei fosse l’unica testimone di quei tagli, di quei marchi sul corpo di Thorn, la rendeva insensatamente fiera di essere la sola a poterle vedere. Si sentiva privilegiata, e glielo fece capire ripassandogliele con tenerezza non appena ne incontrava una.
Fu anche grata all’impetuoso scroscio dell’acqua, che coprì i suoi gemiti sempre più profondi mano a mano che Thorn si prendeva più spazio e la spingeva contro il muro freddo e umido di vapore. Non si poteva dire che lei, da parte sua, fosse meno spudorata, comunque. Thorn parve in seria difficoltà più di una volta, e Ofelia si sentiva vibrare fino al midollo quando lui apriva gli occhi e li incatenava ai suoi; duro metallo che ardeva sotto le palpebre, che osservava solo lei, che voleva solo lei. Poi era lui quello che non era abituato ad essere guardato in un certo modo…
Dovettero interrompersi per forza quando Ofelia rischiò di scivolare per la quarta volta, dando una testata allo stomaco esposto di Thorn. Non che lui fosse molto più stabile, con la gamba storpia che ogni tanto faceva fatica a trovare una presa solida sulle piastrelle scivolose di acqua e sapone.
Ofelia non perse quasi tempo ad asciugarsi, di sicuro non si preoccupò dei capelli, e quando raggiunsero il letto le erano già scivolate delle tiepide goccioline d’acqua giù per la schiena. Rabbrividì di aspettativa. Thorn si sedette sul letto, anche lui con i capelli umidi e scarmigliati. Era raro vederlo disordinato, con ciuffi ribelli sparati in tutte le direzioni. Notando la direzione del suo sguardo sembrò intuire i suoi pensieri, e cercò di rassettarsi come meglio poteva.
Ofelia sorrise intenerita, lanciò uno sguardo ai guanti posati sui vestiti abbandonati sul pavimento del bagno e decise che nemmeno quella notte le sarebbero serviti. O almeno, lanciò uno sguardo dove pensava ci fossore i guanti e i vestiti: senza occhiali, avrebbe benissimo potuto scambiarli con un tappeto. Neanche quelli le sarebbero serviti, dato che Thorn era di fronte a lei, vicino. Ma non ancora abbastanza. Prese posto sulle sue gambe, con le ginocchia posate sul materasso attorno ai suoi fianchi. Con le mani sulle sue spalle ampie, fece leva per essere più in alto di lui. Fu esaltante vederlo reclinare la testa per riuscire a guardarla, per una volta a ruoli invertiti. Ofelia si strinse a lui quanto era fisicamente possibile, cerando di non perdersi una sola reazione di Thorn: preda più che mai delle forze contraddittorie che spesso lo animavano, sembrava agonizzare e bearsi allo stesso tempo.
Mentre gli baciava la fronte, le sopracciglia, le guance e infine le labbra sottili, che l’assalirono voraci, si chiese se la sua lotta interna non fosse dovuta agli artigli. Non poteva nemmeno immaginare quanta fatica gli costasse trattenerli, soprattutto da quando erano diventati incontrollabili in seguito all’inoculazione del suo animismo, come se anche il sistema nervoso di Thorn fosse un oggetto, eppure, in quel momento, non si sentiva la pelle elettrizzata dalla corrente dei suoi artigli. Stargli vicino aveva cominciato a procurarle sempre un certo dolore latente, che non si manifestava nella testa, come quando stava al cospetto di Faruk, ma direttamente nel corpo. Eppure, in quell’istante realizzò che l’elettricità crepitante degli artigli, simile ad un elettroshock, la stava… accarezzando. Sentiva la sua pelle farsi sensibile mano a mano che il sistema nervoso di Thorn la circondava, e forse lui non se ne rendeva nemmeno conto, preda com’era dell’eccitazione, ma non le dava fastidio. Era piacevole.
Sia la mente che il corpo che i nervi di Thorn la stavano amando in quel momento.
Ofelia si sentì andare a fuoco.
Si sedette su di lui senza preavviso, trovandosi a malapena alla sua altezza, e lui sembrò davvero soffrire. Quando la guardò negli occhi, quegli occhi da predatore in cui lampeggiavano solo desiderio e necessità, Ofelia percepì tutta la sua impazienza, e credette di sciogliersi. Ora capiva, capiva perché, come aveva detto la zia Roseline, Agata si “dava tanto da fare” e “non perdeva tempo”. Capiva come mai sua mamma, sua sorella, tutti su Anima avessero tanti figli. Capiva anche, in un certo senso, come mai Archibald, che era tanto sregolato, non si facesse problemi ad andare con chiunque.
Si vergognò quando le sovvennero le parole che aveva rivolto a Thorn tempo prima. Parole dure, cattive… e intrise d’ignoranza. Che non avrebbe mai condiviso il letto con lui e non gli avrebbe mai dato figli. Per lo meno, una delle due affermazioni si era dimostrata vera. Una piccola parte del suo cervello si chiese come mai, se non si era mai immaginata madre di famiglia, ora che quella possibilità le era preclusa l’idea di avere figli non sembrasse più così lontana dalla sua personalità. Avrebbe voluto figli? E Thorn, che aveva detto che detestava i marmocchi, avrebbe potuto cambiare opinione?
Le mani di Thorn, d’un tratto strette attorno alle sue natiche, la riportarono al presente con un gemito strozzato.
Accantonò il pensiero, non era il momento di rifletterci su, e non sarebbe cambiato nulla incaponendosi su quello che non poteva essere cambiato. Né lei né Thorn volevano figli, e non avrebbero effettivamente potuto averne. La questione era risolta e chiusa. Per lo meno, data la sua impossibilità di concepirne, non avrebbero avuto problemi di gravidanze indesiderate. Chissà se Thorn si era posto il problema, il giorno prima… dubitava che non sapesse una cosa del genere lui, che era un’enciclopedia umana. Avrebbe dovuto dirglielo.
La mano di Thorn risalì sul suo fianco e virò sul suo petto, facendole prendere nuovamente coscienza di dove fosse e cosa stesse facendo.
Un’altra volta. Presto. Ma non in quel momento. Non in quel momento perfetto che non voleva guastare. Anche gli occhi famelici di Thorn le suggerirono di rimandare, di vivere solo in quel presente, loro due.
Rispose all’occhiata interrogativa di Thorn, che si chiedeva come mai lei fosse così poco partecipativa, sistemandosi meglio sul suo grembo, mozzandogli rumorosamente il respiro. Con una mano gli spinse il petto indietro, finché lui non fu sdraiato sotto di sé, alla sua mercé. Aveva amato il modo in cui la sua mole imponente l’aveva circondata, il giorno prima, inchiodandola tra lui e il materasso, chiusa in quello spazio angusto in cui desiderava ardentemente tornare. Ma voleva anche dimostrare a Thorn quanto lo amasse, voleva eliminare quel piccolo divario rimasto tra di loro, quell’insicurezza che lo permeava da troppi anni ormai, se non da sempre.
Lo amava. Profondamente. Ad un livello che non avrebbe mai immaginato. Prima piano, timidamente, poi quel sentimento era sbocciato come un fiore, travolgente come un fiume in piena, e lui era diventato il suo punto fisso, la sua àncora, il suo “noi”. Voleva mostrargli quanto avesse bisogno di lui, quanto lo desiderasse.
Era giusto che qualcuno lo guardasse come meritava di essere guardato.
Fece tutto da sola, senza mai staccare gli occhi dai suoi, passandogli le mani su petto e addome sia per accarezzarlo che per stabilizzare se stessa. Si sentiva un po’ imbarazzata, a dire il vero, ma l’esaltazione prevaleva. Il giorno prima aveva fatto tutto Thorn, ora era il suo turno. Se lui, così amante della pulizia, così reticente ai contatti, era riuscito a fare una cosa simile, ci sarebbe riuscita anche lei. Poco importava che Thorn fosse infallibile in tutto, sempre certo nei movimenti, una freccia ben puntata contro l’obiettivo, mentre lei era goffa e scoordinata.
Cercò di mantenere il volto rilassato anche quando sentì bruciare. Era solo la seconda volta che lo facevano, non si poteva certo dire che fosse pratica, o… abituata, a quella presenza. Thorn non la mollava un secondo, quasi non batteva le palpebre. Aveva in volto un’espressione talmente intensa che Ofelia si sentì cedere le gambe, e ringraziò di essere a cavalcioni su di lui: se fosse stata in piedi, non era sicura che i muscoli le avrebbero retto.
Esalò un lungo sospiro tremante quando finalmente sì unì a lui del tutto, godendosi quella sensazione strana e nuova che era un misto di fastidio, calore, completezza e desiderio. Thorn aveva chiuso gli occhi, come se fosse in agonia. Quando Ofelia cominciò, piano, a muoversi, quasi con cautela, li aprì di scatto, inchiodandola. Erano gli occhi di un predatore, freddi, intensi, profondi, decisi. Fu tentata di chinarsi su di lui e baciarlo, in parte per soffocare anche i gemiti che le risalivano in gola a tradimento, ma attese. Chiuse gli occhi al posto suo, felice, e gli accarezzò le mani posate sui suoi fianchi. Quelle mani che la toccavano con così tanta precisione e cura…
Quando riaprì gli occhi scoprì che Thorn la stava ancora fissando, ipnotizzato, quasi sconvolto, con la mascella serrata come se in realtà stesse trattenendo una furia cieca. No, non era arrabbiato: gli artigli non le stavano facendo alcun male, ma lui fremeva sotto di sé. Talvolta le emozioni di Thorn erano talmente intense da rendere difficile la loro distinzione.
Quando sentì di essere ormai al limite si chinò su di lui, baciandolo lentamente, soffocando tra le sue labbra i suoi mormorii di piacere. Le piacque quasi di più la sensazione delle sue mani che la accarezzavano senza riserve, senza censure e zone vietate, di quello che venne dopo.
Quasi.
Alla fine giacque su di lui, col fiato grosso, con la testa posata sul suo petto. Il cuore gli batteva all’impazzata, il più potente tamburo che avesse mai sentito. Ondeggiava a ritmo dei suoi grandi polmoni, che si gonfiavano e sgonfiavano facendole quasi immaginare di essere in balìa del mare. Le sue mani affusolate erano posate sulla sua schiena, possessive.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo passarono così, ma quando alzò la testa Thorn sembrava più vigile che mai. Energico. Lei, da parte sua, si sentiva scivolare sempre più lontano. La giornata era stata lunga e pesante, non priva di paura, come quando aveva incontrato i Genealogisti, non priva di sorprese, come quando aveva fatto la visita medica, e non priva di cattivi presagi, come alla Vetreria-Specchi.
Si scoprì stanca morta, con le membra di gelatina. Quell’intenso momento con Thorn le aveva dato il colpo di grazia, e sentiva il sonno alle porte. Doveva dirgli… avrebbe dovuto dirgli della sua impossibilità… della loro impossibilità di…
In un altro momento. Non in quello.
Con le palpebre pesanti, gli baciò la pelle proprio sopra il cuore, l’incavo del collo, che lo fece irrigidire come uno spaventapasseri, gli circondò il volto con la mano e gli baciò la guancia, per poi dargliene uno lungo e tenero sulle labbra.
Thorn le scostò con gentilezza la frangia dalla fronte, baciandogliela come lei aveva fatto con lui. Le passò un pollice sulla gota, infilandole l’altra mano tra i capelli umidi. Come quando erano nella prigione del Polo, prima che lui scappasse per quasi tre anni, la strinse a sé quanto era fisicamente possibile, come se non la sentisse ancora abbastanza vicina, nonostante fosse letteralmente entrato dentro di lei poco prima, non solo mentalmente e sentimentalmente.
Poi la lasciò. La sua barba corta, ricresciuta da quella mattina, le scorticò piacevolmente il mento.
- Dovresti dormire.
- Pure tu – mormorò lei. Non aveva le forze per alzarsi.
Thorn parve intuirlo, e si raddrizzò senza sforzo portandola con sé. Ofelia appoggiò la testa sulla sua spalla, abbandonandosi contro di lui.
 
*
 
Per quanto Thorn desiderasse rimanere così… anche un po’ di più, sapeva che più avesse aspettato, più sarebbe stato difficile separarsi. Si crogiolò ancora qualche istante nel tepore del corpo di Ofelia che, premuto contro il proprio, lo avvolgeva come una coperta. In quei milletrecentotredici secondi erano riusciti a vanificare la loro doccia, tra sudore, saliva e… altro. Aveva sulle labbra il sapore speziato del curry.
Le accarezzò la schiena, deciso a farla alzare perché dormisse, ma si fermò chiedendosi come dovesse essere toccare una schiena tutta solchi e rilievi come la sua; quella di Ofelia era liscia e morbida, serica al tatto. Dubitava che la sua fosse altrettanto piacevole da toccare, eppure a lei non sembrava dare fastidio.
Gli artigli languivano attorno a lui, sempre leggermente più docili quando Ofelia era presente. Con le difese mentali abbassate e il corpo che non gli doleva in ogni singola giuntura come ogni secondo della sua vita, un turbine di pensieri e sentimenti, per lo più negativi, lo pervase. Si chiese, in un moto di cattiveria inaspettata, per quale motivo una donna che era stata una sconosciuta per gran parte della sua vita lo amasse più delle madri che aveva avuto: la sua, Berenilde…
Rifiutato per tutti i secondi di tutti quegli anni dalla sua famiglia, dalle persone che avrebbero dovuto amarlo, si era visto spalancare una porta da Ofelia, quella piccola donna piena di determinazione e sincerità, così poco avvezza alla malvagità da essere rimasta marchiata dall’insensibilità del Polo. Ofelia lo aveva accettato per com’era persino nonostante l’inizio burrascoso, quando lui aveva sentito nascere in sé un sentimento nuovo che aveva scambiato per l’ennesimo tentativo della sua parte irrazionale di trovare qualcuno che mettesse lui al primo posto. L’aveva allontanata temendo di ricevere un ulteriore, scontato rifiuto. Eppure da Ofelia si sentiva… compreso in modo profondo. Non si illudeva che lei non conoscesse il suo passato. Una volta che gli aveva detto che aveva visto il modo in cui era cresciuto, alludendo velatamente ad una lettura che probabilmente aveva effettuato involontariamente. Non aveva nulla da nasconderle. Ma allora perché lei riusciva ad accettarlo e sua mamma invece… e Berenilde, con i suoi figli…
Sentì gli artigli agitarsi e si contrasse in tutto il corpo per timore di far male ad Ofelia. La costante tensione che imponeva al suo corpo per trattenere il suo potere familiare deleterio era nociva per il suo fisico, lo sentiva in ogni fibra muscolare distrutta, in quel dolore latente alle tempie che spesso ignorava e a volte lo trafiggeva come una spina di ghiaccio. Rancore verso le donne che avrebbero dovuto amarlo, paura di non bastare nemmeno a quella che era invece stata disposta a legarsi a lui lealmente, odio verso se stesso per non essere riuscito a farsi benvolere. Finché Ofelia non era arrivata nella sua vita, Thorn era rimasto fermamente convinto di avere un problema che non riusciva a identificare, che lo rendeva in qualche modo non abbastanza per chiunque.
Cercò di arginare quella marea di pensieri che gli agitavano il sistema nervoso concentrandosi sulla morbidezza della pelle di Ofelia, di sua moglie, ribadì, che lo aveva voluto sposare nonostante lui l’avesse liberata dal contratto che avevano stipulato per interesse, in una prigione, senza quelle cose che interessavano tanto le donne come abiti bianchi di pizzo e ricevimenti.
Aveva giurato che non si sarebbe mai abbassato al livello di nessuno, ma Ofelia era stata disposta a scalare il suo muro di intransigenza, per essere lei alla sua stessa altezza. E l’aveva superato. Era migliore di lui, era migliore di chiunque, ma quando lo guardava in quel modo, come se guardasse una cosa bella, una cosa che valeva la pena di guardare, Thorn si sentiva un pochino migliore.
Poi si guardava allo specchio, e quella percezione si sgretolava.
Un chiodo fisso gli trafisse il cranio, una domanda che archiviava costantemente dentro una scatola chiusa nell’angolo più remoto della sua mente dentro altre quattro scatole: Ofelia si sarebbe stancata? Se non era mai stato sufficiente a Berenilde e a sua madre, se entrambe avevano sentito il bisogno di qualcosa di più, l’avrebbe sentito anche Ofelia, prima o dopo? Quando, perché non era questione di se, ma di quando, avesse voluto dei figli, avrebbe anteposto loro a lui?
Come a rispondergli, Ofelia lo strinse più forte, strofinando la fronte contro la sua spalla, dolcemente.
Si costrinse a cancellare ogni cosa dalla sua testa. Impossibile.
Si costrinse allora a vivere in quel momento. In quel momento in cui per Ofelia lui era, se non fondamentale, quanto meno importante. Visse per un istante nel suo calore, nel suo abbraccio disinteressato, nella consapevolezza che lei era lì per lui. Non gli serviva altro.
Thorn si mosse sotto di lei, cercando di non toccare e farsi toccare qualche parte del corpo troppo sensibile per evitare situazioni incresciose di cui non si era mai dovuto preoccupare. Ofelia sospirò, se di serenità, stanchezza o tristezza Thorn non avrebbe saputo dirlo. Si allontanò da lui e, dopo avergli dato un altro bacio, si distese a letto senza nemmeno lavarsi i denti o rivestirsi, e Thorn non batté ciglio. Con sua sorpresa, la mancanza di igiene in quel frangente non lo infastidì. Poche delle cose che riguardavano Ofelia lo infastidivano, si rese conto. Doveva essere davvero sfinita.
E non era l’unica. Ma la stanchezza ormai era implementata nelle sue membra come una giuntura, non se ne sarebbe mai andata.
Raccolse i loro vestiti e li piegò con cura, ripulendo il bagno disseminato di pozze d’acqua e dandosi una rinfrescata. Non gli andava di rimettersi i vestiti stretti e fastidiosi da Lord di LUX, ma non aveva altro. Alla fine optò per indossare solo la biancheria, l’aria di Babel era ancora terribilmente calma. Infilò ad Ofelia i guanti senza che lei nemmeno si svegliasse, per permetterle di dormire serenamente e non leggere le lenzuola. Prese posto sulla sedia vicino alla radio, spenta, e si arcuò posando i gomiti sulle ginocchia, con il mento sulle mani giunte.
La stanchezza, appunto, era parte di lui. Con i suoi artigli fuori controllo avrebbe rischiato di fare male a Ofelia, e non solo. Quando dormiva e il suo subconscio andava alla deriva i suoi artigli, i suoi nervi, rimanevano comunque vigili, troppo, preda di impulsi dettati da una parte del cervello che sfuggiva al suo dominio.
Non dormiva da troppo tempo ormai, semmai sonnecchiava, ma per poco tempo e mai completamente abbandonato all’oblio.
Passò la notte, secondo dopo secondo, immobile come una statua, a contemplare Ofelia che dormiva un sonno talvolta placido e talvolta agitato. L’orologio si apriva e chiudeva nella tasca della camicia a intermittenza, come una pendola, scandendo con lui lo scorrere del tempo. Calcolò ogni centimetro e circonferenza del corpo di Ofelia, testa, caviglia, fianchi, vita, petto, coscia, polpaccio, gamba, braccio, avambraccio, collo, come se già non li conoscesse, fino a che lei non sentì freddo e si coprì con un lenzuolo.
Allora cercò un senso a tutto quello, al perché il corpo di Ofelia, tutto ciò che riguardava Ofelia, non lo disgustasse, ma anzi lo elettrizzasse di una forza nuova, che lo rendeva insaziabile, ricettivo, umano. Un suo tocco, un suo bacio, un suo sguardo, una sua carezza… tutto gli faceva aumentare le palpitazioni, contrarre i muscoli, anelare ad altro, a qualcosa di maggiore, sempre di più, come se già non lo avessero raggiunto.
Aveva davvero la capacità di demolire ogni statistica, di far crollare ogni certezza. Con lei in giro, tutto era possibile.
Mancavano duemilacinquecento minuti all’alba quando si lavò, si vestì, si pettinò, si rasò. Si disinfettò, perché ancora si considerava sporco nonostante ad Ofelia sembrasse non dare fastidio… lui, tutto ciò che era.
Le diede un’altra occhiata, imprimendosela volontariamente nella mente come se non fosse una cosa automatica, prima di uscire. Non badò nemmeno agli automi di Lazarus che lo seguivano con teiere di tè bollente e proverbi insensati.
In tutta sincerità non sapeva cosa aspettarsi dall’osservatorio, cosa avrebbe trovato o quando avrebbe rivisto Ofelia. Tutto era un’incognita, cosa che lui detestava, maniaco del controllo com’era, ma di quelle tre cose era certo che una avrebbe presto avuto risposta: l’ultima.
Quando Ofelia si metteva in testa una cosa era quasi impossibile dissuaderla. Lui stesso aveva fallito numerose volte, riuscendo a farle fare ciò che voleva, anzi, impedendole di fare ciò che lui non voleva solo ricorrendo allo stratagemma della richiesta, del favore personale.
Se Ofelia aveva detto che non lo avrebbe abbandonato, che niente avrebbe potuto impedirle di raggiungerlo… rabbrividì di calore al solo pensiero.
L’avrebbe rivista presto, e sarebbe andata lei da lui, ne era certo.
Insieme avrebbero affrontato qualsiasi ostacolo.

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Capitolo 16
*** Cinquantasei ***


Non voglio nemmeno contare quanto sono in ritardo, ma vi dico che per farmi perdonare il capitolo è il più lungo che abbia mai scritto. Quindi... è come se fossero due *faccia da angioletto*
Volevo ringraziare tantissimo Hope Valentine per le bellissime chiacchierate approfondite che facciamo, da vere fangirl ossessive, e che ogni tanto mi fanno venire un CASINO DI DUBBI. Spero che il capitolo ti piaccia e ovviamente sono pronta a discuterne quando vuoi♥ E ringrazio tanto anche SaphiraLupin per il messaggio breve e conciso di qualche giorno fa che mi ha fatta ridere un sacco e anche commuovere, perché mi ha fatto capire che le interessa davvero quello che scrivo e non potrei provare gioia più grande.
Detto questo, sono in montagna, quindi non ho il terzo  libro dietro e non posso specificarvi che pagine del terzo libro sono trattate. Lo aggiungerò appena torno. Le parti sono 3 comunque: la prima riprende il capitolo scorso, con Ofelia che se ne va dalla sala dell'Ordinatore dopo il bacio e Thorn che la raggiunge; la seconda riguarda la camminata che fanno dal trenuccello fino alla casa di Lazarus, con Thorn che le dice che dovranno parlare quando tutto sarà finito; la terza è la rivisitazione della prima volta insieme dal punto di vista di Thorn.
Ho sentito il bisogno di ritrattare questa scena per diversi motivi. Intanto, ho sempre avuto più versioni, non solo una, e riprenderlo mi ha aiutata a soddisfare questo mio bisogno xD Ad esempio, la prima volta che l'ho scritto ho messo due parole in croce di conversazione, per la classica frase della Dabos che "il mondo smise di essere parola". Però, insomma, che non avessero proprio parlato mi pareva strano. Quindi qui ho aggiunto qualcosa. Inoltre, il punto di vista di Thorn mi è divenuto più congeniale mano a mano che ho scritto, quindi ci tenevo a descriverlo dal suo punto di vista. E l'effetto delle mani di Ofelia su di sé... non potevo resistere. Infine, per farla breve, ho modificato il post... ehm... il post, ecco, perché leggendo le prime pagine del 4 risulta evidente che hanno parlato a letto, dopo averlo fatto, prima di essere svegliati dalle sirene. E non per ultimo hanno parlato di Archibald, quindi mi sono divertita ad immaginare le vicissitudini che li hanno portati a quelle conversazioni.
Spero che possa piacervi anche questa interpretazione e chiudo. Mi farò sentire presto, spero, ho tante altre cose che mi piacerebbe approfondire e spero siate sempre disposti a leggermi♥
L’Attraversaspecchi III, La Memoria di Babel, L'Altro, pagine 474-482


15. Cinquante-six

Ofelia si chiuse la porta alle spalle con una certa solennità, lasciandolo solo.
Ancora non si capacitava di ciò che era appena successo. Non tanto per la riuscita della sua impresa, perché Ofelia aveva trovato il libro che cercava da così tanto tempo, quanto per il bacio… la confessione. Thorn non poteva fare a meno di indugiare in quei pensieri mentre armeggiava con l’armatura che aveva sulla gamba. Si era completamente slegata, sarebbero serviti all’incirca ventidue minuti per rimettere insieme le otto assi metalliche che la componevano, legare i tre lacci che la tenevano insieme e avvitare i diciotto bulloni che le permettevano di muoversi, adattandosi alla sua gamba come uno stivale un po’ rigido ma efficace per camminare senza zoppicare. Se l’avesse rimessa insieme in modo raffazzonato, invece, quel tanto che bastava per permettergli di usarla senza sprecare altro tempo, avrebbe impiegato nove minuti. E quaranta secondi. L’idea di iniziare un lavoro senza concluderlo con precisione avrebbe dovuto urtare i nervi della sua pignoleria, indisponendolo, ma non in quel caso. Il pensiero di Ofelia che usciva dal Memoriale da sola, che passava di fronte a quella marea umana di corpi di precorritori pericolosi e dei Genealogisti, per poi attenderlo da sola all’ingresso dell’edificio…
Thorn impiegò sette minuti e trentasei secondi per concludere l’opera. Ofelia in sette minuti era in grado di farsi catturare dalle guardie e imprigionare. Era capace di farsi rapire, o sparare. Non che a Babel ci fosse il rischio di una simile eventualità, dato che lo stesso verbo, “sparare”, era vietato, ma con lei in giro non si sarebbe sorpreso se fosse venuto fuori che tutti i cittadini di Babel in realtà possedevano una rivoltella. No, troppe variabili impazzite c’erano in quel disegno. Era prioritario raggiungerla in modo tale che non commettesse delle sciocchezze.
Il fatto che desiderasse ardentemente stare ancora accanto a lei non era assolutamente la ragione della sua fretta. Il desiderio di essere di nuovo guardato in quel modo…
Thorn si alzò, allungando i lunghi arti ossuti, facendo scricchiolare l’armatura e le giunture. Valutò il suo operato, mediocre, ma almeno l’esoscheletro avrebbe retto, ottemperando alle sue funzioni. Si infilò velocemente l’uniforme di LUX e prese il bastone, con disappunto. Sarebbe stato peggio rischiare un nuovo cedimento dell’armatura, soprattutto di fronte ad Ofelia: non voleva che notasse la gravità della sua zoppia. Passò per la sala dell’Ordinatore ancora gremita di documenti sparsi, scatole rovesciate che vomitavano il loro contenuto ovunque e pezzi non identificati di metallo e vetro: il visore di microfilm si era distrutto spargendosi ovunque.
Appena si chiuse la porta alle spalle, Thorn estrasse una boccetta di alcol farmaceutico dalla tasca dell’uniforme, vicino a dove aveva riposto l’orologio da taschino. Si disinfettò con cura le mani mentre percorreva i centosettantadue metri di corridoi e trascendium che lo avrebbero portato all’esterno, sentendosi terribilmente contaminato dal disordine che si era lasciato alle spalle. Sinceramente, gli interessava poco in quel momento: una volta riportata ai Genealogisti la sua riuscita, loro gli avrebbero assegnato un altro incarico. Il suo ruolo da archivista era finito.
Rimise a posto la boccetta poco prima di uscire nell’asfissiante caldo babeliano, non molto certo di essersi pulito a dovere. Ma lo sporco che sentiva sulla pelle era in realtà intimo, e non sarebbe mai riuscito a lavarlo via del tutto.
Individuò subito la chioma arruffata di Ofelia, seduta sugli scalini del Memoriale accanto a Polluce. Ovviamente. In quei tredici minuti di lontananza era riuscita ad avvicinarsi allo spirito di famiglia. Thorn cercò di non aggrottare le sopracciglia, ringraziando l’innocuità di Polluce; trovarla con i Genealogisti gli avrebbe fatto gelare il sangue nelle vene e scattare gli artigli con ferocia.
Non diede segno di averla vista, fu discreto nel guardarla, ma non gli sfuggì l’espressione sollevata di Ofelia quando lo vide. Si alzò e, cercando di essere naturale, lo seguì a distanza. Thorn si concentrò sulla sua andatura, cercando di camminare in modo dritto, facendosi forza per non girarsi a guardare Ofelia. La curiosità per una volta stava uccidendo lui e non lei: aveva ancora in viso quell’espressione… quasi contenta, all’idea di vederlo?
Saliti sul trenuccello, Thorn si posizionò in modo da essere isolato completamente per non rischiare un colpo di artigli involontario, e fortunatamente, eppure con suo dispiacere, Ofelia si sedette distante, alle sue spalle. La visuale di Ofelia era buona, mentre lui non poteva guardarla, non senza girarsi verso di lei in modo evidente; nonostante tutto, sentì i suoi occhi su di sé per tutto il tragitto. Non aveva dubbi al riguardo.
Quando sbarcarono dal trenuccello, finalmente in grado di poter stare uno accanto all’altra, Thorn si rese conto che quella situazione era infinitamente peggiore. Infinitamente. Le parole di Ofelia, il suo discorso circa il far parte della sua vita, la sua dichiarazione, la sua evidente reticenza ad allontanarsi da lui gli avevano fatto scattare qualcosa dentro. Il cammino fino a casa di Lazarus era lungo, e Thorn maledisse ogni passo che fece al fianco di Ofelia… senza poterla toccare. Impresse tutta la sua frustrazione nel bastone con cui si sosteneva, facendolo risuonare nel buio più di quanto fosse necessario; quanto meno, la cadenza ritmica dei loro passi lo aiutò a rimanere lucido, a concentrarsi. Ofelia si agitava di fianco a lui, controllandosi le spalle come per assicurarsi che fossero soli. La sua inquietudine lo avrebbe messo sulle spine, se non fosse stato troppo distratto da altri pensieri. Immagini su cui non si era mai soffermato, fantasie che aveva considerato irrealizzabili, ma che quel giorno erano diventante delle possibilità, cambiando il risultato delle equazioni di cui lui e Ofelia facevano parte.
Ofelia non si era ritratta al bacio. Si sarebbe ritratta di fronte a… qualcosa di più?
Si immaginò mentre si chinava per baciarla di nuovo, facendo scorrere le mani sulla sua vita, sulle sue braccia. Non andò oltre, non era il caso in quel momento, ma si rese conto che l’idea di toccare Ofelia aveva su di lui un effetto diametralmente opposto rispetto a ciò che gli suscitava il pensiero di toccare qualcun altro: invece che ribrezzo e nausea, si sentiva ribollire il sangue nelle vene e attorcigliare piacevolmente l’intestino, il cuore fibrillava.
Era quello, il desiderio? Sì, dato che lui desiderava Ofelia. Al di là di ogni ragionevole dubbio.
Si stizzì ancora di più. Quella non era decisamente una priorità, non lo era mai stata.
- Siete contrariato?
La voce di Ofelia lo strappò alle sue elucubrazioni.
Sì, era contrariato. Anche un po’ di più.
- Sto pensando – rispose a denti stretti, come se la cosa non fosse ovvia.
Sperava che Ofelia non gli chiedesse a cosa stava pensando, perché non era sicuro di poterle mentire.
- Siete stato tutto questo tempo a cercare un libro che io avevo rubato. Avete tutti i diritti di avercela con me.
Thorn si girò verso di lei, verso il suo viso in apprensione. Lei temeva che lui la odiasse per un motivo del genere? Certo, una parte della sua mente si stava ancora interrogando su come fosse possibile che lei avesse accidentalmente preso proprio il libro che gli serviva non appena aveva messo piede al Memoriale. Ma il suo cervello e il suo corpo erano concentrati su altro in quel momento, purtroppo.
E i motivi per cui ce l’aveva con lei non erano riconducibili al libro, ma a ciò che lei suscitava in lui. La sua presenza era come una scintilla. Lui era solo paglia. Eppure, le sue parole ebbero la forza di distrarlo. Era vero che lui era stato tutto quel tempo a cercare un libro che lei aveva rubato.
In che razza di mondo sregolato lo aveva catapultato Ofelia? Con lei, persino l’aritmetica diventava opinabile.
- Se non l’aveste fatto uscire dal Memoriale miss Silence l’avrebbe distrutto, e insieme a lui avrebbe distrutto la mia unica possibilità di sopravvivenza. No, l’aspetto della vostra storia che mi infastidisce è di natura strettamente matematica.
- Matematica? – chiese lei, con un tono di voce così basso che lo spinse indietro nel tempo, su Anima, la prima volta che l’aveva vista.
- Ho impiegato più di due anni a mettere insieme gruppi di lettura qualificati per passare al setaccio tutte le collezioni, e il primo libro che prendete distrattamente è quello giusto. La vostra tendenza a demolire le statistiche fa paura.
Ofelia aggrottò le sopracciglia e si fermò. Si chinò per allacciarsi una stringa che minava il suo già precario equilibrio. – Non l’ho fatto proprio distrattamente. Voglio dire, una parte di me non ha scelto quel libro per caso. Una parte di me l’ha riconosciuto. Una parte di me ha voluto impossessarsene.
Quello era un risvolto interessante nel quadro generale delle sue ricerche. Interessante, privo di logica e buonsenso, e ancor più privo di spiegazione. – La vostra altra memoria.
- Mi sto davvero sforzando di capire da dove venga e cosa voglia dirmi. Mi sarebbe piaciuto che almeno di fosse presa la briga di spiegarmi cosa sappia di Dio quel libro per bambini. Ma questo lo scopriremo da soli.
Al di là degli innumerevoli interrogativi che le asserzioni di Ofelia facevano sorgere, nuove incognite in quella complessa equazione, o sistema di equazioni, data la difficoltà del caso, Thorn non poté fare a meno di osservarla con un’intensità quasi maniacale.
Le sue ultime parole, “lo scopriremo da soli”, gli rimbombarono nella mente come un’eco mentre lei finiva di fare il nodo al laccio e si rialzava, incontrando il suo sguardo. La sua pelle abbronzata e accaldata aveva una strana luminescenza sotto le luci pallide dei lampioni, come se in realtà non scintillasse di luce riflessa, ma propria. In quel momento si odiò, disprezzò se stesso con tutte le sue forze, ma nulla poté impedirgli di mantenere in alto nella sua lista di priorità il bisogno che aveva di lei.
Avrebbe commesso qualche sciocchezza, fregandosene dei Genealogisti, di Dio e del resto, se Ofelia glielo avesse permesso. Se avesse voluto compierla con lui… insieme.
- Quando questa faccenda sarà sistemata dobbiamo parlare, noi due.
Lei apparve perplessa. Aveva intuito che il discorso da intavolare non aveva nulla a che fare con la loro missione. Nulla.
- Parlare di che?
- Quando la faccenda sarà sistemata – ripeté, lapidario.
Ofelia non si era nemmeno resa conto che erano arrivati, così lui le indicò il portico della casa di Lazarus con la puta del bastone.
Era tempo di concentrarsi. Se tutto fosse andato secondo i piani, avrebbero avuto tempo per quello dopo aver risolto la faccenda.
Tempo per parlare. Solo per parlare. Anche se Thorn, in realtà, nutriva il desiderio di andare oltre alle parole.
Anche un po’ di più.
 
Il pensiero di Ofelia lo aggredì prepotentemente mentre si lasciava i Genealogisti alle spalle, insieme al senso di disgusto che provava non solo per le loro effusioni, ma per loro stessi. Erano stati contenti del libro, così contenti che dubitava che si sarebbero trattenuti dal copulare di fronte a lui. Lo avevano congedato informandolo che presto gli avrebbero recapitato nuovi ordini mentre le loro mani stavano già invadendo lascivamente i rispettivi corpi. Fortunatamente la femmina non lo aveva toccato; non lo avrebbe sopportato quel giorno. Non quando agognava in modo così viscerale il tocco di Ofelia.
Sentiva ancora sotto le dita il calore della sua serica pelle, il dorso liscio e morbido delle sue mani. Si disinfettò due volte mentre tornava a casa di Lazarus, accompagnato solo dai suoi pensieri, dallo scricchiolio dell’armatura e dal ticchettio ritmico del bastone e della pioggia sull’ombrello. Era fondamentale sistemare l’esoscheletro come si conveniva quanto prima, per evitare di trovarselo distrutto per terra. Mentre si frizionava le dita si trovò a riflettere sulla sensazione che poteva dare il suo tocco a qualcuno. A Ofelia. Erano mani ossute, affusolate… Ofelia ne sarebbe stata ripugnata? Avrebbe provato le stesse cose che provava lui, se si fosse azzardato a toccarla? Come avrebbe reagito?
Non si sarebbe mai soffermato su simili pensieri se in cuor suo non avesse preso una decisione. Era ormai oltre il punto di non ritorno. Ofelia aveva scatenato in lui desideri umani che non credeva nemmeno di possedere. La voleva e, anche se non si illudeva che lei lo volesse allo stesso modo, memore di ciò che gli aveva detto anni addietro, alla stazione ghiacciata, sperava che almeno non si dimostrasse disgustata di fronte alle sue attenzioni. Lui era un po’ a disagio con se stesso per via di quel nuovo bisogno. Anche un po’ di più. Ma mai in vita sua aveva sperimentato una simile brama per qualcosa. Era una cosa che facevano tutti, che non aveva mai capito, aveva sempre rifuggito, ma a cui in quel momento anelava.
Arrivò a casa senza quasi rendersene conto, senza aver nemmeno riflettuto per un istante sul dialogo intercorso tra lui e i Genealogisti. Lo avrebbero lasciato in vita nei panni di sir Henry, e tanto gli bastava al momento. Aveva un solo obiettivo in mente.
Un automa gli aprì la porta di casa, inducendolo a chiedersi come mai non fosse andato ad accoglierlo Ambroise, il bislacco figlio di Lazarus, ma la cosa aveva poca rilevanza. Lasciò l’ombrello fuori dalla porta e si diresse verso la porta della stanza di Ofelia prima di bloccarsi lungo il corridoio.
Non aveva un piano. Lui, che programmava la giornata al secondo, che dietro ad ogni parola pronunciata celava un intero sistema di pensieri organizzati e inespressi, che sapeva sempre cosa dire e come, non aveva un piano. Si rifugiò in camera sua invece di proseguire verso la camera di… sua moglie.
Mise giù il bastone. Doveva riparare l’armatura. No, prima doveva radersi. Dopo il loro ultimo bacio, aveva visto Ofelia passarsi distrattamente la mano sul mento, accarezzandolo come per scacciare un dolore: non era sbarbato quando l’aveva baciata, forse le aveva dato fastidio il contatto con quella peluria incolta.
Alla fine decise di farsi una doccia per eliminare ogni traccia di sudore o impurità. Non sapeva cosa sarebbe successo con Ofelia, ma le aveva detto che avrebbero parlato, e i suoi intenti erano chiari. Se poi lei, in qualche modo, avesse voluto andare oltre… non poteva essere impreparato. Per la prima volta fece caso alla sensazione che generava toccare il suo stesso corpo, mentre si detergeva accuratamente ogni parte del suo fisico. Non era solito guardarsi allo specchio, e a dire il vero erano rare le volte in cui aveva osservato il suo corpo nudo riflesso da qualche parte. Non gli piaceva. Non si piaceva. Ovunque le sue mani andassero, sentiva ossa. Le costole, il bacino, i gomiti, le spalle, le nocche, le ginocchia. Era tonico, asciutto, con una muscolatura abbozzata… di sicuro non era attraente. Si fissò le lunghe braccia e le gambe magre. Poi chiuse gli occhi e si rilavò i capelli.
Se lui stesso si disgustava e non sopportava la sua vista, come poteva illudersi che per Ofelia sarebbe stato diverso?
Eppure non desistette. Non ne aveva la forza. Si rase, si pettinò e si rivestì. Si prese il suo tempo per sistemare l’armatura correttamente, finché fu soddisfatto del risultato. Cigolava ancora, ma in modo sensibilmente meno sinistro, e il contatto stesso con la sua gamba appariva più solido.
Si disinfettò le mani tre volte, come per lavare via la sua insicurezza insieme alla sporcizia che lo ricopriva.
Quando uscì dalla stanza, esitò di nuovo.
Tornò fuori casa e, aperto l’ombrello, fece un giro del giardino, accertandosi che non ci fosse nessuno. Una cosa che aveva imparato nel corso degli anni era che non si era mai troppo prudenti. Mai. Con l’ombrello ormai fradicio tornò in casa e percorse con decisione il corridoio, questa volta indirizzato senza ripensamenti alla camera di Ofelia. Prese distrattamente l’orologio dal taschino, rendendosi conto che per la prima volta nella sua vita aveva perso la cognizione del tempo: era più tardi di quanto pensasse. Ignorò completamente gli automi e i loro sproloqui, ma uno di loro si dimostrò estremamente ospitale e lo seguì per accompagnarlo nel suo tragitto.
Quando passò di fronte alla stanza di Ambroise, però, quasi perse l’equilibrio: qualcosa lo aveva intralciato e si era avvinghiato alla sua gamba storpia. Ci mise tre secondi esatti a capire che la stoffa che si attorcigliava all’armatura altro non era se non la sciarpa di Ofelia. Le maglie tricolore sembravano quasi possessive con la sua gamba, e Thorn, confuso, rimase indeciso sul da farsi. Allungò la mano che non reggeva l’ombrello e cercò di levarsela di dosso, ma la sciarpa, oltre che combattiva, si impigliò lungo i bulloni e le giunture metalliche dell’armatura; ovvio che metallo e lana non fossero compatibili. Esasperato, Thorn tirò, rinunciando subito quando si rese conto che poteva danneggiare quel capo di abbigliamento indisciplinato. Non nutriva simpatia verso la sciarpa, e di sicuro non era comprensivo con gli oggetti sregolati e caotici, o troppo libertini, ma sapeva che Ofelia e quel pezzo di stoffa erano inseparabili. Non voleva rovinarla, rischiando di farle un torto.
Giunto ad un punto morto, Thorn sospirò appena. Aveva sperato di fare un’entrata migliore di quella, invece si ritrovava con in mano una sciarpa irrequieta per metà incastrata nel suo esoscheletro posticcio, e con un ombrello fradicio nell’altra mano, dato che si era dimenticato di lasciarlo fuori casa.
Il fatto stesso che si fosse scordato qualcosa la diceva lunga sul suo stato psichico. Avanzò verso il suo obiettivo con la sensazione di essere già sconfitto in partenza.
La sua trepidazione, l’aspettativa, erano ormai sfumate, e bussò alla porta di Ofelia con due colpi evidentemente irritati. Si appoggiò allo stipite per reggersi.
Appena vide l’uscio aprirsi non aspettò nemmeno un secondo: - Vi dispiacerebbe sbarazzarmi da questa cosa?
Solo quando Ofelia si chinò per liberarlo si permise di osservarla, e il suo cuore irrequieto mancò un battito. Aveva un leggero sorriso sulle labbra, come se la situazione la divertisse. Indossava una vestaglia a copertura di un morbido pigiama formato da pantaloni larghi e una specie di tunica lunga che le arrivava quasi a metà coscia. Nonostante il caldo di Babel, il tessuto sembrava fresco e Thorn intuì che solo la vestaglia doveva essere a maniche lunghe. Ofelia sembrava comunque un po’ accaldata e, a giudicare dal disordine esplosivo dei suoi ricci castani e del calore latente che emanavano, doveva aver finito da poco di asciugarseli.
Deglutì a vuoto, con la gola improvvisamente secca, mentre registrava tutti quei particolari inutili. O più che utili, dipendeva dal punto di vista.
- Mi stavo chiedendo dove fosse finita – rispose lei, riappropriandosi della sciarpa, che lo liberò e si trasferì senza indugio tra le mani della legittima proprietaria. Come un bambino che allunga le braccia verso la propria mamma. – Temo che abbia preso gusto all’indipendenza.
A giudicare dal carattere della padrona, non era strano che la sciarpa volesse la propria libertà. Era strano che avesse passato tutti quegli anni docilmente legata ad Ofelia, invece. Se era verso che gli Animisti insufflavano le loro emozioni, abitudini, sensazioni e desideri negli oggetti, la sciarpa avrebbe dovuto rendersi autonoma già da molto tempo.
Thorn, finalmente libero da impedimenti di lana, si sbarazzò anche dell’ombrello, completamente fuori contesto, dandolo all’automa dietro di lui, a cui poi sbatté la porta contro. Ci mancava solo che un marchingegno spione di Lazarus si infilasse in camera con loro.
Erano rimasti soli.
Thorn non perse tempo. Non poteva più tornare indietro, metaforicamente parlando, e non era andato lì per salutarla e fare dietrofront. – Dov’è il figlio di Lazarus? – chiese scandagliando la stanza.
Sembrava una normalissima camera, con un letto troppo grande per una sola persona, una grossa finestra che dava sul giardino, un armadio, due comodini, una scrivania su cui una radio gracchiava i suoi annunci molesti e una porta che con ogni probabilità dava sul bagno. Calcolò automaticamente l’area della stanza e le misure di ogni singolo mobile, stranamente più simmetrici del normale. Il letto era lungo cinque centimetri più di lui, fatto ancora più strano: solitamente le dimensioni standard dei letti lo costringevano a dormire con i piedi fuori dal materasso, quelle rare volte in cui dormiva su un letto vero. Al Polo la sua camera presso il palazzo di Berenilde conteneva un letto ordinato su misura, che la zia aveva insistito per far realizzare sulla base della sua altezza anomala. Il fatto che ad Ofelia, così piccola, fosse stata destinata una camera con un simile giaciglio era bizzarro.
- Starà fuori tutta la giornata.
Tutta la giornata. Era ancora relativamente presto, e tutta la giornata era un ammontare di tempo molto lungo. Il suo cervello iniziò a calcolare ore, minuti e secondi in base all’ora in cui Ofelia avrebbe voluto cenare o dormire, ed era una quantità di tempo spropositata. Le variabili erano troppe, però, così continuò a calcolare con un solo angolo di cervello. Sentì un barlume di speranza e sollievo accendersi in lui. – Meglio così. Non saremo disturbati.
Non importava cosa avrebbero o non avrebbero fatto: sarebbero stati soli, e già quello gli bastava. Oltrepassò Ofelia, immobile di fianco a lui, dirigendosi verso la finestra. Misurava novantaquattro centimetri per sessantanove e mezzo, con un’evidente imperfezioni di mezzo centimetro. Però era incassata nel muro precisamente a metà e questo lo rassicurò. Osservò l’esterno, alla ricerca di qualche automa guardone o, peggio, qualche spia umana o qualunque altro elemento di disturbo. Il fatto che Ambroise fosse fuori non significava che fossero al sicuro. Sentiva degli occhi puntati contro, ma con ogni probabilità, e ci sperava, erano quelli di Ofelia. Anche se non poteva dedurne il motivo.
- Che vi hanno detto i Genealogisti? Ci sono rimasti male?
Thorn voleva parlare di tutt’altro, ma era naturale che Ofelia volesse sapere del colloquio. Non che lui non volesse parlarne, certo che no, ma ormai la sua attenzione era calamitata con imperiosità da tutt’altro e, per una volta nella sua vita, si sentiva distratto. Avrebbero avuto tutto il tempo per parlare, dopo
Ma dopo cosa? L’ambiguità, l’indecisione lo mandava fuori di senno, e desiderava porvi fine quanto prima.
Invece tirò le tende con stizza, immergendo la stanza in una pesante penombra. Gli sembrò di aver isolato la camera in quel modo, escludendo persino la pioggia. Potevano essere sospesi sul mare di nuvole e lo avrebbe trovato perfettamente coerente. Quell’atmosfera scura lo metteva più a suo agio, in un certo senso. Le luci forti lo avrebbero disturbato, e forse ostacolato. L’oscurità, in quel frangente, gli dava coraggio.
- Sono stati contenti – rispose alla fine, sperando che la risposta bastasse ad Ofelia. – Anche un po’ di più.
Anche tanto un po’ di più.
- Ma? – lo incalzò Ofelia.
Se non fosse stato così teso, se fosse stato in un altro ambiente, in un altro ruolo, forse avrebbe sorriso. Ofelia lo avrebbe deluso, se non lo avesse spronato a continuare. Se non avesse insistito per farsi raccontare tutto. Ormai la conosceva bene. Il suo proposito doveva aspettare ancora. Aveva atteso per mesi, anni, un tempo che il suo cervello, in un piccolo cantuccio della sua mente, calcolò con precisione facendogli balenare la cifra decisamente troppo grande davanti agli occhi. Aveva aspettato troppo.
Avrebbe potuto rimandare ancora qualche minuto. E la verità era che per Ofelia avrebbe aspettato una quantità di tempo incalcolabile. Quello che definivano “per sempre”. Ma si augurava di no.
- Nessun ma. Il libro ha risposto pienamente alle loro attese. Sono pronti ad affidarmi una nuova missione – le rivelò con voce greve, appesantita dalla trepidazione.
- Che missione?
- Ancora non lo so.
Thorn si preparò a parlare. Cercò di respirare regolarmente e racimolò la determinazione, ma ancora una volta Ofelia lo precedette.
- E voi? Ci siete rimasto male?
Lei faceva tutto di getto, mentre lui pianificava ogni singolo battito di ciglia. Forse, in quel frangente, avrebbe dovuto imparare da lei. Non era una cosa che si potesse organizzare, quella. Ne era consapevole. Teso, con lo sguardo reso duro dall’impazienza, la osservò con attenzione. Sperava che in qualche modo capisse dal suo sguardo che la stava guardando in modo diverso, che voleva qualcosa di diverso dal solito da lei. Qualcosa di più. Tutto.
Invece lei sembrò perplessa, forse leggermente a disagio, e, con effetto contrario a quello che aveva sperato, si chiuse la vestaglia sulla tunica e i pantaloni chiari che indossava. Si stava difendendo con gli abiti. Si stava coprendo. Nel linguaggio del corpo quello era palesemente una barriera eretta contro di lui.
Perché?
Sembrava delusa.
La sua risposta tardò ad arrivare. A dire il vero, non ricordava nemmeno quale fosse la domanda, per la prima volta in vita sua. Dovette concentrarsi per riportarla a galla, e non pensare più al perché lei reagisse così. Al perché delle sue reazioni. In ogni caso, non cambiava nulla. L’incertezza era una delle cose che odiava di più al mondo, e dopo il bacio e la sua confessione, ammantava tutto quello che li riguardava. Vi avrebbe posto fine, se con esito negativo o positivo non era dato saperlo. Ma vi avrebbe posto fine.
- No – riuscì a rispondere, senza muoversi di un millimetro. Aveva il corpo congelato. – Non mi aspettavo di rovesciare Dio al primo colpo.
Lanciò di riflesso un’occhiata alla porta, ma nessun automa assassino sembrò sbattere contro di essa. Erano isolati anche dal punto di vista uditivo, allora. Si mosse, a disagio nelle sue ossa troppo lunghe. Si allungò rigidamente per versarsi un bicchiere d’acqua dalla caraffa sul comodino, che poi annusò con aria diffidente. Non sembrava esserci nulla di inconsueto nel liquido trasparente. Aveva la gola talmente secca che accolse quell’evidenza con sollievo. Era imperativo arrivare al nocciolo della questione, che non era un discorso sui Genealogisti. Si sedette sul bordo del letto con movimenti relativamente fluidi: l’armatura reggeva. Sperava che Ofelia capisse l’antifona, o che magari si avvicinasse. Del resto, lui non si era mai permesso di muoversi liberamente in uno spazio che non fosse suo, e quella stanza era di Ofelia. Lei sì, spadroneggiava in qualsiasi luogo. Ricordava bene come nel suo ufficio, all’intendenza, si fosse seduta sulla sedia, fosse salita sul divanetto logoro per osservare l’esterno, avesse rovesciato l’inchiostro sulla sua scrivania e addirittura avesse chiesto il suo caffè. Mentre lui fumava la pipa. Gli avrebbe fatto comodo la pipa in quel momento, per rilassare i nervi e gli artigli, ma non l’aveva portata con sé durante la fuga. Non era mai stata una priorità, del resto.
In ogni caso, dal momento che Ofelia rimaneva in piedi, immobile, senza accennare a raggiungerlo o a fare altro, qualsiasi altra cosa, Thorn dovette cedere. Ofelia parlava. Chiedeva. Discuteva. Lui no. Ma lo avrebbe fatto, per lei.
- E voi? – chiese infatti.
- Sono un po’ scombussolata – rispose sinceramente, a suo agio in quel campo. Nel campo delle parole. – Più ho a che fare col passato di Eulalia Diyoh, più ho l’impressione di conoscerla, eppure fra noi c’è una distanza di vari secoli. Il potere familiare che mi avete trasmesso non consente una cosa del genere, vero? O sì?
La domanda era complessa, da un certo punto di vista. Thorn si bagnò le labbra nel bicchiere, sorbendone una piccola quantità, prima di rispondere: - E’ stata punita.
- Punita? Non capisco.
Quello che ne seguì fu uno scambio di battute che Thorn non avrebbe mai immaginato di poter avere con qualcuno. Con Ofelia, si rese conto, non c’erano segreti. Non più. E non solo perché erano sposati, perché avevano condiviso i loro poteri familiari, o perché avevano affrontato diversi problemi insieme, e ormai la risoluzione del mistero riguardava entrambi. C’era di più. Thorn voleva essere sincero con lei. Trasparente. Non aveva più nulla da nascondere. Si fidava di lei come non si era mai fidato di nessuno, e la voleva attorno. A guardargli le spalle. A dargli suggerimenti. La voleva ad un livello talmente profondo, una mescolanza psicologica, fisica, sentimentale, emotiva, intima, impellente, che si sentiva solo e unicamente destabilizzato.
Trascinato da questi pensieri, non riuscì più a trattenersi quando le disse: - Questo starà a noi scoprirlo. Sempre, naturalmente, che siate disposta ad indagare insieme a me.
Sempre, naturalmente, che lei volesse stare davvero con lui. Sotto ogni aspetto. Guardò il fondo del bicchiere per non incrociare, codardamente, il suo sguardo. Non voleva leggerci ancora disagio o, peggio, un ripensamento. Un ripensamento su tutto. Voleva che lei scegliesse di indagare, no, di stare con lui, sotto tutti i punti di vista. Voleva che per una volta qualcuno lo desiderasse.
Che qualcuno lo volesse.
- Ne dubitate?
Quella domanda, che gli giunse con una punta di sfida, non riuscì a dargli la forza di guardarla. L’instradamento era quello giusto. Ora doveva continuare, essere certo che Ofelia comprendesse quello che lui voleva, ed essere certo che Ofelia fosse certa di volerlo.
Certezze. Voleva certezze, fatti. Non parole. Era stanco delle parole.
- Per quanto forte sia la tentazione e profonda la solitudine, finché rimarrete a Babel non dovrete avere contatti con la vostra famiglia.
Era giusto che Ofelia capisse la gravità della decisione che si apprestava a prendere, che ne cogliesse ogni implicazione. E lui voleva che lei lo scegliesse con coscienza, e non perché aveva omesso gli ostacoli che avrebbero incontrato sul loro cammino. Doveva decidere dopo aver vagliato ogni prospettiva. Lei avrebbe sempre avuto la possibilità di decidere. Sempre.
- Lo so.
Il tono non era più sicuro, ma stentoreo. Fermo.
- Più vi avvicinerete alla verità e più sarete in pericolo.
- Lo so.
Esasperato, forse.
- È possibile che in caso di difficoltà non possiate contare su di me. Sono legato mani e piedi ai Genealogisti.
Il fondo del bicchiere e l’acqua distorcevano ciò che stava sotto ad essi, rendendo tutto impalpabile e decisamente asimmetrico. Quella prospettiva lo turbava, era poco chiara e dava adito ad incongruenze e incomprensioni. Ma temeva di più l’espressione sul volto di Ofelia, per quanto le sue risposte fossero positive.
- So anche questo – rispose lei, con un tono di voce basso. Gli venne in mente l’inizio, quando ancora non si conoscevano granché, e lei parlava con una voce talmente sottile da rendergli difficile la distinzione delle sue parole. Questa volta, però, sembrava impaziente. – Era quello di cui ieri volevate che parlassimo?
Era giunto il momento. Aveva dirottato la discussione dove voleva lui, sull’argomento che gli premeva. Stava per chiarire la sua posizione. Le sue intenzioni. Quello che avrebbe desiderato fare, se lei fosse stata d’accordo.
Smise di osservare il bicchiere e finalmente puntò gli occhi su di lei. Aveva un tale tumulto interiore, un misto di aspettativa, terrore cieco, speranza e desiderio che non era sicuro di come potesse apparire il suo volto. Non poteva più attendere o esitare.
- Ricordate quel che vi ho detto l’altra sera fuori dal Memoriale, che non sapevo che farmene dei vostri buoni sentimenti?
Non voleva propriamente ricordare quella sera, a dire il vero. Non era stato uno dei loro migliori diverbi, e la stizza e il senso di colpa, mischiati, ancora lo colpivano a ondate. Ma doveva pur trovare un appiglio a cui ancorarsi per cominciare a parlare. Non era bravo in quelle cose… sentimentali.
Ofelia annuì senza fiatare, in attesa.
- Ero sincero. Non so che farmene.
Si era impantanato. Non riuscì a trattenere una smorfia e aggrottò le sopracciglia. Come si poteva gestire un discorso del genere? Nella sua mente le argomentazioni erano apparse più valide, quando le aveva formulate. Aveva ipotizzato e programmato dodici diversi modi di dire ciò che voleva, ma in quel momento si rese conto di aver imboccato la tredicesima strada, quella dell’improvvisazione. Lui non improvvisava quasi mai.
Si passò il bicchiere da una mano all’altra, cercando qualcosa di chiarificante da aggiungere. Non sapeva che farsene delle buone intenzioni di Ofelia, era vero. Era piena di buoni sentimenti, sentimenti che elargiva a tutti indistintamente, che dispensava gratuitamente. Attirava le persone, e aveva attirato irreversibilmente lui, ma finché la situazione era quella, i suoi sentimenti erano un’arma, non un dono.
Erano un’arma fintanto che… non li metteva a sua disposizione.
Posò il bicchiere. Non poteva più rimangiarsi nulla.
- Almeno, non solo – cercò di chiarire.
Lui voleva i suoi buoni sentimenti e lei. Non gli servivano solo i primi. Non se non poteva avere lei.
Thorn la vide inumidirsi le labbra, e fu colto dall’irrefrenabile bisogno di baciarla, di toccarla. Di stringerla. Sembrava che stesse per avere un mancamento. O forse no.
- Voi non…
- Niente mezze misure – la interruppe. Era inutile andare tanto per il sottile. Lui era diretto, non lasciava mai posto a incomprensioni e non pronunciava frasi interpretabili. Quello che diceva aveva un solo significato. – Non sono e non voglio essere vostro amico.
La radio gracchiò, con un tempismo decisamente pessimo, un annuncio di scarsissima importanza. Ofelia si precipitò ad abbassare il volume, ma questo gli impedì di cogliere la sua espressione. Si stava facendo capire? Ofelia aveva… compreso dove lui voleva arrivare? E in caso affermativo, cosa ne pensava?
Tutto quel trambusto lo distrasse, facendogli perdere il filo del discorso. Non gli era mai, mai capitato. Proprio in quel momento doveva accadere?
Non voleva essere suo amico… No. – Mi rifiuto di vivere con la sensazione continua di mettervi a disagio. Se sono i miei artigli a disgustarvi… - balbettò. C’erano così tante cose che potevano allontanare Ofelia. Come avrebbe potuto capire quale fosse la caratteristica che la ripugnava più di tutte? O era il suo aspetto? - …sono consapevole di non essere molto attraente… la gamba non mi impedirà di…
Era il discorso più sconclusionato e imbarazzante che avesse mai fatto. Come facevano le persone ad intrattenere dei rapporti fisici se già solo il preambolo era una simile agonia? Non li aveva mai capiti, e in quel momento li capiva ancora meno.
E se Ofelia non avesse nemmeno intuito le sue intenzioni? Era stato abbastanza chiaro, no? Cosa avrebbe dovuto dire, che voleva… avere un rappo…
Si passò una mano sulla fronte, in preda all’esasperazione. Il bisogno impellente che aveva sentito fino a quel momento si era spento, come se avessero gettato dell’acqua gelida su un fuocherello appena nato, ancora fragile. Si sentiva svuotato.
Non si accorse che Ofelia si era tolta i guanti. Tornò a ragionare lucidamente solo quando la vide avvicinarsi con cautela. Aveva intenzione di dargli uno schiaffo, di nuovo? Era stata una proposta troppo indecente? Be’, non che non ne avesse il diritto, dato che erano sposati. Lei gli aveva detto che non aveva intenzione di… consumare un vero e proprio matrimonio, certo, ma era stato prima che si innamorasse di lui. Perché lei lo amava, glielo aveva detto. E quando ci si ama non si dovrebbe anche… dimostrarlo?
Sussultò quando sentì le sue dita sul viso. Per fortuna l’aveva mantenuta nel suo campo visivo, altrimenti il suo contatto avrebbe scatenato un meccanismo di difesa violento e non richiesto.
Non era uno schiaffo. Era una carezza. E Ofelia lo stava toccando senza guanti. Lo guardò negli occhi senza timore o imbarazzo, non come lui. Ma in quel momento, più che l’espressione decisa sul suo viso, a Thorn faceva più impressione il calore che irradiava dalle sue mani. A lui era già capitato di toccarla. Di toccarle la pelle, intendeva. Solo due volte, a dire il vero, e nessuna delle due piacevoli. La prima era stata quando si era rotta il gomito cadendo nella fabbrica di Madre Ildegarda. Lui le aveva tastato il braccio alla ricerca di fratture, trattenendosi più del necessario. E la seconda era stata dopo la morte di Melchior, quando Ofelia rischiava di morire; le aveva toccato il viso per cercare di capire come fosse la situazione, se fosse in via di ripresa.
Quella volta, invece, era del tutto diverso. Ofelia lo stava toccando senza guanti, senza barriere, per la prima volta nella sua vita. E il contatto era… piacevole. Sentì quella carezza arrivargli dritto nel petto, incendiandolo. Aveva gettato alcol sul fuoco, non più acqua. Era del tutto diverso dal disgusto, quello che provava. Del tutto diverso.
Inaspettatamente, Ofelia si chinò per baciargli la cicatrice sul sopracciglio, poi quella sulla gota e infine quella sulla tempia. Thorn sgranò gli occhi. Ofelia aveva le labbra morbide e i baci gli lasciarono la pelle bollente, sensibile. Il suo corpo si contrasse. Era il primo bacio che riceveva in vita sua. I primi tre baci. Si augurava che non fossero gli ultimi, perché… erano belli. Erano davvero edenici.
Era teso come una tavoletta di legno, o come un automa di Lazarus. Così si sentiva. Con le membra rigide e i muscoli molli, incapaci di sostenerlo.
Perché Ofelia gli aveva baciato proprio le cicatrici? Per dimostrargli che non la disgustavano? Che le accettava? In quel caso…
- Cinquantasei – ammise schiarendosi la voce.
Era in imbarazzo, inutile negarlo. La sua volontà era ferrea, ma la messa a punto era fallace. Quel numero era una verità ineluttabile di cui nessuno, nemmeno sua zia, era a conoscenza. Ofelia doveva sapere. Non voleva vedere l’orrore o, peggio, la pietà sul suo volto, quando si fosse spogliato. Perché aveva tutta l’intenzione di spogliarsi. E di spogliarla. La poca pelle che avevano a contatto era diventata così infima da non bastargli più. Per niente.
Ofelia continuava a guardarlo con un’intensità nuova, per nulla a disagio, al contrario suo. Sembrava che le sue mani fossero state fatte apposta per rimanere posate sul suo viso. Se solo avesse potuto leggerloleggere la sua pelle, cosa avrebbe pensato? Avrebbe paventato quel turbine travolgente di emozioni?
Tirò fuori le parole a forza: - È il numero delle mie cicatrici.
Ofelia chiuse gli occhi, e Thorn morì in quell’istante sospeso, sentendosi le viscere torcersi nel terrore. Avrebbe potuto dirgli qualsiasi cosa, imprecare addirittura, fare domande come suo solito, chiedergli come se le fosse procurate, o scostarsi, andarsene, dimostrarsi schifata e inorridita.
Invece aprì gli occhi, che contenevano una strana luce. Determinata.
- Fammele vedere.
L’utilizzo del tu lo colpì più dell’imperiosità autorevole di quelle parole, e del loro significato retorico. Ofelia non aveva esitato. Gli aveva ordinato di fargliele vedere. Tutte e cinquantasei.
Thorn si sentì pervadere dall’eccitazione, dalla frenesia, come un’onda impetuosa che crebbe in lui senza avvisaglie. Un terremoto che lo scosse nel profondo, a partire dal cuore fino al sangue e alla punta delle dita. Stava per unirsi ad Ofelia, stava per… fondersi con lei, la prima persona che lo avesse davvero desiderato. La persona che lo aveva scelto a dispetto di tutto. Che lo amava. Che lo accettava con tutti i suoi difetti e manierismi, i disturbi e le ossessioni.
Cercò di non mostrare troppo il tremore che si era impossessato delle sue mani. Aveva bisogno che fossero precise in quel frangente, non poteva permettersi errori.
Fammele vedere. Le persone che gli davano del tu si potevano contare sulle dita di una mano, e tra queste ne figuravano alcune che proprio non avrebbe voluto si prendessero certe libertà. Il fatto che Ofelia avesse rotto quella barriera, invece, gli fece provare un senso di intimità che superava persino quello del contatto delle sue mani sul viso. Erano pari. Erano sullo stesso livello. Erano una coppia.
Erano insieme.
Le sue dita fortunatamente si ripresero subito, e Thorn si sbottonò agilmente metà camicia sotto lo sguardo intenso di Ofelia. Era sicuro di ricambiarla con la stessa profondità. Lei gli posò improvvisamente le labbra sulla fronte, dandogli un lungo e tenero bacio rassicurante; forse si era accorta del suo nervosismo. La tensione comunque andava calando di secondo in secondo: era sempre stato un uomo d’azione più che di parole. Rendere a gesti le sue intenzioni gli era molto più confacente che cercare di esprimerle a voce, specialmente se implicavano un tale livello di schiettezza.
Nonostante Ofelia gli sembrasse tutt’altro che intimorita, Thorn esitò quando le sue mani sciolsero l’ultimo bottone. Sentì l’aria tiepida sul petto, e intuì che anche Ofelia era pronta per svelare cosa ci fosse sotto gli indumenti. Ma una piccola parte di lui non lo era, e quella parte prevalse. Ofelia gli fece scivolare le mani sulle spalle mentre lui lasciava cadere la camicia dietro di sé, facendosela scorrere sul corpo senza fatica. Ofelia provò a scostarsi e abbassare la testa per osservarlo, senza vergogna, ma lui non se la sentì. Libero dalla stoffa opprimente, allungò le braccia e infilò le mani tra i capelli disordinati da Ofelia, mentre i suoi ricci gli si avviluppavano alle dita come alghe, possessivi. Si appropriò della sua bocca quasi con brutalità, come aveva sempre fatto, del resto. Avrebbe dovuto migliorare quell’approccio, sapeva di non essere un esperto baciatore e, anzi, forse proprio il fatto che non si fosse mai soffermato su come sarebbe stato baciare qualcuno lo aveva reso più goffo ancora. Ofelia però non si lamentò, ma schiuse le labbra e si adeguò al suo ritmo, per la prima volta senza cercare di ritrarsi. Forse l’aveva colta alla sprovvista, però non ne sembrava dispiaciuta. Mentre si baciavano, Ofelia gli si avvicinò ancora di più, premendosi leggermente contro il suo corpo mentre le sue mani risalivano dalle spalle al collo, gli accarezzavano il volto e i capelli e alla fine le sue braccia lo strinsero a sé. Si sedette sulla sua gamba sana, abbandonando le sue labbra per tracciargli una scia di baci sulla mascella e sul collo, facendolo irrigidire ancora di più. Se i baci sulle cicatrici erano stati piacevoli, quelli sul collo erano decisamente afrodisiaci. Thorn contrasse la mascella per non lasciarsi sfuggire alcun suono, e chiuse gli occhi per sentire meglio il contatto tra le loro pelli. Ofelia era di nuovo più bassa di lui, così appollaiata sulla sua gamba, all’altezza giusta per osservargli il busto. Thorn fece scivolare le mani verso la sua schiena; ne passò una attorno alla sua vita sottile per stabilizzarla meglio sulla sua gamba, e posò audacemente l’altra sulla sua coscia. Lei non ne sembrò dispiaciuta, e la cosa lo fece rilassare.
Era incredibile quali sensazioni suscitasse in lui un corpo estraneo premuto contro il suo. Ofelia era… morbida. E calda. Non gli dava alcun fastidio il suo peso sulla sua gamba, e il suo busto premuto contro il suo, il suo respiro bollente sul collo, erano tutt’altro che fastidiosi.
La voleva sentire ancora più vicina.
Quando lei si ritrasse, invece di avvicinarsi, Thorn riaprì gli occhi; incontrò quelli languidi di Ofelia, brillanti dietro le lenti stranamente trasparenti degli occhiali, e se ne sentì incoraggiato. L’avrebbe lasciata fare, questa volta. Non poteva più nasconderle la verità. Le sue azioni di poco prima, comunque, gli fecero cambiare completamente idea riguardo alla reazione di Ofelia: invece di esserne intimorito, si sentiva quasi pervaso da una frenesia elettrica. I suoi artigli si agitavano convulsamente, bramosi, ma di qualcosa di diverso dal sangue, per una volta. Gli rendevano sensibile la pelle, gli facevano contrarre i muscoli nel tentativo di domarli, ma allo stesso tempo erano più calmi del solito… erano lascivi, in attesa di appagamento. La cosa lo avrebbe nauseato se non fosse stato sollevato all’idea di non doversi preoccupare troppo di non ferire Ofelia: nessuna parte di se stesso l’avrebbe percepita come una minaccia, in quel momento.
Ofelia gli passò una mano sul petto lentamente, con dita leggere come piume e carezzevoli. Thorn, perso nei suoi troppi pensieri, rischiò di sussultare. Si impose di concentrarsi; non poteva perdere nemmeno un singolo gesto di Ofelia, voleva imprimerseli nella memoria, come se la cosa non fosse già automatica. Per la prima volta nella sua vita, era lui che voleva marchiarsi qualcosa a fuoco nel cervello, e per la prima volta fu contento di avere un simile dono. Le labbra umide di Ofelia, il suo sguardo attento, incuriosito e amorevole insieme, i suoi ricci scarmigliati, la curva del collo, del seno, dei fianchi…
Thorn deglutì. Non avrebbe dimenticato nulla. Doveva calmarsi.
Ofelia gli passò in silenzio le dita sulle cicatrici, sgranando gli occhi sempre di più quando si rese conto di quanto profonde fossero alcune. Come quella sul fianco, la numero trentasette, che gli tracciò con il pollice, e che era in effetti spessa quanto esso; o quella sulla spalla, la quindicesima, che si intersecava ad un’altra che gli attraversava obliquamente lo sterno, la ventesima. Quelle più grosse erano le più recenti, quelle più piccole erano state inferte al suo corpo quando era ancora relativamente giovane. Come una cicatrice sul braccio su cui Ofelia si stava appoggiando, più arcuata rispetto alle altre, la numero quattro, che Godefroy si era divertito ad infliggergli quando ancora non aveva il completo controllo degli artigli; o la numero undici, dritta come un fuso e sottile, che andava dall’osso del bacino verso giù, e si perdeva nella biancheria fino all’altezza dell’inguine. Anche quello era un tentativo di esercitazione di Godefroy, che aveva imparato a padroneggiarsi. Dalla quattordicesima in poi erano aumentate in lunghezza e spessore, di pari passo con la stazza del fratellastro.
Ofelia gliele tracciò tutte, risvegliando in lui i singoli ricordi legati ad ognuna di esse e archiviandoli dove non lo avrebbero più ferito. Sovrascrivendoli. Ora erano le loro cicatrici, e appartenevano a lei quanto a lui, perché il suo corpo non era di altri che di Ofelia. I suoi occhi erano umidi e allo stesso tempo sembravano intrigati. Thorn poteva quasi vedere il suo cervello lavorare alacremente formulando supposizioni, sollevando quesiti e interrogandosi su come, quando e perché. Ma non gli chiese nulla, né quando gli accarezzò l’addome pieno di solchi, né quando si resse alle sue braccia per sistemarsi meglio in braccio a lui, né quando fece leva sulle sue spalle per posargli un bacio all’angolo della bocca. Non gli domandò la storia di quei ricordi orribili e intrisi di sangue. Non era il momento. Nessuno, né sadici parenti né memorie di sofferenza dovevano insinuarsi in quegli attimi che erano solo loro.
Sapeva che Ofelia prima o poi gli avrebbe chiesto la storia di ognuna di quelle cinquantasei cicatrici. Gliel’avrebbe raccontata, un giorno. Ma non in quel momento, quando le sue labbra sulla pelle lo destabilizzavano, rendendolo incapace di pensare lucidamente. Incapace di lottare contro se stesso.
Thorn si voltò leggermente per baciarla a sua volta, inspirando il profumo del suo collo liscio, sentendo scorrere nelle sue vene il fuoco. Si chiese con un angolo della mente se l’odore di disinfettante le desse fastidio, perché a lui avrebbe dato fastidio non poter annusare il vero sentore della sua pelle. Una fragranza che era unicamente Ofelia, che non avrebbe potuto definire in altro modo.
La mano che era rimasta posata dolcemente sulla sua coscia si sollevò, e Thorn le scostò leggermente la vestaglia per poterle baciare la clavicola sporgente, facendole trattenere il fiato. La sua reazione gli piacque. Decisamente. Fece scendere la mano di nuovo, mentre l’altro braccio l’attirava ancora di più a sé, busto contro busto, per impedirle di muoversi, anche se lei non sembrava averne l’intenzione. Si era aggrappata ai suoi capelli e al suo braccio, assecondandolo nei movimenti. Aveva gli occhi chiusi, il volto accaldato.
Mentre Thorn le slacciava la vestaglia, facendola scivolare silenziosamente dalle sue spalle, lasciandola con le braccia nude e il corpo coperto solo da quella tunica-pigiama, le curiose dita di Ofelia si imbatterono nella cicatrice più nascosta che aveva. Quella sulla nuca, coperta dai capelli. La numero quarantuno. Lunga quattro centimetri e tre.
Si ritrasse, con gli occhi non più languidi, ma intimoriti.
- Sulla testa? – chiese, con la voce flebile.
- Solo una – rispose lui, dispiaciuto da quell’interruzione.
Le accarezzò il braccio, posato sul suo, dal polso alla spalla, sotto la tunica. Ofelia aveva il braccio sottile, ma non spigoloso e tonico quanto il suo. Aveva già avuto modo di toccarlo, quando aveva cercato di capire se fosse fratturato o quando l’aveva afferrata, più volte, per impedirle di cadere, ma accarezzarlo, testarne la morbidezza, era un altro discorso. Lei però sembrava distratta, e prestava poca attenzione al lavoro delle sue mani.
- Una in testa. E quante ne hai sul busto?
Di nuovo il tu.
Thorn aggrottò le sopracciglia, mentre Ofelia gli accarezzava delicatamente il vecchio taglio sulla nuca. Era vero che gli aveva chiesto, anzi, ordinato, di farle vedere le cicatrici, ma… aveva anche intenzione di proseguire oltre? A Thorn sorse il dubbio per un solo secondo, perché quando Ofelia gli accarezzò la gota e gli diede un bacio sullo sterno, proprio sulla cicatrice, il suo indugiare si sciolse come la neve sulle spiagge di Asgard durante la bella stagione.
- Dieci.
Ofelia gliele tracciò tutte, contandole senza emettere un suono, muovendo solo le labbra. Poi passò al braccio che lui teneva aggrappato al suo gomito.
- Cinque?
- Sette sull’altro – l’anticipò lui.
- Ne hai anche sulle gambe?
Thorn increspò ancora di più le sopracciglia. Ogni volta che si rivolgeva a lui informalmente si sentiva vibrare il corpo. Distratti, sentiva gli artigli agitarsi, svegliandosi dal torpore che li aveva avviluppati pochi secondi prima. Erano passati ventitrè minuti e cinque secondi da quando aveva messo piede nella stanza, milletrecentottantacinque secondi. I più lunghi e incredibili della sua vita. Non sapeva se fosse normale impiegarci tanto per… cominciare qualcosa, ma per una volta non gli interessava del tempo. Intuendo il suo stato d’animo, sentì l’orologio da taschino che cercava di aprirsi nella camicia. Nessuno però, in quel momento, avrebbe cercato di verificare l’ora. Lui e Ofelia erano in uno spazio fuori del tempo, un anfratto solo loro.
- Thorn? – mormorò Ofelia, accarezzandogli il collo.
- Quindici – rispose lui, riscuotendosi.
Ofelia lo osservò a lungo, in silenzio, con insistenza. Alla fine si alzò, liberandosi dall’intrico di braccia in cui Thorn l’aveva rinchiusa, facendogli sentire un incolmabile senso di vuoto nell’anima.
Di nuovo alla sua altezza, Ofelia lo guardò negli occhi, alzando le sopracciglia. Cogliendo l’antifona, Thorn la seguì, sperando di aver capito il messaggio silenzioso di Ofelia. Si sarebbe sentito a disagio nella sua pelle come mai prima di allora se solo Ofelia non lo avesse guardato con aria così incoraggiante. Inclinò la testa, scrutandolo con aspettativa.
Distogliendo lo sguardo, Thorn si chinò per levarsi l’armatura, che produsse alcuni scatti metallici più blandi del solito mentre l’appoggiava a lato del letto. Ora che non aveva più il cuore a battere furiosamente nelle sue orecchie o il respiro di Ofelia a coprire ogni altro rumore, Thorn colse lo scrosciare della pioggia all’esterno, e il chiacchiericcio di fondo della radio. Gli sembravano suoni di poca importanza, talmente insignificanti in quel frangente da escluderli automaticamente dalla sua percezione. Quando raddrizzò la lunga colonna vertebrale, sentendo ogni giuntura che si stendeva e allungava, li aveva già esclusi nuovamente dalla sua attenzione.
Portò le mani alla cintura guardando di sottecchi Ofelia, che mostrava finalmente un leggero rossore sulle guance e sugli occhiali. Aveva pensato che fosse sprovvista di senso del pudore, vista la sua audacia e sicurezza. Lo fece sentire più… umano, sapere che alla fine in quella situazione erano principianti entrambi. Non che Ofelia lo avrebbe giudicato, in caso contrario, ma lo rassicurava che fossero in territorio sconosciuto insieme. Che fossero insieme.
Si slacciò i pantaloni perso in quei pensieri, eseguendo l’azione con gesto automatico. Solo quando gli scivolarono sulle caviglie inarcò le sopracciglia, sorpreso dalla semplicità con cui si era spogliato di fronte ad Ofelia. Senza nemmeno lasciargli il tempo di finire di toglierseli dai piedi, Ofelia si inginocchiò, facendogli sgranare gli occhi. Thorn percepì il suo imbarazzo mentre gli toccava con esitazione la gamba, tracciando i segni dei tagli, scuotendo la testa leggermente. Ma bastarono pochi secondi, quarantadue per l’esattezza, perché entrambi si rilassassero. Le mani di Ofelia lo accarezzarono con più decisione, prendendo confidenza con le sue gambe lunghe da ragno. Thorn cercava di non guardarla, considerando troppo conturbante la vista di lei accovacciata tra le sue gambe. Così chiuse gli occhi, concentrandosi sulla sensazione delle sue dita sulla pelle. Le sentì indugiare sulla gamba storpia, tracciando il profilo deformato del polpaccio e del ginocchio. Sapeva che non ne era inorridita senza bisogno di guardarla. Non riuscì a trattenere un sospiro impercettibile quando lei lo baciò anche lì, come a voler guarire un osso con un solo amorevole contatto.
Gli artigli erano tornati quieti, ipnotizzati dalle carezze di Ofelia. Mai Thorn avrebbe creduto di poter provare un tale senso di… rilassamento. Si sentiva fuori dal suo corpo, senza confini, in uno spazio in cui esisteva solo Ofelia che gli accudiva l’anima.
L’eccitazione, in ogni caso, non se n’era andata, e si fece sentire di nuovo prepotentemente quando lei si rialzò, accarezzandogli il petto mentre le sue mani raggiungevano le sue spalle e il collo per avvicinarlo a sé. Thorn la assecondò volentieri, senza nemmeno aprire gli occhi, perdendosi in quel bacio profondo e umido. Non sapeva nemmeno che ogni bacio potesse essere così diverso dal precedente, una specie di scoperta continua. Il respiro divenne erratico in breve tempo, mentre Ofelia si aggrappava a lui e lui si accartocciava sempre di più per starle vicino, più vicino. Alla fine si ritrovò seduto con Ofelia premuta addosso, tra le sue gambe, mentre lei gli stringeva i capelli con forza. Gli avevano già tirato i capelli, più volte, i suoi fratellastri, ma con Ofelia non provava dolore, anzi. Desiderava che stringesse più forte, che fosse più possessiva. Che gli facesse capire che lui le apparteneva. Lui era possessivo e geloso, ma l’idea che anche Ofelia potesse dimostrarsi tale lo attizzò come un ferro incandescente.
Le fece scorrere le mani sulla schiena e sui fianchi, tirandosela addosso. Ofelia si ritrovò seduta a cavalcioni su di lui, per nulla a disagio in quella posa così intima. Così vicina…
Le infilò le mani sotto la tunica, lentamente, dandole il tempo di ritrarsi se non avesse voluto, posandogliele sulla pelle calda. Aveva le dita fredde nonostante il calore che gli bruciava in petto, e Ofelia gemette quando gliele posò addosso. Gemette, riprese fiato, e alzò le braccia.
Voleva che la spogliasse.
Thorn non si fece attendere, afferrandole l’orlo della tunica e sollevandoglielo in un unico movimento fluido. Completamente assorbito dalle dita, dalla pelle, dalle labbra di Ofelia, dal suo respiro, non si curò nemmeno di sistemare l’indumento. Contrariamente al suo costante e intrinseco bisogno di simmetria, lo abbandonò a terra scompostamente. Il disordine al momento non lo tangeva; non quando aveva le braccia avvinghiate al corpo di Ofelia. Riuscì a notare di sfuggita che sotto la tunica Ofelia era nuda, esposta, prima che lei si premesse di nuovo contro di lui, mozzandogli il respiro, riprendendo a baciarlo con impeto. Muovendosi su di lui.
Da quando era entrato in camera, l’aveva baciata per un totale di trecentosettantaquattro secondi, e ancora non era abbastanza. Ma fattori come il bacio approfondito, i gemiti sommessi che Ofelia non riusciva più a trattenere, il suo movimento involontario su di lui e il suo seno nudo premuto contro gli stavano facendo perdere definitivamente il controllo di sé. E non poteva accettarlo.
Si staccò bruscamente, posandole la testa sulla spalla, respirando affannosamente.
Era troppo vicina.
Era troppo poco vicina.
- Tutto bene? – gli chiese lei, con le mani ancora tra i suoi capelli. Dovevano essere sparati da tutte le parti, sudati e ritti, ma anche quello al momento non gli interessava. Se era Ofelia a renderlo disordinato, andava bene. Se lo tollerava lei, per lui non sarebbe stata che un’inezia.
- Rallenta – mormorò con voce roca, a denti stretti.
- Oh – disse lei, in un sospiro.
Si alzò da lui aggrappandosi alle sue spalle, cercando di non cadere, e subito Thorn si pentì di ciò che aveva detto. Non voleva che si allontanasse.
L’afferrò per il polso, piano, per farle capire che non voleva che se ne andasse. Lei lo capì al volo.
- Sono qui – sussurrò infatti, aprendo i palmi in segno di resa.
Gli indicò il letto alle sue spalle, aggirandolo per salirci. Rimase in piedi sopra il materasso, in equilibrio precario data la sua goffaggine, e Thorn fece in modo di non perdersi nessun suo movimento, stando attento a non darle mai le spalle. Ancora non si sentiva pronto a mostrarle la schiena, e fortunatamente lei non aveva fatto domande.
Di comune accordo, in silenzio, Thorn si alzò in piedi togliendosi i pantaloni che aveva ancora alle caviglie e lei si avvicinò. In piedi sul letto raggiungeva a malapena la sua altezza, ma erano già più in scala rispetto a quando lei era a terra. La differenza era di soli cinque centimetri. E mezzo. Ofelia gli guidò le mani affinché si posassero sui pantaloni della tunica-pigiama, e Thorn glieli tolse senza attendere ordini. Era incredibile come, in quel frangente, si capissero al volo, con un solo sguardo, un battito di ciglia, un increspamento di fronte o un leggero rossore. In tutte le altre occasioni avevano sempre bisogno di parlare per comprendersi, e anche in quei casi non avevano mai il quadro completo di cosa l’altro intendesse dire, ma in quell’ambito… pensavano le stesse cose, si intendevano come se usassero la stessa testa.
Era un gran facilitazione, dal momento che chiedere il permesso o indicazioni sarebbe stato decisamente imbarazzante, causa di rigidità ed esitazione. Invece i pantaloni di Ofelia scivolarono ai suoi piedi come una seconda pelle, e quando lei ripremette le sue mani contro i propri fianchi, in un muto invito, la liberò anche dell’ultimo indumento che la copriva.
Con un solo sguardo Thorn si impresse ogni dettaglio di Ofelia nella memoria, grato di non potersene mai dimenticare. La misura del seno, la circonferenza di vita, collo e cosce, la lunghezza di gambe e braccia, il peso addirittura. Non aveva mai fatto caso alle donne in generale, tanto meno al loro corpo; sapeva che c’erano alcune proporzioni che nella mente comune venivano associate alla perfezione, e Ofelia non le rispettava completamente, ma non gli importava. Nessun’altra misura gli avrebbe fatto girare la testa come quelle che aveva davanti, perché nessun’altra misura apparteneva ad Ofelia. Lei era quello. Era quei centimetri, quel peso, quel neo, quel graffio, quella scottatura. E dal momento che amava l’anima che quel corpo racchiudeva, amava di conseguenza anche quel corpo. E lo avrebbe amato sotto qualsiasi forma.
Ofelia calciò via pantaloni e biancheria in un attimo, evitando di guardarlo, leggermente rossa in viso, e si sedette al centro del letto a gambe chiuse stando attenta a non toccare nulla.
Il modo in cui sollevò lo sguardo timidamente, con gli occhiali posati sulla punta del naso, lo fece rabbrividire. Impiegò tre secondi per denudarsi completamente come lei e raggiungerla muovendosi lentamente, cercando di posare la gamba storpia in modo che non assumesse angolazioni troppo irregolari o in modo che non gli facesse male. Era talmente tanto abituato ai dolori del proprio corpo, tra vecchie e nuove ferite e articolazioni che rimanevano troppo spesso bloccate a lungo in una posizione scomoda, che aveva imparato ad ignorare il fastidio. Ma in quell’occasione non voleva essere distratto da fitte di dolore. Voleva concentrarsi su Ofelia.
Ofelia, che lo fissava. Intimorita. La cosa che lo sorprese fu scorgere non il disgusto sul suo viso, alla vista del suo corpo nudo, martoriato e ossuto, poco invitante, ma la paura. Paventava quello che si apprestavano finalmente a fare? Non lo avrebbe permesso.
Aveva letto enciclopedie mediche e biologiche, saggi di dottori e ogni materiale utile sul corpo umano quando aveva quattordici anni. Primo, perché aveva capito che il modo migliore per non far notare la sua sofferenza fisica, nemmeno a sua zia Berenilde, era imparare a guarirsi da solo le ferite; ecco perché se ne intendeva di come curare lussazione, fratture, tagli e svariate altre contusioni o contratture. Secondo, perché il suo corpo stava cambiando, crescendo, e lui non capiva cosa gli stesse succedendo; non poteva chiedere a sua zia, perché si trovava in imbarazzo, non aveva un fratello maggiore con cui parlare di quelle cose, tantomeno un padre, e lo zio era fuori discussione. Si era dovuto arrangiare, e lo aveva fatto. Era inevitabile imbattersi poi in argomenti come la riproduzione o il funzionamento del corpo maschile e femminile, ma quegli argomenti lo avevano solo inorridito, specialmente il primo. L’idea che un maschio e una femmina dovessero fare certe cose per dare alla luce un bambino… Thorn era stato assalito da attacchi di nausea feroci per giorni, e quando aveva colto in flagrante Archibald in diverse occasioni, anni dopo, non aveva potuto fare a meno di sentire lo stesso disagio.
Ofelia aveva cambiato persino quello in lui, aveva sovvertito quella concezione. Ed ora, invece di sentirsi respinto da quello che si accingeva a fare, si sentiva inebriato, impaziente, eccitato. Ringraziò di essersi imbattuto in quei libri di biologia e anatomia, perché altrimenti non avrebbe saputo cosa fare. In quel campo, al contrario della matematica, la teoria era diversa dalla pratica, se ne rendeva conto, ma almeno qualche base ce l’aveva. Non avrebbe rischiato di essere più inopportuno del necessario.
Aveva anche appreso che per una donna poteva essere doloroso all’inizio, se l’atto non veniva compiuto nel modo corretto, e quella era l’unica vera paura che lo attanagliava. Gli artigli si agitavano in lui, famelici, risvegliati da un istinto predatorio di cui non sapeva nemmeno l’esistenza, che lo aizzava affinché si prendesse ciò che voleva, ma la sua coscienza lo teneva a bada, in modo da pensare prima ad Ofelia che a sé. Non sarebbe servito a nulla se lei ne fosse rimasta scottata. Era l’ultima persona al mondo che voleva ferire, in tutti i sensi possibili.
Quando finalmente, mentre lui incedeva lentamente carponi, Ofelia incontrò il suo sguardo, chiuse la bocca e prese un profondo respiro, rilassandosi poco a poco.
Aprì lentamente le gambe quando lui fu così vicino da torreggiare su di lei, e si sdraiò, accogliendolo su di sé. L’immagine di Ofelia così accaldata e senza fiato con i capelli sparsi sul cuscino era una delle più belle cose che avesse mai visto. Mentre cercava di non pesare su di lei sentì tutta la gravità della loro differenza di altezza, e si dovette arcuare per poter tenere il viso accanto al suo. Si chinò lentamente su di lei, ricominciando a baciarla, questa volta lentamente, pigramente; riempirono l’aria di sospiri spezzati e gemiti sommessi, mormorii vibranti, schiocchi di languidi baci umidi e profondi, lunghi e senza fretta.
Ofelia lo strinse a sé, posandogli le mani sulla schiena, e si irrigidirono entrambi. Le dita di Ofelia erano scivolate in uno dei tanti solchi che gli deturpavano il retro del corpo. Lei lo guardò con aria interrogativa, indagando timidamente con la mano, e quando la consapevolezza di ciò che stava toccando si fece largo in lei, sgranò gli occhi.
Thorn non voleva ancora mostrarle quella parte di sé. Egoisticamente perché voleva unirsi a lei, era impaziente e si sentiva andare a fuoco; codardamente perché voleva nasconderle la parte peggiore del suo passato, e di se stesso. Temeva la sua reazione, nonostante prima fosse andata bene.
Per distrarla decise di farsi audace. Le posò una mano sul fianco, reggendosi al materasso solo con l’avambraccio, e cominciò a farla scendere lentamente, accarezzandola voluttuosamente. Non era un contatto in punta di dita, la sua mano era aperta, posata con pesantezza sulla sua carne, per poterne toccare il più possibile. Voleva che sentisse bene quel tocco, non come il solleticante scivolamento di una piuma, ma come un marcaggio di ciò che era suo. Ofelia chiuse gli occhi in risposta, aggrappandosi con delicatezza alle sue spalle.
Thorn fece scivolare la mano verso il basso, passando sopra l’osso del bacino, decisamente meno sporgente rispetto al suo, e poi sulla coscia, calda e piena, non ossuta. Aveva ben presente quale sensazione desse toccare un corpo troppo magro; quando si strofinava mentre si lavava sentiva durezza ovunque toccasse, e lo odiava. Si rese conto in quel momento che gli sarebbe dispiaciuto enormemente se Ofelia fosse stata più magra. Era calda e morbida, viva sotto di lui, e quella sensazione era inebriante. Chiuse gli occhi anche lui per godersi meglio la sensazione delle loro pelli a contatto, di quell’esplorazione nuova per entrambi, concentrando tutta la sua attenzione lì. La mano corse giù fino al ginocchio, che solleticò con il pollice, e giù sul polpaccio, su cui si fermò. Non rifletteva nemmeno, si faceva trasportare mentre l’urlo degli artigli, o forse dell’eccitazione?, gli ululava nella mente soffocando momentaneamente ogni altra percezione e suono. Le sollevò senza fatica il polpaccio, guidandoselo sulla schiena. Ofelia lo assecondò, alzando di sua spontanea volontà anche l’altra gamba, circondandogli la vita con le cosce e intrecciando le caviglie sopra i suoi glutei. Quando si scontrarono, più vicini di quanto fossero mai stati, Thorn non riuscì a trattenere un gemito cavernoso che gli sgorgò direttamente dall’intestino. Spalancò gli occhi, vergognandosi, ma Ofelia lo osservava con una luce divertita negli occhi e un piccolo sorriso accattivante. Nonostante l’aria spavalda, era arrossita anche lei, ma non fece nulla per ritrarsi.
Thorn fece risalire la mano seguendo il percorso contrario, dalla coscia fino al fianco, spostando la mano nel tragitto per accarezzarle una natica. Era talmente morbida, talmente perfetta per la sua mano, che dovette trattenersi a forza per non stringergliela. Si fermò sulla sua vita, incerto su come procedere oltre quel punto, ma Ofelia gli venne in aiuto. Spostando la mano dalla sua spalla, afferrò la sua e sa la portò alla bocca. Gli baciò ogni polpastrello della mano, dolcemente, e Thorn ebbe la sensazione che gli stesse baciando il cuore. Era così strano e… intimo che, al di là della frenesia del momento, si sentì anche commosso. Ofelia gli piegò la mano, baciandogli anche le nocche, e poi il palmo, e il polso.
Inaspettatamente, guardandolo negli occhi con sicurezza, usò entrambe le mani per guidare la sua verso il suo petto. Gliela fece appoggiare sul seno senza un briciolo di tentennamento, incoraggiandolo mutamente a proseguire. Gli aveva dato un’imbeccata, ora doveva essere lui a continuare.
Se aveva faticato a trattenersi quando le aveva sfiorato la natica, pensò che sarebbe stato impossibile non godersi quella parte del corpo così… piena e… adattabile e…
Smise di ragionare completamente mentre scopriva sempre di più il corpo di Ofelia, imparando se una cosa fosse piacevole o meno guardando le sue reazioni. A volte chiudeva gli occhi sospirando, altre si inumidiva le labbra; nei casi migliori emetteva dei mormorii di apprezzamento e nei peggiori le si mozzava il respiro. Ma la verità era che Thorn era sicuro che ciò che le faceva non le dispiacesse. Sembrava che Ofelia si protendesse verso di lui, verso le sue mani, che lo desiderasse tanto quanto lui desiderava lei. Quando gli stringeva il braccio, quando si aggrappava alle sue spalle… quando inarcava la schiena, senza fiato, gemendo, premendosi contro di lui.
Erano troppo vicini, eppure non abbastanza. Erano trascorsi settecentonovantaquattro secondi da quando si erano sdraiati a letto, ognuno dei quali era stato così intenso che Thorn era sicuro che avrebbe riprovato le stesse sensazioni evocando quel ricordo in un secondo momento. Quindi, per quanto lo avesse voluto, non avrebbe potuto ripensarci e analizzarlo troppo spesso. Non poteva permettersi di trovarsi in una situazione del genere… da solo.
Centonovantadue secondi dopo, Ofelia emise un gemito particolarmente penetrante, che non gli entrò nelle orecchie, ma nel basso ventre. A quanto pareva, oltre a sovvertire le empiriche ed immutabili leggi matematiche, Ofelia riusciva anche a scombussolare completamente il funzionamento del suo corpo: lo aveva ridotto ad un cumulo di percezioni, spegnendogli il cervello e incrementando l’efficienza dei suoi cinque sensi. Risalì con la bocca dal suo ventre, sullo sterno, le depositò un bacio sull’incavo della gola e la baciò, spostandosi leggermente per sistemarsi meglio.
Nel libro di biologia che aveva letto si era accennato a questa fase transitoria del rapporto, i “preliminari”, in modo vago e poco dettagliato. Thorn aveva appreso crescendo in cosa consistessero, per lo più con disgusto e in modo non richiesto o volontario. Certi discorsi, però, erano impossibili da ignorare, specie nell’ambiente politico; specie con un ambasciatore libertino. In ogni caso, non sapeva quanto di preciso dovessero durare, se i loro erano durati troppo o troppo poco.
Non gli importava. L’attesa lo stava torturando lentamente, e gli sembrava quasi che i suoi artigli avessero rivolto la loro violenza contro lui stesso: non percepivano Ofelia come una minaccia, ma la fonte della loro agonia era il loro stesso proprietario. Il sistema nervoso di Thorn era più in sovraccarico del solito.
Lui era pronto da troppo tempo ormai, e anche Ofelia sembrava… disposta a concludere.
Come a volerglielo dimostrare silenziosamente, mentre lui si apprestava ad unirsi definitivamente a lei, Ofelia lo strinse in un abbraccio, gettandogli le braccia al collo. Thorn cominciò e serrò la mascella: i loro corpi aderivano uno all’altro come se fossero un unico organismo, e Ofelia, che d’un tratto sembrava impaziente quanto lui, non lo aiutava di certo.
- Thorn… - sussurrò, supplichevole, appoggiandogli le labbra all’orecchio.
Lui rantolò. Se per via di quel sussurro roco dopo minuti interminabili di suoni inarticolati o perché si stava unendo definitivamente a lei, nemmeno lui riusciva a capirlo.
Si spinse più a fondo, con lentezza moderata, stringendo i denti per non essere brusco. Per non essere egoista.
- Thorn – gemette questa volta lei, con più decisione, accompagnando il suo nome con un sospiro di piacere.
Thorn si fermò, appoggiando la testa alla sua spalla, inalando a pieni polmoni il profumo della sua pelle. Rispetto all’inizio, oltre a quel sentore indefinibile che aveva classificato come l’essenza di Ofelia, sentiva anche il vago strascico di alcol disinfettante con cui si era pulito le mani, e una traccia riconducibile a lui. Persino i loro odori si erano mischiati.
Ofelia si mosse sotto di lui, facendolo impazzire. Corrugò la fronte al punto da sentire un solco scavarsi tra le sopracciglia. Lui cercava di trattenersi e lei… lo incitava? Lo provocava? Tipico di Ofelia.
Quando alzò la testa, la vide con il fiato corto, le guance arrossate, gli occhi umidi e languidi, le labbra gonfie di baci. Lei fece aderire i loro busti, eliminando tutte le distanze, strusciandosi contro di lui. Aprì la bocca per dire, Thorn lo sapeva senza bisogno di sentirle pronunciare la parola, “continua”, ma la prevenne. La baciò e si spinse in lei con un po’ più di decisione, ottenendo una reazione che di per sé sarebbe bastata a mandargli a pezzi nervi e autocontrollo, riducendo la sua coscienza ad un brandello bruciato, polvere al vento, puro istinto.
Non contò i secondi. Uscì dal proprio corpo, entrò in quello di Ofelia, nella sua anima, e lei si impossessò di lui, controllandolo, rendendolo il suo schiavo.
Era tutto nero, poi fu tutto bianco, in un turbinio di confusione obnubilante ed estrema consapevolezza.
I loro corpi vennero scossi da onde che sgorgavano dritte dal centro di loro stessi, accarezzandoli, non annegandoli. E si infransero uno contro l’altra, come due fiumi che si riversano in mare. Tremò fin nel midollo, mentre ogni cellula di sé si elettrizzava, facendo scorrere una scarica lungo vene e nervi, muscoli e tendini, organi, giunture, legamenti…
Gli ronzavano persino le orecchie.
Crollò sopra Ofelia, ma quello che lei emise non era un gemito di dolore per il peso che le gravava addosso, quanto di piacere, di appagamento. Così sdraiato, rilassato dalla punta dei piedi fino alla radice dei capelli, si sentì privo di ossa e muscoli. Non era più rigido, non era più costretto in quel corpo ossuto e costantemente in tensione. Si era allungato e, ora che non era più arcuato per poter riuscire a guardare il viso di Ofelia, sentiva il suo fiato contro il petto, i piedi, non più allacciati alla sua vita, che gli solleticavano i polpacci.
Rimase immobile per ventisette secondi, ma furono così lunghi che si chiese se in realtà, per una volta nella vita, non avesse sbagliato a contarli. Con le dita di Ofelia che gli accarezzavano la nuca lì dove i capelli erano più morbidi, aveva qualche difficoltà a concentrarsi. Alla fine scivolò via da sopra di lei, sdraiandosi supino al suo fianco, con il braccio premuto contro il suo. Nonostante la temperatura elevata nella stanza, sentì quasi freddo senza il corpo di Ofelia a stretto contatto con il suo. Un freddo che gli penetrava nelle ossa. Gli artigli, lenti e intorpiditi come se fossero sott’acqua, per una volta non lo torturavano.
Ofelia sembra impigrita quanto loro, così ci mise un po’ di tempo a riscuotersi, girandosi sul fianco, premendosi contro di lui. Lo circondò con un braccio, accoccolandosi, tracciandogli poi disegni immaginari sul petto con la punta delle dita. Thorn non poté fare a meno di trattenere un mormorio di godimento, rilassato come non avrebbe mai creduto possibile. Le persone stavano sempre così dopo…? In qualche modo, allora, forse riusciva a comprendere perché si lasciassero così tanto andare all’istinto. Anche se l’idea di fare una cosa del genere con chiunque lo disgustava al punto che, nonostante la presenza serafica e calmante di Ofelia al fianco, sentì comunque lo stomaco contrarsi, nauseato.
Ofelia si alzò sul gomito, solleticandogli il volto con i capelli. Gli baciò nuovamente la guancia, quella senza cicatrice, questa volta. E non si scostò da lì.
- Fammi vedere la schiena.
Ancora quel tono imperioso, un ordine invece che una richiesta. Se fosse stato qualcun altro, Thorn avrebbe direttamente ignorato non la domanda, ma la persona stessa. Con Ofelia, invece, si sentiva in dovere di obbedire senza porsi interrogativi, senza limitazioni. Anche un po’ di più, se gli dava del tu.
Ormai, dopo tutto quello che avevano fatto, non aveva altro da nasconderle. Non aveva più paura. O forse era colpa dello stato catatonico in cui era caduto? Per quanto fosse piacevole, sperava non durasse in eterno. Faceva a fatica a ragionare, e lui aveva bisogno che il suo cervello fosse pienamente sveglio e operativo. Quelle sensazioni contraddittorie lo risvegliarono, inducendolo a girarsi sulla pancia senza fiatare. Odiava le contraddizioni, e Ofelia lo aveva reso talmente dicotomico da darsi fastidio da solo.
In ogni caso, il velo che gli annebbiava la mente si dissipò quando sentì Ofelia trattenere il respiro, rigida di fianco a lui.
- Thorn… - mormorò solo, con la voce sommessa e spezzata.
- Diciotto.
La schiena era la parte del corpo su cui i suoi cosiddetti familiari si erano accaniti maggiormente, impietosi come se fosse un pezzo di carne da macello. Non l’aveva più guardata per otto anni, tre mesi e quattro giorni, ma non gli serviva guardarla per rievocare l’immagine di quanto malamente fosse deturpata. Diciotto cicatrici, diciotto solchi, crateri, che l’attraversavano senza logica alcuna, un chiaro segno che chi si era scagliato contro di essa lo aveva fatto in preda ad una rabbia cieca o con noncuranza. Con indifferenza. Avevano forme e dimensioni diverse, la più lunga era leggermente storta e misurava quaranta centimetri, larga due e mezzo, la più piccola ne misurava dieci ed era un cerchio imperfetto. Quest’ultima era proprio al centro della schiena, un altro tentativo artistico di Godefroy. Un altro allenamento per testare la precisione dei suoi artigli.
Ofelia aveva le mani che tremavano quando gliele toccò tutte, a volte con due dita, per riuscire a coprirne lo spessore. Thorn fu contento di non poter vedere il suo volto, girato com’era dall’altra parte. Ofelia non disse nulla. Non ce n’era bisogno. Non c’erano domande che potessero spiegare, non c’erano parole di conforto che potessero lenire un dolore del genere, o metodi per cancellarne le tracce. Eppure, Thorn si sentì pulito quando le mani di Ofelia passarono sulla sua pelle, si sentì integro. Nuovo.
Se Ofelia poteva convivere con esse, lui le avrebbe accettate.
- Cinquantasei – mormorò lei, dopo centottantanove secondi terribilmente dilatati.
Thorn non sapeva cosa sottintendesse il suo tono, né cosa volesse davvero esprimere pronunciando quel numero ad alta voce. In ogni caso Ofelia non proseguì, e lui prese la parola.
- Tu ne hai settantotto.
Usare il tu a sua volta lo fece rabbrividire impercettibilmente, riaccendendo il calore nel suo ventre. Sperò che Ofelia non se ne accorgesse, ma lei era distratta più dalle sue parole che dalle sue reazioni. Le sue dita, infatti, si bloccarono, sospese sopra la sua colonna vertebrale.
- Settantotto?
- Cicatrici – chiarì lui, voltandosi sul fianco lentamente, muovendo un osso alla volta. Non era sicuro di aver già riacquistato il controllo del proprio corpo. Alla fine la fronteggiò, guardandola negli occhi. Le raddrizzò gli occhiali, che pendevano a sinistra di due millimetri. – Ne hai settantotto. Recenti, oserei dire. Chi te le ha procurate? Come?
Usare il tu per la seconda volta glielo fece diventare facile. E dopo quello che avevano condiviso, non sarebbe davvero stato opportuno parlarle tenendola ancora a distanza con la formalità. Thorn vide un lampo di divertimento rassegnato passarle sul volto, di cui però non colse l’origine. Sorprendendolo, Ofelia si avvicinò ancora, abbarbicandosi contro di lui. Gli passò un braccio attorno alla vita e sulla schiena, che continuò ad accarezzargli. Thorn si era irrigidito di fronte a quel bisogno di intimità che Ofelia mostrava senza vergogna, come se fosse la cosa più naturale del mondo, e oltre ad assecondarla, decise di soddisfare anche il proprio. Mosse le gambe per intrecciarle alle sue, udendola sospirare impercettibilmente, e le posò una mano sul fianco. Sembrava che toccarla fosse divenuto imperioso quanto respirare, altrettanto basilare. E sembrava non averne mai abbastanza.
- Non ero nelle grazie dei miei compagni precorritori – disse semplicemente, la sua voce che vibrava vicino al suo orecchio.
Mano a mano che il mondo riprendeva i suoi contorni naturali e che lui rientrava in possesso di tutte le sue facoltà, ridivenne consapevole dello scrosciare violento della pioggia contro il vetro, e della radio che continuava a brontolare in sottofondo, scossa da echi e notizie che in quel momento non aveva la minima intenzione di ascoltare.
- Mi reputavano in qualche modo colpevole dell’incidente successo a Mediana, e dal momento che a lei non ero esattamente simpatica, loro si erano adeguati di conseguenza.
Thorn chiuse gli occhi, mentre la rabbia si faceva largo in lui. Sentì gli artigli svegliarsi, e lottò contro quel sentimento iracondo; non aveva alcuna intenzione di fronteggiarli, in quel momento, quindi doveva controllarsi per poterli tenere ancora sopiti.
- Come?
- Mi hanno rovesciato addosso dei vetri mentre ero nella doccia.
Thorn si irrigidì dalla testa ai piedi. Gli artigli gli esplosero nei nervi, attaccandoli e facendoli vibrare, dilaniandoli. Aggrottò le sopracciglia, contraendo il volto, mentre un desiderio smodato di violenza lo squassava fin nel ventre. L’immagine di Ofelia, nuda, indifesa, che veniva presa di mira da un branco di stupidi precorritori ambiziosi e incompetenti gli fece vedere tutto rosso, come se avesse indossato le lenti degli occhiali della moglie. Strinse un pugno contro la natica di Ofelia, quasi scostandosi da lei. Rischiava di farle male, o rischiavano di farlo i suoi artigli, e non voleva rovinare il momento che avevano appena trascorso macchiandolo di furia e ferocia.
Lo riportò lei all’ordine, accarezzandogli il viso e baciandogli il collo dolcemente, senza lascività, con il chiaro intento di calmarlo. Gli tracciò il contorno delle sopracciglia con il pollice, cercando di distendere il solco sulla sua fronte.
Quando si sentì abbastanza padrone della sua voce, che gli uscì comunque roca e tetra dalla gola, chiese: - Mi hai chiesto di poter lasciare la Buona Famiglia per questo motivo? Ti ho detto che saresti stata al sicuro, lì.
Ofelia esitò, ma sapeva che non gli avrebbe mentito.
- Anche per questo. Mi avevano appena attaccata quando te l’ho domandato. In parte, però, speravo anche di poter stare al tuo fianco, aiutarti in modo occulto stando con te. Non me ne rendevo ancora conto, ma… avevo bisogno di starti vicino.
Il suo livore non si ritrasse del tutto, ma calò sensibilmente. Ofelia sapeva come placarlo, le cose giuste da dire. O forse era merito delle sue mani, che dal suo viso si erano spostate sul suo petto, solleticanti e ipnotiche?
Aveva ancora diverse cose da chiederle circa quell’episodio di violenza, ma la sua ultima ammissione aveva fatto prendere ai suoi pensieri un altro corso, più impellente.
- Come sei arrivata a Babel?
Ofelia ci mise un po’ a rispondere, mentre gli accarezzava la nuca e tirava dolcemente i suoi capelli. Lui non si sentiva ancora così… a suo agio a perpetrare quelle tenerezze, ma le sue mani erano possessive sul corpo di Ofelia, e sperava che lei recepisse il messaggio. Thorn chiuse gli occhi, distendendo la fronte.
Ofelia gli raccontò a grandi linee del periodo trascorso a casa con i suoi genitori, sorvolando su come l’avesse trascorso, narrando solo i fatti principali. Thorn intuì dal suo tono reticente che non dovevano essere stati i più begli anni della sua vita, e in parte si augurava che fosse anche a causa della sua mancanza. Cominciò ad essere più dettagliata quando gli raccontò della Festa dei Rintocchi, di cui non capiva bene il senso. Il suo prozio le aveva passato una cartolina che aveva rievocato i ricordi contenuti in quella seconda memoria che ogni tanto si impossessava di lei. Con una puntualità ineccepibile eppure inquietante era comparso Archibald, che aveva aperto un corridoio fino alla Rosa dei Venti. La zia Roseline l’aveva seguita per stare con Berenilde, cosa che aveva stupito Thorn, mentre Ofelia aveva deciso di cercare lui a Babel, grazie a quella cartolina, fintanto che Archibald, Gaela e Renard cercavano Terra d’Arco.
Alla fine del racconto, Ofelia sembrava più leggera, come se se avesse confessato un peccato e lui l’avesse perdonata, e lui invece si sentiva più dubbioso che altro. Il fatto che Ofelia avesse fatto tutto quello che aveva fatto per trovarlo, da sola su un’arca sconosciuta, senza indizi per ritrovarlo se non la sua ferrea determinazione avrebbe dovuto fargli battere più forte il cuore, spazzare via ogni dubbio circa le motivazioni, la fedeltà e l’amore di Ofelia. Ma per quanto non nutrisse nessuna incertezza al riguardo, ed averla lì tra le braccia, calda e morbida contro di lui, fusi in un’unica entità, fosse appagante e quanto di più vicino alla felicità avesse mai sperimentato, la presenza di Archibald tingeva sempre di nero ogni scenario.
Thorn aggrottò le sopracciglia, aumentando di conseguenza anche la presa sulla pelle di Ofelia. Lei gli strofinò il viso contro il petto, intuendo il suo disagio.
- Diffida di quell’individuo. Non risponde ad altri che a se stessi e non è mosso da alcun impeto altruistico. Quello che fa, lo fa sempre per il proprio tornaconto, questa è una certezza. Assodata.
Ofelia si scostò per guardarlo in volto. – Lo so che non nutri grande fiducia in lui, e nemmeno io riesco a capire bene quali motivi lo muovano, però mi ha aiutata. Anche in passato, alla fine, ci ha aiutati, tutti e due. Non dico che mi fidi di lui, ma credo che possiamo collaborare. E poi, con lui ci sono Gaela e Renard, e di loro non dubiterei mai.
Il cipiglio di Thorn non si ammorbidì. Anzi.
- Hai la tendenza ad elargire la tua lealtà a chiunque, o a credere che chiunque sia sincero quando te la accorda.
Ofelia imitò la sua espressione. – Tu hai la tendenza a non fidarti di nessuno, invece, nemmeno quando ne vale la pena.
- Con le dovute eccezioni – la corresse lui, accarezzandole la schiena.
Ofelia annuì con il mento. – Una sola eccezione conferma la regola, però.
- Una sola eccezione dimostra che bisogna sempre procedere con attenzione, quando si tratta di includere altri nei propri piani, o metterli a parte dei propri segreti.
Tacquero per un po’ di tempo. Nessuno dei due voleva guastare quello che avevano appena condiviso mettendosi a discutere su chi fosse o meno degno della loro fiducia, tanto più se quel chi era Archibald.
Alla fine, dopo due minuti netti, Ofelia sospirò. – A proposito di piani… ora come dobbiamo procedere? Tu devi ricevere un altro incarico dai Genealogisti mentre io non diventerò mai virtuosa. Sono estromessa dalla Buona Famiglia.
Thorn ci rifletté. Era vero, non voleva allontanarsi da quel luogo, da quel momento, da quella sensazione, ma non poteva più ignorare le incombenze che gravavano su di loro. Se dovevano parlare, e sembrava proprio che fosse il caso, allora tanto valeva anche rimarcare la questione Archibald.
Thorn stava per aprire bocca quando una sirena risuonò fuori dalla casa, così forte che chiunque, nell’intera arca, l’avrebbe sentita. Conosceva quell’allarme, e il suo significato. Non prometteva nulla di buono. Ofelia sussultò, distaccandosi da lui.
- Cosa succede? – chiese, mentre cercava di scendere dal letto senza toccare nulla che potesse leggere inavvertitamente.
- Minaccia alla pubblica sicurezza. Minaccia seria – chiarì lui, lapidario, osservandola allontanarsi. Era già in piedi e, per quanto gli dispiacesse, si stava già per rivestire.
Il suo momento senza tempo era concluso.
Mentre si chinava sulla camicia, muovendo a fatica la gamba malandata, tenne Ofelia nel suo campo visivo. Trafelata, come se fosse lei la causa dell’allarme, si diresse verso la radio.
- I guanti – l’avvertì lui, notando che nella fretta se li stava dimenticando.
Ofelia li prese dal tavolino e se li infilò fluidamente. Era talmente abituata ad indossarli che le sue mani, quando compiva quel gesto, erano dirette e precise, non goffe come suo solito. Era quasi ammaliante, vedere quelle dita così potenti sparire sotto la pelle speciale dei guanti, nascondendosi. Erano quasi sempre coperte, eppure gliele aveva fatte scorrere sul corpo senza riserve. Lo considerava un privilegio, e una parte della sua mente si chiese quando sarebbe potuto accadere di nuovo.
Ofelia alzò il volume della radio, intelligentemente, mettendosi in ascolto.
L’orologio da taschino si mise ad aprirsi e chiudersi freneticamente mentre lui prendeva in mano la camicia e lo afferrava, osservando l’ora che già conosceva. La sciarpa, che era stranamente rimasta buona dove Ofelia l’aveva posata per tutto quel tempo, si avvinghiò al busto della padrona. Thorn avrebbe voluto passarle un braccio in vita e stringerla a sé, come la sciarpa, ma si trattenne.
Non poteva indulgere in simili fantasie mentre l’annunciatore radiofonico, tra echi fastidiosi e notizie comunicate a spizzichi e bocconi mano a mano che si capiva cosa fosse successo di preciso, annunciava che buona parte di Babel era… sparita.
In ogni caso, Thorn le si avvicinò, vestendosi nel frattempo.
La luna di miele era finita, e di quello che dovevano fare stavano per discutere quasi nell’immediato. Non avevano nemmeno dovuto pianificarlo: era piombato loro addosso.

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Capitolo 17
*** Per noi pt. 1 ***


Non guardo nemmeno a quando risale l'ultimo capitolo. Non mi giustifica, ma sappiate questo: il capitolo è diviso in due parti perché è troppo lungo, e posterò la seconda parte molto presto. Massimo una settimana... xD
Detto ciò, ovviamente la parte che volevo trattare io e da cui è partito tutto è la parte finale della seconda parte, che avevo già scritto mesi fa ma ho dovuto smembrare e rivisitare perché nel frattempo ho letto il libro 4 e si sono rese necessarie delle modifiche correttive. Ovviamente parlo della scena nella camera direttoriale *faccina timida ma non troppo*.
L'ho presa molto larga perché mi intrigava l'idea di descrivere e immaginare cosa Thorn avesse fatto all'osservatorio, intanto.
Quindi partiamo da quando ha messo piede delle Deviazioni e concludiamo con quella scena lì, ma nel giro di due capitoli. Spero che non troviate questa prima parte troppo noiosa.
Grazie mille a chi ancora aspetta con pazienza♥


17. Pour nous pt. 1

Thorn si alzò mentre la luce crepuscolare stingeva nell’alba di un nuovo giorno. Un giorno in cui avrebbe dovuto lasciare Ofelia, un giorno di cambiamento e un passo avanti verso la scoperta della verità finale e del modo per arginare i crolli che minacciavano le arche e le loro vite secondo dopo secondo.
Mancavano ancora ottantotto minuti all’incontro previsto all’osservatorio, e non sapeva nemmeno con precisione come si sarebbe svolta la presentazione. Non che la cosa lo turbasse, non era disturbato all’idea di doversi relazionare con qualcuno che non conosceva; era la mancanza di controllo che lo affliggeva. Il controllo per lui era fondamentale. La conoscenza di cosa si apprestava a fare, la pianificazione di come si sarebbe svolta ogni cosa.
Da un certo punto di vista, conoscere e sposare Ofelia lo aveva cambiato al punto che intraprendere delle azioni brancolando nel buio non gli appariva più così impraticabile. Perché Ofelia era quanto di più imprevedibile avesse mai visto, e con lei pianificare serviva solo a vedere ridotti in cenere i suoi progetti. Forse poco, forse in modo quasi inavvertibile, ma Ofelia lo aveva cambiato nel profondo.
Talmente tanto che in quel momento indugiava sulla soglia della camera, osservando la sua figura distesa sotto il lenzuolo leggero. Ormai l’alba babeliana filtrava con prepotenza tra le zanzariere della camera che condividevano. Invece di pensare a cosa fare, a come portare a termine l’indagine che i Genealogisti gli avevano affidato, aveva sprecato gli ultimi minuti a cercare di capire come andarsene.
Doveva uscire senza dire nulla? Doveva svegliarla e farle sapere che se ne stava andando? La prima opzione era la più logica, ma la seconda la più allettante. Allettante… quella parola non aveva mai avuto senso di esistere, per lui. Niente era mai stato allettante. Invece l’idea di svegliarla lo era. Per molti, troppi motivi. Non sapeva quando l’avrebbe rivista anche se, conoscendola, niente l’avrebbe fermata dal raggiungerlo in qualche modo. Si immaginava già mentre si chinava su di lei per svegliarla e farle sapere che stava uscendo… il lenzuolo che scivolava via dalla sua pelle calda, i suoi miopi occhi assonnati che cercavano di metterlo a fuoco. Avrebbe avvicinato il viso al suo? Lui di sicuro l’avrebbe baciata. E poi? Ofelia si era dimostrata meno timida di quanto si aspettasse. Avrebbe fatto scorrere una mano sul suo petto, sopra la divisa? L’avrebbe attirato su di sé per dargli un ultimo saluto? Non era impossibile, a giudicare dal trasporto con cui si era abbandonata a lui quando…
Si irrigidì. Doveva andarsene, prima che i suoi pensieri si tramutassero in azioni. Si costrinse a concentrarsi sul dolore pulsante alla testa, un’emicrania indotta dalla sua memoria che non lo lasciava mai, e che aveva imparato più o meno bene ad ignorare, così come il dolore alle articolazioni. Ogni tanto aveva l’impressione che il suo corpo non fosse fatto per essere utilizzato, ma per rimanere immobile e scolpito nel tempo. Era un corpo mediocre, ma gli serviva. Non poteva indulgere in certe fantasie distraenti.
La mancanza di sonno non era un problema, ma gli artigli fremevano. In presenza di Ofelia si quietavano un po’, erano docili, eppure bastava un passo falso, una svista, un assopimento perché scattassero, agendo al di fuori della sua sfera di contenimento. Ferirla sarebbe stato così facile… nonostante quello, avrebbe lo stesso desiderato poter dormire con lei, almeno per una notte, stringersi al suo corpo caldo nonostante l’aria bollente di Babel.
Prese un respiro profondo. Indossò la giacca di LUX.
Si chiuse la porta alle spalle.
 
Le strade assolate di Babel si stavano ancora risvegliando poco a poco nonostante il sole fosse prepotente. Percorse nell’ombra le vie silenziose, stando attendo a non incrociare nessuno. Per sua fortuna il trenuccello era mezzo vuoto, così non dovette preoccuparsi di distanziarsi da chiunque mentre il mezzo di trasporto lo portava sulla piccola arca che ospitava da sola tutta la struttura su e in cui avrebbe dovuto indagare.
Quando scese, cinquecentoquarantuno secondi più tardi, si disinfettò le mani con cura, due volte, e prese in mano il suo orologio da taschino. Questo si aprì e chiuse da solo, confermandogli l’ora che lui già conosceva. All’ingresso trovò una sala vuota con dei moduli da riempire e imbucare a seconda del motivo della presenza in quel luogo. Se non altro, come metodo era efficace ed eliminava la necessità di una segreteria, ma i tempi di attesa a quanto ammontavano? E come venivano recepiti i moduli compilati? Stava per prenderne in mano uno e studiarlo per valutare la precisione delle domande e dei campi da riempire quando percepì una presenza. Impose ai suoi artigli di non agitarsi e si voltò. Di fronte a lui c’era una donna con un sari giallo, occhiali a pince-nez e un sorriso enigmatico che non aveva nulla di caloroso. Era parecchio più bassa di Thorn, ventidue centimetri, ma ovviamente non quanto Ofelia. Nessuno era più basso di Ofelia. Ciò che più attirò l’attenzione di Thorn però, al di là della misteriosa figura di quella donna, era lo scarabeo meccanico che se ne stava appollaiato sulla sua spalla.
Lo aggiunse alle cose da verificare, insieme al funzionamento di quella sala d’ingresso per i visitatori.
- Sir Henry – lo salutò la donna, o forse lo annunciò.
Thorn la squadrò dall’alto, per nulla sorpreso del fatto che sapesse del suo arrivo. Lo stavano aspettando.
- Sono qui su incarico dei Lord di LUX in qualità di…
- Grande ispettore familiare, ma certo, sir. Sappiamo bene qual è il vostro ruolo qui, e qual è il vostro ruolo a Babel. Vi prego di seguirmi.
Thorn rimase alle spalle della donna mentre lo scortava lungo un dedalo di corridoi e porte chiuse. Contò quindici svolte e il triplo delle porte. Se non avesse avuto la sua memoria, Thorn sapeva che si sarebbe dimenticato quasi subito la strada del ritorno.
- Non vedo alcuna mappa del posto né cartelli indicatori della posizione. Data la mancanza di finestre, sarebbe bene farli apporre. Qualcuno, in un momento di distrazione, potrebbe smarrire la retta via e vagare per diversi minuti prima di capire quale direzione prendere.
La donna in sari giallo continuò ad incedere come se non lo avesse nemmeno sentito.
Alla fine, dopo venticinque secondi, si degnò di rispondere. – Le cose qui dentro, ve ne accorgerete presto, sir, non sono molto… convenzionali. Questo è un rifugio di duplice natura: cura deviazioni che impediscono alle persone di avere una vita soddisfacente, o cittadini che hanno altri tipi di problematiche, e utilizza l’altruismo dei volontari che si sono offerti per permetterci di studiare quelle stesse deviazioni, in modo da trovare una cura.
Thorn aggrottò le sopracciglia, ma la donna non lo vide. Ofelia aveva parlato proprio di offrirsi volontaria, di poter essere interessante per quegli esperimenti. Di qualunque natura fossero, comunque, Thorn dubitava che i volontari venissero trattati come eroi. Cavie, materiale da esperimento, niente di più. Ecco ciò che erano. Sperò fervidamente che Ofelia gli desse retta e non si facesse internare in quel luogo.
Il che, dato che le aveva sconsigliato appunto di mettere in atto un simile piano, significava che l’avrebbe ben presto incontrata lì dentro. Ovviamente.
La donna svoltò un ultimo corridoio, l’ultimo, e per un secondo l’emicrania di Thorn si affievolì; i muri, i pavimenti, tutto era perfettamente simmetrico, lungo uguale, uno all’altro. Fortunatamente aveva memorizzato la strada, perché sarebbe stato impossibile procedere a ritroso sulla base della misura dei corridoi. Per la prima volta in vita sua Thorn trovò quasi inquietante quella precisione. Per quanto fastidioso, sarebbe stato normale trovare delle imperfezioni, o una crepa sul soffitto, un graffio sul pavimento, uno stipite leggermente asimmetrico. Lui aveva un bisogno patologico di perfezione, eppure si rendeva conto che, in quel luogo, ciò a cui aveva sempre anelato era malsano.
Varcarono una delle porte chiuse per ritrovarsi in una stanza con un tappeto quadrato che distava la stessa identica misura da ognuno dei quattro muri della stanza. Al centro esatto del tappeto c’era un tavolo rotondo. L’arredamento della camera finiva lì. Su ogni muro c’era una porta indistinguibile dalle altre, compresa quella che avevano appena varcato. Sembrava una caricatura parodistica di una rosa dei venti.
In un angolo della stanza, una ragazza giovane con lo stesso sari giallo della donna che lo aveva condotto fin lì li stava evidentemente aspettando, con atteggiamento deferente. Aveva la pelle scura tipica dei babeliani, gli stessi occhialini pince-nez e lunghi guanti di pelle. Aveva anche lei un piccolo automa meccanico sulla spalla, ma a forma di scimmia. Gli automi riconducevano imprescindibilmente a Lazarus e Thorn diffidava di quell’uomo più che di chiunque altro. Il non riuscire a catalogarlo come nemico o amico e la sua ambiguità lo rendevano estremamente insidioso ai suoi occhi.
La donna si voltò verso di lui, inclinando la testa per riuscire a guardarlo in volto. Il fatto di essere così alto era spesso un fastidio, ma Thorn la considerava la sua unica rivincita sul mondo e su chi lo aveva maltrattato e considerato indegno di attenzione. Nessuno lo guardava dal basso all’alto, doveva sempre tutti allungare il collo per riuscire a vederlo. Era egoistico, era meschino, ma era anche gratificante, seppur in minima parte. Tranne quando doveva guardarlo Ofelia, che faceva fin troppa fatica ad alzare così tanto il volto, piccola com’era.
- Sir Henry, questa collaboratrice sarà la vostra guida all’interno dell’osservatorio. Avrete accesso a qualunque informazione chiediate, a meno che non sia coperta dal segreto professionale in ambito sanitario. Ci teniamo molto, come avrete modo di appurare, a fare le cose a norma, all’interno della struttura. Chiedete pure alla vostra guida, sono certa che provvederà celermente a procurarvi quanto necessitate. Vi auguro una buona permanenza.
La donna se ne andò silenziosamente, uscendo dalla stessa porta da cui era entrata.
La ragazza alzò timidamente lo sguardo su Thorn, spalancò gli occhi e distolse nuovamente lo sguardo.
- Sono a vostra disposizione, sir. Il mio compito sarà quello di farvi da guida e provvedervi i documenti che mi richiederete, come ha già detto l’osservatrice più anziana. Come posso esservi utile?
Thorn, che aveva subito perso interesse per quella ragazza e la sua parlantina educata, stava scrutando con attenzione la stanza.
- Mappe. Per prima cosa vorrei avere delle mappe del luogo. Dovrei essere autorizzato a muovermi anche da solo, quando ne ho bisogno, e senza mappe rischierei di perdermi.
La giovane annuì brevemente, riportando lo sguardo su Thorn. Poi, senza motivo, arrossì e fece un passo avanti. Thorn si ritrovò a pensare alle poche volte in cui aveva visto Ofelia in preda all’imbarazzo: erano i suoi occhiali a mostrare le emozioni che la attanagliavano, a scurirsi in base al suo umore o a tendere al rosa quando era preda di sentimenti d’affetto. Come la prima volta che…
- Mi devo anche sistemare. Potreste mostrarmi i miei alloggi?
Se possibile, la ragazza arrossì ancora di più e si raddrizzò, come se avesse trovato del coraggio nascosto dentro di sé. Doveva avere più o meno l’età di Ofelia, si rese conto Thorn.
- Ma certo, sir. Seguitemi, prego.
Thorn non prestò la minima attenzione alla figura ondeggiante di fronte a lui. Ancheggiava in modo talmente vistoso che fu costretto ad aggrottare le sopracciglia mentre si chiedeva se non avesse un problema al bacino. Si concentrò invece sul groviglio di corridoi tutti uguali, sui visi coperti dai cappucci che incrociava alle svolte, e si rese conto che, a parte la ragazza che lo conduceva e la donna che lo aveva accolto, nessuno mostrava il proprio volto. Solo una volta una figura incappucciata parve esitare dopo averlo visto, ma riprese immediatamente il cammino come se nulla fosse, e Thorn non poté capire chi si celasse dietro al cappuccio.
Giunsero di fronte ad una porta identica alle altre.
- Da regolamento siamo costretti ad offrirvi una stanza come le nostre, sir. La mia è proprio qua di fianco, se mai… se doveste avere bisogno di qualcosa. Qualsiasi – mormorò, battendo più volte le ciglia e guardandolo intensamente per quanto la sua statura glielo permettesse.
Thorn si chiese se non avesse qualche tic nervoso.
- In ogni caso, data la vostra… elevazione, io vi avrei concesso di risiedere negli appartamenti direttoriali. Sono extremely impegnati, i direttori, quindi non li vediamo quasi mai, ma i progressi delle nostre ricerche e i fascicoli vengono tutti portati da loro. Non per nulla sono i direttori, che ci guidano nel migliore dei modi.
Quello era interessante. – Non li vedete mai?
- No, mai. Hanno molto da fare.
- Potrebbe tornarmi molto utile visitarli.
La ragazza, Thorn non ne conosceva il nome e sinceramente non gli interessava nemmeno saperlo, parve a disagio, d’un tratto pentita di aver tirato fuori l’argomento, nonostante il suo fosse stato un inutile tentativo di cortesia. A Thorn non importava minimamente dove si sarebbe stabilito, purché fosse un posto pulito.
- Visitare gli appartamenti direttoriali o i direttori?
Thorn aggrottò le sopracciglia. – Entrambi.
Scoprire chi dirigeva quel posto sarebbe stato un gran passo avanti. LUX finanziava l’osservatorio e gli esperimenti che ne venivano condotti, ma persino a loro sfuggiva chi fossero le menti, o la mente, dietro tutta la struttura. I fascicoli medici oltretutto potevano essere di interesse.
- Temo non sia possibile, sir, a meno che non siate invitati direttamente da loro. I loro appartamenti sono pieni di archivi che non possono essere consultati. Per via, sapete, del segreto professionale in ambito sanitario. Se riuscirete ad essere convocato per un consulto non ci saranno problemi.
- Come si ottiene un appuntamento?
La ragazza sembrò ancora più in difficoltà. – Questo non lo so, sir.
Parve esitare, ma non aggiunse altro. Il che era come se non avesse proprio risposto alla sua domanda.
A Thorn quella questione non tornava. Stavano cercando di propinargli un risultato sbagliato per un’equazione che era palese avesse un’altra risoluzione.
- Capisco – disse laconicamente. – Avrei comunque bisogno di vedere almeno dove si trovano, questi appartamenti. Devo poter visitare tutta la struttura.
- Oh, ma certo, certo. Sarei lieta di potervi fare da guida. Volete riposarvi un momento prima di continuare le ispezioni? Sembrate stanco. Io sono… ho conoscenze fisioterapiche e sono in grado di fare dei massaggi molto rilassanti.
Thorn le lanciò un’occhiata esterrefatta, che nascose subito dietro il solito cipiglio.
- Non sono stanco, e non mi serve riposare. Ho preso servizio quarantasei minuti fa e ancora non ho cominciato. Mi servono le planimetrie di tutto l’osservatorio, vecchie e nuove, e la programmazione delle attività che vengono svolte insieme alle modalità di svolgimento. Vi aspetto in camera.
La giovane, che era sembrata avvizzire come un fiore secco ad ogni parola di Thorn, parve riscuotersi sulle ultime. – Ma certo, arriverò in un attimo. Voi mettetevi pure comodo.
Mettersi comodo… quella ragazza non sapeva proprio con chi avesse a che fare.
Ventisette minuti dopo Thorn era seduto sul letto del suo alloggio, completo di armadio, scrivania e bagno personale, e stava studiando minuziosamente le mappe. Diede una rapida occhiata alla turnificazione delle attività, al loro svolgimento e al programma del giorno seguente. Dal momento che si aspettavano che indagasse circa il consono sfruttamento delle sovvenzioni dei lord di LUX, la cosa più basilare da fare era prendere parte agli esperimenti che si sarebbero svolti l’indomani. Avrebbe dovuto chiedere anche i registri di contabilità degli ultimi mesi. Prese un pezzo di carta e si mise a fare l’elenco dei documenti che gli avrebbero dovuto procurare. La ragazza se ne stava buona in disparte, ma Thorn sentiva i suoi occhi su di sé e la cosa lo infastidiva.
Non gli interessava cosa pensasse di lui, delle sue cicatrici, del suo lungo corpo ossuto che se ne stava ripiegato su se stesso su quel materasso troppo corto. La scrivania l’aveva esclusa a prescindere: era troppo bassa perché potesse sedersi senza contorcersi, facendo sferragliare l’armatura. Non gli importava più cosa la gente pensasse di lui da anni, ormai, e c’era stata un’unica eccezione a quella concezione. Un’eccezione che sperava di vedere presto, perché nel suo sguardo albergava tutto quello che nessuno aveva mai visto in lui, nemmeno sua madre; tutto quello che lui non credeva di meritare, e nemmeno di necessitare, ma che era diventato fondamentale.
Lo sguardo di Ofelia era tutto ciò di cui aveva bisogno.
Rassegnatosi all’idea che l’osservatrice non se ne sarebbe andata, e intuendo che sarebbe molto probabilmente stata la sua ombra ovunque, o quasi, Thorn si mise a studiare le planimetrie, che non servivano solo per mantenere la facciata di grande ispettore familiare, ma anche per portare avanti la sua seconda indagine. Quella sul progetto Cornucopiando.
Nel giro di otto minuti e dodici secondi ebbe imparato a memoria ogni tragitto possibile e immaginabile di entrata, uscita, interno all’osservatorio, la posizione dei dormitori e dell’area dedicata agli esperimenti. Aveva appreso che c’erano due aree, una per gli internati con patologie aggravate, il cosiddetto programma alternativo, di cui aveva ragione di credere avrebbe potuto far parte Ofelia, e una per quelli curabili, come aveva sospettato. Aveva individuato gli appartamenti direttoriali, il cui accesso era garantito da una doppia via: una agibile a chiunque, e una nascosta, che si dipanava dalle fondamenta della statua che stava al centro dell’osservatorio, la quale celava un tunnel di cui non capiva la funzione. In ogni caso, c’era un piccolo passaggio quasi perfettamente occultato nella mappa, e facendo una deviazione si poteva passare anche per i contatori di generali di acqua, gas ed elettricità, in un’area di confino. Anche a quelli avrebbe dovuto dare un’occhiata. Trovò persino il quartiere dei collaboratori, non quello in cui alloggiavano, che era esattamente lì dove stava lui, ma l’area in cui lavoravano, redigevano i rapporti e facevano quel che facevano, qualsiasi cosa fosse.
- Posso avere accesso al quartiere degli osservatori? – chiese, dopo essere stato in silenzio per tutto quel tempo.
Quando la ragazza non gli rispose, lui alzò lo sguardo e la trovò intento a fissarla con le labbra serrate e un’espressione quasi addolorata sul volto.
- Segreto professionale, sir.
Thorn trattenne a stento la sua contrarietà. Riportò gli occhi sulla planimetria e si concentrò sull’area esterna, che assomigliava ad un parco giochi. Era vicino ai quartieri dei deviati, quindi probabilmente era un’altra zona dedicata agli esperimenti. C’era anche una sala grande ed isolata che riportava il nome di Osservazione. Probabilmente era quello il fulcro delle attività che venivano svolte all’interno di quella struttura.
- Devo chiedervi di poter assistere ad ogni entrata e uscita dei pazienti nella sala d’osservazione.
Quello tornava utile in duplice aspetto: sia per mantenere la copertura che per indagare sugli esperimenti condotti.
- Certo, sir – acconsentì la ragazza, per una volta.
- Domani sarà possibile?
Lei annuì.
Thorn ripiegò le cartine: aveva studiato tutto. Mentre di giorno avrebbe assistito alla conduzione delle osservazioni sui pazienti raccogliendo quante più informazioni possibili, di notte avrebbe cercato da solo le risposte che nessuno, tantomeno quella giovane che sembrava sapere molto meno di quanto dimostrasse, avrebbe potuto dargli.
C’era solo una cosa che gli premeva. – Vorrei che mi conduceste agli appartamenti direttoriali.
Non avrebbe voluto che gli stesse tra i piedi, a dire il vero, ma forse avrebbe potuto sfruttare quell’osservatrice per carpirle qualche altra informazione.
Si alzò mentre lei lo fissava con… ammirazione? Era la prima volta che qualcun altro oltre ad Ofelia lo guardava così. Eppure, con Ofelia si sentiva ribollire dentro e sollevare lo stomaco, mentre il sangue pompava forsennatamente nelle vene; invece lo sguardo di quella ragazza lo metteva a disagio, facendogli accapponare la pelle. Era inquietante. Perché lo fissava così?
- Avete già studiato le planimetrie, sir Henry?
Thorn la guardò come se di fronte avesse un bambino che si succhiava il pollice. Trattenne a stento il senso di… inadeguatezza che quella giovane gli ispirava. Sembrava tutto fuorché adatta a fargli da guida. Non era altro che un’altra invasata fedele a LUX.
Non ottenendo risposta, la giovane annuì con orgoglio. – Siete proprio eccezionale, così intelligente e preparato. Non a caso siete stato nominato grande ispettore familiare.
Thorn indurì ancora di più lo sguardo, se possibile. – Possiamo andare?
- Oh, ma certo. Devo però avvertirvi, come vi ho già accennato, che non potrete essere ricevuto dai direttori. Non se non siete convocato ufficialmente.
- Non posso nemmeno visitare i loro appartamenti?
- Temo di no. Il perché lo capirete quando saremo arrivati.
Senza davvero rispondere alla domanda, la ragazza si avviò, ma uscita in corridoio rimase ferma ad attenderlo. Thorn si incamminò senza prendersi la briga di porgerle altrettanta cortesia, ma rallentò il passo perché lei non notasse che sapeva già perfettamente dove andare. Era meglio non scoprire subito tutte le sue carte. In ogni caso, si ritrovò ad incedere schiacciato contro il corridoio nel tentativo di porre una certa distanza tra lui e la sua guida, che invece sembrava tendere sempre di più verso di lui.
Sentiva gli artigli fremere, e con l’innato fastidio che provava nei confronti di quella ragazza sarebbe stato ben lieto di accontentarli. Ma il pensiero lo fece subito sentire in colpa, subdolo, e si odiò. Si concentrò sul dolore pulsante alla testa, che lo aggrediva sempre ferocemente dopo che sfruttava appieno le sue capacità mnemoniche. Si disinfettò le mani per pulirsi da quei pensieri e da quelle nefande emozioni.
- Ci sono gli archivi nel quartiere dei collaboratori?
La ragazza non diede segno di aver nemmeno sentito la risposta.
- In ogni caso, non potrei averne accesso, dico bene?
Questa volta lei annuì.
Le pose qualche altra domanda sull’operato degli osservatori, e rimase sorpreso di scoprire quanto poco ne sapesse la sua presunta guida. O ogni collaboratore rimaneva all’oscuro circa il lavoro dei propri colleghi, o quella ragazza non poteva rivelare nulla di nulla, ma era brava a nasconderlo. Alcune esitazioni e altre mezze risposte, in ogni caso, gli confermarono che tra i colleghi c’era ben poco dialogo. Ognuno svolgeva la propria mansione, non esisteva un lavoro di gruppo o un confronto. Quella riservatezza all’interno dello stesso osservatorio gli dava di che pensare.
Thorn capì che in realtà non c’era nessun tipo di documentazione nell’area dedicata agli osservatori. L’unico archivio presente nella struttura era conservato negli appartamenti direttoriali, a cui non poteva avere accesso.
Pensò che nel suo viaggio notturno avrebbe potuto sfruttare il passaggio nascosto sotto la statua per infiltrarvisi, ma capì che non sarebbe stato possibile quando lui e la ragazza uscirono dall’ascensore. La prima cosa che notò fu la targa dorata affissa alla grande porta d’ebano, che annunciava:
APPARTAMENTI DIRETTORIALI
VIETATO L’ACCESSO AI VISITATORI
 La seconda fu che la stessa porta d’accesso non aveva maniglia. Era apribile solo dall’interno. Thorn registrò in meno di un secondo lo specchio accanto alla porta, la tenda che copriva il passaggio segreto, e il fatto che quella zona dell’osservatorio era completamente isolata. Era chiaro che volessero nascondere qualcosa, ma cosa? Delle azioni che potevano essere condotte solo in un luogo appartato? O il fatto che non c’era nessun direttore?
Perché quello era il suo più grande dilemma: scoprire l’identità di quel direttore, o quei direttori, su cui nessun sembrava avere alcun tipo di informazione. Nessuno.
Rimase lì impalato, una volta tanto incerto su come procedere. La ragazza non fece nulla per aiutarlo a comprendere cosa fare.
Fu per una fortuita coincidenza che scoprì che a mezzogiorno in punto degli altri collaboratori, che sbrigavano incombenze diverse da quelle della ragazza che lo guidava, accedevano alle camere direttoriali per portare i resoconti e aggiornare i fascicoli, nuovi e vecchi. Tutte le attività svolte il giorno precedente venivano riepilogate in documenti sanitari e di altra natura entro le undici del giorno successivo. Alle dodici venivano depositati negli archivi. Quella precisione l’avrebbe colpito positivamente se non fosse stato troppo intento a fissare le due figure incappucciate con le braccia cariche di plichi.
Thorn voleva porre alcune domande alla giovane al suo fianco, ma sapeva che avrebbe ottenuto ben poche risposte. Rimase in silenzio mentre con un minuscolo, ma non tanto piccolo quanto avrebbe voluto, filamento di pensiero si rendeva conto che tra le altre cose Ofelia gli mancava anche per dialogare. Di solito discutevano sempre del successivo passo da intraprendere, o delle novità scoperte sul passato. Thorn si chiese come sarebbe stato parlare con lei delle amenità della vita quotidiana. Gli risultava difficile immaginarsi un simile scenario, dato che non si era mai presentato. In ogni caso, la presenza di Ofelia gli mancava in più di un senso, e si chiese cosa stesse facendo in quel momento. Se fosse al sicuro.
Le figure incappucciate aprirono la porta in un modo che Thorn non riuscì a vedere, per quanto fosse alto e si fosse avvicinato. Loro voltarono quasi impercettibilmente la testa proprio per accertarsi di non lasciar intravedere nulla.
- Possiamo entrare? La mia intenzione è quella di osservare che tutto sia in ordine. In qualità di grande ispettore familiare designato da LUX, è mio compito ispezionare quanto più possibile.
La ragazza parve esitare.
- Non ho intenzione di leggere o prendere visione di alcunché che mini il segreto professionale in ambito sanitario.
La giovane squadrò ostentatamente la sua divisa, soffermandosi sul simbolo del sole impresso sul suo petto. Le spalle le si abbassarono. Aveva ceduto.
- D’accordo, ma non potremo trattenerci oltre lo stretto necessario.
Thorn non aspettò nemmeno che finisse la frase ed entrò negli ambienti che fino a poco prima erano rimasti impenetrabili. Cercò di non aggrottare le sopracciglia quando lanciò uno sguardo al meccanismo di apertura della porta, in cerca di brecce: non ce n’erano. L’ermetismo di quell’entrata rimaneva un mistero.
Thorn prese subito coscienza di ogni dettaglio dell’ampia stanza, dalle misure dei lampadari a quelle dei tappeti, dalla posizione dell’archivio su cui erano chini i collaboratori alla porta di servizio nascosta in fondo alla camera. Non c’era nulla di eclatante in quello scenario, se non una certezza di cui solo Thorn pareva essere consapevole: erano disabitati da tempo immemore. Spolverati, puliti, ordinati.
Troppo.
Non c’era nessun direttore lì. Non c’era mai stato. Chi teneva le redini dell’osservatorio guidava quel posto da un altro luogo, di certo non da quegli appartamenti. Il motivo?
La funzionalità di quel luogo. Sembrava un’immensa biblioteca, in cui ogni schedario e ogni libro erano catalogati. Il soffitto era alto (cinque metri e cinquanta), innaturalmente alto. Certo, la porta che aveva notato in fondo poteva dare accesso ad una camera da letto, o a più camere, magari disordinate e vissute, ma lui era certo che lì non ci fosse proprio nulla del genere. E nessun occupante.
Notò una grande specchiera psiche di fronte a lui, e si impose di non distogliere lo sguardo. Non gli erano mai piaciuti gli specchi, non gli era mai piaciuto dovervisi riflettere. Guardarsi. Vedere chi era, cos’era, e immaginarsi come gli altri lo percepivano. Sembrava quasi uno scherzo di cattivo gusto quello che lo aveva portato a sposarsi con Ofelia che, oltre ad essere una lettrice di rara competenza, era anche un’Attraversaspecchi. Si era ben documentato, all’epoca, su tutti i poteri familiari degli abitanti di ogni singola arca, alla ricerca di qualcosa che gli avrebbe fatto comodo. Il dono della lettura di Anima, una caratteristica abbastanza comune, aveva attirato subito la sua attenzione, mentre aveva ignorato volutamente la capacità di attraversare una superficie riflettente per emergere da un’altra: non gli interessava, non la bramava, non gli tornava utile.
Aveva sposato proprio una delle poche detentrici di quel potere, ereditandolo con la cerimonia nuziale. In compenso, non aveva assimilato quello da lettore. La cerimonia del dono era aleatoria, talvolta si carpiva ogni singolo potere dal proprio coniuge, altre non si otteneva nulla. Ma avrebbe dovuto immaginarsi che, sposando Ofelia, le variabili non sarebbero state dalla sua parte. Se ne rese conto solo in quel momento, con suo sommo fastidio.
Tornando presente a se stesso, con la coda dell’occhio stette ben attento a non perdere di vista i movimenti delle figure incappucciate alle sue spalle. Stavano sicuramente archiviando i fascicoli più recenti, e lui doveva capire quali fossero gli schedari di suo interesse. La sua riflessione nello specchio, in quel caso, aveva una duplice utilità: specchiandosi sarebbe stato in grado di varcare quella superficie come una porta, quella che lui da fuori non poteva aprire, e poteva tenere d’occhio i movimenti dei collaboratori alle sue spalle.
- Siete mai venuta qui? – chiese quando ebbe finito di registrare ogni cosa dell’ambiente.
Decisamente, non viveva nessuno lì. Tenne a bada gli artigli, la cui attività frenetica veniva amplificata dalla presenza di tanti estranei.
La ragazza scosse la testa. – Non posso parlare delle mie mansioni, sir.
Quella ragazza era la più inutile guida che avesse mai conosciuto. Oltretutto, la sua risposta non era neanche pertinente alla domanda posta.
Alla fine le figure incappucciate si volsero verso di loro, attente a non mostrare il volto celato dal sari, un invito esplicito ad andarsene: avevano finito il loro lavoro. Thorn li precedette all’esterno e lanciò uno sguardo al retro della porta d’ebano: la maniglia c’era. Era apribile dall’interno.
Subito pensò ad Ofelia, anche se farla arrivare sin lì sarebbe stato ben difficile.
Chiusisi l’uscio alle spalle, i collaboratori se ne andarono silenziosamente, ma Thorn aveva un’ultima cosa da fare: si diresse verso lo specchio a muro che aveva notato in precedenza. Non voleva peccare di sottovalutazione nei confronti della ragazza che lo accompagnava… non voleva che si spingesse a chiedersi per quale motivo sembrava tanto interessato agli specchi che incontrava. Forse non vi avrebbe nemmeno fatto caso, ma era meglio depistarla in modo che non sorgesse alcun dubbio.
Si piazzò di fronte allo specchio e, facendo appello ad una vanità che non aveva, si pettinò i capelli già ordinati e si lisciò la giacca perfettamente posata. Si guardò fingendo che ciò che vedeva fosse bello.
Lo sforzo valse a qualcosa perché la ragazza, Thorn ne era certo, non si chiese minimamente per quale motivo si specchiasse in continuazione. Invece, si accostò a lui, fissando le loro figure nello specchio.
- L’uniforme vi calza a pennello, sir Henry – disse con un tono di voce che aveva sentito spesso usare dalle ragazze, ma mai con lui. Era… fastidioso. Un tono decisamente fastidioso.
Lui si schiarì la voce e fece per andarsene, ma la ragazza rimase a fissare ancora un po’ lo specchio, con la scimmietta-automa che brillava minacciosamente nel riflesso del vetro.
- Siete un così grand’uomo, in tutti i sensi. Sono davvero onorata di essere stata scelta per farvi da guida.
Thorn aggrottò la fronte e, facendo appello a tutta la sua volontà, tendendo ossa, muscoli, persino il sangue, impose ai suoi artigli di rimanere al loro posto. Di starsene fermi. Prese il flaconcino di disinfettante. Se doveva trovarsi con quella ragazza sempre tra i piedi, avrebbe dovuto instillare al suo corpo la consapevolezza che la sua presenza non era sgradita.
Sarebbe stato un compito arduo, dal momento che il suo cervello la pensava molto diversamente.
 
Thorn passò il resto della giornata a farsi condurre, come se non fosse in grado di farlo da solo, in tutti i locali cui aveva accesso. In verità, si rese conto subito, aveva il lasciapassare quasi per ogni ambiente, ma era come entrare in una stanza buia e non poter accendere delle luci. Ovvero, il fatto che lo lasciassero entrare in quelle camere non significava che gli svelassero i loro segreti.
I collaboratori e gli osservatori non si rendevano conto, però, che per ingannare lui, avvezzo agli intrighi e agli insabbiamenti da tutta la vita, serviva ben altro che qualche convenevole, complimento o informazione smozzicata, a metà tra una mezza verità e una bugia per congegnata.
Thorn non aveva bisogno delle loro parole. Bastava che gli mostrassero l’accesso agli ambienti e che gli spiegassero i funzionamenti delle turnazioni, informazioni che non potevano occultargli per permettergli di svolgere la sua ispezione; al resto, al modo per attingere quei segreti che gli servivano, avrebbe pensato lui.
Cominciò quella notte stessa. L’ultimo turno dei collaboratori finiva al più tardi alle undici di notte. Su quel punto erano categorici, e chi non riusciva a stilare il rapporto quotidiano entro quell’ora aveva tempo il mattino successivo. Alle undici e trenta Thorn si stava già muovendo indisturbato per i corridoi.
Si infilò l’armatura subito dopo essersi lasciato alle spalle gli alloggi del personale, dove aveva la stanza; non sarebbe mai andato in giro claudicando vistosamente, ma indossare l’esoscheletro proprio fuori dalla porta degli osservatori, con il baccano infernale che produceva, era un rischio che non si sentiva pronto a prendere.
A memoria trovò il percorso segreto che lo condusse dentro le viscere della statua centrale, in un tunnel su cui trovò una piccola porta di servizio. La percorse e, passando per diversi ballatoi sopraelevati e su per scale che sembravano non finire più (cinquecentotredici gradini), si ritrovò di fronte alla porta celata dietro la tenda nel piccolo corridoio che dava sulle camere direttoriali.
Non esitò a varcare lo specchio, rischiando tutto sulla base di una convinzione viscerale che non avrebbe saputo spiegare: gli appartamenti erano vuoti.
Thorn si prese venticinque secondi per accertarsi di aver memorizzato millimetricamente la posizione di ogni singolo granello di polvere di quella stanza e per disinfettarsi con cura le mani. Dopodiché si diresse verso lo schedario che era stato aggiornato quella mattina stessa.
Trovò soprattutto dati relativi ai soggetti del programma alternativo, e passò tutta la notte a studiarli. Memorizzarli. Decise che, se non tutti i giorni, almeno a notti alterne avrebbe fatto visita a quell’archivio per informarsi sulla prosecuzione degli esperimenti. Se voleva ottenere qualcosa di significativo, qualche informazione fondamentale, quello era decisamente il posto in cui cercare: l’archivio del programma alternativo. La facciata fasulla dietro cui si nascondevano per portare a termine studi mai dichiarati e segreti persino tra il personale che li conduceva.
Prima di abbandonare le stanze rimise tutto a posto, ma si bloccò quando intravide un piccolo fascicolo familiare.
Eulalia.
Gli sembrava statisticamente impossibile di essere riuscito a trovare un indizio fondamentale nell’arco di una sola giornata di ispezioni. Solo Ofelia era tanto brava a demolire i calcoli probatori. Non lui.
E infatti non demolì proprio nulla. Il fascicolo riguardava Ofelia, non Eulalia Dilleux. Ofelia nei panni di Eulalia. Lo aveva avvertito, in effetti, che possedevano alcuni incartamenti su di lei. Studiò quel plico con più maniacalità del solito, attento a non perdersi nessun dettaglio, ma a parte quello che già sapeva (situs transversus, goffaggine, abilità di lettura e sangue animista) non venne rivelato nulla di nuovo.
Mentre tornava in camera sua si rese conto che solo leggere quelle poche righe su Ofelia gli aveva causato un dolore sordo al petto, che sovrastava il martellare pulsante alle tempie, aggravato dall’insonnia e dal fermento degli artigli, profondo e inquietante. Non era un dolore legato al suo corpo, ma ai suoi… sentimenti.
Gli mancava Ofelia.
 
Trenta minuti dopo essere tornato nei suoi alloggi ed essersi disinfettato le mani quattro volte gli venne recapitata da sotto la porta la sua edizione del Giornale ufficiale.
Datato sette giorni prima.
Thorn provò ad accendere la radio, che gli restituì gracchianti informazioni sconnesse relative a canali che si sovrapponevano, rendendo impossibile persino distinguere che giorno fosse.
Lo depistavano dalle investigazioni interne e lo tenevano all’oscuro del funzionamento del mondo esterno.
Niente di tutto quello lo avrebbe mai ostacolato, ma servì ad acuire l’angoscia che covava nel petto: la mancanza di Ofelia venne sostituita con qualcosa di più terrificante.
La paura di non sapere se le sarebbe successo qualcosa.
 
Quel giorno la ragazza che gli faceva da guida lo accompagnò alla sala d’Osservazione per farlo assistere ad alcuni esperimenti. A lui sarebbero serviti doppiamente, per entrambe le sue ricerche, e non avrebbe destato sospetti, dato che il suo ruolo era proprio quello di indagare per capire se le risorse stanziate dai generosi Lord di LUX fossero impiegate adeguatamente.
Ogni soggetto veniva portato in una grande sala di cui Thorn aveva memorizzato dimensioni e ubicazione il giorno prima. La stanza era bianca, di un bianco abbacinante che aveva tutta l’intenzione di voler confondere o disturbare chiunque. Depistare. Deviare. Le grandi finestre, che misuravano il doppio di quelle decretate a norma sia su Babel che al Polo, lasciavano entrare quanta più luce solare possibile, e il bianco candore del marmo non serviva che a riflettere ovunque quei raggi. La sala era gremita di osservatori incappucciati che indossava sari gialli e prendevano frenetici appunti su taccuini tutti uguali. La giovane lo fece accomodare su una poltrona accanto alle sedute sopraelevate dei collaboratori, così che potesse osservare senza bloccare la visuale di nessuno. A giudicare dal duro materiale di cui erano composti i sedili degli osservatori, dare a lui una poltrona voleva essere indice di cortesia, un favore non indifferente. Favore che lui non apprezzò e nemmeno colse. Ogni sedia, ogni divano, ogni poltrona era scomoda uguale, per lui, sempre costretto a muovere ogni singola giuntura per muovere quel corpo ossuto e teso che si ritrovava.
Gli osservati venivano silenziosamente condotti di fronte a tutti e, senza che nessuno proferisse parola, venivano loro prese le misure.
- Ogni quanto viene fatto, questo? – chiese Thorn a bassa voce alla ragazza al suo fianco, che parve avvicinarsi a lui più del dovuto per riuscire a cogliere le sue parole.
Thorn si scostò bruscamente e la giovane parve cogliere l’antifona, perché non si avvicinò oltre. Però non si ritrasse.
- Ogni volta che è necessario, sir. Alcune volte giornalmente, altre solo per il primo giorno di permanenza. Per tenere sotto controllo sviluppi e miglioramenti.
Thorn aggrottò le sopracciglia ma non aggiunse altro. Sapeva che nemmeno la ragazza lo avrebbe fatto, neanche se glielo avesse chiesto. Si disinfettò le mani con meticolosità.
Assistette alle misurazioni di otto individui prima di veder entrare l’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere lì. A rigor di logica, quindi, si sarebbe invece dovuto immaginare che l’avrebbe trovata proprio lì.
Ofelia incedeva a piedi nudi sul marmo bianco, con gambe e braccia scoperte. Era accompagnata dalla dona che il giorno prima aveva accolto lui, quella con lo scarabeo meccanico sulla spalla. I capelli che Ofelia aveva reciso al suo arrivo a Babel le si aprivano sulla testa in una nuvola arruffata, e Thorn contrasse le dita rammentando la sensazione piacevole che aveva provato nell’immergere le mani in quei morbidi ricci. Incrociò le braccia sul petto per nascondere il tremore alle mani, cercando di carpire ogni singolo cambiamento avvenuto in Ofelia in quei due giorni si lontananza. Anzi, trentatre ore e nove minuti, dato che l’aveva vista l’ultima volta all’alba precedente. Aggrottò le sopracciglia. Perché aveva come sempre deciso di testa sua, modificando i loro piani? Era vero che era libera, e che lui non l’avrebbe mai costretta a fare o non fare qualcosa, ma gli era sembrata concorde circa la necessità di girare al largo da quel posto.
Era così snervante non poter essere aggiornato sulle ultime novità di Babel!
Quelle elucubrazioni non distolsero la sua attenzione da Ofelia, in ogni caso, e a Thorn non sfuggì che non portava né guanti, né occhiali. Sapeva quanto Ofelia fosse ridicolmente miope, e privarla della vista era quasi una cattiveria, data la sua goffaggine; d’altra parte, sapeva anche quanto fossero sensibili le sue dita, e iperdotarla di quel potere non era una malvagità meno grave.
Non gli passò inosservato nemmeno il nervosismo che la pervadeva: Ofelia stringeva i pugni tanto da ficcarsi le unghie nei palmi. Thorn aveva tanti difetti, ma non era miope nemmeno un po’. Mise mano all’orologio.
Proprio in quel momento, mentre Ofelia ancora camminava con impaccio sempre crescente, i piedi instabili sul pavimento, la ragazza accanto a lui gli sussurrò, udibile nel silenzio generale: - Avete chiesto di assistere a ogni entrata e ogni uscita. L’invertita qui presente è un caso un po’ particolare, sir. La sua deviazione rientra nel programma alternativo.
In risposta, il suo orologio si aprì e chiuse in un secondo, confermandogli l’ora e, Thorn lo sperava, facendosi udire da Ofelia.
Ci riuscì.
Sua moglie sgranò gli occhi per un attimo mentre incedeva, smorfia che sarebbe potuta passare inosservata o catalogata come reazione naturale all’ansia. Ma Thorn sapeva.
Ofelia sapeva. La vide sconficcare le unghie dai palmi, il sollievo evidente nel suo corpo che si raddrizzava, come se gli fosse stato tolto un peso dalle spalle.
Stavano bene entrambi, e ora entrambi ne avevano la certezza. Ed entrambi sapevano che non sarebbe stato saggio cercarsi.
Sempre in silenzio, Thorn assistette ad ogni gesto dell’esaminatore e di Ofelia con morboso interesse. Se anche la ragazza al suo fianco gli avesse parlato, non l’avrebbe udita. Fece in modo di avere il controllo degli artigli, in ogni caso.
Ofelia venne fatta sedere su uno sgabello e le stamparono un timbro sull’avambraccio, azione che Thorn, quasi senza rendersene conto, non gradì. Non avrebbe mai accettato un marchio sul corpo di Ofelia, un marchio apposto da qualcun altro. Le vennero prese tutte le misure; misure che Thorn conosceva a memoria, che aveva calcolato con più accuratezza degli strumenti utilizzati dall’osservatore: dita, cranio, polpaccio, avambraccio, vita. Thorn cercò di non lasciar trapelare il fastidio che provava vedendo qualcuno che toccava sua moglie, seppur non con cattive intenzioni. O forse sì.
Ofelia venne fatta ruotare di quarantotto gradi, e Thorn se la trovò di fronte. Così vicina…
L’uomo che la misurava continuò il suo lavoro. Per un attimo a Thorn sembrò di essere rimasto solo con Ofelia in quella sala. Per quanto la sua miopia fosse grave, sapeva che lo aveva percepito, che riusciva ad intravederlo, e che stava ostentatamente fissando dritto davanti a sé per non destare alcun genere di sospetto. Non doveva essere facile, per lei che amava così poco l’attenzione, stare di fronte a tutti quegli sconosciuti mentre si lasciava maneggiare a piacimento. Nonostante tutto, sembrava che entrambi prendessero forza dalla presenza dell’altro.
Thorn rifiutò con un gesto secco un qualche rinfresco che la ragazza al suo fianco gli porgeva. Notoriamente non aveva grande appetito, mangiare era una cosa che faceva per dovere, per far sì che il suo corpo continuasse a lavorare, ma non si nutriva più dello stretto necessario. E quello spuntino non era necessario.
Doveva scoprire dove alloggiava Ofelia. Di sicuro nell’ala riservata al programma alternativo, che gli era preclusa. Maledizione. Non si era reso conto di quanto fosse viscerale la mancanza che provava finché non se l’era trovata lì di fronte, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Seguì con grande interesse i movimenti che l’osservatore faceva fare ad Ofelia, gesti scoordinati che la facevano apparire ancora più goffa. Provava sentimenti contrastanti: irritazione nei confronti di quei collaboratori che prendevano appunti come automi ammaestrati da superiori che forse nemmeno esistevano, e tenerezza nei confronti di quella donna che, pur di aiutarlo e stargli al fianco, era disposta ad offrirsi come cavia da laboratorio, saltando letteralmente nel vuoto e consegnandosi nelle mani del nemico.
Sulla scia di quelle diverse correnti di pensiero ed emozioni, non si rese nemmeno conto di essersi alzato finché non si ritrovò repentinamente in piedi; ogni giuntura gli doleva per il movimento improvviso e meccanico, ma non era nulla in paragone al bruciore che gli causava dover trattenere gli artigli quando avevano, e lui con loro, così tanta brama di sangue.
Di infierire su quell’osservatore.
Ofelia aveva il capo reclinato innaturalmente sulla spalla, per via del contraccolpo causato dallo schiaffo violento dell’uomo. La gota le si stava già arrossando e gli occhi erano spalancati per lo stupore.
Cercò di rimanere lucido, ma era difficile quando il suo intero sistema nervoso voleva ribellarsi e infliggere lo stesso dolore al carnefice di Ofelia. Come si azzardava ad alzare un dito su sua moglie? Come si permetteva di farle del male?!
Poche altre volte aveva provato una rabbia così cocente, così divorante e annebbiante. Nemmeno Freya, Godefroy o Archibald erano mai arrivati ad alterargli i sensi in quella maniera. Questo perché, si rese conto, avevano sempre infierito su di lui; e lui non amava se stesso. Con Ofelia era tutta un’altra storia, e toccare lei, si rese conto, usarla contro di lui, era peggio che farsi tagliuzzare dall’interno. Era un dolore soverchiante.
- Don’t worry, sir Henry – gli sussurrò la ragazza al suo fianco, per nulla sorpresa dal suo atteggiamento. Su Babel, si rese conto Thorn, la violenza era vietata. La parola stessa era vietata. Quindi la sua reazione di fronte ad una simile violazione poteva essere compresa. E confusa. – La procedura potrà sorprenderla, ma è conforme al primo protocollo. L’invertita qui presente è consenziente, non è stata infranta alcuna regola della città.
A Thorn non pareva molto consenziente sua moglie, privata della vista ed esposta al pubblico studio, ma non emise un suono in risposta. Ofelia parve capire qualcosa. Incrociò per un attimo brevissimo i suoi occhi, Thorn non sapeva se consapevolmente o meno, ma di certo non sbagliò mira quando restituì con la medesima forza lo schiaffo all’uomo.
Ci vedeva quando bastava per centrare bene il bersaglio.
- Non mi avete dato indicazioni così mi è sembrata la reazione più logica.
Il tono era piatto e distaccato, così diverso da quello che aveva usato con lui tre giorni prima. Era freddo, distante, ma Thorn capì che era proprio di quello che aveva bisogno. Distacco. Non potevano tradirsi, nessuno dei due poteva.
E Ofelia era più forte di quanto pensasse. Quante volte aveva commesso l’errore di sottovalutarla?
Eppure continuava a farlo.
Stava per rimettersi seduto quando lo notò. L’esaminatore colpito non stava più osservando Ofelia, ma qualcosa oltre lei; qualcosa che solo lui sembrava in grado di percepire. No, non solo lui: tutti gli osservatori con i pince-nez. Si risedette dopo che lo ebbe fatto anche l’esaminatore. Dovevano procurarsi quegli occhialini.
La sua mente lavorava alacremente mentre pensava ai diversi modi in cui si sarebbe potuto procurare i pince-nez. La via più breve, cioè chiederli direttamente alla ragazza accanto a lui, non era percorribile.
Thorn smise di pianificare quando la donna con lo scarabeo si rialzò per condurre fuori Ofelia. Lei non si arrischiò a guardarlo nuovamente, e lui ne fu sollevato.
- Ora l’invertita viene portata nell’area di confino, sir. È importante che i pazienti del programma alternativo non entrino in contatto con quelli del programma classico – gli spiegò la giovane di fianco a lui.
- Dovrò ispezionare anche quell’area – le fece notare Thorn, che cercò di non essere più brusco del solito. La dipartita di Ofelia gli aveva scavato dentro un solco che prima non c’era.
Averla così a portata di mano eppure così distante era deleterio.
- Of course, sir! – gli rispose prontamente e con solerzia la ragazza. – Vi mostreremo tutto quello che vorrete vedere, nel rispetto del segreto professionale in ambito sanitario.
Non gli avrebbero mostrato proprio nulla, dunque.
 
Thorn dovette aspettare undici giorni prima di avere l’opportunità di vedere Ofelia. Opportunità che sfruttò quasi con poca attenzione. Ma non poteva più aspettare, lui e Ofelia dovevano riunirsi… per discutere del da farsi e condividere le nuove informazioni, ovviamente.
La notte che seguì l’entrata di Ofelia all’osservatorio, Thorn andò a far visita di nascosto all’ufficio d’ammissione che non aveva visto il giorno precedente. Ne capì la motivazione non appena varcò la soglia: lì dentro ci sarebbero state delle informazioni utilissime che nessuno aveva intenzione di condividere con lui. Rovistò in tutti gli schedari e trovò quello più recente, relativo all’ingresso di Ofelia. Nello stesso cassetto trovò anche i suoi guanti da lettrice, composti da quel materiale particolare che le impediva di leggere i guanti stessi, e i suoi occhiali. Chiuse il cassetto con eccessiva forza per impedirsi di prenderli e correre a restituirli alla legittima proprietaria: sapeva quanto Ofelia dovesse averne bisogno. Li avrebbe recuperati e sostituiti la notte seguente, ad ogni costo.
La stessa notte, non senza difficoltà, tornò negli appartamenti direttoriali, ovviamente vuota. Non fu sorpreso di trovare il fascicolo di Ofelia ben più voluminoso di quando lo aveva consultato la notte prima (tre centimetri e quattro di spessore contro sette millimetri), e qualcosa gli diceva che non era ancora del tutto aggiornato, dato che mancavano le misurazioni di Ofelia.
Nelle notti che seguirono visitò soventemente quelle camere, facendo ben attenzione a non farsi scoprire e cercando di dedicare attenzione anche agli altri soggetti, oltre che ad Ofelia. Dovette limitarsi alle informazioni dell’ultimo quinquennio, perché gli archivi precedenti erano vergognosamente stati distrutti. Ormai era assodato che il programma classico fosse inutile per carpire informazioni. Se stava accadendo qualcosa, quel qualcosa era nella sezione del programma alternativo, dove si trovava Ofelia. Non a caso la ragazza che lo accompagnava ovunque, e che aveva cominciato ad essere insistente e a non avere riguardi per il suo spazio personale, gli permetteva di visitare l’ala classica senza battere ciglio: lì non c’era proprio nulla di sfruttabile.
Studiando notte dopo notte le cartelle cliniche dei pazienti, confrontandole tra di loro e tenendosi aggiornato su Ofelia, scoprì delle cose interessanti e al tempo stesso preoccupanti, specialmente su sua moglie. Anche un po’ di più.
Ciò che gli osservatori vedevano con i loro pince-nez erano le ombre delle persone. E l’ombra di Ofelia stava cambiando, qualsiasi cosa significasse, cambiando anche lei. Ogni notte andava a raffrontare gli scatti temendo il peggio, tirando un sospiro di sollievo quando scopriva che Ofelia stava bene. Nei fascicoli erano anche presenti gli studi con tanto di statistiche sugli echi, e le loro contabilizzazioni. Era un processo che aveva osservato di giorno e confermato di notte in quell’archivio. Studiando le tabelle e i diagrammi che erano stati tracciati per ciascun paziente Thorn arrivò alle giuste conclusioni, desiderando più che mai poter avere Ofelia al fianco per condividere le sue scoperte.
Soprattutto perché era lei il caso più particolare di tutto il programma alternativo. Aveva fatto ai loro nemici un dono immenso offrendosi volontaria per lo studio.
Di giorno ispezionava i giardini, assisteva agli esperimenti e cercava di indagare sulle strane mancanze di correnti che lasciavano l’intera struttura al buio per diversi secondi. Chiedeva e otteneva le letture dei contatori, persino le perizie architettoniche, e la contabilità. Se c’era un buco, un’imprecisione a cui aggrapparsi, un settore che succhiava più risorse del dovuto, lo avrebbe scoperto grazie ai libri mastri. I numeri non gli mentivano mai.
Invece venne smentito. Non trovò nulla nella contabilità, ma un buco nelle letture del contatore c’erano eccome. Stava per indagare in quella direzioni quando accadde.
La notizia di una colluttazione tra due membri del programma alternativo arrivò fino a lui, ma la ragazza affibbiatagli da guida non poté dirgli nulla. Thorn non ebbe dubbi circa il fatto che uno dei due pazienti dovesse per forza essere Ofelia.
Era giunto il momento di parlarle.
Da quel poco che comprese, un empatico aveva amplificato la rabbia di un altro paziente, probabilmente Ofelia, e quella che ne era risultata era una zuffa in piena regola, contraria a qualsiasi parola e comportamento vietato su Babel. Thorn riuscì ad ottenere un incontro privato con l’empatico facendo leva proprio su quello: l’index e la violazione di una regola ferrea. Per una volta gli tornò utile quel rigore inutile e soggiogante.
Se Cosmos, così si chiamava l’individuo che aveva fatto a botte con Ofelia, era un empatico, l’ultima cosa da fare era fargli percepire il disgusto e l’odio che provava per il fatto che avesse toccato sua moglie. Thorn fece un gran lavoro ed esercitò pieno autocontrollo su di sé, trasmettendo a Cosmos la sua urgenza di vedere Ofelia, il senso del dovere e di colpa. Quando ebbe finito di parlare con lui, di dargli un incarico, seppe senza ombra di dubbio che quella sera avrebbe rivisto Ofelia. Cosmos era instabile, sì, ma nessuno lì dentro lo considerava come un essere umano; Thorn gli aveva dato fiducia, non lo aveva accusato, sebbene avesse voluto attaccarlo con tutte le sue forze, e lo aveva reso suo alleato. Aveva percepito il suo desiderio di ribellione nonostante nelle corde di Thorn non ci fosse proprio la minima traccia di empatia.
Avrebbe capito se l’opportunità di non ferirlo a sua volta fosse stata sprecata quando avrebbe rivisto Ofelia, quella sera.
 
Thorn aspettò per tre ore e dodici minuti, appostato ai piedi della statua gigantesca che serbava l’entrata del tragitto che conduceva alla camera direttoriale. Non sapeva quando Ofelia sarebbe arrivata, e non voleva rischiare di perdersela. Meccanicamente, ad intervalli regolari, consultava l’orologio, si assicurava che guanti e occhiali fossero ancora al loro posto, e si sistemava i capelli. Ogni tanto si chiedeva se fosse abbastanza presentabile, altre volte, più sporadiche, se avrebbero avuto tempo per sedersi sul divano degli appartamenti direttoriali. Quell’ultimo pensiero lo faceva irritare con se stesso a dismisura, perché il suo desiderio di riaverla con sé non poteva prevalere su quello che andava fatto: offrirle una via di fuga.
Ofelia era isolata, costretta a costanti esperimenti, con un’ombra sfasata che probabilmente alterava anche se le sue percezioni. Non era proprio il caso di pensare al fatto che voleva stare con lei, quanto a metterla in salvo. Solo quello contava.
Quando finalmente lei arrivò, si distaccò dalle ombre per andarle in contro. Era scarmigliata, accaldata, scalza, più miope che mai, tra il buio e la mancanza di occhiali. Era provata. Eppure, negli occhi aveva una tale luce fiduciosa che Thorn sentì accelerare il cuore. Si domandava ancora cos’avesse fatto per meritare di essere tenuto in così alta considerazione da lei, ma di una cosa era certo: sperava che quello non cambiasse mai.
- Abbiamo sei ore e quarantasette minuti prima che suoni il gong del mattino – la salutò chiudendo l’orologio.
Si concesse un contatto, uno solo, prima di dedicarsi alla loro missione: l’abbracciò. La strinse a sé con trasporto, assimilandola attraverso i vestiti e percependo il piacere che gli davano i loro corpi uniti. Un calore che non aveva nulla a che fare con il clima o con il sollievo, una sensazione che non avrebbe saputo spiegare, ma a cui si sarebbe volentieri abbandonato.
Si staccò dopo cinque secondi. Rimise via l’orologio e le fece strada.

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Capitolo 18
*** Per noi pt. 2 ***


Non ho molto da dire (meglio cit. tutti xD), se non che si alternano i POV di Ofelia e Thorn.
L'altra cosa che volevo precisare, che mi sono dimenticata di fare nella parte 1, è che qui Ofelia e Thorn sono stati insieme solo una volta prima di trovarsi nella camera dei direttori. Quindi ho per così dire escluso la parte finale del capitolo 15, in cui Ofelia e Thorn stanno insieme per la seconda volta dopo aver ricevuto la bambola, prima che la mattina Thorn vada all'osservatorio e Ofelia vada da Octavio. Questo perché quella era una mia personale interpretazione, non sapremmo mai se loro lo hanno fatto anche in quel frangente, e visto che in questo capitolo tratto i fatti del libro ho preferito non dare per canon una mia visione/speranza/idea. Spero di essermi spiegata.
Grazie come sempre a chiunque leggerà^^

L’Attraversaspecchi IV, Echi in tempesta, L'ombra, pagine 223-239

18. Pour nous pt. 2


Thorn si sarebbe volentieri risparmiato la passeggiata. La mancanza di sonno gli rendeva le membra ancora più rigide e la sua armatura scricchiolante, in presenza di Ofelia, gli ricordava sempre quanto fosse storpio. Una piccola parte di lui fece notare che gli ricordava anche quanto Ofelia lo accettasse.
A metà del tunnel varcò la porta nascosta e, mentre Ofelia se la richiudeva alle spalle, tirò fuori dalla tasca gli occhiali e i suoi guanti. Il bisogno di avvicinarsi a lei si fece più acuto del normale, nonostante gli sforzi fatti per controllare i suoi impulsi, e non poté evitare di essere lui stesso a metterle le lenti sul naso, restituendole la vista. Quel contatto, seppure breve, lo scaldò dentro. Ofelia batté alcune volte le palpebre prima di metterlo a fuoco con i suoi grandi occhi scuri, così diversi da quelli notoriamente chiari del Polo. E dai suoi. Le diede alcune istruzioni e poi le fece strada, indicandole i punti a cui prestare più attenzione.
Parlarono solo delle ultime novità, delle reciproche scoperte, di lavoro, mai di cose personali o sentimentali, eppure a Thorn parve la conversazione più intima che avesse mai avuto con qualcuno. Rendersi conto di quanta fiducia Ofelia riponesse in lui lo riempiva sempre di stupore; non si era ancora abituato all’idea di essere così importante, di essere al primo posto per qualcuno, e sapeva che gli sarebbe servito diverso tempo per accettarlo, per quanto la cosa fosse positiva. Discorrere con lei era… interessante. Non aveva mai provato interesse per quello che gli altri avevano da dire, era sempre stato una freccia, ben orientato verso il bersaglio, pronto a centrarlo a discapito di chi gli avesse intralciato il cammino. Invece da Ofelia imparava, scopriva… era davvero educativo starla a sentire. Gli sembrava di conoscere qualcosa di nuovo su di lei ad ogni nuova parola che pronunciava, ed era ipnotico guardarla mentre cambiava espressioni, gesticolava e si faceva prendere dal discorso. Anche troppo, a giudicare dal numero di volte in cui aveva dovuto sorreggerla per evitare che inciampasse. E sì che le aveva anche ridato gli occhiali…
Allungò parecchio il tragitto per andare a fare delle verifiche ai contatori, situati in una posizione decisamente impervia. Non erano proprio a norma, ma non sapeva se rientrasse nelle competenze del grande ispettore familiare farlo notare. In ogni caso, le cassette erano luridamente ripugnanti, e dovette coprirsi il viso con un fazzoletto mentre li scrutava. Dopodiché si disinfettò con cura le mani, cercando di levarsi la sensazione di sudiciume di dosso.
Giunsero finalmente nel corridoio di fronte agli appartamenti direttoriali e a Thorn non sfuggì l’apprensione di Ofelia.
- Aspettami qui – le ordinò prima di immergersi nello specchio.
Odiava farlo, odiava doversi guardare, ma non aveva scelta.
Appena fu entrato nella stanza immota e innaturalmente silenziosa le aprì la porta dall’interno. Ofelia scrutò dentro prima di entrare, come se temesse che fosse una trappola. Gli sfilò davanti guardandosi attorno con ari attonita, e Thorn ne approfittò per osservare lei. Era accaldata per via della lunga camminata, aveva i piedi scalzi, eppure non aveva emesso un lamento nonostante il percorso fosse stato tutt’altro che piacevole e regolare. Le braccia e le gambe erano nude, poiché il pigiama a due pezzi copriva solo cosce e busto. Era così per tutti i pazienti, ma a Thorn diede fastidio rendersi conto che Ofelia era oggetto di studi e osservazioni da parte di uomini che la scrutavano con fin troppo interesse e attenzione.
Strinse le dita attorno alla maniglia della porta mentre la chiudeva. – Non c’è nessuno – le confermò.
Erano solo loro due, lontani e inudibili da tutti.
Una cosa per volta.
- E se i direttori tornano?
- Non c’è nessun direttore. Questi appartamenti servono come facciata e locali di archiviazione. La vera testa pensante dell’osservatorio rimane nell’ombra.
Dopo poche altri frasi Thorn si diresse allo schedario che aveva consultato più di chiunque altro in quei giorni. Notò con la coda dell’occhio che Ofelia guardava fuori dalla finestra, anche se non avrebbe saputo dire in cerca di cosa. Forse stava solo sfruttando la vista ritrovata per cogliere più particolari possibili del luogo.
- Tieni – le disse dopo che ebbe preso il suo fascicolo. Glielo porse.
- Cos’è?
- Immagini mediche. Che ti riguardano.
Il plico di fogli era aumentato nuovamente di spessore, e ora raggiungeva i cinque centimentri e mezzo. La cartella di Ofelia era quella che cresceva di volume con maggior velocità, Thorn aveva fatto i calcoli confrontando ogni notte, o quasi, tutte quelle più recenti.
Vide Ofelia esitare mentre apriva il faldone, preoccupata. Immaginò che fosse perché aveva paura di cosa avrebbe potuto trovarvi. Poi, quando iniziò a consultare i referti, aggrottò le sopracciglia. Aveva visto l’ombra. Decise di darle una mano, perché si rendeva conto che consultare dal nulla un mucchio di fotografie incomprensibili potesse essere destabilizzante.
- Sono state scattate il giorno della tua ammissione. Ora guarda questa. È stata scattata il giorno dopo.
Ofelia sembrava cominciare a capire, ma questo non placava la sua inquietudine. Le lenti degli occhiali le si erano scurite.
- Quello che ti fanno, e non so cos’è – disse fra i denti, desiderando più che mai che lei non fosse entrata in quell’osservatorio in cui i veri deviati erano i direttori nascosti e gli osservatori, - ti sta cambiando. Anche un po’ di più.
Stavano cambiando Ofelia. Sua moglie. Non sapeva cosa sarebbe diventata, e una parte di lui era sollevata all’idea che la donna di fronte a lui, nonostante tutto, fosse quella di sempre. Ma quanto ancora avrebbero modificato il suo organismo con i loro esperimenti inconcepibili?
Ofelia doveva pensarla allo stesso modo, perché si lasciò trasportare dalle emozioni. Con il fascicolo ancora in mano si diresse verso lo schedario. Thorn non riuscì a capire abbastanza in fretta le sue intenzioni, e quando provò a fermarla era già tardi: Ofelia stava rovistando senza criterio tra i fascicoli degli altri pazienti, rovesciandone alcuni e mettendo in disordine gli altri.
Thorn strinse gli occhi fino a renderli due fessure impercettibili. La sua emicrania si acuì. Aveva passato notte dopo notte, da solo, in silenzio, a consultare quei documenti, avendo cura di rimetterli esattamente come li aveva trovati e di non spostare nemmeno un angolo o un granello di polvere, per far sì che nessuno sospettasse le sue intrusioni lì. Lui e Ofelia erano opposti, e quanto più lui era meticoloso, specialmente in situazioni di tensione, tanto più lei era caotica e preda dei suoi tumulti interiori. Calcolò che gli ci sarebbero voluti dai ventotto ai trentacinque minuti per sistemare quel disastro. Ci sarebbe riuscito, ovviamente, ma questo aumentava le probabilità che qualcosa sfuggisse al suo controllo e che altri lo notassero. Di sicuro, però, non avrebbe sgridato Ofelia.
La lasciò fare. Le avrebbe sempre permesso di fare ciò che voleva. E quello era un altro punto da trattare nel corso di quella notte.
- Le ombre riflettono i nostri poteri familiari – mormorò Ofelia, che era arrivata da sola alla conclusione che lui voleva spiegarle. Il suo acume lo sorprese, anche se non avrebbe dovuto. Continuava ingenuamente a sottovalutare Ofelia, facendole un torto. Sua moglie era perspicace e intelligente, molto più di tanti altri. – Ecco perché il mio animismo e i miei artigli sono disturbati: a causa dello sdoppiamento.
Thorn si era aspettato una modifica intrinseca, una perdita di controllo dei suoi poteri, ma sentirglielo ammettere gli fece male. Sapeva cosa significava non avere la possibilità di tenere a bada ciò che faceva parte di sé; vedere come il proprio corpo, i propri poteri, lo tradivano. Non indagò oltre.
- E non è tutto.
Cominciarono a discutere come prima, ognuno mettendo a parte l’altro delle proprie scoperte, intuizioni, dubbi e ipotesi. La aggiornò sulle sue scoperte sugli echi, di come lei fosse al centro di quei fenomeni (le probabilità che una cosa del genere accadesse proprio a lei, fra tutti, erano dello zero virgola otto percento, e lei era riuscita a trasformarle in un dato di fatto), e fece persino un riassunto per cercare di mettere in ordine le troppe informazioni che avevano condiviso. Il tutto sistemando rigorosamente lo schedario; non poteva attendere che finissero la conversazione, tutto quel guazzabuglio di carte minava gravemente le sue facoltà comunicative, concentrato com’era sul caos e sul suo bisogno di porvi rimedio.
Ofelia in un certo senso sembrava cercare rifugio nel movimento come lui, perché si pulì a più riprese gli occhiali già lucidati.
Poi riprese in mano un fascicolo tra quelli che Thorn aveva già sistemato. Sentì che il fastidio per quel gesto gli agitava il sistema nervoso, e lottò per tenere a bada gli artigli. Se fosse stato qualcun altro a rimettere in disordine ciò che lui aveva appena sistemato, sapeva che non si sarebbe impegnato tanto per trattenersi. Invece il fatto che quel gesto fosse stato compiuto da Ofelia lo rendeva ai suoi occhi solo leggermente inopportuno. Era ridicolo quanto ciò che lei faceva potesse andare così tanto contro la sua natura eppure essergli tollerabile.
- Le lenti scure dei pince-nez – sussurrò Ofelia sempre scrutando il fascicolo, arrivando da sola alla conclusione più recondita. – Ecco a che servono, a visualizzare le nostre ombre. Forse anche gli echi.
Non aggiunse altro a quel mormorio, ma Thorn percepì nel suo tono di voce che qualcosa stava cambiando. Rimase immobile al suo fianco, guardandola con attenzione, pronto ad intervenire in qualunque modo. Ofelia stava analizzando con attenzione le foto in un fascicolo di una paziente del programma classico. Immagini diametralmente opposte a quelle che si trovavano dentro i documenti di quelli del programma alternativo. Questi ultimi erano prigionieri, i primi erano invece internati trattati con tutti i crismi e le cure dovute.
Thorn vide il volto di Ofelia indurirsi, il suo sguardo affilarsi, e non gli piacque vederla così. Lei era naturalmente gentile, buona, educata, per quanto fosse determinata e odiasse le menzogne. Sapeva bene che l’unica cosa che la facesse davvero arrabbiare era la mancanza di trasparenza, insieme alla costrizione contro volontà. Quello sguardo gli faceva male, e si rese conto che sarebbe stato straziante vederselo rivolgere.
- E nel frattempo guardano noi che ci dibattiamo nei nostri corpi – mormorò infatti, con la collera a stento trattenuta che sembrava in procinto di schiumare fuori.
- Una parola – disse Thorn duramente, con forza. Posò il pugno chiuso sul tavolo al loro fianco e si chinò su di lei, perché lo guardasse negli occhi e capisse quanto era serio. Quanto era importante ciò che stava per dirle.
Era per quello che aveva condotto Ofelia lì. Per farla scegliere. L’aveva messa di fronte alla realtà dei fatti, alla consapevolezza che la stavano usando e modificando senza dirglielo, tenendola all’oscuro, sfruttandola. Gliel’aveva fatto capire con brutalità, affinché lei decidesse con cognizione di causa: rimanere e continuare, o abbandonare e andarsene al sicuro. Thorn aveva due piani pronti da giorni, uno per aiutarla ad evadere indisturbata, l’altro per usarla per carpire informazioni in un luogo che a lui era precluso. Paradossalmente quella rinchiusa era lei, ma era lui ad essere il più sorvegliato.
Ofelia lo guardò. Se fosse rimasta sorpresa della sua vicinanza improvvisa, non lo diede a vedere. Lasciò gli occhi incatenati ai suoi. Sentiva gli artigli espandersi attorno a sé, e trattenerli era diventato sempre più difficile: crescevano con il crescere del suo tumulto interiore, della sua dicotomia, si ingigantivano quanto più era acuto il bisogno di stringerla a sé, perdersi in lei, e insieme di metterla al riparo, di mandarla via, lontana da lui. La testa gli pulsava, il suo corpo era rigido quanto un blocco di cemento e sapeva che se si fosse mosso l’armatura non sarebbe stata l’unica a scricchiolare e sferragliare.
Si augurò che Ofelia non percepisse l’agitazione degli artigli, e si illuse che fosse così dal momento che non si ritraeva.
- Una tua parola – continuò con voce stentorea quando seppe di avere tutta la sua attenzione, - e ti faccio uscire dall’osservatorio stanotte stessa -. Soppresse ogni pensiero ed emozione per riuscire a parlare con convinzione e credibilità. E obbligarsi a riconoscere che fosse la scelta migliore per Ofelia… se lei lo avesse voluto. – Non ci resta molto tempo, ma è ancora fattibile. Troveremo un posto dove non dovrai temere di essere espulsa o individuata.
- Vuoi che me vada? Che scappi? – gli domandò lei in risposta, con lo sgomento celato dalla delusione.
Perché gli sembrava così… triste? Se lui voleva che se ne andasse? Sì, lo voleva, perché saperla al sicuro era l’unico modo per riuscire a concentrarsi al cento per cento sulla sua missione, e non solo al sessanta. Il quaranta percento della sua attenzione era costantemente occupato da lei, dal timore che potessero farle qualcosa di irreparabile, o che potessero farla soffrire o, peggio, sparire. Eppure no, non lo voleva, perché averla vicina era l’unico conforto che avesse, gli dava la forza di proseguire e la speranza che prima o poi avrebbero potuto di nuovo condividere una giornata come quella precedente la loro separazione…
Cosa voleva lui? Non aveva alcuna importanza. Non le aveva forse offerto la possibilità di andarsene per sempre su Anima dopo il matrimonio, senza più rivedersi? Quella proposta dimostrava ampiamente che per lui tutto ciò che contava era che lei fosse felice e prendesse da sola le redini della sua vita. Anche a discapito dei suoi desideri, perché niente era più prioritario di Ofelia.
- L’unica cosa che conta è quello che vuoi tu. Hai e avrai sempre la scelta.
Lo sguardo di Ofelia si fece indecifrabile, e Thorn paventò il suo responso.
- Il Polo… ti manca ogni tanto?
La domanda lo prese in contropiede. Un attimo prima stavano parlando di una sua possibile fuga, e quello dopo lei, senza dargli risposte, cambiava completamente argomento. Totalmente. Non poté impedirsi però, meccanicamente, di afferrare l’orologio da taschino. Quello era il suo unico legame con sua zia e la sua arca natia. Simboleggiava l’affetto che sperava sua zia nutrisse ancora per lui, sebbene non fosse mai stato, e mai sarebbe stato, al primo posto nel suo cuore.
Gli mancava il Polo? Non lo sapeva. Prima del matrimonio combinato, di Dio, delle loro ricerche, prima di incontrare Ofelia avrebbe detto che sì, gli mancava, sebbene la nostalgia non fosse un sentimento che gli si addiceva. Ma da quando si era… innamorato di Ofelia, e da quando lei aveva iniziato a ricambiarlo, nulla gli mancava più della sua presenza, quando era lontana. Il Polo non gli sarebbe mancato quanto avrebbe dovuto, finché lei fosse stata al suo fianco. Nulla gli sarebbe mancato. Eppure, nascosto dentro di sé, nutriva il desiderio di tornare.
- Ho lasciato molte cose in sospeso laggiù, ma nessuna ha la precedenza su quella di cui mi sto occupando adesso.
Non specificò quale fosse quella cosa.
Vide lo sguardo di Ofelia addolcirsi e mai come allora desiderò di annullare la distanza tra loro e colmarla con il suo corpo, per quanto potesse essere poco desiderabile. Sapeva, o meglio, si augurava che in parte lo volesse anche Ofelia.
- Vale anche per me – sancì alla fine. – Voglio finire quello che ho cominciato.
Thorn sperò che le sue emozioni non trapelassero sul suo viso, e si sforzò ancora di più per calmare gli artigli, il suo sistema nervoso che ora desiderava ben altro. Era contento che Ofelia avesse deciso di rimanere, o si rammaricava che fosse ancora in pericolo?
Superata quella prima fase, ne aveva altre due da affrontare. Ofelia aveva scelto la sua strada, potevano solo percorrerla insieme da quel momento in poi. Se avesse scelto di andarsene, la fase due avrebbe previsto la sua messa in sicurezza. Se fosse rimasta, come aveva deciso, le avrebbe illustrato il suo piano. E se fosse avanzato loro del tempo… scacciò quel pensiero inopportuno, anche se i suoi artigli bramavano la sensazione che sarebbe derivata da un loro abbandono fisico.
Vergognoso.
- Ora posso dirtelo: speravo che la tua scelta fosse questa.
Thorn si contrasse. Come aveva potuto dire una cosa del genere, pensando poi ad una cosa del tutto sconveniente mentre si trovavano in quella situazione?
La perplessità sul viso di Ofelia fece eco al suo rimprovero. – Davvero?
Thorn mascherò le sue vere motivazioni piazzandole in mano una planimetria dell’osservatorio che si era portato dietro. La depistò, facendole credere che sperava che lei rimanesse per poterla usare. Si sentì meschino.
- Una visita ai locali dei collaboratori sarebbe molto istruttiva.
Nei tredici minuti che seguirono Thorn le illustrò passo dopo passo il piano che aveva escogitato in quelle notti e che aveva necessariamente bisogno di lei per essere portato a termine. Era suddiviso in due parti collegate tra di loro, e la buona riuscita delle azioni di Thorn avrebbe comportato la riuscita di quelle di Ofelia. Viceversa, sarebbe stato un fallimento per entrambi, che si sarebbe concluso con un nulla di fatto nell’ipotesi più positiva, e con il loro smascheramento in quella peggiore. Data la capacità di Ofelia di attirare catastrofi, la prospettiva più rosea era da scartare a prescindere.
Thorn sentì lo sguardo di Ofelia addosso, ammirato, nostalgico, elettrizzato e spaventato insieme. Cercò di non soffermarsi troppo sul suo viso per non esserne distratto ulteriormente.
- D’accordo. Domani tra il terzo e il quinto gong andrò al quartiere dei collaboratori, e se siamo fortunati ci troverò il Corno dell’abbondanza.
La determinazione di Ofelia gli diede coraggio, ma trattenne a stento una smorfia di fronte al suo desiderio di immolarsi. Sarebbe stato molto pericoloso, e il fatto che lei agisse di sua spontanea volontà non lo aiutava ad alleviare la sua pena.
- La cosa importante è capirne il principio. Se scopriamo come Eulalia Diyoh si affrancata dalla condizione umana, e come l’Altro si sia affrancato dalla condizione di eco, allora saremo in grado di liberarci di loro.
Thorn vide Ofelia rilassarsi, come se le sue parole le avessero dato una nuova forza. Lo guardava senza vederlo, con gli occhi pieni di speranza e fiducia ma la mente lontana.
Ora che il piano si era delineato di fronte a loro, che Ofelia aveva preso le sue decisioni e che avevano un programma da rispettare, Thorn non poté più trattenere i pensieri e i desideri che aveva difficoltosamente represso fino a quel momento.
Non vedeva Ofelia da dodici giorni. O meglio, non si vedevano da dodici giorni nei panni di marito e moglie. A Thorn sembrò di essere diventato tutto a un tratto melenso, eppure non riusciva a fare nulla per soffocare quelle emozioni strabordanti che per tutta la sua vita non aveva mai nemmeno lontanamente provato. L’ansia di cosa sarebbe potuto succederle lì dentro, la preoccupazione derivante dal non sapere cosa le stessero facendo, dal non sapere se sarebbero riusciti nel loro intento… si sentiva un fascio di nervi, e l’unica cosa che voleva era annegare nell’unico posto che gli avrebbe fatto dimenticare, seppur per poco tempo, le sue macchinazioni venefiche: le braccia di Ofelia.
Aveva bisogno di lei. E aveva bisogno che lei avesse bisogno di lui.
Prese in mano l’orologio da taschino, calcolando il tempo che potevano avere. Lo sapeva già, ma l’orologio dava concretezza ai suoi intenti. Si richiuse subito, addestrato, e quasi fece sussultare Ofelia.
- Bene. Visto che hai deciso di restare abbiamo un po’ di tempo in più.
Sapeva che le avrebbe proposto di… glielo avrebbe proposto anche se lei avesse deciso di andarsene. Se ne vergognava, ma ormai i suoi impulsi avevano preso il controllo della ragione.
Ofelia parve atterrita. – Per fare cosa?
Ovviamente lei non ricambiava. Che cosa si era aspettato? Una singola volta insieme non poteva rendere le cose facili e naturali. Thorn si irrigidì dalla testa ai piedi, sentendo i nodi di tensione del suo corpo farsi ancora più stretti e acuminati. Gli artigli si agitarono, rendergli il compito di controllare se stesso ancora più impervio.
In ogni caso, non poteva tacere. Non era un codardo, e non si sarebbe tirato indietro se non di fronte ad un rifiuto.
Ofelia aveva sempre una scelta.
- Per noi.
La vide sgranare gli occhi. Lui invece li abbassò, vergognandosi della nota possessiva, struggente e smaniosa che aveva lasciato trapelare in quelle due ridicole parole. Aveva passato una vita intera ad essere rifiutato. L’unica a non averlo fatto era stata Ofelia, ma questo non significava che lei provasse quei sentimenti d’affetto con la stessa intensità con cui li sentiva lui. Perché, Thorn lo sapeva visceralmente, lui avrebbe sempre amato Ofelia più ardentemente di lei. Lui non poteva più immaginarsi una vita senza lei, senza quel calore, quegli sguardi, quella fiducia. Cose che lei aveva già avuto, in modi diversi forse.
Lei era tutto per lui.
Per quanto le avesse detto che avrebbe sempre avuto una scelta, sapeva che gli avrebbe fatto più male di qualsiasi altra cosa il suo diniego.
La guardò con la coda dell’occhio, vergognandosi ancora per quello che provava, per la forza con cui lo provava. Ma Ofelia non sembrava disgustata. Nemmeno esitante. I tratti del suo viso si addolcirono e al tempo stesso sprigionarono una decisione volitiva. Thorn si chiese come potesse essere in grado di guardare in quel modo un… individuo come lui. Come potesse non esserne ripugnata.
Invece, Ofelia si avvicinò lentamente, rivolgendogli una muta supplica con gli occhi gentili. Thorn non riuscì a capire cosa volesse dirgli con quello sguardo: era troppo concentrato sui suoi movimenti. Più si avvicinava a lui e più sembrava acquistare forza. Si alzò sulla punta dei piedi e con gesti confusi ma determinati cominciò a sbottonargli gli alamari d’oro dell’uniforme.
Non aveva parlato, non aveva quasi respirato, ma le sue intenzioni erano più chiare di qualsiasi libro contabile.
E non indicavano un rifiuto.
La paura lo abbandonò con la stessa vorticosità di una cascata. La guardò apertamente, assimilando ogni suo gesto ed espressione. Si perse in quel momento in cui si sentiva desiderato, nell’unico posto che avrebbe potuto chiamare casa. Non aveva bisogno di altro, se non di lei.
Richiuse il proprio corpo sul suo con l’intento di non lasciarla più allontanarsi.
Thorn non poté fare a meno di notare che sbottonargli l’uniforme sarebbe stato un arduo compito, per lei. Una forza irresistibile l’aveva spinta d’istinto verso di lui, le sue dita sui bottoni della giacca, ma ora quello slancio sembrava solo un mal riuscito tentativo di seduzione. Thorn però non aveva bisogno di una donna affascinante che lo tentasse e lo provocasse. Era bastato quella semplice azione di Ofelia per farlo impazzire, al punto che quasi non si riconosceva più.
Tutto quel bisogno, quel desiderio di lei… Thorn li aveva provati da quando si erano incontrati, sì, ed erano aumentati di giorno in giorno nel corso dei mesi di fidanzamento, nel corso degli anni. Ma da quando avevano condiviso l’intimità della loro camera per la prima volta... Quel pensiero lo distraeva e lo faceva arrossire, ma proprio non riusciva a tenere sotto chiave quel particolare sentimento. E il fatto che Ofelia fosse lì, in quel momento, per dargli spontaneamente e con altrettanto desiderio ciò che lui bramava lo rendeva impaziente, fremente.
Del tutto chino su di lei, si rese conto che la stava abbracciando con una tale forza da renderle impossibile slacciargli l’uniforme. Quando si staccò per lasciarla respirare si perse nei suoi occhi vivaci e curiosi, in quel momento pieni di affetto e di qualcosa che avrebbe potuto definire solo come ardore. Le raddrizzò gli occhiali sul naso, che si erano storti a causa dell’abbraccio, e poi la baciò con foga, senza richieste o preamboli.
La voleva, e lei lo sapeva. Lei stessa lo voleva, glielo aveva fatto capire. Nel giro di pochi secondi Thorn aveva sostituito le dita guantate di Ofelia sulla sua giacca, facendola scivolare a terra, per poi passare ai bottoni della camicia, che sfece con precisione impeccabile e assoluta.
- Grazie – sentì sussurrare Ofelia tra un bacio e l’altro. – Forse avremmo esaurito tutto il nostro tempo se me ne fossi occupata io, ma almeno il mio intento ti è giunto chiaro.
Stanco di stare chinato, e consapevole di aver sistemato solidamente l’armatura per un motivo, prima di lasciare la sua stanza, Thorn si sbarazzò dei guanti di Ofelia e se la prese in braccio, facendole emettere un sospiro di sorpresa. Si trasformò subito in un gemito sommesso quando Thorn, che ora aveva il suo viso alla medesima altezza, le leccò il collo. Si sentiva impaziente, avido e disinibito, come se tutte le remore e i limiti che aveva osservato la prima volta fossero svaniti, evaporati nel caldo torrido dell’aria babeliana. O forse era solo la tensione che cercava una via d’uscita.
Questa volta Ofelia gemette più forte e lo guardò con gli occhi spalancati, stringendogli le gambe in vita come a conferma del fatto che sì, era stata colta di sorpresa, ma aveva gradito il gesto. Incitato dal suo comportamento, Thorn si dedicò ad un punto vicino alla sua clavicola, lasciata libera dalla parte superiore di quello pseudo pigiama, che fra l’altro era anche mal abbottonato. Motivo in più per toglierlo. Un piccolo angolo della sua coscienza gli fece notare che quando era con Ofelia il bisogno di disinfettarsi veniva completamente oscurato, come se stare con lei e toccarla potesse renderlo in qualche modo meno impuro, meno sporco. Elevarlo.
Mossi due passi, ossia due falcate, verso il tavolo, Thorn vi depositò sopra Ofelia e tornò ad accanirsi sulla sua bocca, sbottonandole il pigiama nel mentre. Ormai avevano deciso di muto comune accordo che la parte relativa al spogliarsi era una prerogativa di Thorn, incombenza che lei di solito non poteva espletare a causa delle mani nude e della goffaggine, non necessariamente in quest’ordine. Lui avrebbe anche potuto darle il permesso di leggere i suoi vestiti, ma sapeva che Ofelia avrebbe rifiutato per due motivi: il primo era che, oltre a lui, altre persone avevano toccato i suoi vestiti, per produrli, lavarli e portarglieli; il secondo era che il processo di lettura, a quanto aveva potuto osservare, assorbiva completamente le facoltà percettive di chi esercitava quel potere, ed entrambi avevano bisogno che Ofelia fosse presente in quel frangente. Niente doveva distrarla.
Ci volle poco perché Ofelia rimanesse seduta sul tavolo con solo la biancheria indosso, preda dello sguardo languido del marito, che la osservava come se fosse stato l’esaminatore dell’osservatorio delle Deviazioni. L’unica differenza consisteva nel fatto che lui si stava interessando all’anatomia di Ofelia in un modo che non sarebbe tornato utile per nessun test. Era una loro faccenda privata, e basta.
 
*
 
Quando Thorn si chinò di nuovo su di lei con il chiaro intento di dedicarsi a qualcosa di più della sua bocca, gola o spalle, si accigliarono entrambi. Se lui era seduto e Ofelia in piedi arrivavano ad avere quasi la stessa altezza, viceversa la cosa accentuava ancora di più la loro differenza di statura. Thorn si sarebbe stancato presto di quella posizione scomoda e arcuata, come Ofelia stessa si sarebbe stancata di sentire il suo corpo in tensione, non del tutto rilassato a causa della postura rigida. Fatto ancora più lampante, il bacino di Thorn le arrivava tra il petto e l’ombelico, ben distante dal suo obiettivo. Per nulla imbarazzata da quei pensieri, cosa che quattro anni prima non avrebbe mai creduto possibile, specialmente al suo incontro con il fidanzato, all’epoca, Ofelia scese dal tavolo facendo attenzione a non inciampare o urtare qualche oggetto frangibile.
Thorn si scostò per lasciarla fare, osservandola con le sopracciglia aggrottate, alla ricerca dello scopo di quell’allontanamento. In quel momento la sua statura le fece venire il nervoso, per quanto amasse che fosse così alto. I loro corpi sembravano far fatica ad incastrarsi persino quando erano sdraiati, costringendo sempre Thorn ad accartocciarsi per adattarsi a lei. Non l’avrebbe più permesso, almeno per quella volta.
- Stai… tutto bene? – le chiese Thorn in un sussurro roco, nel quale Ofelia percepì una nota di preoccupazione. Sentiva che la vergogna che aveva provato poco prima nel dirle esplicitamente che era avanzato del tempo per loro non lo aveva abbandonato del tutto, e che non considerava ancora naturale che lei lo amasse e desiderasse quanto lui provava quelle emozioni per lei. Doveva fargli cambiare idea, poco a poco, affinché nel suo tono di voce rimanesse solo la possessività che aveva sentito all’inizio, senza più ombra di imbarazzo o indecisione.
- Slacciati i pantaloni.
Il comando perentorio e inaspettato di Ofelia gli fece arrossire le orecchie, e Thorn sussultò; poi obbedì in silenzio, distogliendo lo sguardo. Con i pantaloni larghi in vita, Ofelia lo guardò dritto in quei fiammeggianti occhi di ghiaccio mentre gli posava le mani nude sui fianchi, facendolo rabbrividire. Con i polpastrelli ben premuti contro la sua pelle calda fece scivolare le mani verso il basso, facendo ammucchiare ai suoi piedi pantaloni e biancheria, che si accartocciarono contro l’armatura. Non avrebbe letto nulla neanche se lo avesse voluto: il suo potere era disturbato dallo sfasamento della sua ombra. In ogni caso, non voleva pensarci in quel momento, e non voleva che Thorn si rendesse conto di quanto gli esperimenti a cui era sottoposta l'avessero fisicamente turbata.
Thorn fece per chinarsi ed eliminare la sua armatura, rimuovendosi del tutto gli indumenti, ma Ofelia lo fermò e lo spinse verso il tavolo, dove lo fece sedere al posto suo.
Thorn non perdeva nemmeno il più piccolo gesto di Ofelia, la assecondava in tutto, cercando di capire dove volesse arrivare. C’era da dire che in quella posizione, seduto sul tavolo della stanza dei direttori del Memoriale con i pantaloni calati fino alle caviglie, di fronte ad un’Ofelia seminuda, la situazione era alquanto bizzarra. La cosa non poteva dirsi per lei, che aveva uno sguardo determinato e limpido, una via di mezzo tra la serenità e la frenesia, come uno stratega, e non sembrava per nulla intimorita o disgustata dalla situazione. Thorn si era innamorato della sua imprevedibilità, e fu lieto che nonostante il tempo trascorso lei non si fosse smentita. Metteva a soqquadro il suo piccolo mondo millimetricamente calcolato e organizzato, destabilizzandolo. Eccitandolo. Nonostante avessero già condiviso un’intimità simile a quella, non molto tempo prima, Ofelia sembrava… incuriosita. Era passata dalla parte dell'osservatore.
Lei gli si avvicinò ancora, afferrandolo per le braccia, per poi far salire le mani sulle spalle, sul collo e infine prendergli il viso tra le dita. Voleva chiedergli di spogliarla del tutto, visto che portava ancora indosso la biancheria, ma non ci fu bisogno di esprimere la domanda a parole. Thorn si impossessò della sua bocca, aggredendola piacevolmente con la propria lingua, morsicandole le labbra in uno slancio di amorevole ferocia, mentre le sue grandi mani andavano a coprirle schiena e fianchi. Con pochi e abili gesti rimosse la stoffa che ancora copriva il corpo di Ofelia e, afferratala per le natiche, cosa che la fece trasalire e successivamente gemere, nascondendo il viso nella sua spalla, la aiutò ad arrampicarsi su di sé, facendosela sedere in grembo. Credeva che fosse quella l’intenzione di Ofelia, fin dall’inizio, ma quando lei non accennò ad alzare la testa da dove l’aveva nascosta non ne fu più molto sicuro. Le posò una mano sulla nuca, confortandola.
- Ofelia? – la chiamò, incoraggiandone una reazione.
Con il respiro corto, lei sollevò lentamente la testa e gli baciò la guancia con dolcezza, sentendo un accenno di barba pizzicarle le labbra. Fu il turno di Thorn di prenderle il viso tra le mani, per costringerla a guardarlo. – Sei sicura? – le chiese in un soffio, con lo stesso filo di voce con cui parlava lei appena si erano conosciuti. – Potremmo anche… non dobbiamo per forza…
Ofelia sorrise e gli baciò fronte, naso e labbra, zittendolo. Era incredibile come il suo cervello fosse incapace di formulare pensieri coerenti e dalla dialettica invidiabile quando erano insieme. Quando erano insieme e lei lo rendeva nervoso, trepidante e affamato. Era quasi turbante sapere di avere questo potere su di lui. E grazie ad esso aveva scoperto che Thorn aveva nel sangue più caratteristiche da Drago di quanto avrebbe voluto o potuto ammettere: era appassionato, scattante, preciso, impulsivo e quasi feroce quando le emozioni lo travolgevano. Lo aveva visto diverse volte da quando si erano conosciuti, ma scoprire come emergevano soprattutto in quelle situazioni le faceva ringraziare che il suo sangue misto gli mostrasse due lati di lui che amava allo stesso modo: calmo, pacato e padrone di sé in quanto Storiografo, energico, intrepido e focoso in quanto Drago.
- Non dobbiamo – mormorò ad un soffio dalla sua bocca, mescolando i loro respiri. – Ma sarebbe uno spreco buttare via questo tempo che ci è rimasto, no?
Opposti in tutto, ecco cos’erano. Thorn aveva una parlantina sciolta e infallibile, ma in quelle situazioni intime non sapeva formulare un discorso; Ofelia, invece, aveva sempre difficoltà a dire ciò che provava, le parole le si bloccavano in gola, ma quando era così vicina a Thorn non aveva freni inibitori e le parole scorrevano travolgenti come il fuoco che sentiva nel corpo.
Si baciarono ancora prima che Thorn scendesse a prestare attenzione ad altro, e Ofelia ansimò sentendo lo stesso su di sé gli occhi avidi e bramosi del marito. Le sue mani le accarezzavano energicamente la schiena, spostandosi ovunque. Ovunque. In risposta, Ofelia gli premette le dita nelle spalle, in cerca di un appiglio, e fece leva per avvicinarsi a lui, di più. Thorn dovette appoggiare la testa sul suo petto cercando di ritrovare il respiro perduto, a corto di fiato. Lasciandosi guidare dall’istinto, Ofelia portò le mani verso il basso, accarezzandogli il petto e l’addome nella discesa. Sentì le mani di Thorn stringersi sui suoi fianchi, ma non capì se per sorreggerla e aiutarla o per dare sostegno a se stesso. Il suo corpo le sembrava quasi più teso di prima, ma era attraversato da una scarica del tutto diversa. Benefica. Unirsi a lui fu più semplice della prima volta, più naturale, forse perché sapevano entrambi cosa aspettarsi e Ofelia, memore di ciò che aveva provato dopo, dovette farsi violenza per non muoversi sopra di lui.
Lui, che sembrava svenuto contro di lei, la testa ancora chinata verso il basso, contro il suo petto. Ofelia gli infilò una mano tra i capelli e gliela fece sollevare, perché la guardasse, perché vedesse il suo sguardo estatico e pieno di desiderio. Aveva bisogno di lui. Il volto di Thorn era una maschera di frustrazione e disperazione, che Ofelia interpretò bene grazie alla luce ardente che aveva negli occhi d’acciaio. La voleva così tanto da provare un male fisico. Resasi conto solo in quel momento che per una volta era leggermente più alta di lui, sorrise con intenzione e si chinò per mordicchiargli il collo, ripagandolo per il trasporto con cui si era dedicato a lei poco prima. Contemporaneamente si mosse su di lui, facendogli emettere un suono a metà tra un ringhio e un gemito.
Preda di un impulso incontrollabile, Ofelia lo vide fare ciò che voleva che facesse fin dall’inizio: prendere il controllo. La strinse a sé e si abbandonarono l'uno all'altra. Ofelia chiuse gli occhi per perdersi in quel momento e dimenticarsi di ogni problema e preoccupazione. Gli echi, la sua ombra sfasata, i suoi poteri ingestibili, la memoria di Eulalia, lo spionaggio nei locali degli osservatori... persero tutti di importanza mentre Thorn le dava sicurezza con la sua solidità, con il suo calore, con il suo desiderio. Con il suo amore.
Ofelia gli infilò le unghie nella schiena, graffiandola leggermente e facendogli emettere un grugnito gutturale che interpretò positivamente. Le sue labbra spaziavano sulla sua pelle, lasciando baci umidi ovunque, mentre la chiamava in un sospiro accanto all’orecchio, facendole girare la testa. Le sue mani invece si alternavano tra i suoi fianchi e le sue natiche, che stringevano con possessività e ardore.
Ofelia chiuse gli occhi e reclinò il collo, sentendosi fragile tra le sue braccia, ma sapendo che Thorn non avrebbe mai permesso che si spezzasse. Bastava lui a portare sulle spalle il peso di entrambi, come aveva sempre fatto, ma Ofelia non gliel'avrebbe più permesso. Avrebbe attinto da lui la forza che le serviva per procedere, per poi ridargliela, incoraggiandolo a resistere a sua volta.
In quell'occasione, però, non resistettero per molto: furono trascinati via da un'onda che fece grugnire Thorn e sospirare lei, mentre la loro danza rallentava fino a fermarsi, lasciandoli abbracciati insieme, a recuperare il fiato, chiudendo gli occhi per l’improvvisa stanchezza. Se possibile, era stato ancora più intenso della prima volta.
Due cose pensò Ofelia quando ritornò padrona dei propri pensieri annebbiati. La prima era che per fortuna la stanza, come ogni altra camera al Memoriale, era insonorizzata. La seconda era che, per essere un maniaco della pulizia, stranamente a Thorn non sembrava dispiacere tutta quella situazione mista di saliva e sudore. La esaltava la consapevolezza di poter distruggere le manie di Thorn, le sue abitudini e reazioni. Significava che lei era al di sopra. Al di sopra di tutto, nella sua scala delle priorità.
Gli accarezzò piano i capelli e la schiena, tenendoselo ancora premuto contro, abbracciandolo. Ripensando allo sguardo che aveva rivolto al proprio riflesso prima di entrare in quella stanza, completamente indifferente, privo di qualsiasi forma di amore personale, Ofelia lo strinse di più. E ricordò la promessa che si era fatta, di cambiare lo sguardo che rivolgeva a se stesso.
- Vorrei che vedessi ciò che vedo io – bisbigliò, abbarbicandosi nel suo abbraccio, con il naso premuto contro il suo collo.
- A cosa ti riferisci? – chiese lui di rimando, con la voce roca.
- Al modo in cui ti vedi. Vorrei che ti vedessi come ti vedo io. Che ti amassi come ti amo io. Che ci tenessi di più a te, alla tua stessa vita, che ti senti sempre in dovere di mettere in pericolo, di usare come merce di scambio.
Aspettò un commento che non arrivò, così lo abbracciò ancora più strettamente. – Sei una bella persona, Thorn. E sei un brav’uomo. Non importa cosa gli altri vedano dal di fuori. Io so chi sei.
Le vennero in mente le parole che le aveva rivolto una volta, quando era insanguinato, nel cuore della notte, all’intendenza. Quando lei gli aveva detto di non dare agli altri motivo di considerarlo ancora più ambiguo, e lui aveva ribattuto che se ne infischiava del pensiero altrui, visto che ai suoi occhi non lo era. Lui l’aveva amata con forza quasi da subito e lei doveva rimediare a quel periodo in cui l’aveva respinto.
Capì che le sue parole avevano avuto effetto quando sentì le sue mani chiudersi a pugno contro la sua schiena, la tensione trattenuta degli artigli pungerle la pelle e inondarle la mente.
- Sh… - lo rabbonì, cercando di tranquillizzarlo. – Calmati Thorn.
Il suo respiro, che era accelerato nuovamente in risposta alle sue parole, rallentò poco a poco, liberando Ofelia dalla corrente in agguato sotto le sue vene. Aspettava una risposta che non arrivò, ma almeno il suo corpo si distese di nuovo, quasi accasciandosi contro di lei.
- Perché hai esitato, prima? - chiese invece, lunghi istanti dopo.
Ofelia continuò ad accarezzarlo teneramente. - Quando?
Thorn si rifiutò ancora di guardarla. - Quando ti ho detto che avevamo un po’ di tempo in più.
Ofelia sorrise. Thorn in passato non avrebbe mai tirato in ballo argomenti simili. Invece ora le chiedeva addirittura la motivazione di certe sue azioni o parole. Era palese che volesse approfondire gli argomenti che riguardavano loro due e la loro vita privata. Quella consapevolezza, insieme all'evidenza di quanto fosse cambiato, la scaldarono nel cuore più dell'intimità appena condivisa.
- Ho avuto il timore che volessi parlarmi di qualche altro piano. Non ero sicura... non sono sicura nemmeno di riuscire a portare a termine quello di domani.
Thorn, anche se con riluttanza, si staccò da lei quel tanto che bastava per guardarla negli occhi. Erano così vicini che Ofelia era sicura che sarebbe riuscita a vedere le rughe di tensione sul suo viso anche senza l'aiuto delle lenti. - Ti ho già detto che non sei obbligata a fare nulla. Basta che tu me lo dica. Sei mia moglie, la tua incolumità viene prima di tutto. Non c'è nulla che tu non possa dirmi.
Il silenzio calò pesantemente su di loro, e Ofelia si sentì terribilmente in colpa. Thorn era premuroso, era certa che non le avrebbe mai nascosto nulla, non dopo i loro trascorsi. Era così disgustata dalla sua incapacità di rivelargli la propria sterilità che non si godette nemmeno quel momento di apparente romanticismo e calma dopo giorni impregnati di insicurezza e ignoranza.
Di fronte alla sua mancata risposta, Thorn serrò le labbra. Allungò un braccio per prendere la mano che Ofelia gli teneva ancora sulla schiena, e la portò fra di loro. - Mi riferisco anche a questo.
Ofelia si chiese quando, esattamente, avesse visto il morso di Cosmos, dal momento che aveva sempre portato i guanti e che per il resto del tempo era stato... distratto. Ci sarebbe mai stato qualche dettaglio in grado di sfuggirgli?
Ofelia strinse il pugno per nascondere la ferita e circondò il collo di Thorn con le braccia. - Cosmos. Ci siamo azzuffati e mi ha morsa.
Thorn aggrottò le sopracciglia e riassunse il vecchio ruolo da intendente inflessibile. - Ti ha arrecato altri danni? Colpi che non posso vedere?
C'era una sola cosa che Thorn non poteva vedere, ma Ofelia scosse la testa per scacciare quel pensiero e Thorn lo interpretò come un diniego.
- Altri osservatori ti hanno in qualche modo picchiata, oltre a quello che ti ha tirato lo schiaffo il tuo primo giorno di permanenza qui?
Ofelia quasi si era scordata quell'incidente. Thorn dovette fraintendere la sua perplessità perché si accigliò ulteriormente.
- No, nessun altro - si affrettò a rassicurarlo lei.
- Bene. In caso contrario, fammelo sapere. I loro metodi potranno anche essere poco ortodossi, ma non accetto che ricorrano alla violenza. C’è un limite agli esperimenti che si possono condurre su una persona.
Ofelia annuì, sperando che tornasse a rilassarsi. Il suo corpo si stava riprendendo, e con esso la familiare corrente galvanica degli artigli.
- Non parliamone più – sancì Thorn, lapidario come sempre. Per lui, quando una questione era chiusa, lo era definitivamente. Un calcolatore umano, che schedava e archiviava, ecco cos’era. – Però avvisami la prossima volta, per favore. Non nascondermi… non nascondiamoci più nulla – propose dopo una pausa.
Ofelia sentì un’ondata di nausea salirle fino alla gola, e deglutì per ricacciarla in fondo allo stomaco.
- Ofelia?
Lei annuì lentamente, distogliendo lo sguardo. Thorn la scrutò attentamente con quegli occhi seri che ogni volta la facevano sentire incapace di stare in piedi. Era un concentrato di austerità, ma negli occhi da sparviero, fissi e impassibili, c’era una luce nascosta che era solo il riflesso di un incendio che divampava dentro di lui. Per quanto imperturbabile e padrone delle proprie espressioni e dei propri gesti ai limiti del possibile, Thorn era un agglomerato di emozioni represse.
A tal proposito, le mise le mani sui fianchi per sostenerla mentre cambiava posizione sotto di lei, in modo da essere più comodo. L’orologio da taschino reagì alla sua tensione aprendosi e chiudendosi a scatti per fargli leggere l’ora; peccato che fosse per terra, perso tra i risvolti della camicia. Thorn osservò con contrarietà il disordine sul pavimento e sul tavolo su cui era seduto. Non erano stati molto bravi, dal momento che nessuno avrebbe dovuto sapere della loro presenza lì.
Al pensiero di alzarsi e rimettere tutto a posto sospirò impercettibilmente, ma Ofelia non sembrava intenzionata a spostarsi. Lui non voleva di certo chiederle di scendere dalle sue gambe, però il non sapere che ora fosse e quanto tempo gli rimasse per riordinare e perché lei tornasse all’osservatorio lo stava facendo innervosire. L’orologio emise il suo tac-tac in risposta.
- Abbiamo ancora tempo – sussurrò Ofelia, seppellendo il viso nella sua spalla.
- Come?
Leggero come un alito di vento, il tono di voce di Ofelia non gli era arrivato all’orecchio, nonostante la loro prossimità.
- Ho detto che abbiamo ancora tempo – mormorò, sempre col viso nascosto, ma alzando un pochino la voce. – Per noi.
Thorn fissò dritto di fronte a sé, le mani ancora sui suoi fianchi, immobili e rigide. Poi le dita si contrassero e la strinsero, facendola mugolare. Chiuse gli occhi, inebriato. Ofelia lo aveva rivoltato da dentro a fuori, demolendo certezze e abitudini. Scosse la testa di fronte a quell’evidenza.
Fraintendendo la sua reazione, Ofelia gli posò le mani sulle spalle e fece per spostarsi da lui. – Scusa, pensavo… visto che non ci vedremo per parecchio tempo probabilmente, io credevo che tu… ma non…
Rossa in viso per colpa dell’imbarazzo, Ofelia si sentì stupida per aver tentato di rubargli un secondo momento di intimità. Forse, dopotutto, per Thorn quelle situazioni erano davvero un affronto alla sua persona, e il massimo che potesse sopportare era un incontro, per un tempo limitato.
Le sue mani però arrivarono a smentirla trattenendola a sé quasi con brutalità.
- Credimi, darei tutto quello che posso per avere un po’ più di tempo con te, qui, in questo momento. Anche qualcosa di più.
La dichiarazione la lasciò senza fiato, e Ofelia fece incontrare i loro occhi. In quelli di acciaio di Thorn si era riaccesa la scintilla da poco spenta, più fulgida di prima.
- Sfruttiamo quel poco che ci è rimasto, al resto del disordine porrò rimedio dopo.
Ricordando ciò che le aveva detto più volte, cioè che sembrava attirare unicamente sciagure, Ofelia si sentì quasi in colpa per la sua sbadataggine e indole confusionaria. – Ti metto a soqquadro la vita, vero? Te la complico. Perdonami, non lo faccio intenzional…
La bocca di Thorn fu sulla sua quasi con brutalità, graffiandole le guance con la barba ispida, baciandola e stringendola quasi con ferocia, con urgenza, con possessività, e Ofelia non poté fare altro che abbandonarsi a lui, sciogliendosi tra le sue braccia. Ricominciarono a muoversi all’unisono, prima piano e poi con foga.
- Rivoltala da dentro a fuori, distruggila, mettila in disordine, fai ciò che vuoi della mia vita. È tua.
Ofelia gemette e non parlarono più. Finché ci fosse stato il caos, finché ci fossero stati oggetti rotti e indignati, o nervosi, o gioiosi, finché ci fosse stato qualcosa di animato nella sua vita, avrebbe significato che Ofelia era con lui. Poteva sopportare tutti quegli affronti alla sua meticolosità e precisione, purché fosse lei a causarli.
Amarla le provocò quasi un dolore fisico quando Ofelia lo chiamò per nome, ancora, e ancora, vicino al suo orecchio, con abbandono, trasporto, bisogno. La amò con il cuore che pensava non sarebbe mai più stato in grado di provare affetto per qualcuno. La amò per aver smentito quella credenza.
E la amò per avergli reso tollerabili il disordine e l’imprevedibilità, caratteristiche che non avrebbe mai ammesso nella sua vita. Tollerabili fino ad un certo punto, entro certi limiti.
Nel suo mondo di logica stringente e matematica, si era innamorato di una donna che demoliva le statistiche oggettive e quelle sue personali. Forse era per questo che si era trovato destabilizzato da lei.
Anche qualcosa di più.
 
 
 
 
 
 
 
Bonus
Erano terribilmente in ritardo quando uscirono dagli appartamenti direttoriali, lasciandoli immacolati nonostante tutto quello che ci avevano fatto dentro. Thorn era riuscito a sistemare ogni cosa con precisione millimetrica nel tempo impiegato da Ofelia per rivestirsi, cioè quattordici minuti e ventitré secondi.
Percorsero la strada a ritroso seguendo il tragitto più breve, dal momento che non aveva altre deviazioni da fare. Il suo orologio si apriva e chiudeva da solo allo scoccare di ogni minuto. L’animismo di Ofelia gli aveva portato dei vantaggi, anche se non lo avrebbe mai ammesso. Gli oggetti che gli appartenevano erano disciplinati e si ordinavano da soli, cosa che gli permetteva di risparmiare un quindici percento del suo tempo. Aveva capito con l’esperienza diretta che gli oggetti animati non diventavano per forza caotici e disordinati, ma che la loro sregolatezza dipendeva dal padrone.
Quando arrivarono all’imbocco del tunnel Thorn calcolò che mancavano ancora un’ora e dodici minuti al primo gong del mattino. Erano stati tutto sommato rapidi, anche se non quanto lui sperava. Per lui la strada fino alla sua stanza era breve, ma era Ofelia a preoccuparlo di più.
Gli ridiede in silenzio occhiali e guanti, e lui sperò vivamente che un’ora le bastasse per riuscire a tornare in camera. Non si sarebbe mai perdonato se Ofelia fosse stata scoperta solo perché avevano voluto…
Ma ne era la valsa la pena. Anche un po’ di più.
Thorn si rimise in tasca guanti e occhiali, attento a non danneggiarli.
- Bene, da qui dovrai tornare da sola.
Ofelia annuì, scrutandosi attorno nell’oscurità solo leggermente trafitta dai primi raggi mattutini. Sembrava smarrita, senza le sue fidate lenti, e Thorn avrebbe tanto voluto accompagnarla di persona in camera sua. Ogni volta che stava con lei diventava più difficile separarsi, e la cosa lo spaventava. Non era facile convivere con quelle novità dopo anni di rifiuti.
Rimasero immobili per un istante, incerti su come procedere. Fu Thorn a prendere l’iniziativa. Ofelia quasi non lo vide arrivare, e sussultò quando sentì le sue labbra premere contro le proprie. Lo smarrimento durò poco, però, perché subito lei gli accarezzò il viso, prolungando il bacio.
Baciarla poteva essere annoverato tra le migliori esperienze che avesse mai sperimentato. Non che ce ne fossero tante, ma era certo che avrebbe primeggiato su tutte quelle che avrebbe mai potuto fare se fosse cresciuto in una vera famiglia, come tutti gli altri bambini.
Si staccò, a corto di fiato, troppo presto (ventidue secondi dopo).
Si schiarì la gola mentre si raddrizzava, imponendosi di distogliere lo sguardo per non essere costretto a guardare il viso fiducioso e soddisfatto di Ofelia. - Sarà meglio che tu vada. È ancora lunga la strada.
Lei annuì nuovamente, come se avesse perso la voce invece della vista, e si avviò nella direzione giusta. Questo gli fece sperare che sarebbe arrivata incolume in camera sua, ma con Ofelia non si poteva mai dire.
Thorn si diresse verso la sua poco dopo. Aveva urgente bisogno di lavarsi per togliersi di dosso la sporcizia e la polvere del tavolo degli appartamenti direttoriali, non il posto migliore in cui sedersi… nudo. Prese la boccetta di disinfettante al ricordo, ma si bloccò quando ripensò alla sensazione della pelle di Ofelia sotto le dita, del suo corpo contro il proprio, della sua bocca, del suo sguardo, del suo respiro.
L’aveva toccata con quelle stesse mani, ed era come se invece di averle sporcate se le fosse ripulite. Perché se lei riusciva a sopportare tutto quello che lui era, forse poteva riuscirci anche lui. Almeno finché non avesse raggiunto le docce.
Mise via il disinfettante.
 

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Capitolo 19
*** Un disegno ***


Rieccomi, non guardo nemmeno la data dell'ultimo aggiornamento (tralasciamo...).
Ero un po' in crisi perché nessuna scena mi ispirava abbastanza da scrivere, poi mi è tornata in mente per caso questa e ho pensato subito: "Mia! Sei tutta mia!!". Anche se poi a quello che volevo, cioè alla parte di Ofelia che unisce i suoi artigli a quelli di Thorn, ho dedicato uno spazio minimo e mi sono persa nel contorno come sempre, ma dettagli. E il contorno è ciò che fa Thorn mentre Ofelia dà un'occhiata al laboratorio degli osservatori. Praticamente è la continuazione dei capitoli 17 e 18, letteralmente, perché riprende da dove avevo lasciato Thorn dopo la notte brava.
Spero che vi piaccia il capitolo e che possiate trovare verosimili i pensieri di Thorn. Me lo auguro almeno. Ma in ogni caso grazie anche solo per aver letto^^
L’Attraversaspecchi IV, Echi in tempesta, I collaboratori L'errore, pagg. 240-267


19. Un dessin

Thorn si prese un attimo prima di mettersi a riflettere su ciò che l’aspettava. Si rendeva conto della negligenza insita in quell’esitazione, soprattutto tenendo conto della posta in gioco. Ne andava anche della sicurezza di Ofelia.
Eppure aveva bisogno di concentrarsi, per pochi secondi, sulla notte appena trascorsa. Non era da lui non riuscire a metabolizzare immediatamente degli avvenimenti, ma erano accadute talmente tante cose che doveva per forza rivivere i dettagli della conversazione avuta con Ofelia, del loro piano e…
Mentre riportava alla mente ogni dettaglio di quella notte, dal loro incontro presso la statua alla passeggiata al buio, fino al camminamento verso i contatori dai dati incongruenti e infine alla camera vuota dei direttori, catalogò e archiviò ogni nuova informazione. I ricordi gli scorrevano in mente come un libro che veniva sfogliato a velocità folle, e Thorn socchiuse gli occhi nella penombra dell’alba per concentrarsi meglio. Ciò che Ofelia aveva appreso era importante quanto quello che aveva scoperto lui, se non di più. Ripensò a quando le aveva detto che non sarebbe mai resistita al Polo, durante una delle loro primissime conversazioni, sul dirigibile che li avrebbe portati alla sua arca dopo averla prelevata da Anima.
Non aveva mai commesso un errore di valutazione più grossolano. Ofelia non aveva solo resistito, era riuscita a piegare lui, al punto che sarebbe stato disposto a tutto pur di saperla al sicuro e di accontentarla. La sua fortuna (anche se la fortuna non esisteva ed era un concetto illogico e astratto che nemmeno comprendeva) era che Ofelia era troppo nobile d’animo per approfittarsi di lui. Aveva accettato di collaborare, stava indagando da sé, con ottimi risultati per giunta, ed era un aiuto prezioso. Lo faceva con coscienza, consapevole dell’importanza della loro missione, eppure Thorn si sentiva lusingato.
Era come se Ofelia lo facesse anche per lui, oltre che per se stessa. Lei era impelagata in quella situazione più di chiunque altro, il suo corpo e i suoi poteri stavano addirittura mutando, eppure una piccola parte di lui, un tredicesimo circa, non poteva fare a meno di credere che lei fosse coinvolta anche per lui. Per stare con lui.
Non ne aveva forse avuta la conferma quella notte?
Chiuse gli occhi con un misto di stizza verso se stesso e desiderio mentre ripensava al modo in cui avevano… sconsacrato l’immoto ascetismo degli appartamenti direttoriali vuoti. Si crogiolò nel calore che gli attanagliò le viscere rivivendo sulla pelle il contatto con il corpo caldo di Ofelia. E si prese il tempo per farlo, indugiando su quelle due pagine del libro mentale che stava sfogliando. Visualizzò i settantasei nei di Ofelia, provando una punta di fastidio nel rendersi conto che ancora non sapeva se fosse il numero corretto. Aveva ben presente la quantità di cicatrici che gli deturpavano il corpo, la loro ubicazione, la loro forma, la loro origine. Era un’esperienza che non avrebbe saputo definire a parole, però, quella di scoprire il corpo di un’altra persona, di voler memorizzare ogni singola imperfezione e caratteristica della pelle di qualcun altro. Una pelle che portava l’odore di calda aria babeliana e… Thorn voleva dire casa, ma lui non aveva una casa, e quella casa non aveva un odore. Era solo familiare. Un odore familiare, un odore gradevole e… adatto.
Cercò di soprassedere su quel punto, odiando per un momento la sua meticolosità: una parte di lui avrebbe passato una quantità di tempo incalcolabile a cercare il termine giusto. Un termine che forse nemmeno esisteva, perché quando si trattava di sentimenti e sensazioni ogni definizione perdeva i propri contorni e le proprie leggi. Lui voleva limiti, voleva precisioni e precisazioni. Ofelia, e tutto quello che la riguardava, lo scombussolava. Piacevolmente, ma anche illogicamente.
Tornò a focalizzarsi sul punto principale della sua riflessione, cioè il numero impreciso di nei di Ofelia. Era sicuro di non poter dire con assoluta certezza che settantasei fosse la quantità definitiva. E questo perché non aveva avuto… l’opportunità di esaminare a fondo il corpo di Ofelia. Sentì le orecchie infiammarsi involontariamente al solo pensarci. Aveva visto di lei più di chiunque altro, più di quanto si sarebbe mai aspettato di poter vedere lui stesso fino a un cinque settimane prima. Eppure, mentre durante la loro prima volta insieme Ofelia aveva scrutato minuziosamente la sua pelle, toccando ognuna delle cinquantasei cicatrici che la attraversavano (Thorn rabbrividiva ancora al pensiero), lui non aveva potuto fare lo stesso con lei.
Non credeva più che Ofelia lo avrebbe rifiutato, ma ogni singolo avvenimento della sua vita, ogni allontanamento da parte di chi invece avrebbe dovuto avvicinarlo, lo rendeva estremamente cauto. Con quale coraggio avrebbe potuto chiederle di rimanere immobile mentre lui la toccava e guardava ogni singola parte di lei, anche quelle più nascoste, per poter appurare se il numero di nei che aveva contato fosse giusto? Forse porre quella domanda non sarebbe stato disagevole quanto pensarla, e probabilmente Ofelia avrebbe anche accettato… sembrava ben disposta quando si trattava di… stare insieme. Anche un po’ di più. Ma non ci riusciva. Non poteva fidarsi di Ofelia al punto di chiederle una cosa simile, perché avrebbe significato ammettere che lei sarebbe stata disposta a tutto per lui. E si sarebbe reso conto che era così, che effettivamente Ofelia era pronta ad anteporre le sue necessità alle proprie, o quanto meno a tenerle in grande considerazione.
E sarebbe stato vulnerabile. Nel momento in cui Ofelia gli avesse negato qualcosa, ne avrebbe sofferto ancor più che in passato. Un conto era soffrire per l’atteggiamento di chi dovrebbe amarti e non lo fa, un’altra cosa era vedersi rifiutare qualcosa da qualcuno disposto a darti tutto ciò che aveva, qualcuno che ti rendeva importante, e poi si allontanava.
Thorn strinse gli occhi con forza. Non voleva pensare a quell’eventualità. Doveva dare più credito a Ofelia. A sua moglie. Lo aveva contraddetto ogni singola volta che lui aveva formulato un giudizio affrettato su di lei. Era una costante. Se dunque credeva che anche in quel frangente si sarebbe comportata come gli altri, e che si sarebbe presto stufata di lui, si sbagliava. Ofelia sarebbe andata controcorrente.
Eppure, proprio perché era così prevedibilmente imprevedibile, forse quella volta lei avrebbe demolito le statistiche da lei stessa costruite. Avrebbe seguito il corso degli eventi che avevano caratterizzato la sua intera vita, e si sarebbe stancata di lui, lo avrebbe lasciato per qualcosa, o qualcuno, di migliore.
Aprì con malcelata rabbia la tapparella che impediva alla luce dell’alba di entrare e rischiarare l’ambiente.
Doveva smetterla di rimuginare su fatti che forse non sarebbero mai avvenuti. Non era da lui fantasticare, o soffermarsi su questioni così poco rilevanti per la missione che stava portando a termine. Non era da lui mettere in dubbio i fatti concreti che erano avvenuti.
E quella notte quello che era avvenuto era l’unione con Ofelia. Era stata lei ad andargli incontro, a cominciare a spogliarlo.
Thorn deglutì a vuoto, la gola secca. Gli artigli fremevano, tesi come i suoi nervi.
Era stata lei a baciarlo, ad accarezzarlo, a farlo sedere sulla scrivania. A salirgli sopra. A muoversi. A sussurrare il suo nome, ancora e ancora, fino a fargli perdere significato. Lo desiderava, e su quel punto non c’erano speculazioni che reggessero. Erano azioni oggettive, se fossero state delle misure Thorn avrebbe addirittura potuto calcolarle.
Doveva concentrarsi su quello, su ciò che Ofelia gli aveva dato, che aveva voluto dargli, anziché su quello che avrebbe potuto togliergli. Che forse non gli avrebbe mai tolto.
Si concesse una doccia, fredda, per due minuti in più rispetto al consueto. La sua mente registrò i litri d’acqua che stava sprecando, ma Thorn non diede importanza a quel dato. Seppur a malincuore, si strofinò con energia per rimuoversi dalla pelle i residui del tocco di Ofelia, in modo tale da concentrarsi. Non sarebbe riuscito a focalizzarsi sul suo obiettivo se durante le ore successive gli fosse sovvenuto alla mente che Ofelia lo aveva toccato in quel punto, o che aveva fatto un’altra cosa su un’alta parte, o che lo aveva baciato lì. Lavando via tutto sperava di cancellare anche la traccia che Ofelia aveva lasciato su di lui, per quanto possibile.
Quando aprì la porta della sua camera e si trovò di fronte la ragazza con la scimmietta meccanica sulla spalla era ormai del tutto sobrio, non più ebbro del ricordo di Ofelia. Si era ripulito dai conturbanti avvenimenti della notte insonne.
- Buongiorno, sir Henry. Mi auguro che abbiate trascorso una piacevole notte.
Thorn cercò di non aggrottare le sopracciglia all’uso di quelle parole fin troppo adatte. La sua guida inetta lo scrutava con attenzione, come al solito, e non poteva lasciarsi sfuggire nulla.
- Abbiamo molto da fare, oggi. Vorrei dare nuovamente occhiata ai valori dei contatori, se non vi dispiace.
La giovane parve spiazzata da quell’esordio. Di sicuro non era un buongiorno.
- Ma, sir, non vi erano già state fornite le ultime letture?
Thorn si chiuse la porta alle spalle e si incamminò lungo il corridoio perfettamente simmetrico, che lo calmava e inquietava al tempo stesso.
- Sì, ma temo di dover effettuare un’indagine più approfondita. Sono le risorse di LUX che vengono adoperate per mantenere questo posto, non posso permettermi di condurre una verifica approssimativa.
- Avete ragione come sempre, sir Henry – lo adulò la ragazza correndogli dietro per riuscire a stare al passo con lui.
L’armatura sferragliava, e per una volta Thorn ne fu grato: in parte copriva la voce della sua guida non richiesta.
- Non a caso siete stato scelto per questo compito così importante. Svolgete il vostro lavoro in modo eccellente, non posso che ammirarvi.
Thorn sperò che la smettesse presto di parlare. La testa gli rimbombava e fitte lancinanti gli attraversavano le giunture. La notte insonne si faceva sentire, per quanto fosse stata in parte anche rilassante. Non che di solito dormisse molto di più, ma almeno riusciva a sedersi per un paio d’ore.
Doveva tenere duro ancora per un periodo di tempo imprecisato, ma se il loro piano fosse andato a buon fine, quel pomeriggio, di certo lui e Ofelia si sarebbero avvicinati alla meta molto più di prima.
Spense anche l’ultima protesta inconscia del suo cervello, che gli chiedeva di rallentare, di fermarsi. Dalla buona riuscita del suo diversivo dipendeva anche la buona riuscita di Ofelia, insieme alla sua sicurezza.
Non poteva fermarsi.
 
L’annuncio del controllo supplementare esplose come una bomba, e Thorn fece del suo meglio per trattenere una smorfia di disappunto. Aveva appena detto alla ragazza impiegata come sua guida che aveva bisogno di essere scortato al laboratorio dei collaboratori per poter disquisire con loro di un accertamento circa la non regolarità di alcuni dati. A Thorn non fece per niente pena la giovane che gli stava appiccicata (solo sedici centimetri di distanza, era un’evidente violazione del suo spazio personale), che si arrovellava su cosa dirgli per fargli capire che non era possibile una cosa simile e al tempo stesso cercare di accontentarlo.
Era riuscita a fermare tre osservatori che casualmente passavano di là, provando a spiegare loro la situazione con tutta la diplomazia possibile. A lui sembrava solo che la sua guida fosse priva di nerbo, ma trattenne la rabbia. E gli artigli. Il terzo gong stava per suonare, e la sua pazienza era agli sgoccioli.
- Non mi interessa cosa io possa fare o dove io sia o meno ammesso. Le letture dei contatori non combaciano con quelle che mi avete fornito, le ho controllate due volte, e solitamente mi basta mezza verifica per accertarmi della veridicità di determinati parametri – aveva sbottato, fintamente irritato nei panni di grandi ispettore familiare, ma genuinamente infastidito in qualità di Thorn, uomo e marito di Ofelia. Vestire i panni del primo gli dava il voltastomaco, soprattutto dato che doveva difendere qualcuno che non meritava neanche un briciolo di comprensione. – I Lord di LUX hanno sovvenzionato questo osservatorio per anni, e continuano a farlo. In cambio della loro generosità chiedono solo che io abbia accesso a dati basilari e che non violano in alcuna maniera il segreto professionale in ambito sanitario.
La sua ramanzina aveva sortito l’effetto sperato, dato che di fronte a sé aveva visto solo sguardi spaventati e corpi tesi. Compresa la donna che lo scortava ovunque. Mancavano sette minuti spaccati al gong, doveva concludere fretta.
- Vi lascio libertà di scelta. Posso redigere un rapporto in cui risulterà evidente l’occultamento da parte vostra di qualcosa che assorbe molta liquidità a livello di sovvenzioni, perché l’energia elettrica ve la pagano i Lord di LUX, o posso redigerne uno in cui dettaglio la vostra spontanea collaborazione circa una verifica di prassi su una presunta anomalia.
Uno dei collaboratori, forse il più anziano, si era schiarito la voce. – Quanto tempo abbiamo per darvi una risposta?
La risposta gliel’aveva data Thorn, prendendo il suo orologio da taschino e allontanandosi nel corridoio in uno sferragliare metallico del tutto appropriato in quella circostanza, il passo lungo e contrariato.
Gli erano corsi tutti incontro invitandolo a seguirli verso i contatori, mentre uno di loro andava ad avvertire gli altri e la ragazza gli chiedeva se voleva mangiare qualcosa prima della verifica.
In quel momento si stava dirigendo verso il giardino che lo avrebbe condotto ai contatori che la notte prima aveva già controllato (con Ofelia), con una sfilza di collaboratori dal volto coperto che gli si accalcavano intorno per assisterlo. Come se fosse così facile prenderlo per il naso. Per quale motivo degli osservatori dovrebbero agitarsi come formiche per una verifica di routine ai contatori dell’elettricità?
Gli stavano fornendo le risposte senza nemmeno bisogno che lui facesse le domande.
Suonò il terzo gong.
Era leggermente in anticipo sulla tabella di marcia (due minuti e ventiquattro), così prese tempo fingendo di doversi sistemare l’armatura difettosa. Si rimise al passo con le tempistiche, ritardando persino di diciotto secondi. Sperava che Ofelia fosse entrata in azione senza problemi, e si sentì un pochino sollevato (circa il nove percento) quando arrivò nel giardino dove solitamente si svolgevano gli esperimenti sui membri del programma alternativo come lei e non la vide. I collaboratori avevano sgomberato l’area, e a giudicare dal numero crescente di persone che lo seguivano dovevano aver abbandonato anche il loro laboratorio. Vide solo un elemento fuori posto in quell’ambiente: una ragazza molto giovane, con il volto talmente asimmetrico che Thorn provò un brivido di disagio al solo guardarlo. Tutto sul suo viso era sfalsato, dagli occhi, alla fronte, il naso e le labbra. Thorn sentì smuoversi qualcosa dentro di sé, ma non riuscì a capire se fosse pena per quella ragazza costretta a vivere con una tale faccia o il solito fastidio che provava quando notava qualcosa che non avrebbe dovuto essere, come un prurito ai nervi. Prima di distogliere lo sguardo colse anche il bagliore della catenina dorata che le congiungeva l’arcata sopraccigliare alla narice, e che aveva visto indossare solo da un’altra persona: Octavio, il figlio di Lady Septima. Dedusse quindi che quella bambina fosse Seconda. Si era informato circa la situazione familiare della donna con cui aveva dovuto (malauguratamente) lavorare, e comprese per quale motivo avesse deciso di rinchiudere la figlia in un luogo simile. Non ci sarebbe mai stato posto per lei al di fuori di quelle mura in cui erano raccolti altri individui deviati, come non ce ne sarebbe stato per sua madre, se una simile pecca avesse intaccato il suo profilo ineccepibile e immacolato. Una figlia del genere rappresentava un abominio per quella donna. Thorn riuscì a distinguere la stretta alle viscere che provò in quel momento, al contrario di quelle precedenti: disgusto.
E non per quella povera ragazza menomata. No, per lei provava quanto ci fosse di più simile alla comprensione.
Nonostante tutto, o forse soprattutto per quello, fu sollevato quando uno dei collaboratori più anziani, dedusse dal momento che lo vedeva sempre a capo di un drappello di novizi, e che portava un volatile meccanico sulla spalla, gli fece strada attraverso stretti corridoi fino a giungere ad una porta anonima e insignificante. Thorn sapeva che quello era l’accesso ufficiale ai contatori, ma non se n’era avvalso la notte precedente, con Ofelia, perché sarebbe stato difficile passare inosservati dall’entrata principale. Per non parlare del rischio di effrazione, che qualcuno avrebbe sicuramente notato. Quella che aveva usato lui doveva essere un passaggio secondario, una scorciatoia, ma era nettamente più lunga rispetto a quella che avrebbero percorso in quel momento (un chilometro e settecentocinquanta metri in più).
Il collaboratore anziano aprì la porta con una chiave che teneva nascosta sotto la tunica, legata ad una cordicella.
- Per di qua, sir – lo invitò, precedendolo.
Thorn lo seguì senza esitazioni e fu lieto di rendersi conto che la maggior parte dei collaboratori sarebbero rimasti ad attenderli fuori. Sperò al tempo stesso che aspettassero il loro ritorno invece di ricominciare con le loro mansioni e i loro compiti. In caso contrario, Ofelia sarebbe stata in pericolo. Si augurò nuovamente che stesse bene prima di tornare a concentrarsi sul compito che toccava a lui.
Il clangore metallico della sua armatura risuonava ad ogni passo come un martello. Per quanto irritante, in un certo senso lo aiutava a ragionare: era ritmico e cadenzato, regolare, come ogni cosa avrebbe dovuto essere.
Impiegarono ventidue minuti a raggiungere i contatori. L’altra via era più lunga, certo, ma questo non significava che quella che avevano appena percorso fosse breve.
- Eccoci arrivati, sir, potete prendere visione voi stesso delle letture che sono state stilate doviziosamente in quest’ultimo periodo – annunciò il collaboratore.
Thorn fece per avvicinarsi ai contatori, ma vide sbucare di fianco a sé un braccio esile e si fermò. La sua guida in sari giallo, così silenziosa da rendere invisibile la sua presenza, gli allungò dei fascicoli contenti le ultime letture dei contatori, quelle che lui aveva già memorizzato perfettamente. Forse credeva che ne avesse bisogno, ma il suo gesto di cortesia, oltre ad essere inopportuno, fu anche pericoloso.
Thorn mise subito quanta più distanza possibile tra lui e la ragazza, affinché gli artigli, che già la percepivano come una minaccia data la sua antipatia per lei, non la attaccassero. Lo sguardo della giovane dietro i pince-nez scuri scattò verso un punto di fianco a Thorn, e fu lei stessa a spostarsi, come a volersi allontanare.
Thorn aggrottò le sopracciglia, consapevole che la ragazza poteva aver visto l’ombra del suo potere familiare scattare nella sua direzione. Si rese conto a livello inconscio che grazie a quegli occhiali la sua guida doveva essere stata consapevole dei suoi artigli fin dal primo momento in cui si erano incontrati. Per quale motivo allora non aveva preso le distanze, ma si ostinava anzi a stargli appresso in quel modo decisamente poco consono?
L’unica risposta che gli venne in mente era che, come lui stava conducendo la sua indagine, così l’osservatorio stava studiando lui.
Thorn prese bruscamente i fogli che gli venivano porti dalla ragazza. Lo guardava con quel misto di ammirazione e adulazione che gli facevano venire il voltastomaco. Nessuno lo aveva mai guardato così, ed era certo di non volere che nessun altro lo guardasse in quel modo. Le occhiate di disprezzo erano più comprensibili, più prevedibili. Gli sguardi della giovane invece potevano essere subdoli, nascondere piani opportunamente mascherati da una parvenza di solidarietà.
Si sarebbe fidato solo di una persona, se lo avesse fissato in quel modo. Solo di lei, perché non lo avrebbe mai tradito. Gli altri erano tutti potenziali nemici. Tutti.
Non aveva intenzione di guardare i dati contenuti nei fascicoli, anzi lo avrebbero ostacolato, ma non voleva nemmeno esibire immodestamente che li aveva già memorizzati tutti. Probabilmente gli osservatori già sapevano della sua memoria, ma quello non significava doverne dare sfoggio imprudentemente.
Iniziò a controllare in silenzio i contatori che aveva già verificato, guadagnando tempo prezioso per Ofelia. Ogni tanto dava un’occhiata dietro di sé per accertarsi che nessuno si avvicinasse più del dovuto, non temendo tanto per la sua incolumità quanto per quella di chi aveva alle spalle. Oltre al collaboratore anziano e alla sua inutile guida, c’era un’altra dozzina di osservatori stipati in quell’ambiente stretto e già di per sé caldo. Aggiungere il calore di altri quindici corpi a quella stanza andava contro ogni buonsenso, ma non sarebbe stato lui a cacciarli.
Ovviamente i dati non combaciavano, ovviamente lui aveva già esaminato e individuato le discrepanze, ovviamente stava solo prendendo tempo. Quando finalmente il momento arrivò, il suo orologio da taschino si aprì e si chiuse nella sua tasca.
- Ho bisogno di un’interruzione di correte. Devo verificare una cosa – ordinò, cercando di non lasciar trapelare l’urgenza.
Le sue dita si strinsero con più forza del dovuto sul quadrante del suo orologio, mentre la sua guida obbediva.
- A cosa vi serve un’interruzione di corrente? – gli chiese laconicamente l’osservatore anziano, facendo cenno alla ragazza di fermarsi.
Incerta se eseguire un ordine o l’altro, la giovane rimase immobile, in attesa di istruzioni.
- Interrompete la corrente – scandì Thorn, con un tono che non ammetteva repliche.
Fortunatamente la ragazza gli diede ascolto, e Thorn soffocò dentro di sé un sospiro. Ora si trattava di temporeggiare per permettere ad Ofelia, sperando che fosse arrivata al luogo previsto senza intoppi, di infiltrarsi nel laboratorio.
Immerso nel buio, Thorn tirò fuori dalla tasca una scatola di fiammiferi, che accese uno dopo l’altro per riuscire a consultare nuovamente i contatori. Li spegneva proprio un attimo prima che arrivassero a bruciargli le dita, contando automaticamente i secondi che gli mancavano prima di poter riattivare la corrente.
- Sir Henry – lo incalzò il collaboratore, nemmeno troppo amichevolmente.
Thorn era riuscito a togliere l’elettricità per quarantacinque secondi più del previsto. Sperò che bastasse per Ofelia.
- Riaccendete pure – ordinò.
- Volete spiegarmi cosa sta succedendo? – gli chiese il collaboratore, senza nascondere il disappunto.
Thorn diede un’altra occhiata ai contatori prima di richiuderli con uno scatto sonoro, pulirsi le mani ricoperte di polvere su un fazzoletto e poi prendere il disinfettante. Ebbe anche il tempo di prendere l’orologio da taschino mentre spiegava al collaboratore il perché delle sue azioni.
- Le letture sono tutte irrimediabilmente errate. Ciò che è stato comunicato, trascritto ed elaborato non combacia con il vero consumo di elettricità necessaria a mandare avanti questo osservatorio. Ho notato anche lo sfarfallio delle luci, e pensando che dei cali di tensione nella corrente potessero aver sfalsato i valori dei contatori ho chiesto di staccare e riattaccare l’elettricità. I risultati sono rimasti immutati. La ragione è una sola. C’è una sezione, qui all’osservatorio, che assorbe più energia del previsto. Una sezione probabilmente nascosta dal momento che la quadra non c’è nei vari pagamenti e calcoli. La vera domanda, quindi, è cosa state nascondendo ai nostri esimi Lord di LUX, che sovvenzionano questo posto. Cosa dovrei scrivere nel mio rapporto, circa questa incresciosa dispersione di elettricità?
Thorn ottenne solo silenzio.
Per un minuto.
- Allora? – incalzò. – Nessuno che ne abbia una vaga idea?
Sembrava davvero che nessuno lo sapesse. O che nessuno volesse dirglielo.
Stava per porre un’altra domanda quando accadde l’impensabile.
Non si accorse del movimento improvviso all’angolo della porta da qui erano entrati tutti e quindici i presenti in quella stanza. Non si accorse nemmeno che erano diventati sedici.
Riuscì solo a cogliere un bagliore metallico sfrecciare verso di lui, un bagliore che aveva già visto altre volte nella penombra. Un luccichio che poteva benissimo essere ricondotto ad una pistola. Le armi erano vietate a Babel, la parola stessa era un taboo, ma cosa impediva a quei collaboratori che scavalcavano le regole e rispondevano solo a direttori invisibili di tenerne una nascosta nella piega della tunica?
Il suo sistema nervoso scattò prima di lui, sempre pronto ad entrare in azione, sempre disgustosamente voglioso di combattere.
Quando Thorn si rese conto che la figura che gli si era avvicinata era più piccola della media (persino più di Ofelia, registrò automaticamente), che aveva lunghi capelli e che il bagliore che emanava dal suo viso era quello di una catenella dorata e non di un’arma, era troppo tardi.
Seconda gli premette con forza un disegno contro il petto mentre un artiglio di Thorn scattava verso di lei. Verso il suo viso.
I loro occhi si incontrarono, spalancati allo stesso modo, consapevoli. Impotenti.
Il sangue schizzò ovunque.
 
Un secondo. Due. Tre. Diciotto.
Thorn era consapevole solo di quelli, dello scorrere del tempo che gli scivolava addosso come se lui non facesse parte della trama del mondo. Come se la vita lo avesse abbandonato.
Vedeva i collaboratori affannarsi accanto al corpo della figlia di Lady Septima. Notava le loro bocche che si muovevano, ma non udiva nulla. Vedeva i gesti che compivano, ma non li capiva.
Sentiva solo il sangue, il sangue della bambina, filtrare nel tessuto dell’uniforme e bagnargli la pelle. Sentì lo stomaco ribollirgli e un conato risalirgli lungo l’esofago, ma lo trattenne e lo soffocò. Gli artigli sembravano beffardamente ricettivi invece, come un animale preso dalla frenesia dopo aver fiutato la preda.
Lo disgustavano. Si disgustava. Era lui che aveva causato quell’incidente, non loro. Lui.
Un carnefice.
Nessuno gli prestò più molta attenzione mentre due collaboratori sollevavano la bambina e la portavano in fretta fuori da lì. Aveva il volto coperto di sangue, che rendeva difficile capire quanto grave fosse la ferita. Di colpo ritornò presente a se stesso, e si rese conto che la sua guida era di fianco a lui e lo guardava serenamente, come se non lo considerasse responsabile di quell’orrore.
- Che spiacevole incidente, sir. Ma non vi angosciate, voi non ne siete responsabile. Inoltre la bambina è viva, sono certa che si rimetterà presto. Volete continuare con l’ispezione?
Il tono accondiscendente di quella ragazza lo fece infuriare. Aveva appena sfigurato un’innocente nel migliore dei casi, e uccisa nel peggiore, per non parlare di tutti i danni collaterali che sarebbero potuti derivare da quell’artigliata, e lei si comportava come se niente fosse?
Thorn era talmente irritato che non volle nemmeno incrociare per sbaglio il suo sguardo. Sapeva che in quel caso gli artigli sarebbero scattati, e avevano già fatto abbastanza danni per quel giorno.
- Sir Henry? – gli domandò nuovamente la ragazza, mentre anche un altro paio di collaboratori rivolgevano a loro l’attenzione.
- No. Devo accertarmi che stia bene – rispose meccanicamente, con una voce che non sentiva nemmeno come propria.
Un angolo della sua mente registrò di avere ancora in mano il disegno che Seconda gli aveva premuto contro il ventre prima di essere colpita, il disegno per il quale era stata menomata. Ma non aveva abbastanza forza per fermarsi e guardarlo. Senza aspettare la ragazza, si incamminò nel corridoio per ripercorrere la strada a ritroso. Contava i propri passi e contava i secondi, contava e ricontava per cercare di mettere ordine nei propri pensieri. Non avrebbe dato ad Ofelia l’interruzione di corrente che le serviva, si rese conto quando era ormai troppo tardi per tornare indietro.
Strinse i pugni, stropicciando il foglio che teneva tra le dita. Sfigurava una bambina e rischiava di far catturare sua moglie. La misura della sua inettitudine non era un dato calcolabile. Era una vergogna, non valeva nulla, la sua intera esistenza era un errore.
Si disgustava.
Accantonò ogni altro insulto verso se stesso quando emerse dalla porta d’entrata del lungo corridoio. La luce forte e opprimente del sole lo fece sentire ancora peggio, come un occhio di bue puntato sul protagonista di un dramma teatrale. Puntato sul colpevole. Dei collaboratori, due nuovi, che si erano dati il cambio con gli altri, stavano portando via Seconda in braccio. Thorn li seguì a distanza, e non si rese nemmeno conto degli sguardi che gli altri osservatori gli lanciavano, o del tentativo di alcuni di fermarlo per parlargli. Non si accorse che la sua guida gli era sempre vicino, sempre tra i piedi, sempre sgradita e sempre in pericolo.
Seconda fu caricata su una barella quando arrivò un infermiere, o forse un’infermiera, allertata da un collaboratore che era corso a dare l’allarme.
Thorn continuò a seguire le rotelle della barella a distanza, contando, cercando di non pensare, pensando troppo, correndo con la mente ad Ofelia e al tempo stesso non dandole abbastanza considerazione, sospeso nel nulla. I suoi piedi lo portarono fuori dall’infermeria del programma alternativo, ma lui non era consapevole del percorso intrapreso, nonostante lo conoscesse bene.
Nessuno lo degnò di uno sguardo, ma del resto non c’era nessuno che potesse guardarlo. Il dottore che aveva aperto la porta all’infermiere, o infermiera, era scomparso dentro la stanzetta con la barella di Seconda, gli altri collaboratori erano tornati alle loro mansioni da un pezzo.
Fermo nella piccola saletta d’attesa, solo, si chiese per un attimo se non si fosse inventato tutto, o se quella situazione non fosse in realtà che un ricordo della madre, un vecchio ricordo che era affiorato inavvertitamente.
Poi però sentì l’uniforme zuppa, sentì la carta tra le dita, percepì la presenza della ragazza che gli era stata appioppata e si vergognò di aver anche solo pensato di essersi immaginato tutto. Non poteva indulgere in simili illusioni, non poteva scappare dalla gravità del gesto che aveva compiuto.
Digrignò i denti. Non se lo sarebbe permesso.
Si sedette su una sedia, isolata dalle altre, rigido, e fissò il pavimento con le spalle al muro. Tenne l’intero ambiente nel suo campo visivo.
La sua guida parve esitare. Gli disse qualcosa circa un pasto saltato e l’orario della mensa, ma Thorn non le diede risposta. Non l’ascoltò nemmeno. Alla fine se ne andò, ma Thorn non poté nemmeno gioire per quella liberazione. Non se ne parlava di gioire, non in quel momento.
Attese, secondo dopo secondo, che qualcosa cambiasse, che gli venisse comunicata una qualunque notizia, ma niente.
In un angolo ronzava un vecchio automa addetto alla manutenzione che stava compiendo gesti imprecisati, probabilmente riparazioni di qualche tipo, si augurava, alle sedie della sala d’attesa. Si erano ignorati a vicenda fino a quel momento, finché l’automa non inciampò quasi sulle sue lunghe gambe. Invece di profondersi in scuse del tutto superflue, dato che non sapeva nemmeno cosa fosse una scusa, iniziò a sciorinare proverbi fastidiosi e incoerenti che irritarono Thorn. Lazarus doveva aver pensato che fosse una buna idea quella di farli parlare a ruota libera, forse per non far sentire a disagio chi li circondava. Non si era reso conto di quanto fosse invece fuori luogo una peculiarità del genere?
Thorn si adombrò ancora di più, cercando di escludere l’automa e i suoi sproloqui dalle sue percezioni uditive, per quanto possibile.
Era quasi riuscito ad ignorarlo quando disse una cosa insensata, ovviamente, che però catturò la sua attenzione: - CI SONO PERSONE CHE LA GENTE CREDE MORTE E CHE NON LO SONO.
Thorn aggrottò le sopracciglia e rifletté su quelle parole. Nemmeno lui avrebbe saputo dirne il motivo, ma quella frase si sedimentò nel suo cervello.
Prima che l’automa potesse dirgli altro, sorprendendo persino se stesso, Thorn gli chiese: - Cosa intendente dire? Chi è morto ma non lo è? Dove avete sentito dire una cosa simile?
L’automa senza volto si girò verso di lui, fermandosi nel bel mezzo della sua… azione, qualunque fosse il suo compito. Per un attimo Thorn pensò che fosse capace di intendere e di volere, e che stesse per dargli un’informazione fondamentale.
- ECCO LA RICETTA PER UN CAVIALE DI MELANZANA PERFETTA. PER PRIMA COSA…
Thorn smise di ascoltarlo nel momento stesso in cui cominciò a elencare gli ingredienti necessari a cucinare quel… caviale di melanzane. Soprassedé anche sull’errore sintattico di quantità, dato che la parola “perfetta” era riferito al caviale di melanzana, che era maschile. Capiva che fosse voluto per fare rima, ma era grammaticalmente errato, a meno che l’automa non avesse voluto dire che la melanzana in sé era perfetta. Cercò di glissare su quella questione del tutto irrilevante, maledicendosi anche per la facilità con cui la sua mente iperattiva si concentrava su quisquilie prive di interesse, tornando alla frase che lo aveva colpito.
Ci sono persone che la gente crede morte e che non lo sono.
Thorn sapeva che Lazarus aveva affibbiato ai suoi automi una capacità approssimativa di registrare frasi e parole per poi ripeterle, modificandole leggermente. Era meccanicamente impossibile dotarli di un bagaglio proverbiale tale da far loro reiterare per un tempo prolungato una quantità illimitata di concetti. Quindi registravano, elaboravano e ripetevano, all’infinito. Quell’automa aveva vissuto sempre all’osservatorio, con una probabilità del settantanove percento. Ed era un vecchio modello.
Da chi aveva sentito quella frase?
La mente di Thorn si scisse. Tre quarti del suo cervello continuarono a tormentarlo, e tormentarsi, per ciò che aveva inflitto a Seconda, punendolo, facendolo sprofondare in un oblio dal quale non meritava di risalire; rammentandogli che era un mostro, un’aberrazione, un errore, una calamità. Un quarto invece si arrovellò su quella frase.
Poco a poco emerse dal suo archivio mnemonico un’altra frase, simile ma antitetica, pronunciata da Ofelia. Gli aveva detto che chi era sottoposto al terzo protocollo non ne tornava più indietro.
Persone credute morte… che non erano morte.
Il suo cervello cominciò a lavorare febbrilmente. Senza rendersene conto incrociò le dita delle mani e appoggiò i gomiti sulle gambe, riflettendo. Aveva ancora il disegno stretto tra le dita.
Le persone morte venivano seppellite. Anche quelle credute morte, seppur vive, dovevano essere seppellite, proprio in virtù del loro essere credute morte.
Morte. Funerale. Cimitero.
Colombario.
Thorn sapeva che lo scorrere del tempo era immutabile, che non accelerava o rallentava in base ai capricci delle persone; anzi, lo infastidivano coloro che sostenevano che il tempo scorreva più in fretta quando facevano qualcosa di dilettevole o, al contrario, che sembrava non passare mai quando si annoiavano. Quelle erano mere percezioni distorte, che nessuno avrebbe dovuto esprimere ad alta voce. Un secondo durava un secondo, un minuto durava un minuto, sempre, era immutabile.
In quel momento, però, si chiese se la realtà fosse stata alterata. Erano trascorsi duemiladuecentoventiquattro secondi da quando Seconda era entrata in infermeria, li aveva contati, li aveva sentiti scandire dentro di sé, ma non gli sembravano effettivi. Ne sembravano trascorsi il triplo.
Si alzò di scatto quando capì qual era la sua (la loro) prossima mossa. Il suo corpo protestò dolorosamente, sia per via della lunga camminata che a causa della postura rigida a lungo mantenuta. Non gli importava. Un lamento da parte sua era l’ultima cosa che avrebbe ammesso. Doveva provare quel dolore, era necessario. Era una forma di espiazione. Era la sua colpa.
Il dottore che ne uscì, anche lui un osservatore, a giudicare dal suo abbigliamento e dagli occhialini scuri, lo degnò di una breve occhiata prima di dirigersi verso la sua guida, che a quanto pareva era tornata da… quello che era andata a fare.
Thorn fu sorpreso nel vedere non solo lei, ma anche altri due collaboratori seduti lì vicino, in attesa. Era stato così assorbito da se stesso da non rendersi conto di cosa gli accadeva attorno. Un errore imperdonabile, dato che gli artigli avrebbero potuto mietere ulteriori vittime approfittando della sua distrazione. Un altro errore da aggiungere a quelli commessi quella giornata.
Seconda. L’abbandono di Ofelia a se stessa, priva di aiuto da parte sua. La mancanza di attenzione all’ambiente circostante. Non aveva senso allargare il campo visivo e stare con le spalle al muro, per poter tenere d’occhio tutto, se poi non era consapevole di cosa succedeva attorno a lui.
Un altro sbaglio inqualificabile da aggiungere a quelli della sua vita.
In primis, la sua nascita.
Il dottore conferì a bassa voce con i tre collaboratori, riportando poche parole laconiche. I tre, dal canto loro, non manifestarono la benché minima espressione, e i due uomini se ne andarono quando il dottore ebbe finito di riferire le condizioni di Seconda. Thorn aveva sentito in parte quelle poche frasi, ma aveva colto il succo del discorso: Seconda era viva.
Viva, ma marchiata per il resto della vita. Sfregiata. Rovinata. Deturpata.
Lui ne portava cinquantasei di quelle cicatrici, di cui tre in pieno viso. Condivideva con lei il dolore che aveva provato quando gli erano state inferte, l’orrore di doverle guardare, i ricordi ad esse connessi. E l’odio per chi gliele aveva inferte.
Ed era lui ad aver marchiato Seconda.
Da vittima a carnefice. Non provava piacere nell’indossare i panni di nessuno dei due, ma avrebbe preferito essere un innocente che un violento.
Non avendo più nulla da fare in quel luogo, si avviò verso il corridoio. Sapeva che non gli avrebbero mai permesso di vedere Seconda. Si fermò poco prima di arrivare accanto alla ragazza che lo stava aspettando, però, e osservò il disegno che la bambina gli aveva voluto far avere al costo della sua incolumità.
Thorn aggrottò le sopracciglia. Non era una persona fantasiosa, si basava su fatti e numeri. L’immaginazione non era il suo forte, presupponeva il calcolo di troppe probabilità, casistiche e variabili per essere considerata una scienza. Non si era nemmeno creato un’idea di come Ofelia avrebbe potuto essere, quando sua zia gli aveva annunciato di aver trovato la fidanzata ideale. La fisionomia di Ofelia non era deducibile dal nome, e sarebbe stato impossibile farsi un’immagine precisa di come fosse anche se gli avessero fornito dettagli particolareggiati del suo volto e delle sue proporzioni.
Immaginare era una perdita di tempo. La realtà era la realtà, non era deducibile in base a speculazioni cerebrali basate su fatti aleatori.
Quindi non aveva pensato a cosa Seconda avesse disegnato. O scritto. E non avrebbe perso tempo nemmeno a cercare di interpretare quello scarabocchio infantile.
L’unica cosa che capiva era che nel disegno era rappresentato un coniglio che saltava fuori da un pozzo.
E che quel coniglio era rosso sangue. Quest’ultima non era che una congettura. Forse la bambina aveva usato una matita rossa senza una motivazione precisa (chi li capiva i bambini?), oppure rappresentava qualcos’altro. Thorn strinse le dita che tenevano il disegno.
Poteva formulare almeno centosessantasette teorie circa il significato della matita rossa, ma per una volta non gli sarebbe servito, perché il senso di quel rosso era uno solo.
Sangue.
Sangue, sangue sangue. Violenza. Dolore. Malvagità.
Lui.
Si incamminò nel corridoio senza voltarsi indietro.
 
Arrivò di fronte agli appartamenti direttoriali con la mente offuscata, inconsapevole di come ci fosse giunto, lui che era così ricettivo e operava su più fronti (contava i secondi, contava i gradini, contava i passi, pensava a quattro cose diverse e parlava della quinta). Ad aggravare la situazione c’era la consapevolezza di aver impiegato più di cinquemilaquattrocentotrentatrè secondi per andare dall’infermeria alla porta di legno scuro, un tempo decisamente non breve. Un’assenza mentale così lunga era deplorevole.
Sentiva come… un’implosione dentro di lui, qualcosa di indefinito che premeva per uscire. Faceva male. Faceva più male delle sue emicranie costanti, più del dolore alle articolazioni, più di quello che aveva provato quando gli avevano rotto la gamba, di quando lo avevano pestato a sangue, in diversi occasioni. Più di quanto Godefroy, Freya, padre Vladimir e il resto della sua famiglia lo avevano sfregiato.
Era peggio in maniera esponenziale e Thorn sapeva che, per quanto potesse sembrare un’esagerazione, non lo era. Perché lui quantificava alla perfezione, e attribuiva ad ogni cosa il giusto peso.
E quel peso, quello, era insopportabile.
Stringeva ancora in mano il disegno di Seconda. Si sentiva prudere dappertutto, un po’ per il contatto della sua pelle con il sangue di un altro essere umano, un po’ per il bisogno viscerale di disinfettarsi, di ripulirsi, di togliersi dalle mani quella lordura che era la sua stessa essenza. Ma non sarebbe bastata nemmeno la candeggina a purificarlo.
Era un essere immondo, e lo sarebbe sempre stato. Forse, capì, era per quello che non era mai stato veramente amato da nessuno: perché lui, più di tutti al mondo, meritava di soffrire per ciò che era. C’era una solo eccezione a quella regola, un’eccezione a cui non voleva pensare, per quanto potesse essere in pericolo a causa sua in quel momento, e si detestò anche per quello. Perché pensando a lei si sarebbe sentito ancora più inadeguato, più sbagliato, più rotto e inguaribile.
Lei un giorno si sarebbe accorta di che mostro era lui realmente.
Se ne sarebbe andata senza guardarsi indietro, come tutti. Come sua madre.
E lui se lo sarebbe meritato.
Non meritava che abbandono.
Thorn rimase fermo di fronte alla porta d’ebano, con le spalle al muro, cercando di abbracciare l’intero ambiente con lo sguardo e al tempo stesso di non guardarsi nelle superfici riflettenti. Era stato assente, sì, ma non tanto sbadato da non far caso alle persone che incrociavano il suo cammino. Se lo avesse fatto ci sarebbero state altre vittime, una cosa che non avrebbe mai tollerato, ancor meno in quel momento.
Solo allora si rese conto che la sua guida non accennava ad andarsene. Lo accompagnava spesso fino alla porta degli appartamenti, ma poi si congedava con deferenza lasciandolo a sbrigare le sue faccende, che secondo lei erano colloqui con i direttori, mentre per lui erano tutt’altro.
Non erano passate nemmeno ventiquattro ore da quando era stato dall’altra parte di quella porta con Ofelia, sentendosi così… completo, appagato…
Così accettabile. Amabile, persino. Per due secondi si era addirittura sentito desiderabile, quando Ofelia lo aveva guardato con intensità prima di chiudere gli occhi e gemere, la testa reclinata all’indietro.
Il suo corpo non reagì a quel pensiero… disgustoso. Rimase immobile, orripilato da se stesso. Ofelia non doveva guardarlo in quel modo, o... provare quello che provava e… no.
Quel turbine di dolore psicofisico lo pervase a ondate, facendole sentire quasi estraneo al suo corpo e al contempo estremamente pesante, radicato a terra. E bisognoso di stare da solo.
- Aspetterò da solo.
- Mi permettete di tenervi compagnia, sir? – chiese la ragazza, cogliendo l’occasione per rivolgergli la parola. - I direttori sono sempre extremely occupati. Io stessa non li ho ancora mai visti. So che ci tenete a far loro il vostro rapporto stasera, ma forse dovrete aspettare un bel po’.
Aspettare era quello che voleva. Aspettare. Da solo. In silenzio.
La sua voce insolitamente stridula lo infastidiva. E il fatto che lei non volesse allontanarsi, che non lo temesse, gli dava ancora più fastidio. Donna arrivista e superficiale, ammaliata da una doratura su una divisa.
- Aspetterò da solo – si sentì ripetere nuovamente, stupito di come la sua voce risuonasse vuota. Ma non era vuoto anche il corpo che pronunciava quelle parole, alla fine?
- Forse… forse dovreste cambiarvi, sir. Posso portare l’uniforme alla nostra lavanderia se… well, se me la date.
Thorn non la degnò di uno sguardo e continuò a fissare la porta, senza vederla. Sapeva che la ragazza aveva in mano i documenti relativi alle letture dei contatori, che in qualche modo gli aveva preso. Con un minuscolo brandello di pensiero si chiese come quella giovane potesse pensare di reggere sia i suoi vestiti che i documenti. Poi si domandò perché avrebbe dovuto darle la propria uniforme, e in che modo. Si interrogò se fosse una trappola, ma era un’elucubrazione così remota e sepolta nella sua coscienza che non ci badò neanche.
E nemmeno rispose.
- A proposito di miss Seconda il dottore ha detto che la ferita era impressionante, ma non preoccupante.
Impressionante. Quella parola gli era sfuggita quando aveva sentito il resoconto del dottore. La parola impressionante talvolta aveva accezione positiva. In quel caso era il peggior aggettivo che avrebbero potuto scegliere. Anche le sue cicatrici erano impressionanti, e non avrebbe augurato a nessuno di essere come lui.
Impressionante significava inguaribile, marchiata a vita. Inevitabile. Spiccata. Deturpata.
- Non sarei autorizzata a dirvelo, sir, ma queste lenti nere che porto mi permettono di vedere certe cose. Malgrado le apparenze, non siete responsabile di quello che è successo. Miss Seconda non avrebbe dovuto lanciarsi su di voi in quel modo. Certe volte è così impulsiva con i suoi disegni! La colpa è sua. Poco importa chi siate stato in passato, now siete un Lord di LUX! I Lord di LUX sono intoccabili e non commetterò mai l’err…
- Aspetterò da solo.
L’ostilità nella sua voce quella volta non lo sorprese. Era inevitabile.
Non sapeva se a riempirlo di furia fossero state le parole leggere e noncuranti della ragazza, il loro significato profondamente sbagliato, che attribuiva ai Lord di LUX una deferenza che proprio non meritavano, il voler sminuire la sua gravissima e imperdonabile perdita di controllo, la sua insistenza e la sua vicinanza non richiesta e non gradita o l’aver addirittura fatto ricadere su una bambina la colpa della sua violenza. O forse, più di tutto fu il fatto che lei credeva che essere Lord di LUX fosse meglio di qualunque cosa fosse stato in passato. Non amava il Thorn intendente del Polo, ma ancora meno amava sir Henry, il Lord di LUX. Avrebbe preferito essere quello che era un tempo, forse, per quanto fosse comunque inaccettabile.
Quella ragazza doveva andarsene o i suoi… artigli mostruosi avrebbero mietuto un’altra vittima quel giorno. Non si sentiva più padrone del suo corpo, oltre che dei suoi pensieri.
- Buonanotte, sir – si congedò finalmente la ragazza.
Rimase solo. Lo squillo e il meccanismo dell’ascensore in funzione furono i suoni più sollevanti che avesse mai sentito. Era solo. Come meritava. Solo per… per implodere. O esplodere.
Si sbagliava. Aveva sentito un fruscio che aveva deciso di ignorare, ma il rumore attutito di passi nudi sul pavimento lo costrinsero a voltarsi appena per individuare chi si stesse avvicinando.
Lei. L’unica persona che non voleva vedere. L’unica di cui aveva bisogno in quel momento.
Era uscita da dietro la tenda che nascondeva l’entrata che avevano percorso insieme il giorno prima. Aveva sentito. Sapeva.
La guardò con impassibilità, e fu sorpreso di non vedere la stessa maschera di contrarietà sul suo volto. Gli pareva di aver scorto un’ombra di… determinazione, forse, appena l’aveva guardata. O era…? Qualsiasi cosa fosse non era rivolta a lui, e non era nemmeno positiva. Poi i suoi occhi erano diventati apprensivi.
Ofelia era stanca. Lo si leggeva dal linguaggio del suo corpo. Aveva sempre i piedi scalzi, che dovevano dolerle indicibilmente visto quanto aveva camminato in quei giorni, sui terreni più impervi. Sembrava aver in qualche modo bisogno di conforto per non crollare, ma nel modo in cui incedeva verso di lui la vide prendere confidenza e diventare lei stessa portatrice di forza.
E non c’era l’ombra di un’accusa nei suoi occhi, né di rimpianto, di odio, di delusione, di disillusione. Non sembrava nemmeno spaventata, solo cauta, come di fronte ad un animale selvatico. O ad un mostro. In procinto di divorare qualcuno.
Ma non intimorita. Non ripugnata.
Poi, mentre lo scrutava, il suo sguardo si fece sconvolto. Sconvolto per lui, non per quello che aveva fatto.
Nonostante tutto lei era preoccupata per lui.
- Tutto ciò per un disegno – le disse come spiegazione.
Solo che non era una spiegazione. Era una richiesta. Era il tentativo di capire perché fosse successo tutto quello che era successo, tutto quel sangue, quel dolore, per un disegno. Un disegno! Di una bambina!
Le gambe gli cedettero. Thorn si sentì attratto dal basso, dal pavimento, da una qualsiasi superficie su cui potesse accartocciare quel corpo maledetto e deforme che si ritrovava, quelle ossa sottili e appuntite. Si sentiva pesante. Si sentiva disastrosamente sbagliato e incapace di compiere qualcosa di buono, di giusto.
Si sentiva solo.
Forse fu per quello che si aggrappò ad Ofelia quando le sue ginocchia toccarono terra con uno scricchiolio macabro mischiato al rumore infernale dell’armatura che cedeva. Per quello, o magari per tenere Ofelia lontana, invece che vicina, perché era giusto che lui stesse solo, era l’unica cosa che avrebbe potuto preservare gli altri da lui. Preservare anche lei.
Eppure aveva bisogno di un contatto. Di avere la certezza che lei c’era.
Egoista. Meschino.
Rischiò di far perdere l’equilibrio pure a lei, di farla cadere. Goffa com’era, aggrapparsi a Ofelia non era certo una mossa intelligente, ma la sua ragione era andata, sepolta sotto quella marea di dolore e risentimento che stava risalendo lungo il suo intestino, gli bruciava lo stomaco, gli accelerava il battito cardiaco e si era insinuato nella sua gola, bloccandogli il respiro.
Continuò a piegarsi, sentendosi sempre più pesante, incapace di sostenersi, reggendosi a lei, che non meritava di essere trascinata a fondo con lui. Che non si meritava di essere sposata con uno come lui. Che sapeva di cosa era capace e non scappava, non fuggiva, non si allontanava.
Perché?
Era consapevole della sua pericolosità e della sua mancanza di controllo. Si era vergognato quando glielo aveva rivelato, ma aveva dovuto farlo. Perché allora rimaneva lì? Non era una donna stupida, non amava i rischi inutili. Non era masochista. Perché, allora, non se ne andava?
E perché lui sentiva che si sarebbe definitivamente spezzato se lei lo avesse fatto?
Chiuso nel suo dolore, Thorn si rese conto solo delle braccia di Ofelia, come uno spiraglio di luce in fondo ad un tunnel buio. Lo stava abbracciando. Lo stava abbracciando con forza, premendosi contro di lui, cercando di sostenerlo. Imponendosi a lui, imponendo la sua presenza.
Non lo lasciò andare nemmeno per un istante.
Poi lo sentì.
Era come una puntura, un contatto estraneo direttamente nel suo midollo spinale. Non era doloroso, era solo insolito. Sconosciuto. Thorn si irrigidì involontariamente, perché i suoi nervi erano a pezzi e cercavano di difendersi da quell’intrusione. Trasalì, le sue spalle si tesero facendogli male più per la tensione della posizione che per quello che Ofelia stava facendo.
Perché veniva da Ofelia quel contatto.
E poi non sentì più nulla. Nessun dolore fisico, nessun mal di testa, nessuna botta, nessuna stanchezza, delusione, tristezza. Sembrava che Ofelia gli avesse fatto scorrere acqua fresca nelle vene, lenitiva, un balsamo per i nervi. Una medicina miracolosa.
Sentì i suoi artigli entrare in contatto con quelli di lei, i suoi refrattari e acuminati, indocili e violenti, quelli di Ofelia incerti, sfasati, come dei cuccioli non stabili sulle zampe, ma determinati.
Si mescolarono, come si erano mescolati anche loro due. Si toccarono, e con grande sorpresa di Thorn si placarono. Si annullarono. Si addomesticarono.
Il suo intero corpo, dal collo alle spalle, busto, gambe e persino le caviglie si rilassarono, come se le ossa si fossero polverizzate e lui fosse diventato una bambola inerte nelle mani di qualcun altro. Un burattino.
Non credeva che il potere congiunto degli artigli potesse avere un tale effetto. Sembrava quasi un curativo, un massaggio. Si poteva pensare che fossero mitigativi, sedativi, benefici.
Si crogiolò per un istante infinitesimale in quella sensazione, conscio di essersi legato a Ofelia in modo ancora più profondo di quando si erano uniti fisicamente. Quella congiunzione non era materiale, era molto più intima. Era viscerale, sanguigna.
E Ofelia non se n’era andata. Ofelia gli stava dando conforto senza parole, senza quelle parole che sarebbero state superflue, sgradite, fuori luogo. Come sempre, contrariamente ad ogni calcolo e statistica, come sempre, gli stava dando quello di cui aveva bisogno senza nemmeno che lui si rendesse conto di cosa fosse.
Come sempre, era ancora lì con lui. Consapevole di chi era lui. E, forse, proprio perché lo era.
Il fuoco che aveva in gola fuoriuscì senza ritegno, sotto forma di lacrime. Con la testa posata contro il ventre di Ofelia, che ancora lo teneva stretto, cullandolo come un bambino, custodendolo come nessuno aveva mai fatto, pianse. Riversò fuori ogni pensiero, emozione, sentimento buono o cattivo, brandello di dolore e ricordo acuminato, inzuppando la tunica di Ofelia, stanco, spossato, desolato e arido. Pianse tutto ciò che aveva senza emettere un suono, buttando solo via tutta l’amarezza, mentre pensava a due cose.
La prima era che, chissà come e chissà perché, nella sua vita anaffettiva e desertica, nella sua solitudine primigenia, aveva trovato una persona, una donna disposta ad amarlo con tutto quello che aveva. A consolarlo nei momenti più difficili senza tirarsi indietro, a stargli accanto nel suo peggio, senza essere impietosita o spaventata. Ofelia gli era stata scelta come sposa, unita a lui con un legame che avrebbe dovuto essere indissolubile, il matrimonio, e che aveva visto dentro di lui qualcosa che nessun altro aveva scorto e che lui stesso dubitava esistesse, ma che era abbastanza buono da indurla a restare.
Ofelia amava tutto ciò che era, e lui non lo meritava. Non glielo avrebbe, però, mai fatto notare, perché avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di continuare a tenersela accanto.
La seconda era che, per quanto Ofelia potesse amarlo, questo non cambiava la sua natura, forse irrimediabilmente corrotta dall’odio del passato. Si sentiva incapace di essere una persona migliore. Seconda era ancora rovinata, a vita, e lui aveva rischiato di ucciderla. Chiunque avesse scelto di stargli accanto si sarebbe ferito.
Mentre queste due correnti gli dilaniavano la mente, in contrasto tra di loro, Thorn continuò a sorreggersi a Ofelia, stringendo le dita sulle sue esili spalle nel tentativo ora di allontanarla, ora di avvicinarla. Spalle esili, sì, ma che erano più forti delle sue e di quelle di chiunque altro.
E continuò a piangere finché credette di non avere più liquidi in corpo.
A quel punto si ritrovò, relitto di se stesso, talmente accartocciato da non capire più in che posizione fosse. L’unica cosa di cui era consapevole era Ofelia, che si era inginocchiata di fronte a lui e continuava ad abbracciarlo, accarezzandogli la schiena e i capelli con dita leggere, piccole e sottili, eppure sicure di ciò che facevano.
E per un istante, anche se si maledisse per quella codardia e quel desiderio di rifuggire le conseguenze delle sue azioni, Thorn chiuse gli occhi e non pensò a nulla, godendosi in silenzio il suono del respiro di Ofelia contro le orecchie. Non sentiva più l’odio contro se stesso ribollirgli nelle vene. Non udiva più il ruggito degli artigli nei timpani. Non provava più dolore.
Tornò per un istante ai pensieri di quella mattina, quando aveva cercato di dare un nome, una definizione, all’odore di Ofelia. Non era odore di casa, ma di ricordi, di polvere e di libri vecchi. Di memorie che non erano mai state sue, ma avrebbero potuto esserlo. L’odore di chi gli aveva dato un futuro.
Stretto tra le braccia di Ofelia, si concesse di tornare per un momento il bambino che non era mai stato, rassicurato dalle braccia materne, consapevole di essere diventato fondamentale per qualcuno. Consapevole che, comunque fossero andate le cose, ci sarebbe stata Ofelia al suo fianco, pronta ad elargirgli un amore che gli era sempre stato negato.
 
Ma fu solo un attimo.
Il secondo dopo si riscosse, scostandosi lentamente ma risolutamente.
Tornando ad odiarsi.
 
Anche un po’ di più.

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Capitolo 20
*** Insieme ***


Urgono spiegazioni!! Innanzitutto mi dispiace, SaphiraLupin, per il ritardo di due giorni :( Dovevo pubblicare ieri ma dopo aver corretto mezzo capitolo si è spento tutto, pensavo che non avesse salvato le modifiche e mi è venuto il nervoso, quindi ho mandato a quel paese tutto. Invece aveva salvato e... va be', meglio così.
Poi, il capitolo è sostanzialmente una richiesta di SoffioDiNuvola, che aveva chiesto del naufragio e della conversazione che ne era seguita. Ora, il mio intento era quello, in origine, di descrivere la nostra adorata scena nell'erba alta, ma in effetti volevo anche fare questa scena del naufragio. Volevo dedicargli qualcosa come due pagine... ne ho scritte 15. Come al solito. Quindi farò capitoli diversi MA non mi sembra giusto aver accontentare SoffioDiNuvola (grazie ancora per la richiesta^^) e non la mia carissima Sofy_m che mi aveva chiesto la scena di quando Thorn è ferito all'intendenza e fa tutte le concessioni che Ofelia vuole (torniamo al libro 2 signori*-*) QUINDI (amo scrivere le congiunzioni in grande e inserire le parentesi xD sorry) il prossimo capitolo sarà il suo. E quello dopo ancora sarà 'sta benedetta erba alta.
Spero di essere stata chiara, se ho dimenticato qualche commissione scusatemi, ricordatemela e perdonatemi, per favore♥
L’Attraversaspecchi IV, Echi in tempesta, Il rinnegamento, Il dirigibile e Alla deriva, pagg. 352-360, 366-373 e 384-397.


20. Ensemble

Seicentocinquantanove minuti e trentadue secondi erano passati da quando Thorn si era lasciato con Ofelia, all’alba; quando erano tornati dalla loro ispezione al Colombario e la Buona Famiglia era crollata. Era rimasto a dir poco sorpreso quando aveva visto Ofelia sbucare da una scala sulla veranda su cui si trovavano (malauguratamente) lui, Lady Septima e il collaboratore che aveva dato uno schiaffo a sua moglie la prima volta che l’aveva vista all’osservatorio delle deviazioni. Il malessere derivante dall’essere accompagnato dalle peggiori persone possibili era evaporato quando aveva dato un’occhiata a Ofelia. Il loro appuntamento era fissato per quella notte, mancavano ancora diverse ore (trecentosessantotto minuti, almeno). Non aveva potuto fare a meno di irrigidirsi quando l’aveva vista, ma fortunatamente nessuno ci aveva fatto caso.
Ofelia sembrava diversa.
Al di là della pelle pulita (doveva aver avuto l’occasione di farsi una doccia probabilmente, anche se nel caos di quel giorno lui non ne aveva avuta l’opportunità), il suo viso era confuso. Sembrava che le fosse successo qualcosa.
E indossava gli occhiali e i guanti fasulli che aveva sostituito nell’ufficio dell’accoglienza. Il qualcosa che traspariva dal suo viso, però, una specie di sofferenza, gli aveva lasciato ben poco spazio per pensare a come dovesse sentirsi a disagio con quelle lenti inadatte a migliorare la sua miopia. E leggere guanti non isolanti come i suoi, da lettrice, doveva disorientarla non poco.
Thorn aveva sentito un’involontaria ondata di rabbia per tutta quella situazione, per quel luogo, per l’arca stessa. Per come avevano trattato sua moglie, per il modo in cui erano costretti a vedersi come fuggiaschi e delinquenti, godendo della reciproca compagnia per pochi attimi rubati e con il timore di essere costantemente scoperti. Non aveva capito quanto desiderasse una vita normale finché non aveva ritrovato Ofelia. E per quanto lei gli avesse detto di apprezzare il fatto che non fossero una coppia convenzionale, e lui avesse garantito che era così anche per lui, si era chiesto quanto in realtà Ofelia gli avesse dato quella risposta solo per accontentarlo.
Lei era l’ultima persona al mondo alla quale avrebbe augurato una vita simile. L’ultima al mondo che avrebbe voluto far impelagare in quella situazione ridicolmente assurda e sfuggente, fuori da qualsiasi schema di previsione o calcolo. Avrebbe dovuto saperlo, ormai, che probabilmente era Ofelia stessa ad attirarsi addosso quelle sciagure, ma non poteva fare a meno di desiderare che fosse diverso.
I ricordi del passato e di quello che stava facendo in quel momento continuavano a mescolarsi confusamente nel suo cervello, provocandogli delle fitte di emicrania difficilmente trascurabili.
Dopo che Ofelia era arrivata da loro, era comparsa anche Elizabeth, ed erano state entrambe cacciate dall’osservatorio. La seconda con l’accusa di spionaggio, mediante l’infrazione del principio di confino e la divulgazione di informazioni riservate per conto di LUX; la prima perché non era una cittadina babeliana e il suo permesso di soggiorno evidenziava che avrebbe dovuto essere espatriata come gli altri.
Prima che l’osservatore muovesse queste accuse, nel lasso di tempo tra l’arrivo di Ofelia ed Elizabeth e il loro ripudio (dodici minuti e due secondi), anche Thorn era stato congedato. L’osservatorio si era scisso, aveva rifiutato le sovvenzioni di LUX e aveva deciso di agire indipendentemente. Scelta saggia, forse, ma per lui era una complicazione.
Le tempistiche cronologiche si delineavano perfettamente nella sua mente mentre Lady Septima guidava lui, le ragazze e una moltitudine di cittadini, che avrebbe dovuto essere dichiarata illegale per stare in quell’aeronave minuscola, fino al centro città di Babel.
Qualcosa non gli tornava. Il disagio che provava quando c’erano delle variabili impazzite non calcolabili, nell’equazione, lo attraversava come un prurito. Andava ben oltre la preoccupazione per Ofelia. Con o senza di lui, era perfettamente in grado sia di badare a se stessa che di cacciarsi nei guai. Essere al suo fianco, però, aveva un effetto catartico, perché avrebbe potuto fare qualcosa in caso di bisogno. Non l’aveva forse già salvata ben più di una volta, e non solo da qualche caduta accidentale?
Era stata lei ad insegnargli che in due si agiva meglio che da soli. Come lui non avrebbe voluto nessun altro al di fuori di Ofelia al suo fianco, si augurava che per lei fosse lo stesso. E stava per convincersi che forse era proprio così. Anche un po’ di più.
La notte oscurò il mondo secondo dopo secondo. Se avesse avuto un po’ di fantasia o poesia nell’animo, Thorn avrebbe potuto pensare che fosse come un sipario che si chiudeva su un periodo della loro vita, o il preludio di ciò che li attendeva, una strada buia in cui avrebbero dovuto trovare le risposte a tentoni, o ancora, il presagio di ciò che forse sarebbe stato un futuro pieno di insidie. Invece era solo la notte, arrivata trentasette minuti dopo il loro decollo. Ofelia era inquieta. Avrebbe voluto alzarsi e avvicinarsi a lei per offrirle in qualche modo conforto, anche se non avrebbe saputo cosa dire o fare. Lei si muoveva e guardava ovunque, stando attenta a non soffermarsi troppo a scrutare lui per mantenere la copertura. Quando i loro sguardi si incrociavano, cercava di trasmetterle calma con gli occhi.
Non credeva di riuscirci molto bene. Non sapeva nemmeno come si facesse, a dire il vero.
Quando l’aeronave si fermò brevemente per far scendere i cittadini senza-poteri in un’insulsa arca minore del tutto inadatta a contenere un numero così elevato di abitanti, Thorn guardò Ofelia. Sapeva per certo che aveva un animo buono e proteso verso il prossimo. Ne ebbe la conferma quando vide lo sgomento e la rabbia sopiti sul suo volto. Si tramutarono subito in vergogna, però, e le sue palpebre si abbassarono come se non potesse reggere la visione di tutta quell’ingiustizia. Da un lato Thorn fu sollevato nel vederla così docile, perché se si fosse battuta per cambiare la situazione dei Babeliani avrebbe solo peggiorato la sua, ma al tempo stesso gli fece provare uno strano dolore in petto: se Ofelia, la sua moglie combattiva che quando agiva per quella che considerava una giusta causa se ne infischiava non solo delle leggi ma anche dei sentimenti altrui, chinava così la testa di fronte ad una cattiveria simile, significava solo che la sua paura superava il suo desiderio di combattere. E non era mai accaduto.
Aveva più voglia che mai di consolarla, rassicurarla circa il fatto che avesse fatto bene a non protestare, ma Ofelia non lo guardò. Fortunatamente. Non sapeva quanto delle loro false identità fosse trapelato, quanto avessero intuito che relazione li univa. Nell’ipotesi più rosea, quella con la percentuale di realizzazione più bassa, non avevano scoperto nulla, e loro dovevano mantenere la copertura. Nell’ipotesi peggiore sapevano tutto e aspettavano solo il momento propizio per smascherarli.
Sorvolarono il memoriale e giunsero nel centro-città di Babel, dove il dirigibile atterrò. Lady Septima fece scendere i figli di Polluce, comunicando loro che quella sarebbe stata la loro nuova dimora.
Certo. Quante volte aveva visto abusi di potere, corsie preferenziali, raccomandazioni e favoritismi in vita sua? I senza-poteri sacrificabili erano stati relegati su un’arca minore ad alta probabilità di crollo, mentre gli illustri figli di Polluce, diversi solo perché avevano avuto la fortuna di nascere con qualche potere, venivano fatti sistemare nel centro città, che doveva rappresentare una zona franca in quella devastazione.
Non c’erano zone franche, poveri illusi.
Solo quando i civili si furono allontanati nella nebbia fitta Lady Septima si rivolse a lui. O meglio, con la voce si rivolse a lui, ma non con gli occhi, con l’atteggiamento, con il comportamento. Non l’aveva mai considerato alla sua altezza. Non l’aveva quasi mai considerato neppure un essere umano, Thorn ne era quasi certo.
- Rimanete a bordo, sir, vi porterò io stessa dei Genealogisti, ma prima devo sbrigare un’ultima formalità. Voi due, con me!
Un filamento di pensiero lo indusse ad irrigidirsi di fronte alla prospettiva di incontrare nuovamente i Genealogisti, quella coppia dorata così ripugnante da poter essere annoverata nella rosa delle personalità che più gli avevano ispirato ribrezzo nella vita. Ma era un pensiero minimo, un’attenzione dalla percentuale bassissima. Tutta la sua mente era concentrata su Ofelia, sul tono imperioso di Lady Septima nei suoi confronti e su quello che le sarebbe accaduto.
- Che intendete fare di loro?
Il suo tono era distaccato. Non doveva far trapelare alcuna emozione. Non doveva tradirsi facendo capire quanto fosse importante Ofelia per lui.
Ma Lady Septima non lo considerò, e mai nella vita Thorn provò un fastidio più cocente nell’essere ignorato. Lady Septima si allontanò, tallonata da Elizabeth, fin troppo docile. Finalmente l’Ofelia che conosceva si palesò, e lei indietreggiò quasi istintivamente, senza nemmeno rendersene conto. Non erano nella migliore delle situazioni, ma in qualche modo fu sollevato nel constatare che le reazioni di Ofelia erano le stesse, che non l’avevano cambiata così radicalmente. Era un timore insensato, soprattutto visto tutto quello che stava accadendo, ma ne fu illogicamente alleggerito nell’animo.
Che cosa ridicola, inspiegabile e… rassicurante.
Le guardie preposte si avvicinarono con l’intento di metterle le mani addosso, costringendola a seguire Lady Septima. Erano due individui più alti di Ofelia rispettivamente di trentaquattro e trenta centimetri e più bassi di lui di dieci e quattordici centimetri. Quel sentimento insolito che aveva rabbiosamente catalogato (ridicolo) come gelosia non ebbe nemmeno il tempo di manifestarsi.
- Ci penso io – ordinò infatti, afferrandole la spalla contemporaneamente.
Sperava che il suo tocco potesse infonderle coraggio, in qualche modo. Voleva farle capire che lui c’era, che era lì, che le guardava la schiena. Letteralmente. Stupito, si rese conto di non aver nemmeno pensato alla possibilità che Ofelia volesse ritrarsi dal suo tocco. Era come se ormai il suo stesso corpo si stesse abituando a toccarla, ad appagare quel bisogno che aveva di entrare in contatto con lei, e non paventasse più un rifiuto. Per lo meno, nei gesti più superficiali…
Gli artigli di Thorn percepivano con chiarezza ferina le guardie interfamiliari che li circondavano su tutti i lati. All’erta, pronte a scattare al minimo movimento inconsulto. La nebbia, la poca visibilità e l’ignoranza circa il futuro rendevano gli artigli estremamente ricettivi. In modo mostruoso. Non sembravano sazi del sangue che avevano già stillato.
Thorn rinsaldò la presa sulla spalla di Ofelia, ma per darsi forza invece che trasmettergliela. Lei era lì, impaurita forse più di lui. Doveva concentrarsi su di lei e sulla fiducia che, contro ogni buon senso, aveva sempre riposto e continuava a riporre in lui.
Passarono cinquecentoquarantasette secondi prima che Lady Septima aprisse nuovamente la bocca.
- Vi avevo detto di restare a bordo, sir.
Le sue dita non poterono fare a meno di stringere ancora di più la spalla di Ofelia, come preda di un riflesso involontario. Di fronte a loro si stagliava la figura imponente di un dirigibile due volte e un quarto più grande di quello da cui erano scesi. Era un dirigibile per le lunghe distanze, ormeggiato su quello che una volta era il mercato, carico di persone che battevano sui vetri per chiedere aiuto. Un numero di te o quattro volte maggiore alla capienza prevista per un’aeronave simile.
Non aveva nemmeno parole per descrivere quanto fosse deprecabile una situazione del genere. Per una volta nella vita avrebbe voluto essere un po’ meno calcolatore, meno ricettivo rispetto alle condizioni dell’ambiente circostante, meno pronto a fare collegamenti e a capire cosa stava per succedere. E non si trattava di premonizioni, capacità di anticipare il futuro o qualche altro trucchetto da giocoliere, del tutto irrazionali e non classificabili. Bastava analizzare i numeri per arrivare ad un risultato.
Un risultato che gli faceva vibrare gli artigli di furia cieca. Dovette sforzarsi con tutto se stesso per non ferire Ofelia.
Contemporaneamente a questi pensieri ed emozioni, i suoi occhi notarono anche la presenza dei fucili a baionetta. Ne aveva visti in vita sua, certo, ma era del tutto illogico vederli a Babel, l’arca su cui la parola stessa era più pericolosa dell’arma in sé per via dell’Indice dei Taboo.
Ovviamente, però, la cosa non lo sorprese più di tanto. Un controsenso? No, era solo la meschina natura umana di governanti che detenevano troppo potere e contravvenivano alle regole imposte da loro stessi. Non aveva mai riflettuto sulla mancanza di armi, non ci si era soffermato troppo, ma ora che le vedeva gli appariva palese che ce ne fossero.
Se avesse restituito al mondo i suoi dadi forse si sarebbe verificata un’inversione di potere. Forse le persone tenute all’oscuro e costrette a vivere una vita scelta per loro da qualcun altro avrebbero avuto l’ardire di decidere da sé. Probabilmente non sarebbe andata bene, l’anarchia non era mai la soluzione al problema, ma era meglio pentirsi delle scelte fatte piuttosto che delle scelte sbagliate imposte da qualcuno che anelava solo al controllo totale.
Lasciò divagare quel filamento di pensiero, relegandolo in un angolo della mente, e disse solo: - Sono armi. È illegale.
La sua voce era rigida, dura e fredda, non lasciava trasparire nulla del tumulto interiore che provava. Quelle armi… le voleva vedere volare via. Non dovevano in alcun modo essere puntate su Ofelia.
Doveva mantenere il controllo. Per Ofelia, che probabilmente era più spaventata di lui. Con lei non si poteva mai dire, magari era calma e rassegnata. Ancora una volta poteva abbattere tutti i suoi calcoli.
Lady Septima, invece, no. – È materiale per la prevenzione della pace – lo corresse, come se usare quella perifrasi metonimica cambiasse lo scopo di quelle armi: uccidere. – Siete rimasto chiuso in quell’osservatorio troppo a lungo, sir Henry. Come ho detto, le circostanze sono cambiate. E le leggi anche. Ciò non toglie che l’Index sia sempre in vigore.
Di persone così false, subdole e ipocrite Thorn ne aveva incontrate tante in vita sua. Se non avesse avuto la memoria da Storiografo avrebbe potuto dire che erano troppe per poterle contare, ma lui in realtà sapeva benissimo chi fossero, una per una. Però non lo avevano mai affrontato così apertamente. Solo bisbigli e pettegolezzi alle sue spalle, cattiverie gratuite che non pesavano nulla, per lui. Invece il fatto che Lady Septima lo fronteggiasse così direttamente gli dava quasi il diritto di reagire. Avrebbe voluto farlo, e i suoi artigli ferini più di lui, ma si trattenne. Mettersi a discutere con quella donna non avrebbe portato a nulla di buono, e lui doveva proteggere Ofelia.
- Quante persone avete ammassato in quel dirigibile? – domandò glacialmente mentre il suo cervello esaminava già le infinite risposte a quella domanda, che variavano in funzione dell’area del dirigibile, delle zone non occupabili e dell’ammassamento di persone al suo interno, che poteva non essere distribuito uniformemente. I risultati che la sua mente snocciolava erano disgustosi.
- Il giusto numero – rispose seraficamente, falsamente, Lady Septima. – E due di più. Miss Eulalia, miss Elizabeth, avete disonorato la compianta Lady Helena e vi siete rese indegne di essere sue Figliocce. Vi condanno a essere bandite.
Thorn se lo aspettava, tutte le variabili portavano a quel risultato. Ma non lo accettava. Non poteva accettarlo. Quasi non prestò attenzione al mormorio protestante di Elizabeth, che si immolò, penitente, avanzando verso il dirigibile. Un agnello al macello.
Ofelia non si muoveva, e lui strinse ancora di più la presa sulla sua spalla, come a volerle dire silenziosamente che doveva continuare a rimanere immobile. Non l’avrebbe mai fatta salire in quella trappola assassina. Un genocidio, ecco cos’era. Omicidio di massa a sangue freddo. Uno sterminio. Nemmeno i suoi artigli sarebbero stati in grado di compiere una simile, grottesca carneficina.
- Questo aerostato non è fatto per trasportare tanti passeggeri, senza parlare dei problemi di comunicazione radio. Questa gente non arriverà mai a destinazione e voi lo sapete.
L’accusa nella sua voce non scalfì minimamente la facciata di pietra di Lady Septima. Nemmeno lui sarebbe stato in grado di rimanere così impassibile di fronte ad un’insinuazione del genere. Era certo, oltretutto, che all’interno quella donna meschina fosse dura quanto all’esterno. Lui mascherava le sue emozioni. Aveva impiegato anni per affinare quell’arte, affinché nessuno notasse quanto certi commenti lo ferissero. L’impassibilità allontanava i deboli che desideravano farlo soffrire, l’indifferenza lo rendeva una vittima poco appetibile. Quella facciata si era leggermente incrinata da quando aveva conosciuto Ofelia, che era stata capace di smuovergli dentro qualcosa di più potente delle rigide maniere che si era imposto. Ma Lady Septima non provava nulla. Il suo viso era lo specchio di quello che era nell’intimo. Un’insensibile.
Ne era certo nella maniera più assoluta.
- Quello che so, sir Henry, è che voi non siete un autentico Babeliano.
Ed era anche crudele. Arrivista. Egoista. Presuntuosa.
Sola. Infelice.
Lo sguardo di disgusto con cui squadrava la sua armatura, no, la sua gamba storpia, la sua debolezza, non lo scalfì minimamente. Quella donna gli faceva solo pena. Una pena furiosa per ciò che, comunque, si accingeva a fare ad Ofelia.
- Siete un errore che si è infiltrato tra le nostre file. I Genealogisti vi hanno concesso un’opportunità che avete buttato via, ma questo non sta a me giudicarlo. Compite il vostro dovere andando a fare rapporto e lasciatemi compiere il mio senza occuparvi della sorte di miss Eulalia.
Si era esposto troppo.
Non gli importava più.
Esitarono entrambi, lui ed Ofelia. I pensieri sulla stessa lunghezza d’onda, lo percepiva. Avrebbe voluto dilaniare, non gli artigli, ma lui, Lady Septima. Se ne vergognava. Se ne rallegrava. Ma scagliarsi contro di lei avrebbe sicuramente fatto scattare le guardie, che non reggevano armi giocattolo. Ed erano troppi. Erano numericamente svantaggiati sotto ogni punto di vista, e i numeri non mentivano mai. Se solo gli artigli fossero stati in grado di agire anche sugli oggetti, invece che solo sui nervi umani… bramosi di azione com’erano, avrebbero fermato non solo le pallottole, ma anche le armi stesse, riducendole a pezzi informi di metallo.
- Vado.
La voce di Ofelia fu lo sparo che non si aspettava, lo scatto della sua spalla il rinculo dell’arma.
Ovviamente. Come aveva potuto non prestarvi attenzione? Ofelia si sarebbe sacrificata per permettere a lui di salvarsi. Nonostante la sua copertura fosse compromessa. Nonostante non avesse nessuno al mondo a parte lei, e non gli interessasse effettivamente di nessuno che non fosse lei. Ofelia lo avrebbe salvato.
Ma lo aveva già salvato in così tanti modi che… morire non gli sarebbe importato. Purché fosse stato al suo fianco. Purché lei fosse salva. E se Ofelia non poteva vivere, tanto valeva seguirla. Non era rimasto più nulla per lui. Apparteneva al luogo in cui si trovava Ofelia.
Apparteneva a sua moglie.
- Avete infangato la memoria di Octavio – sputò lei, piena di acredine. Sempre così sollecita verso i suoi amici, così diversa da lui…
- Salite, little girl – l’apostrofò Lady Septima, senza lasciar intravedere nemmeno un’incrinatura in quel suo viso altero.
Al secondo passo verso il dirigibile Ofelia cadde. Thorn impiegò due secondi per rendersi conto che non era colpa della solita goffaggine, ma dei suoi sandali. I lacci delle sue calzature si erano intrecciati in preda al panico, cercando di obbligare la loro padrona a fare marcia indietro.
L’animismo rispondeva allo stato emotivo di chi esercitava quel potere. Era inconscio. Era incapace di mentire. Ofelia non voleva salire sull’aeronave. Non voleva andare in contro alla morte.
Aveva paura. Ma si stava sacrificando per lui.
Quella scena, Ofelia curva sui suoi sandali, che cercava di sbrogliarli, di lottare contro se stessa per procedere verso quel destino infausto, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Una minima parte del suo cervello si occupò di analizzare quell’allegoria. La matematica non mentiva nemmeno in quel campo. C’era un limite alla tolleranza di un recipiente, un limite che poteva essere forzato, ma non all’infinito. Raggiunto quel limite bastava una quantità infinitesimale di liquido per far strabordare l’eccesso.
Thorn era pieno. Ben oltre l’orlo. Ed era stanco. Stanco di dover essere costretto a fare ciò che volevano gli altri.
Voleva restituire al mondo i suoi dadi per Ofelia. Ma se Ofelia non poteva usarli, almeno lui avrebbe usato i suoi. Poteva ancora decidere, per lo meno, come morire.
- Restituite questo ai Genealogisti da parte mia – ordinò imperiosamente, con la voce chiara e forte, l’accento del Polo, la sua inflessione naturale, più prepotente che mai. Fu lieto di disfarsi di quel sole di stoffa, quel simbolo pregno di corruzione e marciume.
Non si curò di guardare l’espressione di lady Septima. Non gliene fregava nulla di quella donna. E no, non era un Babeliano, e ne andava fiero. Anche un po’ di più.
Si inginocchiò accanto ad Ofelia in uno stridore metallico che ignorò. Sentì i tratti del volto perdere la loro rigidità quando incontrò i grandi occhi di Ofelia, spalancati dietro gli occhiali inutili e falsati. Erano colmi di emozioni, in parte di paura, in parte di rimpianto, ma anche di sollievo e vergogna nel rendersi conto che lui non l’avrebbe abbandonata.
E cosa avrebbe mai potuto fare senza di lei? Era lei la sua missione più importante, al diavolo il mondo!
Non gliel’aveva detto lei stessa, che il mondo non aveva fatto nulla per lui e lui non gli doveva nulla per questo? Era vero. Ma a lei doveva quella poca felicità che aveva provato nella sua vita.
- Insieme.
In modo naturale, seppur impacciato, Thorn si curvò e allungò per prenderla in braccio. Non si era mai considerato un individuo forte, per quanto fosse consapevole dei suoi muscoli allenati, suo malgrado. Non era possente, ma nemmeno debole. E Ofelia non gli era mai parsa più leggera, un piacevole ammasso di morbido tepore contro il suo corpo ossuto.
Non si sarebbe mai pentito di quella scelta. Stringere Ofelia tra le braccia era… era tutto. Era l’unica cosa che contasse, era tutte le cose che voleva.
Salì con lei sul dirigibile.
 
Il calore lo investì come un’artigliata non appena permise ad Ofelia di rimettere i piedi a terra. Avrebbe voluto tenerla stretta a sé ancora un po’, ma sapeva che lei si sarebbe agitata, odiando essere costretta fisicamente. Inoltre sapeva che la temperatura elevata (quattro gradi al di sopra delle massime estive medie di Babel) lo avrebbe presto fatto sudare copiosamente, in modo vergognoso, rendendolo appiccicoso. Non voleva che Ofelia lo percepisse e si disgustasse.
L’odore di corpi ammassati e sudati gli bloccò la gola un istante dopo, facendogli risalire un conato di vomito lungo la trachea. Lo ricacciò giù a forza.
Una parte del suo cervello stava ancora calcolando le varie opzioni di capienza di quel dirigibile. Ne aveva ipotizzate centoventuno fino a quel momento, e solo tredici, le più pessimistiche che aveva elaborato, si avvicinavano al numero reale. L’aeronave era colma. Strapiena. Strabordante. Straripante. Satura.
Dire semplicemente piena, carica o sovraffollata non rendeva l’idea. C’erano persone persino in bagno, e non per utilizzarlo per la sua funzione, ma per trovare un posto. Gente sul punto di guerra. Gente che piangeva. Gente sdraiata per terra (un numero infinito di batteri strisciava su quei pavimenti luridi, e le persone ci si sdraiavano!). Gente che batteva sui vetri come se servisse a qualcosa. Gente che urlava. Gente che… giocava a carte.
Il caos più assoluto.
Una fitta particolarmente penetrante di emicrania gli lacerò il cervello, irrigidendogli persino i nervi. Gli artigli si rilassarono, pronti a colpire, in armonia con il suo stato d’animo.
Tirò fuori la bottiglietta di disinfettante, nella vana speranza di tenere lontana da sé tutta quella sporca umanità. Quei microbi. Quella scarsa igiene. Quella disperazione.
Abbondò con il disinfettante.
- Vieni con me – gli ordinò Ofelia, più sicura di quanto non fosse lui.
Non si sarebbe arresa senza combattere. L’ammirava per questo, per la sua anima da ribelle che non si piegava di fronte a ciò che le imponevano gli altri. Nemmeno di fronte all’evidenza. Lui, da un certo punto di vista, si era già rassegnato. Amava Ofelia anche per questo.
La seguì a breve distanza, seguendo il varco che si stava aprendo tra i corpi. Le era grato per aver preso il posto di aprifila. Per lui era già difficile controllare i propri artigli da dietro, dovendosi guardare sempre alle spalle e ai lati, se fosse stato davanti si sarebbe anche dovuto preoccupare di non colpire Ofelia erroneamente. Il suo animismo sembrava essersi placato, comunque, e non poté fare a meno di sperare che fosse stato in parte per il suo intervento.
Ofelia ondeggiava di fronte a lui, come se la sua goffaggine si fosse enfatizzata, o come se il dirigibile stesse attraversando una turbolenza nonostante in realtà fosse perfettamente fermo. Erano i corpi che non lo erano, corpi che sfioravano Ofelia, le cui dita si ritraevano di scatto. Probabilmente stava leggendo ogni singolo pezzo di stoffa in cui si imbatteva, e l’assorbimento dello stato d’animo delle persone condannate a morire lì dentro non doveva essere particolarmente gioioso o sereno. Thorn aveva i suoi veri guanti e occhiali. Glieli avrebbe dati non appena si fossero fermati. Voleva liberarla almeno da quel disagio.
Thorn era talmente concentrato ad evitare contatti, a mantenere tutto e tutti nel suo campo visivo e a cercare di non scatenare gli artigli che non fece quasi caso alla cacofonia di voci di tutti gli accenti, ai marchi luminosi sulle fronti della maggior parte dei presenti (novantotto percento), o ai cenni di saluto di Ofelia. Non ci fece quasi caso. Una piccola parte della sua mente era ben conscia di ogni cosa.
Non appena raggiunsero la vetrata panoramica di poppa Thorn si appoggiò a un vetro, grato per l’angolazione che gli offriva. Per lo meno poteva tenere d’occhio tutti, non aveva nessuno alle spalle. Anche lì, come in ogni altro anfratto del dirigibile, le persone battevano sui vetri come se potesse servire a risolvere qualcosa. Nemmeno le colorite imprecazioni che lanciavano alle guardie e ai loro avi erano utili. La logica era alquanto carente, in quel momento. Thorn vide che Ofelia si faceva largo tra alcuni corpi particolarmente esagitati per guardare fuori.
- Che aspettano? Altri clandestini?
Stavano già superando di tre volte e mezzo il limite della tolleranza di peso di quell’aeronave. Altri clandestini erano proprio l’ultima cosa che serviva. Thorn si voltò lentamente ma, all’atto di guardare fuori, si rese conto delle decine di dita stampate sul vetro, che avevano lasciato impronte umide di sudore, grasso e residui di cibo e biologici. Evitò di respirare e deglutire finché, preso un tovagliolino da un buffet da cui non avrebbe mai e poi mai mangiato, non riuscì a pulire grossolanamente una porzione di vetro utile per guardare all’esterno.
Voleva altro disinfettante.
Invece fece spazio ad Ofelia e le indicò la manica a vento afflosciata lungo l’asta, vicino al dirigibile. – Il Soffio di Nina.
- E sarebbe?
- Il nome che i Babeliani danno al vento del sud. Durante la stagione secca si alza ogni notte.
- Che motivo c’è di aspettarlo? Questo è un dirigibile, mica un pallone aerostatico.
Ofelia… ingenua, speranzosa. Ignara.
Quel potente vento era l’unica cosa in grado di sollevare dargli ormeggi quel piroscafo stracarico. Sì, era un dirigibile, ma non avrebbe avuto quella funzione per loro. Sarebbe stato un pallone aerostatico per il tempo necessario a farli cadere nel vuoto. Poi sarebbe stato semplicemente la loro tomba. Ma non glielo disse.
Invece, prese dalla tasca i suoi guanti. Come se permetterle di avere i suoi effetti personali potesse rendere la prospettiva di quella morte più digeribile. Non esitò nemmeno quando, invece di porgerglieli affinché li indossasse lei stessa, glieli infilò lui. Dito dopo dito. Accarezzò la pelle delle sue mani lisce, così poco avvezze a toccare il mondo se non attraverso quei guanti dalla stoffa speciale. E così potenti, in grado di risalire a storie ed emozioni di cui gli oggetti erano pregni. Rimpiangeva che lei non avesse letto il suo orologio da taschino. C’erano ancora così tante cose che non sapeva di lui. Non voleva avere più segreti, muri o distanze fra loro.
Avrebbe voluto farle sentire con la sua pelle quanto aveva significato per lui. Quanto ancora significava, quanto aveva migliorato la sua vita. Quanto la sua vita non fosse stata nemmeno una vera vita prima di lei. Quanto aveva prima sperato, poi gradito e infine bramato il tocco delle sue mani sulla pelle, quanto si era sentito… appagato, completo e nuovo quando lei aveva soddisfatto quel bisogno. Cosa aveva significato per lui quel primo bacio inaspettato, cosa invece aveva simboleggiato il secondo, irruento ma per lo meno ricambiato. Come si era sentito quasi mancare quando l’aveva vista lì a Babel, contro ogni logica e buon senso. Quanto lo sorprendeva ogni volta che andava contro ad ogni regola e piano per fare di testa sua, quanto era rimasto stupito, mai infastidito, dalla sua forza e testardaggine.
Ofelia era il miracolo che gli aveva dato un futuro. Con una famiglia, con amore, con un senso di appartenenza. Che gli aveva fatto scoprire di avere un desiderio latente e quasi incolmabile di essere toccato, di entrare in contatto con un essere umano. Con lei. Di sapere con ogni certezza e fibra e giuntura e nervo e muscolo che lui le apparteneva, sempre, e che lei gli apparteneva con la stessa intensità.
Le sue dita non lasciarono trapelare niente del suo tormento interiore. Non tremarono nemmeno. Non indugiarono mai troppo a lungo. La sua memoria avrebbe conservato sino alla sua morte l’intensità di quel tocco leggero, quel calore piacevole che non gli avrebbe mai dato fastidio.
Le abbottonò i guanti, sperando che lei percepisse cosa significava per lui attraverso quel semplice gesto. Pensò di esserci riuscito, dato che la vide sgranare gli occhi, colta di sorpresa. Ma lo lasciò fare. Arrendevole.
Prese infine gli occhiali, che erano stati riposti con cura nella sua tasca, e si avvicinò a lei più del dovuto mentre glieli rimetteva con grande attenzione e premura sul naso. Finalmente vide i suoi occhi metterlo a fuoco, guardarlo veramente, registrare i lineamenti duri del suo volto, la mascella contratta, e capire. Senza bisogno di parole. Capire che erano spacciati.
- Saresti dovuto rimanere a terra – mormorò in risposta.
Non lo maledisse. Non maledisse la loro sorte. Non diede di matto. Non pianse. Non cercò di battere inutilmente i pugni sul vetro. Non si rassegnò nemmeno, da quanto poteva vedere. Rimpiangeva solo di averlo trascinato con sé su quel dirigibile. Rimpiangeva di non poterlo vedere sopravvivere. Lui. Vivere senza di lei.
Aveva letto e sentito parlare in qualche scadente commedia a teatro, che sua zia lo aveva obbligato a guardare da piccolo, di quell’amore altruistico. Quell’amore così profondo e disinteressato che spingeva una persona a prendere il posto di un’altra, pur di mantenerla in vita. Una malattia, un’esecuzione, qualsiasi cosa. Persone che amavano così tanto da voler morire per poter far vivere i loro cari.
Ofelia dunque provava quell’amore per lui. Il fatto che lui si fosse immolato per andare con lei, piuttosto che stare senza di lei, rappresentava l’altra faccia dello stesso sentimento. Finché fossero stati insieme, non avrebbero temuto nulla.
Sentì le sue labbra allargarsi in un sorriso per un istante. Ofelia gli faceva venire voglia di sorridere. Di… vivere. Tornò subito serio, troppo abituato a controllarsi per indugiare con un sorriso stupido stampato in volto ad un passo dal baratro. Letteralmente.
- Reggiti al corrimano.
Il Soffio di Nina arrivò in quel momento. La forza di quel vento era notevole davvero, uno dei più forti tra tutte le arche. Thorn ne aveva sentito parlare quando era al Polo, e lo aveva sperimento di persona sulla sua pelle in quel tempo trascorso a Babel. Per riuscire addirittura a spostare un’aeronave stracarica oltre ogni ragionevolezza, la sua forza doveva essere pari a…
Il suo cervello si mise ad elaborare complicati calcoli di fisica che prendevano in considerazione velocità e forza del vento, massa del dirigibile, attrito e spinte contrarie. In qualche modo lo aiutò a rimanere lucido mentre venivano sballottati di qua e di là, in balìa dei capricci atmosferici. Calcolare lo aiutava ad analizzare, a placare la mente per poterla poi usare per risolvere problemi e cercare una via d’uscita. Infatti, forse se…
Il gomito gli sbatté contro il vetro quando ci fu una scossa particolarmente violenta. L’impatto però fu meno duro del previsto… Una gomma da masticare. Una schifosissima gomma da masticare ancora umida di saliva e impregnata di centinaia di migliaia di microbi derivanti dalla cavità orale probabilmente sporca di qualcuno gli stava insozzando la camicia. Appiccicata al suo gomito. Gli faceva schifo. Schifo. Disgustosa. Doveva toglierla. Non aveva nulla con cui farlo però. La salviettina usata per pulire il vetro era già lurida, e usare la carta per rimuovere quell’appiccicume avrebbe peggiorato il risultato. Sentiva già quei microrganismi filtrare nel tessuto e incontrare la sua pelle. Se avesse avuto disinfettante in abbondanza ne avrebbe gettato un intero flacone sul gomito.
- Dobbiamo prendere… il controllo dell’apparecchio – mormorò Ofelia, parlando a scatti per via degli scossoni.
Gli guardò la gamba, ma Thorn non capì perché. La gamba e l’armatura resistevano, era il gomito quello che rischiava di rimanere seriamente danneggiato.
- Dubito che Lady Septima sia stata così gentile da lasciarci un dirigibile pilotabile.
Gli sembrava inutile indorare così la pillola, ma quell’istinto sconosciuto che lo spingeva a voler proteggere Ofelia edulcorava le sue parole, prevalendo sulla ragione. Non dubitava che fosse pilotabile, era certo che non lo fosse. Altrimenti qualcuno avrebbe già preso il controllo della navetta, riportandoli indietro o impostando la rotta su un punto preciso. Ma gli scossoni rendevano evidente che fossero diventati proprio ciò che Ofelia aveva detto prima: un pallone aerostatico preda delle correnti.
A conferma delle sue parole, il dirigibile si inclinò, e Thorn afferrò subito Ofelia per evitare che cadesse o si facesse male. Stava già perdendo l’equilibrio… quella situazione era meno congeniale per lei che per lui, paradossalmente.
Ofelia gli rimase ben attaccata, scrutando con occhi sgranati tutte quelle persone che cercavano in qualche modo di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa, persino vestiti di altri, pur di evitare di scivolare lungo il parquet. Lurido, per giunta. Poi il suo sguardo fu catturato da un ragazzino in sedia a rotelle che ondeggiava con l’aeronave. Riconobbe prima la sciarpa che rischiava di strozzarlo, visibilmente terrorizzata. Quella sciarpa che non molto tempo prima si era avvinghiata alla sua gamba con entusiasmo. Il giovane era il figlio di Lazarus. Ambroise. O forse no, dato che avevano trovato la sua urna funeraria nel Colombario.
L’adolescente parve riconoscere entrambi, e si illuminò di un sorriso sincero. Del tutto fuori luogo, visto che rischiava di farsi seriamente male su quella trappola mortale che era la sedia a rotelle. Per un secondo fu grato della sua armatura, rispetto a quell’aggeggio.
- Anche voi qui, miss? Come avete…
Scivolò via, le sue parole si persero. Poi tornò indietro e di nuovo avanti, mentre l’aeronave cambiava inclinazione. La gomma da masticare sul gomito, la sporcizia delle superfici, il calore asfissiante e l’afrore nauseante bastavano a fargli venire i conati, non aveva bisogno di guardare anche una carrozzina ondeggiare impazzita. Quando ripassò di fronte a loro, afferrò la sciarpa perché stesse fermo.
- Che ci fate qui? – gli chiese.
Il ragazzo gli parve sconcertato, cosa che lo convinse ancora meno della sua non implicazione in tutta quella faccenda. Troppo innocente sembrava, troppo.
- È stato per via dei clandestini che ospitavo… Non ho potuto farci niente, sorry. Gli Olfattivi della guardia familiare avevano memorizzato il loro odore e hanno seguito la pista fino a casa di mio padre. Ordine di Lady Septima. Siamo stati tutti arrestati e separati qualche giorno fa. Non so neppure se siano a bordo anche loro. Questo dirigibile per le lunghe distanza è immenso, non li ho trovati. È vero quello che dicono? Che anche la Buona Famiglia è sprofondata?
E parlava pure troppo. Gli dispiaceva per Ofelia, ma lui di quel tipo non si fidava più di quanto si fidasse di Archibald. Forse ancora meno. Strinse ancora più forte la sciarpa, chiedendosi superficialmente se potesse sentire male e se in tal caso un suo maltrattamento avrebbe fatto soffrire Ofelia, e costrinse Ambroise a guardarlo.
- Che ci state nascondendo, voi e vostro padre?
- Non capisco, sir…
- Credo invece che capiate molto bene.
Thorn era sollevato all’idea di poter utilizzare finalmente il suo vero tono di voce, invece di falsificarlo e adottare l’accento babeliano per mantenere la copertura. Si rendeva conto di quanto l’inflessione del Polo suonasse più aspra, più tagliente. Ed era quello di cui aveva bisogno, perché non avrebbe permesso a nessuno di approfittarsi della bontà di Ofelia e di prenderla per il naso.
Ofelia sembrava aver capito la sua reazione, perché non lo bloccò, né gli disse che stava esagerando. Esaminò con tutta calma, quasi con tristezza, il riflesso di Ambroise sul vetro, poi chinò gli occhi per meditare. Sembrava… stanca. Avvilita, anche. Thorn avrebbe voluto fare qualcosa per tirarle su il morale, ma sapeva che non c’era niente che avrebbe potuto risolvere quella situazione.
- Voi siete autista – esordì invece, quando fu evidente che Ambroise non avrebbe risposto. – Sareste in grado di pilotare il dirigibile?
Ambroise, si rese conto Thorn in quel momento, era diventato particolarmente rosso in viso. Forse non aveva risposto perché non aveva fiato per parlare, dato che la sciarpa lo stava strangolando. Ed era Thorn a tirarla, la sciarpa. Mollò la presa per farlo riprendere proprio quando lui scosse la testa in diniego.
- Credo che la plancia di comando sia stata sabotata – li informò quando ebbe ripreso a respirare. – E non è la notizia peggiore, miss. Stando all’orientamento e alla velocità del Soffio di Nina non troveremo arche su cui atterrare. Mio padre mi ha insegnato la cartografia: non c’è niente in questa direzione, solo nuvole.
Forse Thorn non era così esperto di cartografia, di certo non quanto Ambroise, ma non era un illuso. Sapeva che non sarebbero arrivati da nessuna parte, e che il vento presto si sarebbe placato, lasciandoli precipitare nel vuoto. Lui si era rassegnato, ma Ofelia in qualche modo sembrava voler ancora lottare. Che non avesse capito la gravità della situazione?
Fece una smorfia, ma la rivelazione di Ambroise non la sconvolse particolarmente. Poi sbatté le costole contro il corrimano in modo brusco. Si era distratto, avrebbe dovuto evitare che si facesse male, invece di prestare tutta quell’attenzione al ragazzo lì di fianco. Che oltretutto si rivolgeva sempre e solo a sua moglie…
La prese per mano per tenerla stretta, sia per poter godere della sua presenza fisica per quegli ultimi istanti, sia per impedirle di sbattere ancora contro il corrimano, o inciampare, cadere, farsi male. Avrebbe voluto che si togliesse i guanti, come quando erano stati insieme la prima volta, o la seconda, negli appartamenti direttoriali. Il modo in cui Ofelia lo aveva guardato e gli aveva toccato il viso dolcemente, con le mani nude premute contro la sua pelle, sul collo, sulle spalle, sul petto, senza una traccia di disgusto, era stato più intimo di qualsiasi cosa avesse mai sperimentato. Anche più di quello che era venuto dopo. Perché Ofelia toccava il mondo attraverso un velo, attraverso i suoi guanti, e raramente li toglieva. Invece per lui, per leggere lui in un modo del tutto diverso dal solito li aveva tolti. E… gli sembrava che le fosse piaciuto quanto era piaciuto a lui.
Le strinse forte la mano, sperando di poter percepire lo stesso il calore attraverso il guanto. Era quasi la metà della sua, piccola come tutto il resto, proporzionata a lei. Almeno quelle, le proporzioni fisiche, Ofelia le rispettava, fisicamente.
Prese di tasca l’orologio per fare un calcolo approssimativo di quanto tempo fosse passato dalla prima spinta del Soffio di Nina e quanto probabilmente gliene restava, tenendo conto della distanza percorsa. Lo lasciò penzolare dalla tasca, dove cominciò ad oscillare e ad aprirsi e chiudersi al ritmo dei suoi calcoli. Doveva ammettere che, anche se non aveva ereditato da Ofelia l’unico potere che aveva bramato, la lettura, sia il potere di attraversaspecchi che l’animismo gli erano tornati utili in diversi modi. Gli unici che non voleva. Era stata una possibilità, quella di non guadagnare la lettura e prendere invece gli altri due poteri, certo, ma era stata quella meno rosea e meno probabile, e ovviamente Ofelia l’aveva fatta avverare. Non sapeva più se trovarlo divertente o terribilmente irritante. In ogni caso, il suo orologio da taschino conservava anche una parte di lei, dato che lui gli aveva dato vita grazie ad Ofelia. Era diventato il loro orologio. La cosa a cui, ancor più di prima, teneva più di tutto. A livello materiale, ovviamente. L’unico oggetto a cui si sentiva legato, insomma.
Era arrivato al venticinquesimo calcolo quando Ofelia, che stava fissando il suo orologio con aria smarrita, sgranò gli occhi.
- Dov’è questa plancia di comando?
Ambroise, che sembrava in difficoltà con quella sedia a rotelle quanto Thorn lo era con la sporcizia, cercò di girarsi verso Ofelia. Lui non si prese il disturbo di aiutarlo. Non quando significava lasciare la mano di Ofelia.
- All’altro capo della navicella, miss, ma come ho detto è stata sabotata.
- Dobbiamo andarci – dichiarò Ofelia, perentoria.
Thorn non aveva idea di cosa le fosse saltato in mente, ma avrebbe acconsentito a fare qualsiasi cosa potesse evitarle un attacco di panico. Una piccola, remota a illogicamente positiva parte di sé lo pungolava, rammentandogli tutte le volte che Ofelia aveva fatto qualcosa di assurdo e incomprensibile ed era riuscita a risolvere una situazione; rammentandogli che era piena di risorse e imprevedibile, intelligente e arguta, e se c’era qualcuno in grado di trovare una soluzione, al di là di tutti i suoi calcoli, era lei. Ma non voleva dar retta a quella voce più del necessario. Era una vana speranza, e nella vita aveva provato fin troppo quel sentimento.
Però l’avrebbe accontenta. Quello era sicuro.
Si diede un’occhiata attorno per valutare la situazione. Se muoversi appena erano entrati in quel dirigibile mortifero era stato difficile, in quel momento sarebbe stato impossibile, soprattutto per lui. I rollii e gli scossoni dell’aeronave erano troppo ingovernabili e aleatori, la gente si cadeva addosso e si pestava i piedi, alcuni si abbracciavano e altri si picchiavano. La percentuale di probabilità che partisse un colpo di artigli involontario era alta, davvero alta. A sbarrare la strada c’era anche un gruppo di musicisti. Cosa li spingesse a suonare e dare spettacolo negli ultimi momenti della loro vita era un mistero che non avrebbe mai svelato. E non era nemmeno certo di volerlo comprendere. Con la coda dell’occhio vide persino una vecchia che ballava nuda su un tavolo.
Se non se ne fosse andato avrebbe davvero rimesso, ne era sicuro. Sentiva già la salivazione aumentare mentre cercava di cacciare in fondo allo stomaco la bile e lontano dalla mente quell’immagine raccapricciante. Forse avrebbe apprezzato di più se fosse stata Ofelia a farlo. Nel privato, ovviamente. Forse.
Il caldo e l’odore gli stavano dando alla testa, doveva allontanarsi da lì. Non era più padrone dei suoi pensieri.
Magari… l’unico modo per muoversi era avere tutti i lati coperti. Era certo che Ofelia avrebbe capito, lei sembrava sempre comprendere al meglio quali fossero le sue esigenze. Così afferrò i manici della sedia a rotelle senza chiedere il permesso al proprietario e si incamminò verso la plancia di comando.
Non poteva vedere in faccia Ambroise, ma dal tono di voce il ragazzo sembrava quasi commosso. – E io che pensavo che non mi voleste bene, sir.
Trattenne a stento una smorfia. Voler bene… come se fosse così immediato amare qualcuno. Così facile. Quel ragazzo era grossolanamente in errore. E lui non tollerava gli errori. – Non vi voglio bene – mugugnò infatti. Che razza di discorsi. – Mi sto servendo di voi.
Era la pura e semplice verità. Come sempre, non si curava dell’effetto che le sue parole avevano sugli interlocutori. Ambroise non era importante per lui, anzi, ancora diffidava del suo coinvolgimento in tutta quella storia. I fraintendimenti causavano intralcio, e Ambroise non doveva fraintenderlo. La sua sedia a rotelle gli serviva per farsi largo tra l’ammasso di corpi, tutto lì. E stava anche riuscendo bene nello svolgere il suo compito. Thorn la utilizzò addirittura come arma, pungolando le caviglie di qualcuno quando minacciava di avvicinarsi troppo a lui. Ofelia era silenziosa dietro di lui, ma Thorn la percepiva. Era l’unica che i suoi artigli non sentissero come un nemico, ed essendo alle sue spalle non rischiava di ferirsi e non permetteva ad alcuno di rimanere vittima di un colpo vagante. Sapeva che avrebbe capito.
Questo non significava che fosse facile trattenerli. Anche se non la consideravano un nemico, sapeva bene che se i suoi nervi fossero saltati i suoi artigli avrebbero colpito indistintamente chi si trovava al suo fianco. E questo includeva Ofelia. Soprattutto Ofelia. I suoi lati erano ancora scoperti, e questo lo rendeva nervoso. Trattenere gli artigli era più difficile, in quella situazione, che manovrare la pesante sedia a rotelle di Ambroise. E in alcuni casi, quando assisteva a scene particolarmente violente o viscide, non era nemmeno certo di volerli tenere imbrigliati.
Camminarono parecchio (trecentosedici passi). L’aeronave era lunga, ma non ci impiegarono molto tempo solo per quello. L’assembramento di corpi lungo il cammino rendeva necessario rallentare il passo e fermarsi a più riprese; i beccheggi, gli scossoni, l’andamento altalenante e le inclinazioni irregolari della nave li costringevano a cambiare direzione, aggrapparsi a qualcosa o attendere che il peggio passasse. L’effluvio altamente organico che permeava l’ambiente faceva venire il capogiro, specialmente perché si mischiava all’aria calda, appiccicandosi a pelle, vestiti e polmoni stessi come uno strato di sudiciume viscido. Se avesse potuto, Thorn avrebbe inalato l’odore alcolico e asettico della boccetta di disinfettante.
Poi fu silenzio. Un cambio repentino. L’intero dirigibile ammutolì. Persino gli oblò sembrarono accusare il colpo. Thorn dovette fermarsi. Cos’era successo di così drastico da riuscire a congelare sul posto un branco eterogenei, anarchico e caotico di persone?
Gli bastarono un’occhiata fuori e una fastidiosa sensazione allo stomaco per capirlo. L’emicrania si acuì.
Stavano precipitando nel vuoto tra le arche. Nel mare di nuvole. Il Soffio di Nina li aveva abbandonati. Stavano andando in contro alla morte.
Thorn si voltò appena per cercare di capire come stesse Ofelia, cosa stesse pensando. Si irrigidì quando vide il suo volto: pallido, visibilmente terrorizzato, incapace di razionalizzare ciò che stava accadendo. Sembrava un automa rotto. Non assomigliava ad Ofelia, alla donna che aveva sposato. Anzi, alla donna che aveva fatto di tutto per poterlo sposare. Lei era combattiva, determinata, testarda, vivace, curiosa, vitale e inarrestabile. Non era quella piccola figura ingobbita, le cui lenti erano bianche come il suo volto esangue, con gli occhi sbarrati, incapace di reagire. Non era lei. E lui aveva bisogno che lei fosse nel pieno delle forze. Non c’era speranza per loro, ma non voleva vederla morire mentre era posseduta dal panico. Non voleva vederla morire, punto. Ma tra i mali minori, si augurava che fosse per lo meno serena. Da quando era diventato così egoista riguardo a lei?
Si sentiva le mani lerce, umide di sudore e sporcizia, indegne di toccarla, ma non poté impedirselo. Si staccò della sedia a rotelle di Ambroise e fronteggiò sua moglie.
- Ofelia – la chiamò, avvisandola che si stava avvicinando a lei. Dandole il tempo di ritrarsi.
Non lo fece. Si girò verso di lui, con il viso basso.
Thorn le afferrò il volto con quanta più delicatezza possibile, accarezzandole le guance con i palmi. Le posò i pollici sulle gote, esercitando una pressione minima affinché capisse di doversi lasciare guidare da lui. Lo fece. Lo guardò negli occhi, trasmettendogli dolore e paura. Poteva prendersene carico. Poteva prendersi carico di tutto quello che l’angosciava, finché lei fosse stata al suo fianco. Fu grato al suo autocontrollo: era certo che Ofelia lo avrebbe visto serio, deciso, impassibile. Era quello di cui aveva bisogno, di solidità. Non di sorrisi o tenerezza. Lui c’era, era apparentemente calmo, e voleva farlo capire ad Ofelia.
Sudava così copiosamente che le goccioline d’acqua che gli scendevano dalle tempie, invadendogli fastidiosamente il viso, le caddero sugli occhiali.
Aveva bisogno di una doccia. Di sapone. Accantonò il pensiero.
Ofelia boccheggiò. Sembrava a corto di respiro. Stava per andare in iperventilazione. Rafforzò un poco la presa sul suo volto.
- Il vuoto… - ansimò lei, come se stesse soffocando. – Non dovremmo essere qui.
No, non avrebbero dovuto essere lì. Lei non avrebbe dovuto.
- Continuiamo ad andare avanti. Siamo quasi arrivati.
Ofelia mosse le pupille, lanciando un’occhiata alle sue spalle. Ambroise probabilmente aveva perso nuovamente il controllo della carrozzina, e stava farneticando, ma finalmente Ofelia vide ciò che lui voleva che vedesse: la plancia di comando. Vicina.
Ofelia parve ritrovare il controllo, anche se in minima parte. Mosse un passo esitante, così Thorn le lasciò andare il viso. Nonostante fosse disgustosamente sudato, facesse caldo, l’olezzo della nave fosse nauseabondo e stessero per morire, la sua memoria lo riportò indietro, a quelle altre volte in cui aveva toccato il viso di Ofelia così gentilmente. Quando il barone Melchior (dovette sforzarsi doppiamente per trattenere gli artigli) l’aveva quasi uccisa. Lui le aveva preso il volto tra le mani per cercare segni di vita, per assicurarsi che stesse bene, e aveva sentito come una scossa elettrica sulla punta delle dita. Nella sala dell’Ordinatore di Babel, non troppo tempo prima, quando per evitare di infliggerle un colpo d’artigli se l’era trascinata addosso. Il dolore degli scaffali che gli scavavano la schiena era nulla in confronto al piacere, all’ondata di calore che lo aveva pervaso quando aveva infilato le mani tra i capelli di Ofelia per attirarla a sé. Per baciarla. Rabbrividiva ancora. E a casa di Lazarus, la prima volta che avevano condiviso… tutto. Thorn aveva interrotto un lungo bacio per guardarla e chiederle il permesso di procedere, con una sicurezza che non avrebbe mai pensato di possedere. Le aveva accarezzato la guancia arrossata con il pollice, e Ofelia, con la mano nuda, liscia e morbida, aveva sfiorato la sua, appoggiando poi il viso alle sue lunghe dita. Gli aveva comunicato silenziosamente che era pronta ad abbandonarsi a lui.
Thorn avrebbe voluto piangere in quel momento. Ma gli occhi erano secchi e la gola era invasa dal riflusso gastrico.
Staccò le mani da lei, recidendo un contatto profondo e intimo, tranciando una parte di sé. Avrebbe volentieri passato i suoi ultimi istanti stretto a lei, ma dovevano tentare. Non avrebbe accolto la morte a braccia aperte. E Ofelia anche di meno.
Giunsero nella plancia di comando quasi in trance. La situazione era peggiore del previsto. Gli strumenti di controllo manuale erano stati sabotati. Non si salvava nulla se non l’attrezzatura per le comunicazioni radio interne all’aeronave, che sarebbe servita a ben poco. La nebbia esterna si stava addirittura infiltrando dentro le giunture della nave, reclamandola a sé. Era una catastrofe.
- Non possiamo fare niente se non riprendiamo quota – si sentì dire meccanicamente. Una parte del suo cervello stava ancora analizzando freddamente la situazione. Per fortuna, quella più logica e razionale.
Dovevano riprendere quota, erano troppo pesanti. Un uomo si era spaparanzato sulla consolle delle comunicazioni radio come se fosse un letto. Lo spostò senza tante cerimonie. Che andasse a dormire da un’altra parte.
Si sedette al suo posto, spense la consolle e prese il cornetto di un tubo acustico, che con ogni probabilità aveva la funzione di trasmettere gli ordini in tutto il dirigibile.
La salivazione gli si era azzerata, dovette deglutire più volte per riuscire a parlare. Se voleva che Ofelia tornasse quella di sempre, che non avesse più paura, doveva agire lui per primo. Trasmetterle quella sicurezza che nemmeno lui aveva. E per lei poteva farlo.
- Ascoltate tutti. Siamo troppo pesanti.
Cercò di non soffermarsi sul suono della sua voce, distorta dagli echi. Doveva parlare più lentamente, scandire ogni parola, altrimenti nessuno avrebbe capito nulla. Sentiva i vestiti inzuppati aderirgli al corpo, ma era l’ultimo dei suoi problemi. Dovevano ascoltarlo. Per una volta nella vita, tutti dovevano obbedire ai suoi ordini. Senza lamentarsi. Senza indicarlo e accusarlo. Senza pregiudizi. Dovevano eseguire. Il suo accento del Polo parve quasi rafforzarsi, come se quei ricordi avessero sbloccato in lui un meccanismo linguistico sconosciuto.
- Siamo originari di famiglie diverse. Siete Cyclopiani? Mettetevi in assenza di gravità. Siete Fantasmi? Trasformatevi nello stato gassoso. Siete Colossi? Riducete la vostra massa. Se ci sono Zefiri a bordo, che invochino venti ascendenti. Non sarete più cittadini di Babel, ma siete sempre ciò che siete. Ognuno di voi può contribuire a riportarci in superficie.
Attesero istanti interminabili che duravano quanto un secondo ma sembravano protrarsi per molto, molto di più. L’unica cosa di cui Thorn era consapevole era la presenza di Ofelia accanto a sé. Della sua realtà, solidità… della sua fiducia.
Finalmente, dopo i trenta secondi più pesanti della sua vita, la navicella parve riprendere un po’ di quota, alleggerirsi, tentare la risalita. Lo avevano ascoltato.
- Funziona. Continuate.
E poi le grida. Urla. Ma non di orrore, di rassegnazione, di disperazione, bensì di giubilo. Erano risaliti, riemersi. Vedevano nuovamente le stelle. Ce l’avevano fatta.
Sospirò di sollievo.
Percepì lo sguardo di Ofelia su di sé, insistente. Quando si voltò verso di lei, vide un affetto incommensurabile nei suoi occhi, una rinnovata calma e una fiducia sconfinata. Come quella volta sull’impluvium di Lazarus, quando avevano ascoltato il messaggio della bambola dei Genealogisti, Ofelia sembrava scavargli dentro con gli occhi, come se dentro di lui ci fosse qualcosa di prezioso che solo lei era in grado di percepire. Era… era tante cose insieme, quello sguardo: commovente, estasiante, tranquillizzante, ma anche preoccupante, perché Thorn non era sicuro che quello che Ofelia vedeva esistesse davvero.
Era lo sguardo più bello che gli fosse mai stato rivolto. Anche un po’ di più.
Sua moglie era orgogliosa, fiera di lui. Non poteva deluderla, non lei.
Si schiarì la voce, in imbarazzo, e sentì il rumore echeggiare per tutto il dirigibile. Chiuse il cornetto radiofonico con la mano prima di parlare. Cercò di non farsi destabilizzare troppo dalle occhiate calorose di Ofelia.
- Abbiamo solo guadagnato un po’ di tempo – la informò. Odiava dover essere così brutale, ma Ofelia odiava le menzogne, lo sapeva bene, e non avrebbe rischiato di illuderla per nulla proprio in quel momento. Non voleva che lo fissasse con delusione, tradita. Doveva essere sincero. – Siamo sempre in mezzo al nulla alla mercé dei venti. Che dobbiamo fare?
Ofelia parve presa in contropiede da quella domanda. Da parte sua, non la poneva a cuor leggero. Ma aveva esaurito le idee. Non poteva far altro. Non aveva il potere di dirigere altrove l’aeronave, né di limitarne il peso, né di fare qualsiasi altra cosa. Ofelia invece aveva più volte avuto degli autentici colpi di genio che li avevano salvati da situazioni difficili o avevano risolto più di un mistero. Ofelia era incredibile. Se c’era qualcuno in grado di tirarli fuori da lì, quella era lei.
Se ne rese conto con brutalità e accettazione: sarebbe sempre stata Ofelia l’autorità fra di loro. Il capo. Lui poteva solo essere la stampella che la sorreggeva, la sua armatura, l’àncora da cui trarre forza affinché potesse dare il meglio. Prima era stata sperduta, aveva smarrito la bussola. Lui aveva preso la direttiva in sua vece. In quella situazione, dopo averle ridato la determinazione che aveva accantonato, toccava a lei salvarli.
Poteva farcela. Solo lei poteva. Anche un po’ di più.
Lo sguardo di Ofelia si indurì, raccogliendo fermezza. Era quello tenace che ben conosceva. Che aveva visto sin dalla prima volta quando a colazione, su Anima, aveva sbandierato silenziosamente il suo malcontento all’idea di andarsene così presto. O quando se n’era andata a zonzo per il Polo di notte, senza scorta, e non si era dimostrata minimamente pentita. Era quello lo sguardo che poteva letteralmente piegare una porta al proprio volere.
- Animerò il dirigibile.
Thorn sollevò le sopracciglia, sorpreso suo malgrado. Stava pensando al suo animismo, in effetti, ma Ofelia poteva davvero fare tanto?
Lei stessa parve dubitare di ciò che aveva appena detto. – Cioè, non proprio l’aeronave, ma il meccanismo di pilotaggio. Lady Septima ha sabotato solo gli strumenti di comando manuale.
La voce parve venirle meno.
Animare dei meccanismi di pilotaggio sembrava già più sensato rispetto all’animare un’intera navetta, soprattutto se trasportava un peso di quella portata, eppure… - Il tuo animismo riesce a fare questo?
Non dubitava di lei, non voleva dubitare di lei, ma sembrava un’idea talmente balzana. Andava contro a tutte le statistiche, a tutte le previsioni, a…
Ce l’avrebbe fatta. Proprio per l’impossibilità dell’impresa era certo che ce l’avrebbe fatta.
- Deve riuscirci, perché non abbiamo altra scelta.
Thorn la osservò mentre si metteva di fronte al sostegno su cui avrebbe dovuto trovarsi la barra del timone. Ofelia esitò per due secondi, ma quando incrociò il suo riflesso nei vetri neri parve perdere ogni esitazione. Si raddrizzò, alzò il mento e afferrò un’invisibile ruota del timone, i piedi ben ancorati a terra. Aggrottò persino le sopracciglia, pronta allo sforzo.
Mosse le mani verso sinistra, simmetricamente, come per girare davvero il timone immaginario. L’aeronave parve assecondarla, ma Ofelia increspò la fronte, poco convinta. Girò dalla parte opposta, e di nuovo il piroscafo seguì le sue direttive.
Si era davvero connessa al dirigibile. Lo aveva animato. Lo stava guidando. Li stava salvando.
Partì un applauso entusiasta da parte di un gruppetto di persone che avevano seguito ogni loro gesto dal momento in cui Thorn aveva abbaiato quegli ordini all’interfono. Sembravano aver riposto in loro tutte le speranze, e non ne erano stati delusi. Anche Ambroise, che era rimasto indietro, brutalmente abbandonato, applaudì con le mani invertite. Uno spettacolo alquanto inconsueto. Ofelia sorrise leggermente, fiera anche di sé, oltre che del marito.
Non erano una coppia ordinaria, lo avevano già evidenziato. Ed erano felici così. Lui era… felice così. Anche un po’ di più.
- Sareste un eccellente tac-si, miss! Ora non ci resta che scegliere la destinazione – si complimentò Ambroise.
Thorn trattenne a stento una smorfia. Si sentiva inutile. Era il capofamiglia, e si era trovato costretto a gettare sulle spalle di sua moglie un peso immenso. E ora gli toccava dipendere anche da un adolescente.
-Tocca a voi guidarci. Lazarus vi ha insegnato la cartografia. Le mie enciclopediche conoscenze hanno i loro limiti.
Mai parole più amare erano state pronunciate. Le parole non avevano un gusto, certo, ma lasciare il comando a qualcun altro aveva fatto rimescolare il contenuto del suo stomaco. E gli si era acuito il mal di testa.
- Difficile stabilire con precisione dove ci abbia portato il Soffio di Nina, sir. Da queste parti non troveremo terre. Forse dovremmo voltarci e fare rotta su Babel.
Prima che Thorn potesse contestare le parole di Ambroise, un’altra voce lo sovrastò.
- Vi ha dato di volta il turbante, giovanotto?
Thorn vide Ofelia sollevare le sopracciglia. Si preparò ad uno scontro. La voce ringhiante apparteneva ad un uomo alto, austero e vestito di nero. Aveva la barbetta scura sudata, un collare ortopedico e un altro corpo sulla spalla. Non gli sembrava di conoscerlo. Anzi, non lo conosceva, perché lui non scordava mai nessuno.
Thorn studiò Ofelia in cerca di una reazione che lo aiutasse a capire chi fossero quei due individui, ma lei non sembrava spaventata. Sembrava più… interessata alla sorte dell’uomo svenuto.
- Non vi preoccupate – mormorò quello sveglio, interpretando nel suo stesso modo l’angoscia di Ofelia. Quindi si conoscevano… - È svenuto per l’odore, da bravo Olfattivo. Nell’immediato, la priorità assoluta è non tornare a Babel. Le cose si stanno mettendo parecchio male laggiù, la città è sull’orlo di una guerra civile, una guerra in cui quelli come noi sono i nemici da sradicare.
A giudicare dalle parole proibite pronunciate con così tanta sicurezza, dal discorso agguerrito e dalla palese volontà di allontanarsi da quell’arca, quell’uomo doveva essere un nemico di Lady Septima, dei Genealogisti e dell’intero sistema da loro creato. Non era proprio un alleato, ma di sicuro non un oppositore.
- Anch’io penso che faremmo meglio a cercare asilo altrove – intervenne una passeggera non interpellata. – L’arca più vicina a Babel è Totem, potremmo cercare rifugio lì.
L’uomo che prima Thorn aveva spostato, che aveva preferito rimanere inerte e lasciarsi trascinare dagli eventi per tutto quel tempo, disse la sua da sotto la consolle radio: - Totem è lontanissima, non ci arriveremo mai! Tantomeno senza una radio funzionante e un pilota professionista. Il boy in sedia a rotelle ha ragione, dovremmo tornare a Babel.
Quell’uomo non gli ispirava alcuna simpatia. Era meglio quando se ne stava zitto e buono. Poteva permettere ad Ofelia di prendere il comando, ma non si fidava del giudizio di nessun altro.
Si scatenò una discussione come Thorn ne aveva già viste, al Polo, tra i funzionari più in vista. Tante chiacchiere per nulla, dal momento che alla fine ognuno sarebbe rimasto inamovibile nelle proprie convinzioni. E per essere tutti passeggeri provenienti da un’arca in cui la parola stessa “guerra” era proibita, sembravano ben informati su come si facesse.
In tutto quel trambusto, Thorn era estremamente consapevole di Ofelia, le cui smorfie dimostravano chiaramente quanto sforzo le richiedesse governare l’aeronave. Quegli stupidi passeggeri stavano solo ostacolando il suo lavoro, facendola faticare più di quanto fosse necessario.
Sentì gli artigli insorgere come una marea, pronti ad attaccare e zittire i sistemi nervosi di quegli idioti ciarlatani, ma fu distratto da Ofelia.
Ofelia, che si girò per chiedere un po’ di calma come stava per fare lui. Ofelia, che invece sembrò intravedere qualcosa fuori dall’aeronave, e che lui imitò. Ofelia che sembrava… confusa e… impaurita.
- Spegnete le luci. Presto.
La fiducia in lei era così radicata nel suo intero essere, nel suo corpo, che bastò quell’ordine concitato a farlo scattare. Non c’erano interruttori. Scardinò uno sgabello dai bulloni che lo fissavano al pavimento e ruppe la lampadina sul soffitto, facendo sprofondare tutti nel buio.
E poi, come gli altri settantadue passeggeri presenti nella plancia di comando, lo vide. Il pinnacolo di una torre campanaria che il dirigibile stava per centrare in pieno.
Ofelia emise un verso di sforzo estremo quando obbligò il piroscafo a virare, tirando e arrotolando cavi immaginari con quanta più volontà possibile. Evitò lo scontro frontale, ma non l’impatto. Mentre Thorn lasciava cadere rumorosamente a terra lo sgabello (non che qualcuno avrebbe fatto caso a quel botto, nel frastuono generale) l’aeronave tremò. Grida, una campana, una vibrazione. Ofelia era ancora in piedi, indifesa, mentre cercava di salvare tutti. Da sola.
Thorn la raggiunse in due falcate e la strinse a sé.
Per un secondo fu consapevole solo della schiena di Ofelia premuta contro il proprio petto, del suo piccolo corpo protetto dalle sue braccia, dalla sua schiena, da qualsiasi parte del suo fisico potesse fungere da protezione. Se erano destinati a sopravvivere, avrebbe fatto di tutto perché lei ne uscisse incolume.
Il secondo dopo, la sensazione di aver ingerito il proprio stomaco sovrastò qualsiasi altro pensiero. Stavano precipitando di nuovo.
Sentì Ofelia stringersi a lui, come a voler fuggire dall’impatto, e l’abbracciò ancora più serratamente.
Quattro secondi dopo… atterrarono. Nemmeno troppo bruscamente. La sua mascella serrata non subì il contraccolpo, i suoi piedi non sussultarono.
Erano immobili. Percepiva solo il cuore di Ofelia battere forsennatamente contro il suo, attraverso la schiena. Sentirlo gli fece provare un sollievo immenso.
Non si mosse. Non si sarebbe mosso mai più, se non fosse stata Ofelia a riscuotersi, delicatamente. Scostò le sue braccia dal corpo con cautela, come se temesse di ferirlo. Lui seguì ogni suo movimento finché non incontrò il suo sguardo. Sapeva che sul volto di Ofelia si rifletteva esattamente quello che provava lui: stupore. Erano sopravvissuti. Contro ogni aspettativa, contro ogni calcolo.
La probabilità di uscirne indenni era inferiore all’un percento. Molto inferiore. Non aveva voluto nemmeno soffermarsi su quel numero quando aveva già dato per spacciata l’aeronave. Ancora una volta Ofelia aveva creato una sua matematica, sfidato ogni legge, ottenuto la vittoria contro ogni previsione.
I miracoli non esistevano.
Errata corrige: i miracoli non erano esistiti; finché non era arrivata Ofelia.
Ofelia era un miracolo. Il fatto stesso che amasse lui lo era.
Avrebbe fatto di tutto per lei. Qualsiasi cosa.
Si raddrizzò, sordo ai commenti di Ambroise, e cominciò a dettare ordini.
Il minimo che poteva fare per anelare ad essere alla sua altezza era darsi da fare. Sgravarla da qualsiasi peso. E metterla al sicuro.
Nient’altro aveva importanza.
Niente.

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Capitolo 21
*** Concesso ***


Ciao a tutti!! Finalmente aggiorno *-*
Un grande grazie a Sofy_m, come sempre, che mi ha suggerito questo capitolo. Avrei voluto descriverlo da tanto ma alla fine rimandavo sempre, il suo suggerimento mi ha dato lo sprone per ultimarlo finalmente.
Il prossimo sarà la fantomatica scena dell'erba alta, finalmente, ma vi avverto, ci metterò parecchio a postare. Vorrei concentrarmi su Ingranaggi perché sono indietro e la storia minaccia di essere fin troppo lunga, quindi è il caso che acceleri. Anche se non abbandono Into the deep, passerà in secondo piano, purtroppo.
Questo capitolo credo non sarà nulla di che perché mi piace un sacco, e quando un mio capitolo mi piace di solito piace solo a me xD Come quando a scuola ero convinta di aver preso un bel voto e invece mi ritrovavo con un 6 o un 7. Non a caso la mia linea di condotta era: dì sempre che è andata male, male, male. Se va davvero male ti ci sei già adeguata, se va bene sei anche più felice.
Spero però di sbagliarmi su questo capitolo, perché è una delle mie parti preferite dei libri.
Grazie a tutti come sempre♥

L’Attraversaspecchi II, Gli scomparsi di Chiardiluna, I racconti e Le promessepagg. 97-107 e 157-170.

21. Accordé


Erano passati trentuno giorni da quando aveva visto Ofelia l’ultima volta. Trentuno giorni e undici ore. L’aveva osservata in occasione della sua prima esibizione da vicenarratrice. Da lontano, come spettatore.
Le aveva parlato per l’ultima volta nove ore prima della sua esibizione, al telefono. Lei aveva chiuso la comunicazione senza salutare o confermare l’appuntamento che lui aveva fissato per giovedì, tra le undici e trenta e mezzogiorno. Non si era presentata. E non aveva più voluto rispondere al telefono da quel momento in poi. Non aveva più voluto parlargli, per la precisione, perché i calcoli non mentivano: era impossibile che una persona, per quanto debole fosse il suo sistema immunitario, avesse ogni giorno una patologia diversa, dal mal di gola al mal d’orecchi, dall’artrite che le impediva di sollevare la cornetta al male ai piedi che le precludeva la possibilità di camminare fino alla cornetta.
E poi era difficile che una donna così giovane avesse l’artrite, a meno che non fosse una condizione genetica tipica del suo ceppo familiare. Sua zia però non lo aveva informato di una simile malattia, pertanto doveva essere una scusa per non parlare con lui.
Cosa si era aspettato, dopotutto? Era partito con il piede sbagliato, lo aveva persino ammesso. Era un modo per scusarsi. Come aveva potuto essere così illogico da pensare che bastasse una simile frase per porre rimedio all’odio che Ofelia nutriva nei suoi confronti? Aveva ignorato lui stesso le regole basilari della matematica. Aveva creduto che lei potesse essere… l’eccezione, che potesse vederlo davvero come un marito, come la persona amata.
Il fatto che lui la vedesse già così non contribuiva affatto a rendergli la situazione più tollerabile. Perché doveva sempre essere lui ad anelare all’affetto altrui? Prima con sua madre, poi con sua zia, ora con la fidanzata… nessuno di loro l’aveva mai voluto. Nessuna lo voleva. Ma lui aveva un tale desiderio di essere indispensabile per qualcun altro…
Odiava quei pensieri. Non lo portavano mai da nessuna parte, si faceva pena da solo.
Mise giù con stizza il calamaio e prese la pipa. Tirò due boccate, giusto per cercare di calmarsi.
Ofelia non voleva parargli. Niente di nuovo, ci era abituato. Quello a cui non era abituato era la gestione di questo… rapporto matrimoniale. E a complicare il tutto c’era anche l’innegabile sentimento che provava per lei. Si era… invaghito della sua fidanzata.
Invaghito non era il termine corretto, non indicava con precisione la complessità e la profondità di quello che sentiva, ma non voleva pensare alla giusta definizione. Era troppo rischioso e compromettente.
Era il quattro giugno, nel giro di due mesi si sarebbero sposati. Il tre agosto. Avrebbe dovuto convivere con quel silenzio imbronciato per tutta la vita? Sperava proprio di no. E quella speranza gli dava ancora più fastidio dell’essere ignorato volutamente. Era abituato a quello; alle malelingue, ai pettegolezzi, ai nomignoli affibbiatigli, tutt’altro che lusinghieri, ma quella era gente di cui non gli interessava nulla. Invece di Ofelia gli importava. Anche un po’ di più.
Una fitta alla testa lo costrinse a riporre la pipa, dopo un’ultima lunga boccata.
Si alzò in fretta, raccogliendo le carte che gli servivano e uscendo dal suo ufficio.
Non si premurò di avvisare il suo segretario, sapeva bene qual era il suo programma per la giornata. Avrebbe voluto dire che lo conosceva meglio di lui, ma sarebbe stata una bugia.
Mentre apriva la porta della Rosa dei venti per dirigersi verso la mostra canina in cui doveva effettuare il censimento, cercò di non pensare a Ofelia. Cosa impossibile.
Doveva cercare di parlarle prima del matrimonio. Non voleva assolutamente dover cominciare quella… convivenza sul piede di guerra. Era ben consapevole del fatto che lei non lo amava. Glielo aveva detto chiaro e tondo, non c’era alcuna possibilità di mal interpretare le sue parole. Come se non bastasse, la sua memoria gli riproponeva più volte al giorno la conversazione avuta in quell’occasione, nella vecchia stazione ghiacciata e deserta. Le aveva toccato il braccio. E lei gli aveva detto che non lo amava, e non avrebbe mai consumato il matrimonio.
Thorn strinse i denti e i fogli che teneva in mano.
Accantonò tutto quell’inutile sentimentalismo, quei rimpianti inopportuni, e si concentrò sul suo lavoro. Da quando i Draghi erano morti c’era penuria di viveri. Nessuno era più in grado di procurare la carne necessaria al sostentamento del Polo per tutto l’inverno. Era facile valutare obiettivamente la cosa, senza farsi prendere dall’emozione: per quanto odiasse quel ramo della sua famiglia, che non era mai stata una famiglia per lui, il loro lavoro era indispensabile. La loro scomparsa aveva gettato il Polo e i conti, nonché le riserve di cibo, nello scompiglio. Lo capiva, era un dato oggettivo, calcolabile. Perché con Ofelia era così diverso? Cosa gliene importava se la sua fidanzata non provava nulla per lui, anzi, forse lo disprezzava?
Doveva trovare il modo di parlarle.
Accelerò il passo, sentendo un dolore all’anca attraversargli la gamba. Era abituato a convivere con quei fastidi, causati dall’eccessiva magrezza, dalle ferite inferte da bambino, dalla crescita troppo rapida e dal prolungato tentativo di reprimere costantemente gli artigli. Per una volta accolse quel fastidio come un’opportunità per rimanere lucido e smettere di pensare a…
Una mano.
Thorn si bloccò.
Era arrivato alla mostra canina. Aveva camminato, attraversato la Rosa dei venti, chiuso e aperto porte meccanicamente, senza bisogno di prestare attenzione a ciò che faceva. Ed era giunto di fronte ad uno specchio da cui sbucava una mano.
Una mano viva, che si agitava convulsamente. Una mano guantata.
Era Ofelia, per forza. Quante possibilità c’erano che fosse qualcun altro? Guanti da lettrice, potere da attraversaspecchi, ambiguo e decisamente impossibile da trovare al Polo.
Che diavolo ci faceva la sua mano nello specchio della mostra canina? Proprio mentre passava lui, per giunta?
- Aiutateci intendente! – si sentì chiamare da una voce femminile concitata.
Voltandosi verso la fonte del rumore, scorse quattro signore anziane, membri dell’aristocrazia, accompagnate da un cane a testa, tutti imbellettati con nastri e orpelli fuori luogo sul pelo di un animale. Non capiva proprio cosa passasse nella mente delle persone, a volte, ma ancora di più non capiva come potessero essere così ipocrite. Le conosceva una a una per nome, quelle vecchie, ed erano delle gran pettegole. Non gli avevano risparmiato un commento velenoso, non erano mai state indulgenti nei suoi confronti, si erano addirittura opposte alla sua investitura alla carica di intendente. E ora gli chiedevano aiuto.
La falsità ammantava la corte tanto quanto le illusioni. Anche un po’ di più, probabilmente.
Tenendo ben stretti i fascicoli sotto braccio, Thorn allungò una mano. Esitò appena, prima di afferrarle il polso magro. La mente lo catapultò per un attimo indietro, di nuovo alla stazione congelata, ma cercò di accantonare il ricordo. Se doveva toccare lei, il corpo non gli dava alcun segnale di rifiuto. Anzi, avrebbe voluto poterla toccare… più spesso. Non era avvezzo ai contatti fisici, e visto che con lei non aveva problemi di nausea da quel punto di vista… un esperimento. Sarebbe stato un esperimento.
Nient’altro.
Bugiardo.
Tirò piano il suo braccio, attento a non farle male, ma incontrò una certa resistenza. Allora tirò più forte, strappandola allo specchio, finché non la vide capitombolare fuori dalla superficie e cadere di schiena. Era stato tutto così repentino che non aveva avuto il tempo di impedirle di ruzzolare sul duro parquet.
Era Ofelia ovviamente, scomposta in un ammasso di gonna, sciarpa e capelli spettinati, come al solito. Aveva perso gli occhiali, e questo gli permise di avere una panoramica perfetta e diretta verso il suo viso. La sua fidan… Ofelia sembrava ancora più sorpresa di lui. Perplessa. E si vergognava per la figuraccia. I suoi grandi occhi scuri erano spalancati. Stanchi, anche. Fissi su di lui senza vederlo.
Il cuore di Thorn mancò un battito, cosa che lo fece infuriare. Non la vedeva da un mese e reagiva così? Che patetismo.
Ofelia si riscosse in fretta, cercando a tentoni qualcosa, probabilmente gli occhiali. Era davvero molto miope. Non poté fare a meno di essere intenerito da quella figura così piccola, indifesa e fragile, e si odiò di nuovo per quello. Lui poteva proteggerla, poteva essere forte per lei. Perché lei non voleva lasciarglielo fare?
Ofelia cominciò a balbettare frasi sconclusionate. Thorn si chinò, prendendo gli occhiali al posto suo. Ci avrebbe messo un bel po’ di tempo per trovarli da sola, dato che stava cercando dalla parte opposta. Glieli mise in mano con delicatezza, perché non li rompesse con un movimento brusco.
- Mi… io mi ringrazio tanto – bofonchiò, chiaramente confondendo le parole nell’imbarazzo e nella foga.
Thorn le afferrò il braccio, sopra il gomito, aiutandola ad alzarsi. Era… morbido, il suo braccio. E caldo.
- Vi dispiace molto, si scusi – continuò a mormorare.
Quei tentativi di scusarsi e ringraziarlo avrebbero anche potuto divertirlo se la situazione non fosse stata quella che era. Un mese che non si vedevano. Un mese che non parlavano. Perché lei non voleva. E mancavano due mesi al matrimonio. Attese che Ofelia lo riconoscesse per guardare che reazione avrebbe avuto.
Finalmente in piedi, Thorn le lasciò il braccio e sistemò i formulari in una posizione più stabile. Ofelia invece si rimise gli occhiali, sbagliando il verso prima di riuscire a indossarli correttamente. Aveva i capelli spettinati, ma non pareva farci molto caso. Stranamente, la cosa non disturbava nemmeno lui, nonostante il suo radicato e imprescindibile bisogno di ordine. La prima cosa che mise a fuoco fu lui, dato che si trovava vicino a lei… così vicino…
I mormorii le morirono sulle labbra quando lo riconobbe. – Che ci fate qui?
Thorn aggrottò le sopracciglia di fronte alla sua espressione stupita, non più intimidita. Lo guardava dal basso con evidente disappunto. Nonostante l’avesse appena aiutata. E che razza di domanda era cosa ci faceva lui lì? Non era lui ad essere rimasto incastrato in uno specchio, lasciando una mano a sbucare da una superficie riflettente sotto gli occhi di tutti.
Quanto imprevedibile era quella donna…
- Dovrei essere io a chiedervi che faceva la vostra mano in questo specchio. Le qui presenti signore saranno pure abituate alle stravaganze, ma avete rischiato di far venire loro un accidente.
In risposta alle sue parole, Ofelia si guardò intorno per la prima volta. Vide le signore a cui Thorn si riferiva, le anziane aristocratiche che la fissavano con sdegno. Lo sguardo dei loro cani imbellettati non era meno riprovevole. Quella collera sarebbe stata rivolta a lui non appena avesse detto loro a cosa serviva quel censimento.
Poi vide Ofelia scrutare l’ambiente oltre le persone, prendere atto di dove si trovava, intorno e in alto.
Infine la cortesia prese il sopravvento: - Chiedo perdono, madame. Ero completamente incastrata. Non mi succedeva da un pezzo.
Una parte del suo cervello invece si chiese quante altre volte fosse rimasta incastrata in quel modo, e come. Il fatto che non le succedesse da un pezzo non significava affatto che non fosse mai accaduto.
Thorn considerava la cortesia una fasulla perdita di tempo, anche se Ofelia riusciva a farla sembrare sincera. La vide cercare di sistemarsi i ciuffi ricci sfuggiti al suo chignon malandato. Chissà che consistenza avevano quei capelli… aveva toccato solo i suoi in tutta la sua vita, non sapeva se quelli di una donna fossero diversi.
Di certo non era il suo pensiero prioritario, ma il fatto che gli venisse in mente una cosa simile in una situazione del genere era insolito e incoerente. E gli ricordò, in un certo qual modo, che doveva parlare con Ofelia a tu per tu e quella era quanto meno un’occasione. Non che se ne fosse dimenticato…
- Vogliate scusarmi – disse alle donne anziane voltandosi verso di loro, per quanto forse sarebbe stato meglio se fossero state loro a scusarsi. Se la vanità e l’altezzosità fossero stati dei peccati, quelle donne sarebbero state le più dissolute del Polo. Pose alcuni dei moduli che teneva sotto braccio sul tavolo. Doveva parlare con Ofelia, sì, ma nel pieno esercizio delle sue funzioni non era il caso di sprecare tempo. Era disonesto. – Potete intanto riempire i formulari, verrò a riprenderli fra cinque minuti.
Ci mise una frazione di secondo a rendersi conto che Ofelia avrebbe potuto rifiutarsi di appartarsi con lui. E non perché il loro chaperon fosse assente e lei temesse le malelingue, ma perché con ogni probabilità, visto il silenzio telefonico, era ancora arrabbiata. Lui però doveva parlarle. Era… una strana sensazione, quasi un bisogno fisico.
Così fece l’unica cosa possibile, un azzardo che gli fece provare una scarica lungo il corpo, molto diversa da quella provocata dagli artigli: le mise una mano sulla spalla. La indusse a seguirlo, praticamente spingendola, in un’anticamera vuota arredata in modo del tutto privo di gusto, pragmatismo e senso. Uccelli esotici finti. Se fossero stati edibili avrebbe censito anche loro.
Rendendosi conto che Ofelia non avrebbe parlato per prima, vista la sua evidente rimostranza anche nel seguirlo fin lì, prese lui la parola. Accantonò con decisione un filo di pensiero che saggiava l’aria, consapevole del fatto che erano da soli in una stanza e, per quanto non ci fossero dubbi circa il fatto che non sarebbe successo nulla, la cosa risultava intima.
- Bene. Quando la signorina vicenarratrice avrà onorato i suoi impegni con tuti gli abitanti del Polo accetterà di dedicarmi un po’ del suo tempo?
Se ne pentì subito. E lui non si pentiva mai di ciò che diceva. Ogni parola che usciva dalle sue labbra era prima pensata, ponderata, elaborata, confrontata con sinonimi che potessero renderne meglio il concetto e infine inserita in una frase dalla correttezza grammaticale ineccepibile e dall’eloquio fluido e limpido.
Invece in quella domanda c’era… emozione. Troppa. C’era una palese, vergognosa e ingiustificata gelosia, c’era sarcasmo tagliente nell’utilizzo metonimico del suo incarico al posto del suo nome, c’era desiderio di… C’era desiderio di non vedersi messo all’ultimo posto, come sempre. Di poter in qualche modo rientrare nell’agenda dei suoi impegni. Voleva che Ofelia… lo notasse, lo considerasse.
Ma non poteva più perdere in quel modo il controllo delle sue parole. Era inopportuno.
- Penso di potervi concedere un minuto, visto che mi avete aiutata a liberarmi.
Il tono di Ofelia non era particolarmente caloroso, per quanto lui non fosse molto ferrato in quella materia interpretativa. Il suo cervello però stava già contando il minuto. Era possibile che quello di Ofelia fosse un eufemismo, ma lui era preciso quando indicava una tempistica. Un minuto era un minuto, erano sessanta secondi, non uno di più.
Cinquantotto.
- Non qui e non ora – liquidò la questione. Non voleva che Ofelia gli dedicasse del tempo in quella stanza angusta e obbrobriosa. E un minuto non gli bastava. – Venite domani all’intendenza. All’ora che volete – concesse, rendendosi improvvisamente conto, in modo oltremodo patetico, di quanto fosse disposto a scombinare la sua intera giornata lavorativa per lei, - annullerò gli altri appuntamenti.
Cinquanta.
Ofelia sospirò. Sembrava in conflitto. – Ne parlerò con Berenilde. Cercheremo…
Il suo proposito di riacquistare il controllo delle sue emozioni venne brutalmente stracciato. E lui si atteneva sempre ai suoi propositi. L’effetto che Ofelia aveva su di lui era sconvolgente.
- Non voglio né mia zia né vostra zia – affermò categoricamente. L’immagine di lui e lei circondati dalle loro zie, incapaci di poter parlare liberamente… Ofelia probabilmente no, ma lui di sicuro avrebbe avuto difficoltà… - Questa situazione non può andare avanti ancora, esigo che vi riconciliate con me.
Quaranta.
Vide un’ombra passare negli occhi di Ofelia, anche se era difficile dirlo per via dei suoi occhiali. Non capiva perfettamente il meccanismo di quelle lenti animiste, che mostravano i sentimenti della sua padrona in base a varie sfumature di colore. Probabilmente non le piaceva l’idea di riconciliarsi. Ergo, era ancora arrabbiata. Ma non si rendeva conto di quanto fosse insensato rimanere arrabbiati? Non era lui il suo nemico, non potevano permettersi di tenersi il muso. E non solo perché sarebbero diventati marito e moglie. Sapeva elencare per data, coniugi implicati e amanti quanti fossero i matrimoni di facciata, stipulati per pura alleanza. Il loro era uno di quelli, in effetti.
Un piccolo spasmo, impercettibile, gli scorse sul braccio, come se il suo corpo si rifiutasse di vivere una simile situazione. Non voleva, si rese conto, che Ofelia lo considerasse un nemico. Non voleva la sua rabbia, per quanto fosse abituato a riceverla.
- Cosa stavate facendo, esattamente?
La domanda lo colse completamente impreparato. Non solo il buon costume, a cui non faceva grande affidamento, ma la logica stessa imponeva che a una domanda si desse una risposta chiara e precisa. Perché mai Ofelia gli aveva posto una domanda che non c’entrava assolutamente nulla con l’argomento?
Mentre si arrovellava sulla questione, Ofelia gli prese dalle mani i formulari, gentilmente, come per dargli il tempo di rifiutarsi o tirarsi indietro. Era troppo intento a pensare per farci caso.
- Stavo procedendo al censimento di tutte le Bestie domestiche – si ritrovò a rispondere. La sua voce suonò vuota alle sue stesse orecchie.
Ofelia parve, senza alcun senso, sul punto di ridere, ma poi inorridì. Sicuramente aveva capito lo scopo di quell’indagine, ma perché aveva voluto ridere, all’inizio?
E perché a lui interessava così tanto?
Le altre persone, con le loro abitudini e i loro usi, risultavano incomprensibili, ma lui aveva sempre agito secondo il buonsenso. Non era invece in grado di spiegare lo scombussolamento che Ofelia generava in lui. Doveva dipendere per forza di cose dal fatto che fosse più imprevedibile degli altri.
Ventidue.
- Non starete mica pensando di…
- Sto prendendo in considerazione tutte le possibilità per risparmiarci la carestia – la bloccò, perché evitasse di completare la frase. Quel compito non andava particolarmente a genio nemmeno a lui. Consultò l’orologio da taschino, calcolando quanto tempo poteva permettersi ancora di sprecare. No, non sprecare: sfruttare. – Se fosse per me sceglierei per primi i ministri più grassi, ma l’antropofagia è una pratica illegale persino al Polo.
Ofelia non rise della sua battuta. Eppure gli sembrava che fosse… chiara. Perché rideva alla prospettiva di un censimento, e non di fronte ad una sorta di… battuta veritiera che metteva di fronte alla nuda verità? Forse il cannibalismo non la divertiva. A lui dava solo la nausea, in effetti.
- Le signore sanno quel che vi aspettate da loro? – gli chiese guardando, attraverso lo spiraglio della porta, le signore in questione.
Zero.
- Lo sapranno appena avrò finito con voi – borbottò lui. Quella prospettiva non lo allettava. Né di finire con lei, né di dire alle signore imbellettate che intendeva servire come pasto i loro cani troppo cresciuti. – I cinque minuti sono passati, posso avere una risposta? – la sollecitò. Era in debito di sette secondi, ad essere precisi. La cosa non lo turbava come al solito, però. – Verrete a trovarmi o no?
Lo sguardo che Ofelia gli rivolse non gli piacque affatto. Era stato guardato in molti modi, nella sua vita, con rabbia e sdegno, ribrezzo e malevolenza, odio e disprezzo, ma Ofelia sembrava avere pietà di lui. O forse, ancora peggio, era pietà per lei, all’idea di doversi sposare con lui. Si rese conto con sorpresa che avrebbe voluto cambiare quel modo di essere guardato. Solo il suo. Degli altri non gli importava, e non gli era mai importato.
- Non mi piacerebbe proprio essere nei vostri panni.
Thorn trattenne il fiato. Quell’asserzione, più di ogni altra che avesse udito, lo colse di sorpresa. Gli mozzò il respiro. Nessuno l’aveva mai osservato così attentamente da rendersi conto di quanto fossero scomodi i suoi abiti, se era questo che davvero Ofelia insinuava. Ma lui era una persona pratica, i sensi occulti delle frasi sfuggivano alla sua comprensione. Esisteva solo il loro significato letterale. E, letteralmente, al di là dell’emicrania sempre latente o del dolore alle giunture, che per lo più ignorava, la giacca da intendente era rigida e troppo calda. Gli impediva i movimenti. La camicia era troppo piccola, come ogni indumento, e lo faceva innervosire e incurvare, aumentando il fastidio ai tendini.
Mentre una branca dei suoi pensieri analizzava il contatto della stoffa sulla pelle e un’altra si concentrava sul fatto che avevano esaurito il loro tempo da trentotto secondi, ormai, Thorn si rese conto di… apprezzare ciò che Ofelia diceva. Voleva parlare ancora con lei, voleva diventare capace di capire il suo linguaggio segreto, interpretarlo e prevederlo. Era un’equazione troppo allettante per lasciarla perdere. E più di tutto, non aveva pregiudizi su di lui. Non nutriva nei suoi confronti un odio irrazionale e privo di fondamenta. Era arrabbiata con lui per averle taciuto informazioni che la riguardavano, per averla manipolata. Quello, l’aveva capito, era ciò che Ofelia odiava davvero.
Significava, però, che se lui fosse riuscito a farsi perdonare, il suo parere nei suoi confronti sarebbe potuto migliorare? Avrebbe potuto… non odiarlo. Non come gli altri. Con lei aveva un’opportunità che non aveva mai avuto, perché lei era scevra di preconcetti, non era nata lì, non era cresciuta lì, non conosceva le loro abitudini e la loro storia: l’opportunità di farsi apprezzare, per quanto complicato potesse essere.
- Ammetto che non sono molto comodi. Anzi, peggio che scomodi – ammise dopo altri nove secondi, allungando così il ritardo. Non gli importava. Controllò meccanicamente di essere perfettamente abbottonato e in ordine. Forse l’interessamento di Ofelia derivava da una qualche piega fuori posto. Non voleva ammetterlo, ma mentre si pettinava e controllava l’orologio, stava solo cercando di prendere tempo. Di godere ancora di quella compagnia così inusitata. Piacevole a suo modo. Però non gli aveva ancora risposto. Si schiarì la gola, poco avvezzo a quel genere di conversazione. E al dover essere insistente, quando tutti scattavano e gli obbedivano nel suo lavoro. – Ne deduco che la vostra risposta è no. Permettete?
Si rese conto di quanto poco quella congettura lo soddisfacesse quando allungò la mano per riprendersi i formulari che Ofelia ancora stringeva. Che ridicolo era stato, a pensare che Ofelia potesse cambiare opinione su di lui. Non voleva nemmeno un incontro da futuro marito a futura moglie. Era palese che già quel breve colloquio le fosse costato.
Tutto quel suo arrovellarsi era inutile, improficuo e poco dignitoso.
Vide però l’espressione di Ofelia cambiare. La pietà parve rivolta più a se stessa che a lui, in quel frangente. Sembrava… pentita.
Poi si raddrizzò, inclinò il collo per riuscire a guardarlo negli occhi, e gli restituì i fogli. Perso in quelle iridi scure, fuori luogo al Polo, Thorn prese i fogli automaticamente. Non voleva perdere il contatto visivo, per qualche oscuro motivo.
- Avete ragione, non possiamo passare la vita a evitarci, dobbiamo trovare insieme un compromesso. Verrò all’intendenza domani, prima dei racconti. E verrò sola.
Thorn sentì il suo intero essere cedere, le ginocchia perdere la forza di tenergli ritte le gambe. Ma si impose la compostezza. Provava sollievo… e… trepidazione. E speranza. E si sentiva ridicolo, ma aveva sentito come un calore irradiarsi dal suo stomaco al resto del corpo. Come se le sue parole, il suo consenso, lo avessero scaldato dentro.
Aveva già sprecato abbastanza tempo, però.
- A domani, allora.
 
Le ore si protrassero con lentezza esasperante. Stava forse impazzendo? Ogni secondo era di durata identica ad un altro, come poteva anche solo pensare che il tempo fosse lento? Il tempo fluiva regolarmente, secondo i suoi ritmi.
Quei pensieri oziosi e futili lo accompagnarono da quando ebbe rimesso piede all’intendenza, dopo il censimento delle bestie domestiche, fino alla notte e alla mattina successiva.
Non avevano concordato un orario per l’appuntamento, e con grande sorpresa di Thorn la cosa non lo turbava. Per quel giorno non aveva visite programmate, solo lavoro cartaceo, quindi aveva lasciato l’anta dell’armadio dei cappotti aperta e aveva istruito il suo segretario di avvisarlo nel caso in cui ci fossero state richieste d’incontro.
Lavorò con un occhio puntato sull’armadio, controllando l’orologio da taschino ogni dieci minuti precisi, anche se sapeva benissimo discernerli anche senza quell’oggetto. L’ultima volta che aveva provato a dare un appuntamento ad Ofelia le aveva chiesto di vedersi tra le undici e mezzo e mezzogiorno. Il non riuscire a capire se avrebbe rispettato quell’orario, seppur in ritardo, lo faceva fremere d’impazienza. Accondiscendere alla sua richiesta non gli sembrava troppo incline al suo carattere… emancipatore. Sarebbe sicuramente andata in un altro orario. E se invece, proprio per ripicca, avesse deciso di presentarsi alle undici e mezzo?
Thorn dovette rassegnarsi all’idea che Ofelia sarebbe andata quando più le sarebbe aggradato, una preferenza che non aveva termini di calcolo. Non era prevedibile. Rimaneva solo l’attesa. Anzi, il lavoro.
Stava lavorando, non stava attendendo Ofelia, dovette redarguirsi Thorn. Stava lavorando e, nel mezzo di quel lavoro, Ofelia sarebbe andata a parlargli. Era lavoro anche quello. Lavoro di tipo… coniugale. Un’incombenza nuova, a cui non avrebbe pensato di doversi adattare, ma che gli toccava gestire. Che sembrava… impaziente di dover gestire. Non gli era mai capitato. Si rese conto con un lampo di fastidio che lui voleva vedere Ofelia. Al di là del bisogno di vivere rapporti civili, al di là del doversi assicurare che stesse bene, di sondare la sua incolumità, lui voleva vederla. Parlare con lei. Studiare le espressioni sul suo viso. Scoprire cosa avrebbe potuto conoscere su di lei.
Quella ridicola e illusa speranza di piacere a qualcuno si stava ripresentando.
Consultò l’orologio, si accese la pipa, e fumò mentre scriveva.
Passò mezzogiorno.
Passò l’una.
Thorn si riaccese la pipa. Non mangiò.
Continuò a lavorare.
Si concesse una pausa bagno purtroppo indispensabile e si scrutò il volto allo specchio mentre si lavava le mani. Non gli piacque ciò che vide. Quello strano sguardo di… aspettativa. Di speranza. Aggrottò le sopracciglia, disgustato, e si rimise al lavoro.
Saltò la cena.
Ofelia non andò a trovarlo.
Forse sarebbe andata più tardi. Forse era stata trattenuta. Aveva sicuramente una buona motivazione per il suo ritardo. Lui non le piaceva, lo sapeva. Non gli era concessa la sua grazia, ma Ofelia era una persona buona. Non ce n’erano come lei, al Polo. Era sincera. Non gli avrebbe dato appuntamento se non avesse avuto intenzione di rispettarlo. Era integerrima. Leale.
Il segretario passò per lasciargli una copia del giornale che sarebbe uscito l’indomani. Thorn non lo ringraziò e non rispose alla formula di commiato.
Squillò il telefono in quel momento. Sua zia lo informò brevemente, dopo che lui ebbe ignorato le domande di prassi circa la sua salute e cosa avesse mangiato, che Ofelia si stava recando da Faruk per la regolare storia, in qualità di vicenarratrice. E che nel pomeriggio era fuggita da Archibald. Fuggita, letteralmente, attraverso lo specchio.
Thorn non salutò quando rimise giù la cornetta.
Ofelia aveva avuto intenzione di presentarsi, il giorno prima. Lo avrebbe fatto, se non fosse stata trattenuta. Se qualcuno non l’avesse trattenuta. Se quel qualcuno non fosse stato così inconcepibilmente attraente per le donne. Non poteva credere che pure lei ci fosse cascata. Pensava fosse diversa.
Ma c’era Archibald.
Decine di diverse correnti di pensiero gli sfrecciarono nella mente caoticamente.
- Illuso – gli dicevano.
- Bastardo.
- Aberrazione.
- Inguardabile.
- Indegno.
- Inferiore.
Thor si lasciò divorare da quella rabbia, scatenata contro se stesso, perché non poteva essere diverso da ciò che era. Non poteva essere amato. E non poteva nemmeno sperare di poter cambiare quella condizione.
Sentì anche un’ondata di implacabile ribrezzo e odio nei confronti di Archibald; un uomo che aveva tutto, e non si accontentava mai. Avido. Sregolato. Dissoluto. Disordinato e sciatto.
Nobile, di sangue puro, amato, invidiato, bello e affascinante (a detta degli altri, lui ne era solo nauseato), piacente.
La finestra andò in frantumi.
Thorn teneva la pistola nel cassetto. Non l’avrebbe presa finché non ce ne fosse stato assoluto bisogno.
Quando vide le due figure scure e nerborute calarsi dentro la finestra dalla notte esterna (aveva atteso Ofelia per sedici ore e trentuno minuti quel giorno) sentì gli artigli scorrergli nei nervi, lasciandoli scoperti e smaniosi. Si vergognò per quello, ma non gli sarebbe dispiaciuto sfogare quella frustrazione su qualcuno. E quei due malcapitati sembravano il bersaglio perfetto.
 
Quando rimase solo, imbrattato di sangue suo e non, sporco, scarmigliato, vuoto, provava sentimenti contrastanti. Il suo buonsenso aveva prevalso sull’istinto, alla fine. Non aveva usato gli artigli se non per scopi necessari: prendere una traccia delle due canaglie per consegnarle alla giustizia in un secondo momento. Il luccichio della pistola aveva fatto il resto.
Non si sentiva un mostro tanto quanto si sarebbe sentito tale se avesse usato di più il suo mezzo potere familiare. Ma questo non significava che non si sentisse sbagliato, orribile, malvagio, demoniaco.
Diede un’occhiata al disordine, esacerbato dal vento freddo che pareva volesse prendersi gioco di lui e faceva volare fogli nel soqquadro generale. Aveva male dappertutto, ma i suoi sensi erano come annebbiati.
Rimase in piedi, immobile sotto la finestra in frantumi, impassibile di fronte ai fogli che si agitavano nel vento.
E non pensò a nulla. Consapevole solo dello scorrere dei secondi, regolari, calmi, sempre ordinati e inflessibili.
Non pensò ad Ofelia e Archibald, al disordine, al suo stomaco che, suo malgrado, brontolava di fame per essere stato costretto al digiuno dalla mattina, ai suoi artigli violenti e sanguinari, al suo occhio pesto, all’emicrania, al naso rotto, alla pistola fredda contro le sue dita ossute.
Fredda, e puntata verso lo scricchiolio che udì ventisei minuti più tardi.
 
Thorn si accorse della presenza di Ofelia quando era già uscita dall’armadio. Si rese conto che era lì perché calpestò i vetri della finestra frantumata, producendo un crepitio innaturalmente forte nel silenzio ovattato del suo ufficio.
Fu un riflesso quasi involontario quello che lo spinse a sollevare nuovamente la pistola per puntargliela contro. Fortunatamente aveva un ottimo controllo dei propri artigli: se li avesse scatenati erroneamente contro Ofelia non se lo sarebbe mai perdonato.
Lei aveva gli occhi strabuzzati e la bocca aperta, da cui uscivano nuvolette di condensa, contrasto tra il suo fiato caldo e la temperatura gelida (escursione termica di trentasette gradi, pressappoco). Sotto la vestaglia da notte sbucavano degli stivaletti, e la sua figura era talmente ingobbita e accartocciata che misurava quattro centimetri in meno del solito.
Lei non accennò a muoversi, rimase a fissarlo con espressione palesemente sconvolta.
Thorn si affrettò a riabbassare quell’arnese odioso. – Ah, siete voi. Dovreste annunciarvi quando arrivate, non vi aspettavo più.
Che bugiardo. La porta dell’armadio sarebbe rimasta chiusa se non l’avesse più attesa. Si rese conto in quel momento che, se lei non si fosse presentata quel giorno, avrebbe atteso la sua presenza anche il seguente. Si corresse: era già il giorno seguente, data l’ora. Era stata la feccia che aveva ridotto il suo ufficio ad un bordello a lasciare l’anta così spalancata, l’armadio depredato di tutti i suoi cappotti. Ma, anche se loro non l’avessero lasciato in quello stato, Thorn avrebbe probabilmente riposato qualche ora sul logoro divano sotto la finestra, con l’armadio sempre aperto. Non l’aspettava più, ma ancora ci sperava.
Anzi, vista la sciagura che sembrava seguirla contro ogni logica, si meravigliava che non fosse sbucata da quell’armadio proprio nel pieno dell’invasione di quei due energumeni di prima.
Il labbro spaccato gli lanciò una fitta quando lo mosse per parlare, ma era niente in confronto a tutto quello che provava in altre parti del corpo. O a quello che aveva dovuto sopportare in passato. Nulla era come quello.
Ruotò la pistola, affinché non puntasse più contro Ofelia, e gliela porse. Lui non voleva averci niente a che fare, nonostante fosse un utile strumento di difesa e non implicasse sfoderare il suo mostruoso potere, ma lei era completamente indifesa.
- Prendetela. Premete il grilletto solo se è strettamente necessario – aggiunse. Non sapeva quanta conoscenza la sua fidanzata avesse di quelle armi, e non voleva scoprire che aveva erroneamente sparato a qualcuno nel tentativo di capire come funzionasse. – Non credo che torneranno, ma è meglio restare vigili.
E una pistola poteva allontanare chiunque.
Ofelia, però, continuava a fissare lui, sbigottita. Di certo non aveva guardato Archibald con quell’aria fredda e distaccata. Doveva essere stata… premurosa, rilassata. Anche un po’ di più.
Ofelia parlò prima che lui potesse stringere più forte le mani sulla pistola fredda, innervosito. – Chi è stato?
- La domanda non mi preoccupa più di tanto. Hanno avuto il fatto loro. Piuttosto avrei apprezzato se avessero rovistato nel mio ufficio con più attenzione. Ci vorranno ore per rimettere a posto tutto.
Di fronte alla mancanza di iniziativa da parte di Ofelia, rimise la pistola nella cintura. Afferrò al volo un foglio che gli bloccava la vista, infastidito.
- Richiesta di sovvenzione per l’abbellimento esterno delle abitazioni. Questo va alla pila del telefono – disse al vento, rendendosi conto di quanto tempo avesse perso, immobile, senza fare nulla.
Fece tre passi in direzione del telefono divelto, sotto al quale infilò il foglio macchiato di sangue. Serviva più come fermacarte che come telefono. Avrebbe dovuto sostituirlo. L’intontimento che aveva provato fino a quel momento parve sollevarsi come un velo dalla sua testa, e finalmente vide il cataclisma che regnava attorno a lui. Il suo ufficio. Nel caos. Gli prudevano i nervi dal fastidio, l’emicrania si intensificò. Doveva riordinare, era prioritario.
Una piccola parte di lui (diciotto percento), avrebbe voluto stare a sentire cosa avesse portato Ofelia da lui nel cuore della notte. L’aveva attesa tutto il giorno e lei aveva preferito dare la precedenza ad Archibald, riservando a lui solo gli scarti del suo tempo. Era rimasta con lui fino a quel momento? La parte maggiore, però, irata e offesa, prevalse. Si erano dati un appuntamento, le aveva concesso ampia libertà, permettendole di presentarsi quando avesse preferito, e lui aveva atteso. Invano. Ora lei non aveva più la precedenza.
Sentì giunture, ossa, muscoli e tendini scricchiolare quando si sedette per terra, nel punto in cui si annidavano più fogli. Avrebbe cominciato a riordinare da lì. Iniziò a prendere al volo tutti i fogli che, volanti o posati per terra, gli capitavano a tiro. Di solito i gesti metodici che lo portavano a mantenere tutto perfettamente in ordine avevano l’effetto di calmarlo. Il mondo tornava al suo posto quando tutto era simmetrico. Il mondo era più logico, comprensibile, giusto e vivibile. Non in quel momento. Aveva in corpo troppi sentimenti ribollenti per permettersi di vedere l’effetto catartico del suo rimettere a posto.
Ofelia rimase immobile altri quindici secondi prima di cominciare a muoversi per la stanza. I vetri che calpestava davano a Thorn un’idea della direzione che prendeva; sembrava che non avesse intenzione di rinfilarsi nell’armadio e lasciarlo lì. Ma quello non significava nulla.
I fogli smisero improvvisamente di agitarsi senza ritegno, piombando al suolo privi di vita. Probabilmente Ofelia aveva trovato il modo di bloccare l’entrata del vento dalla finestra distrutta. Sì, sarebbe stato più facile riordinare in quel modo, ma il vento gli aveva dato in qualche modo la forza di cui aveva bisogno. Si sentiva stanco. Aveva anche fame. Non prediligeva nessun cibo in particolare, ma era consapevole dei limiti del suo corpo, del fatto che avesse bisogno di nutrimento per poter sintetizzare lipidi, proteine, vitamine e…
- Thorn – mormorò Ofelia con una voce appena udibile. Se il vento avesse ancora imperversato per la stanza sarebbe stato impossibile distinguere le sue parole. Il rumore del termosifone che si avviava e l’aumento della luminosità gli fecero capire che aveva cercato di rischiarare e scaldare l’ambiente. Le battevano i denti, il rumore era appena udibile, ma lui non avrebbe alzato lo sguardo su di lei. Non era sicuro di poter nascondere l’ira e il resto delle emozioni caotiche che provava. Il suo ufficio ben rispecchiava quello che sentiva dentro di sé: desolazione, disordine, sangue, rotture, violenza.
- Non vorrei allarmarvi, ma non… ehm… non avete un gran bell’aspetto.
Nessuno gliel’aveva mai detto con tanto tatto. Ma non serviva tutta quella pacatezza: sapeva esattamente di non avere mai avuto un bell’aspetto. Che differenza faceva un po’ di sangue?
- Taglio in fronte, frattura del naso, due molari rotti e qualche stiramento muscolare. Non fatevi impressionare dal sangue, è solo il mio.
- Avete una cassetta di pronto soccorso?
Thorn cerò di non irrigidirsi. – Ce n’era una. Ultimo cassetto della scrivania.
Che volesse curarlo? Oppure, visto che aveva già contribuito a rendere l’ambiente un po’ meno freddo, aveva intenzione di dargli la cassetta e andarsene?
Sentì un trambusto nel punto in cui aveva detto ad Ofelia di cercare, ma non si arrischiò a guardare cosa fosse successo. Era maldestra, lo sapeva. Non gli interessava. Gli bastava evitare di guardare altro disordine.
Ofelia armeggiò ancora un po’ con altri cassetti, poi tra i vetri. Probabilmente era tutto rotto e inservibile. Avrebbe dovuto far pulire anche i tappeti.
- Dovreste farvi vedere da un dottore – diagnosticò lei dopo aver appurato che, in effetti, era tutto devastato e inutilizzabile. Thorn sentì rumore di passi e di fogli raccolti.
- No, devo mettere a posto i documenti – rispose. Aveva sopportato di peggio, non disse. – L’intendenza riaprirà alle otto in punto, non un minuto più tardi.
Ofelia si inginocchiò di fronte a lui porgendogli quello che aveva raccolto strada facendo. Non aveva mai avuto nessuno che lo aiutasse a… in niente, a dire il vero. Lei, invece, non se ne stava andando, lasciandolo al lavoro sporco. Che si sentisse in colpa per qualcosa? Che alla fine, con Archibald, avesse davvero…
Non si arrischiò a guardarla.
- Come volete – liquidò la faccenda, quasi irritata. – Ma ora ditemi: che è successo esattamente?
Thorn alzò un foglio particolarmente imbrattato di sangue alla luce della lampada più vicina: pila del telefono, anche quello.
Le rispose senza smettere di lavorare, mostrandole anche il naso e il mignolo, i segni distintivi che lo avrebbero aiutato ad inchiodare i due aggressori. Almeno così anche lei sapeva di doversi tenere alla larga da due individui mutilati di un mignolo e un naso.
Ofelia lo incalzò con le domande, ferma di fronte a lui. Non gli sarebbe stata utile a riordinare, dal momento che non sapeva di cosa trattassero i fogli che lui stava sistemando in pile ben distinte e simmetriche. Non gli rallentava il lavoro, per cui tollerava la sua presenza lì. Però sembrava sinceramente interessata.
Quella donna era incomprensibile. Lo ignorava, lo evitava, e poi faceva quanto era in suo potere per aiutarlo. Ma nel contempo, saltava l’appuntamento con lui per stare con Archibald. Cercò di non stropicciare un foglio di carta.
Sentiva i suoi occhi addosso, insistenti e scrutatori, mentre lui si muoveva per sistemare tutto e intanto rispondeva alle sue domande, spiegandole cosa fosse la riabilitazione dei decaduti. Tirò addirittura in ballo la Costituzione e si rese conto che Ofelia era più ricettiva, curiosa e predisposta all’apprendimento di quei burocrati pingui e pigri con cui aveva a che fare di solito. Se i membri della corte di Faruk e i legislatori fossero stati tutti come lei, il suo lavoro sarebbe stato dimezzato, oltre che velocizzato del quaranta percento. E probabilmente la situazione del Polo sarebbe stata anche più giusta ed equa.
Ofelia gli fece molte domande, e dato che nella sua vita Thorn non aveva ottenuto nulla per nulla le permise di porgliele. In cambio, le avrebbe chiesto la stessa cosa: risposte.
Per cui la lasciò continuare, anche se sperò avesse finito quando colse in lei un’esitazione.
- Che sono gli stati familiari? Non ne ho mai sentito parlare – lo incalzò lei invece, ancora.
Mentre le spiegava accuratamente cosa fossero, e quale fosse la sua posizione in merito, la percepì incassare il collo nella sciarpa e stringersi nella vestaglia per il freddo. Non disse altro, e regnò il silenzio. Probabilmente non aveva finito con le domande, sembrava non esaurirle mai, ma se aveva freddo non voleva che si prendesse un malanno, cagionevole com’era.
Così prese il suo orologio da taschino (erano trascorsi diciannove minuti dall’arrivo di Ofelia), e valutò quanto tempo avesse per finire di sistemare prima dell’apertura. L’orologio era sporco di sangue, avrebbe dovuto pulirlo.
- Avete finito con le domande? Bene – la incalzò, senza darle il tempo di ribattere. – Ora tocca a me.
Si fermò, lasciando i fogli dove stavano, lasciando che il caos regnasse ancora un po’. Aveva bisogno di vedere Ofelia in viso per valutarne le reazioni. I bugiardi si smascheravano facilmente, e Ofelia era molto espressiva. Si appoggiò le mani sulle ginocchia, e le spalle ringraziarono per quel riposo.
Quando sollevò lo sguardo su di lei era consapevole di non essere riuscito del tutto a nascondere il malcontento. Meschinamente, voleva trasmetterle ciò che provava, ossia nulla di positivo.
Ofelia infatti si irrigidì.
Invece di compiacerlo, quella reazione lo… intristì.
- Che siete andata a fare da Archibald, oggi?
La sua voce risuonò più pesante del previsto. Fredda e distaccata, quasi ferita. Eppure non aveva voluto assumere quel tono. Ofelia apparve colpita da quella domanda. Non sembrava tanto colta in flagrante, quanto più… sorpresa che lui lo sapesse. Ma non colpevole.
- Oh, sarebbe lungo da spiegare – lo liquidò.
Quella risposta lo fece infuriare. Non ne capì il motivo.
- Avevamo un appuntamento – scandì, questa volta con l’intenzione di calcare bene ogni parola, come per imprimergliele nella mente. – Perché siete andata da Archibald invece che venire da me?
E poi, senza quasi rendersene conto, sputò: - Cos’è che lo rende più frequentabile?
Gelosia. I sentimenti che si erano agitati come i fogli nel suo ufficio parvero quietarsi, calmarsi. Avevano trovato il loro posto, la loro forma.
Gelosia. Era geloso di quel buono a nulla di Archibald. Del fatto che Ofelia lo avesse preferito a lui, come chiunque altro.
- No, non è questo il punto – balbettò Ofelia. Qual era la natura della sua agitazione? Colpevolezza? – C’è stato un imprevisto, ecco tutto.
Ma Thorn ormai era implacabile, e alla gelosia si era affiancata la furia. Verso Archibald, verso Ofelia, ma soprattutto verso se stesso, che provava quei ridicoli sentimenti e addirittura si illudeva di poter avere una possibilità. Per quale motivo si ostinava a voler cambiare il risultato che i calcoli probatori avevano già evidenziato?
- Insomma, - sbottò, - che devo fare perché mettiate fine alla punizione che mi state infliggendo?
Ofelia si seppellì nella sciarpa, come a volersi schermare. L’accusa era dunque fondata, oppure la intimidiva il suo tono?
- Non era premeditato – si giustificò. – In realtà mi ero dimenticata di voi – aggiunse, come se quell’ammissione potesse sistemare le cose.
Thorn la fissò in silenzio, a lungo.
Si era dimenticata di lui. Valeva così poco, ai suoi occhi, da passarle addirittura di mente. Avevano preso appuntamento il giorno prima. Era consapevole della fallacità della memoria di chi non ne possedeva una come la sua, da Storiografo, ma dimenticarsi un appuntamento fissato il giorno prima non era una questione di mente, di cervello. Era completa, totale, profonda indifferenza. E l’indifferenza era il contrario dell’amore. Non l’odio. L’indifferenza.
Se l’avesse odiato, almeno avrebbe provato qualcosa per lui.
Capì in quel momento di essere indissolubilmente innamorato di Ofelia. Lo comprese quando si rese conto che lei, ovviamente, non provava nulla. Accanto alla gelosia e all’ira si frapposero un sentimento strano, caldo, mai provato prima e… un’angosciante delusione. Si era davvero innamorato della sua fidanzata. Avrebbe davvero voluto sposarla. Avrebbe davvero voluto averla al suo fianco. Non gli dava fastidio, non lo disgustava, non lo infastidiva.
Aggrottò le sopracciglia tanto da ridurre il suo campo visivo. Si sentiva attratto da Ofelia. Voleva… passare del tempo con lei. Conoscerla. Capire come funzionavano i suoi meccanismi mentali, quale passato l’avesse portata ad essere quella che era. Con le sue innumerevoli qualità, la forza inusitata e imprevedibile in una persona così piccola e apparentemente fragile, la volontà di ferro e la bontà innata, il senso di giustizia, scevro di pregiudizi, il candore di chi non ha visto di quali orrori è capace il mondo ma sarebbe comunque in grado di affrontarli. Voleva proteggerla, tenerla stretta a sé. Anzi, voleva affrontare con lei quello che si sarebbe presentato loro davanti. Anche un po’ di più.
L’amava.
E lei… - Proprio non mi amate.
Ofelia rabbrividì e un’espressione di orrore comparve sul suo volto. Se lo coprì con le mani, terrorizzata… da lui.
Thorn sentiva che, se non avesse già avuto le braccia abbassate, la forza le avrebbe abbandonate, facendogliele ricadere lungo i fianchi. Ofelia… aveva paura di lui. Ofelia aveva pensato che lui volesse… che volesse… attaccarla. Non riusciva nemmeno ad immaginarsi scenario più grottesco. Se c’era una cosa che avrebbe voluto fare prima, era abbracciarla. Non sfoderare i suoi artigli su di lei.
Come aveva potuto pensare che lui volesse…? Cosa l’aveva spinta a crederlo possibile?
I pensieri gli vorticavano di nuovo, tumultuosi, nello stomaco e nella testa. Non si era mai sentito più orribile di così, nemmeno quando aveva ucciso quel decaduto per legittima difesa. Mai.
Si sentiva svuotato, arido, irrecuperabile. Cosa aveva pensato di meritare? Quel matrimonio era combinato. Nessuna donna avrebbe mai voluto sposarlo. Ironico a dirsi, ma se l’era dimenticato. Doveva cercare di tenerlo sempre bene a mente, o sarebbe finito a sperare nel nulla.
Come si era ridotto…
- Allora siamo a questo punto? Diffidate così tanto di me?
Ofelia si tolse le mani dal viso, piano, come se in realtà temesse lo stesso un attacco. – I miei nervi sono stati messi a dura prova, oggi – si giustificò. Era stanca, provata. La corte non le faceva bene. Il Polo non le faceva bene. Lui non le faceva bene. – E poi dovreste guardarvi allo specchio quando fate quella faccia, anche voi vi trovereste spaven…
- Io non vi farò mai del male.
La vide vacillare, colpita da quelle parole sincere. Si sentì vacillare lui stesso. Erano solo parole, sì, ma erano tutto ciò che aveva. Non aveva onore, un retaggio di sangue puro, non aveva fascino, bell’aspetto, modi garbati, non aveva interessi al di là del lavoro, solo un gran senso del dovere che ad una donna, ad una moglie, sarebbe servito ben poco, ma… aveva le parole. Aveva la possibilità di fare promesse che non si sarebbe dimenticato neanche volendolo. E aveva la sincerità. Forse l’unica qualità che avessero in comune. Era onesto.
Non le avrebbe mai, mai e poi mai fatto del male. Avrebbe ferito se stesso, piuttosto. Ma non lei.
Non gli interessava cosa Ofelia avesse pensato di lui fino a quel momento. Voleva che, da quell’istante preciso, da quell’ora che avrebbe ricordato per sempre, quel minuto, quel secondo, lei gli credesse. E capisse che per lui era… importante.
- Ci sono molti modi di fare del male a qualcuno – prese la parola lei dopo quattordici secondi. Il tono era… come di resa. – Io do la mia fiducia a pochissime persone, e per il momento né voi né Archibald siete tra queste.
La gelosia lo rese felice che Archibald non godesse della fiducia di Ofelia. Il sentimento che provava per lei, invece, lo rese consapevole di chi era, cos’era, e come appariva ai suoi occhi. Gli sembrava che finalmente Ofelia avesse messo fine al rancore che gli portava, che finalmente avesse deciso di cancellare i passi che li avevano condotti fino a quel punto per ricominciare di nuovo, con il piede giusto. La prima volta avevano preso strade diverse, sbagliate. La seconda, Ofelia non era nemmeno partita, lui era andato per la sua strada da solo. Ma quella volta, la terza, sapeva che sarebbero partiti insieme. Esitanti, ma insieme. E lui avrebbe fatto il possibile per spianarle la strada affinché lei potesse prendere fiducia in sé, in lui, in loro, e lo raggiungesse.
Non era fantasioso, era una persona pratica; metafore, allegorie e tutto ciò che riguardava la letteratura non lo aveva mai interessato, ma quell’immagine si stagliava nitidamente nella sua mente, come se avesse davvero vissuto quell’istante, camminato insieme ad Ofelia.
Prese coscienza delle sue mani, così grandi in confronto a quelle piccole, delicate e inguantate di Ofelia, così insanguinate. Di sangue nuovo, di quella sera, e vecchio, di quando non era stato degno di lei. Non era sicuro di essere degno di lei nemmeno in quel momento, ma ci voleva provare. Provò stupidamente di pulirsi dal sangue strofinandosi le mani sulla camicia, ma ormai era secco, rappreso, e il suo tentativo fu inutile.
Ofelia continuava a guardarlo. Non sembrava più spaventata, ma Thorn sapeva che l’immagine del suo volto terrorizzato l’avrebbe perseguitato per molto, molto tempo.
Era andata da lui, alla fine, si rese conto. Si era scordata di lui, era stata con Archibald per motivi non sentimentali, a quanto pareva, e appena si era ricordata del loro appuntamento era andata da lui. A quell’ora tarda. Thorn cercò di concentrarsi su quello sforzo. Doveva essere esausta, ma aveva comunque deciso di raggiungerlo.
Non si illudeva che non ci fosse un motivo, ma gli si scaldò un po’ il petto.
- Ho già parecchi nemici – esordì, accigliato. – Non voglio più considerarvi tale, quindi ditemi che devo fare. Siete venuta qui per questo, no? Avete un accordo da propormi, vi ascolto.
E seppe che avrebbe acconsentito a qualsiasi richiesta, pur di ingraziarsela. Lui, integerrimo, giusto, inflessibile e incorruttibile, stava cercando di scendere a compromessi con la sua fidanzata, per rendersi più… approcciabile.
Ofelia lanciò una breve occhiata a lui e all’ambiente. Chissà cosa stava pensando.
- Voglio un lavoro.
- Un lavoro -. Tra tutte le richieste… Thorn sospirò mentalmente. Era chiaro che non gli avrebbe chiesto nulla di usuale, cosa si sarebbe potuto aspettare da lei? – Ne avete già uno.
- Non sono tagliata per fare la vicenarratrice – ammise Ofelia senza vergogna. In effetti, era già un miracolo che fosse riuscita a farsi sentire da tutti la prima volta a teatro, con la voce sottile e flebile che aveva. Anche se sembrava un ruggito rispetto a quella che aveva esibito appena si erano conosciuti, non era un baritono. – Lo spettacolo di stasera è stato un disastro ed è finito come peggio non poteva. Non credo che Faruk vorrà ancora ascoltarmi.
La mente di Thorn si divise in due correnti: una contrariata, e l’altra sollevata. Contrariata, perché in quel modo Ofelia avrebbe potuto perdere la protezione di Faruk, che teneva a corte sotto la sua ala protettrice solo chi gli tornava utile. Sua zia era… non voleva nemmeno pensare a cosa fosse sua zia per lo spirito di famiglia, o a cosa facessero insieme, anche se i fatti lasciavano ben poco spazio all’immaginazione dato che era incinta. Dentro di sé nutriva il puro e agghiacciante terrore che Ofelia potesse fare la stessa fine. Del resto, cosa se ne sarebbe fatto Faruk di una donna? Il sollievo era dato dallo stesso motivo: era contento che Ofelia non dovesse più dipendere da lui, dai suoi ordini e dai suoi capricci. E che lui non potesse più nuocerle. Aveva visto gli effetti della sua presenza su di lei, sulla sua mente, e vederla soffrire aveva fatto soffrire anche lui, sebbene all’epoca avesse dato la colpa a un’emicrania particolarmente forte. Invece era già innamorato di Ofelia, e non aveva voluto ammetterlo.
Infatti, prevalse il sollievo. Faruk era una mina vagante, molto meglio averlo lontano dalla sua fidanzata, tanto più se, grazie alla sua lacunosa memoria, era chiaro che si sarebbe ben presto scordato di lei. E con buona probabilità, le attenzioni che sua zia gli riservava avrebbero coperto anche Ofelia, risparmiandola.
Due secondi dopo rispose: - Non vi toglierà la protezione, siete troppo importante. Dimenticherà. Finisce sempre per dimenticare.
Ofelia parve calmarsi un pochino alle sue parole, e Thorn sentì una strana sensazione. L’idea di essere riuscito a confortarla lo faceva sentire… bene. Per un attimo non provò nemmeno dolore per via delle contusioni.
- Ci ho pensato su – spiegò allora lei, senza tentennamenti. Thorn era intrigato dal suo essere così diretta, così sicura di ciò che voleva. Non faceva che rammentargli, però, che abbaglio avesse preso all’inizio quando credeva che non sarebbe sopravvissuta, che fosse debole. – Potrei aprire uno studio di lettura, fare perizie per autenticare oggetti di famiglia o…
- Concesso – la interruppe. Era un lavoro sicuro, nessun tipo di pericolo, lontano dai riflettori. Era ragionevole.
Ofelia sollevò le sopracciglia, sorpresa. Ne fu… compiaciuto. Non era l’unica a poter prendere alla sprovvista gli altri.
- Evitate solo di esibirvi davanti a Faruk – si raccomandò, memore di quanto aveva analizzato poco prima. Non solo perché lei si tenesse alla larga dal raggio d’azione, e dalla memoria caduca, di Faruk, ma anche per la questione del Libro. Non dubitava assolutamente delle doti di lettura di Ofelia, era stata accuratamente selezionata da sua zia come fidanzata anche per quello, ma se avesse letto per Faruk lui avrebbe potuto ritenere nullo il loro contratto, o scordarselo, e tutto il lavoro, tutti i sacrifici fatti fino a quel momento sarebbero stati vani. – Potreste fargli venire l’idea di mettervi alla prova sul Libro, e il Libro è affar mio. C’è altro?
Ofelia parve ancora più sicura di sé con la sua ulteriore richiesta. Il suo benestare doveva averla resa più fiduciosa. O almeno così sperava. E sperava anche che, da quel momento in poi, Ofelia gli si rivolgesse anche per altro, non solo per ottenere qualcosa, per il proprio tornaconto. Non era un uomo paziente, ma si rendeva conto che per quelle questioni di… fidanzamento (non voleva pensare alla parola “coppia”) la pazienza era l’unica cosa che serviva davvero.
- Ho assunto un assistente, ma al momento non ho modo di pagarlo. Ho poca familiarità con le questioni di soldi. In attesa che sia in grado di retribuirlo potreste fargli avere un salario per i suoi servigi?
Un assistente. Per cosa? Chi? Preferì non fare domande, avrebbe giovato alla sua causa.
- Concesso. Altro?
- Ehm… sì – balbettò Ofelia, di nuovo sorpresa di fronte alla sua disponibilità. Bene. – Temo, alla lunga, di non essere più capace di distinguere le illusioni dalla realtà. Voglio rivedere il momento esterno.
Ragionevole. – Concesso. La notte polare è terminata e le temperature stanno risalendo – anche se non velocemente come nelle stime degli ultimi quindici anni, avrebbe voluto aggiungere, - presto potrete stare all’aria aperta. Altro?
- Da quando sono arrivata non ho fatto altro che vivere tra le sottane di vostra zia. Voglio un domicilio mio, non importa dove e quanto grande sia.
- Concesso. Altro?
Ofelia lo osservò con attenzione, riflettendo e al tempo stesso valutandolo. Sperava di essere riuscito a fare buona impressione su di lei, per quanto ritenesse poco encomiabile riconciliarsi sulla base di favori concessi o meno. Gli sembrava di essere uno di quei cortigiani che pagavano mazzette e si assicuravano i servigi di altri membri influenti tramite concessioni. Era arrivato a quel punto, pur di rendersi più… avvicinabile da Ofelia. Il fatto che non le avesse offerto nulla ma fosse stata lei ad avanzare richieste non lo aiutava a sentirsi meno imbroglione.
Ofelia si sciolse la sciarpa, come per aprirsi un po’ a lui, rischiarò gli occhiali (di umore alquanto tetro, presunse) e si sistemò i capelli. Alla meno peggio. Sistemarli era un’iperbole: i capelli di Ofelia sembravano ingestibili. Lui li avrebbe tagliati a zero, se fossero stati i suoi. Ma… gli piacevano. Addosso a lei.
Si impose di concentrarsi.
- Ho un ultimo favore da chiedervi, il più importante. Promettetemi di essere onesto, in futuro. Il fatto che per voi io sia soltanto un paio di mani non è più un problema – spiegò, aprendo e chiudendo i pugni come a voler utilizzare il suo potere. – Assumerò questo ruolo, dal momento che è chiaramente stabilito fra noi e che ognuno ci trova il proprio tornaconto. Sono anche pronta a insegnarvi a leggere quando avrete ereditato il mio animismo, dopo la cerimonia del Dono. E voi mi insegnerete a tenere sotto controllo gli artigli. Sarà il nostro unico dovere coniugale – mise in chiaro, articolando bene ogni parola, sottolineando il senso di ciò che stava dicendo. – Ma ecco, perché mi fidi nuovamente di voi non dovrete più nascondermi niente che mi riguardi direttamente.
I pensieri di Thorn esplosero, ripercorrendo ogni singola frase e parola di ciò che Ofelia aveva detto. Così tante cose avrebbe voluto correggere… altrettante avrebbe voluto cambiarne.
Essere onesto con lei. Sì, l’avrebbe fatto. Nei limiti del possibile. Aveva ormai capito che l’onestà e la trasparenza erano le uniche cose che per Ofelia contavano davvero. Non era interessata alla ricchezza, alla corte, alla vanità, all’opulenza, voleva solo onestà da parte di chi la circondava. E che non le venisse negata la sua libertà. Thorn era disposto a concederle tutto quello senza ritenute. Sarebbe stato onesto, e la cosa forse non le sarebbe piaciuta, ma glielo aveva chiesto espressamente. Quanto alla sua libertà… gli sembrava di essere già sulla buona strada.
Il fatto che però lei credesse di essere solo un paio di mani, per lui… All’inizio di sicuro. All’inizio, se ci fosse stato un modo per prendere il suo dono familiare e usarlo a proprio piacimento, non avrebbe esitato. E avrebbe risparmiato ad entrambi quell’unione forzata. Ma ora… anzi, fin dal momento in cui l’aveva vista… Si era invaghito da lei sin da subito, ma aveva avuto la forza di ammetterlo solo pochi minuti prima (otto, per la precisione). Non voleva che lei si considerasse solo un paio di mani per lui. Voleva che cambiasse quella concezione, perché forse, a quel punto, avrebbe capito cosa lei rappresentava per lui e avrebbe cambiato la sua attitudine. Si sarebbero potuti avvicinare. La matematica però non era molto dalla sua parte in quella questione, e lui la rispettava come se contenesse le regole del funzionamento del mondo.
Quanto al loro unico dovere coniugale… Si sentiva grato nei suoi confronti, per essersi resa disponibile ad aiutarlo a leggere. Si considerava una persona ragionevole (la cui definizione era “dotato di facoltà razionali; ispirato a un giusto criterio di valutazione”, quindi sì, lo era), molto ragionevole, e si rendeva conto che sarebbe stato impossibile padroneggiare il dono di Ofelia senza una guida. Lei aveva impiegato anni a sublimare l’utilizzo del suo potere familiare, non si aspettava certo di essere in grado di esercitarlo alla perfezione come lei dopo solo tre mesi dall’acquisizione del dono. Ed era ben disposto a ricambiare il favore insegnandole ad usare gli artigli. L’ultima cosa che voleva era che li usasse incautamente o inavvertitamente contro qualcuno, ferendo, e ferendo di conseguenza se stessa. Aveva cominciato a conoscerla abbastanza da intuire che non tollerava la violenza, e non si sarebbe perdonata di fronte alla prospettiva di aver nuociuto fisicamente a qualcuno.
Però…
Unico dovere coniugale. Non aveva mai pensato all’aspetto fisico delle relazioni. O meglio, ci aveva pensato, ma quando l’aveva fatto gli era salita una tale ondata di disgusto e nausea che si era imposto di controllare i suoi pensieri in quell’ambito. L’idea di… toccare una persona in quel modo… e… l’intimità, il mettersi a nudo, il mostrarsi completamente… i germi e i batteri… il rischio che la donna rimanesse incinta, dando così alla luce un… bambino urlante.
Quelle immagini erano intollerabili. I baci, non li aveva mai desiderati. La fisicità con qualcuno tanto meno. Era rivoltante, declassava l’umanità, la rendeva simile ad animali. Nella prima giovinezza, quando era sbocciato come uomo, con pulsioni e desideri annessi, se ne era sentito attratto per un po’ di tempo. Non tanto. Solo due mesi, a dire il vero. Poi aveva capito la portata di ciò che desiderava, e se n’era vergognato. E una sera, durante un ricevimento a corte a cui sua zia lo aveva costretto a prendere parte, aveva sorpreso diverse coppie in atteggiamenti lascivi. La cosa lo aveva talmente impressionato che una volta rincasato aveva svuotato lo stomaco per tutta la notte. Berenilde aveva dato la colpa ad alcune tartine scadenti, ma lui non aveva mangiato nulla. Aveva capito in quel momento che la vita da uomo sposato non faceva per lui. La vita da uomo non faceva per lui. La vita stessa non faceva per lui, si era reso conto da tempo, ma non per quello vi avrebbe rinunciato.
Forse, semplicemente, capì in quel momento, non aveva ancora trovato la persona che rendesse quegli atti tollerabili, desiderabili. Che facesse apparire il bisogno di un contatto come una cosa naturale, non come una vergogna. Che trasformasse un bacio in un gesto di affetto e comunione, invece che un mero scambio di germi (la cavità orale era tra i posti più prolifici di batteri dell’intero corpo umano). Che gli facesse riaccendere la scintilla di attrazione per una donna non come inclinazione dovuta alla giovane età, ma come atto d’amore, di vicinanza.
Ofelia, però, aveva già messo in chiaro che non sarebbe mai successo. E se lui all’inizio si era trovato concorde (anche se non completamente, nonostante non ne avesse compreso il motivo), in quel momento non poteva che esserne più contrariato.
Magari Ofelia la pensava come lui quando aveva accantonato quell’idea (cinque anni e tre mesi prima). Magari, come lui, ci avrebbe ripensato con il tempo.
Si mise a calcolare le probabilità che una donna come Ofelia provasse attrazione per lui e gli si volesse concedere. O che, testarda com’era, cambiasse idea. Le cifre non erano dalla sua parte.
Si accigliò ancora di più. Non poteva che andare incontro anche a quella richiesta. Parlarle di quello che stava macchinando era un grande azzardo, dal momento che Ofelia era lì per riconciliarsi con lui, e dirle che non gli sarebbe dispiaciuto, un giorno, adempiere del tutto a quei doveri coniugali… pessima idea.
- Concesso – borbottò, per mettere fine ai suoi pensieri raminghi.
Ofelia non aggiunse altro. Rimase in silenzio a fissare lui allo stesso modo in cui lui fissava lei. Solo che, ne era certo, quello che stavano pensando era del tutto diverso. Lei probabilmente era a disagio. Lo vedeva dalla postura rigida, pronta a muoversi, a scattare, a fare qualcosa. Imbarazzata, anche. Lui, invece, cercava di non fissare la sua bocca. Si stava domandando come sarebbe stato baciare qualcuno. Baciare lei. La vicinanza, la composizione cutanea delle sue labbra, il loro calore…
Trascorsero diciannove secondi.
- Voi contate sulla vostra personale memoria per amplificare la lettura del Libro. È dunque così eccezionale?
Un cambio repentino di argomento. Un argomento su cui non voleva che Ofelia si immischiasse, per proteggerla. C’era da aspettarselo.
Mostrò la sua contrarietà storcendo il naso. – Anche un po’ di più.
- E alla cerimonia del Dono oltre gli artigli erediterò anche la memoria?
Quanto curiosa poteva essere una persona? Nessuno gli aveva mai posto così tante domande. Si prestò all’interrogazione per buona creanza, per mostrarsi disponibile. Affabile.
Ofelia gli confermò quanto fosse stato difficile e lungo il suo percorso di miglioramento e affinamento del suo potere da lettrice, anche se “anni” non era un ottimo indicatore temporale. Impreciso al massimo, a dire il vero.
Quella discussione parve quasi preoccuparla, soprattutto di fronte all’eventualità di un insuccesso.
- Che succederà se dopo tante promesse deluderete Faruk? Credete che vi farà nobile nonostante tutto?
Avrebbe voluto spiegarle che non voleva diventare nobile per il rango, per il titolo, per la fama o chissà che altro. Avrebbe voluto dirle che era una rivincita personale, una dimostrazione al mondo di ciò che era capace di fare, della sua determinazione, della sua forza; del fatto che aveva la possibilità di arrivare dove voleva, ma quello che voleva se lo sarebbe sempre guadagnato, al contrario degli altri. Al contrario dei suoi mezzi fratelli, che avevano ottenuto tutto per diritto di nascita, e senza quello non erano nulla. Non sarebbero stati nulla, dal momento che erano morti.
Morti.
Ma avrebbe deviato troppo dal discorso principale e avrebbe mostrato ad Ofelia troppo di sé. Per quanto… provasse quel che provava, per lei, non era disposto a mettersi a nudo in quel modo. Quella parte della sua vita non voleva condividerla. Con nessuno.
- Non penso proprio – rispose fermamente. Poi aggiunse di slancio: – Semplicemente, vi sarete sbarazzata di un marito scomodo.
Non seppe per quale motivo avesse pronunciato quella frase infelice. Forse per mettere alla prova Ofelia. La guardò attentamente. Il non vedere traccia di sollievo sul suo volto all’idea di una sua prematura dipartita, o di non vederla sorridere, prendendo alla leggera quel commento che in realtà era macabramente serio, lo rassicurò un po’. Non lo amava, ma almeno non lo odiava al punto da volerlo vedere morire subito dopo il matrimonio.
Al contrario, si sperticò in recriminazioni sul perché non fosse saggio prendere alla leggera l’apprendimento del suo potere. Gli parlò di una lettera e di un possibile disturbo arrecato a qualcuno di imprecisato, ma passarono in secondo piano rispetto all’ostinazione con cui Ofelia tirava fuori il Libro. Più lui si affaccendava per tenerla lontana da esso e dal rischio che comportava, più lei si accaniva per saperne di più. Sembrava davvero in cerca di problemi, di difficoltà, e sapeva che se le avesse detto come stavano sul serio le cose ci si sarebbe buttata a capofitto. Era stancante cercare di proteggere qualcuno che non voleva essere protetto.
Non riuscì a trattenere un sospiro esasperato, che gli fece dolore le costole. Gli servì per rimanere lucido. O tornare lucido, dato che non si sentiva molto presente a se stesso.
- Smettetela di parlare sempre del Libro – le intimò, fregandosene del tono minaccioso che gli uscì dalle labbra. Era meglio se si spaventava. Preferiva apparire cattivo che prendere la questione alla leggera e vedere poi Ofelia… finire male. Raccolse alcuni fogli. – E se non è troppo pretendere, smettetela di attirare l’attenzione su di voi. Ora, con il vostro permesso, vorrei riprendere la cernita.
In realtà, avrebbe voluto rimanere ancora lì. Con lei. La posizione non era delle più comode, però era… piacevole parlare con Ofelia. Starle accanto. Si rendeva conto, però, che la mancanza di sonno e di un’adeguata alimentazione lo stavano rendendo impreciso, azzardato e irrazionale. E doveva assolutamente sistemare il disordine prima dell’apertura dell’intendenza. Il che, ragionò, gli avrebbe richiesto quasi tutta la notte rimanente, anche un po’ di meno se metteva in conto la colazione, che avrebbe obbligatoriamente dovuto fare. Il suo corpo aveva dei limiti, per quanto gli seccasse doverlo ammettere e sottostare a quei bisogni. Uno spreco di tempo.
Invece, con suo sommo stupore, Ofelia non accennò ad allontanarsi. Non si affrettò ad alzarsi per tornare in camera sua, per andarsene da lì, da lui. Thorn non voleva darsi false speranze, per esempio che la sua compagnia non le dispiacesse. Piuttosto, si chiedeva se non dipendesse dalla sua volontà un po’ ribelle, dal suo desiderio di affrancarsi dagli ordini che le venivano imposti. Lui la mandava via, lei si ostinava a rimanere lì.
- Oggi ho visto il cavaliere. Mi ha confessato tutto – esordì infatti, chiaramente non intenzionata ad andare via.
Il suo corpo si contrasse. L’algebra era chiara, la geometria anche, le cifre non mentivano. I sentimenti, invece, erano così imprevedibili, così difficili da interpretare. Il suo corpo si contrasse quando udì quelle parole. Non gli mancavano i suoi fratellastri, la famiglia sanguinaria e violenta del padre. Era sollevato all’idea di non vederli più, sollevato dalla certezza che non avrebbero potuto procurargli una cinquantasettesima cicatrice. Il fatto che però il cavaliere avesse causato la loro morte… una carneficina simile… lo destabilizzava. Non sosteneva che non se lo meritassero, non avevano fatto del male solo a lui nella vita. Ma erano pur sempre…
Era stanco. Non controllava più i pensieri. Doveva ordinare, ordinare e basta. Mangiare, chiudere gli occhi qualche minuto, e poi mettersi al lavoro.
Però parlò ancora con Ofelia, che gli diede alcune dritte interessanti.
Non voleva essere maleducato e scostante, non con lei almeno, ma doveva davvero allontanarla. La sua maschera di tranquillità apparente non avrebbe retto ancora per molto, e non voleva che lei fosse lì ad assistere nel momento in cui sarebbe crollato.
La percepì indugiare. Capì anche che era contrariata, sorpresa, quando smise di darle corda per sistemare un catalogo. Ma non poteva più trattenerla. Doveva mandarla via.
Alla fine, con un misto di gratitudine e delusione (contraddizioni; la matematica non era mai contraddittoria, e le contraddizioni davano origine a situazioni illogiche, incontrollabili e difficilmente risolvibili), Ofelia si alzò faticosamente. Doveva essere stato scomodo, per lei, stare ferma al freddo così a lungo. Sperava che non si prendesse qualche malanno. Il suo carattere era forte quanto il suo corpo era debole. Ma chi era lui per giudicare il fisico altrui, visto che sua madre lo aveva abbandonato anche per la sua salute cagionevole, da infante?
- Vado a dormire – si congedò infine. – Non dimenticate le promesse.
- Non le dimenticherò.
Un lavoro, uno studio di lettura.
Un salario per l’assistente.
Rivedere il mondo esterno.
Un domicilio personale.
Non nasconderle niente che la riguardi direttamente.
- Non dimentico mai niente.
Lei, invece, sì, come il loro appuntamento. Chissà cosa voleva dire dimenticarsi di qualcosa.
Si sentì osservato da lei, ma si costrinse a non alzare gli occhi per guardarla. Ancora non accennava a ad andarsene in fretta.
- Dovreste lavarvi via il sangue e riparare la finestra, prima di ricevere qualcuno. Evitate di fornire alla gente ulteriori motivi di trovarvi ambiguo.
Quelle parole si fecero strada nella sua mente annebbiata, colpendolo così a fondo che dovette farsi forza per continuare a lavorare come se nulla fosse. Fu come una rivelazione, come giungere alla soluzione di un complicato problema algebrico.
Ofelia non lo trovava ambiguo. Ofelia non si interessava granché delle sue abitudini, di che aspetto avesse, perché non lo condannava per quello che era. Però voleva che facesse bella impressione; o, anzi, che non facesse un’impressione troppo cattiva. Perché lei… aveva capito che lui non era ciò che gli altri dipingevano. Aveva capito che c’era altro, di più, in lui.
Sentiva che era così, come se quelle due semplici frasi fossero state un discorso e non un criptico consiglio.
Thorn tirò fuori l’orologio da taschino, prendendo una decisione che avrebbe creduto impossibile. Ma Ofelia riusciva a fare anche quello, a distruggere le sue certezze, colpirlo nel profondo e fargli fare cose che non avrebbe mai, mai e poi mai pensato, men che meno fatto.
Non voleva sposarsi, ma lei lo aveva spinto a desiderare quell’unione con lei.
Non aveva mai creduto nemmeno che una cosa tanto irreale e fantasiosa come l’amore potesse esistere, ma il suo intero essere lo portava ad ammettere l’evidenza dell’esistenza di quella forza.
Non aveva mai desiderato toccare qualcuno, eppure non solo lui voleva toccarla, voleva anche baciarla, abbracciarla, spogliarla…
Non si sarebbe mai separato dall’unico oggetto che considerava importante, ma la volontà di farsi accettare da lei, di darle un pezzo di sé, letteralmente, prevalse.
Strinse con forza il suo orologio, riversando in quel tocco tutte le emozioni, le rivelazioni di quella sera. Se Ofelia lo avesse toccato, sarebbe stata risucchiata nel suo delirio personale, nella sua mente iperattiva, stanca e ferita, ma avrebbe inevitabilmente percepito, al di sopra di tutto, ciò che lui provava per lei.
Avrebbe scoperto quanto poco le sue mani gli interessassero, in confronto a tutto ciò che lei rappresentava.
Avrebbe compreso, toccato letteralmente, quanto lui l’amasse. Quanto quel sentimento lo destabilizzasse, ma al contempo lo facesse sentire vivo. Umano e uomo per la prima volta. Individuo, non solo oggetto per raggiungere qualche scopo.
Non sapeva davvero se voleva che Ofelia lo leggesse, ma quella per lui era una formale dichiarazione d’amore, un’esposizione, una messa a nudo. Quell’orologio era stato con lui durante il settantotto percento della sua vita attuale, lo aveva toccato nei momenti più bui e in quelli più sereni, durante le crisi, la crescita, quando era preda dei dubbi e non sapeva chi fosse, quando aveva capito cosa voleva essere e si era chiuso al mondo per non soffrire più.
Ofelia gli aveva chiesto onestà sulle questioni che la riguardavano. Lui era una questione che la riguardava, dato che sarebbe diventato suo marito. Dato che lo voleva diventare.
Era giusto che niente di lui le fosse taciuto. La cosa lo spaventava, anzi, lo terrorizzava, ma l’impulsività lo spinse per un istante a credere che lei forse avrebbe compreso. E avrebbe guarito.
Lo avrebbe guarito.
- Avete voluto che sia onesto con voi. Imparerete quindi che per me non siete soltanto un paio di mani – sbottò. Quale eufemismo… - E me ne infischio altamente che la gente mi trovi ambiguo, visto che pe voi non lo sono. Me lo renderete quando avrò mantenuto tutte le promesse – bofonchiò poi, esaurendo la carica, porgendole l’orologio. Non la guardò in volto, però, temendone la reazione. Non le stava consegnando un orologio, le stava consegnando il suo cuore, la sua essenza, tutto se stesso. – E se in futuro avrete ancora dubbi su di me, leggetelo – le spiegò, perché lei capisse che era autorizzata a violare l’intimità più profonda di lui, quell’oggetto che lui le stava affidando come le avrebbe affidato la sua stessa vita.
Era giunto al limite, lo sentiva nelle ossa, che quasi non volevano più muoversi e sembravano aver acquistato un peso specifico a dir poco insolito per la sua struttura muscolare. Ofelia doveva andarsene subito.
- Vi telefonerò presto a proposito del vostro studio -  aggiunse poi, più per dare a se stesso occasione di richiamarla e parlare di nuovo con lei che per rammentarle l’impegno preso.
Ofelia se ne andò in silenzio, sparendo nell’armadio, e lui si immobilizzò.
Fece per prendere l’orologio e controllare con precisione quanto tempo gli rimanesse, ma le mani non incontrarono la sua forma familiare (diametro di sette centimetri, larghezza di due centimetri e mezzo, peso di ventisette grammi). Restò fermo lì, bloccato come un automa rotto, incapace di reagire.
La sua mente febbricitante implorava il riposo del sonno, ma anche se avesse ignorato il caos che regnava nel suo ufficio non sarebbe stato in grado di dormire. Non quando si era azzardato a prendere un rischio così grande. Come aveva potuto pensare che Ofelia, scoprendo tutto, tutto, tutto di lui, non sarebbe scappata via orripilata e spaventata, ma anzi gli si sarebbe gettata tra le braccia?
Perché la vita non era un’unica equazione matematica piena di variabili certe, che facevano ciò che dovevano e rimanevano al loro posto, si facevano calcolare in silenzio?
Perché quella ragazza, quella donna così bassa e piena di vita e spirito combattivo era entrata in quel modo nella sua vita, sovvertendo ogni regola, riplasmando le fondamenta del suo mondo e rendendolo così simile ad ogni altro uomo confuso e innamorato che non rispondeva delle proprie azioni?
Così lavorò. Lavorò. Lavorò finché non mancarono trenta minuti precisi alle otto. Allora si lavò nel bagno, velocemente ma con precisione, si cambiò, si pettinò e si rase, ignorò gli occhi rossi e le occhiaie, bevve due caffè forti e fumò la pipa prima di aprire l’ufficio. Cercò di non immaginare Ofelia profondamente addormentata nel suo letto, con il suo orologio stretto tra le mani, i capelli sparsi sul cuscino e un’espressione serena sul volto. Cercò di non immaginare come potesse essere stare lì accanto a lei, a condividere il suo calore e la sua vicinanza, a scrutare il suo viso al mattino, ad ascoltare il suo respiro.
Ricevette il suo segretario e accantonò tutto.
Non poteva sapere che, nella sua camera, Ofelia non aveva chiuso occhio, e fissava il suo orologio come lui si era immaginato di osservare lei.

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Capitolo 22
*** A te basterò? ***


Ce l'ho fatta. Mi pare incredibile. Be', con un ritardo pazzesco...
Allora, il capitolo è bello lungo. Non ho potuto dividerlo perché è un unico blocco e non avrebbe avuto senso inserire un capoverso o tranciarlo a metà di netto.
Inoltre, mentre scrivevo le ultime righe, sebbene mi mancasse la piccola scena finale ho pensato: "Questa è la fine, nient'altro da aggiungere". In compenso ho aggiunto l'extra conclusivo.
Spero tanto tanto tanto che vi piaccia, è stata un'impresa immergermi in Thorn in questo caso perché, oltre a raccontare per la prima volta dal suo POV l'intimità con Ofelia, si trattano di quegli argomenti spinosi che non so nemmeno se sono riuscita a scalfire. Mi auguro di sì, ma mi rimetto al vostro giudizio.
Grazie mille per le 100 recensioni e per la vostra pazienza, vi voglio bene non solo perché leggete fedelmente queste cosine che scrivo ma soprattutto perché amate questa saga e con voi mi sento compresa.
Grazie♥

L’Attraversaspecchi IV, Echi in tempesta, L'arca e Gli stranieri, pagg. 401-417

22. Est-ce que je te suffirai?

Da quando erano atterrati, Thorn aveva cercato di prendere in mano la situazione come aveva potuto. Aveva dato ordini, si era assicurato che nessuno si perdesse o facesse, intenzionalmente o meno, male agli altri, e aveva cercato di capire dove fossero.
Ofelia li aveva salvati tutti.
La sua eccezionale, fuori da ogni schema, miracolosa, incredibile moglie li aveva salvati quando era assodato che invece sarebbero morti. L’adrenalina gli scorreva nelle vene, elettrificandolo come la corrente nervosa degli artigli. Gli tornarono alla mente tutte le innumerevoli, immeritate volte in cui l’aveva sottovalutata, tra cui la prima occasione in cui l’aveva vista, silenziosa e restia, su Anima.
Gliel’aveva già detto, in prigione, che il suo più grande errore era stato quello di malgiudicarla all’inizio. Ma si poteva fissare un limite alle capacità di Ofelia, un limite a ciò che era in grado di fare, se ad ogni difficoltà che incontravano lei riusciva a compiere l’impossibile. Ofelia era l’antimateria, la sua esistenza era diversa da quella di tutti loro, non rispondeva a nessuna legge fisica e matematica. Doveva essere così per forza, perché i numeri accettavano una, forse due eccezioni, ma Ofelia piegava le cifre al suo volere come se ne fosse la padrona.
Thorn non poteva riscrivere la matematica per lei, doveva considerarla da un altro punto di vista.
Mentre rimuginava sulle statistiche infrante da Ofelia, sulle sue capacità insospettate e insospettabili, su circa nove occasioni in cui lei aveva fatto quello che lui le aveva detto di non fare e alla fine aveva avuto ragione, si districò tra le ninfee di quella palude acquitrinosa, sporca e quasi sicuramente pullulante di batteri.
La torre campanaria si ergeva di fronte a loro, ammaccata ma ancora in piedi, alta quindici metri e ventisette centimetri. Un altro colpo di fortuna, che Ofelia avesse virato proprio al momento giusto? Quanta forza le era servita?
- Se tu non l’avessi evitata saremmo morti – mormorò a voce alta, lasciando trapelare solo una minima parte di quello che pensava.
Ofelia non reagì, gli restituì solo uno sguardo inespressivo, continuando ad avanzare. Thorn desiderò per un secondo di poter tornare a casa di Lazarus, nella loro camera, circondati dalla pioggia che attutiva ogni altro rumore. Liberi di parlare. Soli.
Quell’irragionevole desiderio irrealizzabile si intensificò quando Blasius, il commesso del Memoriale, si svegliò addosso al professor Wolf, cominciando a scusarsi profusamente. Non tanto perché lo irritava il suo parlare a vanvera, praticamente tutti gli sfollati stavano vaneggiando come lui, quanto perché, ancora una volta, Ofelia non reagì. E Ofelia non era mai impassibile, poco reattiva o riluttante a consolare qualcuno. Che lo sforzo le fosse costato troppo?
Dovette abbandonare quelle preoccupazioni quando attraversarono il vigneto. C’era qualcosa che decisamente non andava in quell’arca, e per una volta non gli dispiacque essere lasciato indietro. L’armatura gli stava dando fin troppi problemi, e fu lieto che nessuno lo notasse. Si accorse però del sorriso che Ofelia rivolse a Blasius, un sorriso che non le raggiunse gli occhi schermati dagli occhiali.
Quando lei fece caso alla sua mancanza, gli si accostò, rallentando di proposito il passo per avvicinarsi a lui e fare la strada insieme.
Nessuno aveva mai voluto… affiancarsi a lui. Aspettarlo. Stargli accanto. E per quanto Ofelia avesse detto e dimostrato che il suo affetto era sincero (anche un po’ di più), una parte di lui si chiedeva se sarebbe mai arrivato il giorno, come per tutti gli altri, in cui Ofelia avrebbe aperto gli occhi e se ne sarebbe andata via. Lontana da lui.
I vigneti. Quella che palesemente non era un’arca minore. Queste dovevano essere le sue preoccupazioni al momento, si riprese Thorn.
- C’è qualcosa di anormale.
Ofelia annuì, ma non proferì parola. C’era definitivamente qualcosa di anormale in lei, che non lo stava mettendo a parte dei suoi pensieri, che non stava facendo domande, che non stava commentando. Più che incuriosita da quel… posto, qualsiasi cosa fosse, sembrava incuriosita da se stessa. C’erano troppe orecchie indiscrete perché lui potesse interrogarla, così continuarono a camminare in silenzio.
Per cinque ore e trentadue minuti. In silenzio, accompagnati solo dallo scricchiolio irritante della sua armatura. C’era però qualcosa di confortante nella semplice vicinanza di Ofelia. Non era indispensabile parlare o… toccarsi, o guardarsi. Thorn udiva i suoi passi leggeri, vedeva la sua ombra incedere senza tentennamenti, e sapere che lei c’era, che era lì con lui, viva, gli bastava.
Erano vivi. Ed erano insieme.
Quando raggiunsero il villaggio abbandonato, qualcuno cominciò a parlare, ad esporre teorie, a far notare dettagli che potevano sfuggire agli altri. Thorn si mise a bussare ad ogni porta, poco fiducioso circa l’utilità di quel gesto, ma calcolando intanto probabilità e vagliando possibilità che potevano dare un senso a tutto quello che avevano vissuto. Ancora una volta, la presenza silenziosa di Ofelia alle sue spalle era l’unica cosa di cui avesse davvero bisogno.
Non c’era niente degno di nota nelle case. Nessun abitante che le reclamasse. Forse Ofelia avrebbe potuto scoprire qualcosa di più. Non voleva però forzarla. Aveva dato più lei di chiunque altro, quella notte, lo disturbava non essere in grado di scovare indizi e risposte con le sue sole doti, di dover sempre far affidamento su qualcun altro. Specialmente su sua moglie, visto che voleva essere lui ad offrirle sicurezza, protezione, sostegno, e non viceversa.
Ma l’orgoglio non l’avrebbe portato da nessuna parte, così la guardò, cercando di farsi capire con gli occhi.
Ci riuscì, perché Ofelia si tolse i guanti. Posò le dita delicate sulle maniglie delle porte, scrollandole per il calore ad ogni passaggio. E scosse anche la testa, delusa da quella lettura infruttuosa.
Non gli disse cosa aveva percepito, o cosa non aveva percepito, o se non avesse percepito proprio nulla. Aggrottò la fronte, perplesso di fronte a quel mistero inspiegabile, e non continuò con la sua indagine inutile. Se nemmeno lei era riuscita a captare qualche indizio… Thorn voleva fare qualcosa, voleva indagare, perché agire era sempre meglio che arrendersi o caricare ancora di più le spalle di Ofelia. Ma compiere tentativi futili era peggio che non fare nulla.
Era ormai pomeriggio (le quattro e sedici minuti precisi) quando tornarono nella piazza del villaggio, dagli altri. In qualche modo gli sfollati sembravano essersi rassegnati al fatto che non ci fosse nessuno, troppo stanchi persino per voler continuare a cercare. Poi, con l’avanzare del buio, sembrarono rianimarsi. Cominciarono a ballare, cantare, ridere, persino a suonare, come se non avessero una preoccupazione al mondo, come se fossero felici e avessero realizzato i loro propositi. Thorn poteva immaginare… no, immaginare no, e nemmeno capire, ma tentare di capire sì; poteva tentare di capire cosa spingesse quella gente senza speranza, senza certezze, che aveva letteralmente sfiorato la morte (di un metro e ottantadue centimetri, l’ampiezza della torre era di due metri precisi e il dirigibile ne aveva scalfito la differenza) a voler dimenticare per un istante tutto quello che avevano passato. Dimenticare le case che non avevano più, i parenti o gli amici che erano andati incontro ad un destino ben diverso. Si sentivano vivi, e lui, per una volta, non si sentì di giudicarli, nonostante non apprezzasse tutto quel trambusto.
E nemmeno i due inviti a ballare che ricevette. Se fosse stato al Polo lo avrebbero lasciato in pace. Solo a i babeliani erano così aperti e diversi tra loro da accettare persino un’aberrazione come lui.
In ogni caso, gli altri potevano fare ciò che volevano ma lui, seduto sul bordo della fontana, continuava a consultare il suo orologio come se potesse dargli le risposte che cercava. Lo aiutava a pensare, a calcolare la prossima mossa, il tempo che restava loro a disposizione fino al giorno successivo.
Ormai Thorn non faceva nemmeno più caso all’emicrania che sembrava martellargli direttamente il cervello, colpa dell’attività cerebrale intensa: più pensava, ipotizzava e cercava soluzioni, più strade si aprivano, più calcoli doveva fare e più il male aumentava. Raggiunse l’apice quando cominciò a sviluppare quattro teorie diverse, con possibili risvolti futuri e scenari passati che avrebbero potuto avvalorare quelle ipotesi.
Dopo diciotto minuti chiuse di scatto l’orologio per la settima volta. Non era venuto a capo di nulla.
- Gli abitanti di questo villaggio non hanno in programma di tornare – borbottò tra i denti, incupito di fronte alla sua incapacità di giungere ad una soluzione. – Almeno per un bel pezzo. Non sono convinto che siamo su Terra d’Arco. Ma la domanda è un’altra: ovunque siamo, come facciamo ad andarcene?
Sollevò finalmente gli occhi su Ofelia, che era stata innaturalmente silenziosa per tutto quel tempo. Troppo, davvero troppo silenziosa, il più grande lasso di tempo mai trascorso per lei senza parlare, con lui e con gli altri.
Ripensò a quando, appena conosciuti, gli dava fastidio che qualcuno gli parlasse. Non riusciva mai a capire cosa ci fosse nella testa delle persone, sapeva solo che la maggior parte di loro era falsa e lui non nutriva alcun interesse nel dialogo. Aveva fatto il primo, vero sforzo sotto quell’aspetto quando aveva cominciato a… ad abituarsi ad Ofelia. In seguito, parlare con lei era divenuto non solo facile, ma essenziale, piacevole. Ascoltarla, e mettere lei a parte dei suoi pensieri, gli offriva nuovi punti di vista che da solo non avrebbe potuto prendere in considerazione.
In quel momento, a situazione capovolta, non apprezzava il silenzio di Ofelia. Desiderava che gli parlasse, anche solo per maledirlo, o sfogarsi con lui, addossandogli la colpa. Gli sarebbe andato bene, purché poi fossero tornati… la coppia di sempre. Non avrebbe disdegnato nemmeno un pianto liberatorio. Come quando Ofelia si era aggrappata a lui dopo aver rischiato di morire per mano del barone Melchior. Solo quattro anni prima sarebbe stato inconcepibile per lui desiderare di consolare qualcuno, o di asciugarne le lacrime.
Invece, in quel momento, avrebbe dato tutto per far breccia nel muro di silenzio di Ofelia. Anche un po’ di più.
Lei continuò a guardarsi intorno sbocconcellando dell’uva per un altro minuto. Thorn la vide concentrarsi soprattutto su Ambroise, su Blasius e Wolf ed Elizabeth.
La sua ipotesi che qualcosa non andasse, che qualcosa covasse sotto l’apparente calma di Ofelia, si concretizzò quando lei infilò la testa sotto la cannella della fontana. Ne riemerse con i capelli fradici, i ricci pesanti d’acqua e lunghi. Finalmente lo guardò in volto, tormentata.
- Devo parlarti.
Non attese oltre, chiuse di scatto l’orologio e si rimise in piedi. Sapeva che Ofelia non aveva nulla di piacevole da comunicargli, era evidente al punto che non serviva nemmeno la matematica per decifrare il suo comportamento. Se avesse avuto una buona notizia, o una speranza di qualche tipo da dargli, lo avrebbe fatto da tempo.
Si sentì illogicamente e stupidamente sollevato, comunque, all’idea che Ofelia lo volesse mettere a parte dei suoi ragionamenti. Lo aiutava a convincersi del fatto che lui, per Ofelia, era importante. Indispensabile, altrimenti avrebbe cercato di risolvere la situazione da sola. Si chiese quando, di preciso, fosse intervenuto in lui quel cambiamento così radicale, che prescindeva da ogni ragione e matematica, da ogni buonsenso e amor proprio. Ma decise anche che non gli importava, fintanto che Ofelia avesse avuto bisogno di lui.
Poteva cercare di essere ciò che lei voleva, glielo aveva già detto. Avrebbe fatto ogni tentativo per risultare più… amabile, per lei.
Cercò di non pensare a cosa Ofelia potesse volergli rivelare mentre si allontanavano dal disturbante trambusto della festa. Risalirono una collina di ulivi in silenzio, e quando il rumore della sua armatura divenne più forte si rese conto che le voci alle loro spalle erano diventate bassi mormorii di sottofondo, escludibili dalla propria attenzione. In cima alla collina, tra l’erba alta (ottantotto centimetri) che non veniva tosata da almeno centosettantasei giorni se si ipotizzava una crescita media di cinque millimetri al giorno, videro la desolazione di quel posto abbandonato, solcato da distese d’erbe e acqua e, quasi anacronistico in mezzo a quella natura selvatica, una fermata dell’autobus ai piedi del rilievo.
Cercò di non aggrottare la fronte davanti all’evidente inutilità di una simile costruzione in un posto in cui non viveva un singolo individuo. Chiunque amministrasse le finanze, lì, non aveva avuto né una buona idea né una buona gestione dei fondi pubblici.
Thorn si fermò, imitando Ofelia, quando lei smise di camminare. Erano abbastanza isolati da poter parlare in tutta sicurezza e riservatezza, ma non così lontani da non poter tornare in fretta in caso di bisogno.
Ofelia aprì finalmente bocca dopo ventisei secondi.
- Ho fatto due enormi sciocchezze.
Il primo pensiero di Thorn fu che due, alla fine, non erano così tante, considerando la sua naturale propensione alle catastrofi. Il secondo fu che, dato che erano poche, dovevano essere di una gravità incalcolabile.
Ofelia si sedette, e Thorn dovette piegare il collo come un uccello per riuscire a vedere la sommità della sua testa bagnata, i cui capelli le stava inumidendo anche il tessuto chiaro della tunica. Gli diede fastidio però non poterla vedere in volto, per decifrarne lo stato d’animo. Ofelia era molto espressiva, e guardarla negli occhi quando conversavano lo aiutava sempre a capire cosa… sua moglie intendesse davvero dire. Non sempre, infatti, ciò che mostrava in volto corrispondeva a quello che sembrava volesse dire con il tono di voce.
- Ho fatto nascere un eco. Non solo non ho trovato il Corno dell’abbondanza, ma ho fornito all’osservatorio l’ultima cosa che gli mancava per rifare dli stessi errori di Eulalia: un nuovo Altro. E per questo ho sacrificato il mio potere di Attraversaspecchi. Più ho cercato di fare le mie scelte e più sono entrata nel loro gioco.
Ofelia spiegò la prima sciocchezza con calma apparente, ma il timbro della sua voce e le sue parole dure e inflessibili gli fecero capire che era più delusa da se stessa di quanto lo fosse mai stata da chiunque altro; persino da lui quando le aveva omesso delle informazioni fondamentali sul suo conto, sul loro matrimonio. Non voleva che Ofelia si sentisse male o si abbattesse, perché a lui non importava cosa avrebbero dovuto affrontare e quanto dura sarebbe stata, finché fossero stati insieme a lottare.
Più di tutto, però, avrebbe voluto ridarle il suo potere di Attraversaspecchi, perché era evidente che fosse un dono a cui Ofelia teneva particolarmente. Il fatto che l’avessero indotta a sacrificarlo per fare addirittura il loro gioco lo riempiva di una rabbia cieca che si manifestò sotto forma di immobilità assoluta. Ma i suoi artigli fremevano, saggiando l’aria alla ricerca di qualche nemico da smembrare.
Circa il suo volersi affrancare da chiunque e il voler fare le proprie scelte, però, era a disagio. Ofelia aveva un’insospettabile forza di volontà che trascendeva da qualsiasi influenza altrui. Voleva essere padrona del suo destino, e ne aveva tutto il diritto, solo che Thorn si chiedeva se non si sarebbe dimenticata anche di lui, un giorno, nel prendere le sue scelte e decidere da sé ciò che voleva. Nonostante questo timore, non accettava che qualcuno le mettesse i bastoni tra le ruote o la guidasse di nascosto.
Certo, il loro avvenire non si prospettava affatto semplice, era l’equazione più complessa che avesse mai dovuto affrontare, con incognite multiple e dati mancanti, ma c’era sempre un risultato per tutto.
Così rimase immobile, cercando subito di interiorizzare le novità e catalogarle per avere un quadro più completo della situazione.
Poi le chiese della seconda sciocchezza.
- Ho liberato l’Altro dallo specchio sapendo quello che facevo.
Thorn cercò di non sussultare mentre venivano svelate nuove incognite e giungeva ad alcuni risultati parziali prima incalcolabili. Tutto era accaduto per colpa… no, non per colpa, ma per causa di Ofelia? Non avrebbe più dovuto stupirsi di nulla, sapeva quanto effettivamente lei attirasse disgrazie senza motivo. Come aveva potuto non ipotizzare che, in effetti, ruotasse tutto attorno a lei? La presenza dell’Altro, la sua liberazione… era stata Ofelia.
- Finalmente mi sono ricordata quella famosa notte e soprattutto la sua voce, sempre che si possa chiamarla voce. Era tristissima… L’Altro mi ha avvertito che sarei cambiata e che il mondo sarebbe cambiato. Non sapevo quanto, ma resta il fatto che ho agito con cognizione di causa. In fondo non vedevo l’ora che le cose cambiassero. Il motivo per cui le arche crollano, per cui ci sono stati morti e ancora ce ne saranno, è solo che non volevo diventare come mia madre.
Ofelia si mise a nudo con lui come mai aveva fatto. Dettagli rivelatori che non gli erano sfuggiti, ma che lei non aveva mai tirato in ballo, come l’influenza oppressiva di sua madre nella sua vita e il suo timore di esserne succube per tutta l’esistenza. Una parte di lui fu lieta di poter essere considerato così importante da ricevere quelle confessioni, ma un’altra si rese conto che il definire quei due fatti sciocchezze non era solo riduttivo, era un eufemismo, un’iperbole al contrario.
Erano due catastrofi. Il crollo delle arche, tutto quello su cui stavano lavorando, la ragione per cui erano stati cacciati da Babel, il motivo per cui si erano separati anni prima era… Ofelia. Ofelia, e una sua decisione. Non la biasimava per averla compiuta. Ofelia era una persona buona, buona e onesta e compassionevole e sincera e leale e altruista e generosa come non ne aveva mai conosciute in tutta la sua vita. Thorn sapeva che, se Ofelia avesse saputo a cosa andava incontro con quella sua scelta, avrebbe preferito diventare come la madre e vivere tra le sue sottane per sempre, piuttosto che causare tante morti e tanto dolore. Un’ecatombe di quella portata.
Per questo si rendeva conto di quale peso gravasse sulle sue spalle. Non aveva capito quanto profondo fosse il carico che portava perché avevano avuto questioni più urgenti da risolvere fino a quel momento, dall’ultima volta che si erano visti, come l’esilio, il cercare di sopravvivere, il capire come tornare indietro. Ma ora che le priorità erano cambiate, ora che non c’era più un pericolo di morte (imminente), quelle verità erano diventate insostenibili per Ofelia. Non la condannava per non avergliene parlato prima. Anzi, la apprezzava per averlo fatto, per averlo messo a parte.
E non la criticava. Ofelia era solo stata una vittima delle circostanze. Lei credeva di aver avuto una scelta e di averla compiuta, ma la colpa non era sua. Non aveva colpa di nulla, era solo stata ingannata e plagiata.
Thorn avrebbe fatto di tutto per prendere sulle proprie spalle il peso di quella colpa, e si promise che ci sarebbe riuscito.
Ofelia scosse i capelli, come se le fosse venuta in mente una cosa sul loro conto. Come se non li sentisse più suoi.
- Per tutto questo tempo mi sono sentita guastata dall’intrusione dell’eco di Eulalia nel mio corpo e nella mia mente. La consideravo la mia impurità. Quando abbiamo cominciato a capire cos’era il Corno dell’abbondanza ho… diciamo che la mia motivazione era più egoista della tua. La tua unica aspirazione è sempre stata liberare me e il mondo, hai subito pensato a come il Corno dell’abbondanza avrebbe potuto riconvertire Eulalia e l’Altro in ciò che erano all’origine, mentre io ho pensato soprattutto al modo in cui avrebbe potuto riconvertire me in quella che sarei stata se non ci fossero stati loro. Senonché adesso so che il cambiamento era stato una mia scelta fin dall’inizio.
Ofelia tacque, senza fiato.
Quel discorso, quelle ammissioni dovevano esserle costate tutto, ma non quanto costavano a lui. Troppi pensieri gli affollavano la mente, acuendogli l’emicrania e rendendo i sui artigli ancora più irascibili. Avrebbe davvero, davvero, davvero gradito tanto, anche un po’ di più, un altro intervento da parte degli artigli di Ofelia, un contatto tra i loro sistemi nervosi per calmare i suoi, ma non lo avrebbe mai confessato. Erano il suo peso da portare, e Ofelia era già abbastanza sobbarcata, non aveva bisogno di farsi portatrice anche di quella sua incapacità di controllo.
Così tanto. Gli aveva detto così tanto. E gli faceva così tanto male.
Sapeva bene cosa voleva dire desiderare un altro corpo, un’altra versione di sé. Quante volte aveva sperato, da bambino, di essere più forte fisicamente, più immune alle malattie, e non cagionevole come una nullità? E solo per piacere a sua madre, per poter essere amato da lei.
Ofelia avrebbe voluto riconvertire se stessa in quella che sarebbe stata senza di loro, senza l’Altro ed Eulalia. Non dal punto di vista comportamentale e di personalità, ma fisico. In effetti, la genetica era un po’ come la matematica: logica e consequenziale. I parenti di Ofelia, da quanto aveva potuto vedere, erano tutti di carnagione e capelli chiari, biondo intenso tendente al rosso, con occhi azzurri. Lei era un po’ l’eccezione che confermava la regola, ma in fatto di genetica non c’erano eccezioni immotivate. Ofelia avrebbe dovuto avere capelli ramati, occhi chiari. Non che a lui importasse, la bellezza era un canone soggettivo non classificabile di cui lui non capiva granché (se non che Ofelia gli piaceva), però era effettivamente inusitato che lei avesse ereditato caratteristiche così differenti.
Thorn si rese conto che, se avessero avuto un figlio, avrebbe quasi sicuramente preso da Ofelia. La genetica era interessante, si basava sulle probabilità. Ofelia aveva i tratti genetici più forti. I suoi capelli, i suoi occhi scuri, avrebbero probabilmente prevalso in una mescolanza dei loro tratti estetici. Un figlio sarebbe sicuramente venuto con i capelli scuri, probabilmente anche con gli occhi scuri, ma d’altra parte, marchiati nel loro patrimonio genetico, c’erano solo colori chiari, capelli biondo-rossicci e occhi azzurro-verdi, o grigi come i suoi. Un altro figlio sarebbe quasi sicuramente nato prendendo dalla sua famiglia o da quella di Ofelia, o magari mescolando le due tonalità, con capelli chiari e occhi scuri o viceversa. Oppure, un’altra probabilità era che, essendo i tratti di Ofelia particolarmente prevalenti, i loro figli sarebbero tutti venuti simili a lei.
Thorn mancava di fantasia, pertanto non riuscì ad immaginarsi volti e identità di una loro ipotetica prole, ma quel pensiero in qualche modo lo mise… a disagio. Ma a disagio in senso positivo, se era possibile vivere uno stato d’animo simile. La verità era che non si era mai soffermato su simili scenari. Non ce n’erano mai stati né l’occasione né il bisogno, dal momento che lui e Ofelia non…
Però ora sì. Si rendeva necessario un discorso di quel tipo. Non immediatamente, ovviamente, ma una volta risolte le questioni più spinose. Cercò di scacciare quel pensiero e concentrarsi su altro, ma quella corrente ideologica quasi insignificante rimase lì, fastidiosa, e lui fece del suo meglio per escluderlo.
Ripeté invece il discorso di Ofelia. Il suo considerarsi egoista. La verità era che nessuno era più egoista di lui, e Ofelia aveva sbagliato; aveva sbagliato a considerarsi meschina, e a credere che lui avesse aspirazioni così onorevoli. Lui non voleva salvare il mondo. Lui non voleva salvare proprio nessuno. Solo lei, solo il futuro che avrebbero potuto avere insieme, quello che lei aveva scelto. Nessuno lo aveva mai preferito agli altri, nessuno lo aveva… desiderato come Ofelia. E lui non voleva altro che quello: continuare a sentirsi amato, benvoluto, fondamentale. Indispensabile.
Per quanto si sforzasse di esserlo, però, le parole di Ofelia misero chiaramente in evidenza un fatto: lei lo coinvolgeva, condivideva con lui le novità, cercava un confronto con lui, ma perché lo voleva lei, non perché sentisse l’irrefrenabile bisogno di stare costantemente con lui.
Il volersi aprire un museo, il domandargli un suo domicilio personale, e ancora prima, il chiedergli di non tenerle nascosto nulla, le domande curiose e talvolta indiscrete, tutto era finalizzato alla comprensione della situazione per la successiva valutazione della strada da prendere.
Non lo aveva detto esplicitamente, probabilmente non se ne rendeva nemmeno conto, ma ogni sua scelta, tutte le azioni compiute nella sua vita portavano a quella ineluttabile verità: che Ofelia voleva essere indipendente, selezionava le persone di cui circondarsi. Aveva deciso di stare al suo fianco, ma non lo avrebbe mai amato come lui amava lei; in modo possessivo, spassionato, ossessivo anche, illimitato. Ofelia era tutto per lui, ogni cosa; finché ci fosse stata lei ad aspettarlo avrebbe potuto rinunciare ad ogni altra cosa: casa, lavoro, familiari, numeri persino. Ma lui, per quanto fosse importante per lei (di questo non ne dubitava) non sarebbe mai stato l’elemento chiave della sua esistenza.
Lei voleva solo vivere la vita che voleva, scegliersela. Lui invece voleva lei, voleva che lei vedesse solo lui, vivesse per lui. Non aveva intenzione di limitare la sua libertà, ma se Ofelia vi avesse rinunciato pur di stare con lui, se avesse deciso di farsi guidare da lui in tutto e per tutto, ne sarebbe stato contento. Se Ofelia avesse cominciato a non voler fare nulla senza di lui, a vivere per lui, a chiudersi in casa e aspettare il suo rientro la sera, facendoselo bastare come unica gioia, lui ne sarebbe stato appagato.
E questo lo rendeva meschino, egoista, e cattivo.
Ofelia non poteva definirsi in modo così poco lusinghiero e innalzare lui quando non sospettava nemmeno dei suoi desideri insani. Ma lui aveva promesso di non nasconderle nulla che la riguardasse direttamente e, anche se aveva rotto quella promessa, voleva usarla come principio nel loro legame. Ofelia doveva sapere chi era, da cosa era motivato e spinto. Non avrebbe avuto segreti di quel genere con lei, le doveva la verità. Doveva dirle chi era realmente.
Stanco di guardarla dall’alto senza poter incontrare i suoi occhi rivelatori, tentò faticosamente di sedersi sull’erba. Non fu facile, e l’intera manovra gli richiese più tempo di quello impiegato per analizzare le parole di Ofelia. Pensare era facile e veloce per lui, si rendeva conto che per gli altri non era così. L’emicrania perenne, però, era il prezzo di pagare.
Spese più tempo ad osservare i capelli bagnati di Ofelia che a decidere come impostare il discorso. Le gocce d’acqua le scendevano lungo le ciocche scure, alleggerendo i capelli dalla loro presenza. Presto si sarebbero arricciati come di consueto. Ofelia, si ritrovò a pensare, era sfuggente quanto quelle gocce. Libera, e pronta a lasciarsi andare ovunque la sua volontà l’avesse portata.
- Non sei minimamente consapevole del nostro conflitto, vero?
Ofelia lo guardò senza capire. Conflitto era una parola che celava un intenso significato, ma era proprio quello che c’era tra loro: un conflitto.
- Me ne sono reso conto molto presto. La tua volontà si fa sempre più grande e prende sempre più spazio. Vuoi la tua indipendenza. In fondo anche la tua ossessione per il passato, le letture, il museo, i ricordi, è sempre stata finalizzata a liberartene meglio.
C’erano individui, come lui, che desideravano piacere e compiacere determinate persone. Aveva sperato di essere imprescindibile per sua madre. Aveva sperato di diventare il fulcro della vita di Ofelia. Aveva sperato che quelle due donne lo vedessero come tutto il loro mondo, che desiderassero essere amate da lui quanto lui bramava il loro amore. E c’erano altre persone, come Ofelia, che non sentivano il bisogno di rendersi appetibili a chicchessia. Che erano così in pace con loro stesse, così sicure del loro avvenire e della strada da percorrere, che non necessitavano di rendersi amabili per gli altri.
- Vuoi la tua indipendenza – scandì lentamente, - e io voglio esserti indispensabile.
Era stato lui a cercare di fare i cambiamenti necessari per essere considerato da lei. Non viceversa. Ofelia, inutile mentirsi, gli era piaciuta subito. Se n’era innamorato immediatamente. Lui aveva dovuto sforzarsi parecchio, invece, più di quanto avesse mai fatto in vita sua, solo per farsi notare. Anzi, per non farsi odiare.
Ofelia si abbracciò le ginocchia, forse pronta a ribattere, o forse per difendersi da quell’evidenza. Da quella sua ossessione per lei. Da quella palese e viscerale esigenza impellente di essere tutto per lei.
Ma non le lasciò il tempo di parlare. Doveva ancora rivelare la parte peggiore di sé.
- Hai detto che la mia aspirazione è liberare te e il mondo. Io non aspiro a niente. Ho solo bisogno che tu abbia bisogno di me, nient’altro.
Aritmetica? Precisione? Leggi? Che cos’erano, se non sterili palliativi, tentativi di colmare qualcosa che non aveva mai avuto, cioè qualcuno che lo considerasse importante? Avrebbe rinunciato al suo lavoro, alla matematica, ai numeri, avrebbe anche vissuto come un selvaggio, se fosse stato il prezzo richiesto per essere indispensabile ad Ofelia.
- E so per certo che in questo conflitto sono destinato a perdere, perché sono più possessivo di quanto tu non sarai mai e perché ci sono cose che non posso sostituire.
Come la sua famiglia. Se anche Ofelia avesse cominciato a vederlo come la persona più importante della sua vita, l’unica a cui non poteva rinunciare, non si sarebbe comunque dimenticata dei suoi parenti. Chiederle di vivere solo per lui sarebbe stato più che egoista. E impossibile. Lui non poteva sostituire tutti i suoi affetti, non era in grado di farlo e… non voleva nemmeno farlo. Ma ciò dimostrava appunto la sua teoria.
Per Thorn c’era Ofelia.
Per Ofelia c’erano Thorn, la sua famiglia, il suo museo, le sue letture, i suoi amici persino, probabilmente dei figli un giorno (non credeva che Ofelia, vista la sua numerosa famiglia e la capacità di prendersi cura degli altri, non ne avrebbe voluti prima o poi, a dispetto delle sue parole di molto tempo prima).
A Thorn non importava essere il primo della lista. Anche per sua zia era stato il primo della lista, in momenti alterni della sua vita (quando aveva perso il marito, quando aveva perso i figli, quando non c’erano gli altri nipoti) e non gli era mai bastato. Voleva essere il solo, non il primo. L’unico.
E questo suo essere possessivo e desiderare qualcosa che non poteva avere e che probabilmente era pure sbagliato non faceva che acuire il senso di disgusto che provava per sé. Perché non poteva essere meno… ossessivo? Perché non poteva vivere senza legarsi agli altri? E perché non era mai abbastanza agli occhi altrui?
Era talmente sbagliato, talmente sporco…
Prese il flacone di disinfettante, impietoso contro se stesso. Come poteva essere amato da qualcuno se in primo luogo lui stesso non si amava, convinto di non meritare l’amore altrui, di non essere…?
Si contrasse, esitando, appena prima di versarsi l’igienizzante sulle mani, come se quel gesto potesse in qualche modo purificarlo, penetrargli sotto pelle e raschiargli via dalle vene, dal sangue, la sua stessa essenza rivoltante.
Che però, si rese conto, Ofelia non considerava tale.
Ofelia… Ofelia lo amava. Glielo aveva detto. Glielo aveva dimostrato. E sì, amava anche la sua famiglia, e tante altre cose e persone, ma era andata su un’arca sconosciuta da sola per cercare lui. Si era messa in pericolo per lui. Aveva sofferto, per lui. Era con lui che condivideva le novità e cose amene relative alla quotidianità che lui non pensava nemmeno potessero essere interessanti, prima che lei gliene parlasse. Era lui che… desiderava toccare. Baciare. Vedere. Era lui che cercava con lo sguardo.
Era lui che aveva salvato e difeso e protetto quando tutti lo avevano abbandonato, quando non era che un relitto insanguinato e spezzato e inservibile nella prigione dorata.
Ofelia conviveva con tutto ciò che lui era. Aveva visto praticamente tutto di lui ((tecnicamente “visto tutto” non era la definizione corretta dato che si conoscevano da quattro anni, due mesi e dodici giorni, di cui tre anni e cinque mesi li avevano trascorsi su arche diverse, e che da quando era nato a quando aveva compiuto ventitré anni e quattro mesi non aveva avuto idea della sua esistenza, però, ecco, Ofelia era la persona con cui si era aperto di più, pertanto si poteva dire non letteralmente parlando che “avesse visto” tutto di lui) anche un po’ di più) e non era fuggita, non lo aveva abbandonato. Lo aveva cercato. Lo aveva incluso. Lo aveva… apprezzato persino.
Si era fidata di lui e aveva fatto affidamento su di lui.
Thorn sarebbe stato sempre più possessivo di lei, avrebbe avuto più bisogno di lei di quanto lei ne avrebbe mai avuto di lui, ma… gli aveva dato più di chiunque altro nella sua vita.
Doveva essere lui a fidarsi di lei, e non considerarla capace di abbandonarlo come gli altri. Perché Ofelia non era come gli altri.
Ofelia lo amava. Lo accettava. Così com’era. Inclusa la matematica, la misantropia, il corpo scheletrico e il viso poco attraente, la pignoleria, l’ossessività, la scarsa propensione al sorriso, il…
Mentre tre filoni di pensiero si staccavano da quello principale, continuando ad elencare difetti e caratteristiche difficilmente tollerabili del suo carattere, Thorn consegnò il disinfettante ad Ofelia.
Non gli serviva più.
- Questo è per la mia impurità. Se puoi conviverci tu, posso conviverci anch’io.
Ofelia lo prese, stranamente con più sicurezza di quanto fosse abituato a vedere nei suoi gesti. Gli sovvennero come lampi tutti gli oggetti che aveva fatto cadere o urtato involontariamente, davvero numerosi (sessantadue, e solo di quelli che aveva visto personalmente).
Sembrò contrarsi in volto anche lei, presa di un’emicrania come le sue. Ma Ofelia non aveva accennato a mal di testa. Era… combattuta.
Thorn intuì che c’era qualcos’altro che Ofelia gli aveva taciuto, qualcosa che stava valutando se rivelargli o meno. Scrutava il flacone igienizzante come se contenesse un suggerimento.
Notizie infauste gliene aveva già date (parecchie), cosa la tratteneva quindi dal rivelargliene un’altra?
- Non posso avere figli.
Non…?
Non posso…?
Thorn ripeté la frase in testa senza capirla per ben quattro volte, prima di rendersi conto che “non posso avere figli” significava “non posso avere figli”. Fisicamente. Non poteva concepirli. Non poteva partorirli. Non poteva diventare madre.
Non poteva rendere lui padre.
Non riuscì a trattenere l’apprensione che gli affiorò in viso, metà per sé e metà per lei.
Aveva visto sua zia impazzire letteralmente di dolore dopo aver perso i suoi bambini. E ritrovare la ragione e lo scopo di vita dopo averne concepito un altro. Istinto materno, desiderio genitoriale, erano tutti concetti privi di significato e interpretabilità per lui, ma si era reso conto, osservando, che nella gran parte delle donne durante l’età fertile sorgeva spontaneo questo… bisogno di diventare madre. Ofelia era, ovviamente, una donna in età fertile, nata oltretutto su un’arca in cui la famiglia era ovunque, era il fulcro stesso dell’esistenza, la scopo di vita. Matrimonio e figli erano l’unica aspirazione che avevano.
Ofelia gli aveva detto chiaramente che non gli avrebbe dato dei figli. Anzi, che non ne voleva. Ma gli aveva anche detto che il suo unico dovere coniugale nei suoi confronti sarebbe stato insegnargli a leggere, nulla più. Eppure, erano andati ben oltre, anche un po’ di più.
Se Ofelia aveva contraddetto la sua stessa volontà, se in lei era nato il desiderio di… stare con lui, fisicamente… cosa le avrebbe impedito, un giorno, di contemplare l’idea di avere dei figli suoi? Cosa le avrebbe impedito di chiederli a lui?
Ofelia avrebbe sicuramente voluto dei figli, a dispetto delle sue parole. Ma non avrebbe mai potuto averli.
E lui? Lui aveva detto ad Ofelia di detestare i marmocchi. Lo aveva fatto. Ed era vero. Ma non le aveva forse concesso tutto quello che lei gli aveva chiesto? Inoltre, non si era mai soffermato su quella conversazione sgradevole che avevano avuto tanto tempo prima, ma lui le aveva risposto in quel modo per difendere se stesso. Per schermarsi, di nuovo, da qualcuno che non lo voleva.
Aveva desidero già da allora che Ofelia lo… considerasse un marito sotto ogni aspetto. Che volesse stare con lui in tutti i sensi. E sapeva, anche se non lo avrebbe mai ammesso, che i figli sarebbero venuti naturalmente. Che lui non glieli avrebbe mai negati. Che forse, anzi, li avrebbe contemplati anche lui nel loro futuro; si sarebbe solo dovuto abituare all’idea di condividere Ofelia con qualcun altro.
Non aveva una grande immaginazione, tutt’altro, ma Thorn quasi riusciva a prefigurarlo. Un loro ipotetico avvenire… un futuro libero da costrizioni, una vita di cui loro erano interamente proprietari. Il momento in cui Ofelia gli avrebbe proposto di avere dei figli. Gliel’avrebbe chiesto timidamente, di quello era certo, soprattutto ricordando quanto lui fosse stato contrario all’dea di averne, in origine. Lui ovviamente avrebbe accettato (cosa mai avrebbe potuto negarle?), e lei lo avrebbe… coinvolto. Lo avrebbe incluso in tutto, gli avrebbe fatto sentire il bambino nella pancia, gli avrebbe spiegato come essere un buon padre e avrebbero cresciuto insieme il…
Thorn bloccò i pensieri, facendosi violenza, ricevendo una fitta di emicrania di conseguenza.
Si costrinse a riflettere. Lui non voleva dei figli. Non in quel momento, né nell’immediato futuro. Ma la sua mente calcolatrice lo aveva spinto a guardare già avanti, all’attimo in cui sarebbe successo. In cui lo avrebbe… voluto.
Non doveva, però, permettersi di pensarci.
Non poteva più immaginarselo, perché Ofelia non poteva avere figli. Lui non poteva fare nulla per darglieli.
E sapeva, sapeva, sapeva con ineluttabile certezza che Ofelia ne avrebbe sempre sofferto più di lui. Ofelia si sarebbe portata dietro quel dolore ovunque andasse, in qualsiasi momento.
Ofelia, che sembrava calma, che gli aveva dato la notizia nove secondi prima e lo guardava confusa, come se non capisse il perché della sua preoccupazione.
Preoccupazione per lei.
- Ed è tutta colpa mia – aggiunse infine, sbloccando qualcosa dentro di sé.
Chissà da quanto tempo lo sapeva. Chissà da quanto tempo glielo taceva. Ma non era una questione fondamentale.
Finalmente gliel’aveva detto. Potevano portare quel peso in due.
E Thorn cercò di farglielo capire quando, dopo che Ofelia si fu morsa le labbra ed ebbe cominciato a tremare, ad inspirare irregolarmente, dopo che ebbe fatto cadere il flacone di disinfettante per sbaglio e lo ebbe guardato rotolare via, dopo che gli ebbe mormorato uno: - Scusa – ed ebbe stretto gli occhi, e dopo che ebbe ripetuto quello “scusa” illogico per un’altra volta e mezzo, l’abbracciò, soffocandone la voce.
Era sudato, probabilmente non aveva nemmeno un ottimo odore, ma se non l’avesse toccata, se non l’avesse in qualche modo tenuta insieme, sapeva che sarebbe stato molto peggio.
Ofelia si scusò, e lui la strinse a sé.
Si scusò ancora, e lui l’abbracciò più forte.
Si scusò di nuovo, scoppiò in singhiozzi, e pianse contro di lui.
Scusa… per cosa? Perché non poteva avere figli? Non doveva certo chiedere scusa a lui. Perché gli aveva negato la possibilità di averne lui stesso? Era ridicolo che gli chiedesse scusa per quello. O forse non era per i figli, ma perché aveva dato vita ad un mostro con un solo, volontario ma incosciente attraversamento di specchio, perché si era tolta da sola la possibilità di essere ciò che era e aveva condizionato anche lui con le sue scelte?
Non gli importava. Ofelia era sempre stata un enigma troppo complicato, per lui, per sperare di decifrarlo completamente. Sospettava che non ci sarebbe riuscito nemmeno dopo dieci, vent’anni insieme. E forse era proprio per quello che se n’era innamorato. Non riusciva a… catalogarla, a prevederla, a calcolarla. Non faceva mai quello che si aspettava.
Come in quel momento, mentre gli inzuppava la camicia di lacrime e gli chiedeva scusa.
Thorn avrebbe voluto dirle che non aveva nulla di cui scusarsi. Che secondo il calcolo statistico ed alcune sperimentali teorie sul caso, se avesse anche solo cambiato di una virgola la sua vita loro non si sarebbero probabilmente conosciuti. Che non era sola, erano insieme, e insieme poteva unire le forze e riuscire in ogni sfida.
Avrebbe voluto dirle che… che l’amava. E non gli importava se non potevano avere figli, l’amore necessario per generarne uno non sarebbe comunque scemato con il tempo. Lui non l’avrebbe mai abbandonata per quello.
Ma non disse nulla. Continuò ad abbracciarla, sperando solo di non farle male, sperando che gli artigli non la importunassero. Probabilmente qualunque cosa avesse tentato di dirle non sarebbe stato nemmeno compreso, in quel momento.
Non sapeva di preciso cosa andasse fatto per consolare qualcuno, specialmente quando non c’era soluzione al problema che ne aveva causato lo sconforto. Così, tra le varie opzioni che il suo cervello gli propose, quella del silenzio e dell’abbraccio gli sembrarono quelle con maggiore possibilità di successo.
Smise di pensare quando l’emicrania mista alla posizione scomoda rischiarono di strappargli un gemito di dolore. Così contò, anche se non aveva bisogno di concentrarsi per farlo.
Trecentosettantadue secondi. Ofelia gli chiese scusa per la sedicesima volta.
Quattrocentonovantotto secondi. Ofelia continuò a piangere, ma in silenzio.
Cinquecentotrentasei secondi. Ofelia smise di tremare.
Seicentodue secondi. Ofelia emise l’ultimo singhiozzo.
Settecentoquindici secondi. Ofelia gli raccontò con voce roca e appena udibile i dettagli di ciò che era successo al secondo protocollo: la cappella, il pappagallo, il confessionale, il cavaliere, la cristallizzazione, l’Ombra, la sua parziale mutilazione, la donna con lo scarabeo e il treno...
Millesettecentoottantasette. Ofelia smise di piangere.
Milleottocentotrentuno secondi. Ofelia si addormentò.
Millenovecento secondi. Thorn asciugò le sue, di lacrime, cercando di non svegliare Ofelia.
Facendo attenzione, con la mente vuota quanto dovevano esserlo i condotti lacrimali di Ofelia (avrebbe avuto bisogno di reidratarsi, per il suo bene, una volta sveglia), Thorn se la staccò di dosso. L’adagiò lentamente e delicatamente sull’erba, così alta da offrire un giaciglio perfetto. Anche se fosse stata nuda roccia, però, Thorn aveva il presentimento che Ofelia avrebbe dormito lo stesso, esaurita dagli sforzi fatti per salvarli, da tutto quello che aveva passato per creare l’altro Altro, dal costo che aveva richiesto portare quei pesanti segreti dentro di sé, da sola. Prosciugata dalle lacrime.
Thorn le tolse i capelli, ormai quasi del tutto asciutti, dalla bocca. Glieli scostò dal viso, le ripulì delicatamente le guance e il naso. Non osò asciugarle le palpebre, rosse e già gonfie, come non si azzardò a toglierle gli occhiali, che si limitò a raddrizzare. Le sue lenti erano grigie. Tristi.
Thorn la contemplò per più di tre minuti. Quelle labbra piene con cui lei non aveva mai avuto paura di esprimere i suoi pensieri, con le quali lo aveva baciato più di una volta, sempre con amore. Quegli occhi scuri come i suoi capelli ricci, indomabili come lei, occhi sinceri e aperti e incapaci di mentire. Buoni. Le guance rosa che aveva sentito così morbide sotto le dita. Le piccole orecchie, il collo liscio che aveva accarezzato, baciato, e che aveva un profumo particolare che, in qualche modo, gli piaceva.
Si distrasse sistemandole braccia e gambe in una posizione che potesse essere abbastanza comoda per dormire. Non aveva molta familiarità con quelle questioni, dato che lui in primis dormiva pochissimo. Conseguenza della sua mente iperattiva e degli artigli che, soprattutto finché erano incontrollabili, sarebbero stati un pericolo per tutti.
Eppure, si rese conto, avrebbe volentieri finto di dormire per lei. In un letto. Scaldati dal calore reciproco, dalla fiducia reciproca. Gli sembrava una cosa ancora più intima di quello che avevano fatto a casa di Lazarus e negli appartamenti direttoriali. Intima in modo diverso, in modo dolce, in modo… con un senso di appartenenza. Le persone spesso condividevano l’intimità fisica facilmente, ma dormire con qualcuno richiedeva un interesse e un affetto che non sarebbe stato possibile condividere solo per egoismo, per provare piacere.
Così le si stese di fianco, a fatica, lentamente, cercando di contenere il più possibile i gemiti di metallo dell’armatura. Quella, in altre circostanze, su un letto vero, non sarebbe assolutamente stata contemplata.
La guardò dormire per quasi cinque ore, mentre la notte raggiungeva la sua massima oscurità, rendendoli completamente invisibili e nascosti al resto del mondo. Non osò muoversi nemmeno una volta per timore di svegliarla, nonostante le ossa irrigidite e le articolazioni scricchiolanti.
La camicia si asciugò, cancellando ogni traccia dello sfogo di Ofelia. Avrebbe voluto toccarle la mano, o un braccio, ma non osò per timore di svegliarla.
Così pensò. Trattenere la sua mente talvolta gli costava più dolore che non lasciarla lavorare a pieno regime. Valutò le nuove informazioni rivelategli da Ofelia, il modo in cui influivano sul loro avvenire e sui loro piani. Cerco di dare un senso logico e cronologico alle azioni da intraprendere, calcolando variabili, scenari e percorsi alternativi e scorciatoie o deviazioni che potessero garantire loro maggiori probabilità di successo.
Dovevano tornare a Babel, prima di tutto. Come? Quando? Sotto che spoglie? Dovevano stare attenti a Lady Septima, ai Genealogisti ancora di più, e anche un po’ di più all’Altro, sotto qualunque forma avesse voluto manifestarsi. Dovevano trovare il Corno, prenderlo o decidere comunque cosa farci, cercando di passare inosservati e utilizzandolo al meglio per rimettere il mondo in ordine.
Thorn non avrebbe mai usato quella parola, ma il piano era decisamente fantasioso. Raffazzonato quanto meno. Era la bozza di un piano scritto da un bambino privo di intelletto. Era un guazzabuglio di idee e speranze e utopie e…
E dopo?
Una volta salvato il mondo?
Non si illudeva certo che avrebbe goduto di libertà e prestigio. Il prestigio a dire il vero non gli interessava, ma la libertà sì, più per Ofelia che per sé. Si sarebbe costituito. Il suo senso dell’onore, o quello che era rimasto del suo orgoglio, gli avrebbe impedito di vivere una vita al fianco di Ofelia sapendo di essere ancora latitante al Polo. Un fuorilegge con un processo pendente. Intollerabile. Confidava nel taccuino di Faruk, sempre che non fosse andato perso o manomesso. Ofelia gli aveva detto che, quando era tornata nella sua cella con lo spirito di famiglia dopo che lui era scappato grazie al suo novello dono di Attraversaspecchi, era stato per dargli la grazia, togliere da lui l’onta della nascita bastarda e insignirlo del rango di nobile ufficialmente riconosciuto.
Si sarebbe sottomesso alla giustizia. Avrebbe… invalidato il matrimonio. Quel pensiero lo fece fremere, ma si costrinse a ragionare sul fatto che a lui e Ofelia non serviva una firma su un foglio di carta per riconoscere la loro reciproca appartenenza. Per amarsi. Se Ofelia se ne fosse voluta andare, non sarebbe stato di certo un contratto di quel tipo a trattenerla.
Nonostante quello, però, lui non voleva disonorarla. Non voleva che si vociferasse su di loro, che Ofelia fosse malvista, criticata od oggetto di pettegolezzi, per quanto la corte pullulasse di donne e uomini libertini che se ne infischiavano delle voci, anzi, le sfruttavano per la notorietà. Si sarebbero risposati, se lei avesse voluto. Avrebbero abitato insieme. Avrebbero vissuto insieme. Sarebbero stati una famiglia…
Solo loro due. A lui sarebbe bastato, aveva vissuto con molto, molto meno di quello, ma lei?
Era assurdo e totalmente inconcepibile per la sua mente pragmatica che quelle questioni sentimentali occupassero più attenzione e lo rendessero più preoccupato della prospettiva di tornare a Babel, prendere il Corno e salvare la situazione.
Forse perché nulla avrebbe avuto senso, se tornando alla normalità Ofelia non lo avesse più voluto.
Un pensiero ramingo lo indusse a chiedersi cosa sarebbe successo se fosse stato lui quello ster… quello incapace di poterle dare un figlio. Non aveva molte esperienze su cui basarsi, anzi, l’unica che aveva era negativa, quindi… Ofelia avrebbe cercato qualcun altro che potesse darle dei bambini? Quel desiderio avrebbe obnubilato, schiacciato e calpestato il vincolo che li univa?
O si sarebbe accontentata di avere lui?
Scacciò quei pensieri, dicendosi che non era lusinghiero nei confronti di Ofelia giudicarla in grado di tanto meschino egoismo, ma una piccola punta acuminata come un artiglio gli si conficcò nel cervello, o forse nel cuore. Thorn seppe che non se ne sarebbe andata finché non avesse dissipato quel dubbio.
L’oscurità li avvolse. In mancanza di illuminazione artificiale e con il trentadue percento del cielo solcato da nubi, era difficile vedere ad un palmo dal naso, nonostante gli occhi fossero ormai abituati a quel buio denso.
Ma fu l’udito a fargli capire che Ofelia si era svegliata.
Il suo respiro, profondo e regolare, venne come spezzato. E non per via di un sogno. Thorn, ancora rigido nella stessa posizione, la osservò mentre scrutava il cielo, le stelle. A che cosa pensava?
Il petto le si sollevò di scatto come se un singhiozzo le fosse sfuggito, cinque ore prima. Thorn osservò l’ipnotico movimento del suo respiro, i suoi polmoni che inspiravano ed espiravano con facilità, facendole alzare a abbassare ritmicamente seno, addome e ventre. Non si era mai reso conto di quanto il semplice atto di respirare coinvolgesse tutto il tronco.
Le urla e gli strepiti triviali, fastidiosi e inopportuni della marmaglia che Ofelia aveva salvato arrivarono fino a loro, insieme ad un’esplosione di luce, fumo e altre risate sguaiate e insensate.
- Quegli idioti finiranno per provocare un incendio.
Ofelia si voltò verso di lui, Thorn lo percepì con l’udito, con il tatto, con gli artigli. I suoi occhi rimanevano però in ombra, gli era impossibile decifrare cosa si annidasse al loro interno.
Ofelia lo osservò di rimando per quattordici, strani secondi prima di aprire bocca: - A che pensi?
Ofelia demoliva le statistiche, ma lui non era da meno. Ancora non si era abituato alle sue domande causali e del tutto fuori contesto. Lei voleva sapere cosa stesse pensando lui? Non era lui quello che aveva rivelato di essere stato talmente modificato fisicamente da non poter generare figli, una “funzione” insita nell’uomo quanto il bisogno di nutrirsi. Non era lui quello che aveva attraversato decine di peripezie da solo, che aveva rinunciato ad una parte fondamentale di sé per dare vita ad un essere indefinito fatto d’ombra, ad aver scoperto di aver fatto in realtà il gioco dei loro avversari. Non era lui ad aver abusato del proprio potere per impedire a centinaia di persone (duecentodue e trentacinque bambini) di morire, alla deriva nel mare di nuvole.
E ovviamente lei chiedeva a lui a cosa stesse pensando. E ovviamente lui non si aspettava quella domanda. Ovviamente.
Ci aveva però riflettuto abbastanza da poterle dare una risposta celando la sorpresa.
Babel, le ripeté. Tornare lì. Stare attenti a Lady Septima e ai Genealogisti. L’osservatorio delle Deviazioni e il Corno. Aveva preparato il discorso e la scaletta delle azioni così bene che non esitò un istante nell’esporre le sue idee.
- Potremmo restare qui.
Il respiro si mozzò brutalmente nel petto di Thorn, che pure continuava a guardare quello di Ofelia uscirle ed entrarle nei polmoni.
Potevano restare lì e… semplicemente vivere? Dimenticare ogni problema, ogni preoccupazione, ogni nemico che si erano fatti, ogni persona che mirava ad ottenere qualcosa da loro?
Ofelia parve pentirsi delle sue parole in un decimo di secondo, come se volesse rimangiarsele. Lui però, in un altro istante altrettanto breve, non poté fare a meno di valutare l’idea. Avrebbero potuto… occupare una casa, o costruirne una nuova. Avrebbero coltivato il loro cibo, grazie agli artigli lui avrebbe procurato la carne, sempre che ci fossero animali nelle vicinanze. Sempre che lui fosse riuscito a controllare il suo potere. Sarebbero stati solo loro, senza la zavorra della famiglia alle calcagna. Thorn non apprezzava quel termine, ma egoisticamente si rese conto che se fossero rimasti lì avrebbero potuto essere davvero tutto l’uno per l’altra. Impossibilitati a raggiungere Babel, il Polo, Anima o qualsiasi altra arca, Ofelia si sarebbe rassegnata all’idea di poter contare solo su Thorn. E allora sì, sarebbe stato indispensabile per lei.
Ma non sarebbe stato giusto. E non sarebbe stato saggio.
Quanto ci avrebbe messo quell’arca a crollare nel mare di nuvole? A sparire? Un’arca che, a giudicare da tutte le cartine geografiche che lui aveva visionato nel corso della sua vita (trecentodiciassette), non sarebbe nemmeno dovuta esistere, o trovarsi in quel punto? Talmente imbevuta di mistero che non sapevano nemmeno perché fosse totalmente disabitata, nonostante gli evidenti segni di civilizzazione?
Capì perché Ofelia si era pentita delle sue parole: sarebbe stata un’azione da vigliacchi quella di restare e gettarsi tutto alle spalle. E Ofelia non era una vigliacca. Non poteva permettersi di lasciare il mondo così, di non porre rimedio a ciò che aveva causato con un innocuo attraversamento di specchio.
Non era lui, come le aveva già detto, quello che aspirava a salvare il mondo.
Lui avrebbe accettato. Sarebbe rimasto lì. Sarebbe andato ovunque lei avesse voluto.
- Ma non dobbiamo. Io meno di tutti – si schermì quasi Ofelia un secondo dopo. Thorn riprese a respirare. – Ora che so di aver liberato l’Altro volontariamente devo assumermene le conseguenze. Se ci trova prima che noi troviamo il Corno dell’abbondanza non ci darà la minima possibilità di farlo tornare ad essere un eco.
Thorn non disse nulla, guardò semplicemente Ofelia cadere nello sconforto. Non era facile intuirne le espressioni in mezzo a quell’oscurità, ma poteva percepire i suoi pensieri dall’irrigidimento del suo corpo.
Stava pensando troppo, probabilmente a cose che lui stesso stava valutando. Non voleva, però, sprecare quel tempo che avevano a disposizione prima di mettersi a fare qualcosa. Non avrebbe avuto senso cominciare già da quel momento a organizzare, pianificare e fare, si giustificò Thorn.
E soprattutto, dato che ormai la conosceva come non avrebbe mai potuto credere di conoscere un’altra persona, sapeva che Ofelia si stava colpevolizzando di tutto. Irragionevolmente. E non poteva tollerarlo.
Fece leva sul gomito appoggiato al terreno per chinarsi su di lei, coprendole in parte la vista del cielo.
- Non sbagliare colpevole – le disse lapidariamente, incapace di usare un tono consolatorio o incoraggiante. – L’unica responsabile è Eulalia, non tu -. Sentì la rabbia montargli dentro mentre pronunciava quelle parole, sempre più consapevole di quanto fossero vere, e di quanto a soffrire per gli sbagli altrui fosse sempre Ofelia. Strinse i denti per trattenere gli artigli affinché non la disturbassero. – Dov’è questa donna che ha tanto a cuore le sorti dell’umanità mentre i suoi eletti si sbarazzano degli indesiderabili e il suo riflesso lacera il nostro mondo? Si nasconde dall’altra parte dell’immensa scacchiera da lei stessa creata sulla quale tutti i pezzi, LUX, Genealogisti, osservatori, giocano da tempo la propria partita con le proprie regole.
Ofelia non sembrò ritrarsi dal suo tono brusco, non se sembrò spaventata. Era l’unica che gli stesse vicino nonostante i suoi modi, si era reso conto da tempo di quale fosse l’effetto che aveva sulle altre donne. Decisamente non piacevole.
- Come possiamo vincere, allora?
Ed era l’unica che riponeva fede in lui. Completa fiducia, in modo quasi insensato. Non si accorgeva di quanto fosse fallibile, di quanti errori avesse fatto?
- Prendendo coscienza del gioco. Troveremo il Corno dell’abbondanza, ridurremo Eulalia e l’Altro all’impotenza, poi romperemo la scacchiera.
Era ciò che avrebbero fatto. Ciò che avrebbero dovuto fare. Ofelia non parve far caso al fatto che Thorn non aveva assolutamente nominato il come. Non esisteva una cosa da fare senza la metodologia per farla. Ogni processo aveva una lavorazione, uno schema, una programmazione. Loro avevano le azioni finali, non il percorso.
Ma Ofelia annuì, e Thorn percepì il suo corpo rilassarsi nell’ombra. Piena fiducia in lui. Si augurava con tutto ciò che aveva che non fosse malriposta, ma nutriva dei dubbi al riguardo, e i numeri non gli erano favorevoli. Nemmeno gli scacchi, dato che le regole del gioco erano state cambiate senza che lo avvertissero.
Ofelia continuò a rimuginare, ma Thorn non la interruppe. Stava riflettendo senza paura, senza farsi prendere dallo scoraggiamento, e lui l’avrebbe lasciata fare finché fosse stata tranquilla. Non sapeva come spronare una persona, come darle forza o consolarla, ma ci avrebbe provato. Tutto, purché per pochi minuti ancora rimanesse serena, prima delle insidie che dovevano affrontare. Prima dell’alba che li avrebbe rimessi in moto.
- E poi? – lo incalzò, un minuto e mezzo dopo. – Dopo che l’avremo rotta?
A Thorn sovvenne il ricordo di quando i suoi cugini piccoli, i figli di Berenilde, domandavano alla madre la continuazione di una storia. Le chiedevano la stessa identica cosa. Ciò che lui stava dicendo non era assolutamente una storia, tanto meno piacevole, ma ad Ofelia non dispiaceva sentirlo parlare. Come se fosse lui la ragione della sua catarsi, del suo essersi rilassata dopo aver quasi ceduto all’ansia.
Fu il momento di dirle ciò su cui aveva riflettuto mentre lei dormiva. E se lei non gli aveva nascosto la sua steril… la sua incapacità di avere figli, lui non poteva assolutamente nasconderle i suoi piani.
- Poi mi consegnerò alla giustizia. Stavolta una vera giustizia, con un tribunale vero e un processo vero. Pagherò il mio debito verso le nostre famiglia e procederò all’annullamento del nostro matrimonio, la cui validità giuridica credo che a questo punto sia piuttosto dubbia.
Gli interessava soprattutto la reazione di Ofelia a quell’ultimo punto. Si sentì sollevato quando non la vide gioire di fronte all’idea di essere libera, non più vincolata a lui da un contratto matrimoniale. Un timore superfluo, dato che qualcosa gli suggeriva che probabilmente Ofelia sarebbe andato a cercarlo su Babel anche se non fossero stati sposati, ma era impossibile rimuovere dalla sua memoria intrinseca il ricordo di tutti i rifiuti subiti da parte di coloro che avrebbero invece dovuto stargli sempre accanto.
Dubitava che quella sensazione se ne sarebbe mai andata del tutto.
- E poi? – insisté Ofelia, come se volesse sapere ciò che li aspettava fino alla fine dei loro giorni.
A quel poi non aveva pensato. Il tribunale, le conseguenze in seguito al giudizio, l’annullamento del matrimonio. E poi?
Se fosse stato condannato alla prigione ne avrebbe scontato la pena, se fosse stato assolto sarebbe uscito indenne dal tribunale. E cosa si immaginava di trovare, in ogni caso, alla sua uscita?
Forse sua zia.
Sicuramente Ofelia.
Seppe che, comunque fossero andate le cose, Ofelia ci sarebbe stata. Ma visto che agognava così tanto la libertà, che voleva compiere le sue scelte, le avrebbe permesso di decidere. E non ebbe paura di quella volontà.
- Poi toccherà a te decidere. Aspetterò che tu mi chieda di sposarti.
Ofelia si contorse sotto di lui, tossendo e rischiando di strozzarsi. Dovette farsi forza per non metterla seduta di peso e batterle sulla schiena dicendole di allungare il collo e guardare in alto.
Chissà a cosa stava pensando. Perché l’avevano colta così di sorpresa quelle parole? Forse, alla fine, non desiderava davvero mantenere il vincolo matrimoniale con lui.
Lo smentì. – Toccherà a noi, vuoi dire.
Insensatamente, sorprendentemente e inopportunamente, Thorn sentì l’urgenza di piegare le labbra. Di… sorridere. Era successo solo sedici volte nella sua vita, e quasi tutte da piccolo (undici). Una con lei, dopo aver assistito al suicidio di Madre Ildegarda, quando aveva capito di dover estromettere Ofelia dall’equazione e lei era svenuta.
Ofelia aveva forse paura di fargli una proposta di matrimonio? Lo trovava disdicevole? Lei, così coraggiosa, così pronta a sfidare le leggi scritte e non scritte per ciò in cui credeva, che non si faceva fermare da nulla e nessuno, soprattutto dall’opinione altrui, lei che desiderava così tanto prendere le sue decisioni e voleva che gli altri le rispettassero… aveva paura di chiedergli si sposarla?
Cosa temeva di più, un rifiuto o il pubblico ludibrio?
In effetti, l’immagine di lei che gli offriva convenzionalmente un anello o che gli si avvicinava per chiedergli di unirsi in matrimonio era un po’ ossimorica.
Stupendo se stesso, suo malgrado divertito dai suoi pensieri che in origine erano stati seri (voleva davvero dare ad Ofelia la possibilità di scegliere da sé il suo avvenire, e chi volesse al suo fianco), decise di… stuzzicarla. Non gli era mai capitato di metterla così in difficoltà.
- Non ho mica detto che accetterò.
Che dubbio ridicolo. Avrebbe accettato anche se lei non gliel’avesse chiesto.
Gli parve di notare gli occhi di Ofelia ingrandirsi dietro le lenti, troppo oscurati dalla notte per poterne essere certi. L’aveva colta di sorpresa? Si rese conto solo dopo tre secondi che in realtà avrebbe voluto vederla quanto meno sorridere. Sembravano tutti in grado di riuscirci, con lei, gioviale com’era, ma l’ultima volta che Ofelia aveva davvero riso con lui era stato sull’impluvium, quando aveva cercato di baciarla ma l’armatura si era inceppata. E aveva riso di lui. La faccenda in sé era stata molto poco divertente. Anche un po’ di… meno.
L’aveva in ogni caso sorpresa, su quello non c’erano dubbi. Per una volta era stato lui a coglierla alla sprovvista, demolendo le sue aspettative su una possibile risposta, e non viceversa.
In modo del tutto privo di ragione se ne sentì orgoglioso e compiaciuto, come se essere riuscito finalmente a farle provare lo sgomento che di solito infliggeva a lui fosse motivo di vanto.
Un vanto e uno stato di gongolamento che durarono ben poco.
- Farò in modo di essere persuasiva.
Gli si seccò la bocca. Cosa intendeva dire con quella frase? E perché aveva usato quel tono insinuante? Si era ripresa il coltello, e lo teneva decisamente dalla parte del manico.
Ofelia lo avrebbe persuaso a sposarla. A legarsi a lei. Come se servisse. La verità era che avrebbe voluto rimanere suo marito, un titolo che lo rendeva sotto tutti gli aspetti autorizzato a starle accanto, una dicitura che avrebbe reso Ofelia sua, sua moglie, l’unica donna ad appartenergli e alla quale lui apparteneva, anche se lei non avesse voluto.
Non aveva nulla di cui persuaderlo.
Ma non gli sarebbe dispiaciuto un tentativo da parte sua. Non l’aveva forse reclamata lui per tutto quel tempo, non aveva cercato di far uscire la migliore versione di sé, per quanto possibile, solo per piacerle? Anzi, per non farsi odiare.
Non avrebbe disdegnato un simile impegno da parte sua. In parità. Un’uguaglianza in entrambi i termini dell’equazione. Sperava solo di non prenderci troppo gusto.
Si chinò ancora di più su di lei, questa volta appoggiando la mano a terra per poterla sovrastare interamente e portare il viso alla sua stessa altezza.
Tornò incredibilmente serio, dimenticò le azioni persuasive che avrebbe molto gradito da parte di Ofelia, e le parlò sinceramente, offrendole con le parole la sua più grande paura, e insieme il suo più grande… bisogno. Non desiderio, ma bisogno, necessità. Affinché lei lo custodisse.
- A mia zia non sono bastato, dopo che ha perso i figli.
Cercò di aggiustarsi sopra di lei, intimorito dalla risposta che poteva ricevere. Spaventato anche da quella vicinanza tra i loro corpi, nonostante non fosse la prima volta e Ofelia avesse sempre… apprezzato. Thorn però sembrava incapace di interiorizzare quell’evidenza, perciò avrebbe sempre avuto difficoltà ad approcciarla.
O per lo meno, si corresse, finché non fosse passato un tempo consono a dimostrare che Ofelia non subiva passivamente e non gli dava per obbligo ciò che lui, ciò che il suo corpo, bramava.
Non parve volerlo respingere. Doveva darle più fiducia, accordarle quel cieco affidamento che lei già faceva su di lui. Eppure…
Ofelia poteva scherzare, dicendogli che l’avrebbe convinto a sposarla. O poteva volerlo come marito, al suo fianco, per tutta la vita che avrebbero vissuto. Ma sarebbero sempre stati loro due. Non avrebbero generato altra vita, e nessuno li avrebbe ricordati alla loro morte. Non i loro figli. Non i loro nipoti. Non i loro pronipoti. Solo loro due. E per quanto lui avesse bisogno di lei… lei aveva bisogno di più, oltre a lui.
- A te basterò?
La domanda gli uscì più dura di quanto avrebbe voluto, il corpo, le corde vocali erano già pronte ad incassare un rifiuto, nonostante la sua buona volontà di avere fede nell’amore che Ofelia gli dimostrava.
Ofelia non gli rispose. Non a parole.
Lasciò passare quattro secondi di silenzio durante i quali cercò di carpire la sua espressione, le sue emozioni, cercando di sondare l’insicurezza che aveva dentro.
E la spazzò via, l’insicurezza. La paura. I brutti ricordi. L’aspettativa dell’ennesimo rifiuto.
Non la meritava. Anzi, aveva creduto di non meritare nulla. Era stato cresciuto in quel modo, tutto ciò che gli era stato dato era una grazia, una concessione immeritata, non dovuta. Invece lei gli aveva dimostrato, con pazienza, che lui valeva qualcosa. E valeva il suo amore.
Ofelia credeva che lui se la meritasse. E lui chi era per contraddire la donna che sovvertita le leggi matematiche, statistiche, probatorie e non si piegava alla normalità e alle imposizioni?
Ofelia lo voleva. E lo avrebbe voluto con o senza figli. Lo avrebbe voluto anche se ne avessero avuti dieci di bambini. Thorn lo capì in quel momento. Al termine della giornata, dopo aver messo a letto la loro prole, Ofelia sarebbe sempre tornata da lui. Nella loro camera. Da lui. Per lui. E sarebbero stati soli. Soli, e di nuovo circondati da bambini generati grazie al loro amore la mattina dopo. E lui sarebbe stato il suo sostegno, il suo aiuto. Il suo braccio destro.
E Ofelia avrebbe avuto bisogno di lui. Non solo per i figli, ma per se stessa. Per la loro famiglia.
Lui per lei sarebbe sempre stato indispensabile, fondamentale, imprescindibile, irrevocabile. Sempre.
Sentì quella punta di dolore che albergava nel suo cuore sciogliersi, finalmente, il dubbio dissiparsi, di fronte all’evidenza che a lei sarebbe bastato. Che aveva trovato finalmente una persona disposta ad accettarlo e amarlo com’era. Senza vergognarsi di lui, senza volerlo cambiare.
Si ripromise di riporre sempre in Ofelia la fiducia che lei riponeva in lui, e non si vergognò del suo corpo duro e ossuto quando lei lo attirò a sé, baciandolo con sicurezza e decisione. Rispondendo ampiamente e senza ombra di dubbio alla sua domanda. Gli artigli quasi si spensero, a Thorn parve di svuotarsi della costante corrente elettrica, persino la testa e il corpo parvero fargli meno male.
Avevano tanto da fare, pianificare, prevedere, ma… era ancora notte. Tanto valeva attendere la luce del sole. E tanto valeva sfruttare quel tempo che avevano a disposizione, per quanto misero, per quanto accompagnati dall’ansia e dall’apprensione. Briciole di ciò che potevano avere, ma sempre meglio di nulla.
Così rispose al bacio prendendo possesso della sua bocca, facendogliela schiudere per lui. Ofelia gli sospirò sulle labbra, inondandogli le narici con il sentore dell’uva che aveva mangiato prima. Dolce come le sue labbra, un sapore ricco e inebriante come il vino che ne veniva distillato.
Thon venne colto dalla frenesia, ma Ofelia, solo con le mani, lo invitò a fare con calma. Alla fine, il gioco lo dirigeva quasi sempre lei, ma lui non aveva nulla da recriminare in merito.
Continuarono a baciarsi lentamente, come a volersi assaporare a vicenda. Thorn si rese conto che ogni bacio era diverso dal precedente, ogni situazione di intimità era differente dall’altra, non solo per l’ambiente in cui erano o per... per le posizioni (ringraziò l’oscurità che celava le sue orecchie rosse d’imbarazzo a quel pensiero), ma perché i sentimenti che li accompagnavano ogni volta erano diversi, così come le vicende appena vissute, il loro stato d’animo. Non poteva essere un atto calcolato. Non aveva nulla a che fare con cifre e aritmetica.
Gli piacque rendersene conto, nonostante avesse sempre creduto che un mondo non governato dalle leggi scientifiche fosse destinato a caos e anarchia.
Ringraziò che non fosse così quando Ofelia allungò una mano per afferrargli la nuca e avvicinarlo ancora di più a sé, spettinandogli i capelli, e con l’altra cercò di disfargli i bottoni della camicia. Per facilitarle il compito si spostò lentamente sopra di lei, avvicinandosi così alle sue mani, al suo corpo. Pur stando attendo a non farle male, a calpestarla, ricettivo per cogliere ogni possibile rifiuto o reticenza da parte sua, non interruppe il bacio, decisamente il più lungo che si fossero mai dati.
Ofelia riuscì per la prima volta nell’intento di sbottonargli la camicia, e Thorn rabbrividì mentre le sue dita sottili disfecero la prima asola, poi la seconda, la terza… fino all’ultimo bottone, che raggiunse dopo avergli tirato fuori la camicia dai pantaloni. L’aria fresca gli solleticò la pelle accaldata, e nonostante fosse abituato alle temperature glaciali del Polo, che preferiva di gran lunga al calore (caldo, sudore, appiccicume, sporcizia), gli venne la pelle d’oca. Dubitava però che il suo corpo avesse avuto una reazione al vento. Probabilmente era più colpa delle mani di Ofelia, che gli accarezzavano il petto, l’addome, tutta la pelle che trovava, senza la minima esitazione. L’unica nota dolente erano i suoi guanti. Fremette al pensiero di toglierglieli, di sentire la sua pelle calda a contatto con la sua, come se Ofelia potesse leggerlo. Si sarebbe offerto volentieri ad una lettura di quel tipo. Anche un po’ di più.
Più difficile era capire come liberare lei dai suoi indumenti. La tunica la copriva quasi interamente, e non aveva cerniere o bottoni o spille di alcun genere. Lui era esposto proporzionalmente a quanto Ofelia era coperta. Si rese conto però che, sebbene la stoffa le fasciasse strettamente il tronco, lasciandole scoperte solo le braccia, l’accesso da sotto era meno complicato.
Le fece quindi scivolare una mano sul polpaccio (il suo braccio era abbastanza lungo, rispetto al corpo di Ofelia, per poter partire dalla caviglia), con meno timidezza di quanto si sarebbe aspettato. Forse perché Ofelia continuava a tirarlo a sé, con entrambe le mani ora nei suoi capelli, ora sulla schiena, ora sul tronco o sulle braccia, facendogli intendere quanto anche lei lo desiderasse, o forse perché il suo corpo si stava finalmente abituando a quei contatti fisici, prendendo dimestichezza, sciogliendosi, imparando. Era la terza volta che stava… così vicino ad Ofelia, e sentiva di aver già appreso molto. Su come lui reagiva a lei, ma soprattutto su come lei rispondeva a lui, ai suoi tocchi.
Thorn strinse forte gli occhi e arricciò il naso. Era incredibile, indefinibile ciò che gli procurava la vicinanza con il suo corpo. Era l’antitesi del disgusto che aveva provato per tutta una vita, un’avversione al contatto fisico che era stato spazzato via in pochissimo tempo da lei. L’esasperazione del bisogno e del piacere, ma non solo piacere carnale. Piacere emotivo. Piacere… affettuoso. Con il corpo, Ofelia gli diceva cose che non sarebbero stati in grado di comunicare a voce. E Thorn sapeva (le statistiche non mentivano, e il coefficiente di miglioramento sotto quell’aspetto in sole tre occasioni di intimità era esponenziale) che avrebbero presto raggiunto un’intesa perfetta. Sotto tutti i punti di vista che una coppia potesse esplorare.
Quando riaprì gli occhi, due secondi dopo, vide nella penombra che Ofelia lo fissava. Quando però fece scivolare la mano più in alto, dal polpaccio al ginocchio, dal ginocchio alla coscia, la vide chiuderli nuovamente, abbandonata a lui, alle sue carezze e al suo calore. La mano le sfiorò la natica, passò sopra la biancheria e raggiunse il fianco, che strinse possessivamente. Ofelia tremò sotto di lui, interrompendo il bacio.
Sospirò riadagiandosi sull’erba. Thorn si bloccò, allentando la presa sulla sua vita. Ofelia teneva una mano sul suo collo e una sulla sua spalla, ma sembrava come essersi fermata. Che non volesse proseguire? Non poteva aver frainteso quel trasporto. Oppure… magari Ofelia non poteva fisicamente. Forse era… sapeva come funzionava il corpo delle donne, e… no, probabilmente invece aveva pensato a qualcosa che si era dimenticata di dirgli ed era così urgente da…
Ofelia sorrise, cogliendolo alla sprovvista, come sempre. – Basta pensare, Thorn – sussurrò, accarezzandogli la fronte con il pollice guantato, come per spianargliela.
L’aveva aggrottata, in effetti, e quando se ne rese conto rilassò le sopracciglia.
Ofelia annuì, come fosse stata lei a chiedergli di sciogliersi, e tolse le mani da lui per appoggiarle sul terreno. Tirò su il busto, in un tentativo di mettersi seduta, e Thorn arretrò per lasciarle spazio. Non capiva cosa volesse fare. O cosa volesse in generale.
Non lo lasciò allontanare però, lo fermò quando vide che si stava scostando. In qualche modo, guidandolo gentilmente, lo fece rotolare sul fianco, e poi sdraiare di schiena sull’erba.
Allora forse voleva… delle… coccole.
Le orecchie gli avvamparono quando pensò a quel termine.
Gli era talmente poco familiare che lo considerava quasi… una parola sconosciuta, ma vergognosa, quasi volgare. Le… coccole… quelle che si riservavano ai bambini. Quelle che lui, a memoria, non sapeva nemmeno cosa fossero, dato che non le aveva mai ricevute. Gli abbracci improvvisi e saltuari di Berenilde potevano essere considerati una… coccola? Le carezze che da bambino gli facevano lo erano?
E come si facevano? Doveva dire ad Ofelia che non aveva idea di cosa dovesse fare?
Ofelia però lo prevenne, sporgendosi su di lui e baciandogli la fronte. Non si scostò da lì quando gli disse: - Ho detto basta pensare.
Thorn emise uno sbuffo dal naso, sarcastico. Come se fosse possibile smettere di pensare. Come se non ci avesse provato tante volte. Come se…
Smise di pensare.
Ofelia gli si era seduta in grembo, oscurando completamente il cielo, le stelle, la più piccola traccia di luce. Non che lui avesse intenzione di guardarle, quando aveva lei davanti. Il suo peso (trentadue chili gambe escluse) gli gravava addosso, ma non in modo pesante. Era piacevole. Però quelle non gli sembravano coccole. Forse lo sarebbero state se lei si fosse sdraiata su di lui. Quando erano rimasti a letto dopo… che si erano uniti per la prima volta… erano state coccole quelle?
Si rese conto che tutte quelle congetture lo stavano smentendo: non era affatto esponenziale la curva di miglioramento in quell’ambito. Si sentiva più impacciato di quando aveva cercato di farle capire che voleva qualcosa di più di… quello che avevano. Che non era stato comunque granché.
Ofelia ridacchiò sommessamente. – Ho capito. Dovrò essere molto persuasiva.
Thorn deglutì a vuoto quando Ofelia si chinò su di lui, facendogli passare le mani dal ventre al petto, al collo. Lo baciò di nuovo, voluttuosamente, lentamente, e rispostò le mani verso il basso. Verso i suoi pantaloni. Che slacciò senza un tentennamento. Senza ingarbugliarsi. Senza fare danni.
Thorn cercò di smettere di riflettere su cosa fare, o su cosa Ofelia potesse voler fare, e cercò di lasciarsi guidare dai sensi.
Si lasciò sfuggire un grugnito poco composto quando Ofelia gli baciò e gli mordicchiò il collo. L’abbracciò stretta in risposta, stringendola a sé, contro il suo petto, accarezzandola. Cercò di non ragionare, di non calcolare le mosse, di non pensare ai libri di anatomia che suo malgrado si era ritrovato a studiare durante il suo percorso di apprendimento di tutto lo scibile possibile.
Ofelia era morbida. Calda. Era così piacevole toccarla. Finalmente la sentì gemere quando raggiunse la parte particolarmente morbida alla base della sua schiena. La costrinse a fermarsi per prendere fiato, ansimando contro il suo collo, il suo orecchio.
Thorn si chiese se lo sentiva tremare. Se sentiva i suoi muscoli, le sue stesse ossa, i suoi tendini, il suo sangue, irrigidirsi, contrarsi, e poi rilassarsi, in una serie di reazioni imprevedibili e mai provate prima.
Ofelia rimase immobile per sette secondi prima di arretrare un po’ con il corpo e cominciare a… muoversi… con circospezione… su di lui.
Thorn inspirò bruscamente, stringendo forte le mani sul corpo di Ofelia, proprio sopra a dove lei si era posizionata, facendole produrre un suono simile. Ofelia sollevò la testa e continuò ad ondeggiare con sempre più sicurezza. Lo guardò negli occhi, e a Thorn parve di scorgere una scintilla di sfida dietro le lenti, come se volesse restituirgliela dopo che lui le aveva chiesto se le sarebbe bastato. Non avrebbe potuto averne la certezza, però, finché il buio fosse stato così fitto.
- Ofelia – mormorò lui rocamente, quando il movimento si fece insopportabile. Cosa voleva dirle? Di continuare? Di fermarsi?
O l’aveva chiamata solo per sentire il suo nome sulle labbra?
Lei parve gradire, nonostante non avesse detto nulla. O forse proprio per quello. Perché le sembrava quasi una supplica. Perché le stava dando il potere di decidere cosa fare. Ma quello gliel’avrebbe sempre dato.
Specialmente se portava a quei risultati.
In qualche modo lei parve capire. Thorn non comprese bene cosa accadde dopo, una terribile mancanza per una persona così meticolosa e attenta ai particolari. Ma non gli importò.
Non gli importava di nulla, dal momento che Ofelia stava armeggiando con i vestiti di entrambi. E non gli importava nemmeno di cosa lei avrebbe potuto vedere, o che potesse cambiare idea. Sentiva dal suo corpo che ne aveva bisogno, che ne aveva voglia, quanto lui.
Fece tutto Ofelia, forse per dimostrargli che lui le bastava, che le sarebbe sempre bastato, che le apparteneva quanto lei apparteneva a lui. E che poteva essere molto, molto persuasiva.
Thorn ansimò senza ritengo, quasi stesse soffrendo, quando Ofelia si assestò, tornando a pesargli addosso. Lui guardò il suo viso, che gli sembrava accaldato ma trionfante. Thorn pensò che Ofelia sarebbe stata molto meglio di Faruk sul trono. Sembrava proprio una sovrana seduta in quel modo sopra di lui, a guardare tutto dall’alto, a bearsi della sua vista, di ciò che le apparteneva.
Avrebbe voluto dirle… qualcosa. Ma sembrava tutto inopportuno. Persino reiterarle l’amore che provava sembrava fuori luogo. Era oltre le parole quello che si stavano comunicando. Oltre ogni senso. Infatti, quando Ofelia gli sorrise dolcemente, o almeno così gli parve, e ricominciò a muoversi su di lui come prima, Thorn chiuse gli occhi. Escluse la vista, percepì solo con udito, olfatto e tatto. E aggiunse il gusto quando, dopo aver stretto per un’ultima volta le natiche morbide di Ofelia, le accarezzò la schiena e la tirò giù contro di lui, baciandola, assaporando la sua pelle fin dove la tunica accollata glielo permetteva.
Udì i gemiti di entrambi, i suoi cavernosi, quelli di lei sommessi, forse un po’ striduli.
Sentì il tocco di Ofelia sulla sua pelle, i suoi pugni stringersi quando si muoveva nel modo più appagante possibile, sistemandosi su di lui, scoprendo come fare insieme a lui.
Annusò l’aria notturna, il sentore di Babel sui capelli asciutti di Ofelia, i ricci che gli solleticavano le guance e si impigliavano nella barba che stava già ricrescendo.
Gustò l’uva sulla lingua di Ofelia, e un vago sentore dei loro corpi uniti.
Perse la cognizione del tempo. Si abbandonò alle sensazioni, all’istinto, e si scoprì capace. Capace di toccare Ofelia nei punti giusti, di solleticarla e sollecitarla lì dove lei non sapeva nemmeno di averne bisogno, accompagnandola, spronandola, guidandola, muovendosi con lei.
E quando Ofelia emise un rantolo particolarmente profondo e si irrigidì, perdendo la presa con cui si reggeva al suo petto, gli crollò addosso, e Thorn seppe che ad Ofelia sarebbe sempre mancato qualcosa, ma lui avrebbe potuto colmare in gran parte quel vuoto che si sarebbe scavato nella loro vita di coppia.
Lui la imitò subito dopo, fermandosi a respirare come se gli fosse mancata l’aria fino a quel momento, e strinse gli occhi come temendo di essere portato via dalla marea. Ansimavano l’uno contro l’altra, stanchi ma in qualche modo pervasi da un’energia nuova, appagati fisicamente e anche mentalmente.
Thorn si rese conto a fatica che, avendo concluso in quel modo, Ofelia sarebbe anche potuta rimanere incinta. Se avesse potuto. Gli fece uno strano effetto rendersi conto che non si sarebbero dovuti trattenere… non avrebbero dovuto stare attenti, con il rischio che Ofelia contraesse una gravidanza ogni qualvolta loro…
In effetti, quello forse era l’unico vantaggio, se così lo si poteva definire. Se Ofelia fosse rimasta incinta prima che loro sconfiggessero tutti i loro nemici, avrebbe avuto ancora più fretta di concludere vittoriosamente. Avrebbe dovuto proteggere ben due vite indispensabili per lui.
Scosse involontariamente la testa per allontanare quel pensiero. Non sarebbe mai successo.
Ofelia fraintese il suo movimento. – Peso? – sussurrò, cercando di sistemarsi meglio su di lui.
Thorn la avvolse in un abbraccio, le baciò i capelli. La sentì rilassarsi contro il suo corpo.
Chissà se anche lei stava pensando alla stessa cosa. Chissà se si era resa conto che le prime due volte erano stati troppo presi da ciò che stavano facendo, con il rischio che lei davvero rimanesse incinta. O magari lei sapeva già della sua situazione e non si era preoccupata per quel motivo? Non era da lei essere talmente incosciente da rischiare una gravidanza non programmata.
O stava forse pensando, invece, a quello che non sarebbe mai successo?
Thorn si chiese se fosse normale riflettere e cominciare ad immaginarsi un futuro fuori dalla sua portata. Era proprio perché non potevano ottenerlo che ci pensava, o era la naturale conseguenza dell’unione con Ofelia? Matrimonio e intimità portavano a quello, no? Eredi… I marmoc… i bambini gli piacevano, poi?
No, decisamente no. Ma un bambino loro…
Thorn si concentrò su un altro pensiero, lasciando sbiadire quelle lugubri macchinazioni che non avrebbero portato a nulla di buono: erano coccole quelle?
Probabilmente sì. Stavano traendo conforto vicendevolmente.
Thorn ci rinunciò. Se Ofelia l’avesse visto in faccia avrebbe sicuramente detto che doveva smettere di pensare, di nuovo. Così tentò di abbandonarsi all’incoscienza come prima. Cercò di percepire i loro respiri simultanei, provò a captare il battito del cuore di Ofelia contro il suo; erano ancora entrambi accelerati.
- Tu mi basterai. Anche un po’ di più – disse di punto in bianco, sorprendendosi. Stava pensando a quattro cose insieme, e nessuna di quelle riguardava ciò che aveva detto.
Ofelia sollevò il capo e lo guardò con occhi annebbiati. Il suo istinto fu di sistemarle gli occhiali storti sul naso, ma si trattenne; non voleva spostare le mani dalla sua schiena.
Si schiarì la gola. – Non è il termine più preciso. Non è questione di… bastare, è avere… più di quanto abbia mai… sperato, anzi, pensato di meritare o di ott…
Ofelia lo baciò pigramente per zittirlo.
Un altro bacio ancora, diverso da tutti quelli che si erano scambiati prima (ottantuno se si contavano le volte in cui si erano fermati a prendere fiato, sette se invece si basavano sulle pause più lunghe di dieci secondi da un bacio all’altro). Un bacio… tenero, forse era quello il termine giusto. Privo della frenesia di prima.
Con suo disappunto, Ofelia scivolò giù da lui, esponendolo all’aria fredda. Mentre lei prendeva posto accanto a lui, Thorn si risistemò biancheria e pantaloni, stirandosi la camicia e riallacciando i primi bottoni dal basso. Si fermò a metà, perché si sentiva ancora accaldato. Con suo sgomento si rese conto che l’armatura non aveva scricchiolato nemmeno un momento. O forse lui non se n’era accorto.
Ofelia si sdraiò, appoggiandosi al suo fianco, con la testa contro la sua spalla. Thorn sentì un freddo diverso da quello corporeo sul lato non coperto dal suo corpo caldo.
- Non è questione di meritarsi qualcosa. Tu non devi meritarmi. Non funziona così – mormorò flebilmente.
Thorn attese che continuasse. Ventidue secondi.
- Non è che chi si comporta meglio merita di meglio. È tutto… fortuito, casuale. Ma io sono felice di essere arrivata qui. Proprio in questo momento. Sono felice di avere te. Sono felice con te. E mi basti, Thorn. E mi avanzi pure. Anche un po’ di più.
Forse voleva essere una battuta, Thorn non ne era sicuro, ma sortì l’effetto opposto. Sentì un peso opprimente bloccargli la trachea, pesante come nemmeno il corpo di Ofelia era stato prima.
Non disse una parola, non ne sarebbe nemmeno stato in grado. Caso? Fortuna? Alla fortuna non credeva, il caso era una teoria inesatta. Ma se c’era di mezzo Ofelia, l’equazione più impossibile diventava semplice e lineare, e quelle più scontate diventavano imprevedibili.
Sperò solo che il caso gliela lasciasse accanto ancora per molto tempo. Un tempo indefinibile dove non esistevano nemmeno i numeri, le cifre perdevano i loro contorni e i calcoli non avevano significato.
Le strinse la mano, e desiderò poterlo fare per sempre. Colse con la coda dell’occhio un piccolo movimento delle labbra di Ofelia, e sperò di poterla far sorridere ancora. E ancora.
E ancora.
Anche un po’ di più.
 
 
 
 
 
 
 
 
Extra
Thorn aveva smesso di cercare di classificare quello che stavano facendo. Coccole, non coccole, era tutto relativamente… non importante. Questo effetto gli faceva Ofelia: lo spingeva a non catalogare ogni gesto, parola o azione. Non stava nemmeno pensando a quello che dovevano fare, o al tempo che stavano perdendo.
No, non perdendo. Sfruttando in altra maniera. Per… rinsaldare il vincolo matrimoniale.
Quell’ultimo pensiero lo innervosì: per colpa di Ofelia ora cercava addirittura scuse e giustificazioni per discolparsi dalle sue mancanze.
Ma ogni volta che si redarguiva da solo, Ofelia gli stringeva la mano, o si avvicinava ancora di più a lui. Lo distraeva. E lui si lasciava distrarre. Stavano condividendo un’intimità molto diversa da quella di diciotto minuti prima, un’intimità più…
Quella roba non sapeva definirla. Non era come i numeri. Non era descrivibile. Ecco perché Ofelia gli aveva detto di smettere di pensare. Non ci riusciva, ma ci provava, almeno. Ed era piacevole.
Chiuse gli occhi. Gli artigli sembravano docili, anestetizzati, totalmente catturati da Ofelia. Era riuscita persino ad addomesticare loro, ovviamente. A placare il suo sistema nervoso.
E libero da pensieri e paure, si assopì.
Non aveva guardato l’orologio per il periodo di tempo più lungo della sua vita.
 
(Escluso il periodo in cui lo aveva ceduto ad Ofelia, ma quello non contava.)
 
(C’erano forme strane, immagini e colori inafferrabili, numeri… il viso dell’ex intendente. Un ricordo di quando… aveva sette anni. Il viso di Ofelia…)
 
(Un cappotto.)
 
(Ofelia aveva rotto tre tazze e macchiato il tappeto.)
 
(Un bambino gli lasciava una scia di bava sulla mano, e rideva. Non aveva senso che ridesse. Però a Thorn non dava fastidio. Il bambino era biondo, ma aveva gli occhi scuri. E i capelli erano ricci.)
 
Thorn si riscosse quando sentì Ofelia spostarsi. Sedersi. Aprì gli occhi, sorpreso di riuscire a vedere qualcosa: era l’alba. Quanto aveva… dormito?
Da quanto tempo non dormiva?
Capì che la parentesi di pace era chiusa quando vide lo sguardo di Ofelia fissarsi su qualcosa. Mettere a fuoco. E arrossì.
Thorn si alzò sui gomiti per vedere, ma Ofelia era talmente distratta che non lo notò. Si aggiustò invece la tunica che le aveva lasciato scoperte le gambe.
C’era una… ragazza seduta sulla panchina della fermata dell’autobus. Maneggiava la bottiglietta di disinfettante che Thorn aveva passato ad Ofelia e che lei aveva fatto cadere. Attirata dal movimento composto di Ofelia, posò il disinfettante e si diresse su per la collina. Verso di loro.
Thorn cominciò ad abbottonarsi la camicia, consapevole che era tutto finito. E non aveva idea di quanto tempo avrebbe dovuto aspettare per rivivere una situazione come quella con Ofelia. O di quante altre avrebbe potuto beneficiare. Sperava così tante che persino lui ne avrebbe perso il conto.
Ma doveva archiviarle.
Gli mancavano due bottoni quando Ofelia lo avvisò: - Thorn, si sta avvicinando una persona.
Rifletté un istante su quanto familiari fossero quelle parole. L’uso del tu, il servirsi del suo nome, il tono sommesso, come se stessero condividendo qualcosa di importante. Avrebbe voluto parlare con lei in circostanze simili, in una casa loro, si rese conto. Disquisire di cose magari poco importanti, ma che in qualche modo avrebbero rafforzato… quello che c’era tra loro. Probabilmente lei avrebbe parlato molto di più. Gli sarebbe piaciuto ascoltarla. Ma non poteva.
- Ho visto – borbottò, mentre il cattivo umore lo attanagliava.
Si appiattì i capelli sulla testa (Ofelia si era proprio impegnata nell’infilarci le dita, spettinandolo, eppure avrebbe voluto che lo facesse ancora) e riacquistò una parvenza di ordine. Per quanto potesse essere in ordine un uomo dopo aver copulato di notte sulla cima di una collina ricoperta di erba alta.
Lo avrebbe rifatto.
Ma… - E c’è qualcuno con lei. Anche un po’ più di qualcuno.
Avevano del lavoro da fare. E Ofelia era al suo fianco.
Era il momento di iniziare a muovere le pedine sulla scacchiera.

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