Bridge Over Troubled Water

di LionConway
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Johnny ***
Capitolo 2: *** II. Leo ***



Capitolo 1
*** I. Johnny ***


Parte Prima 
 
Anime Solitarie 
 

New York non è ospitale. È molto grande e non ha cuore. Non è incantevole, non è amichevole. È frenetica, rumorosa e caotica, un luogo difficile, avido, incerto. New York non fa nulla per chi, come noi, è incline ad amarla, tranne far entrare dentro il nostro cuore una nostalgia di casa che ci sconcerta quando ci allontaniamo e ci domandiamo perché siamo inquieti. A casa o fuori, abbiamo nostalgia di New York, non perché New York sia migliore o, al contrario peggiore, ma perché la città ci possiede e non sappiamo perché.

Maeve Brennan )


I.
Johnny

 

You grew up riding the subway, running with people 
Up in Harlem, down on Broadway 
You're no tramp but you're no lady, talkin' that street talk 
You're the heart and soul of New York City 
And love, love is just a passing word 
It's the thought you had in a taxi cab that got left on the curb 
When he dropped you off and he stated firm 
Oh oh, you're a native New Yorker

Odyssey - Native New Yorker ] 



 

 

Era un jukebox di modeste dimensioni. Un Rock-Ola in legno, con le rifiniture sul davanti in materie plastiche colorate, un modello vintage risalente alla seconda metà degli anni Quaranta. Il menu di selezione prevedeva ventiquattro dischi e, fondamentalmente, quello era stato il motivo per cui il proprietario del Cafè Bizarre aveva voluto sbarazzarsene, preferendo l'introduzione di una macchina con la selezione di cinquanta dischi leggibili su entrambi i lati. A Johnny bastava poter ascoltare nuovamente la musica nell'appartamento dove lui e Suzy si erano trasferiti ad Aprile. Cosa poi se ne facesse di un jukebox il padrone di un locale che ospitava concerti dal vivo non era affar suo.

Il problema era trascinarlo su per le scale fino al sesto e ultimo piano del condominio. Chiamò Michael per farsi dare una mano e, poco per volta, tra il respiro affannato del suo amico e la precaria forza nelle braccia di due italiani pelle e ossa, si adoperarono per portarlo su. Una rampa e una pausa. Una rampa e una pausa.

«Ehi, tutto bene?»

Dall'alto di due gradini, Johnny si appoggiò a un'estremità del macchinario per osservare Michael, che si era arreso a tirare fuori l'inalatore dalla tasca dei jeans. Era lo stesso, minuscolo apparecchio cremisi che lo accompagnava fin da quando Johnny lo aveva conosciuto, il giorno in cui si era trasferito a casa degli zii a Hester Street, nel cuore di Little Italy. All'epoca, i due amici abitavano a un pianerottolo di distanza.

Michael inspirò dalla bocchetta (che cosa mai ci fosse in quell'affare che riaprisse le vie respiratorie, Johnny non lo sapeva) e si prese qualche secondo per tornare a respirare normalmente. Alla fine, con uno sforzo sovrumano di entrambi, il jukebox venne finalmente trascinato in un angolo del salotto. Accanto agli scaffali che ospitavano l'invidiabile collezione di vinili di Johnny, il Rock-Ola, con il plasticato multicolore illuminato dalla corrente, faceva la sua sporca figura.

Michael si abbandonò in mezzo ai cuscini sparsi sul futon in mezzo alla stanza e fece notare a Johnny che avrebbe avuto bisogno di una monetina per farlo partire.

«Lo so» fu la sua replica, «davvero vuoi spiegare a me come funziona un jukebox?»

«Mi fa solo ridere che ti alletti l'idea di dover pagare per ascoltare della musica in casa tua.»

«Ricky mi ha aperto la cassaforte. Non sono mica scemo.»

Michael alzò le mani in segno di resa. «Ti ha lasciato qualche disco?» chiese, invece.

Suo malgrado, Johnny dovette scuotere la testa. Ma, per quanto gli dispiacesse, gli sembrava anche normale: era già tanto che Ricky gli avesse regalato l'intero macchinario piuttosto che venderglielo.

«No, e tra l'altro dovrò divertirmi a fare una nuova lista. Altrimenti bel casino a trovare il giusto codice!»

Michael ridacchiò, stringendo un cuscino di lana al petto, e osservò che Johnny avrebbe fatto prima a riprendersi il giradischi che aveva lasciato a casa di suo zio. Di rimando, Johnny bofonchiò che l'amico non comprendeva i suoi bisogni estetici.

«Vuoi un caffè?» gli propose. Ne aveva sempre bisogno prima di affrontare una lunga nottata di lavoro, specialmente quando non era contemplata l'opzione di recuperare tutte le ore di sonno di cui avrebbe necessitato per essere al pieno delle proprie energie.

Michael annuì all'offerta e lo seguì in cucina. Mentre lui prendeva posto al tavolo e vi appoggiava i gomiti, Johnny si adoperò per preparare il caffè. L'allaccio dell'acqua non era ancora perfetto e l'acqua singhiozzava un po' prima di scorrere bene dal tubo di erogazione.

«Beh?» disse, una volta che la bevanda fu servita nelle rispettive tazze di ceramica, zucchero e panna compresi, e lui si poté piazzare di fronte all'amico per conversare. 
Michael sollevò gli occhi dalla propria tazza fumante, dentro la quale stava facendo vorticare il cucchiaino. «Beh cosa?»

«Sei silenzioso» gli fece notare Johnny. «E quando sei silenzioso, significa che quel tuo cervellino è intensamente concentrato a elaborare qualcosa. C'entra il ristorante, non è così?»

Non aveva bisogno di far ricorso alle proprie capacità di sensitivo per assicurarsi di avere ragione: erano giorni che Michael non faceva altro che parlare entusiasticamente della location che suo zio gli aveva trovato per far sì che l'attività cominciasse. La prima volta che gli aveva parlato di quell'idea era stato durante un tardo pomeriggio di quattro anni addietro, il primo che trascorrevano insieme dopo il suo ritorno dal Vietnam e prima della laurea di Michael. Aveva l'influenza, quel giorno, e forse era stato per quello che Johnny aveva liquidato le sue parole come gli sbarellamenti di un febbricitante in pieno stress universitario. Invece, per anni aveva persistito così a fondo che, alla fine, suo zio Giorgio si era arreso al volerlo accontentare, esibendo un teatrale gesto dell'ombrello in faccia alla crisi fiscale in cui era sprofondata New York negli ultimi anni. Johnny si domandava cosa provasse Michael ad avere sempre il culo coperto da uno dei più importanti e potenti avvocati della città, se non dell'East Coast, se non di tutti gli Stati Uniti. Avrebbe potuto avere un futuro brillante lavorando nello studio legale dello zio, intascando i soldi di mafiosi e imprenditori che lo avrebbero pagato fior di quattrini per essere difesi in tribunale. Avrebbe potuto possedere un appartamento in un palazzo sulla Quinta Avenue, forse un giorno perfino un attico, e frequentare tutti quei bei ristoranti che ostentavano la propria sofisticata caratterizzazione attraverso musica jazz di sottofondo, caviale, champagne e impiattamenti minimali, atti a compiacere prima di tutto gli occhi di belle signore con collane di perle d'avorio che ricadevano sulle generose scollature. Invece, a Michael non fregava niente. Il maggior sfizio che aveva chiesto a suo zio era stato un modesto bilocale nel bel mezzo della Bowery, forse per via della scena punk o forse perché desiderava mostrarsi abbastanza uomo da avventurarsi in zona dopo che il sole era calato oltre le cime dei palazzi. E aveva quel maledetto chiodo fisso del ristorante. Sosteneva che Little Italy avesse bisogno di una nuova generazione di ristoratori che portassero avanti la tradizione culinaria del Bel Paese, cavolate che si inventava per giustificare il fatto che gli piacesse chiudersi in casa e passare ore a spadellare in cucina come una vecchia nonna siciliana. Anche se, Johnny doveva dargliene atto, era davvero molto bravo.

Prima di rispondere, Michael bevve un lungo sorso di caffè, come se avesse bisogno di studiarsi per bene le parole da utilizzare.

«Avrei voluto dirtelo un'altra volta, in realtà» borbottò, infine.

Johnny aveva la sensazione di sapere già quello che Michael stava per dirgli: che Giorgio non voleva saperne di buttare giù quattrini se lui fosse stato ancora incluso nel progetto. Michael insisteva affinché Johnny fosse il suo contitolare. Ma il giovane non favoriva esattamente le simpatie di quel ramo della famiglia di Michael; Giorgio lo considerava un piantagrane e, a dirla tutta, non aveva nemmeno torto. Johnny si sentiva decisamente di troppo: apprezzava il fatto che Michael si rifiutasse di fare alcunché senza di lui, che cercasse di aiutarlo ad avere un lavoro onesto e, possibilmente, redditizio. Ma non voleva vedere il sogno dell'amico andare in fumo per colpa sua.

«Ci mancano mille dollari» sospirò Michael. La mano libera corse tra i propri capelli ribelli e corvini, scompigliandoli ulteriormente. «Tecnicamente, in quanto mio socio alla pari, dovrebbe trattarsi della tua quota.»

Johnny quasi sputò il caffè. «La mia quota?» ripeté, allungandosi per cercare un pezzo di carta con cui ripulirsi la bocca.

«Ho dovuto trovare un compromesso per tenerti nel progetto! Avevo detto a Giorgio che anche tu avresti messo qualcosa. Se ci pensi, alla fine non è neanche giusto che paghi tutto la mia famiglia.»

«Ma è stata una tua idea, Mike!»

Per un attimo, Johnny si domandò se il suo amico non si fosse bevuto il cervello: non aveva abbastanza soldi per permettersi un affitto decente, come poteva pensare che avrebbe potuto contribuire con una tale somma?

Ma un gesto della mano di Michael gli fece capire che non avrebbe dovuto preoccuparsi.

«Calmati» rispose, «mi inventerò qualcosa. Sono certo che ci sarà qualcuno disposto a farci un prestito. Mille dollari, e che sarà mai!»

«Ma sei scemo?» esclamò Johnny: a naso aveva intuito la losca idea di Michael. «Vuoi chiedere agli strozzini? Quelli sono buoni a prestarti mille e poi inventarsi che gliene devi altri duemila di interessi!»

«Ma dai, Johnny, abbiamo più confidenza con gli usurai che con le nostre madri.»

«Ehi, non mettere di mezzo mia madre che era una Santa. Che Dio l'abbia in gloria.»

Johnny si fece il segno della croce e si sbrigò a finire il proprio caffè.

Normalmente, avrebbe lasciato le tazzine a bagno fino a quando non gli sarebbe venuta voglia di lavarle, invece, questa volta, si prese qualche istante per passarvi dentro la spugna e risciacquarle per bene sotto l'acqua calda.

Furono secondi trascorsi a rimuginare sull'idea che Michael gli aveva appena esposto e giunse alla conclusione che sì, per rispondere alla propria domanda di prima, gli aveva completamente dato di volta il cervello. Chiedere un prestito agli strozzini era una cosa da Johnny. Una trovata impulsiva, con zero attenzione riguardo alle conseguenze, perché intanto, con la faccia tosta che si ritrovava, un modo per scamparla l'avrebbe trovato sempre. Erano cose che, inevitabilmente, imparavi quando crescevi sulla strada. Oppure ci sarebbe stato Michael a guardargli le spalle. Non poteva permettergli di invertire i ruoli. Non gli andava a genio che, a forza di andare con lo zoppo, avesse preso a zoppicare pure lui.

«Non andare a indebitarti come uno stronzo per me.»

Johnny afferrò uno straccio per asciugare le tazze e riporle a testa in giù sul lavello. Poi si voltò, gli occhi puntati su Michael ma la mente che si arrovellava per trovare una soluzione. «Aspetta un attimo. Intanto non è che dobbiamo aprire domani. Comunque, posso darti circa trecento pezzi. Li ho vinti un mesetto fa, a una partita di poker al Fascination

«Ma bravo!» esclamò Michael. Il suo tono di voce tradiva tutto il sarcasmo di cui era capace. «Ci mettiamo anche a giocare d'azzardo, adesso?»

Johnny gli riservò un'occhiata storta che voleva dire Non azzardarti a farmi la predica. Michael capì l'antifona e si limitò a stringersi nelle spalle. Era sempre così, tra loro: uno sguardo, a volte, diceva più di mille parole ed esprimeva altrettanti concetti sottintesi, influenzati da storia e condizioni personali.

In ogni caso, il ricordo di quella partita di poker aveva riacceso in Johnny una fiamma che aveva lasciato dissolvere nelle settimane precedenti, causa motivi più grossi di lui. Un tizio gli doveva dei soldi, ma si era fatto pizzicare dagli sbirri con le tasche strapiene di polvere d'angelo -presumibilmente pagata con le stesse banconote che avrebbero dovuto trovarsi arrotolate nella fodera del suo materasso, dove teneva nascosti soldi messi da parte in rare ma preziose occasioni.

Ma a Michael questo lo avrebbe detto un altro giorno, quando il piano che si stava annidando nella propria mente per riprendersi il denaro sarebbe stato maggiormente nitido e avrebbe avuto bisogno del suo aiuto: se c'era una cosa che il suo amico aveva imparato durante gli studi di Giurisprudenza era divenire un ottimo intermediario.

Si spostarono in camera di Johnny. Il suo armadio era un lungo filo per il bucato che attraversava la stanza e sul quale appendeva i vestiti per uscire. Camicie, giacche, pantaloni. La roba per stare in casa e la biancheria intima rimanevano nella sacca che si era portato a casa quando era stato congedato dal servizio militare. A volte, aveva la sensazione che puzzasse ancora di Napalm. Una fila di scarpe dai toni neri e marroncini era allineata contro il muro dalla vernice giallognola scrostata.

«Indovina chi ho incontrato stamattina?» fece Michael, sedendosi sul letto.

Johnny si sfilò la maglietta scura che indossava e passò in rassegna le camicie che aveva a disposizione per andare a lavorare. Alla fine, scelse la sua preferita tra quelle bianche, una con le maniche a sbuffo. «Non lo so» borbottò in risposta. «Cybill Shepherd? Vuoi darmi il suo numero?»

«Ti piacerebbe. No, intendevo Teresa.»

Johnny indossò le maniche della camicia e si voltò verso Michael, la bocca storta in una smorfia di disapprovazione: sua cugina era alla stregua di un argomento tabù, per lui. Non la sopportava -oltre al fatto che non comprendeva come Michael non vedesse la cotta secolare che lei aveva nei suoi confronti. Ma forse era meglio così: ci mancava solo che si mettessero insieme! O l'avrebbe avuta per sempre tra le palle o, peggio, avrebbe impedito loro di frequentarsi. Non che la loro amicizia fosse così fragile. Ma chi poteva dirlo? D'altronde, la storia del mondo era costellata di tragedie in nome della passera.

«Che voleva?» domandò, sforzandosi di mantenere un tono piatto, inespressivo, che celava l'antipatia per quel ramo dei propri parenti.

Seduto sull'orlo del materasso, Michael allungò le braccia intorno alle ginocchia. «Offrirmi un lavoro» rispose. «Sai che lei sta collaborando alla campagna elettorale di Ed Koch, sì?» (No, Johnny non lo sapeva). «Ha detto che hanno un posto libero in ufficio, se voglio.»

«E tu?» chiese Johnny: sapeva che Michael non era esattamente un fan di nessuno dei candidati a sindaco. Per lui, tanto valeva tenersi Abe Beame che aveva portato la città a sforare il debito pubblico per evitare la bancarotta. Forse, sotto l'amorevole figura da bravo ragazzo, si nascondeva davvero uno sporco e rozzo punk che vagheggiava sull'anarchia.

Michael sospirò. «Le ho detto che prenderò in considerazione l'offerta. Pensandoci, sono comunque soldi. Soldi che ci servono. A proposito, quando hai intenzione di venire a dare un'occhiata al locale?»

«Uhm, domani?» provò a dire Johnny, saltellando su una gamba per infilarsi i jeans. «Senti, perché non ti fermi a dormire qui? Tra poco torna Suzy, scommetto che le farà piacere avere un po' di compagnia. Puoi prendere una delle mie magliette.»

«Sì, va bene. Ma tu a che ora torni?»

Johnny finì di allacciarsi le scarpe e si strinse nelle spalle. «Domattina presto» rispose, mentre si spostavano nuovamente in cucina. Prese un bicchiere e lo riempì d'acqua del rubinetto.

«Ma che fai in giro fino a tardi, se il tuo turno finisce alle tre?» domandò Michael.

«Mi fermo in hotel con le ragazze di LaFleur.» Johnny ghignò: «Sono un'ottima compagnia, capisci che intendo?»

Michael sbuffò e alzò gli occhi al soffitto. «Aspetta che Suzy venga a sapere che paghi delle prostitute per i tuoi porci comodi» disse, sedendosi sul tavolo. «Ti avrà detto dell'articolo che sta preparando, no?»

Gliel'aveva detto eccome, quella femminista incallita, così come lui aveva replicato che nessun pappone le avrebbe dato il permesso di avvicinarsi alle loro ragazze. Se, invece, per miracolo, qualcuna si sarebbe mostrata disponibile per un'intervista, dubitava che avrebbero infamato i loro protettori. Rischiavano molto e rischiavano grosso.

«Combatte una causa persa. Farebbe prima ad arrendersi e parlare semplicemente con LaFleur e le sue ragazze. Lei non è un pappone, è più... una madre.»

«Io non ti capisco.» Michael incrociò le braccia sul petto. «Non uscivi con quel tipo del cinema? Jim vattelappesca, il pornoattore.»

«Ci sono andato insieme un paio di volte, non ci uscivo. È una cosa diversa.» Johnny finì di bere e diede una rapida sciacquata al bicchiere. «E poi, ho scoperto che è sposato.»

«Un classico!»

«La moglie lo sa e, a quanto pare, le sta bene così. Lui dice di non essere bisessuale, che non prova desiderio per una donna. Al contempo, non potrebbe mai avere una relazione duratura con un uomo: dice che sarebbe troppo competitivo.»

Divertito, Johnny scosse la testa e prese le chiavi di casa appese al muro della cucina. «Vallo a sapere cosa passa nella testa delle persone. Ci vediamo più tardi.»

Quando scese in strada, era ormai il tramonto. La gente perbene, come la chiamava lui, che in estate aveva il lusso di poter restare all'aperto per qualche ora in più, si stava affrettando a rintanarsi nel sicuro dei loro appartamenti più o meno a norma. Ne erano rimaste ben poche di famiglie, nel Village. Perlopiù si trattava di giovani universitari un po' squattrinati oppure artisti visionari che riuscivano a sbancare il lunario facendo delle proprie passioni un lavoro -o forse erano solo camerieri con il turno in giornata. Suzy, la sua coinquilina, si trovava a metà tra due mondi: era un'onesta fotografa freelance che da poco collaborava con una testata giornalistica, e, solitamente, non rientrava oltre le nove di sera -dipendeva da quante foto dovesse sviluppare; ma era anche nera, quindi per la società rientrava automaticamente sotto la voce trasgressori.

Così come erano tacciati di trasgressione gli innumerevoli rappresentanti della vita notturna gay, che si riversavano in strada al calare della notte, abbigliati in uno stravagante mix di jeans e cuoio. Omoni barbuti, finti poliziotti e motociclisti, travestiti, battevano il West Village alla ricerca di incontri fino al Meatpacking District dove vi era solo l'imbarazzo della scelta di locali dove svagarsi. Ma anche quella era una minoranza, a dirla tutta. C'erano tipi più vaniglia, come li definiva Suzy, che si limitavano a bere qualcosa nei bar o fumare in compagnia di altre persone, passeggiare, conversare giù ai moli fino a quando qualcuno non zompava sull'auto di uno sconosciuto per racimolare un po' di soldi. Molti di loro dormivano sulle panchine o in una tendopoli lì vicino.

Johnny fece un salto in una caffetteria a metà strada tra casa sua e la stazione di Christopher Street. Comprò un altro caffè e un panino imbottito di mozzarella e polpette al sugo, che consumò seduto sulla metro, facendo attenzione a non rovesciarsi la bevanda sui pantaloni ogni volta che il treno sterzava bruscamente.

Lui non aveva mai fatto parte della gente perbene, né si era mai illuso di poter rientrare nella categoria. Era sempre stato povero, sfortunato, mezzo analfabeta e costretto a farsi strada nel mondo con le unghie e con i denti. Alla soglia dei ventisette anni, Johnny portava ancora su di sé la polvere della strada, le nocche arrossate dai pugni e ferite di guerra. Entrare nei marines avrebbe dovuto essere il suo riscatto, ma a quale prezzo? Lo zio Sam prometteva gloria e onore a chi avrebbe servito il proprio Paese. Negli anni Sessanta, improvvisamente, neri, ebrei, latini, italiani erano improvvisamente abbastanza americani da poter andare a morire in Vietnam. E chi, come Johnny, non era morto, era destinato a lunghe notti insonni, chiusi nello squallore dei cinema a luci rosse o in una stanza imbottita di Greystone Park, il sangue avvelenato da alcol, droghe o farmaci prescritti dall'Ente di assistenza ai veterani. Tutte inutili cazzate, perché a nessuno fregava dei poveri scarti da guerra come Johnny. A nessuno importava quando, nel cuore della notte, si svegliava sbraitando convinto che i rumori della strada fossero elicotteri che si abbattevano sul campo e tentava di rifugiarsi sotto il letto. E se zia Carmela aveva mostrato un minimo di apprensione nei confronti del nipote ridotto in quella condizione di costante ansia e vigilanza, zio Tony lo aveva deriso.

«Volevi dimostrare di avercelo grosso» gli aveva riso in faccia, «invece sei andato solo a farti fottere il cervello.»

Johnny avrebbe voluto prenderlo a pugni, ma la sua coscienza, che aveva la voce rauca di Michael, gli aveva sussurrato che farsi sbattere via da casa non sarebbe stata una soluzione particolarmente brillante.

Negli ultimi anni era andato migliorando, anche se aveva ancora bisogno di farmaci dai servizi sociali. Dormiva -o almeno ci provava- dal mattino alle prime ore del pomeriggio, quando la luce diurna era più rassicurante delle ombre claustrofobiche. Nel buio, preferiva muoversi, essere sveglio, attivo. Times Square era perfetta per un cane solitario come lui, con il suo brulichio di animali notturni e le luci al neon, colme di allettanti promesse, che richiamavano potenziali avventori. PEEPLAND in uno sgargiante rosa shocking, PEEP-O-RAMA in rosso e blu. E ancora, sotto le insegne intermittenti: «Porno! Porno!» «Spettacoli a luci rosse!» «Spogliarelli!» «Dieci dollari, la mano; venti, la bocca; cinquanta, servizio completo!»

Puttane che attendevano qualcuno da adescare appena fuori dall'entrata dei cinema, le donne in gonne striminzite e trucco pesante, probabilmente strafatte; gli uomini vestiti da cowboy, sigaretta tra le labbra e sguardo spavaldo. Papponi in abito elegante che sostavano appoggiati alle loro Cadillac dai colori sgargianti o nei vani dei portoni degli hotel con stanze a ore, un mignolo laccato per tirare cocaina e la mazzetta nelle tasche. Tossici nei vicoli troppo impegnati a bucarsi le vene per accorgersi del mondo che formicolava intorno a loro. Barboni agli angoli delle strade che battevano l'elemosina.

Johnny era un po' tutti loro e nessuno di loro. Tutti diversi ma tutti uguali, pronti ad approfittarsi del primo stronzo ingenuo pur di sopravvivere -o a farsi approfittare, perché a volte l'unica soluzione era abbassare la testa e subire, digrignando i denti.

Squallidi, reietti ed emarginati, la vera faccia di chi quell'enorme città lasciava indietro, discendenti e disillusi dal sogno americano e dalle promesse di riscatto di una terra guerrafondaia. Eppure, a chiedere ad ognuno di loro, nessuno avrebbe mai lasciato New York. Forse perché non avevano nessun altro posto dove andare, nessun altro luogo pronto ad accoglierli. Quale ulteriore buco di schifo al mondo era, al tempo stesso, così affascinante e crudele? Lady Liberty era una femme fatale.

Sì, Johnny ci sguazzava bene alla Deuce, la Quarantaduesima Strada, tra gli scarti umani. Quando era tornato dal Vietnam, ci bazzicava spesso. A volte, aveva così fame e così poca dignità che lo succhiava al primo sconosciuto dentro il cesso di un cinema e si faceva pagare dieci dollari per comprarsi la cena. Altre volte, trascorreva intere notti in una minuscola sala che proiettava film a luci rosse, aperta ventiquattr'ore. Passava così tanto tempo lì dentro che, alla fine, il manager gli aveva offerto un lavoro al banco degli snack, probabilmente per pietà. L'anno prima aveva chiuso e Johnny aveva fatto carriera: adesso lavorava al Gaynymedes, che era il più grande cinema gay della zona.

Quella era una cosa che aveva detto solo a Michael. Per tutti gli altri, faceva semplicemente l'usciere in un teatro.

A lui non dispiaceva. Le cose più imbarazzanti erano le pulizie e il dover annunciare il momento della chiusura ai clienti, soprattutto nei bagni, dove gli si era aperto un mondo, ma per il resto doveva starsene alla sua postazione, nel corridoio della galleria, a vendere snack, anelli di dubbia utilità e barattoli di Crisco. Ogni tanto (ogni sera) qualcuno cercava di rimorchiarlo, ma lui poteva tranquillamente liquidarlo con la scusa del lavoro. Nella mezz'ora di pausa che aveva, andava a fumarsi una sigaretta in compagnia di Esther, la bigliettaia, che lo aggiornava sulle ultime news della cronaca nera.

Quel lunedì sera, in particolare, era tutta concitata per via dell'ultimo colpo del Figlio di Sam, avvenuto il venerdì precedente. Non avevano potuto parlarne durante il weekend perché Johnny non lavorava, il sabato. Si rifiutava categoricamente di fare quel turno da quando aveva visto cosa succedesse sulla balconata dell'auditorium, quando il cinema era strapieno di uomini. 

«Lo hanno intravisto!» esclamò la donna, sventolando un ritaglio di giornale sotto il suo naso. «Hanno una sorta di identikit!»

«Sì, ho sentito che la coppia è sopravvissuta» mormorò Johnny, lanciando un'occhiata al disegno stilizzato. Raffigurava una faccia tozza, circondata da corti capelli ricci. «Ti somiglia, Esther! Sicura di non essere tu? Ci nascondi qualcosa?»

«Molto divertente, latticino! Ho di meglio da fare che importunare coppiette di ragazzini bianchi!»

Johnny ridacchiò e uscì dalla guardiola della biglietteria per accendersi una sigaretta. Imprecò quando si rese conto che quello che prese in mano era il suo ultimo fiammifero. A quel pensiero, la sigaretta tra le proprie labbra parve assumere un gusto diverso, come se fosse l'ultima che avrebbe fumato.

Un ragazzo giovane col giubbotto di jeans e gli stivali da cowboy comprò il biglietto per entrare e, per un attimo, Johnny si rese conto di quanto gli sarebbe mancato quel posto una volta che lui e Michael avrebbero sistemato le cose col ristorante. Sembrava tutto così semplice, in quella parte di Manhattan. Tutto genuino, terra terra, tutti troppo impegnati a fare schifo per perdersi in giudizi gli uni contro gli altri. Ma si trattava solo di un'illusione passeggera, lo sapeva bene. Lo sapeva da sempre. 
 



 



 

✨ Angolo Autrice ✨
 

CIAO! Ciao, ciao a chiunque sia arrivato fino a qui! Ciao a chi c'era prima per questa storia e ha deciso di tornare per leggerla completamente revisionata! 
Carissimi, una parte di me ci teneva a finire almeno questo volume prima di modificare tutto. Ma le cose da cambiare erano tante, io sono cresciuta e questa storia è maturata con me, perciò aggiornare ancora sarebbe stato ulteriore lavoro da fare. Quindi, io spero abbiate voglia di restare con me anche in questa nuova avventura per Bridge 💓

- Come vedete, questa volta la storia parte da Johnny. Il motivo è che ho riscritto qualcosina dell'avventura di Leo nel suo primo approccio con la Grande Mela, perciò mi serviva un'infarinatura iniziale con il POV di Johnny prima di tutto. Non temete, comunque: il capitolo di Leo arriverà la prossima settimana, entrambe le parti.

- Inoltre, as you can see, Johnny in questa versione ha già capito da un pezzo di essere bisessuale; un po' mi dispiace aver tolto il suo percorso, ma devo ammettere che il trope dell'etero fino a prova contraria mi aveva un po' rotto. Voglio concentrarmi sul suo PTSD, più che altro, oltre che a un altro tipo di autoaccettazione, che vedremo più avanti.

- Al solito, faccio accenni a luoghi realmente esistiti e fatti realmente accaduti. Mi sono divertita, ad esempio, a fare un gioco di parole tra Gay e il nome inglese di Ganimede, personaggio della mitologia greca, per il nome del cinema dove lavora Johnny. Esso è ispirato all'Adonis, un cinema gay realmente esistito, chiuso negli anni '80 per via delle nuovi leggi sulle prevenzioni all'AIDS ma situato sull'Ottava Avenue anziché la Quarantaduesima Strada. In più, non si può parlare del '77 newyorchese senza citare il Figlio di Sam, ovvero David Berkowitz, killer che terrorizzava la città in quel periodo 💕

Come sempre, ho fatto delle note più lunghe del capitolo, quindi ora vi lascio. 
Un baciones a tutti 💖💖

 

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Capitolo 2
*** II. Leo ***


 
II. 
Leo 

 

When I left my home and my family
I was no more than a boy
In the company of strangers
In the quiet of the railway station
Running scared,
Laying low, seeking out the poorer quarters
Where the ragged people go
Looking for the places
Only they would know

Simon & Garfunkel - The Boxer )


 

 

Il Talmud suggeriva che, nell'educare i propri figli, un genitore dovesse lasciare che la mano sinistra rigettasse, mentre la destra accogliesse. Detto in parole povere, l'amore, simboleggiato dalla mano destra (la più forte, la dominante), avrebbe dovuto comunque sempre seguire la punizione (data con la sinistra) ed essere maggiormente adoperato rispetto alla severità.

Il padre di Leo era mancino.

Non che i suoi fossero mai stati particolarmente rimproveranti con lui, nemmeno dopo il fattaccio accaduto con Pierre Mabeuf dietro la palestra della scuola superiore. A ben pensarci, non ricordava nemmeno una sculacciata in seguito ai capricci e alle marachelle tipiche dell'infanzia, quelle che l'istinto imponeva a un bambino vivace di compiere con il solo fine di esplorare la propria formazione. O forse, un test di Madre Natura rivolto proprio alle persone incaricate di crescerti una volta venuto al mondo. Forse era stata proprio l'assenza di botte a rendere Leo un ragazzo pacato. Non aveva mai risentito della dittatura patriarcale che veleggiava all'interno delle altre abitazioni nel quartiere e, di conseguenza, non aveva mai avvertito il bisogno di sfidarla.

Eppure, i suoi genitori erano comunque riusciti a farlo sanguinare. Perché non vi era sempre bisogno di schiaffi o di cinghiate affinché le ossa dolessero sotto la pelle: a volte, uno sguardo o un silenzio trafiggevano il cuore più facilmente di cento lame affilate e ne ricavava gli stessi risultati.

Pierre Mabeuf aveva testimoniato che Leo gli era saltato addosso. Che gli avesse teso una trappola per adescarlo, che fosse da tempo ossessionato da lui. Non era vero, ovviamente. Lo sapeva il preside del liceo e lo sapevano i coniugi Joselewicz. Per tutta la seduta all'interno dell'ufficio, mamma aveva tenuto il naso immerso in un fazzoletto, come per proteggersi da un'allergia; papà, invece, si era limitato ad ascoltare quella serie di panzane con i palmi delle mani ben aperti sopra le ginocchia, senza dire una parola. Il suo silenzio colmo di vergogna era stato complice delle bugie di Pierre e, forse, se il suo sguardo si fosse degnato di sollevarsi sul figlio, anche solo per mezzo secondo, Leo avrebbe potuto trovare il coraggio di ribattere. Proprio come durante gli incontri di boxe, quando, in preda al dolore e alla fatica, si aggrappava al tifo di Norman dall'angolo del ring e continuare a combattere risultava più semplice.

Ma Bernard Joselewicz non lo aveva guardato. Si era limitato a congedarsi con una stretta di mano al preside e a trasferire il figlio in una scuola ebraica. D'altronde, all'epoca, Leo era solo una matricola di quindici anni che amava frequentare gli incontri del club di poesia. Pierre era una promettente stella dell'hockey: era stato abbastanza semplice decretare chi dei due dovesse essere cacciato.

Sei anni erano poi trascorsi e mai più un accenno era stato fatto. Né da loro, né da sua sorella. Ogni tanto, Leo si domandava se Myriam ne fosse mai venuta a conoscenza. Norman, dal canto suo, gli aveva fatto anche fin troppe domande e di certo non aveva smesso quando Leo lo aveva raggiunto all'università. Quello era stato il periodo in cui aveva finalmente potuto fare un po' di esperienza con il mondo e con i ragazzi. Anche uomini più maturi lo avevano puntato, quando bazzicava giù per Dominion Square. Ci aveva anche provato ad appartarsi con sconosciuti, ma presto si era reso conto che non era qualcosa che faceva per lui: preferiva sedersi su una panchina e osservare ciò che gli accadeva intorno. Preferiva incontrare lo sguardo complice di un coetaneo in libreria e sperare di essere invitato fuori per un caffè e un confronto letterario su poeti e scrittori. Si era messo in testa che l'uomo della sua vita avrebbe dovuto amare Burroughs.

«Mazel tov

Ancora sentiva nelle orecchie il rumore del bicchiere infranto sotto il piede dello sposo, nonché le conseguenti congratulazioni da parte dei famigliari. Di lui e di lei, il ramo della famiglia di Leo.

Myriam era stata la seconda, in casa, a sposarsi, dopo Norman, e sarebbe stata anche l'ultima, contro ogni previsione dei loro genitori che, già fin da quando Leo era piccolo, sognavano la sua futura unione con Sophie Bernstein o qualunque altra brava ragazza ebrea la cui famiglia frequentava la sinagoga di Bernard. Leo, con l'ingenuità dell'infanzia, sognava di poter sposare Barnabé Paquette. Col passare degli anni, si rendeva sempre più conto di quanto quell'innocente consapevolezza gli avrebbe reso la vita complicata: non ti sposerai mai, non avrai mai figli; se accadrà, invece, prometterai eterno amore e fedeltà a un'ignara ragazza di fronte all'altare, cercherai di convincerti che è la persona giusta per te, combatterai sempre l'impulso di mancarle di rispetto ma, prima o poi, cederai. Lo sai perfettamente. Perché il cuore non può essere fermato e il cuore ti porterà sempre verso luoghi peccaminosi, dove, in seguito a un gioco di sguardi sensuali, ti arrenderai al sollazzarti con altri uomini nella stanza di un motel. E nel pieno dell'adrenalina non penserai al peccato che stai compiendo, alla promessa venuta a mancare nonostante i tuoi mille sforzi per convincerti che no, tu ami tua moglie, forse non ami le donne, ma senz'altro ami lei. Mentre quell'altro uomo - forse libero, forse una puttana che hai pagato o forse sposato e peccatore quanto te - fa scorrere le sue mani sul tuo corpo bisognoso di quel contatto e le sue labbra roventi ti accompagnano nell'estasi.

No, Leo si era giurato che non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Non avrebbe mai mancato di rispetto a nessuna ragazza, tantomeno a sé stesso, una promessa che si era fatto baciando il ciondolo Chai un tempo appartenuto al suo saba e salvatosi dall'OlocaustoQuella collana aveva visto Cracovia, aveva visto Auschwitz e aveva visto Montreal. Ora, grazie a una cospicua somma prestatagli da Norman, avrebbe visto New York.

Era una città strana. Gigantesca. Caleidoscopica. Spaventosa. Erano tanti gli aggettivi con cui la si poteva definire, troppi, e più Leo tentava di sfoltire la lista di definizioni più quella sembrava allungarsi. Prima che l'autobus sul quale viaggiava attraversasse il fiume Hudson, con la vista che gli si era aperta sulla linea di grattacieli che costellava l'orizzonte, Leo ebbe come la sensazione di trovarsi dinanzi a un colosso, un titano. Qualcosa di ipnotico davanti a cui prostrarsi, ma che al tempo stesso incuteva un certo timore reverenziale. O forse solo il timore di sentirsi un piccolo pesce che sguazzava nell'infinità dell'oceano.

Non gli ci volle molto per scoprire che le proprie paure, le proprie ansie, erano del tutto giustificate. Era una città troppo grande per non fare paura, abitata da persone troppo disperate e terrorizzate a loro volta, che si aggrappavano a qualunque cosa pur di sopravvivere. E quella disperazione dilagante nelle strade, a cui Leo assistette dal finestrino di un tassì che sfrecciava in piena Midtown, trasportandolo verso un alloggio conveniente, gli fece afflosciare un poco le spalle. Disillusione pura. Dov'era la città dei poeti, degli idealisti, dei pensatori? Tutto ciò che vedeva intorno a sé erano mendicanti, tossici, prostitute e insegne oscene al neon, intervallate qua e là da caffetterie aperte anche tutta la notte.

Eppure, c'era vita. Tanta vita. Le centinaia di persone che si muovevano sul marciapiede erano vita, un insieme di storie che nessuno avrebbe mai raccontato ma che esistevano, che ognuno viveva ogni giorno sulla propria pelle. Storie di tentata rivalsa e fallimenti, storie d'amore e cuori infranti, storie di occhi che avevano visto troppo o ancora troppo poco. Il tassista che lo traghettava nel bel mezzo di quelle anime, come un moderno Caronte, aveva una propria storia. La donna dagli abiti succinti che ammiccava da un portone aveva una storia. Perfino il portinaio che gli consegnò le chiavi della propria stanza d'albergo ne aveva una, probabilmente inquietante vista la condizione dei suoi denti storti, della palpebra sinistra calante, dei capelli stopposi ai lati della testa altrimenti pelata.

Era l'hotel più sudicio e squallido in cui avesse messo piede. Il pavimento a scacchi su cui camminava, percorrendo lo stretto corridoio, era così pastoso che gli sembrava di affondare i piedi in un tappeto. Le pareti erano claustrofobiche, grigie e asettiche. Attraverso di esse, mentre avanzava su per le scale verso il terzo piano, Leo poteva chiaramente sentire lo zampettare di una colonia di topi, forse addirittura ratti. Al primo piano, tuttavia, il suono andò a mischiarsi con un'imbarazzante serie di gemiti e colpi che provenivano oltre le porte di ogni stanza.

La sua camera non era certamente migliore. Tutto ciò che aveva in dotazione era un letto singolo, un comodino e un minuscolo lavandino con uno specchio appoggiato dietro i rubinetti. La porta era troppo piccola per il vano: chiudendola, restavano almeno due pollici di distanza rispetto allo stipite, lasciando filtrare una linea di luce bianca lungo la moquette che, probabilmente, non era mai stata pulita. [1]

Quello non era di certo un hotel per turisti, men che mai quelli che visitavano la città in compagnia della famiglia. Eppure, vi era qualcosa di consolatorio nell'avere un tetto sopra la testa e un letto su cui sdraiarsi, per quanto alta fosse la possibilità di beccarsi le piattole dormendovi sopra (perché Leo non si sarebbe azzardato a infilarsi sotto le coperte). Era sceso a Port Authority da un'ora al massimo e già aveva compreso quanto non fosse una cosa così scontata, almeno in quella parte della città.

La prima cosa che fece fu aprire la finestra per arieggiare l'ambiente, contrastando il caldo di quella minuscola stanza e il tanfo di uova marce che vi aleggiava. Era come se qualcuno avesse invocato una presenza demoniaca. Poi si mise a controllare minuziosamente che non vi fosse alcuna presenza di topi. Trovò un buco sotto il termosifone, abbastanza grande perché vi passasse un lesto topolino, e si adoperò a coprirlo con il libro più pesante che si era portato dal Canada.

Alla fine della propria missione, Leo chiuse le tende, si tolse le scarpe di tela e, senza nemmeno svestirsi, si buttò a volo d'angelo sul letto. Le molle cigolarono sotto la caduta a peso morto e un odore di umido proveniente dalle coperte gli punse le narici. Ma si sentiva così stanco, così provato dal viaggio che non vi fece troppo caso. Si addormentò in fretta, cullato dai rumori di una città che, invece, non avrebbe mai trovato riposo. 

 


 

 

30 Giugno 1977 


 

Caro Norman,

spero che l'assenza di telefonate dal mio arrivo a New York non ti abbia fatto preoccupare, ma ho pensato che sarebbe stato meglio lasciar passare qualche giorno prima di scriverti, elaborare meglio le mie prime impressioni.

La sera del mio arrivo ero così stanco che non ho perso neanche il tempo a cercare quale fosse la più dignitosa sistemazione vicino alla stazione degli autobus. Mi sono fidato del consiglio di un tassista, ho dato troppo ascolto al mio bisogno di risparmiare e quindi eccomi in una bettola in piena Manhattan con stanze a ore!

La mia prima intenzione era quella di restare una notte soltanto e poi via, a cercare qualcosa di meglio al Village. Presto mi sono accorto che, molto probabilmente, non c'è poi molto che possa considerarsi "meglio". Non so cosa mi aspettassi prima di venire qui, ma tutto ciò che pensavo, guardandomi intorno, era che questa è una città terrificante. Caotica, ma non nel senso di trafficata, bensì nel senso di puro e reale caos dilagante. Una città che vive  attraverso le sue strade, dove i cani mangiano la testa ad altri cani. Sono salito sul tetto dell'albergo, la seconda notte che ero qua, e in lontananza ho visto le fiamme di un incendio. Più di uno, e una pesante coltre di nuvoloni solcava prepotentemente quella parte di cielo. Ho pianto, quella notte. E quella dopo ancora. Il giorno seguente, invece, mi sono accorto che cominciavo a camminare allo stesso passo dei newyorchesi, sospinto verso la metropolitana. Forse è azzardato dire di star diventando abitudinario dopo appena una settimana trascorsa a girovagare per Manhattan: magari sono solo camaleontico, chi può dirlo? Fatto sta che, dopo lo spaesamento iniziale, dopo le vertigini provocate dalla vista dei grattacieli, credo di aver cominciato a guardare le cose con un'attitudine diversa ed è tornata a farsi sentire quella sensazione di positività che avevo quando sognavo di trasferirmi qui.

I negozianti da cui mi rifornisco cominciano a riconoscermi, a salutarmi con familiarità. Ho anche cominciato a conoscere un poco gli altri inquilini dell'hotel, una bizzarra e variegata comunità.

Per esempio, c'è un ragazzo che avrà al massimo un paio d'anni più di me, con i capelli rossicci. Lavora di notte al cinema gay qua di fronte, lo so perché quando ci passo davanti, alle volte, lo vedo alla biglietteria. Eppure, alla fine del suo turno, lo sento sempre sgusciare dentro una delle stanze a ore con una donna diversa. Una notte, l'ho incontrato in bagno (sono condivisi) e ci siamo salutati. Ha una faccia da schiaffi, con un sorriso che pare un ghigno, gli incisivi sporgenti. Era senza camicia, quella notte, e gli ho chiaramente visto una cicatrice orrenda, un'enorme bruciatura che gli lascia la pelle aggrinzita sul bicipite sinistro, la spalla, fin sotto la scapola. Credo fosse un soldato, ma non gliel'ho domandato, non era il caso. Non so nemmeno il suo nome.

Accanto alla mia stanza c'è Pops, un vecchietto storpio senza gambe che non ho idea di come abbia raggiunto il terzo piano. Pops può andare solo avanti e indietro da camera sua fino ai bagni del pianerottolo, così noi inquilini facciamo a turno per fargli la spesa e portargli ciò di cui ha bisogno: caffè e sandwich, solitamente.

C'è Coo-Coo, che abita sopra di me ed è matto, ma nel vero senso della parola. Gira per i corridoi indossando mutande sporche e rovista sempre nella spazzatura che alla sera viene ammonticchiata davanti al portone dell'albergo. Non cerca neanche da mangiare, solamente oggetti che raccoglie per aggiungere alla sua collezione di schifezze abbandonate in un angolo. "Nido" lo chiama lui; le scatole di tonno sono la cosa che preferisce. Lo so perché ieri sera gli ho bussato per regalargli un pacchetto di sigarette, così non veniva più a svegliarmi alle due del mattino per chiedermi se ne avessi una da dargli.

E poi c'è LaFleur, un travestito che è un po' il capogruppo delle prostitute al primo piano. Doris, un donnone con la parrucca rosa che si paga la stanza facendo l'elemosina giù a Port Authority. Philip, che ha addomesticato un ratto e se lo porta in giro per Times Square imbastendo spettacolini con barattoli e facendogli fare le acrobazie.

È tutto un po' meno terrificante, alla luce del giorno. Le passeggiatrici si ritirano dalla strada, insieme ai loro protettori che sono quelli che davvero fanno paura, che magari nascondono pistole sotto le giacche e non esiterebbero a usarla al primo sguardo storto. I drogati non mi preoccupano perché a qualunque ora della giornata rimangono accasciati per terra: impossibile dire se siano strafatti o morti. In realtà mi fanno solo pena. I matti che borbottano sul marciapiede sembrano meno minacciosi quando puoi vederli in faccia e noti che semplicemente avrebbero bisogno di un aiuto che non arriverà. E l'altra mattina, mentre entravo in una caffetteria, un pappone mi ha salutato alzandosi il cappello, e per mezzo secondo mi sono dimenticato che fosse uno che sfrutta le donne per il proprio tornaconto.

Ma c'è molto altro, in giro: studenti, lavoratori, persone che come me sperano di fare dell'arte il proprio pane quotidiano. Scendo in metropolitana e un uomo d'affari vestito in giacca e cravatta è seduto accanto a un hippie con i capelli lunghi e i sandali. Un negozio cinese è aperto vicino a un ristorante italiano. New York è i suoi abitanti ed essi non sono altro che uno squisito carnevale di contrasti. La città del mondo.

Ecco perché non penso che tornerò a Montreal tanto presto. Ho appena cominciato ad assaporarlo, questo posto così grande e così terribile da essere magnifico. Sì, penso che sia magnifico, che mi appartenga, in un certo senso. Non avevo mai sentito così tanto una connessione con un luogo esistente su questa Terra. Non mi sono mai sentito appartenere a niente, eppure qui è così: sono a mio agio, forse perché apro la porta di questa stanzetta squallida e trovo qualcuno che, probabilmente, è più danneggiato di me. E mi rendo conto che, forse, non l'ho avuta così brutta, che poteva andare peggio. Potevo avere una malattia mentale, potevo rischiare di morire in guerra e portarne ancora le cicatrici, potevo perdere le gambe.

Ho ventun anni, Norman, e da quando sono qui mi sono reso conto di aver sempre vissuto in una bolla. Non sono sciocco: ho sempre saputo che esistono realtà molto più tristi di quella a cui siamo stati abituati (della mia), ma un conto è saperlo, un conto è averci a che fare. Vederlo, respirarlo sulla tua pelle.

Ammetto che, inizialmente, avevo paura. Il portinaio notturno è un tipo con una faccia inquietantissima, ma è sempre stato molto gentile e disponibile con me. Coo-Coo, in particolare, un po' mi spaventava perché ha gli occhi sempre spiritati e molto spesso parla da solo in un sibilo incomprensibile. Poi però, una mattina, mi ha messo in mano il tappo di una bottiglia che penso abbia preso dal suo "nido" e allora ho capito che era una specie di proposta di amicizia. E mi sono chiesto, ma perché si parla sempre male dei tipi come Coo-Coo? "Quello è pazzo, stagli alla larga". Non credo che debba andare così, il mondo. Credo che le persone dovrebbero cercare di avvicinarsi alle altre, soprattutto a quelle più sfortunate perché è proprio in loro che è possibile trovare una genuinità unica. Che cos'hai da proteggere, quando il tuo più grande tesoro è un ammasso di coperte e cianfrusaglie trovate nella spazzatura?

E poi, sabato è successo qualcosa.

Era un po' che, al pomeriggio, passeggiavo nei pressi di Central Park perché sapevo cosa ci sarebbe stato in questi giorni, e ieri l'ho vista: la parata del Gay Pride. Centinaia di persone vestite a festa e, al tempo stesso, impegnate a marciare, a protestare, a far sentire la propria voce per il diritto di esistere. Musica disco rallegrava l'aria da un carro e tutti sventolavano ghirlande colorate, cartelloni divertenti o slogan di protesta. Per un po' sono rimasto a guardarli sfilare sotto i miei occhi. Avrei voluto scendere dal marciapiede e buttarmi in mezzo alla folla, camminare con loro a testa alta. Rendere concreto uno dei motivi per cui volevo così tanto venire qui: perché questa è la città da dove è iniziato tutto questo movimento, otto anni fa. Perché quelle erano le persone che hanno lanciato mattoni e scarpe col tacco contro i poliziotti per fare in modo che una nuova generazione di omosessuali potesse vivere più tranquillamente, senza bisogno di mentire o di nascondersi. Invece, qualcosa mi ha fermato. Una vocina nella mia testa diceva che non era ancora il momento, che non ero ancora pronto. Che dovevo capire qualcosa in più di me stesso, prima di urlare al mondo chi sono. Che ci sono ancora delle crepe aperte, in tutto questo, e devo prima mettere l'intonaco al muro. Intanto, ho sorriso a una drag queen nera che portava un cappello completamente ornato di fiori; e lei (lui? Credo che sia lei) ha sorriso a me. Ha tolto un fiore blu dal suo cappello e me l'ha messo in mano. "Buon Pride, tesoro" mi ha detto, esuberante, e ha continuato la sua strada. Adesso ho quel fiore in mezzo alle pagine de I vagabondi del Dharma. Mi piace pensare che significhi qualcosa. [2]

Adesso devo andare. È ancora presto, ma lo stomaco comincia a borbottare per la fame e c'è un diner qua vicino che fa le migliori colazioni kosher del pianeta. Beh, forse non buone quanto quelle della nostra safta, ma ci si avvicina.

Come mi hai chiesto al telefono, ti lascio l'indirizzo dell'hotel sul davanti della busta. Non hai idea di quanto ti sia grato per l'aiuto economico che tu e Rachel mi state dando. Salutala da parte mia, ti prego. E salutami anche mamma e papà. Chissà, forse, un giorno capiranno.

Con amore,

Leo

 

✰ ✰ 
 

 

Rilesse la lettera più e più volte, controllando che non vi fossero errori, come se poi suo fratello si sarebbe mai sognato di bacchettarlo per delle sviste grammaticali. No, era una cosa tipica di Leo, o forse di chiunque aspirasse a diventare uno scrittore. Infine, ripiegò i fogli in una busta su cui scrisse l'indirizzo di casa di Norman e sua moglie, nonché quello dell'albergo. Si sentiva un po' in colpa a pesare economicamente su suo fratello. Lui sosteneva che non vi fosse alcun problema, di non preoccuparsi, ma come poteva non essere apprensivo riguardo ai propri soldi? Prima o poi avrebbe dovuto cercarsi un lavoro, ma ancora non aveva idea di come risolvere la situazione del visto. Più si guardava intorno, più era certo che la legalità non fosse esattamente di casa, a New York. D'altra parte, l'idea di infrangere la legge e mettere a rischio un papabile datore di lavoro non era una prospettiva che lo entusiasmava.

Si rinfrescò con sapone e con l'acqua del lavandino che aveva in stanza. Non si azzardava a mettere piede nei bagni, faceva eccezione solo quando si svegliava di notte con la vescica piena e tanto gli bastava per farsi salire lo schifo. Rotolare in mezzo agli escrementi sarebbe stato più igienico che entrare in una delle docce, oltre al fatto che qualcuno andava spesso a bucarcisi e lasciava lì le siringhe. Indossò un paio di pantaloni di lino azzurri, una t-shirt a righe e le solite All Star (le uniche scarpe che si era portato dietro). Prima di uscire, comunque, scavalcò il davanzale della finestra e si sedette sulla scala antincendio, intenzionato a fumare una sigaretta. 

Una calma irreale pervadeva la fresca aria mattutina. Sotto di lui, nel vicolo, un addetto alle consegne stava scaricando la merce destinata al ristorante lì di fianco. La sua figura venne offuscata dalla nuvola di fumo che fuoriuscì dalle sottili labbra di Leo, per poi scomparire del tutto dietro una porta.

«Ehi!»

Il ragazzo sobbalzò, colto alla sprovvista. Il giovane con i capelli rossicci era uscito anche lui sulla scala antincendio e ora si trovava a metà strada tra il proprio piano e il suo, come se aspettasse il permesso di salire. Indossava una canottiera bianca sopra un paio di calzoncini blu elettrico e teneva una sigaretta tra pollice e indice.

«Hai da accendere, amico?»

Leo estrasse l'accendino da una tasca e glielo passò.

«Un investimento, eh?» commentò l'altro, una volta che si fu acceso la sigaretta. «Dovrei pensarci pure io. Di solito, vado a fiammiferi, ma finiscono anche prima delle gioie.»

Fu come se l'accendino fosse stato il suo permesso scritto di arrampicarsi sulla scala e sederglisi accanto. Leo lo lasciò fare: quel tipo lo incuriosiva moltissimo. Era certo che non abitasse lì, perché prendeva solo le stanze a ore, e tutto ciò che faceva era scopare. Con donne. Però lavorava al Gaynymedes, un cinema a qualche passo da lì, a cui Leo aveva lanciato fin troppi sguardi incuriositi perché l'altro, seduto dietro il vetro della biglietteria, non lo avesse notato.

«Mi chiamo Leo» si presentò, non sapendo bene cosa dire. Gli porse la mano e il ragazzo si affrettò a stringerla.

«Johnny» disse, «fammi indovinare: non sei di New York, vero?»

«Si nota così tanto?»

«I newyorchesi di nascita li riconosci. Sono quelli che non si stupiscono più davanti a niente. Tu, invece, guardi l'insegna di un cinema porno come se fosse la settima meraviglia del mondo.»

Johnny ghignò, mettendo in mostra gli incisivi, e una serie di minuscole rughe andò a formarsi intorno ai suoi occhietti vispi. Aveva proprio la faccia di uno da prendere a schiaffi per tutto il giorno. «Puzzi di provincia da qui all'infinito.»

«Non così provinciale» fece Leo. «Vengo da Montreal.»

«Gesù, mi correggo! Proprio un mondo a parte!»

Non aveva tutti i torti. Esteticamente, New York e Montreal potevano anche somigliarsi, ma quest'ultima non aveva intorno a sé l'alone di fascino che attraeva ingenui viandanti per poi masticarli e ingoiarli come il lupo delle fiabe.

Johnny tirò un'altra lunga boccata alla propria sigaretta. «Fatti offrire una colazione» propose.

A Leo parve un'ottima idea.

Davanti a un piatto pieno e una tazza di caffè fumante, seduti accanto a una vetrata che dava sulla Nona Avenue, il ragazzo gli chiese cosa facesse mai nella vita.

«Scrivo» rispose Leo, spalmando una generosa quantità di marmellata di fragole su un pezzo di pane tostato. «Poesie, più che altro, ma vorrei lavorare su un libro. Al momento, però, è come se mi mancasse l'esperienza, come se non riuscissi a scrivere di qualcosa che non ho visto con i miei occhi.»

«Per questo sei venuto qui?»

Leo annuì e addentò la propria colazione. «Sono arrivato da appena una settimana e già mi rendo conto di quante storie e vissuti esistono solo nel nostro piccolo hotel.»

«Scrivi di me, allora» ridacchiò Johnny. Bevve un sorso di caffè e si mise in posa, allargando le braccia. «Italiano, orfano del Bronx, cresciuto per le strade di Little Italy. A diciassette anni mi sono arruolato nei Marines e via, cinque anni di servizio in Vietnam!»

Leo deglutì. Era intensa. Gli sembrava che Johnny, così giovane e apparentemente pieno di vita, gli avesse semplificato una realtà che, in fondo, doveva essere molto più cupa e complicata. Glielo leggeva negli occhi, molto più vecchi dell'età che dimostrava, contornati da profonde occhiaie violacee che narravano di sonni tormentati. Lavorare di notte avrebbe dovuto sfinirlo, lasciarlo devastato dalla stanchezza a vegetare nel proprio letto. Invece, sembrava iperattivo, scattante.

«Non è una cattiva idea» borbottò Leo, più a sé stesso che a lui.

Per qualche minuto rimasero in silenzio, ognuno concentrato sulla propria colazione. O forse, Johnny si aspettava che quello fosse il suo turno di parlare. Con quella consapevolezza, Leo cercò velocemente qualcosa da dire ma, ancora una volta, Johnny lo precedette: «Quindi non stai lavorando, al momento?»

Leo scosse la testa. Ingenuamente, non si domandò neppure perché Johnny glielo avesse domandato, ma le ragioni furono più chiare quando lui lo mise al corrente del fatto che stesse aprendo un ristorante insieme ad un amico.

«Abbiamo ancora un paio di pratiche da sbrigare» spiegò Johnny, finendo il proprio caffè. «Ma non sarebbe male portarci avanti nella ricerca di personale. Ti interessa?»

Non lo sapeva, a dirla tutta.  Aveva altre ambizioni, piuttosto che lavorare come cameriere in un ristorante. «Non ho un visto lavorativo» provò a dire, ma Johnny fece spallucce.

«Vieni con me e fatti presentare questo mio amico» disse. «Suo zio è un importante avvocato, un gran pezzo grosso. Sono certo possa farti avere qualunque documento di cui tu abbia bisogno. Chiaro, dobbiamo prima aprire il ristorante. Cerchi una stanza decente, immagino, uh?»

Leo sogghignò: «Mi stai dicendo che hai una stanza libera a casa tua?»

«Io e la mia coinquilina cerchiamo un terzo con cui condividere l'affitto. Quello che avevamo prima è scomparso nel nulla, ha fatto su tutte le sue cose e se ne è andato senza dire niente.» 

Pensieroso, Leo bevve un lungo e lento sorso di caffè. «Quanto sarebbe la quota?» domandò.

«Settanta dollari al mese.» Johnny si sporse in avanti sul tavolo e abbassò il tono di voce: «E non paghiamo l'allaccio dell'acqua!»

Fantastico, un abusivo. Proprio ciò di cui avesse bisogno. Eppure, Leo si ritrovò ad accettare almeno di vedere la proprietà, sperando che non fosse come quel dannato hotel infestato dai ratti che, a lungo andare, gli sarebbe costato maggiormente rispetto a un affitto condiviso.

Così, decise di seguire Johnny nella metropolitana, tentando di nascondere il più possibile l'entusiasmo che lo pervase quando il ragazzo gli disse che l'appartamento in cui viveva si trovava al Village.

«Hai mai saputo se, magari, fosse lo stesso appartamento in cui viveva un tempo William Burroughs?» chiese Leo, appendendosi alla sbarra di metallo.

Johnny gli lanciò uno sguardo, un sopracciglio alzato: «Chi?»

«Niente, niente.» Leo scosse la testa, trattenendo un sorrisetto divertito. Avrebbe dovuto capire subito che Johnny non era la sua anima gemella, né gli sembrava poi questo gran pozzo di scienza. Peccato, comunque: non era mica brutto.

 

 

[1] - L'albergo dove soggiorna Leo è ispirato all'Elk Hotel: all'epoca era uno dei numerosi luoghi che facevano di Times Square una zona infamante, dove le prostitute si intrattenevano con la clientela e dove alloggiavano tranquillamente persone di ogni tipo che bazzicavano nella zona. La particolarità dell'Elk è che è rimasto aperto fino al 2016, nonostante l'attività fosse cessata nel 2012: i proprietari dell'immobile si sono sempre rifiutati di vendere e questo ha fatto dell'Elk l'unico sito della zona sopravvissuto alla riqualificazione urbana iniziata negli anni Novanta. Anche quando era ancora attivo, l'hotel è sempre stato incredibilmente sporco e fatiscente, tuttavia era ancora casa per molti senzatetto, malati mentali, prostitute ecc. che hanno finito per occupare abusivamente le stanze. Tutti i personaggi che Leo descrive in questa lettera sono ispirati alla testimonianza di un giornalista che ha vissuto all'Elk per un certo periodo di tempo, quando l'edificio era ormai destinato alla demolizione. Si trova sul blog Ephemeral New York (che è la mia principale fonte di informazioni) ed è confermata da un utente Facebook nel gruppo dedicato all'Elk Hotel. Perché sì, esiste un gruppo di fan! 

 

[2] - La drag queen di cui parla Leo è Marsha P. Johnson in persona, uno dei simboli di Stonewall. Vi ho già parlato di lei in passato, su questa storia: è stata una delle figure chiave della storia e dell'attivismo LGBT, morta misteriosamente negli anni Novanta. Il suo caso è stato archiviato come suicidio ma un'attivista transgender, negli anni, è riuscita a farlo riaprire grazie a una serie di informazioni sospette. Consiglio sempre il documentario Netflix The Death and Life of Marsha P. Johnson per maggiori informazioni. 
 


 

✨ Angolo Autrice 
 

BUON COMPLEANNO, LEO!! Il nostro poeta preferito è nato proprio il 24 Maggio, perciò ci tenevo davvero molto ad aggiornare su EFP in questa data! Dunque, i lettori affezionati si saranno senz'altro accorti che vi è un major cambiamento nella storyline di Leo ovvero che, grazie al cielo, non finisce per andare a fare il barbone. Mi sembrava la scelta più adatta, in particolare perché Leo è un ragazzo che vive un po' tra le nuvole e voglio lasciargli una percentuale di sogno svampito anziché metterlo subito di fronte alle crudeltà del mondo: ne sarà più esterno, quindi. Inoltre, credo che sia più realistico che Johnny chieda a un ragazzo di essere il suo coinquilino piuttosto che portarsi a casa un vagabondo raccattato dalla strada: certo, quella era una scelta che non stonava con la personalità impulsiva ed altruista di Johnny, ma va bene così. 

Un'altra cosa che ho deciso di cambiare è stato spostare gli eventi della storia dopo il Pride (che all'epoca si chiamava ancora solo Gay Pride: apro questa parentesi per ricordare che negli anni '70 "Gay" era usato come termine ombrello per quasi tutte le identità sessuali e di genere, l'acronimo LGBT sarebbe apparso solamente negli anni '90). Questo perché il capitolo del Pride mi aveva messo in difficoltà, la scorsa volta, perciò, a malincuore, ho deciso di toglierlo, anche se non del tutto. Questo perché vorrei scrivere il prima possibile di un evento storico in particolare accaduto a Luglio 1977, ma non dico altro per non fare spoiler. 

Come al solito, voglio ringraziare di cuore chiunque abbia lasciato una recensione al capitolo precedente, sia che arriviate dagli Scambi (CHE DEVO FINIRE!!) o che siate giunti qui di vostra spontanea volontà. Le vostre parole mi scaldano sinceramente il cuore, mi leggo e rileggo le vostre recensioni e sono davvero sempre molto felice che la storia vi piaccia. Spero che anche questo capitolo sia stato di vostro gradimento. Alla prossima!

 

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